05.45 – NON GIUDICATE PER NON ESSERE GIUDICATI (Matteo 7.1-5)

05.45 – Non giudicare per non essere giudicati (Matteo 7.1-5)

 

1Non giudicate, per non essere giudicati; perché con il giudizio col quale giudicate sarete giudicati voi 2e con la misura con la quale misurate sarà misurato a voi. 3Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo? 4O come dirai al tuo fratello «Lascia che tolga la pagliuzza dal tuo occhio», mentre nel tuo c’è la trave? 5Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello”.

 

Quello del giudicare è un tema su cui Nostro Signore ha più volte accennato nel sermone sul monte, illustrando il rapporto molto stretto che intercorre tra il metro che l’uomo usa per valutare e trattare il prossimo e quello che il Padre ha, di riflesso, nei confronti di chi agisce in tal senso. “Non giudicate per non essere giudicati” oppure, come afferma Luca nel parallelo, “non condannate e non sarete condannati” (Luca 6.37). I versi che abbiamo letto da 3 a 5, poi, illustrano un modo di fare purtroppo istintivo in ciascuno di noi e non a caso Esopo, scrittore e favolista greco vissuto nel 500 a.C., affermò che Giove avesse stabilito che ogni uomo portasse addosso due bisacce, una davanti e una dietro, la prima riempita di tutti i difetti, errori e vizi degli altri uomini e la seconda di tutte le qualità negative del portatore. Ora, essendo per impossibile guardare nella borsa portata di spalle, cioè quella contenenti i propri difetti, gli uomini erano portati a scrutare in quella che avevano davanti, quella contenente le mancanze e le deficienze degli altri. Così una caratteristica della nostra natura è quella di essere sempre pronti a criticare ogni minimo errore altrui, ma tenendosi accuratamente lontani dal valutare i propri.

Nel passo in esame però, Gesù non vuole parlare di un’usanza purtroppo frequente, ma delle conseguenze che l’azione del giudizio comporta sotto l’aspetto dell’universalità del peccato. Mi spiego meglio:  queste parole sono rivolte a tutti indipendentemente dal fatto che credano in Lui o meno perché il giudicare gli altri è un’azione che purtroppo viene istintiva per cui Nostro Signore attacca il metodo, denuncia un costume dando al tempo stesso un avvertimento. Quello che leggiamo nei versi di Matteo è importante a tal punto da spingere l’apostolo Paolo a trattare nella sua lettera ai Romani lo stesso argomento; alla fine del capitolo primo parla della corruzione del costumi insita nel paganesimo, ma all’inizio del secondo irrompe con un preciso avvertimento rivolto a chi si reputa migliore di loro: “O uomo, chiunque tu sia che giudichi, non sei scusabile perché, giudicando gli altri, tu condanni te stesso perché, pur giudicando, fai le stesse cose.(…) E credi che, giudicando quelli che fanno ciò che tu fai, potrai scampare dal giudizio di Dio?” (2.1,3). Ecco allora che tanto Gesù quanto Paolo non fanno riferimento al giudizio che viene espresso nei tribunali, o nella Chiesa che dovrebbe essere governata da persone mature e in grado di distinguere il bene dal male, ma proprio a quell’atteggiamento che scaturisce dall’ignoranza, dal voler vivere comodi nella propria piccolezza, da una voluta, mancata crescita spirituale. E tutto questo porta al trionfo della carne, terreno prediletto dell’Avversario. Non è condannando gli altri che possiamo trovare giustificazione ai nostri o al nostro stato di peccatori, ma caso mai ricercando in noi quei germi causa di comportamenti errati. Quando ero immaturo, anch’io ero pronto a giudicare i miei fratelli, ma lo facevo senza pensare che guardare le mancanze degli altri era un modo per non confrontare le mie alla luce della Parola di Dio.

Il giudicare cui fanno riferimento Nostro Signore e gli apostoli quando trattano l’argomento è proprio l’assenza di amore, della responsabilità che comporta l’essere credenti e si estende a tante altre cose perché il giudizio non è un’azione, ma un modo di essere, di vedere le cose, è un’impostazione di mentalità e quindi di vita. A conferma Giacomo, ponendo una situazione del tutto differente a quella del valutare gli altri alla luce della Parola di Dio, scrive così: “Supponiamo che entri in una vostra adunanza qualcuno con un anello al dito, vestito splendidamente, ed entri anche un povero con un vestito logoro. Se voi guardate a colui che è vestito splendidamente e gli dite «Tu siediti qui, comodo» e al povero dite «Tu mettiti in piedi lì» oppure «Siediti qui ai piedi del mio sgabello», non fate in voi stessi preferenze e non siete giudici dai giudizi perversi?” (2.3,4). E poco più aventi: “Parlate e agite come persone che devono essere giudicate secondo una legge di libertà, perché il giudizio sarà senza misericordia contro chi non avrà usato misericordia; la misericordia invece ha sempre la meglio sul giudizio” (vv.12,13). Una “legge di libertà” non è quella che tiene conto rigidamente di un principio, ma lo valuta e lo adatta alla realtà della persona, tiene cioè conto del vissuto di essa e degli elementi che hanno prodotto una determinata situazione. La “legge di libertà” non contempla il tollerare condotte o uno stile di vita basato sul peccato, ma tutto ciò che può essere messo in atto per l’accoglienza e la comprensione prima di quel famoso “sìati come il pagano e il pubblicano”, quello sì giudizio che penalizza la vita di chi non può più frequentare la comunità perché messosi contro di lei con azioni o metodi di pensiero a lei estranei. La misericordia, poi, è all’opposto del giudizio: la prima è un sentimento di compassione (cum-patire, cioè patire assieme identificandosi) attivo, il secondo comporta una sentenza che, se definitiva, non consente possibilità di appello. Se pensiamo alla grazia che Dio ha fatto all’uomo, che ha mostrato la Sua misericordia “facendosi carne e venendo ad abitare fra noi”, va da sé comprendere che il giudizio non ci compete.

Impegnàti quotidianamente a vivere, spesso non si pensa che si può sempre morire. Impegnàti quotidianamente a vivere spesso facendo le cose di sempre e con gli stessi impegni, sociali o di lavoro, prendiamo appuntamenti per i giorni che verranno e così lo scorrere del tempo sembra appartenerci con tutto ciò che ci circonda, compresi gli altri che giudichiamo senza riflettere. Più guardiamo per terra, più ne assorbiamo piccolezze e miserie. Molti, addirittura, preferiscono percorrere la facile ed ovvia strada dello sguardo basso, orizzontale, e in basso restano. Da qui deriva un facile giudicare e un facile misurare il cui esercizio viene fatto in modo quasi scontato. Illuminante in proposito l’episodio della donna adultera che molti volevano lapidare convinti di adempiere alla Legge e le parole di Gesù: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei” (Giovanni 8.7); il risultato fu “Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi” (v.9). Questo significa che c’è una coscienza che si può ascoltare, che guardarsi dentro è possibile e non lo si fa per pigrizia, perché giudicare gli altri è sempre più comodo che non rivolgere la stessa attenzione verso se stessi. A quell’imminente lapidazione erano presenti uomini di tutte le età e capirono che l’essere “senza peccato” era una condizione che contemplava due condizioni: la prima era l’essere esenti dalla colpa di adulterio, che può essere consumato materialmente o anche solo pensato, la seconda l’essere esenti da qualsiasi colpa, quindi santi, puri. E nessuno dei presenti si reputò tale. Fu così che nessuno fu in grado di lanciare per primo la sua pietra. Chi guarda dentro di sé scopre di avere un lavoro da fare a tal punto da non avere tempo per giudicare gli altri.

C’è però un errore ancor più grossolano che si può commettere ed è quello di avere la pretesa di togliere la pagliuzza dall’occhio altrui senza far caso che proprio noi abbiamo una trave. L’originale greco usato per “pagliuzza” è “kàrfos” che significa “piccola cosa secca, scheggia” per cui sta a significare le colpe minime, al contrario della trave. C’è poi il termine “Ipocrita” che Gesù spesso usa nei confronti dei Farisei e chi si identifica in loro: sappiamo che questi giudicavano il loro prossimo dall’alto della loro presunta santità. Si crogiolavano in lei a motivo dell’assiduità con cui pregavano e studiavano le Scritture, crescendo nella conoscenza, ma proporzionalmente anche nella ristrettezza mentale visto che non instauravano un rapporto col loro Dio e sconfessavano con le azioni ciò che professavano con le labbra. Ricordiamo infatti le parole “Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Fate dunque e osservate tutte le cose che vi diranno – perché teoricamente giuste– ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno” (Matteo 23.2,3). E per noi, oggi, i Farisei rappresentano quei credenti che studiano con impegno le Scritture, ma finiscono per inorgoglirsi e non mettono in pratica quello che scoprono, stabilendo princìpi che loro per primi non applicano. “Ipocrita” è la parola che come sappiamo indicava anticamente l’attore, chi recita quindi una parte e rappresenta un carattere che non ha.

Eppure, tolta la trave, si avrà la possibilità di veder bene e si sarà in grado di togliere il “kàrfos”. Abbiamo allora l’obbligo di chiederci sempre se non abbiamo un peccato non confessato e non lasciato davanti al Signore, perché altrimenti non saremmo in grado di insegnare e correggere costruttivamente gli altri. Diventeremmo dei teorici, persone dalle buone parole disgiunte dalla realtà, costruttori di ostacoli per noi stessi e il prossimo. Lasciare un peccato o una metodologia errata spaventa sempre la persona quanto è diventata parte integrante di lei ed è per questo che molti credenti sono solo degli ascoltatori della Parola di Dio, ma quasi mai dei fautori di essa: rimane lì, genera un misticismo carnale, vuoto, privo della pur minima consistenza. Soddisfacendo la parte più superficiale dell’anima, però, a molti va bene così.

Chi ha tempo per giudicare gli altri, solitamente non ha altro di meglio da fare. Si chiude nel proprio castello di convinzioni. È quasi sempre religioso e prende i modelli di comportamento come norme che vorrebbe vedere applicate dagli altri ma, come i personaggi citati da Nostro Signore, se ne tiene accuratamente alla larga convinto che basti conoscerli senza sperimentarli. Queste persone non sanno che “giudicare” significa fondamentalmente “discernere”, azione possibile solo dopo un lungo tirocinio spirituale, soprattutto dopo esperienze anche penose in cui si sono sperimentate cadute per debolezza, inavvertenza, ignoranza e, purtroppo, presunzione, leggerezza ed egoismo infantile che, negli adulti, è molto difficile eradicare. Così scrive l’apostolo Paolo nella sua prima lettera ai Corinzi: “L’uomo naturale non comprende le cose dello Spirito di Dio. Esse sono follia per lui e non è capace di intenderle, perché se ne può giudicare solo per mezzo dello Spirito. L’uomo spirituale invece giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno.” (2.14,15).

Giudicare ogni cosa. Scrive Giovanni Diodati a commento di questo verso “È discernere tutto ciò che è della verità di Dio intorno alla sua salvezza, senza che la sua fede soggiaccia ad alcun giudizio umano, essendo fondata sopra la certissima testimonianza dello Spirito Santo”. È anche, a mio parere, quella capacità di filtrare attraverso l’ottica dello Spirito quegli avvenimenti e quelle persone che ci coinvolgono ogni giorno. L’altro giudizio, quello sul prossimo, se va oltre il “discernimento degli spiriti” o quegli interventi che le persone possono sempre chiedere per avere un parere spirituale da uomini di fede ed esperienza provate, è un sostituirsi a Dio, definito “giusto giudice”. Per giudicare occorre conoscere il cuore umano e quindi ciò che ha portato o porta una persona ad agire in un certo modo. E tornando ai versi di Paolo, possiamo vedere che il giudizio corretto è quello dell’uomo spirituale, mentre quello naturale, proprio perché le cose dello Spirito di Dio non le comprende, non può far altro che sbagliare, e quindi giudicare gli altri a proprio esclusivo danno. L’uomo “naturale” si ritiene giusto senza esserlo. Fa del male, ma si meraviglia e offende quando lo riceve a sua volta. Privo di vita al di là del battito cardiaco, non sa agire in una dimensione diversa né gli interessa perché crede che Dio non esista e si affida a una falsa scienza per argomentare l’assenza e l’inesistenza del Creatore e del Suo piano di salvezza.

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