05.29 – INTRODUZIONE AL PADRE NOSTRO (Matteo 6.9-13)

05.30 – Padre nostro – Introduzione I (Matteo 6.9-13)

9Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome,10venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. 11Dacci oggi il nostro pane quotidiano, 12e rimetti a noi i nostri debiti  come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori, 13e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male.14Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi;15ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.”.

            Sono due le osservazioni da fare su questo testo: la prima è che, per lo meno in questa versione, viene finalmente corretta la traduzione “non indurci in tentazione” che purtroppo è diventata di dominio comune fra molti credenti, e la seconda è che manca, dopo “liberaci dal male” la pericope “Poiché tuo è il regno, la potenza e la gloria nei secoli” in uso presso le Comunità Evangeliche. Non si tratta di un’aggiunta, azione dalla quale i veri traduttori si guardano bene di fare, né di un’omissione (per la quale vale lo stesso principio); piuttosto è questa una frase che si trova presente non in tutti i manoscritti e riportarla o meno è una scelta. “Tuo è il regno, la potenza e la gloria nei secoli” non si trova nella Vulgata (IV secolo), ma compare nella versione Peshito, Siriaca e in quelle Sahidica e Thelaica del II secolo per poi mancare in quella Latina, dello stesso periodo. Siccome è opinione comune che gli antichi cristiani, seguendo l’esempio ebraico, avessero l’abitudine di aggiungere questa dossologia alla fine delle loro preghiere, alcuni hanno qui individuato una reminiscenza di tale uso. Personalmente mi ritengo a favore di una sua inclusione. Prima di trattare il “Padre nostro” sezione per sezione, credo sia giusto introdurlo; per farlo dovremo inevitabilmente tornare ai versi che abbiamo già letto la volta scorsa, quelli da 5 a 8, sui quali saranno possibili riflessioni aggiuntive.

La preghiera del “Padre Nostro”, sotto certi aspetti, si può dire che sia stata l’unica ad essere insegnata da Gesù a quanti lo ascoltavano e non possiamo escludere che fu ripetuta, come modello, in più occasioni, non sempre con le stesse parole così come leggiamo e confrontiamo Matteo e Luca che ci suggeriscono così l’idea di una preghiera dalla struttura non rigida e mnemonica, ma di contenuti.

Matteo, come abbiamo visto, la inserisce nel discorso detto “della montagna” in un punto particolarmente importante, cioè dopo avere affrontato il tema della preghiera individuale; Luca la pone in un momento più generico che viene descritto con queste parole: “Mentre stava pregando in un luogo, quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni insegnò ai suoi discepoli»” (Luca 11.1). Quel discepolo dovette constatare la differenza tra il modo di Gesù di presentarsi davanti al Padre e il suo: da lì si rese conto che, nonostante la tradizione che gli era stata trasmessa, non sapeva pregare cioè gli mancavano gli elementi per relazionarsi realmente con Dio. Se una persona chiede ad un’altra di insegnargli qualcosa, ammette di non saperla fare, o di farla male.

Due furono quindi i momenti “ufficiali” in cui fu insegnato il modello che tutta la cristianità conosce a memoria, ma non si può escludere che il Signore, stante la sua importanza, lo abbia proposto, in tutto o in parte, anche in altre circostanze nonostante Marco (che scrisse sotto la supervisione dell’apostolo Pietro) e Giovanni non ne parlino. Si può essere autorizzati a fare questa supposizione perché sappiamo che i Vangeli contengono una minima parte di quello che Gesù fece e insegnò: “Vi sono ancora molte altre cose fatte da Gesù che, se si volessero scrivere una ad una, credo che il mondo intero non potrebbe contenere i libri che si potrebbero scrivere” (21.25).

Sarebbe un errore esaminare questa preghiera senza soffermarci sugli insegnamenti precedenti ad essa; per questo credo sia giusto rileggere i versi da 5 a 9 di cui ci siamo occupati nello scorso studio, che spiegano la differenza tra il metodo di ragionamento umano, orizzontale, e quello di Dio, verticale: 5E quando pregate, non siate come gli ipocriti: poiché amano starsene a pregare nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze in modo da apparire agli uomini, vi dico per certo che ricevono la loro ricompensa. 6Tu invece, quando preghi, entra nella tua stanza e, chiusa la tua porta, prega il tuo Padre, quello (che è) nel segreto, e il tuo Padre che vede nel segreto ti ricompenserà. 7Pregando, non sproloquiate come i pagani, che ritengono che saranno esauditi nella loro verbosità. 8Dunque non siate simili ad essi, poiché il vostro Padre sa di che cosa avete bisogno prima che voi lo chiediate”.

La prima impressione che si ricava da questa lettura è che essa parla di separazione: saltano subito alla mente i frammenti “non siate come”, “Tu invece” e ancora, rafforzando il concetto, “dunque non siate simili ad essi”, riferiti a due categorie ben precise, sostanzialmente accomunate alle persone che non vanno oltre alla religiosità ostentata e quindi, intenzionalmente o per ignoranza, simulano per un proprio tornaconto. L’ipocrita, termine riferito anticamente all’attore, quindi una persona che fingeva di essere colui che nella realtà non era, trova un suo collegamento, per i tempi in cui Gesù parlava alle folle o ai discepoli, con i Farisei e gli Scribi, definiti appunto ipocriti. La preghiera finta si può manifestare con due atteggiamenti: il primo è esteriore e si caratterizza con manifestazioni pubbliche fine a se stesse nei luoghi di adunanza (sinagoga) o scelti per l’occasione: non in viottoli o in quei posti isolati in cui Gesù si recava spesso, ma quelli in cui la gente passava e non poteva fare a meno di considerare le persone che vedeva pregare, in piedi e oscillando avanti e indietro come gli ebrei usano fare ancora oggi, come pie. Si trattava di una strategia portata avanti per avere un’influenza maggiore presso il popolo e che andava a rafforzare il ruolo che quei personaggi avevano nella società del tempo influendo molto più dei Sadducei, che erano in maggioranza, nelle decisioni del Sinedrio.

Tra i tanti passi dei Vangeli che parlano dei comportamenti di costoro, ricordiamo le parole “E io vi dico che se la vostra giustizia non sarà maggiore di quella degli Scribi e dei Farisei, non entrerete nel regno dei cieli” (Matteo 5.20) e ancor di più quell’esempio in cui Gesù mette a confronto la preghiera di Fariseo e di un pubblicano: 10Due uomini salirono al tempio a pregare, uno era fariseo e l’altro pubblicano. 11Il Fariseo, ritto in piedi, pregava dentro di sé così: «Ti ringrazio, o Dio, perché io non sono come gli altri uomini, rapaci, ingiusti e adulteri, e nemmeno come quel pubblicano. 12Io digiuno due volte la settimana, pago le decime su tutto ciò che posseggo». 13Il pubblicano, invece, stando da lontano, non ardiva neppure alzar gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo «O Dio, abbi pietà di me, che sono peccatore». 14Io vi dico che questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro: perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato”. Anche qui abbiamo un modello di preghiera errato e uno corretto: il primo resta lì, non va oltre al semplice compiacimento personale (ecco il “premio”) che non porta ad alcun vantaggio nel suo presunto rapporto con Dio, mentre il secondo, al di là del gesto esteriore del battersi il petto, frequente in Israele al pari dello stracciarsi le vesti, porta il frutto della giustificazione addirittura in un tempo in cui Gesù non si era ancora totalmente identificato nel peccatore arrivando a morire e risorgere per lui.

La preghiera del Fariseo che abbiamo letto contiene due “Io” espliciti (“non sono come gli altri uomini” e “digiuno due volte la settimana”) e due impliciti (“Ti ringrazio” e, in osservanza alla legge,  “pago le decime”): un totale di quattro, numero che ci parla dell’uomo, ma soprattutto di stabilità e base su cui costruire e quindi dell’opinione alta, ferma e assoluta che quell’uomo aveva di sé . Nel nostro versetto 5, rileviamo un altro particolare: queste persone è scritto che “amano” fare le cose che abbiamo letto, quindi si compiacciono ancora di più nella loro religiosità ostentata che va a gonfiare il loro orgoglio che si autoalimenta all’infinito impedendo quel processo di esame interiore, di coscienza, che ogni credente è chiamato a compiere. È solo un serio e consapevole inventario delle proprie azioni che può condurre la creatura alla conclusione di essere sempre e solo un peccatore che, per vivere, ha bisogno del perdono di Dio.

Il verso 6 propone invece un profondo cambiamento di rotta, visto nel “Ma tu”. Un invito, un avvertimento personale, molto più rafforzativo di un generico “voi”. “Tu” che leggi le mie parole che un mio servo ha riportato e che sono giunte a te dopo più di 2000 anni, “tu” che mi stai ascoltando su questo monte, “tu” che vuoi esimerti dal metodo ipocrita che ti ho appena descritto o vuoi sapere come fare, “quando preghi, entra nella tua stanza e, chiusa la tua porta, prega il Padre tuo, che è nel segreto, e il tuo Padre che vede nel segreto ti ricompenserà”.

C’è qui una situazione diametralmente opposta alla precedente, tesa a dimostrare l’assoluta intimità del rapporto non più con un Dio altissimo e irraggiungibile, ma con qualcosa di molto più vicino all’uomo. La preghiera comunitaria, così necessaria nell’adorazione e in altre circostanze, passa qui in secondo piano poiché una Chiesa, per definirsi tale, non può che essere composta da persone che hanno un’esperienza privata e personale, appunto, col Padre.

Ora nell’esortazione a entrare nella propria stanza e chiudere la porta c’è un messaggio che non poteva essere ignorato dalle persone allora presenti, poiché è un riferimento alla resurrezione del figlio della Sunamita operata da Eliseo (2 Re 4.32,33) di cui è scritto “Quando Eliseo entrò in casa, vide il fanciullo morto e sdraiato sul suo letto. Egli allora entrò, chiuse la porta dietro a loro e pregò l’Eterno”. Stessa cosa farà l’apostolo Pietro per la resurrezione di Tabita (Atti 9.40) e prima delle sue visioni sul puro e impuro (10.9 e seguenti), per quanto si trovasse sul terrazzo di casa. Le rivelazioni di Dio avvengono sempre quando la persona si trova appartata, e credo non potrebbe essere altrimenti. Nella solitudine, si conosce. Chiedere onestamente l’aiuto di Dio quando si guarda in se stessi è un’azione che produce sempre un risultato.

Nel verso sesto c’è una cronologia: l’intento della preghiera, l’ingresso nella stanza e la chiusura della porta. Le prime due azioni si spiegano da sole, la terza è una condizione. La porta chiusa ci parla di scelta, di condizione seria, del lasciare fuori tutto ciò che è di impedimento tanto all’esposizione che all’ascolto. La preghiera non è mai, non può essere un elenco sterile di bisogni più o meno carnali che vengono presentati a Colui che può, ma un rapporto tra creatura e Creatore qui rivelato come Padre. La chiusura della porta non può essere qualcosa di rituale, un’obbedienza a quanto troviamo scritto in questo passo, ma l’atto finale di un processo spirituale e mentale attraverso il quale rinunciamo a noi stessi consapevoli di non poter nascondere nulla a Colui che ci ha ammessi alla Sua presenza. Il Padre tuo è “in segreto” e “in segreto ricompensa” (alcune traduzioni riportano “ti ricompenserà in palese”) perché a volte l’esaudimento è recepito dal singolo, in altre anche da quanti conoscono il nostro stato e lo vedono mutare.

L’essere “in segreto” del Padre implica la Sua perfetta lettura della coscienza e dei suoi intenti, pronta a rivelarne se del caso la sua ipocrisia e a rendere un premio ad essa proporzionato. L’essere “in segreto” ci parla della profondità del rapporto creatura redenta – Creatore: se nulla può essergli nascosto possiamo avere la certezza, nella preghiera, non tanto del suo esaudimento, ma della correttezza della sua valutazione. Il Padre “riguarda” in segreto, verbo che ci parla della Sua perfetta valutazione e conoscenza del nostro esistere che è al tempo stesso prezioso e, sotto l’ottica dei “servi inutili”, insignificante. Ricordiamo Luca 17.10 “…così anche voi, quando avrete fatto tutto ciò che vi è stato ordinato, dite: «Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare»”.

Il segreto può essere di Dio – i Suoi piani rivelati e non – oppure dell’uomo, temporaneo, pericoloso: quanti segreti abbiamo? Quante cose ci illudiamo di tenere nascoste? Ebbene, “Non vi è nulla di nascosto che non si debba manifestare e nulla di segreto che non venga a risapersi e non venga messo in luce” (Luca 8.17).

Dio è colui che “conosce i segreti del cuore” (Salmo 44.21) e la Sua onniscienza e onnipresenza è ben descritta nel Salmo 139 di cui riportiamo i versi 3 e 4 particolarmente adatti al tema di cui ci stiamo occupando: “Tu esamini attentamente il mio cammino e il mio riposo e conosci a fondo tutte le mie vie. Poiché prima ancora che la parola sia sulla mia bocca tu, Eterno, la conosci appieno”. E infine, un avvertimento di cui tutti noi abbiamo bisogno per il nostro avanzamento spirituale, alla luce del “premio” di cui Gesù ha parlato a proposito del pregare in modo corretto o errato: “Io, l’Eterno, investigo il cuore, metto alla prova la mente per rendere a ciascuno secondo le sue vie, secondo il frutto delle sue azioni” (Geremia 17.10), perché “Non vi è alcuna creatura nascosta davanti a lui, ma tutte le cose sono nude e scoperte agli occhi di colui al quale dobbiamo rendere conto” (Ebrei 4.13). “…e tutte le chiese conosceranno che io sono colui che investiga le menti e i cuori, e renderò a ciascuno di voi secondo le sue opere” (Apocalisse 2.23). Ecco, io credo che, nella preghiera individuale e non solo, il concetto del “segreto” sia racchiuso anche in tutti questi versi che sono stati citati.

La chiusura della porta va fatta con onestà e consapevolezza perché, se non accettiamo ciò che questo comporta, rischiamo di compiere un gesto come tanti, formale, privo di significato, sterile che non va oltre la ricompensa data alla preghiera dei Farisei, degli ipocriti. La “ricompensa” che riceve chi prega non per proprio tornaconto come visto al verso 5, ma si pone di fronte a Dio per avere una risposta – che può essere positiva o negativa – è vista nel dialogo e nella consapevolezza che la preghiera rivolta sia accolta indipendentemente da quello che chiediamo. Troppo spesso si pretende, complice anche un mancato insegnamento sulla preghiera vista più come il presentare un elenco di richieste cui si accompagnano promesse o “voti” poi non mantenuti, che il “premio”, o ricompensa, di cui Gesù parla consista nell’esaudimento di quanto chiediamo: può anche essere, ma non è il primo elemento sul quale ci si deve basare. Piuttosto, vanno tenute presenti le parole che verranno riportate più avanti in 7.11: “Se dunque voi, che siete malvagi, sapete dare buoni doni ai vostri figli, quanto più il Padre vostro, che è nei cieli, darà cose buone a coloro che gliele chiedono?”.

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5.18 – SETTIMO: NON COMMETTERE ADULTERIO IV (Matteo 5.27-32)

5.18 – Settimo, non commettere adulterio IV (Matteo 5.27-32)

27Avete inteso che fu detto: Non commetterai adulterio.28Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore. 29Se il tuo occhio destro ti è motivo di scandalo, cavalo e gettalo via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geènna. 30E se la tua mano destra ti è motivo di scandalo, tagliala e gettala via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo vada a finire nella Geènna. 31Fu pure detto: «Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto del ripudio». 32Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, eccetto il caso di unione illegittima, la espone all’adulterio, e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio”.

Anche se si tratta di passi che verranno meglio sviluppati a suo tempo, è buona cosa esaminare i paralleli alla versione di Matteo. In questa quarta parte prenderemo in esame l’istituzione matrimoniale dal punto di vista tecnico-legale, lasciando alle successive il compito di entrare nella rivelazione cristiana, fermo restando il fatto che a cambiare non sono tanto i contenuti, quanto le premesse e alcuni sviluppi.

Il primo passo da prendere in esame è reperibile in Luca 16.17,18 e conferma quanto esposto sul monte. Gesù stava parlando alla folla e, dopo la parabola del “servitore disonesto”, aveva parlato dell’impossibilità a “servire due padroni, Dio e la ricchezza”. Questo discorso rese i Farisei, che erano “attaccati al denaro”, indisponenti a tal punto da farsi “beffe di lui” davanti a coloro che lo ascoltavano. Dopo aver detto loro “Voi siete quelli che si ritengono giusti davanti agli uomini, ma Dio conosce i vostri cuori: ciò che fra gli uomini viene esaltato, davanti a Dio è cosa abominevole”, ecco che Gesù passa a descrivere ciò che stava avvenendo in quel tempo: “La Legge e i Profeti durarono fino a Giovanni: da allora in poi viene annunciato il regno di Dio e ognuno si sforza di entrarvi. È più facile che passino il cielo e la terra, anziché cada un solo trattino della Legge. Chiunque ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio; chi sposa una donna ripudiata dal marito, commette adulterio”.

Ecco, in questi tre versi, solo in apparenza scollegati, vediamo altrettante verità: la prima riguarda la “Legge” e i “Profeti”, le due grandi branche in cui si dividono gli scritti dell’Antico Patto che “durarono fino a Giovanni” nel senso che fu il Battista l’ultimo grande uomo di Dio di quell’era. Gesù, colui di cui lo stesso Giovanni disse “bisogna che lui cresca, e io diminuisca”, precisa cosa sta accadendo in quei momenti: “viene annunciato il regno di Dio” a quanti hanno “orecchie per sentire” e ciascuno di loro “si sforza di entrarvi”, cioè ubbidisce all’invito “Sforzatevi di entrare per la porta stretta perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno” (Luca 13.24). Entrare per questa porta equivale a lasciare fuori da essa tutto ciò che è inutile, appesantisce e impedisce il passaggio attraverso di lei. E, come dicono i versi successivi, molti cercheranno di entrare quando sarà troppo tardi, senza riuscirvi.

Ebbene, nonostante il messaggio della salvezza, rivoluzionario, abbiamo letto che “è più facile che passino il cielo e la terra, anziché cada un solo trattino della Legge” certo un riferimento non a quella cerimoniale, ma a quella morale perché le esigenze di Dio in proposito non sono cambiate a tal punto che leggiamo, a compendio dei tre versi di Luca che abbiamo riportato, “Non sapete che gli ingiusti non erediteranno il regno di Dio? Non illudetevi: né immorali, né idolatri, né adulteri, né depravati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né calunniatori, né rapinatori erediteranno il regno di Dio” (1 Corinti 6.9,10): sono parole che confermano il senso della Legge talché, per porre rimedio alle infrazioni commesse incidentalmente e non per professione, leggiamo “Chi rubava non rubi più, anzi lavori operando il bene con le proprie mani, per poter condividere con chi si trova nel bisogno” (Efesi 4.28).

Qui vediamo chiaramente che è la confessione del peccato e il suo abbandono che cancella il peccato specifico e quindi dà il perdono di Dio, a differenza del sacrificio o della condanna richiesta dalla vecchia dispensazione che comunque è la sola ad informarci di cosa sia il peccato: una violazione più o meno cosciente alle esigenze di YHWH. È probabile che, con la citazione della frase sul cielo e la terra contrapposta al trattino, Gesù citi un proverbio in uso al suo tempo, condividendolo. Sappiamo che non era venuto per abolire, ma per adempiere, o “portare a compimento”.

Il secondo passo, più impegnativo, lo troviamo in Marco 10 quando dei farisei, “per metterlo alla prova, gli domandavano se era lecito ad un marito ripudiare la propria moglie”. Dobbiamo tener presente che Matteo, riportando lo stesso episodio, aggiunge “per un motivo qualsiasi”, che riflette più da vicino il dibattito rabbinico contemporaneo sul divorzio. Leggiamo ora Marco: “Ma egli rispose loro «Che cosa vi ha ordinato Mosè?». Dissero «Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di ripudiarla». Gesù disse loro «Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma, ma dall’inizio della creazione li fece maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne. Dunque l’uomo non divida ciò che Dio ha unito». A casa, i discepoli lo interrogavano di nuovo su questo argomento, e disse loro «Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio verso di lei; e se lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio»” (10.2-12).

Da queste parole vediamo che Nostro Signore spinge i Farisei ad andare alle origini della creazione, quando Adamo vedendo la donna disse “Questa veramente è ossa delle mie ossa e carne della mia carne”, ragione che spiega la spinta dell’uomo – e della donna – a formare con la sua controparte un legame più forte di quello che aveva coi propri parenti diretti. “Per la durezza del vostro cuore” è così un invito a riflettere sulla condizione penalizzante del peccato e della mente di quel popolo: Dio che li aveva eletti, ma il dettaglio “essere di dura cervice” equivaleva all’essere ostinati, caparbi, non disposti a piegarsi. Ricordiamo Deuteronomio 31.27 “…perché conosco la tua ribellione e la durezza della tua cervice”, o Nehemia 9.16 “Ma essi, i nostri padri, si sono comportati con superbia, hanno indurito la loro cervice e non hanno obbedito ai miei comandamenti”. Eppure li amò comunque. E soprattutto, li scelse. Gli stessi Farisei, comunque, dovettero ammettere che Mosè aveva “permesso”, cioè concesso in virtù di un’autorità, quando la norma in origine era un’altra.

In altri termini Gesù, citando la regola scritta da Mosè a proposito del divorzio, pone l’accento sulla sacralità dell’unione e non sul fatto che l’uomo potesse interrompere il legame matrimoniale a suo piacimento: “l’uomo non separi ciò che Dio ha unito”. Citando poi la “sola carne” il Maestro ci rimanda a quello che era Adamo all’origine, quando fu creato e la donna ancora non esisteva. Quindi, l’unione tra uomo e donna (compatibili fra loro) è in un certo senso un ritorno alle origini in cui la parte maschile convive con quella femminile. E lo fa per tutta la vita. Qui abbiamo il confine e al tempo stesso ciò che accomuna il matrimonio dei tempi della Legge a quello della Grazia. Ancora una volta, dobbiamo sottolineare che gli ebrei, a differenza di noi pagani “innestati” nel piano di Dio, sapevano queste cose e venivano loro insegnate fin dall’infanzia per cui non giungevano impreparati alla gestione del matrimonio. Per quanto riguarda il cristianesimo, la conoscenza di questi argomenti non può avvenire per sommi capi, ma deve essere profondamente radicata nei giovani che, purtroppo molto spesso, arrivano al matrimonio frettolosamente e soprattutto disinformati sugli innumerevoli significati che la scelta di vita a due comporta, nel bene e nel male e i cui germi, come sempre, si trovano già pronti negli scritti dell’Antico Patto.

Certo, in tutto quello che abbiamo visto finora non c’è nulla che non sia vero e rispondente alle esigenze di Dio perché tutta la Scrittura, se ci pensiamo, in sostanza contiene due cose, quello che Lui ha fatto per l’uomo e ciò che l’uomo può fare per Lui. La Bibbia, per il credente spirituale, è un libro dai contenuti inesauribili sui rapporti fra l’uomo e Dio, fra l’uomo e il suo simile e fra l’uomo e la donna rivolto a tutti a prescindere dal tempo in cui i suoi libri furono scritti. Se da un lato abbiamo il dovere di prendere il testo come riferimento, dall’altro abbiamo la stessa necessità di porci delle serie domande su cosa significhino quelle frasi oggi fermo restando che, se “Gesù Cristo è lo stesso di ieri, di oggi e in eterno”, lo sono anche le sue esigenze. Eppure, queste cambiano nel senso che siamo chiamati ad osservarle alla luce della conoscenza di cui disponiamo e di una lettura attenta, ben diversa da quella della Chiesa di un tempo che, male interpretando le Scritture, riteneva la terra piatta e che il sole ruotasse attorno ad essa, quando nulla di ciò è scritto. E al riguardo si potrebbero dire tante cose.

Ci sono fenomeni che hanno avuto un senso nei primi tempi del cristianesimo e che oggi non si ripetono più: pensiamo alle lingue straniere che parlavano i componenti della Chiesa di Gerusalemme dopo la discesa dello Spirito Santo, primo segno ufficiale della Sua presenza. I membri di quella Chiesa parlavano lingue precise che non avevano mai studiato prima e che i testimoni a quell’evento riconobbero: “Erano stupiti e, fuori di sé per la meraviglia, dicevano «Tutti costoro che parlano non sono forse galilei? E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamiti, abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadocia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, Romani qui residenti, Giudei e proseliti, Cretesi ed Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio». Tutti erano stupefatti e perplessi e si chiedevano l’un l’altro «Che cosa significa questo?». Altri, invece, li deridevano e dicevano «Si sono ubriacati di vino dolce»” (Atti 2.7-13). Dopo quella manifestazione dello Spirito, chiunque avesse voluto imparare l’arabo, avrebbe dovuto studiarlo. Dopo di allora, ogni persona anche spirituale, se vuole parlare una lingua straniera, è costretta a dedicarsi ad essa con impegno e può far leva solo sulla propria attitudine.

Altro caso avvenuto e non più proponibile oggi è l’immunità dal morso dei serpenti velenosi. Leggiamo infatti “Questi sono i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome cacceranno i demoni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano i serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno, imporranno le mani ai malari e questi guariranno” (Marco 16.17,18): sono eventi che si sono verificati; Paolo stesso sulla costa di Malta fu morso da un serpente e, fra lo stupore generale, non gli avvenne nulla di male (Atti 28.1-10). Oggi, se mi morde una vipera, la mia vita corre un serio pericolo se non ho con me l’antidoto o il Padre decide che la mia ora non è ancora giunta. Ma mi faccio male comunque.

Questi due esempi li ho citati per dire che i tempi sono diversi e che oggi i miracoli e l’assistenza di Dio costituiscono eventi molto seri che non possono essere dati per scontati. Certo sostenere che non siamo protetti sarebbe un’assurdità, ma dobbiamo tenere presente sempre che abbiamo il dovere di essere consapevoli e di “non tentare il Signore” attraverso la pretesa che debba per forza intervenire, provvedere, assistere, sopperire alla nostra incoscienza o presunzione. Ecco, questa è una premessa fondamentale per le nostre prossime riflessioni sul matrimonio cristiano: oggi le leggi della fisica, della psicologia accertata, della genetica, insomma di tutto quanto è dimostrato e dimostrabile, non possono essere ignorate come un tempo.

Chiudo citando l’esempio di un componente di una Chiesa cristiana di cui sentii parlare tempo fa: era portatore sano di una malattia genetica remissiva che, quindi, avrebbe potuto essere trasmessa ad eventuali figli. Convinto che Dio avrebbe comunque provveduto in bene, volle un figlio che nacque con problematiche molto serie e, convinto che ciò fosse dovuto a una sua poca fede, ne ebbe ancora un altro che nacque con gli stessi handicap del fratello. Il suo fu un comportamento che potrebbe essere definito criminale, ma che trova le sue radici in un atteggiamento, o interpretazione, superstiziosa: non si possono sfidare impunemente le leggi della scienza quando è palese che riflettono la logica della creazione. Non tentare il Signore Iddio tuo.

Il matrimonio, per noi oggi, alla luce di quello che sappiamo dall’Antico e del Nuovo Testamento, è un avvenimento che spesso trova le origini del suo eventuale fallimento in un difetto di progettazione di uno o entrambi i coniugi che, probabilmente non informati a dovere non tanto sulla sua importanza, ma sulle sue premesse, finiscono per vivere con estrema fatica il loro legame.

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5.16 – SETTIMO: NON COMMETTERE ADULTERIO II (Matteo 5.27-32)

5.17 – Settimo, non commettere adulterio II (Matteo 5.27-32)

27Avete inteso che fu detto: Non commetterai adulterio.28Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore. 29Se il tuo occhio destro ti è motivo di scandalo, cavalo e gettalo via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geènna. 30E se la tua mano destra ti è motivo di scandalo, tagliala e gettala via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo vada a finire nella Geènna. 31Fu pure detto: «Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto del ripudio». 32Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, eccetto il caso di unione illegittima, la espone all’adulterio, e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio”.

Prima di passare alla seconda parte di questo studio è giusto tornare un attimo alla precedente perché abbiamo citato il caso di violenza – con la forza fisica o con la seduzione – su una giovane non fidanzata. Va ricordato che, nel caso fosse promessa sposa, il fatto non poteva rientrare nella categoria degli “incidenti di percorso” cui andava posto rimedio con matrimonio o una multa, ma in quella dell’adulterio che prevedeva la morte. Va tenuto presente che la Legge, vista nel Decalogo e relativi corollari, non era per il popolo qualcosa di oscuro o sconosciuto, ma veniva insegnata senza trascurare nulla; c’era tutta una pedagogia specifica costituita dalla trasmissione orale, e non solo, che possiamo leggere in Deuteronomio 6.4-8: “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le tue forze. Questi precetti che io ti do, ti stiano fissi nel cuore. Li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando ti troverai in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte”. Esisteva quindi di una vera e propria profilassi spirituale al fine di evitare che i comandamenti contenuti nel Decalogo venissero infranti, cosa che si verifica sempre quando l’uomo si considera il centro, rifiutando la dipendenza da Dio come Caino e i suoi discendenti.

Il matrimonio era un’istituzione concepita per popolare la terra in modo “ordinato”, vale a dire con lo scopo che nessuna linea genealogica si estinguesse e, a differenza di quanto accaduto nella dispensazione della coscienza, Dio istituì delle norme precise tese a preservare la razza che non poteva venire contaminata da unioni tra consanguinei e mutazioni genetiche destinate a produrre malformazioni e/o ritardo mentale nella popolazione. È Levitico 18 ad elencare nei dettagli tutte le relazioni carnali illecite. È un capitolo molto importante che va esaminato, per quanto lo spazio ridotto lo renda possibile solo a grandi linee, dai versi 4 e 5 che fungono da introduzione: “Fate ciò che io vi comando attraverso le mie leggi e osservate i miei statuti, per camminare in essi: io sono il Signore Iddio vostro. Osservate i miei statuti e le mie leggi: chiunque li metterà in pratica, vivrà per essi: io sono il Signore”. Sta all’uomo scegliere se aderire o meno all’esigenza divina riguardo alla gestione del proprio corpo ed è avvertito che, se osserverà gli statuti e le leggi presentate, “vivrà per essi”. Si tratta di scegliere fra bene e male, cioè tra ciò che è approvato da Dio e ciò che non lo è; inutile accusare il testo o il suo Autore di essere reazionario o dileggiarlo perché non viene consentito l’esercizio di una sessualità “libera”: ogni uomo o donna poteva e può scegliere di seguire i comandamenti nel suo interesse, oppure no. Ma non è possibile poi avere la pretesa, in caso di ribellione a ciò che non un uomo ha stabilito, di “vivere per essi”. Chi quindi non si adegua ai precetti che seguono, si colloca quanto meno fuori dall’attenzione e la protezione di Dio: sceglie di anteporre il proprio “ma” subendone le conseguenze.

6Nessuno si accosti ad una sua parente carnale per scoprire la sua nudità. Io sono il Signoreè il verso d’esordio, dove altri hanno tradotto “parente carnale” con “consanguineo” anche se cosa s’intenda per essi viene spiegato versi nei successivi, non potendo la Legge lasciare dei dubbi in quanti intendevano metterla in pratica. “Scoprire la nudità” è uno dei modi per riferirsi al rapporto carnale, come già accennato con altri casi. Per scongiurare fraintendimenti, ecco che il verso parte proprio dall’ovvio, non essendovi parente carnale più stretto del proprio padre o della propria madre. Essendo l’omosessualità non consentita, “padre” o “madre” stanno a indicare che quanto esposto riguarda sia gli uomini, che le donne. 7Non scoprirai la nudità di tuo padre né la nudità di tua madre: è tua madre; non scoprirai la sua nudità.8Non scoprirai la nudità di una moglie di tuo padre; è la nudità di tuo padre”. Immediatamente dopo la madre naturale viene un’altra donna, considerata allo stesso livello della genitrice perché comunque carne del padre. Viene qui in mente l’episodio dell’incestuoso di Corinto, che aveva questo tipo di rapporto (1 Corinti 5.1-5). 9Non scoprirai la nudità di tua sorella, figlia di tuo padre o figlia di tua madre, generata in casa o fuori; non scoprirai la loro nudità”: da qui vediamo che, come nel verso precedente, per essere fratelli o sorelle secondo la carne non è necessario discendere dagli stessi genitori, ma ne basta uno ed è quell’ “o” a negare ci sia differenza tra fratello e fratellastro, sorella o sorellastra. Qui, in particolare, penso che il verso si riferisca a fratelli o sorelle acquisiti, quindi anche figli di un matrimonio precedente interrotto a causa di una vedovanza poiché la dichiarazione ufficiale dei rapporti fraterni a livello famigliare è più definita al verso 11 che recita “Non scoprirai la nudità della figlia di una moglie di tuo padre, generata da tuo padre: è tua sorella, non scoprirai la sua nudità”: cambiano i termini, ma non la sostanza. Al verso 10,  “Non scoprirai la nudità della figlia di tuo figlio o della figlia di tua figlia, perché è la tua propria nudità”vediamo cheil o la nipote sono visti in modo profondamente identificativo giungendo ad essere accomunati agli stessi nonni, parenti carnali come gli zii paterni e materni:12Non scoprirai la nudità della sorella di tuo padre; è parente carnale di tuo padre.13Non scoprirai la nudità della sorella di tua madre, perché è carne di tua madre”. Si arriva poi alla zia acquisita, altra configurazione di incesto:14Non scoprirai la nudità del fratello di tuo padre: non accostarti con sua moglie: è tua zia”. Infine chiudono l’elenco la nuora e la cognata comprendendo implicitamente genero e cognato:15Non scoprirai la nudità di tua nuora: è la moglie di tuo figlio; non scoprirai la sua nudità.16Non scoprirai la nudità di tua cognata: è la nudità di tuo fratello.

Seguono poi alcune indicazioni di etica e igiene che avrebbero dovuto distinguere, come le precedenti, Israele dagli altri popoli: “17Non scoprirai la nudità di una donna e di sua figlia. Non prenderai la figlia di suo figlio né la figlia di suo figlio per scoprirne la nudità: sono parenti carnali. È un’infamia.18Non prenderai in sposa la sorella di tua moglie, per non suscitarne rivalità, mentre tua moglie è in vita.19Non ti accosterai a donna per scoprire la sua nudità durante l’impurità mestruale.20Non darai il tuo giaciglio alla moglie del tuo prossimo, rendendoti impuro con lei.22Non ti coricherai con un uomo come si fa con una donna: è cosa abominevole.23Non darai il tuo giaciglio a una bestia per contaminarti con essa; così nessuna donna si metterà con un animale per accoppiarsi: è una perversione”.

Nessuna di queste unioni proibite, tanto nella prima che nella seconda parte del capitolo, è inconcepibile per il cosiddetto “uomo naturale” tant’è che il paganesimo antico e moderno le ha impiegate quasi come metodo; basta pensare alla Grecia antica prima, durante e dopo i tempi dell’apostolo Paolo (Corinto ed altre) come ai popoli che Israele avrebbe cacciato dalla terra che gli era stata promessa. “24Non rendetevi impuri con nessuna di tali pratiche, poiché con tutte queste cose si sono rese impure le nazioni che io sto per scacciare davanti a voi.25La terra ne è stata resa impura; per questo ho punito la sua colpa e la terra ha vomitato i suoi abitanti.26Voi dunque osserverete le mie leggi e le mie prescrizioni e non commetterete nessuna di queste pratiche abominevoli: né colui che è nativo della terra, né il forestiero che dimora in mezzo a voi.27Poiché tutte queste cose abominevoli le ha commesse la gente che vi era prima di voi e la terra è divenuta impura.28Che la terra non vomiti anche voi, per averla resa impura, come ha vomitato chi l’abitava prima di voi,29perché chiunque praticherà qualcuna di queste abominazioni, ogni persona che le commetterà, sarà eliminata dal suo popolo.30Osserverete dunque i miei ordini e non seguirete alcuno di quei costumi abominevoli che sono stati praticati prima di voi; non vi renderete impuri a causa di essi. Io sono il Signore, vostro Dio”.

Ho ritenuto utile inserire anche quelle che potremmo definire “situazioni estreme” perché si verificano ancora oggi sia come pratica individuale che come spettacolo, così come non ci vuole molto a riconoscere per estensione al verso 21, che prima ho omesso, la produzione degli “snuff movies” ricercati a prezzi inimmaginabili anche nell’ambito cosiddetto “pedofilo”: “Non consegnerai alcuno dei tuoi figli per farlo passare a Moloc e non profanerai il nome del tuo Dio. Io sono il Signore”. E Moloc era il dio cananeo il cui culto veniva celebrato nella Geenna, la Valle di Hinnom, tramite sgozzamento e bruciamento dei bambini, spesso figli primogeniti. È vero, abbiamo letto dei versi che pongono situazioni molto pesanti, ma sono convinto che occorra conoscere il negativo per conoscere ed apprezzare il positivo.

In pratica: l’uomo è stato creato maschio e femmina, quindi la sessualità è da considerarsi un dono da esercitarsi liberamente con la persona che ciascun individuo, maschio e femmina, si è scelto. Qualche millennio dopo una parte della cristianità, con perversione opposta alle categorie che abbiamo trovato in Levitico 18, ma sempre di perversione si tratta, giungerà a considerare il rapporto sessuale un peccato a meno che non fosse giustificato da fine procreativo prescrivendo che, prima dell’atto, si frapponesse un lenzuolo forato tra i corpi sostenendo che lo scopo fosse quello di procreare e non il piacere fine a se stesso. Credo che quando la sessualità, legittima espressione di sé, viene repressa, trovi inevitabilmente sfogo in altre vie che la stessa Bibbia condanna. Leggiamo in Proverbi 5.18,19 “Sia benedetta la tua fonte, e vivi lieto con la sposa della tua gioventù. Cerva d’amore, cavriola di grazia, le sue carezze t’inebrino in ogni tempo, e sii del continuo rapito nell’affetto suo”.

Possiamo concludere queste riflessioni con una semplice presa d’atto: quando Dio creò l’essere umano, lo pose in un territorio circondato da quattro fiumi. Doveva restare lì, protetto, senza conoscere ciò che non gli sarebbe servito o, meglio ancora, gli avrebbe procurato molto danno. Da allora, nonostante il peccato e il suo essere fuori da quel giardino, gli è sempre stato indicato un confine, un territorio, un “recinto” visto sbrigativamente, almeno nella Legge, nei termini “farai” o “non farai”, anche questi posti nel suo interesse. Aggiungere nuove norme o precetti a quelli già dati da Dio, così come eliminarli o torcerli a proprio vantaggio, equivale a infrangere quelli già esistenti e le conseguenze non possono che essere disastrose nel rapporto con Lui. Perché è l’abbattimento dei confini che il Creatore ha stabilito, non perché dispotico, ma in quanto conoscitore perfetto della propria creatura, che rende l’uomo davvero schiavo. Amen.

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5.15 – SETTIMO, NON COMMETTERE ADULTERIO I (Matteo 5.27-32)

5.16 – Settimo, non commettere adulterio I (Matteo 5.27-32)

27Avete inteso che fu detto: Non commetterai adulterio.28Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore. 29Se il tuo occhio destro ti è motivo di scandalo, cavalo e gettalo via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geènna. 30E se la tua mano destra ti è motivo di scandalo, tagliala e gettala via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo vada a finire nella Geènna. 31Fu pure detto: «Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto del ripudio». 32Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, eccetto il caso di unione illegittima, la espone all’adulterio, e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio”.

Dopo aver spiegato cosa si intenda per infrazione al sesto comandamento Gesù passa al successivo implicante la presenza di un vincolo matrimoniale che, nel corso delle dispensazioni, è stato inteso in vari modi. Ciò non è accaduto per altri precetti del decalogo come il non rubare e lo stesso “non uccidere” che abbiamo appena visto. Il passo di Matteo è sicuramente impegnativo e, per affrontarlo, è necessario percorrere nelle sue linee fondamentali come si è sviluppata l’istituzione del matrimonio aggiornandolo poi alla nostra realtà di cristiani alla quale Gesù, commentando la Legge, accenna solamente. “Matrimonio” è parola che deriva da due sostantivi latini, mater al genitivo (“matris-”) e “-monium” cioè “dovere, compito” per cui, letteralmente, il suo significato letterale è “dovere di madre”: l’etimologia stessa fa riferimento alla finalità procreativa dell’unione dei coniugi, fondamentale nei tempi antichi, ma molto meno oggi come avremo modo di vedere.

Andando alle origini, quindi al libro della Genesi, leggiamo che la donna fu creata dopo che Iddio “disse: Non è bene che l’uomo sia solo; voglio fargli un aiuto che gli corrisponda”(2.18) e, poco dopo,  “Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno una sola carne” (2.24). Sappiamo che è anche scritto che “Dio li benedisse e disse loro «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del mate e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra»” (1.28). La donna quindi venne creata perché l’uomo, che a quel tempo aveva evidentemente in sé sia le caratteristiche maschili che femminili, non aveva un simile con cui confrontarsi e, quando Dio gli condusse tutti gli animali perché desse loro un nome, leggiamo “…ma per l’uomo non si trovò un aiuto che gli corrispondesse” (2.20). Si tratta di termine, “aiuto” che non allude alla necessità di avere qualcuno che gli facesse i lavori domestici, ma piuttosto di avere un rapporto con una persona con la quale confrontarsi, avere relazioni. Con gli animali Adamo aveva una dimensione di comunione, visto che interagiva con loro, ma anche di separazione perché nessuno di loro poteva essergli l’aiuto di cui aveva bisogno visto nel completamento di sé.

I maestri ebrei sono concordi nel ritenere l’Adamo prima della donna come una creatura androgina e fanno notare che la parola “costola” (sela’) significa anche “lato”, per cui Eva sarebbe il lato femminile di Adamo tolto da lui e postogli finalmente di fronte; di qui “l’aiuto che gli corrispondesse”. Questo risolverebbe anche un problema non da poco, perché secondo il racconto biblico dovremmo ritrovarci con un numero non proporzionale di costole, essendo che quella utilizzata per formare la donna era una.

Ecco allora che quel “non è bene che l’uomo sia solo” era riferito non a un errore di Dio che creandolo così aveva sbagliato, ma al fatto che creando la donna, separandola da lui e ponendogliela innanzi, l’uomo avrebbe potuto riconoscere se stesso e comprendere fino a che punto arrivasse l’amore del suo Creatore per lui. Infatti Adamo disse “Questa volta è osso dalle mie ossa, carne della mia carne. La si chiamerà donna– isha – perché dall’uomo– ish – è stata tolta” (2.23). Il fatto che però la donna sia stata formata dall’uomo insegna molto, poiché Adamo trovò in Eva un simile costituito per lui e da lui e non un essere complesso e spesso scarsamente decifrabile come oggi. In pratica, Eva, moglie di Adamo, era unica perché lui era unico e quindi mancava di un background culturale che la rendesse diversa, ferma restando una maggiore vulnerabilità e suscettibilità all’adulazione perché, altrimenti, l’Avversario non si sarebbe rivolto a lei. Se a quel tempo Eva era davvero un aiuto che corrispondesse ad Adamo, oggi le possibilità che questo si verifichi sono molto minori e le relazioni uomo – donna, lungi dal somigliare a quelle dei nostri progenitori in Eden, sono molto più simili alla conflittualità che essi conobbero una volta fuori dal Giardino: dal momento in cui trasgredirono l’unico comandamento ricevuto, Adamo non si fidò più di lei e iniziò tutta una serie di reciproci scambi di accuse, fomentate dalle diverse esigenze e dalla necessità di autonomia di ciascuno. Il rapporto che esisteva tra i due in origine, in cui si riconoscevano liberamente nell’altro e all’altro dava naturalmente e senza secondi fini, era finito.

Alla dispensazione dell’innocenza nel Giardino, seguì quella della coscienza che divise gli uomini, Caino e Abele per primi e in cui Lamec, di cui abbiamo già accennato in una precedente riflessione, si mise in opposizione a Dio e all’istituzione matrimoniale prendendosi due mogli, Ada e Silla. Lamec, che una leggenda ebraica afferma essere stato l’omicida di Caino con una freccia, è l’autore di un cantico d’odio – “Ho ucciso un uomo per una scalfittura e un ragazzo per un mio livido. Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech lo sarà settantasette” – in cui riconosciamo sia una consapevole volontà di infrangere il comandamento dell’uomo e donna uniti in un solo essere senza ingerenze esterne, sia la pretesa di volere un Dio a lui sottomesso. E la pretesa di una vendetta smisurata per il suo sangue eventualmente sparso, 70+7. Lo conferma.

Ci si pone però il problema sul perché, a parte l’episodio di Lamec che agì in tal modo solo per odio nei confronti di Dio, sia esistita la poligamia presso i patriarchi e ai tempi dell’Antico Patto, continuando anche sotto la dispensazione della Legge: abbiamo Abramo, Giacobbe ed altri per la Coscienza e Davide, Salomone ed altri per la Legge. C’è chi ha sostenuto, penso non sbagliando, che Dio abbia permesso la poligamia stante la maggioranza della popolazione femminile rispetto a quella maschile già nel mondo di allora e, da calcoli fatti, pare che ci fossero decine di migliaia di donne in più rispetto agli uomini. Era una situazione drammatica per vari motivi perché la società patriarcale del tempo non consentiva l’autosostentamento e l’autoprotezione della donna. L’unico modo era quello di sposarsi e fare figli. L’uomo così si sposava, la donna gli apparteneva e viceversa, tant’è che l’adulterio scattava nel momento in cui un uomo sposato aveva rapporti carnali con una donna sposata e viceversa, oppure era sufficiente che solo uno dei due avesse un vincolo. Non mi sento di dissentire dal concetto in base al quale Dio abbia permesso la poligamia per proteggere e provvedere ai bisogni delle donne che altrimenti non avrebbero trovato marito avendo di fronte un destino di schiavitù o di prostituzione pur di sostentarsi.

Questo uso è circoscritto a un tempo preciso e non sminuisce il progetto ideale per il matrimonio che, nelle intenzioni del Creatore, prevedeva che l’uomo si sarebbe unito “a sua moglie(al singolare) e i due saranno una sola carne(altrettanto al singolare)”. A integrazione del discorso sulla poligamia possiamo vedere il verso di Deuteronomio 17.17 che, parlando del re che Israele si sarebbe costituito, stabilisce tra i suoi requisiti “Non dovrà avere un gran numero di mogli, perché il suo cuore non si smarrisca”. Sappiamo infatti, per averlo già incontrato nelle nostre riflessioni, che il cuore di Salomone “si sviò” dai sentieri di Dio – quindi si smarrì – proprio per la quantità enorme di mogli e concubine che si era procurato. E per “smarrire” intendiamo proprio perdere l’orientamento nel cammino, nel pellegrinaggio verso la meta finale avendo Dio come guida.

Chi si smarrisce prima sbaglia strada e poi non riesce più a trovare quella giusta, perde l’orientamento. Basta poco.

La poligamia, tornando al tema, non era equiparata all’adulterio, ma tollerata a condizione che chi sposava una seconda donna continuasse a mantenerla e a provvedere alle sue esigenze. Avere più di una moglie erano in pochi a poterselo permettere.

Nella Legge l’adulterio era punito con la morte e questa pena, come sappiamo, era ancora in uso ai tempi di Gesù, come possiamo constatare dall’episodio in cui una donna stava per essere lapidata per questo gli Scribi e i Farisei lo interpellarono con queste parole. “Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu, che ne dici?”(Giovanni 8. 4,5). Alle origini del motivo della pena di morte per quel reato stava il fatto che era il rapporto carnale a determinare il matrimonio, tant’è che sono le espressioni come “entrò da lei” o “la conobbe” che lo ufficializzano al di là del contratto che si stipulava tra le famiglie dei futuri sposi purtroppo indipendentemente dai sentimenti che provavano l’uno per l’altro. L’adulterio era così un attentato al principio dell’essere “una sola carne” compiuto deliberatamente all’insaputa del coniuge e, in caso di rapporto carnale avvenuto, l’uomo e la donna si dovevano sposare.

Il matrimonio riparatore però contemplava un’eccezione vista nella violenza carnale e in proposito abbiamo due versi che si integrano: in Deuteronomio 22.28,29 leggiamo “Se un uomo trova una fanciulla vergine che non sia fidanzata, l’afferra e giace con lei e sono colti in flagrante, l’uomo che è giaciuto con lei darà al padre della fanciulla cinquanta sicli d’argento; ella sarà sua moglie per il fatto che egli l’ha disonorata, e non potrà ripudiarla per tutto il tempo della sua vita”. Questo però poteva accadere solo se il padre della giovane accettava, poiché poteva decidere di prendere solo la somma in denaro e risparmiare alla figlia una vita di stenti sicuramente morali: “Quando un uomo seduce una vergine non ancora fidanzata e si corica con lei, ne pagherà il prezzo nuziale e lei diverrà sua moglie. Se il padre di lei si rifiuta di dargliela, egli dovrà versare una somma di denaro pari al prezzo nuziale delle vergini” (Esodo 22.15,16). È interessante notare che qui abbiamo la possibilità di un divorzio nonostante i due fossero diventati “una sola carne” e non leggiamo che alla giovane fosse precluso un secondo matrimonio. Non va trascurata la differenza della terminologia impiegata nei due versi, “l’afferra e giace con lei” indica un rapporto sessuale estorto con la forza, mentre il “seduce” suggerisce consensualità, ma in entrambi i casi esiste sempre una costrizione, con forza espressa o celata. Il sedotto è più debole del seduttore.

In questa prima parte penso di aver fatto una presentazione generale dell’argomento che posso riassumere in questi punti:

  1. L’adulterio è un grave attentato all’istituzione matrimoniale stabilita da Dio sùbito aver posto l’uomo nel Giardino di Eden e questa prevedeva che fossero una sola carne;
  2. Si verifica adulterio nel momento in cui una persona coniugata, uomo o donna, ha rapporti carnali con una terza sì che il vincolo matrimoniale si rompe per colpa;
  3. Era possibile, per ragioni storiche e in un tempo in cui la terra andava popolata, la poligamia a condizione che l’uomo avesse la possibilità di non far mancare nulla alle proprie mogli;
  4. Al di là della distinzione tra fidanzamento e matrimonio, era la congiunzione carnale che sanciva definitivamente che il matrimonio tra le due persone era avvenuto.

Nella prossima serie di riflessioni cercheremo di affrontare la casistica rimanente, prima di analizzare le parole di Nostro Signore su questo importante comandamento.

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5.09 – LE BEATITUDINI 8: I PERSEGUITATI PER LA GIUSTIZIA (Matteo 5.3-12)

5.9 – Il sermone sul monte : le beatitudini VIII (Matteo 5.3-12)

 

3«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. 4Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. 5Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. 6Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. 7Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. 8Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. 9Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. 10Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.11Beati voi, quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia.12Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti perseguitarono i profeti che furono prima di voi”.

 

BEATI I PERSEGUITATI PER LA GIUSTIZIA

È l’ultima beatitudine, che termina come la prima, “perché di essi è il regno dei cieli”, che però per gli uditori di Gesù era di significato più oscuro e, infatti, Lui stesso si preoccuperà di spiegarla nei due versetti successivi. Due beatitudini sono al presente, le altre al futuro, segno che c’è continuità fra loro e che il cristiano non ne possiede una soltanto; l’ottava è però particolarmente complessa perché riguarda il compiersi di avvenimenti che, al momento dell’esposizione, non si erano ancora verificati. Nessuno di loro era stato ancora perseguitato.

Se ci soffermiamo sulla parola “giustizia”, sappiamo già che l’esserne affamati e assetati comporta l’esserne saziati in futuro, che questa viene data a chi crede nell’Iddio Vivente rivelato: i “giusti” dell’Antico Patto erano coloro che affiancavano alla Legge un sentimento di profondo essere un tutt’uno con YHWH e la ritenevano un mezzo per essere uniti a lui, non il fine. C’era una giustizia esteriore vista nell’osservanza e nel rimedio a fronte di una trasgressione, ma sarebbe stata inutile senza il riconoscimento dell’unicità di Dio dentro di sé, l’acquisire coscienza del fatto di appartenere al popolo eletto, composto da più individui che, in quanto tali, potevano avere un rapporto unico con Colui che aveva progettato un cammino per ciascuno. Abbiamo letto, per quanto riguarda il Vangelo, di persone considerate giuste: pensiamo a Zaccaria ed Elisabetta, a Giuseppe marito di Maria, a Simeone, Anna, Natanaele ed altri che avevano in comune proprio l’attesa consapevole del Consolatore di Israele, sentimento impossibile da possedere senza un riconoscersi mancanti di un’identità, di avere bisogno di Lui.

Ora, però, quella moltitudine radunata sul monte aveva davanti a lei la Giustizia di Dio vista nel quel Gesù di Nazareth che predicava, l’unico che avrebbe soddisfatto le esigenze di santità del Padre: credendo in Lui, questi avrebbero prodotto una profonda rottura con le credenze sulle quali i giudei che Lo avrebbero rifiutato si sarebbero arroccati. Anni più tardi l’apostolo Paolo scriverà ai romani “Il desiderio del mio cuore e la mia preghiera salgono a Dio per la loro – dei giudei-salvezza. Infatti rendo loro testimonianza che hanno zelo per Dio, ma non secondo una retta conoscenza. Perché, ignorando la giustizia di Dio e cercando di stabilire la propria, non si sono sottomessi alla giustizia di Dio. Ora, il termine della Legge è Cristo, perché la giustizia sia data a chiunque crede”. Gesù sostituiva la Legge ed era Lui stesso giustizia, unico mezzo sicuro per mantenersi in rapporto con Dio, messaggio rivoluzionario divenuto per gli ebrei inaccettabile e infatti i cristiani, come testimonia lo stesso libro degli Atti, saranno perseguitati da loro per primi.

Pensiamo alla giustizia di Dio, alla perfetta conoscenza che ha di ogni essere umano, al fatto che lo vede come realmente è, e poniamo questo dato in relazione all’episodio del paralitico che a Capernaum quattro uomini avevano fatto calare dal tetto della casa in cui si trovava Gesù: alla presenza dei farisei fu detto “Che cosa è più facile, dire al paralitico «I tuoi peccati ti sono perdonati», oppure dirgli «Alzati, prendi il tuo lettino e cammina?» Ma, affinché sappiate il che il Figlio dell’uomo ha sulla terra autorità di perdonare i peccati, io ti dico, disse al paralitico, «Alzati, prendi il tuo lettino e vattene a casa tua»” (Marco 2. 9-11). Se pensiamo che prima di quel miracolo i farisei avevano appena finito di dire “Chi può perdonare i peccati, se non solo Dio?”, non ci vuole molto a riconoscere in Gesù quel Dio che loro affermavano di servire e seguire. Difficilmente potremmo sostenere che il perdono, o la remissione di un peccato, non sia cosa che coinvolga la giustizia di Dio che così decide secondo il suo giudizio insindacabile.

Torniamo però di nuovo ai farisei, che espressero una verità: in un altro episodio, non sapendo cosa rispondere, dichiararono che Gesù scacciava i demoni con l’aiuto di Baal-zebub loro principe, cosa impossibile perché “Ogni regno diviso in parti contrarie sarà ridotto in deserto ed ogni città o casa divisa in parti contrarie non potrà reggere. E se Satana caccia Satana, egli è diviso contro se stesso; come dunque potrà sussistere il suo regno? (…) Ma, se è per l’aiuto dello Spirito di Dio che io caccio i demoni, è dunque pervenuto fino a voi il regno di Dio” (Matteo 12.24-28).

Altra osservazione utile per queste riflessioni la fa Paolo nella sua lettera ai Colossesi, che risentiva dottrinalmente delle influenze del giudaismo legale, e pagane: “Badate che nessuno vi inganni con la sua filosofia e con vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo. È in Cristo che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità e voi avete in lui parte alla sua pienezza, di lui cioè che è il capo di ogni Principato e di ogni Potestà” (2. 8-10). “Tutta la pienezza” tra le quali non possiamo non contare la giustizia e, infatti, è in lui che vengono saziati tutti coloro che sono affamati ed assetati di essa.

In un simile quadro allora, ecco che la giustizia sotto l’ottica di Gesù causerà persecuzione, e sarà caratterizzata dall’ insulto, dalla persecuzione e dalla menzogna, cose che Lui patì prima di tutti gli altri che lo avrebbero seguito credendo nella Sua persona ed opera. L’insultoè un’offesa grave e volontaria ai sentimenti e alla dignità della persona arrecata con parole ingiuriose, con atti di spregio volgare o anche con un contegno intenzionalmente offensivo e umiliante; nel caso di Nostro Signore, lo vediamo soprattutto alla crocifissione, con le percosse alle quali seguiva la frase “Indovina chi ti ha colpito”, con gli sputi e le prese in giro dei capi dei sacerdoti, scribi e anziani “Ha salvato gli altri e non può salvare se stesso”. La persecuzioneallude a un complesso di sistematiche azioni di forza intese a stroncare una persona o un movimento politico o religioso, a ridurre o addirittura ad eliminare una minoranza etnica o sociale. Che Gesù sia stato perseguitato, e con lui i primi cristiani (ma anche oggi nel mondo i cristiani perseguitati sono milioni) credo non sia un mistero per nessuno; però è indicativo che alla persecuzione si sia sempre accompagnata la menzogna, cioè un’affermazione contraria a ciò che si sa o si crede sia vero, o anche contraria a ciò che si pensa, alterazione (o negazione o anche occultamento) consapevole e intenzionale della verità. Ricordiamo ad esempio quanto concordarono i sacerdoti e gli anziani del popolo assieme ai soldati romani che testimoniarono loro di avere visto l’angelo che rotolava la pietra del sepolcro: “…dopo essersi consultati, diedero una buona somma di denaro ai soldati dicendo «Dite così: i suoi discepoli sono venuti di notte e l’hanno rubato, mentre noi dormivamo. E se mai la cosa venisse all’orecchio del governatore, noi lo persuaderemo e vi libereremo da ogni preoccupazione». Quelli presero il denaro e fecero secondo le istruzioni ricevute. Così questo racconto si è divulgato fra i giudei fino ad oggi” (Matteo 28.13-15). Furono quindi sordi al racconto di quegli uomini e anteposero la loro volontà di sopravvivenza assieme alle proprie dottrine evidentemente decadute. Così infatti era avvenuto: “Un angelo del Signore, sceso dal cielo, si avvicinò, rotolò la pietra e si pose a sedere sopra di essa. Il suo aspetto era come folgore e il suo vestito bianco come neve. Per lo spavento che ebbero di lui, le guardie furono scosse e rimasero come morte” (Ibidem, 2-4).

Lo stesso processo a Gesù, che esamineremo a suo tempo, studiato da un punto di vista strettamente legale, presentò una serie infinita di irregolarità alla luce della Legge che il popolo di Israele aveva ricevuto, ma qui ci occuperemo di pochi versi: “I capi dei sacerdoti e tutto il sinedrio cercavano una falsa testimonianza contro Gesù, per metterlo a morte; ma non la trovarono, sebbene si fossero presentati molti falsi testimoni. Finalmente se ne presentarono due, che affermarono «Costui ha dichiarato: posso distruggere il tempio di Dio e ricostruirlo in tre giorni»”(Matteo 26.59-61): si noti la sottigliezza del metodo vista nel fatto che si cercavano falsi testimoni ma, non trovandosene, si trovò il modo di estrapolare una frase che Gesù aveva effettivamente detto riferendosi al suo corpo, per piegarla ai loro scopi.

Questo è stato fatto a Nostro Signore. Per chi avrebbe creduto in Lui, possiamo citare le persecuzioni subite da Pietro, Giovanni, dall’apostolo Paolo e da Stefano, primo martire cristiano che troviamo al capitolo sesto del libro degli Atti che, “Pieno di grazia e di potenza, faceva grandi prodigi e segni fra il popolo. Allora alcuni della sinagoga detta dei Liberti, dei Cirenei, degli Alessandrini e di quelli della Cilicia e dell’Asia, si alzarono a discutere con Stefano, ma non riuscivano a resistere alla sapienza e allo Spirito con cui egli parlava. Allora istigarono alcuni di loro perché dicessero «Lo abbiamo udito pronunciare parole blasfeme contro Mosè e contro Dio». E così sollevarono il popolo e gli scribi gli piombarono addosso, lo catturarono e lo condussero davanti al sinedrio. Presentarono quindi dei falsi testimoni, che dissero «Costui non fa altro che parlare contro questo luogo santo e contro la legge. Lo abbiamo infatti udito dichiarare che Gesù, questo nazareno, distruggerà questo luogo e sovvertirà le usanze che Mosè ci ha tramandato” (Atti 6.8-14).

Ecco la menzogna organizzata, ma ecco anche la beatitudine di Stefano: prima è scritto che “Tutti quelli che sedevano nel sinedrio, fissando gli occhi su di lui, videro il suo volto come quello di un angelo” (v.15), ma poi quello che ha attirato la mia attenzione è stato il modo in cui concluse la sua esistenza terrena, poiché dopo aver esposto le sue ragioni con una predicazione toccante, leggiamo “Ma egli, pieno di Spirito Santo, fissando il cielo, vide la gloria di Dio e Gesù che stava alla destra di Dio e disse «Ecco, contemplo i cieli aperti e il Figlio dell’uomo che sta alla destra di Dio”(Ibidem, 7.15). Fu poi lapidato fuori Gerusalemme, pregando “Signore, non imputare loro questo peccato”.

Credo che la visione di Stefano fu il modo che ebbe Iddio per rincuorarlo e consentirgli di affrontare la morte serenamente e metterlo in condizione di andare oltre il dolore per quelle pietre che lo colpivano. Fu anche l’adempimento pratico delle parole che abbiamo letto, “Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli”, che appunto Stefano intravide. Gesù disse che “I nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa” (Matteo 10.36) alludendo proprio a quella di Israele, persecutrice prima di Roma di fronte ai cui metodi inorridiamo, dimenticando che invece i primi persecutori furono, appunto, quegli ebrei che, a differenza dei pagani superstiziosamente religiosi, avrebbero avuto tutti gli elementi per credere in Gesù Cristo e tutt’ora lo rifiutano.

Per ultima, abbiamo la frase “Così infatti perseguitarono i profeti che furono prima di voi”: pensiamo a Geremia, gettato nella cisterna di Malchia (Geremia 38), o prima di lui Elia, che Gezabele moglie del re Acab voleva uccidere (1 Re 19 e ss.). Ancora Isaia, arrestato e condannato a morte da Manasse secondo una tradizione ebraica, re di Giuda e figlio di Ezechia, oppure Uzia, perseguitato dal re Ioiachim (Geremia 26.21) oltre che Zaccaria, lapidato “nel cortile del Tempio del Signore” (2 Cronache 24.21), episodio  sconcertante: “Dopo la morte di Ioiadà, i comandanti di Giuda andarono a prostrarsi davanti al re, che diede loro ascolto. Costoro trascurarono il tempio del Signore, Dio dei loro padri, per venerare i pali sacri e gli idoli. Per questa loro colpa l’ira di Dio fu su Giuda e su Gerusalemme. Il Signore mandò loro dei profeti perché li facessero tornare a lui. Questi testimoniarono contro di loro, ma non furono ascoltati. Allora lo spirito di Dio investì Zaccaria, figlio del sacerdote Ioiadà, che si alzò in mezzo al popolo e disse «Dice Dio: «Perché trasgredite i comandi del Signore? Per questo non avete successo; poiché avete abbandonato il Signore, anch’egli vi abbandona». Ma congiurarono contro di lui e per ordine del re lo lapidarono nel cortile del tempio del Signore. Il re Ioas non si ricordò del favore fattogli da Ioiadà, padre di Zaccaria, ma ne uccise il figlio, che morendo disse «Il Signore veda e ne chieda conto!” (2 Cronache 24.17-22).

Ci sono poi le parole di quello Stefano che abbiamo citato: “Testardi e incirconcisi nel cuore e nelle orecchie, voi opponete sempre resistenza allo Spirito Santo. Come i vostri padri, acosì siete anche voi. Quale dei profeti i vostri padri non hanno perseguitato? Essi uccisero quelli che preannunciavano la venuta del Giusto, del quale voi ora siete diventati traditori e uccisori, voi che avete ricevuto la Legge mediante ordini dati dagli angeli e non l’avete osservata». All’udire queste cose, erano furibondi in cuor loro e digrignavano i denti contro Stefano” (Atti 7.51-53).

Chiedersi il significato dell’ultima beatitudine per noi è giusto, per quanti sono convinto che Gesù, con le parole sui “perseguitati per causa di giustizia”, si riferisse all’immediatezza di quanto sarebbe avvenuto a quanti lo avessero seguito. Credo che sia l’apostolo Pietro ad aggiornarci quando scrive “Nella misura in cui partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevi perché anche nella rivelazione della sua gloria possiate rallegrarvi ed esultare. Beati voi, se venite insultati nel nome di Cristo, perché lo Spirito della gloria, che è Spirito di Dio, riposa su di voi. Nessuno di voi abbia a soffrire come omicida o ladro, malfattore o delatore. Ma se uno soffre come cristiano, non se ne vergogni, ma anzi dia gloria a Dio” (1 Pietro 4.13-16), parole indirizzate a tutti quei fratelli o sorelle che, anche in questo tempo definito “civile” in cui viviamo, in molte zone della terra sono attuali e vive. Amen.

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5.07 – LE BEATITUDINI 6: I PURI DI CUORE (Matteo 5.3-10)

05.07 – Il sermone sul monte : le beatitudini VI (Matteo 5.3-10)

 

3«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. 4Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. 5Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. 6Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. 7Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. 8Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. 9Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. 10Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli”.

BEATI I PURI DI CUORE

E arriviamo al cuore, argomento molto vasto cui anche la letteratura ha dato uno spazio enorme in tutte le epoche: quest’organo, così complesso e fondamentale per la vita non solo degli esseri umani, è stato da sempre visto come la sede dei sentimenti e dei pensieri, mutando i propri battiti in base alle emozioni e non solo allo sforzo fisico. Il cuore, assieme allo stomaco e al fegato, è suscettibile allo stress anche cronico e, se prolungato, può danneggiare in modo grave tutto il sistema cardiovascolare tramite l’ipertensione, a sua volta causa di inconvenienti anche gravi. Nella Bibbia il cuore è visto come l’organo che risponde alle emozioni e che arriva a influenzare fortemente quello che dovrebbe essere teoricamente, asetticamente, un altro ente del tutto autonomo, cioè il cervello dal quale scaturiscono tutti gli impulsi, spesso automatici, per la nostra vita e sopravvivenza. Allora non si sapeva che il cuore possiede dei neuroni che lo abilitano ad agire indipendentemente dal cervello che in alcuni casi, come dimostrano le ricerche del californiano HearthMath Insitute, gli obbedisce.

La conoscenza della fisiologia del muscolo cardiaco, tanto ai tempi del Nuovo che dell’Antico Patto, nonostante allora fosse elementare, aveva individuato comunque delle linee di base valide ancora oggi: pensiamo solo a Proverbi 14.30 “Un cuore calmo è vita per il corpo, ma l’invidia è il tarlo delle ossa”, o a 4.23 “Custodisci il tuo cuore più di ogni altra cosa, perché da esso sgorgano le sorgenti della vita”. Collegato a questo verso, che troviamo in 14.30 possiamo citare 17.22 “Un cuore allegro è una buona medicina, ma uno spirito abbattuto inaridisce le ossa”.

La “cardiologia biblica”, però, al di là di questi esempi e molti altri che si possono trovare in cui il cuore è citato nelle situazioni più disparate, si occupa fondamentalmente di lui come motore delle azioni e delle scelte della persona e la prima volta in cui viene nominato in tal senso la troviamo poco prima del terzo giudizio di Dio sull’uomo mediante il Diluvio: “Ora Iddio vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che tutti i disegni dei pensieri del loro cuore non erano altro che male in ogni tempo” (Genesi 6.5). Era un’umanità che pensava esclusivamente a se stessa, che si preoccupava della propria sopravvivenza materiale cercando di riempire il proprio tempo senza interrogarsi su come affrontare degnamente la propria vita e la propria morte in vista dell’eternità di cui conosceva l’esistenza; leggiamo infatti che “Dio ha fatto ogni cosa bella al suo tempo: egli ha messo la nozione dell’eternità nel loro cuore, senza però che gli uomini possano capire l’opera compiuta da Dio dal principio alla fine” (Ecclesiaste 3,11). Per questo le religioni sono un tentativo umano per sopperire a questo senso innato. Per questo, quando un uomo muore, se non è illuminato dallo Spirito Santo, ha paura.

Il cuore, quindi, caratterizza la vita dell’essere umano ed è visto come sede del vero motore delle scelte che poi effettivamente andrà a compiere perché, attratto dalle emozioni che lo stimolano in positivo, tenderà ad agire e progettare affinché durino il più possibile o si realizzino in futuro. “Cuore” è una parola che nella Scrittura è usata circa mille volte e solo in una parte, il 20 per cento, si allude al muscolo vero e proprio; per il resto la sua applicazione è figurata ed è connessa tanto all’uomo naturale che tutti conosciamo, quello che “non comprende le cose di Dio, perché per lui sono follia, e non è capace di intenderle, perché possono essere giudicate solo per mezzo dello Spirito” (1 Corinzi 2.14), quanto a quello spirituale, tale perché Dio stesso è intervenuto personalmente a renderlo così. Sono realtà tra le quali c’è un baratro, un mondo differente per modo di vita, aspirazioni e prospettive perché nessuno sarebbe mai in grado di essere un “puro di cuore” senza un intervento di Colui che lo ha creato e accolto.

Sotto questo aspetto sono gli scritti dell’Antico Patto a illuminarci per primi, tutta la storia del popolo di Israele che, nonostante l’assistenza continua di Dio dal momento in cui lo chiamò fuori dall’Egitto fino ad arrivare alla venuta di Gesù Cristo, si sviò provando su di sé giudizi anche terribili. Precisazione obbligatoria: se il verso che abbiamo citato molte volte, “Questo popolo mi onora con le labbra, ma suo cuore è lontano da me”, è riferito al popolo eletto, questo non vuol dire che non possa applicarsi anche al cristianesimo quando questo lascia che sia l’abitudine e la ritualità a prevalere sulla coscienza, sul cuore, come recita il proverbio profano “passata la festa, gabbato il santo”; solo perché si crede, non siamo autorizzati a fare qualsiasi cosa perché “tanto siamo salvati” o “tanto Dio ci protegge”. C’è una diffusa opinione in base alla quale ciò che è scritto nell’Antico Patto siano cose passate e non ci riguardino perché viviamo nella dispensazione della grazia, ma non è così: ricordiamoci sempre che Gesù non venne per abolire la Legge, ma per adempierla e che essa è e rimane il metro per misurare il bene e il male.

Nella sua prima lettera ai Corinzi Paolo di Tarso fa una lunga esposizione invitando i cristiani di quella Chiesa a considerare l’esempio di Israele e i suoi errori pagati a caro prezzo, con queste parole: “Ciò avvenne come esempio per noi, perché non desiderassimo cose cattive, come le desiderarono loro. Non diventate idolatri come alcuni di loro, secondo quanto sta scritto: «Il popolo sedette a mangiare e a bere e poi si alzò per divertirsi». Non abbandoniamoci all’impurità come si abbandonarono alcuni di loro e in un solo giorno ne caddero ventitremila. Non mettiamo alla prova il Signore, come lo misero alla prova alcuni di loro e caddero vittime dei serpenti. Non mormorate, come mormorarono alcuni di loro, e caddero vittime dello sterminatore. Tutte queste cose però accaddero a loro come esempio, e sono state scritte per nostro ammonimento, di noi per i quali è arrivata la fine dei tempi. Quindi, chi crede di stare in piedi, stia attento a non cadere” (10.5-11).

Paolo qui si guarda bene dal dichiarare che lo sviarsi per noi è impossibile; certo Gesù ha pagato per i peccati che possiamo sempre commettere nella carne, ma una cosa è camminare uniti a Lui e cadere per un incidente di percorso, altra cosa è desiderare cose cattive nel proprio intimo, cioè non porre freno a ciò che sappiamo essere male, o cadere nell’idolatria, cioè sostituire una persona o uno stile di vita diverso a quello ricevuto o rivelatoci un giorno, mettere Dio alla prova con una condotta che rientri nel comandamento “Non tentare il Signore Iddio tuo”.

Rientrando ora in tema, il cuore è un problema sia a livello di corpo, perché soggetto ad ammalarsi come tutti gli altri organi, sia a livello spirituale e di questo se ne accorsero molti, soprattutto quanto a motore delle azioni, positive o negative: ricordiamo ad esempio Davide che, conscio del proprio peccato e del fatto che da solo non avrebbe mai potuto fare nulla per mutare la propria condizione, scrisse nel Salmo 50: “Pietà di me, o Dio, nel tuo amore: nella tua grande misericordia cancella la mia iniquità. Lavami tutto dalla mia colpa, dal mio peccato rendimi puro. Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo. Non scacciarmi dalla tua presenza e non privarmi del tuo santo spirito. Rendimi la gioia della tua salvezza, sostienimi con uno spirito generoso. Insegnerò ai ribelli le tue vie e i peccatori a te ritorneranno”. Ricordiamoci che quella che abbiamo letto è la preghiera di un re costituito su Israele che non si assolse, ma si prostrò riconoscendo di avere bisogno dell’intervento di Dio nella sua vita per poter sussistere.

Ancora, sono determinanti le parole di Ezechiele che sottolineano l’impossibilità fisica di un rinnovamento umano senza un preciso operare di Dio: “Vi aspergerò di acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre iniquità e da tutti i vostri idoli; vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo le mie leggi e vi farò osservare e mettere in pratica le mie norme” (Ezechiele 36.25-27). Un rinnovamento, dunque, un miracolo.

A questo punto è inevitabile chiedersi se su quell’altopiano in cui Gesù proclamò le beatitudini ci fossero dei puri di cuore. Potremmo azzardare che Nostro Signore, facendo un collegamento estensivo, si rivolgesse a degli israeliti come Natanaele, uomo in cui non c’era “alcuna frode”, ma sbaglieremmo perché la chiave di lettura corretta risiede in due parole, “puri” e “cuore”.

I farisei avevano strutturato rigidamente il concetto di purezza, esasperandolo e vedendolo come l’osservanza di una serie di precetti, per non contaminarsi, che prendevano dalla Legge trasmessa al popolo da Mosè. In questo caso Gesù fa riferimento alla purezza levitica esteriore ottenuta mediante l’abluzione rituale, che vedeva in quel caso l’uomo “puro” se applicava alcune norme di comportamento. Leggiamo in proposito Marco 7.14,15: “Chiamata di nuovo la folla, diceva loro «Ascoltatemi tutti e comprendete bene! Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro, ma sono le cose che escono dall’uomo che lo rendono impuro”. Ora, dopo queste parole, fu interrogato dai discepoli che non avevano capito. Disse loro “«Così neanche voi siete capaci di comprendere? Non capite che tutto ciò che entra nell’uomo dal di fuori non può renderlo impuro, perché non gli entra nel cuore, ma nel ventre e va nella fogna?». Così rendeva puri tutti gli alimenti. E diceva: «Ciò che esce dall’uomo è ciò che lo rende impuro. Dal di dentro, infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultéri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono l’uomo impuro»” (Marco 7. 18-23).

E vediamo allora che il cuore ritorna, e vediamo che Gesù elenca ciò che sono le vere impurità che contaminano la sua creatura e da dove provengono. Ecco quindi che essere “puri” legalmente è una cosa, esserlo “di cuore” è un’altra. “Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio”, espressione che nel linguaggio dell’Antico Patto si riferiva ai membri della corte, quelli che vedevano la faccia del re. “Vedranno Dio” è poi un’espressione che si rifà alle parole che Lui stesso disse a Mosè che gli chiedeva di vedere il Suo volto: “L’uomo non può vedermi e vivere”.

Saranno quindi i puri di cuore a vedere Dio, cioè tutti coloro che rientreranno nella categoria descritta in 1 Corinzi 6-9,11: “Non sapete che gli ingiusti non erediteranno il regno di Dio? Non illudetevi: né immorali, né idolatri, né adulteri, né depravati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né calunniatori, né rapinatori erediteranno il regno di Dio. E tali eravate alcuni di voi! Ma siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio”.

Una degna conclusione di questa beatitudine possono essere le parole di Giovanni nella sua prima lettera: “Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando Egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come Egli è” (3.2). Amen.

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5.06 – LE BEATITUDINI 5: I MISERICORDIOSI (Matteo 5.3-10)

5.6 – Il sermone sul monte : le beatitudini V (Matteo 5.3-10)

3«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. 4Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. 5Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. 6Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. 7Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. 8Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. 9Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. 10Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli”.

BEATI I MISERICORDIOSI

Altra beatitudine, terza per la condizione dello spirito e quinta in ordine cronologico. L’aggettivo si riferisce a chi prova un sentimento di compassione per l’infelicità altrui che spinge ad agire per alleviarla, ma anche alla pietà che muove a soccorrere, a perdonare, a desistere dal punire. Il misericordioso è colui che antepone l’altro a se stesso nel senso che partecipa alle sue sofferenze, vede le condizioni in cui versa il suo prossimo e si preoccupa di lenirle, di comprendere; in poche parole, è una persona caritatevole nel senso spirituale del termine. La misericordia, del resto, è la prima azione con la quale Iddio si caratterizzò dopo la trasgressione e il conseguente giudizio dei nostri progenitori in Eden, poiché leggiamo “Poi l’Eterno Dio fece ad Adamo e sua moglie delle tuniche di pelle, e li vestì” (Genesi 3.21): solo con quelle tuniche e non con le foglie di fico con le quali i nostri progenitori avevano cercato di coprirsi sarebbero stati in grado di affrontare la vita nuova che li attendeva al di là di quel giardino protetto da qualsiasi contaminazione. Dio non inferì, non chiuse i rapporti con la sua creatura, ma si preoccupò di fornirle un abito che potesse proteggerlo nel nuovo mondo in cui andava ad abitare. Inoltre, continuò a comunicare con loro nonostante il peccato, per quanto non come prima, come deduciamo dal fatto che dimostrava di gradivre le offerte di Abele e non quelle di Caino.

La dichiarazione della beatitudine per i mansueti era ed è però rivolta a uomini particolari che anteponevano la misericordia al sacrificio. Guardiamo brevemente le queste parole: “Seminate per voi secondo giustizia e mietete secondo misericordia; dissodatevi un campo nuovo, perché è tempo di cercare il Signore finché Egli venga e diffonda su di voi la giustizia” (…) “Preparate le parole da dire, tornate al Signore e ditegli «Togli ogni iniquità. Accetta ciò che è bene: non offerta di tori immolati, ma la lode dalle nostre labbra»” (Osea 10.12; 14.3). Tanto le parole di Osea che quelle di Gesù erano rivolte a uomini che vivevano ancora l’Antico Patto, ma vediamo espressi dei concetti molto importanti e che si raccordano tra loro: il popolo viene esortato a seminare “secondo giustizia”, cioè mettere le basi per una condotta nuova che non cercasse più la facilità dello sviare dal cammino preparato per loro e mietere “secondo misericordia”, cioè con la disposizione d’animo dell’umile che ringrazia per l’esaudimento e non quella dell’orgoglioso perché “ha fatto un buon lavoro” e raccoglie il frutto delle sue fatiche perché se lo merita. È l’orgoglio che pretende, non l’umiltà.

C’è poi l’invito a dissodarsi “un campo nuovo”, cioè se stessi, la propria anima paragonata a un campo – vedi la parabola dei terreni, da quello arido a quello che porta frutto – che va dissodato. Se un terreno va dissodato è segno che non è mai stato interessato da un uso agricolo oppure è rimasto incolto per molti anni. Dissodare un terreno è un’azione che passa attraverso varie fasi: prima va ripulito disboscandolo e decespugliandolo – attività faticosa – e poi bisogna rompere la compattezza del suolo anche in profondità per metterlo in condizione di fare attecchire le nuove coltivazioni. Questo tipo di lavoro è necessario “perché è tempo di cercare il Signore finché Egli venga e diffonda su di voi la giustizia”, cioè quella vera, quella che non si ha per natura. Il secondo verso poi, con le parole “Preparate le parole da dire” non vuole consigliare l’ipocrita costruzione di un discorso da fare, ma un esame sincero della propria coscienza, delle cose dette e non dette, fatte e non fatte, è un consiglio perché “tornate al Signore” è l’unica possibilità che gli uomini hanno per poter sussistere come persone, come esseri bisognosi di una dignità che altrimenti non potrebbe concretarsi.

La preghiera è “Togli ogni iniquità”: solo Lui lo può fare, agire, togliere. E in quell’ ”ogni” c’è tutto il nostro limite perché spesso non vediamo il nostro peccato, come quello commesso per ignoranza. Ricordiamo le parole della Legge: “Se uno pecca e, senza rendersene conto, commette qualunque cosa che l’Eterno Dio ha vietato di fare, è ugualmente colpevole e ne porta la pena” (Levitico 5.17).

Ecco allora che non gli uomini di allora, non noi, siamo quelli che ci possiamo l’autoassolvere: questo è impensabile, la colpa resta e ce la si porta dietro a meno che Dio stesso intervenga per toglierla. E “Ogni iniquità” si riferisce proprio alla Sua misericordia e onnipotenza. Infine la preghiera dell’accettare “ciò che è bene” esclude la formalità del sacrificio, ma richiede la lode delle labbra come frutto di un cuore rinnovato. Conosciamo il detto “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me”che Gesù disse un giorno,manon si pensa che il verso che cita prosegue con“…e il timore che ha di me non è altro che un comandamento imparato dagli uomini” (Isaia 29.13): non è altro che un comandamento, quindi una tradizione, un’abitudine che va avanti per forza di inerzia, qualcosa di accettato passivamente, perché così si deve fare, ma la cui ragione non è stata assimilata. Se nei radunamenti delle varie Chiese cristiane se pensasse a questo verso, forse sorgerebbero degli interrogativi sui motivi della presenza in esse. L’abitudine porta alla disgregazione del proprio essere, in tutti i campi. Non può esserci avvicinamento dell’uomo a Dio senza una demolizione dei preconcetti e dei metodi che ne hanno contrassegnato l’esistenza.

Abbiamo citato poco fa Abele e Caino; guardiamo le parole che Dio rivolse al futuro fratricida: “Perché tu sei irritato e il tuo volto è abbattuto? Se fai bene, non sarai tu accettato? Ma se fai il male, il peccato sta spiandoti alla porta e i suoi desideri sono rivolti a te. Ma tu, devi dominarlo” (Genesi 4.6,7). Ecco, Caino era stato invitato con una semplicità e una verità disarmanti, a esaminare ciò che gli impediva di essere come Abele. Gli sarebbe bastato poco per cambiare, ma non volle.

Dissodarsi un campo nuovo, quindi, vuol dire distruggere tutto ciò che abbiamo di inutile, che non serve, che non possiamo portare con noi quando verremo chiamati attraverso la morte o quella trasformazione vista nel “batter d’occhio” di cui si parla in 1 Corinti 15.52. E in questo lavoro non saremmo mai lasciati soli.

Per dissodare un campo, nello specifico noi stessi, ci vuole tempo, bisogna capire profondamente le ragioni e la necessità di farlo, si tratta di agire nel proprio interesse perché “Il misericordioso fa bene a se stesso, ma il crudele tormenta la sua stessa carne” (Proverbi 11.17). Tutto ritorna indietro, tutto viene messo in conto di giustizia o di condanna a tal punto che “Chi ha pietà del povero presta all’Eterno, che gli contraccambierà ciò che egli ha dato” (Proverbi 19.17) ed ecco perché Gesù disse “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, lo avete fatto a me” (Matteo 25.31). Tanto nel bene quanto nel male, attenzione! La sintesi assoluta del discorso giunge poi con l’imperativo “Siate misericordiosi come misericordioso è il Padre vostro”, parole riportate in Luca 6.36 nella sua versione dello stesso sermone sul monte.

A questo punto, dopo aver dato una panoramica generale che credo possa portare a diverse riflessioni personali, scendiamo un po’ più sul concreto, sul concetto già espresso nell’introduzione alle beatitudini che rappresentano il contrario di quello che il mondo spesso ritiene, tendendo ad ammirare chi ha costruito imperi versando sangue innocente e dolore in ogni epoca. Possiamo dire che, nelle beatitudini dichiarate da Gesù ci siano gli esatti contrari di quelle sataniche e che con la frase “…perché troveranno misericordia” viene anticipato ciò che il misericordioso troverà un giorno quando si troverà di fronte a Lui. E qui si apre un mondo di possibilità e di riferimenti tanto per il Suo uditorio di allora quanto per quello di oggi: i misericordiosi la troveranno perché “Se voi perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi; ma se non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe” (Matteo 6.14,15). Un perdono che non si può generalizzare, ma che può venire solo di fronte al pentimento della persona che ha offeso con parole o atti. “State attenti a voi stessi! Se un tuo fratello pecca, rimproveralo, ma se si pente, perdonagli. E se pecca sette volte al giorno contro di te e sette volte ti dice «Mi pento», tu gli perdonerai”  (Luca 17.3,4).

C’è un confine tra la misericordia e la debolezza esattamente come l’essere mite o mansueto: sono caratteristiche, qualità, che non possono essere a senso unico, che non possono manifestarsi, contrassegnare l’individuo “a prescindere” perché altrimenti Dio stesso, che misericordioso lo è, non potrebbe essere il Giudice perfetto, che per l’ebraico è sia l’amministrazione del giudizio obiettivo e imparziale, ma include anche il provvedere a, difendere e punire. In altri termini, la misericordia non può venire data sempre e comunque, ma richiede il pentimento perché si possa innescare.

Parole illuminanti sulla differenza tra uomini e uomini le troviamo in due episodi nei Vangeli; le prime sono riferite a quanti seguivano Gesù: “Sceso dalla barca, vide una grande folla ed ebbe compassione di loro perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise ad insegnare loro molte cose” (Marco 6.34). Erano lì, non sapevano e non avevano nulla al di fuori della loro ignoranza. Bisognosi di tutto, di sapere, di conoscere, di avere un’identità, chi li guidasse perché la pecora, senza un pastore che la guidi e se ne prenda cura, è inevitabile che vada nel pericolo. Ma erano disposti ad ascoltarlo. Per gli scribi i farisei e il popolo a lui contrario disse però “Serpenti, razza di vipere, come potrete sfuggire alla condanna della Geènna? Perciò ecco, io mando a voi profeti, sapienti e scribi: di questi, alcuni li ucciderete e crocifiggerete, altri li flagellerete nelle vostre sinagoghe e li perseguiterete di città in città;perché ricada su di voi tutto il sangue innocente versato sulla terra, dal sangue di Abele il giusto fino al sangue di Zaccaria, figlio di Barachia, che avete ucciso tra il santuario e l’altare. In verità io vi dico: tutte queste cose ricadranno su questa generazione”.(Matteo 23.33-36).

Dio, pur volendo che tutti gli uomini siano salvati, non si rivela a tutti, ma a un tipo di persone di indole – non di merito – precisa: “Con l’uomo buono tu sei buono, con l’uomo integro tu sei integro, con l’uomo puro tu sei puro e dal perverso non ti fai ingannare” (2 Samuele 22.26,27) e “il giudizio sarà senza misericordia contro chi non avrà avuto misericordia” (Giacomo 2.13). Perché? Perché chi è privo di pietà prende posizioni opposte a quelle del Creatore che si è rivelato come misericordioso attraverso i secoli a tal punto da dare il Figlio Unigenito “affinché chiunque creda in lui non perisca, ma abbia vita eterna”.

I requisiti della quinta beatitudine si possono acquisire poi non con la pratica, cioè con lo sforzo, ma con l’acquisizione e la sperimentazione di quanto Dio ha fatto e fa con noi, con il confronto personale con Lui, chiamati come siamo a non guardare gli errori degli altri, ma i nostri prima di tutto, come rileviamo dall’insegnamento della pagliuzza e della trave nell’occhio. Chi guarda agli errori e ai peccati altrui, è persona che spesso ha paura di esaminare i propri, si rifugia spesso nell’integralismo, figlio prediletto dell’ignoranza, e tende a prendere posizioni estreme che altro non possono fare se non generare contese e risentimento. Così scrive l’apostolo Paolo agli Efesi: ““Sia rimossa da voi ogni amarezza, ira, cruccio, tumulto e maldicenza con ogni malizia. Siate invece benigni e misericordiosi gli uni verso gli altri, perdonandovi a vicenda, come anche Dio vi ha perdonato in Cristo” (4.32).

Abbiamo citato l’apostolo Paolo: l’intervento di Dio verso di lui fu a dir poco sorprendente perché era un persecutore della Chiesa ed era consenziente alla lapidazione di Stefano e quindi, se lo possiamo definire versato nella Legge (era fariseo), certo qualificarlo come misericordioso è quanto meno azzardato. Eppure fu chiamato direttamente in visione da Gesù e più volte nelle sue lettere parla del suo passato riconoscendo i propri errori. In 1 Timoteo 1.12-17 leggiamo la sua esperienza di uomo trasformato dall’amore di Cristo: “Rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me,che prima ero un bestemmiatore, un persecutoree un violento. Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo per ignoranza, lontano dalla fede, e così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù. Questa parola è degna di fede e di essere accolta da tutti: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io. Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Cristo Gesù ha voluto in me, per primo, dimostrare tutta quanta la sua magnanimità, e io fossi di esempio a quelli che avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna. Al Re dei secoli, incorruttibile, invisibile e unico Dio, onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen”.

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