3.11 – L’UOMO DALLA MANO RATTRAPPITA (Luca 6.6-11)

3.11 – L’uomo dalla mano rattrappita (Luca 6.6-11)

 

6Un altro sabato egli entrò nella sinagoga e si mise a insegnare. C’era là un uomo che aveva la mano destra paralizzata. 7Gli scribi e i farisei lo osservavano per vedere se lo guariva in giorno di sabato, per trovare di che accusarlo. 8Ma Gesù conosceva i loro pensieri e disse all’uomo che aveva la mano paralizzata: «Àlzati e mettiti qui in mezzo!». Si alzò e si mise in mezzo. 9Poi Gesù disse loro: «Domando a voi: in giorno di sabato, è lecito fare del bene o fare del male, salvare una vita o sopprimerla?». 10E guardandoli tutti intorno, disse all’uomo: «Tendi la tua mano!». Egli lo fece e la sua mano fu guarita. 11Ma essi, fuori di sé dalla collera, si misero a discutere tra loro su quello che avrebbero potuto fare a Gesù.”

 

 

Siamo così giunti al terzo miracolo operato da Gesù in giorno di sabato, dopo la liberazione dell’indemoniato nella Sinagoga di Capernaum e della suocera di Simone dalla febbre. Apparentemente non sappiamo dove avvenne l’episodio, ma poiché Matteo scrive “…andò nella loro sinagoga”, quella cui facevano riferimento i farisei che avevano accusato i discepoli di infrangere il sabato strappando le spighe e mangiando i chicchi di grano, ci lascia ragionevolmente supporre sia stata la stessa.

Il racconto, che armonizzeremo con gli interventi di Marco e Matteo, non trova problemi interpretativi e può considerarsi complementare a quello precedente delle spighe strappate; ciò ci consente di dare qualche cenno sugli scribi, i farisei e gli erodiani, oltre che meditare quanto avvenuto. Eviterò di citare i casi in cui compaiono nei Vangeli ritenendo più utile avere una base storica, per quanto sommaria, per comprendere i passi in cui verranno citati nel corso della nostra lettura cronologica.

 

Gli scribi

Nascono in tempi molto antichi come persone versate nell’arte dello studio e dello scrivere e perciò tenute in grande considerazione nelle corti. Quando nell’esilio di Babilonia (VII° – VI° sec. a.C.) il popolo giudaico si trovò privato di tutti i suoi beni materiali e morali salvo che della Legge, vi furono uomini che consacrarono tutta la loro operosità e vita all’unico bene che era rimasto, la Legge, perché fosse conservata e trasmessa con ogni cura ed esattezza, per investigarla ed applicarla in tutta la sua scrupolosità: questi erano gli scribi. Lo scriba ai tempi del Nuovo Testamento è persona che non è mai disgiunto dal Rabbi, cioè dal maestro, dal dottore della Legge che la insegnava e la interpretava considerandola come l’unica, somma forma di erudizione. Si diventava Scriba dopo studi severi che duravano molti anni nelle scuole più importanti del tempo che erano quella di Hillel e di Shammai. Molti scribi erano anche Farisei ed è per questo che si trovano quasi sempre associati a loro nei racconti evangelici: aderivano cioè a quel movimento, o categoria di persone, che negli anni avevano finito per detenere il potere religioso assoluto assieme ai sadducei, che non abbiamo ancora incontrato, dai quali però si discostavano per la diversa tradizione che li caratterizzava. Per questo motivo non è sempre facile distinguere gli Scribi dai Farisei: potevano tanto formare un tutt’uno, quando costituire due gruppi distinti, ma non erano mai in contrasto tra loro. Non è azzardato ipotizzare che il fariseo potesse essere considerato uno scriba “perfetto”.

Con l’andar del tempo, man mano che gli scribi e i dottori della legge elaboravano il materiale della tradizione interpretativa della Torah scritta, questa diventò sempre più importante. Nel Talmud leggiamo che “Maggior forza hanno le parole degli Scribi che le parole della Torah”, che “È peggior cosa andar contro le parole degli Scribi che alle parole della Torah”, elementi che ci fanno capire quanto fosse facile portare all’estrema esasperazione i loro sentimenti, religiosi e non, quando leggiamo che Gesù “insegnava avendo autorità e non come gli scribi e i farisei”. Questo lo notavano anche loro e lo consideravano come un furto. Il sistema religioso fondato da questi personaggi era rigidamente dogmatico e li poneva al vertice di una piramide in cui trovava posto solo ed esclusivamente il loro orgoglio. Occorre però sottolineare che non tutta l’elaborazione della Legge fatta da scribi e farisei fosse menzognera; piuttosto, come osserva l’abate Ricciotti, “In un mare di futilità e pedanterie erano contenute vere perle preziose che rappresentavano l’eredità dell’insegnamento profetico spirituale. Ma troppa sproporzione correva tra l’ampiezza del mare e la scarsità delle perle, tra lo smisurato scenario giuridico e l’esigua impalcatura spirituale, cosicché l’utile rimaneva affogato fra tanto disutile.” Ad esempio una sentenza di Hillel, anteriore a Gesù di pochi anni, alla richiesta di un pagano che gli chiedeva di spiegargli tutta la legge nel tempo che riusciva a stare in equilibrio su un piede solo, gli disse “Ciò che non desideri per te, non fare al tuo prossimo. Questa è tutta la Legge, il resto è solo commento. Va’ e impara”. Facciamo attenzione a come conclude Hillel, “va’ e impara”, tipico detto degli scribi e farisei che Gesù utilizzò, rivoltandolo contro di loro quando disse “Andate e imparate ciò che vuol dire «Voglio misericordia e non sacrificio»”. La massima “Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”, attribuita a Gesù, è però soltanto di comodo poiché Gesù andò oltre dicendo “Le cose che vorreste fossero fatte a voi, fatele agli altri”.

 

I Farisei

È molto probabile che questo gruppo derivi storicamente da quello degli scribi e che farisei diventeranno quelli più radicali fra i componenti del gruppo originario, cioè degli scribi. Il termine “fariseo” significa “separato” da tutto ciò che non era religioso e giudaico. Se ciò può essere visto come qualcosa di apprezzabile stante la volontà di preservare le tradizioni, questo andava a sfociare in un formalismo rigido e in una minuziosità assoluta nello studio e interpretazione della Legge che aveva già portato ad un profondo disprezzo verso il popolo che, nonostante l’elezione che aveva perché appartenente a Dio, era chiamato con disprezzo “Popolo della terra”. Lo studio farisaico si basava su tre argomenti principali: il riposo del sabato, che era il primo. Ecco perché i Vangeli insistono sull’insegnamento di Gesù al riguardo, contrapposto al loro. Seguivano il pagamento delle decime e la purità rituale oltre l’immenso campo delle sentenze già emanate dalla loro tradizione che studiavano ed estendevano e andava a confluire nel Talmud che già i dottori della Legge avevano trasmesso. Giuseppe Flavio nelle Antichità Giudaiche scrive che ai tempi di Erode il Grande c’erano 6000 farisei in Israele, ricchi e poveri. Quelli che non appartenevano alla loro cerchia erano chiamati, come già sappiamo, con disprezzo “il popolo della terra”, cioè dei maledetti e per questo non avevano con loro alcun contatto nel senso che non potevano ospitare né farsi ospitare da un normale israelita o peggio contrarre vincoli matrimoniali con una donna che non fosse della loro cerchia: tutti erano giudicati in base alla conoscenza che avevano delle loro leggi, usanze, costumi. E sulla loro messa in pratica. Sempre lo storico Giuseppe Flavio scrive che “tanta potenza hanno sulla folla, che pure se dicano alcunché contro il re o contro il sommo sacerdote, sono immediatamente creduti”.

 

Gli Erodiani

Nel passo in esame gli erodiani compaiono per la prima volta. Erano questi dei giudei che sostenevano apertamente la dinastia degli Erodi costituendo una sorta di partito politico anziché una setta religiosa. Ligi al potere costituito, si opponevano a qualsiasi forma di ribellione che potesse causare l’intervento dei dominatori romani. Attenti quindi all’ordine pubblico, avevano capito che Gesù poteva essere un potenziale pericolo e perciò potevano essere usati dagli altri due gruppi per cospirare contro di lui. Pare che gli erodiani non fossero molto numerosi, ma il fatto che vengano citati indica che comunque un peso politico nella vita della nazione lo avessero, per quanto marginale. Il fatto è che tanto agli scribi che ai farisei serviva qualunque tipo di appoggio pur di giungere ad una futura eliminazione fisica di Gesù, ormai divenuto chiaramente e ufficialmente un loro avversario.

 

A parte gli erodiani di cui si sa poco, possiamo aprire una parentesi citando la preghiera di ringraziamento di Gesù al Padre al ritorno dei 70 discepoli inviati in missione: “Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli” (Luca 10.21). Quei discepoli, non appartenenti né agli scribi né ai farisei, erano persone comuni, non apprezzate per la loro scienza religiosa, ma “Tornarono pieni di gioia dicendo «Signore, anche i demoni si sottomettono nel tuo nome” (v.17) Sicuramente gli scribi e i farisei erano i “sapienti e i dotti” di cui parlò Gesù nella sua preghiera, ma non possiamo nemmeno annoverare nella categoria dei “semplici” coloro che sono convinti che sia sufficiente leggere il Vangelo e stare genericamente assieme per essere considerati tali.

L’uomo dalla mano paralizzata è un personaggio che ritengo particolare e su di lui hanno indagato molti a cominciare dalla ricerca di una traduzione corretta per stabilire con la maggiore esattezza possibile in cosa consistesse la sua infermità: così troviamo “mano secca”, “anchilosata”, “paralizzata”, “rattrappita” e ciò poteva essere avvenuto dalla nascita o per incidente sul lavoro. C’è chi ha pensato più alla seconda ipotesi, sostenendo che quest’uomo avesse potuto un tempo essere un muratore che si fosse accidentalmente schiacciato una mano e si trovasse nelle condizioni di non poter lavorare, e nulla ce lo dice e nulla ce lo lascia escludere. Di fatto però, quell’uomo si trovava nella sinagoga come tutti, quindi non aveva imputato a Dio la sua sventura tanto per il fatto di essere nato così, quanto per essersela lesionata sul lavoro, ritenendosi offeso per non essere stato protetto da Lui.

Dal suo comportamento si può dedurre che fosse un uomo dalla forte dignità, visto che un altro avrebbe potuto benissimo, nelle sue condizioni, chiedere l’elemosina, a meno di non avere soldi da parte o chi lo assisteva. Sicuramente si trovava in una situazione invalidante, ma non ritenne di chiedere a Gesù nulla: gli bastava l’attenzione che prestava, o stava per prestare, ai Suoi insegnamenti. E Nostro Signore, che sapeva la storia di ognuno dei presenti come abbiamo letto dalla frase “conosceva i loro pensieri” al v.8, colse l’occasione tanto per guarirlo quanto per dare un’ulteriore lezione a quanti nella sinagoga erano a lui ostili. Questo episodio, a parte il suo significato più immediato visto nell’insegnamento sul sabato, ci vuol dire che l’intervento di Dio nella vita di una persona può giungere anche in modo inaspettato, visto che è Lui che cerca.

Vediamo il clima che si venne a creare nella sinagoga confrontando il racconto dei sinottici: Matteo non espone i dettagli, ma si preoccupa di mettere in risalto i motivi che spinsero Gesù ad agire in giorno di sabato; Marco però, che ha una narrazione simile a quella di Luca, ci parla dell’attenzione che scribi e farisei misero per accusare Gesù di un’altra violazione del sabato tant’è che gli chiesero “È lecito guarire in giorno di sabato?” (Matteo 12.10). Fu allora che Nostro Signore mise a confronto i due atteggiamenti, quello ostile del suoi accusatori che lo interrogavano non certo per istruirsi, e quello di attesa dell’uomo nell’assemblea cui chiese di venire al centro non prima di rivolgere ai suoi oppositori due domande, la prima riportata da Marco e la seconda da Matteo: “È lecito in giorno di sabato fare del bene o del male, salvare una vita o ucciderla?“ (Marco 3.4).

A questa domanda, secondo i loro metodi di ragionamento, non poteva esserci risposta perché fare del male non era lecito in nessun giorno, mentre far del bene e salvare una vita, sempre. Quella domanda però aveva un significato che per noi, lettori che pensiamo sempre da un’ottica esterna data in gran parte dal tempo in cui viviamo e dal nostro bagaglio storico, è più recondito: Gesù parlava a persone in cui l’ostilità era sempre più in fase montante e già allora portava in sé l’idea dell’omicidio per cui quel “salvare una vita o ucciderla” era un riferimento alle loro intenzioni. A questa domanda Marco dice che quelli tacevano, credo perché non sapevano cosa rispondere, ma soprattutto perché pensavano a come fare per sbarazzarsi di lui. Era il loro un silenzio che non prendeva in considerazione la riflessione e nemmeno quella contesa dottrinale che avevano proposto, ma la sua eliminazione fisica che sfocerà in una discussione aperta tra loro, cioè scribi, farisei ed erodiani, su “quello che avrebbero potuto fare a Gesù” secondo Luca, “per farlo morire” secondo Marco. Sapevano che, se la predicazione di Gesù fosse proseguita, avrebbero perso il loro prestigio e il loro potere sul popolo.

Matteo riporta poi la seconda domanda: “Chi di voi, se possiede una pecora e questa in giorno di sabato cade in un fosso, non l’afferra e la tira fuori? Ora un uomo vale ben più di una pecora! Perciò è lecito in giorno di sabato fare del bene!”. Si tratta di una questione che Matteo inserisce qui, ma che probabilmente fu posta più avanti, in un altro miracolo operato sempre di sabato, il cui beneficiario fu un uomo idropico.

A questo punto Gesù ordina all’uomo di stendere la mano: per farlo, l’innominato infermo dovette ordinare alla mano di stendersi tramite il cervello esattamente come se si trattasse di un arto sano, quindi non ebbe titubanze, non rispose “è impossibile”, o “non riesco”: semplicemente, fece ciò che il Signore gli aveva chiesto. Se l’uomo vuole avere un risultato nella propria vita, deve farsi collaboratore di Dio che non gli chiede mai l’impossibile: a Naaman fu chiesto di bagnarsi sette volte nel Giordano, qui la richiesta fu di stendere la mano.

Abbiamo letto che a quel punto gli scribi, i farisei e gli erodiani, visto il risultato, uscirono dalla sinagoga e iniziarono a discutere sul da farsi per uccidere Gesù: fuori da quel luogo sacro, pensavano fosse possibile progettare un omicidio, quasi pensando che in quel modo Dio non li sentisse. Per loro, in quel giorno era lecito fare del male.

* * * * *

 

 

3.10 – LE SPIGHE STRAPPATE (Matteo 12.1-8)

3.10 – Le spighe strappate (Matteo 12.1-8)

In quel tempo Gesù passò, in giorno di sabato, fra campi di grano e i suoi discepoli ebbero fame e cominciarono a cogliere delle spighe e a mangiarle. 2Vedendo ciò, i farisei gli dissero: «Ecco, i tuoi discepoli stanno facendo quello che non è lecito fare di sabato». 3Ma egli rispose loro: «Non avete letto quello che fece Davide, quando lui e i suoi compagni ebbero fame? 4Egli entrò nella casa di Dio e mangiarono i pani dell’offerta, che né a lui né ai suoi compagni era lecito mangiare, ma ai soli sacerdoti. 5O non avete letto nella Legge che nei giorni di sabato i sacerdoti nel tempio vìolano il sabato e tuttavia sono senza colpa? 6Ora io vi dico che qui vi è uno più grande del tempio. 7Se aveste compreso che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrifici, non avreste condannato persone senza colpa. 8Perché il Figlio dell’uomo è signore del sabato».”

Fra le tre versioni di questo episodio, la più accurata è quella di Matteo che utilizzeremo per le nostre riflessioni per quanto la collochi più avanti rispetto agli altri, che preferiscono porla dopo la questione sollevata dai discepoli di Giovanni e dai farisei sul digiuno. Luca è quello che colloca l’avvenimento temporalmente, anche se di questa sua annotazione in diverse traduzioni non v’è traccia: leggendo infatti 6.1 troviamo che “Un sabato Gesù passava tra i campi di grano e i suoi discepoli coglievano e mangiavano le spighe”. Alcuni testi dai quali diversi traduttori hanno attinto, primo fra tutti San Girolamo (317-420 d.C.), riportano “E avvenne che nel sabato secondo primo, passando egli per i seminati, i suoi discepoli coglievano spighe, e stritolatele con le mani, le mangiavano”. Diodati nel 1600, chiarisce cosa fosse quel “secondo primo” traducendo “nel primo sabato dal dì dopo la Pasqua”, come in effetti è. Di questa precisazione rimangono tracce sia nella Diodati riveduta, “”Ora avvenne che in giorno di sabato, dopo il gran sabato”, quanto nella Bibbia tradotta dall’abate Giuseppe Ricciotti (1949), sostanzialmente identica a quella di San Girolamo. La differenza è dovuta ai diversi codici greci presi in esame in cui il “sabato secondo primo” manca.

Fatta questa precisazione, doverosa perché chi legge Luca potrebbe chiedersi il perché di una differenza piuttosto rilevante tra i testi, entriamo nell’oggetto della presunta infrazione alla Legge che i discepoli di Gesù avrebbero compiuto. Era sabato, giorno di riposo, per il quale i Farisei avevano stabilito e aggiunto ben 39 azioni proibite tra le quali il mietere, che era indubbiamente un lavoro, ma anche stropicciare le spighe fra le mani. Per i farisei, per i quali era lavoro di sabato anche raccogliere un frutto caduto spontaneamente da un albero oppure mangiare un uovo, l’accusa bastava. Leggiamo invece in Deuteronomio 23.26 quanto segue: “Se passi tra la messe del tuo prossimo, potrai coglierne le spighe con la mano, ma non potrai mettere la falce nella messe dei tuo prossimo”, quindi di mietitura non se ne poteva parlare e la Legge, che proibiva il furto ma consentiva la spigolatura, faceva sì che e il proprietario del campo, indipendentemente dal fatto dal tipo di coltivazione, nel raccoglierne i frutti non ripassasse mai a cercare quelli rimasti indietro, ma li lasciasse ai poveri che avrebbero potuto raccoglierli. “Quando bacchierai i tuoi ulivi, non tornare a ripassare i rami. Sarà per il forestiero, per l’orfano e per la vedova. Quando vendemmierai la tua vigna, non tornerai indietro a racimolare. Sarà per il forestiero, per l’orfano e per la vedova. Ricordati che sei stato schiavo nella terra d’Egitto; perciò ti comando di fare questo” (Deuteronomio 24.20-22). Ancora: “Quando mieterete la messe della vostra terra, non mieterete fino ai margini del campo, né raccoglierete ciò che resta da spigolare della messe; quanto alla vigna, non coglierai i racimoli e non raccoglierai gli acini caduti: li lascerai per il povero e per il forestiero. Io sono YHWH, vostro Dio” (Levitico 19.9,10).

Quindi i discepoli, che presumiamo percorressero il “cammino di sabato” perché nulla in proposito rilevano gli oppositori di Gesù, non infrangevano le prescrizioni stabilite per quel giorno perché non solo non mietevano, ma neppure commettevano un furto. Gesù però non fa osservare loro questo, non li segue né apre una dissertazione su ciò che era o meno concesso di sabato, ma li riconduce allo spirito della Legge e li richiama a riconsiderare un episodio che dovevano conoscere molto bene. In casi come questo, in cui Lui cita episodi descritti nell’Antico Patto, mi viene sempre in mente che il Figlio di Dio era là, presente e testimone degli avvenimenti.

Ebbene Davide, perseguitato da Saulle che, accecato dall’invidia a seguito delle parole del canto delle donne israelite “Saul ha abbattuto i suoi mille, ma Davide i suoi diecimila”, voleva ucciderlo, giunse in fuga a Nob, città sacerdotale appartenente alla tribù di Beniamino. Nob era popolata da sacerdoti che, come membri della tribù di Levi, non possedevano una regione precisa ma si trovavano sparsi tra i vari centri della terra di Israele. Davide arriva così da Achimelech che, non avendo pane comune, alla sua richiesta di averne, gli dà quello sacro, cioè le dodici focacce che dovevano essere conservate davanti al luogo santo del tempio e rinnovate ogni sabato.

È un episodio al quale bisogna prestare molta attenzione perché contiene insegnamenti che vanno oltre le parole di Gesù a quei farisei: citando l’episodio, Nostro Signore implicitamente ricorda loro le verità nascoste bell’episodio che avrebbero dovuto e potuto meritare se solo avessero voluto. Ora Davide, e i suoi che lo attendevano in un luogo precedentemente concordato, era stremato dopo tre giorni di viaggio per cui la fame sua e degli altri era grave. Il fatto poi che il sacerdote non avesse pane e abbia scelto di dargli quello sacro, non trovandosi isolato in mezzo al deserto e potendo quindi cucinargli del pane normale, lascia supporre che fosse sabato e che quei pani, detti “di presentazione” fossero gli unici che gli fosse lecito preparare. Certo la Legge prescriveva che nessuno li potesse toccare o mangiare, ma se il sacerdote non avesse deciso di sfamare Davide e i suoi con quelli, li avrebbe debilitati visto che erano in fuga e sarebbero potuti morire. Erano uomini stremati. Inoltre Davide, quando si presenta ad Achimelech, non gli dice che stava scappando da Saul, ma “Il re mi ha ordinato e mi ha detto «Nessuno sappia di questa cosa per la quale io ti mando e di cui ti ho dato incarico»”, sempre per proteggere la propria vita. L’episodio è raccontato al capitolo 21 del primo libro di Samuele.

A proposito dei pani di presentazione, leggiamo Esodo 25.30: “Sulla tavola collocherai i pani della presentazione, saranno sempre alla mia presenza”. È un comandamento non da poco le cui parole “sempre” e “mia presenza” ci danno l’idea della continuità e di quanto quest’ordine fosse assoluto e il termine stesso “pane di presentazione” letteralmente dall’ebraico si traduce con “pane di facce” a motivo del fatto che dovesse restare davanti a Dio.

Se andiamo in Levitico 24.5-9, poi, abbiamo una visione ancora più esaustiva di quanto fosse seria la funzione di quei pani: “Prenderai anche fior di farina e ne farai cuocere dodici focacce. (…) Le disporrai su due pile, sei per pila, sulla tavola d’oro puro davanti al Signore, sempre. Porrai incenso puro sopra ogni pila, perché serva da memoriale per il pane, come sacrificio consumato dal fuoco in onore del Signore. Ogni giorno di sabato lo si disporrà davanti al Signore perennemente da parte degli israeliti: è un’alleanza eterna. Sarà riservato ad Aaronne e ai suoi figli: essi lo mangeranno in luogo santo, perché sarà per loro una cosa santissima tra i sacrifici da bruciare in onore del Signore. È una legge perenne”. Anche qui il redattore del libro del Levitico usa termini che poco spazio lasciano all’interpretazione: “in onore del Signore” – “perennemente” – “alleanza eterna” – “riservato” – “luogo santo” – “cosa santissima” – “in onore del Signore“ (per la seconda volta) – “legge perenne” (per la seconda volta).

Ebbene, queste istruzioni così particolareggiate vengono temporaneamente abolite dietro un’iniziativa non contemplata dalla Legge per salvare una vita umana e Dio non ne chiederà conto né ad Achimelech, né a Davide quando il solo annusare l’incenso preparato per il servizio sacerdotale o il fabbricarne di simile, era punito con la morte. Tutto questo abbatteva il formalismo esasperato – oggi lo chiameremmo radicalismo – di quei farisei ancora una volta chiamati a considerare da Gesù che la misericordia valeva più del sacrificio. Ancora una volta viene citato Osea, ancora una volta si sottolinea il principio in base al quale quando la misericordia – vedasi l’amore – e il sacrificio, cioè la parte esterna della religione, vengono in conflitto, Dio nella sua benignità sceglie la prima.

È indubbiamente questa una verità che dovrebbe molto insegnare a quei cristiani che si arroccano su posizioni che tendono a dividere il mondo in bianco e nero senza possibilità di grigio e dimenticano che Dio ha creato il colore. Camminare in mezzo a un bosco in estate equivale a vedere non del verde, ma sue sfumature infinite tutte riferite alla vita, così come guardare il cielo non significa vedere solo un azzurro uniforme che si trova, solo e al limite, in quei cartoni animati in cui i disegnatori devono produrre fotogrammi dipendenti da costi di produzione.

Marco scrive che Gesù disse nell’occasione che “il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato”, cioè: l’uomo aveva bisogno di riposo per rigenerare le proprie energie e per questo era stata imposta l’astensione dal lavoro dandogli modo di far propria e meditare l’opera di Dio che in quel giorno contemplò il suo lavoro minato da Satana attraverso la disubbidienza dei nostri progenitori. Il sabato di Dio doveva essere eterno, santificato dalla reciprocità di amore tra lui e l’uomo, suo vero capolavoro protagonista in un creato perfetto e puro. L’uomo non era stato creato per osservare il sabato, ma per vivere pienamente condividendo con il suo Creatore giorno di eternità e beatitudine. Dopo la caduta, era chiamato ad osservarlo anche per riflettere sulla sua condizione consacrando il suo tempo al Signore.

Per questo Gesù, “Figlio dell’uomo” indicato nei testi profetici, era “Signore del sabato” e anche “più grande del Tempio”, cosa che i farisei non potevano accettare perché, in quel caso, tutto il loro castello di teoremi e il loro stesso modo di vivere, con il rispetto che avevano presso il popolo, sarebbe crollato. Avrebbero dovuto rinunciare a loro stessi, porre tutto in discussione da capo. In poche parole, avrebbero dovuto ubbidire a quell’esortazione detta loro qualche giorno prima, “Andate e imparate cosa vuol dire «Voglio misericordia e non sacrificio»”. Là dove il termine allude, da dizionario, a un “sentimento di compassione e pietà per l’infelicità e la sventura altrui che induce a soccorrere, a perdonare e a non infierire”. E l’episodio successivo sarà proprio un nuovo miracolo, il terzo operato da Gesù in giorno di sabato.

* * * * *