6.08 – Nessuno conosce il Figlio se non il Padre (Matteo 11.27)
“25In quel tempo Gesù disse: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. 26Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. 27Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo.
28Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. 29Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. 30Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero».”.
La seconda parte del verso 27 è dedicata al rapporto di reciprocità tra il Padre e il Figlio e qui Gesù pone in risalto il “conoscere”, cioè la cognizione piena dell’Essere, dei Suoi modi di agire e delle qualità del rapporto che lega i Due. Pensiamo all’imperscrutabilità di Dio ai tempi dell’Antico Patto, descritto e qualificato in tanti modi, ma fondamentalmente irraggiungibile, Lui che da sempre, per rivelarsi all’uomo e anche per dar luogo ai suoi giudizi, dovette “scendere”. La stessa cosa fece anche per salvarlo. Pensiamo, riguardo alla distanza tra Iddio e la sua creatura contaminata dal peccato, alle tavole della Legge, al fatto che Mosé dovette incontrarlo in un terreno santo, come Abrahamo prima di lui, senza la presenza di altri, ma che non poté guardarlo perché altrimenti sarebbe morto. Pensiamo alle visioni che ebbero i profeti, accompagnate sempre da un profondo smarrimento che si placava solo con parole rassicuranti, quel “Non temere”più volte ricordato: ebbene Abramo, Mosè e tanti altri dopo di loro vennero fatti partecipi di realtà parziali perché i loro simili potessero sapere, a volte in anticipo, eventi che avrebbero riguardato tutto il popolo, oppure le volontà di Dio riguardo determinati temi. I profeti però non furono mai in grado di spiegare le Sue profondità, anche perché non trovavano le parole per rendere l’idea reale di ciò che vedevano. Soprattutto non potevano aggiungere né togliere nulla a quanto loro detto o comandato, come avvenne per la Legge stessa: “Non aggiungerete nulla a ciò che io vi comando e non ne toglierete nulla, ma osserverete i comandi del Signore, vostro Dio, che io vi prescrivo” (Deuteronomio 4.2).
Certo qui Gesù parla di qualcosa di diverso, perché sappiamo che “Dio nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato” (Giovanni 1.18); quindi, in realtà, Lui ha fatto quello che nessun profeta era mai riuscito a compiere: rivelare la volontà estesa del Padre, il Suo piano, la Sua essenza, il Suo amore. E questo avvenne per gradi e il “rivelare” di cui parla Giovanni non ha lo stesso significato del verso 27 che abbiamo letto; piuttosto tutti gli uomini devono sapere, per poi decidere cosa farsene di quest’informativa, che “Il Padre ama il Figlio e gli ha dato in mano ogni cosa” (Giovanni 3.35), che “Il Padre non giudica nessuno, ma ha dato ogni giudizio al Figlio, perché tutti onorino il Figlio come onorano il Padre. Chi non onora il Figlio, non onora il Padre che lo ha mandato” (5.22). Ancora, gli uomini devono sapere che “Tu gli hai dato potere su ogni essere umano, perché egli dia la vita eterna a tutti coloro che gli hai dato. Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo” (17.2).
Questa è la descrizione: il Padre ha dato al Figlio “in mano ogni cosa”, “ogni giudizio”, “ogni potere”; c’è poi la vita eterna, dono elargito non a tutti, ma “a tutti coloro che gli hai dato”, cioè a chi avrebbe creduto in Lui perché “Tutti onorino il Figlio come onorano il Padre”: sono la stessa cosa. È la frattura tra gli uomini, divisi in chi è figlio e gli appartiene e chi invece è conosciuto dal “Principe di questo mondo”.
La presenza del Padre e del Figlio, oltre che delle relazioni tra loro, sappiamo che ci è presentata, per quanto in modo velato, alla creazione e in quel periodo, di cui ignoriamo la durata, in cui Adamo fu innocente vivendo in Eden. Tralasciando le prime sei ere corrispondenti agli altrettanti giorni e andando al giardino, prestiamo attenzione agli alberi che lo popolavano, piantati dallo stesso Creatore: “Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a Oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato. Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, e l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male” (Genesi 2.8,9). Leggiamo che “piantò un giardino”, cioè a differenza di quanto avvenuto per tutto il resto della terra che produsse da sé erba e piante, lì provvide personalmente affinché l’uomo avesse di che sfamarsi e quindi tutti gli alberi là presenti erano l’emanazione della Sua scienza specifica, irradiazione della Sua Provvidenza. Se andiamo al racconto del racconto del terzo giorno, infatti, abbiamo: “Dio disse «La terra produca germogli, erbe che producono seme e alberi da frutto, che facciano sulla terra frutto con il seme, ciascuno secondo la propria specie». E così avvenne” (1.11). Fu una creazione controllata, ma a differenza di Eden, “distante”, preludio alla costituzione di quel luogo su misura per la creatura che là, e non nel mondo, avrebbe dovuto vivere senza conoscere la morte.
La presenza del Figlio era quindi raffigurata nell’albero della vita, quella del Padre in quello della conoscenza del bene e del male, cioè la maturità, la distinzione tra ciò che è appunto “bene” e “male” che l’innocenza non contempla. Adamo infatti era come un bambino. Se l’albero della vita era “al centro”, non sappiamo dove fosse quello della conoscenza del bene e del male, comunque anche lui raggiungibile in quanto figura del Creatore e Padre di cui il giardino rifletteva le caratteristiche. L’assenza di quell’albero non avrebbe avuto alcun senso e si può anche affermare che Eden stesso, senza di lui, non avrebbe potuto sussistere. I due erano alberi complementari esattamente come lo erano fra loro i nostri progenitori: non poteva esistere l’uno senza l’altro, solo che l’albero della vita era quello perfettamente adatto alla creatura perché potesse vivere in quel territorio protetto, in una condizione di eternità, o meglio di para-eternità visto che il tempo, per quanto in modo differente, scorreva comunque come deduciamo dal fatto che “Udirono i passi del Signore Dio che passeggiava alla brezza del giorno” (3.8). Il passo è ritmo, il ritmo è scansione, tempo, scorrere, assenza di immobilità.
La reciprocità fra i due alberi. Entrambi aspetti di Dio, di uno è detto “In lui– il Verbo – era la vita e la vita era la luce degli uomini”, dell’altro nulla sappiamo se non quello che abbiamo letto in Genesi, ma il fatto stesso che fu dal Padre che procedette la Legge ci dice molto sul fatto che la conoscenza nel senso di riconoscere, distinguere, vagliare, sapere ciò che è bene e ciò che è male non ci appartiene ancora. Viceversa, Mosè non avrebbe ricevuto le tavole, non l’avrebbe trasmessa e non sarebbe stata tramandata così gelosamente.
Torniamo però al Nuovo Patto e alle parole di Gesù: in un discorso nel Tempio ai Giudei in cui disse loro “Voi non credete perché non fate parte delle mie pecore”, concluse definendo la Sua posizione e dignità spirituale: “Io e il padre siamo una cosa sola”, o “Uno” secondo altre traduzioni (Giovanni 10.22-30): due persone distinte, ma che non possono essere divise e di qui la profonda conoscenza che hanno l’uno dell’altro come abbiamo trovato scritto nel verso 27 di Matteo. La differenza risiede nel fatto che se il Padre è teoricamente inaccessibile, il Figlio ha avuto il compito di rivelarlo all’uomo talché troviamo scritto che chi ha visto l’Uno, ha visto l’Altro che, a differenza del Figlio, non avrebbe mai potuto farsi uomo. Ecco perché l’apostolo Paolo scrive “Per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore, Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo grazie a lui” (1 Corinti 8.6).
Ancora nella lettera agli Efesi è scritto che quello di Cristo è un “mistero nascosto da secoli in Dio, creatore dell’universo affinché, per mezzo della Chiesa, sia ora manifestata al Principati e alle Potenze dei cieli la multiforme sapienza di Dio, secondo il progetto eterno che egli ha attuato in Cristo Gesù nostro Signore, nel quale abbiamo la libertà di accedere a Dio in piena fiducia mediante la fede in lui” (3.9-12) là dove per “Principati e Potenze dei cieli” si intendono tutti i luoghi ed entità, anche quelli più irraggiungibili del mondo anche spirituale. Paolo di Tarso in questo verso quindi spiega che Cristo, come persona, faceva parte di un progetto eterno “nascosto da secoli”, ora finalmente rivelato e proprio quel Dio irraggiungibile, come abbiamo già visto, è ora avvicinabile liberamente “in piena fiducia mediante la fede in lui”. Non solo, ma Giovanni prosegue scrivendo “Dio ci ha donato la vita eterna e questa vita è nel suo Figlio. Chi ha il Figlio– quindi non il Padre – ha la vita; chi non ha il figlio di Dio, non ha la vita” (1 Giovanni 5.11,12).
Torniamo però al Vangelo di Giovanni, così meravigliosamente teologico, e leggiamo le parole di Gesù a Filippo: “Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre” (14.9). “Vedere”, che il dizionario traduce freddamente con il “percepire stimoli esterni mediante la funzione visiva” qui è inteso a livello di tutta quell’infinità di sfumature che va dal semplice prendere atto di una cosa al contemplarla, osservarla, analizzarla. E Gesù Cristo ci offre una visione del Padre compatibile con la nostra perché al Padre possiamo andare solo ed esclusivamente attraverso di lui, come ebbe a dire un giorno: “Nessuno può venire al padre se non per mezzo di me”, sempre nel capitolo 14 di Giovanni. E già da qui possiamo cominciare a intravedere la verità espressa dal concetto successivo espresso nel nostro verso 27, “e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo”, che ci parla della sua presenza costante nei secoli che transitano veloci verso il giorno del Suo ritorno. È triste constatare che, nel suo cammino, una parte della cristianità abbia fortemente sminuito la funzione di Gesù come UNICO mediatore tra il Padre e gli uomini, creando figure che in un certo qual modo dovrebbero aiutare i credenti ad avere dei favori – guarda caso materiali – presso di Lui, di cui non troviamo traccia alcuno in quel cristianesimo, tutt’altro che “primitivo”, che ci è stato tramandato dagli evangelisti e dagli altri Autori. Perché “C’è un solo Dio e anche un solo mediatore fra Dio e gli uomini, Cristo Gesù uomo” (1 Timoteo 2.5).
Si noti che questo verso cita quattro entità, Dio, un mediatore, gli uomini, e Gesù Cristo che specifica “uomo” perché fu il Dio che scese in mezzo a noi provando personalmente cosa volesse dire vivere in un corpo di carne, vincendola e servendo il Padre in modo perfetto giungendo a morire in sacrificio sulla croce, innocente, provando il dolore supremo, assoluto e totale dell’abbandono; il grido “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” fu il punto culminante della sofferenza. Sono convinto che Gesù, come uomo e come Dio, abbia potuto sopportare le multiformi ingiurie fisiche e morali che gli furono somministrate dal suo arresto alla croce, ma l’abbandono del Padre in quanto portava il peccato del mondo per toglierlo, sia stato terribile: non lo aveva mai provato prima di allora. Perfezione di sacrificio e di sofferenza, per questo compiuta una volta per sempre, per questo in grado di salvare chiunque glielo chiede. Amen.
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