02.13 – LA SAMARITANA I/II (Giovanni 4.1-16)

2.12 – La Samaritana I/II (Giovanni 4.1-16)

 

1 Gesù venne a sapere che i farisei avevano sentito dire: «Gesù fa più discepoli e battezza più di Giovanni» – 2sebbene non fosse Gesù in persona a battezzare, ma i suoi discepoli -, 3lasciò allora la Giudea e si diresse di nuovo verso la Galilea. 4Doveva perciò attraversare la Samaria. 5Giunse così a una città della Samaria chiamata Sicar, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: 6qui c’era un pozzo di Giacobbe. Gesù dunque, affaticato per il viaggio, sedeva presso il pozzo. Era circa mezzogiorno. 7Giunge una donna samaritana ad attingere acqua. Le dice Gesù: «Dammi da bere». 8I suoi discepoli erano andati in città a fare provvista di cibi. 9Allora la donna samaritana gli dice: «Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?». I Giudei infatti non hanno rapporti con i Samaritani. 10Gesù le risponde: «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: «Dammi da bere!», tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva». 11Gli dice la donna: «Signore, non hai un secchio e il pozzo è profondo; da dove prendi dunque quest’acqua viva? 12Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede il pozzo e ne bevve lui con i suoi figli e il suo bestiame?». 13Gesù le risponde: «Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; 14ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna». 15«Signore – gli dice la donna -, dammi quest’acqua, perché io non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua».

È curioso che Giovanni introduca l’episodio con un’annotazione di natura politica che ci informa di quanto fosse attenta l’attenzione dei farisei su tutto ciò che di nuovo si affacciava sulla vita religiosa del Paese: li abbiamo visti inviare i propri informatori quando il Battista svolgeva il suo ministero sulle rive del Giordano e mandare alcuni di loro, con sacerdoti e leviti, per interrogarlo direttamente, evitando di far proprio il messaggio che veniva rivolto a tutti gli ebrei, quindi anche a loro, consistente nel ravvedimento. Le autorità religiose di Israele non ritennero subito Giovanni per loro pericoloso, ma successivamente sì ed è probabile che abbiano avuto un ruolo determinante nel suo arresto e reclusione nel Macheronte, la fortezza di Erode su una collina sulle rive del Mar Morto. Giovanni Battista, come abbiamo, letto si era spostato a svolgere il suo ministero ad Àinon, o Enon, città sulla quale Erode non aveva giurisdizione perché facente parte della città libera di Scitopoli, a sua volta inserita nella Decapoli, autonome e indipendenti dall’impero. Trovandosi però Scitopoli, incuneata fra i due tronconi del territorio di Antipa, la Galilea e la Perea, fu probabilmente facile attirare il Battista con qualche stratagemma nella giurisdizione erodiana e farlo arrestare. Ora che i farisei stavano per liberarsi di lui, o di lui si erano già appena liberati, l’informativa che giunse a loro li mise in allarme perché Gesù faceva più discepoli e battezzava più di Giovanni.

Gesù decise di andare in Galilea non solo perché a conoscenza dei piani che i farisei avrebbero ordito contro di lui – ammesso che non fossero già in atto – ma per un importante dettaglio che ci viene dai Sinottici: Matteo 4.12 scrive “Quando Gesù seppe che Giovanni era stato arrestato, si ritirò nella Galilea, lasciò Nazareth e venne ad abitare a Cafarnao”, Marco 1.14 “Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il Vangelo di Dio”, Luca 3.20 “Ma il tetrarca Erode, rimproverato da lui – Giovanni Battista – a causa di Erodiade, moglie di suo fratello, e per tutte le malvagità che aveva commesso, aggiunse alle altre anche questa: fece rinchiudere Giovanni in prigione”. Su questo fatto torneremo più avanti; per ora basta sapere che il Tetrarca (Antipa), aveva intrecciato una relazione con Erodiade, già moglie di suo fratello Erode Filippo, ancora in vita, che poi sposò macchiandosi così di incesto oltre che di adulterio, essendo considerata la moglie “carne” del proprio marito e viceversa.

Ecco spiegate allora le ragioni dello spostarsi di Gesù dalla Giudea, quella maggiormente dominata dal potere religioso farisaico, alla Galilea: Egli sapeva che, ora che i farisei avevano risolto il problema rappresentato dal Battista, potevano concentrare tutte le loro attenzioni e congiure su di lui. Loro che si ritenevano gli unici depositari della Legge e della sua interpretazione, per non turbare gli equilibri dei rapporti con Erode, nulla avevano detto al re sulla sua relazione illecita.

Per raggiungere la Galilea i percorsi possibili erano due: il primo era molto frequentato e passava per Gerico attraversando la Perea; il secondo era più breve, ma passava per la Samaria, i cui abitanti non erano certo graditi dai Giudei (e viceversa) per le forti rivalità religiose che intercorrevano tra i due popoli. Ebrei e samaritani avevano ciascuno il loro tempio che ritenevano l’unico legittimo. I primi avevano sì la Legge, ma equiparavano la sua autorità alla loro tradizione, mentre i secondi ritenevano legittima la sola Legge data al popolo da Mosè.

I samaritani erano frutto di una mescolanza di razze, per quanto si dichiarassero appartenenti al popolo di Israele e si considerassero discendenti della tribù di Efraim e Manasse. Quando la città di Samaria fu distrutta dagli Assiri nel 721 a.C., questi deportarono la maggioranza degli ebrei e li sostituirono con altra gente di usi e lingue diverse che finì per mescolarsi con i pochi rimasti. Gli stranieri importati nel territorio samaritano avevano portato le loro credenze religiose e i loro culti, ma col passar del tempo prevalse quella dell’Iddio d’Israele, adorato sotto forma di vitello nei due santuari di Dan e Bethel. Più delle molte parole che si potrebbero spendere per spiegare ciò che avvenne nei tempi antichi, si può leggere 2 Re 17.23.41: “…Israele fu deportato dalla sua terra in Assiria, fino ad oggi. 24Il re d’Assiria mandò gente da Babilonia, da Cuta, da Avva, da Camat e da Sefarvàim e la stabilì nelle città della Samaria al posto degli Israeliti. E quelli presero possesso della Samaria e si stabilirono nelle sue città. 25All’inizio del loro insediamento non veneravano il Signore ed egli inviò contro di loro dei leoni, che ne facevano strage. 26Allora dissero al re d’Assiria: «Le popolazioni che tu hai trasferito e stabilito nelle città della Samaria non conoscono il culto del dio locale ed egli ha mandato contro di loro dei leoni, i quali seminano morte tra loro, perché esse non conoscono il culto del dio locale». 27Il re d’Assiria ordinò: «Mandate laggiù uno dei sacerdoti che avete deportato di là: vada, vi si stabilisca e insegni il culto del dio locale». 28Venne uno dei sacerdoti deportati da Samaria, che si stabilì a Betel e insegnava loro come venerare il Signore. 29Ogni popolazione si fece i suoi dèi e li mise nei templi delle alture costruite dai Samaritani, ognuna nella città dove dimorava. 30Gli uomini di Babilonia si fecero Succot-Benòt, gli uomini di Cuta si fecero Nergal, gli uomini di Camat si fecero Asimà. 31Gli Avviti si fecero Nibcaz e Tartak; i Sefarvei bruciavano nel fuoco i propri figli in onore di Adrammèlec e di Anammèlec, divinità di Sefarvàim. 32Veneravano anche il Signore; si fecero sacerdoti per le alture, scegliendoli tra di loro: prestavano servizio per loro nei templi delle alture. 33Veneravano il Signore e servivano i loro dèi, secondo il culto delle nazioni dalle quali li avevano deportati. 34Fino ad oggi essi agiscono secondo i culti antichi: non venerano il Signore e non agiscono secondo le loro norme e il loro culto, né secondo la legge e il comando che il Signore ha dato ai figli di Giacobbe, a cui impose il nome d’Israele. 35Il Signore aveva concluso con loro un’alleanza e aveva loro ordinato: «Non venerate altri dèi, non prostratevi davanti a loro, non serviteli e non sacrificate a loro, 36ma venerate solo il Signore, che vi ha fatto salire dalla terra d’Egitto con grande potenza e con braccio teso: a lui prostratevi e a lui sacrificate. 37Osservate le norme, i precetti, la legge e il comando che egli ha scritto per voi, mettendoli in pratica tutti i giorni; non venerate altri dèi. 38Non dimenticate l’alleanza che ho concluso con voi e non venerate altri dèi, 39ma venerate soltanto il Signore, vostro Dio, ed egli vi libererà dal potere di tutti i vostri nemici». 40Essi però non ascoltarono, ma continuano ad agire secondo il loro culto antico. 41Così quelle popolazioni veneravano il Signore e servivano i loro idoli, e così pure i loro figli e i figli dei loro figli: come fecero i loro padri essi fanno ancora oggi”.

Da quel tempo a quello di Gesù erano cambiate alcune cose: ai samaritani, disprezzati dagli ebrei e ritenuti assolutamente impuri, non fu concesso di partecipare alla ricostruzione del Tempio di Gerusalemme e da allora tra giudei e loro nacque una profonda inimicizia. Quel popolo costruì un proprio tempio sul monte Gherizim, poi distrutto 150 anni prima di Gesù da Giovanni Ircano I, re di Giuda e sommo sacerdote. Ciò acuì ulteriormente l’inimicizia tra i due popoli.

Il Maestro, quindi, arriva a un pozzo che esiste ancora oggi, profondo circa 35 metri, da solo, verso mezzogiorno, ed è impossibilitato a bere perché sprovvisto del necessario per attingere acqua, cioè di un recipiente e ancor di più di una lunga corda per calarlo. Anche Sichar esiste ancora, col nome di Askar e il pozzo dista da lei poche centinaia di metri. A 300 metri dal pozzo, c’è la tomba di Giuseppe dove attualmente vengono scortati a pregare i coloni israeliani in aperto conflitto con la popolazione araba alla quale, in quelle occasioni, è impedito di circolare liberamente. È questo un dato triste, ma che verrà utile per le riflessioni che potremo fare in altri studi.

A questo punto abbiamo l’incontro con la persona che Gesù aspettava, una donna particolare che in un certo senso farà da ponte tra Lui e il popolo samaritano: arriva poco dopo per attingere acqua e Gesù le chiede di farlo bere. La risposta che ottiene testimonia la situazione di tensione esistente tra Giudei e quella popolazione, ma Nostro Signore sposta immediatamente la questione sulla differenza tra l’acqua che avrebbe ricevuto dalla donna e quella che lui avrebbe potuto darle. Qui, pensando alla funzione vitale di questo elemento, ci viene immediatamente il ricordo di una frase che Gesù dette poco tempo addietro, citando la Scrittura, a Satana: “L’uomo non vive di solo pane, ma di ogni parola che procede dalla bocca di Dio”. Là abbiamo avuto il pane, figura di ciò che nutre il corpo, qui abbiamo l’acqua che lo fa vivere, dove il corpo è la figura dell’anima, paragone che la donna non comprende perché gli dice “Signore, dammi di quest’acqua, perché io non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua”.

Gesù però parlava di un’acqua viva, quella che solo lui avrebbe potuto e può dare, e lo fa con parole che trovavano le loro radici nei rotoli dei profeti. Infatti: “Attingete acqua con gioia alle sorgenti della salvezza” (Isaia 12.3); “Io verserò acqua sul suolo assetato, torrenti sul terreno arido” (44.3), ma ancor più Geremia 2.12 quando il profeta rimprovera il popolo per bocca di Dio: “Oracolo del Signore. Due sono le colpe che ha commesso il mio popolo: ha abbandonato me, sorgente di acqua viva, e si è scavato delle cisterne, cisterne piene di crepe, che non trattengono l’acqua”. Il paragone è sempre attuale nonostante siano passati secoli. In quest’ultimo passo e nelle parole di Gesù si parla di una differenza sostanziale tra l’acqua naturale, che disseta temporaneamente, e quella viva, che risolve il problema per sempre. Nel passo di Geremia il popolo aveva abbandonato l’unica sorgente possibile e aveva costruito delle cisterne che Dio definisce “piene di crepe, che non trattengono acqua” con una descrizione appropriata di quei manufatti che, viene da pensare, crepati materialmente non fossero, ma spiritualmente sì. Le cisterne che il popolo si era costruito costituivano un’alternativa per calmare una sete diversa, quella della carne. “Ha abbandonato me, sorgente di acqua viva”, cioè ha rifiutato di vivere per e di fede, dimenticando tutte le volte in cui il Signore aveva dimostrato tutto il suo piano per loro e la sua assistenza. “E si è scavato”, cioè ha voluto farlo, ha scelto, ha faticato pur di avere una esistenza lontana da lui: acqua per acqua, era meglio quella della “libertà”, dell’autonomia umana del tutto apparente e vana, piuttosto che quella che poteva essere raccolta direttamente alla fonte; per farlo, però, bisognava essere fedeli e avere soprattutto quell’atteggiamento che viene naturale una volta sottomessi a Dio. E viene qui in mente il “gran comandamento”, allora in embrione, dichiarato da Gesù a un anonimo dottore della legge in Matteo 22.37: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. È da lì e solo da lì che si sviluppa il rapporto Creatore – creatura e l’abbandonare la sorgente di acqua viva per bere alle cisterne rivela proprio quel distacco che si produce quando si ascoltano le interferenze della vita materiale che chiama ad altro, sempre in opposizione al richiamo di Dio.

Torniamo alla roccia in Horeb, figura velata del Figlio sempre presente: parlando di lei e del popolo di allora, Paolo scrive “…e tutti bevvero la stessa bevanda spirituale, perché bevevano alla stessa roccia che li seguiva, e la roccia era Cristo. Ma la maggior parte di loro non fu gradita a Dio e perciò furono sterminati nel deserto” (1 Corinti 10.4,5). Ecco perché, tanto al tempo della samaritana quanto ai nostri, è solo Cristo che può dare quell’acqua, con effetti totalmente nuovi visti in due distinti periodi: “Chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno”, condizione presente e futura ben diversa da quella dell’uomo ricco che, nella parabola del povero Lazzaro, trovandosi nei tormenti, disse ad Abrahamo “Abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito, perché questa fiamma mi tortura” (Luca 16.24).

L’acqua che solo Gesù può dare esenta dalla sete spirituale per sempre perché coinvolge profondamente la parte più intima dell’anima e dello spirito, i più suscettibili a provare un’insoddisfazione riguardo ai quali la carne, che beve l’acqua naturale, non sa come comportarsi: non esistono cose sulla terra in grado di placare la sete dell’anima. Gli interessi e passioni che possiamo avere, se coltivate anche seriamente e come teoricamente meriterebbero, si rivelano alla fine come un placebo perché viene, o verrà, sempre il punto in cui, tirando le somme, si scoprirà puntualmente di non aver realizzato nulla. Ci si ritroverà, al limite, con dei beni materiali che un giorno passeranno ad altri.

Il fatto di prendere l’acqua che disseta per sempre implica il chiederla a Cristo, il fidarsi di lui sapendo che dà a chi chiede: “Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chi chiede ottiene, chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto. Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pane, gli darà una pietra? O se gli chiede un pesce, gli darà al suo posto una pietra? Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!” (Luca 11.9). Ecco allora che, con queste parole, Gesù parla della necessità che ha l’essere umano di cambiare ottica: cercare la vita, l’acqua viva, è la prima cosa necessaria che non può non venire data, è quel valore inestimabile, che la maggioranza sottovaluta, descritto in Isaia 55.1-3: “O voi tutti che siete assetati, venite alle acque; voi che non avete denaro – idoneo a comprare quelle cose – venite, comprate e mangiate. Venite, comprate senza denaro, senza pagare, vino e latte. Perché spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro guadagno per ciò che non sazia? Su, ascoltatemi e mangerete cose buone e gusterete dei cibi succulenti. Porgete l’orecchio e venite a me, ascoltate e vivrete”.

La seconda parte del verso che riporta le parole di Gesù alla samaritana dice “L’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna”. Non sarà questa la prima volta che parlerà in questo modo: l’ultimo giorno in cui si celebrava la festa della Capanne, che commemorava il pellegrinaggio del popolo d’Israele nel deserto, disse gridando “Se qualcuno ha sete, venga a me e beva. Chi crede in me, come dice la Scrittura, fiumi d’acqua viva usciranno dal suo grembo. Questo disse dello Spirito che avrebbero ricevuto quanti avrebbero creduto il lui: infatti non vi era ancora lo Spirito, perché Gesù non era stato ancora glorificato” (Giovanni 7.37,38).

Ecco perché, alla samaritana, Gesù parla di un’acqua che avrebbe dato al futuro e non al presente: “L’acqua che io gli darò”. Lo Spirito sarebbe stato quindi una sorgente d’acqua zampillante, non fluente dalla terra o da una roccia, ma dal credente stesso, il cui unico scopo sarebbe stato in vista della vita eterna. Sarebbe stata quindi una caratteristica, una consolazione, un orientamento nel percorso, più o meno lungo, nella vita terrena sotto la prospettiva di quella eterna, una caparra.

Infatti “È Dio stesso che ci conferma, insieme a voi, in Cristo e ci ha conferito l’unzione, ci ha impresso il sigillo e ci ha dato la caparra dello Spirito nei nostri cuori” (2 Corinti 1.22,23). E la “caparra” è un termine tecnico giuridico che, nel diritto civile, è una somma di denaro o una quantità di altre cose fungibili versata a titolo di reciproca e mutuale garanzia contro l’inadempimento di un contratto. La caparra dello Spirito, è data in questo caso da Dio all’uomo.

Possono degnamente concludere questa prima parte le parole dell’apostolo Paolo che spiega la realtà di chi ha scelto di appartenere a Cristo: “Sappiamo infatti che quando sarà distrutta la nostra dimora terrena, che è come una tenda, riceveremo da Dio un’abitazione, una dimora non costruita da mani d’uomo, eterna, nei cieli. Perciò, in questa condizione, noi gemiamo e desideriamo rivestirci della nostra abitazione celeste purché siamo trovati vestiti, non nudi. In realtà quanti siamo in questa tenda sospiriamo come sotto un peso, perché non vogliamo essere spogliati, ma rivestititi, affinché ciò che è mortale venga assorbito dalla vita. E chi ci ha fatti proprio per questo è Dio, che ci ha dato la caparra dello Spirito” (2 Corinti 5.1-5).

La Samaritana, persona concreta, stupita che un giudeo le parlasse, prese alla lettera le parole di Gesù chiedendogli di dare quell’acqua anche a lei, risparmiandole così la fatica di venire tutti i giorni al pozzo ad attingere.

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