12.17 – La verità vi farà liberi (Giovanni 8.31-38)
31Gesù allora disse a quei Giudei che gli avevano creduto: «Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; 32conoscerete la verità e la verità vi farà liberi». 33Gli risposero: «Noi siamo discendenti di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno. Come puoi dire: «Diventerete liberi»?». 34Gesù rispose loro: «In verità, in verità io vi dico: chiunque commette il peccato è schiavo del peccato. 35Ora, lo schiavo non resta per sempre nella casa; il figlio vi resta per sempre. 36Se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero. 37So che siete discendenti di Abramo. Ma intanto cercate di uccidermi perché la mia parola non trova accoglienza in voi.38Io dico quello che ho visto presso il Padre; anche voi dunque fate quello che avete ascoltato dal padre vostro».
Siamo giunti, in questo capitolo ottavo di Giovanni, ad un punto particolare perché, alla luce del verso 31, “Gesù allora disse a quei Giudei che gli avevano creduto”,Nostro Signore si rivolge ad un uditorio profondamente diviso e non poteva essere altrimenti, “non essendo venuto a mettere la pace, ma la spada”, ovviamente quella dello Spirito. Si tratta di una spada che opera comunque indipendentemente dal fatto che la si lasci agire o che ci si opponga, poiché “…la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di una spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore. Non vi è creatura che possa nascondersi davanti a Dio, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi di colui al quale noi dobbiamo rendere conto”(Ebrei 4.12-13). La parola di Dio quindi seleziona, setaccia, divide, stimola nel profondo costringendo le persone a rivelarsi per quello che sono, tanto in positivo che in negativo. E allo stesso tempo il suo accoglimento implica la realizzazione o meno delle promesse di Gesù, fra cui quella riportata al verso 31, “Se rimanete nella mia parola”, che esprime la condizione della persona che desidera e cerca la propria realizzazione spirituale; a questa viene spiegato che il semplice credere in Lui costituisce solo la premessa per raggiungerlo perché la condizione è “rimanere nella mia parola”, tradotto anche con “perseverare”, cioè mantenersi costante in un atteggiamento, insistere, perdurare.
Va fatta però un’importante precisazione perché l’episodio in esame, che non si esaurisce qui, riporta tanto gli interventi dei Giudei che lo avevano accolto tanto di quelli che a Gesù si opponevano. “Quei Giudei che gli avevano creduto”erano al primo passo verso la salvezza, cioè avevano escluso una volta per tutte che fosse un impostore e che era davvero Colui che diceva di essere, ma altro non sapevano. Probabilmente lo ritenevano il Messia secondo il concetto ebraico del termine, ma comunque avevano individuato in Lui quello che doveva arrivare ed era stato promesso. Teniamo sempre presente che, all’interno del Sinedrio, oltre a Nicodemo vi erano diversi membri che erano discepoli di Gesù, ma di nascosto perché temevano i loro correligionari e le conseguenze derivanti dalla esclusione dalla Congregazione di Israele. Il riconoscere Gesù come Figlio di Dio significava unicamente che si erano arresi, ma avevano tutto un cammino da compiere davanti a loro che avrebbe richiesto il“rimanere nella mia parola”, espressione che allude ad un impegno di ricerca molto diverso da quello cui erano abituati.
Ciò che Nostro Signore pone come condizione per essere “davvero”suoi discepoli è il radicarsi nella sua parola, dimorare, costruire il proprio edificio spirituale sulla roccia per “conoscere la verità”, quella che ha infinite forme e sfaccettature perché così è la creatività di Dio che non può riassumersi in un solo gesto o pensiero: sarebbe come contare i colori del verde di un bosco o dell’azzurro di un cielo all’alba o al tramonto.
Il “rimanere” o “perseverare” descritto a quei Giudei era necessario perché non avevano ancora in loro quella conoscenza sufficiente perché si impiantasse la vera fede ed ecco perché abbiamo un’esortazione in tal senso. Si noti che tanto la permanenza quanto la perseveranza è apparentemente la stessa raccomandata dai capi delle vuote religioni, ma il risultato, che ogni vero cristiano ha sperimentato, è “conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi”, due passaggi ben distinti fra loro: “Conoscere la verità” è la rivelazione che porta al passaggio dalla Legge alla Grazia perché, quando un ebreo si converte a Cristo, porta con sé tutto un bagaglio di conoscenze che un pagano non ha, né potrà avere perché cresciuto e allevato in modo diverso.
Il pagano che si converte e legge la Scrittura per capirla, incontra molte più difficoltà e ha molte più domande da porsi rispetto a chi proviene dal popolo originario di Dio. Certo che entrambi arrivano a “conoscere la verità”, ma in modo diverso per quanto ugualmente salvifico. E comunque tutti i credenti beneficiano di una preghiera particolare che Gesù rivolge al Padre al capitolo 17 di questo Vangelo, chiedendo “Consacrali nella verità”, cioè una destinazione precisa, un dimorare in essa possibile solo grazie a un intervento di Dio.
Conoscere la verità equivale all’acquisizione della salvezza, impossibile se prima non si comprende l’amore del Padre, del Figlio donato per noi e quindi la nostra condizione di peccato, di totale estraneità alle realtà e al piano per “non essere più stranieri né ospiti, ma concittadini dei santi e membri della famiglia di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti– ecco l’Antico e il Nuovo – e avendo come pietra angolare lo stesso Cristo Gesù”(Efesi 2.19,20).
Conosciuta la verità, questa “vi farà liberi”, termine molto spesso equivocato perché non allude a fare quello che si vuole, ma all’affrancamento dello schiavo, alla sua liberazione che può essere stigmatizzata con le parole di Romani 8.12: “Ora, dunque, non c’è nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù. Perché la legge dello Spirito, che dà vita in Cristo Gesù, ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte”. E qual è questa “legge”? Certo, quella dell’Antico Patto, ma anche dell’inevitabile consumarsi senza rimedio, privi di una meta fino alla capitolazione del corpo.
Il concetto del venire liberati, o affrancati, è spiegato sempre in questa stessa lettera in cui vengono descritti gli effetti della fede nel Figlio, “Via, Verità e Vita”: “Il peccato non dominerà su di voi, perché non siete sotto la legge, ma sotto la grazia. (…) Non sapete che, se vi mettete a servizio di qualcuno come schiavi per ubbidirgli, siete schiavi di colui al quale obbedite, sia del peccato che porta alla morte, sia dell’obbedienza che conduce alla giustizia? Rendiamo grazie a Dio, perché eravate schiavi del peccato, ma avete obbedito di cuore a quella forma di insegnamento alla quale siete stati affidati. Così, liberati dal peccato, siete stati resi schiavi della giustizia”(6.14-18).
Qualcuno potrebbe obiettare che allora uno passa da una schiavitù ad un’altra e la libertà sia solo un’illusione, ma credo ci sia differenza fra essere soggetti a pensieri, desideri e progetti che portano alla morte, e scegliere liberamente di obbedire a un’altra legge, quella dello Spirito che porta a non subire più gli effetti di quelle sollecitudini ansiose di cui parlò Gesù, ad esempio, nel sermone sul monte quando disse “Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta”(Matteo 6.33). E questo è solo un esempio, quello più immediato perché quello completo lo abbiamo in 2 Timoteo 2.25,26 quando, parlando degli uomini schiavi del peccato raccomandando la preghiera per loro, leggiamo “…nella speranza che Dio conceda loro di convertirsi, perché riconoscano la verità e rientrino in se stessi, liberandosi del laccio del diavolo, che li tiene prigionieri perché facciano la sua volontà”. Prigionia o libertà, dunque.
Credo che questa sia una bellissima descrizione: “la verità vi farà liberi”comprende il fatto che le catene siano, grazie alla potenza del Figlio, finalmente sciolte e notiamo che nel verso appena ricordato compaiano due termini fortemente penalizzanti, “laccio”e “prigionieri”. Il credente non sarà mai schiavo di nessuno, se sarà in grado di realizzare queste fondamentali parole, condizionate al “rimarrete nella mia parola”, la sola che libera nel senso già visto di “affrancare”.
Una conferma di quanto sarebbe stato necessario per quei Giudei perseverare nelle Sue parole la abbiamo nella rivendicazione della loro discendenza da Abrahamo e nel fatto che sì, avevano creduto il Lui, ma come Messia aspettandosi che avrebbe ridotto le altre nazioni sotto il loro dominio. Furono proprio le parole “la verità vi farà liberi”a suscitare perplessità e una fortissima ritrosia perché l’orgoglio nazionale di quei Giudei – e qui non è comunque chiarissimo da chi fu pronunciata la risposta – li aveva portati a fare un’affermazione assolutamente non vera, “non siamo mai stati schiavi di nessuno”dimenticando i 400 anni di schiavitù in Egitto, i circa 300 in cui furono sottomessi ai Filistei e altri popoli vicini, i 70 anni di cattività babilonese e il dominio romano al quale erano soggetti. Si tratta di un’affermazione talmente enorme che alcuni commentatori hanno ipotizzato che il verbo greco impiegato potesse avere un significato diverso da come è stato tradotto, a noi non pervenuto. Forse, quei Giudei facevano riferimento alla loro elezione e tradizione che costituiva la base stessa di Israele, per cui non si poteva dire che avessero bisogno di essere liberati, possedendo la Legge e soprattutto le Promesse di Dio a loro favore.
A questo punto era necessario un chiarimento, che avviene puntualmente: “Chiunque commette il peccato è schiavo del peccato”, parole con cui Gesù spiega che il peccato cui fa riferimento è un sistema di vita e non un avvenimento isolato nel quale si può sempre cadere; il termine “schiavo”è qui usato nella sua accezione più dura, come era per coloro che versavano nella condizione di non speranza, condannati – se non interveniva qualcuno a liberarli – a vita. Chi vive un’esistenza di peccato è schiavo perché ogni peccato non è un qualcosa di accidentale, ma un segno della sua stessa natura e della schiavitù nella quale essa, faticosamente, si trascina ed ecco dove sta la libertà: chi si affida a Dio sceglie liberamente di farlo, ma chi fa altrettanto col mondo, ne rimane schiavo inconsapevole. E per questo la sua rovina sarà grande.
Prima ho scritto che non è inequivocabilmente chiaro da chi venisse l’obiezione in base alla quale i Giudei non erano mai stati schiavi di nessuno, ma sicuramente le frasi dei versi 30 e 31 sono rivolti a degli oppositori: “So che siete discendenti di Abrahamo. Ma intanto cercate di uccidermi perché la mia parola non trova accoglienza in voi”. Anche qui possiamo vedere l’agire dell’uomo schiavo: la discendenza da Abrahamo secondo la carne non garantiva nulla, dato che mentre lui credette e fu per questo “amico”di Dio, loro ponevano la genealogia come garanzia di giustizia indipendentemente dalle azioni e questo li portava ad assumere una posizione assurda, diametralmente opposta a quella del loro antico padre di cui è detto che “…esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e fu pieno di gioia”(Giovanni 8.56), arrivando a nutrire su Gesù pensieri, programmi di morte.
E qui torniamo al concetto di libertà leggendo Ebrei 10.1-4: “La Legge infatti, poiché possiede soltanto un’ombra dei futuri beni e non la realtà stessa delle cose, non ha mai il potere di condurre alla perfezione per mezzo di sacrifici, sempre uguali che si continuano ad offrire di anno in anno, coloro che si accostano a Dio. Altrimenti, non si sarebbe forse cessato di offrirli, dal momento che gli offerenti, purificati una volta per tutte, non avrebbero più alcuna conoscenza dei peccato? Invece in quei sacrifici si rinnova di anno in anno il ricordo dei peccato. È impossibile infatti che il sangue di tori e di capri elimini i peccati”. È il sacrificio di Cristo, “fatto una volta per sempre”, che toglie qualsiasi schiavitù che dimora nello spirito e nell’anima dell’uomo. Amen.
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