01.19 – LA FUGA IN EGITTO (Matteo 2.13-15)

01.19 – La fuga in Egitto (Matteo 2.13-15)

 

13Essi erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: «Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo».14Egli si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto, 15dove rimase fino alla morte di Erode, perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: Dall’Egitto ho chiamato mio figlio. 16Quando Erode si accorse che i Magi si erano presi gioco di lui, si infuriò e mandò a uccidere tutti i bambini che stavano a Betlemme e in tutto il suo territorio e che avevano da due anni in giù, secondo il tempo che aveva appreso con esattezza dai Magi. 17Allora si compì ciò che era stato detto per mezzo del profeta Geremia: 18Un grido è stato udito in Rama, un pianto e un lamento grande: Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata, perché non sono più.”.

 

I Magi, dopo la loro adorazione e aver lasciato i doni che consentiranno a Gesù e alla sua famiglia una vita dignitosa oltre al loro sostentamento nel periodo in Egitto, non verranno più nominati. Con la loro venuta e partenza da Betlehem si apre e si chiude una finestra su quella moltitudine di popoli che sarebbero stati chiamati e salvati in seguito. L’omaggio dei Magi, di cui non ci viene detto il nome né quanti fossero, è quello delle anime che aspettano l’adempimento del regno di Dio, di chi è conscio di un mistero che verrà rivelato un giorno. I Magi si basavano su pochi elementi, ma li seppero conservare con certezza aspettando quella stella ogni notte, in un buio solo apparente, amico. Metto sempre a confronto il mettersi in viaggio di quelle persone, che si fidarono solo della loro tradizione e fede, e il comportamento dei sapienti interpellati da Erode che, per nulla interessati dal racconto di quegli stranieri, risposero freddamente che il Messia sarebbe nato a Betlehem per poi tornarsene alle loro occupazioni, ai loro riti, alla gestione della propria ignoranza interiore, all’incapacità di distinguere, in quei testi davvero sacri orgogliosamente studiati, che era giunto il tempo in cui il regno di Dio sarebbe giunto a loro.

Il sogno dei Magi fu una rivelazione che dovette confortarli molto: tutti loro ricevettero lo stesso messaggio, ebbero la medesima visione, cosa umanamente impossibile; così, all’aver trovato la stella, al Re dei Giudei individuato e omaggiato, si aggiunse un ordine di Dio in sogno che osservarono. Considerata la continuità del triplice messaggio ricevuto – stella, Re e sogno -, alla parola data ad un re umano preferirono rispettare quella che il Re divino aveva rivolto a loro.

Subito dopo la partenza dei Magi abbiamo la quinta rivelazione dell’angelo, termine che non si riferisce ad un essere con ali e aureola, ma a un personaggio identificabile come un “messaggero”. Nessun profeta, tranne che nelle sue visioni riguardanti realtà soprannaturali che si svolgono in ambienti non umanamente raggiungibili, ha mai dato sugli angeli in terra descrizioni diverse da quelle di “uomini” talché l’autore della lettera agli Ebrei in 13.2 scrive “Non dimenticate l’ospitalità: alcuni, praticandola, hanno ospitato senza saperlo degli angeli”.

Rivelazioni angeliche precedenti al sogno di Giuseppe furono l’annunzio a Zaccaria, quello a Maria, a Giuseppe invitato a non lasciare la sua promessa sposa, quello ai pastori, e infine questo, che costituisce anche il secondo sogno di Giuseppe, che ebbe rivelata la volontà di Dio sempre in questo modo.

Va rilevato che la traduzione “sta cercando il bambino per ucciderlo” non è corretta ed è preferibile quella che recita “si accinge a cercare il bambino per eliminarlo” o, come traduce Diodati, “cercherà il bambino per farlo morire”. Anche Ricciotti scrive “sta per cercare il bambino”. La versione che ho scelto per il suo italiano più scorrevole, fa istintivamente pensare che Erode decise la “strage degli innocenti” a seguito di un attacco d’ira perché gabbato dai Magi. Dio invece, perfetto conoscitore degli eventi anche futuri, preavvisa il “padre” di Gesù quando ancora Erode progettava di eliminare il bambino e aspettava il rientro a palazzo della delegazione dei Magi.

La reazione di Giuseppe, uomo d’azione, è un esempio di fedeltà: destatosi, comprende la vitale importanza del sogno, sveglia la moglie, entrambi prendono le loro cose e partono in breve tempo affrontando una settimana circa di viaggio con un bimbo di pochi mesi raggiungendo a un certo punto l’antica strada carovaniera che costeggiava il Mediterraneo per poi raggiungere la Palestina e finalmente l’Egitto. Un viaggio duro ed estenuante caratterizzato dal caldo del deserto. È utile ricordare che lo stesso percorso, relativamente alla carovaniera, è citato da Plutarco che afferma che i soldati romani di Gabinio, una delle personalità più importanti del periodo che precedette la guerra civile tra Cesare e Pompeo, temevano quella traversata più della guerra che li aspettava in Egitto.

Giunti là, penso che la famiglia si sia stabilita vivendo dignitosamente perché aveva con sé l’oro portato in dono dai Magi venuti da oriente. Giuseppe, Maria e Gesù sarebbero rimasti in Egitto fino a quando il messaggero non fosse tornato, vale a dire alla morte di Erode il Grande, avvenuta pare per cancrena di Fournier. Scrive Giuseppe Flavio (Guerre Giudaiche 1,656) “…tutto il suo corpo fu preda della malattia, diviso tra varie forme di mali; aveva una febbre non violenta, un prurito insopportabile su tutta la pelle e continui dolori intestinali, gonfiori ai piedi come per idropisia, infiammazione all’addome e cancrena dei genitali con formazione di vermi, e inoltre difficoltà a respirare se non in posizione eretta, e spasmi di tutte le membra”.

Torniamo alla cronologia: Maria e Giuseppe erano partiti come i Magi prima di loro ed Erode attendeva, sempre più spazientito, fino a quando non comprese, di suo o perché informato dai suoi agenti sparsi ovunque – tra i quali c’erano anche persone “normali” che gli riferivano fatti e comportamenti dietro compenso – di essere stato ignorato. Credo che nulla possa fare infuriare di più un despota del non essere preso in considerazione. Credo che nulla possa preoccupare di più un simile personaggio del sapere della nascita di un rivale, a parte le considerazioni che abbiamo fatto nel precedente studio: la domanda che gli fu rivolta, “Dov’è il re dei giudei che è nato”, era un presagio nefasto che lo preoccupava e che vedeva abbattersi non solo su di sé, ma anche sulla sua discendenza, su tutto ciò che aveva fatto e costruito.

Erode, che allora non era ancora malato, è scritto che si infuriò e prese l’unica decisione per lui possibile, cioè uccidere tutti i bambini di Bethlehem dai due anni in giù e, non volendo sbagliare, abbondò nei calcoli possibili basandosi sui dati che i Magi gli avevano fornito sulla durata del loro viaggio e da quando avevano visto la stella. Ebbe così luogo quella conosciuta come “strage degli innocenti”, che è stato calcolato, in base agli abitanti di Bethlehem (un migliaio) e ai bambini maschi che potevano esservi, potesse avere fatto una ventina di vittime. Fu episodio che, per la scarsa rilevanza per la mentalità di allora e per le altre nefandezze di Erode, non fu riportato da nessuno storico, neppure da Giuseppe Flavio, nonostante gli fosse ostile.

Sicuramente possiamo dire che questa strage può costituire un primo segno di contraddizione, il primo “sasso su cui inciampare” di cui parlò Simeone: ci si può chiedere perché, se

Dio è tanto misericordioso, abbia permesso la morte di bambini innocenti trucidati, presumiamo, con la spada, causando tanto dolore in chi restava, le madri per prime. La domanda è simile a quella che molti si pongono ogni qualvolta avvengono fatti di cronaca che turbano la sensibilità e l’opinione pubblica, come i terremoti, le inondazioni, gli attentati in cui “pagano” persone innocenti. Ci si dimentica che il mondo, la vita che viviamo, da quando i nostri progenitori furono esclusi da Eden, non offre alcuna garanzia di sopravvivenza e che siamo soggetti a termine. Non abbiamo firmato, né noi, né chi per noi, un contratto che ci dice che la nostra vita sarà longeva e avrà una scadenza lontana nel tempo, che si concluderà quando saremo soddisfatti perché vedremo ogni nostro progetto realizzato, che ce ne andremo come Abrahamo, che morì “in felice canizie, vecchio e sazio di giorni” (Genesi 25.8). Al contrario, scrive Paolo ai romani, “Noi sappiamo che fino ad ora tutto il mondo creato geme insieme ed è in travaglio” (8.24). La vita che ogni essere umano vive non è esente da nessuna sofferenza: malattie più o meno gravi, progetti e intenti che naufragano, attitudini che raramente riescono ad esprimersi come vorremmo. La morte dell’innocente, che una volta ho sentito definire come “un mistero”, rientra purtroppo nei casi dell’esistenza di cui l’agente che la causa porterà la responsabilità, come in questo caso. Rientra nelle conseguenze del peccato, in quelle “spine e triboli” che avrebbe prodotto la terra ad Adamo, là dove per “terra” non si deve intendere solo il suolo, ma la vita sul pianeta in quanto tale che, dal momento in cui inizia, non può che finire. Solo in Eden, territorio che ricordiamo fu posto da Dio sulla terra e da lui stesso circondato con quattro fiumi, non vi era sofferenza né morte, così come non vi sarà nel Regno di Dio, nei “Nuovi cieli e nuova terra ove dimora stabile la giustizia”.

Quando leggo questo episodio mi viene solo in mente la speranza che chi abbia ucciso quei bambini sapesse come e dove colpire, anche se le guerre combattute da sempre conoscono orrori anche maggiori e penso che il peccato non può che produrre la morte. La morte, che non è detto sia rapida, può arrivare in qualunque momento e ad ogni età; è un aspetto di quel “giorno del Signore che arriva come un ladro di notte”: coglie di sorpresa. Così sarà il suo ritorno, così accade sempre per la sua chiamata attraverso il decesso: pochissimi sono quelli che si trovano preparati a riceverlo. Per noi quanto avvenuto in Betlehem è un fatto orribile, ma non per gli storici antichi i quali, rispetto alle nefandezze di cui si macchiò Erode, non lo riportarono neppure. C’è chi sostiene che l’episodio non sia avvenuto e che Matteo abbia voluto colorire il suo Vangelo con un racconto teso a dimostrare due profezie adducendo il pretesto che il re non avrebbe potuto emettere una condanna a morte senza l’approvazione del Sinedrio: di fatto, Giuseppe Flavio riferisce che, pochi istanti prima di morire, Erode fece uccidere molti insigni giudei nell’ippodromo di Gerico perché ci fosse chi piangesse nell’occasione della sua dipartita. E non chiese il permesso a nessuno.

La strage degli innocenti, a conferma della prudenza che il re ebbe nell’ordinarla, non avvenne solo a Betlemme, ma nel territorio circostante e Rama era nei pressi. Ecco perché il pianto di Rachele, moglie di Giacobbe e madre di Giuseppe e Beniamino che morì di parto e venne sepolta là, “sulla via di Efrata, cioè di Betlemme” (Genesi 35.19) è accomunato a quello delle madri degli innocenti; Rachele non era una donna comune, soffrì perché era sterile e non riusciva a dare una discendenza al marito, al contrario dell’altra di lui moglie Lea.

La permanenza in Egitto durò circa due anni, ed ecco il terzo sogno di Giuseppe col messaggero: aspettava l’angelo che gli aveva detto di restare in Egitto, dove c’erano comunque ebrei e sinagoghe, e che lo avrebbe avvertito di tornare. Ciò avvenne alla morte di Erode il Grande, avvenimento che adempie quel proverbio di Salomone che recita “L’empio è travolto dalla sua stessa malvagità, ma il giusto ha speranza nella sua stessa morte” (Prov. 14.32).

Ho chiamato mio figlio fuori dall’Egitto” è la profezia che Matteo ci ricorda e la troviamo in Osea 11.1, “Quando Israele era fanciullo, io l’amai e dall’Egitto chiamai mio figlio”: è un aggiornamento storico che ci offre il passaggio da quando il popolo si mosse da quel Paese avendo Mosè come conduttore, a quello attuale, il Cristo. Ricordiamo che Mosé si troverà a parlare con Gesù ed con Elia alla trasfigurazione (Matteo 17.1-13).

A questo punto leggiamo che Giuseppe, di cui non abbiamo tramandato nessuna parola, esecutore obbediente alle istruzioni ricevute da Dio, fu preso da timore quando seppe che, morto Erode, gli era succeduto Archelao, crudele come suo padre. Il regno di Erode, in forza del suo testamento poi ratificato e modificato da Augusto che non voleva che il titolo di re competesse ad alcuno dei suoi figli, fu diviso tra loro: ad Archelao toccarono Giudea, Idumea e Samaria; Antipa ebbe la quarta parte del regno con la Galilea e la Perea e a Filippo toccò la Batanea con l’Auranitide, la Traconide e una parte dell’Iturea. Un altro figlio di Erode, Filippo omonimo del precedente, non ebbe alcun governo ma visse a Roma da privato cittadino. Mentre Antipa e Filippo governarono il loro territorio per tutto il tempo della vita di Gesù ed oltre, Archelao fu accusato di tirannia presso Augusto che lo destituì esiliandolo a Vienna nelle Gallie.

Ecco, qui abbiamo il raccordo con Luca, che inserisce un versetto che fa da ponte tra le benedizioni di Simeone ed Anna e l’episodio che lo vede dodicenne tra i dottori della Legge: “Ora quando ebbero compiuto tutto quello che riguardava l’osservanza della legge del Signore, ritornarono in Galilea, nella loro città di Nazareth” (2.39). Interessante l’aggiunta che fa al verso successivo: “intanto il bambino cresceva e si fortificava nello spirito, essendo ripieno di sapienza, e la grazia di Dio era sopra di lui”.

Ecco, Matteo spiega come mai Maria e Giuseppe tornarono a Nazareth, un perché spirituale e non solo: Gesù sarebbe stato chiamato “Nazareno” sia perché proveniente da quel paese, sia perché la parola ebraica da cui deriva il nome, “netzer” (“germoglio, ramo”) ricorda Isaia 11.1 “Poi un ramoscello uscirà dal tronco d’Isai – padre di Davide – e un germoglio spunterà dalle sue radici. Lo Spirito dell’Eterno riposerà su di lui: spirito di sapienza e di intelligenza, spirito di consiglio e di potenza, spirito di conoscenza e di timor dell’Eterno”. Tutto iniziò da Nazareth, che ricordiamo come prima località visitata dall’angelo Gabriele quando annunciò a Maria che avrebbe avuto un figlio.

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01.16 – ASTRONOMI (Matteo 2.1-3)

01.16 – ASTRONOMI (Matteo 2.1-3)

 

1Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme 2e dicevano: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo.3All’udire questo, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme».”.

 

Dopo l’episodio di Simeone ed Anna, Luca scrive che “Quando ebbero tutto compiuto secondo la legge di Mosè, fecero ritorno alla loro città di Nazaret” (2.39). In realtà il loro ritorno a Nazareth avvenne dopo molto tempo perché Luca non riporta la visita dei Magi e il viaggio in Egitto intrapreso per sfuggire ai piani omicidi di Erode il Grande che ci racconta Matteo. Ecco allora che Luca vuole dirci che la Nazareth fu raggiunta dai tre non dopo il rito della circoncisione di Gesù, ma piuttosto che ci furono altri avvenimenti omessi, riassunti nel verso “Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era sopra di lui” (Luca 2.40). Mentre Matteo ci parla dei Magi e della fuga in Egitto, Luca pone tre tappe, circoncisione – Nazareth – Gesù che cresce, e quel “la grazia di Dio era sopra di lui” contempla la protezione a lui accordata nei due periodi di cui parla Matteo.

Venendo al testo in esame, possiamo dire che è più impegnativo di quanto possa sembrare e ci rimanda agli scritti e alla persona del profeta Daniele perché tra lui e i Magi c’è un rapporto di continuità: i Magi provenivano “da Oriente”, una zona molto vasta che comprendeva la Mesopotamia, la Persia e il deserto siro-arabico. I Magi costituivano la classe sociale più elevata dopo re e prìncipi ed erano sacerdoti dello zoroastrismo, versati nelle scienze di allora con particolare riguardo per l’astronomia che studiavano da secoli ogni notte suddivisi in turni. Nelle loro terre erano considerati i rappresentanti di un sapere superiore e ritenevano il cielo notturno una sorta di grande finestra attraverso la quale leggere il volere degli dèi. È stato detto che fossero astrologi, definizione che però non può raccordarsi ai nostri odierni, così esperti nel redigere prognostici assolutamente generici, quindi adattabili alla realtà di quelli che li consultan. I Magi di allora erano convinti che per ogni persona che nascesse vi fosse una stella – ricordiamo le parole “Abbiamo visto spuntare la sua stella” – che in qualche modo la guidava o proteggeva, ma la loro conoscenza di quell’astro così specifico che attendevano poggiava le sue basi proprio sulle profezie e gli insegnamenti di Daniele, attivo a Babilonia circa 600 anni prima di loro.

Il fatto che abbiano detto “La sua stella” testimonia che quei sapienti fossero assolutamente certi che il fenomeno che avevano osservato dovesse ricondursi alla nascita del Saošyant, il salvatore del mondo che aspettavano e sapevano doveva arrivare.

Credo che per capire il loro pensiero vada dato uno sguardo alle loro credenze: la religione che professavano era monoteista ed era stata fondata da Zarathustra prima del VI sec. a.C. (ma c’è chi la fa risalire al XVIII). Era riconosciuto un unico creatore, “Signore dell’esistenza e della vita attraverso il Suo operare” (Avesta Iasna 31.8) e si sosteneva un continuo confronto fra Bene e Male prevedendo la “Vita” e la “Migliore Esistenza” per chi avesse seguito il primo, o la “Non-Vita” e la “Peggiore Esistenza” (Ibid. 30.3,4) per chi avesse fatto la scelta opposta. Soprattutto Zarathustra, loro profeta, sosteneva che alla fine dei tempi sarebbe giunta una figura messianica che avrebbe guidato le forze del bene alla vittoria e alla redenzione del cosmo. I Magi quindi aspettavano, secondo i loro testi sacri, un redentore, un salvatore. Resta il perché cercassero proprio “il re dei giudei che è nato”, domanda rivolta agli abitanti di Gerusalemme con assoluta certezza. E qui entra il profeta Daniele.

Daniele, il profeta, il cui nome significa “Dio giudica”, o “Dio è mio giudice”: fu deportato a Babilonia da Nabucodonosor dopo la distruzione di Gerusalemme del 586 a.C. unitamente ai nobili della città e ai migliori giovani del regno di Giuda perché fossero al suo servizio. Daniele e altri giovani (Anania, Misael e Azaria che in seguito furono chiamati con nomi babilonesi) furono istruiti alla corte del re per tre anni, periodo che la Scrittura descrive così: “Dio concesse a questi quattro giovani – cioè i tre più Daniele – di conoscere e comprendere ogni scrittura e ogni sapienza, e rese Daniele interprete di visioni e sogni. (…) Su qualunque argomento in fatto di sapienza e di intelligenza il re li interrogasse, li trovava dieci volte superiori a tutti i maghi e indovini che c’erano in tutto il suo regno” (Daniele 1.17,20).

Percorrendo brevemente il libro di questo profeta, ci rendiamo conto che molti furono gli episodi tramandati dalla storia di corte e che interessarono i sapienti della sua epoca, i Magi di allora: pensiamo all’interpretazione dei sogni del re sul futuro del suo regno, l’episodio in cui i tre amici di Daniele furono gettati nella fornace senza subire alcun danno (3.46-50) oltre alle sue profezie che i Magi di allora tramandarono a quelli che poi si recheranno a Gerusalemme alla ricerca del “Re dei giudei che è nato”.

La prima profezia si trova in 7.13-14: “Guardando ancora nelle visioni notturne, ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d’uomo; giunse al vegliardo e fu presentato a lui. Gli furono dati potere, gloria e regno, tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano: il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai, e il suo regno non sarà mai distrutto”. La seconda è la profezia delle settanta settimane di anni che molti, Newton compreso, hanno cercato di comprendere; si tratta di pochi versi che riassumono tutta la storia umana dal tempo di Daniele fino alla fine del mondo che conosciamo e vanno letti a volte in termini matematici, in altre per simboli o per quadri.

Le “settanta settimane” vanno divise in varie sezioni, la prima delle quali è introduttiva: “Settanta settimane sono fissate per il tuo popolo e per la tua santa città per mettere fine all’empietà, mettere i sigilli ai peccati, espiare l’iniquità, stabilire una giustizia eterna, suggellare visione e profezia e ungere il Santo dei Santi” (9.24). Qui abbiamo l’annuncio del tempo che Dio ha stabilito sull’umanità prima che la totalità del Suo piano si compia. Si tratta di un tempo suddiviso in quattro periodi storici precisi: il primo, della durata di sette settimane, è descritto così dall’angelo Gabriele: “Sappi e intendi bene: da quando uscì la parola sul ritorno e la ricostruzione di Gerusalemme fino a un principe consacrato, vi saranno sette settimane” (v.25). Si tratta di un preciso riferimento all’editto di Artaserse II che, nel 445 a.C., autorizzò la ricostruzione della città santa e la ricostruzione delle sue mura. Il “principe consacrato” è poi identificabile in Esdra, sacerdote e scriba considerato dagli israeliti come il personaggio più importante dopo Mosè perché Esdra tornò a Gerusalemme con altri capi del popolo e costituì il nuovo stato ebraico.

Il secondo periodo storico è rappresentato da 62 settimane così descritte: “Durante sessantadue settimane saranno restaurati, riedificati piazze e fossati, e ciò in tempi angosciosi”; questo si riferisce a tutti gli avvenimenti che caratterizzarono lo sviluppo spirituale della città, non tanto quello materiale per il quale 434 anni (62×7) appaiono decisamente troppi.

Le 62 settimane, quindi 69 calcolando le 7 precedenti, terminano con la crocifissione di Gesù quando leggiamo “Dopo sessantadue settimane, un consacrato sarà soppresso senza colpa in lui; il popolo di un principe che verrà distruggerà la città e il santuario; la sua fine sarà un’inondazione e, fino alla fine, guerra e desolazioni decretate” (v.26). In questo verso viene citata anche la distruzione di Gerusalemme dalle truppe romane di Tito avvenuta nel 70 d.C.. Ora occorre fare una sottolineatura fondamentale, e cioè: mentre il testo ha una precisione pressoché chirurgica nel dividere le prime sette settimane dalle altre 62, così non avviene tra la 69ma e la 70ma. In questo “cuscinetto”, in questo spazio, si inserisce la dispensazione della grazia che è, come mi diceva un amico, “quel periodo in cui il peccatore ha il diritto, convinto dallo Spirito Santo di peccato, giustizia e giudizio, di essere salvato indipendentemente dal suo stato sociale, etnico o geografico”.

Notiamo la fine di Gerusalemme che avverrà, come altri traducono, “con un’inondazione” o “come per inondazione” a sottolineare la violenza e la moltitudine che si scatenerà su di essa. Leggendo il verso, poi, vediamo che c’è un’altra “fine” vista nell’espressione “fino alla fine, guerra e desolazioni decretate” che a mio parere sono il riassunto, in prospettiva, di tutte le sofferenze e vicissitudini che il popolo ebraico subirà nella storia.

L’ultima settimana, la 70ma, non è citata chiaramente, ma la si distingue con facilità perché caratterizzata da due periodi di uguale durata: “Egli stringerà una forte alleanza con molti per una settimana e, nello spazio di metà settimana, farà cessare il sacrificio e l’offerta; sull’ala del tempio porrà l’abominio della desolazione e ciò sarà fino alla fine, fino al termine segnato sul devastatore” (v.27). Trovo qui un accenno a quell’epoca di falsa pace mondiale proclamata dal “Figlio della perdizione” (tre anni e mezzo, la metà settimana) e all’altra, a lui seguente e opposto, di pari durata in cui avverranno i gravi giudizi che Dio manifesterà su tutta la terra che troviamo descritti nei capitoli da 6 a 18 dell’Apocalisse.

Mi rendo conto di aver aperto una finestra verso una trattazione dagli sviluppi enormi che qui non è possibile affrontare; parlare della profezia di Daniele ha qui senso perché questo profeta, citato molte volte anche nella letteratura ugaritica, quindi della Mesopotamia e per estensione d’Oriente, non parlava solo con il re, ma anche con gli alti membri della corte essendo lui stesso uno di loro. Con queste persone il profeta aveva un rapporto quotidiano e certo disse ben di più di quello che troviamo scritto nel suo libro. Ad esempio, non sappiamo quali furono le domande che il re rivolse a quei giovani per trovarli dieci volte più sapienti degli uomini validi di cui si era circondato.

Daniele era l’uomo della rivelazione, una persona in cui la sapienza divina non era disgiunta da quella umana e, a contatto con la cultura della corte, la estese e la ampliò, certamente estendendo la profezia di Balaam sul salvatore quando disse “Io lo vedo, ma non ora; io lo contemplo, ma non da vicino: una stella spunta da Giacobbe, uno scettro sorge da Israele” (Numeri 24.17). Teniamo presente che Daniele non svolse il suo ministero per poco tempo, ma rimase anche nelle corti di Baldassar, figlio di Nabucodonosor, e in quella di Dario il Medo, per cui i suoi insegnamenti orali furono certamente molti e vennero tramandati proprio dai sacerdoti e dai sapienti locali, i Magi appunto, che a loro si dedicarono cercando di trattenerli e comprenderli per quanto potessero. Sapevano che dovevano attendere la stella che sarebbe “spuntata da Giacobbe”.

I Magi che arrivarono a Gerusalemme avevano nel loro bagaglio culturale la nozione, presente nella cultura dell’epoca, di un radicale cambiamento politico e sociale derivato dalla nascita di un re che, secondo le profezie in loro possesso, doveva appartenere al popolo di Israele. Ecco quella che potremmo definire “L’eredità di Daniele”! Per questo osservavano il cielo ogni notte, sfruttando le loro conoscenze plurisecolari: erano persiani, forti delle tradizioni astronomiche babilonesi che per prime divisero in dodici – notare il numero – settori uguali le costellazioni attraversate dal sole e dal pianeti (lo zodiaco). Già nel I millennio a.C. i babilonesi avevano rappresentato graficamente la precessione degli equinozi, cioè lo spostamento dell’asse attorno al quale la terra compie la sua rotazione giornaliera.

Chi era profondamente interessato a questi fenomeni, non poteva essere un astrologo. Chi osservava le stelle come loro, sapeva vedere e soprattutto cercare in quel cielo notturno così diverso dal nostro, oggi inquinato tanto da sostanze quanto dalla luce artificiale. Sappiamo che i Magi videro “la sua stella” e qui si scatenarono molte ipotesi prima tra le quali una cometa, la cui idea comparve per la prima volta con Giotto, che vide quella di Halley nel 1301 e la dipinse nella cappella degli Scrovegni a Padova proprio nell’episodio dell’adorazione dei magi. Johannes Keplero nel 1604, per spiegare la stella, propose l’idea dell’esplosione di una nova e di una supernova perché ne vide una in quell’anno, ma per capire correttamente la “stella” vista dai Magi occorre considerare il fenomeno luminoso che si manifestò a seguito alla triplice congiunzione Giove – Saturno nella costellazione dei pesci che avvenne attorno al 7 a.C.: troppo presto? Troppo tardi? La data non deve turbare più di tanto perché Dionigi il Piccolo, cercando di stabilire l’anno 1 coincidente con la nascita di Cristo, fece un errore di calcolo sbagliando di qualche anno e non possiamo sapere quando Nostro Signore effettivamente nacque.

Una triplice congiunzione si ha quando un incrocio di pianeti si verifica per tre volte: nel cielo uno supera l’altro, poi torna indietro per il moto apparente della terra per poi superarlo nuovamente. Due astronomi dell’Università di Genova, Giuseppe Veneziano e Mario Codebò, hanno ricostruito al calcolatore il cielo che dovettero osservare i Magi a partire dal 4 giugno del 7 a.C.: appare chiaramente il moto retrogrado dei pianeti da Est verso Ovest e altrettanto chiaro è il fatto che, se quei sapienti si fossero mossi per seguirlo, sarebbero giunti in Palestina. Una cometa non avrebbe mai potuto “fermarsi”, mentre la congiunzione sì, nel caso in cui avesse terminato il suo moto retrogrado per riprendere quello diretto.

I Magi fecero un tragitto impegnativo e faticoso di circa 800 km dalla Persia a Gerusalemme, percorrendo la via della seta presumibilmente ad un ritmo di 30-35 km al giorno, portando doni che dimostrarono la comprensione del fatto che quel “potere, gloria e regno” che avrebbe avuto il “Re dei Giudei che è nato” era di natura spirituale e non politica.

C’è poi un secondo personaggio che già abbiamo incontrato, Erode il Grande. La carovana dei Magi era giunta a Gerusalemme e all’inizio non dovette avere fatto molto scalpore perché in città era frequente assistere all’arrivo di carovane e pellegrini in occasione delle feste comandate; c’era però quella domanda su dove fosse il re del giudei che era nato e soprattutto lo scopo dichiarato di quella ricerca: “abbiamo visto la sua stella e siamo venuti ad adorarlo”. Nessuno condivise il loro entusiasmo. Al contrario abbiamo letto che quel loro informarsi con insistenza generò turbamento tanto in Erode quanto negli abitanti della città, che più che far caso al ricercare dei Magi iniziarono a temere le conseguenze delle loro domande, gli effetti che quelle avrebbero avuto sul tiranno che, sentendosi minacciato nel suo potere, chissà quali rappresaglie o crudeli iniziative avrebbe potuto mettere in atto. Il verso successivo di Matteo infatti ci dice che Erode, saputo il motivo dell’arrivo dei Magi in città, riuniti “tutti – nessuno escluso – i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo”. Poi, facendo in modo di non allarmarli, li convocò in segreto per approfondire ulteriormente con lo scopo di perfezionare il proprio piano per uccidere Gesù. Erode non s’interessò di quella nascita. Non lui, non gli abitanti di Gerusalemme. Ma degli estranei, rappresentanti di un sapere antico e lontano, figura dei popoli che Dio riunirà, sì.

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