05.24 – OCCHIO PER OCCHIO II/II (MATTEO 5.38-42)

5.24 – Occhio per occhio II (Matteo 5.38-42)

38Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente. 39Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra, 40e a chi vuole portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. 41E se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due. 42Da’ a chi ti chiede, e a chi desidera un prestito da te non voltar le spalle”.

  Due mondi a confronto. Mondi diversi, incompatibili. Così distanti esattamente come la luce dalle tenebre. Ma sappiamo che la prima cosa a venire creata fu lei e ciò avvenne tramite un ordine di Dio, quindi essa, considerata come realtà fisica, non apparteneva alla condizione originaria, allo stato veramente naturale in cui si trovava il nulla, quel “deserto e vuoto” con “le tenebre che ricoprivano la faccia dell’abisso”; senza quel “sia la luce”, esse sarebbero ancora lì, nella loro immobilità e immutabilità. Si può dire allora che, con le parole che abbiamo letto in Matteo, Gesù contrappone il comportamento di chi appartiene alle tenebre a quello di chi si identifica nel loro esatto opposto. E vive.

Allora Nostro Signore esorta i suoi uditori a un comportamento non da persona pacifica, buona o debole, ma proporzionale all’acquisizione del principio di appartenergli. Attenzione che tutto questo riguarda la persona nella profondità del proprio essere, è qualcosa di individuale, a nessuno è ordinato di rinunciare a difendere i propri cari o il proprio legittimo ambito operativo; piuttosto a comportarsi tenendo sempre presente chi si è, la dignità acquisita come figli di Dio: apparteniamo alla Chiesa, cioè siamo stati fatti “concittadini dei santi, e membri della famiglia di Dio”? Il nostro vero mondo è un altro, forma un tutt’uno con la nostra destinazione, il nostro essere che, nel suo esprimersi, nel momento in cui vive spiritualmente, va da sé che si distacchi profondamente, anche nelle sue reazioni, dal sentire e dall’agire comune.

Le parole di Gesù sono indirizzate a persone che avevano una base culturale diversa dalla nostra: sapevano che doveva arrivare un inviato di Dio, la loro vita non aveva né i nostri ritmi né i nostri tempi, era diffusa la certezza dell’aiuto di Dio e del principio della responsabilità individuale nei rapporti con Lui, della benedizione o della maledizione a seconda di come si operava. Ecco allora che, citando la tunica che si portava sopra la camicia, e soprattutto il mantello, era implicito il riferimento alla Legge che ammoniva così: “Se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo, glielo renderai prima del tramonto del sole perché è la sola sua coperta, è il mantello per la sua pelle: come potrebbe coprirsi dormendo? Altrimenti, quando griderà verso di me, io l’ascolterò, perché sono pietoso”(Esodo 22.6).

Notiamo da questo verso che c’è un principio di giustizia visto nel fatto che l’”Io sono”, rivelatosi al popolo d’Israele come il liberatore dalla schiavitù d’Egitto, quindi con “mano potente”, provvede di fronte alle rimostranze del povero che chiede giustizia. Rileggiamo il verso: “Altrimenti– se non ti comporti rispettando il tuo prossimo nelle sue esigenze elementari – quando griderà verso di me– perché mi riconoscerà come l’unico Giudice – io lo ascolterò– e tu ne subirai le conseguenze – perché sono pietoso– e imparerai a tue spese cosa vuol dire fargli violenza”.

Il fatto che Dio interviene a difesa è una cosa che raramente si tiene presente. Ci sono persone che sono sempre pronte a pregare unicamente per le proprie necessità quasi come per fare degli scongiuri, ma non riflettono su quanto è presente di Dio nella loro vita, su quale posto gli lasciano occupare, distratti come sono dalle problematiche quotidiane. Sono persone ancorate alla consuetudine, ma ancora di più alla loro storia umana, alle proprie vicissitudini perché sono costantemente sotto tensione. Non consentono alla Grazia di agire in loro trasformandoli.

Ricordiamo sempre che i comportamenti di cui parla Nostro Signore nel passo su cui riflettiamo hanno senso esclusivamente perché c’è promessa difesa da parte Sua e che comunque la Legge, molto spesso “maltrattata” negli studi cristiani cui le si attribuisce esclusivamente un peso, si preoccupava di regolare anche i rapporti tra le persone. Prendiamo ad esempio Numeri 5.6: “Quando un uomo o una donna commette qualsiasi offesa contro qualcuno, così facendo commette un peccato contro il Signore e questa persona si rende colpevole”. Possiamo vedere anche Deuteronomio 24.12-18 che trascrivo in parte: “Se quell’uomo è povero, non andrai a dormire col suo pegno. Dovrai assolutamente restituirgli il pegno al tramonto del sole, perché egli possa dormire col suo mantello e benedirti. Questo ti sarà contato come un atto di giustizia agli occhi del Signore, tuo dio. Non defrauderai il salariato povero e bisognoso, sia egli uno dei tuoi fratelli o uno dei forestieri che stanno nella tua terra, nelle tue città; gli darai il suo salario il giorno stesso, prima del tramonto del sole, perché egli è povero e a questo aspira. Così egli non griderà al Signore e tu non sarai in peccato. (…) Non lederai il diritto dello straniero e dell’orfano e non prenderai in pegno la veste della vedova. (…) Quando facendo la mietitura nel tuo campo, vi avrai dimenticato qualche mantello, non tornerai indietro a prenderlo: sarà per il forestiero, per l’orfano e per la vedova. Quando vendemmierai la tua vigna, non tornerai indietro a racimolare. Sarà per il forestiero, per l’orfano e per la vedova. Ricordati che sei stato schiavo nella terra d’Egitto, perciò ti comando di fare questo”. È un verso che è già stato citato, ma non fa male reinserirlo. E il motore di tutto qui è il ricordo della condizione in cui si versava un tempo, che provoca l’immedesimazione nella sofferenza del forestiero, dell’orfano e della vedova. E ciò che causa la reazione penalizzante di Dio è proprio il non ricordare ciò che eravamo rapportandolo a ciò che siamo, come nella parabola del creditore spietato.

È un verso, quello dell’immedesimazione nella altrui sofferenza e aspettative, che ci consente di rilevare la temperatura morale e spirituale del tempo in cui viviamo, poiché chi governa è andato molto oltre rispetto agli egoismi e alle nefandezze che i despoti del tempo biblico commettevano. Alla violenza primitiva, alle prepotenze chiaramente riconoscibili proprio perché si manifestavano attraverso di essa, se ne è sostituita una molto più apparentemente morbida, subdola, che non uccide ma spinge all’omicidio di sé o di altri. Annienta e falcia. È un processo irreversibile come i deterioramenti della terra su cui camminiamo, avvelenata e prossima ad esaurirsi, o della vera dignità della persona, a meno che non si rivolga all’Unico in grado di elevarla.

Rientro in tema e riporto le parole di un commento al passo sul “non resistere al malvagio” che stiamo meditando: “Le razionalizzazioni delle parole di Gesù non mostrano che le sue parole sono impraticabili o esagerate, ma semplicemente che il mondo cristiano non è mai stato disposto e non lo è tuttora a vivere secondo questa etica”. Sono parole che riflettono una condizione di malattia spirituale, poiché le esortazioni a comportarsi diversamente dall’umanamente ordinario non solo le troviamo scritte da Pietro e da Paolo, ma era un principio praticato nella Chiesa primitiva.

Arriviamo così al terzo caso, quello esposto al verso 41, che allude a un servizio forzato o alla presenza di un dominatore straniero. Il parallelo con l’Egitto è inevitabile: Israele non ottenne la libertà con una sommossa e neppure fu liberato da Mosè come condottiero “puro ed eroico”, ma da Dio che dispose gli eventi in modo tale che determinati avvenimenti si verificassero. Teniamo presente che la traduzione che usiamo in questo caso è molto sbrigativa: l’esempio non è di una persona prepotente che vuol costringere un’altra a percorrere un miglio, ma di chi requisisce arbitrariamente, in virtù della sua superiorità militare, uomini o bestiame per i suoi scopi. Chi aveva l’autorità per requisire era solitamente un corriere pubblico o un portatore di dispacci che si chiamava “Angàrios” da cui il verbo “Angaréuo” che significa “costringere qualcuno a fare un viaggio”. Da lì viene il nostro “angariare”. Ora gli ebrei, notoriamente, rifiutavano qualsiasi servizio al dominatore romano (teniamo presente come consideravano i pubblicani e le dispute sul fatto se fosse lecito o meno pagare le tasse) e quindi l’esortazione a percorrere due miglia anziché uno aveva molto da dire a chi aveva quel tipo di atteggiamento. E un miglio era l’equivalente di mille passi. È chiaro allora che impuntarsi per ragioni di principio non porta da nessuna parte, anzi, offrire un’assistenza per il doppio di quanto richiesto può costituire una testimonianza che vada a beneficio dell’angariante.

E arriviamo al quarto punto, quello del dare. Quattro sappiamo che è sinonimo di completezza umana e qui sono ritratti gli aspetti possibili del reagire. Come ci può essere chi è reattivo a fronte di un’aggressione perché forte di costituzione e chi invece è più incline a subire, così possiamo avere chi è attaccato alle proprie cose a tal punto da volerle tenere sempre per sé, accumularle. Purtroppo, “è mio” non lo dicono solo i bambini capricciosi, ma il voler possedere uomini o cose è una caratteristica del nostro genere. Anche qui gli ascoltatori di Gesù avevano un retroterra culturale che noi non abbiamo: “Il malvagio prende in prestito e non restituisce, ma il giusto ha compassione e dà in dono”(Proverbi 3.27,28). Ancora: “Chi ha pietà del povero fa un prestito al Signore, che gli darà la sua ricompensa”(19.17).

Viene così rinnovato per la quarta volta il principio della responsabilità. Siamo esortati a dare a chi ci chiede e a non voltar le spalle a chi desidera un prestito da noi, facendo però attenzione a non generalizzare il tutto sotto un falso buonismo, ma a considerare le necessità della persona: “A quelli che sono ricchi in questo mondo ordina di non essere orgogliosi, di non porre la speranza nell’instabilità delle ricchezze, ma in Dio, che tutto ci dà con abbondanza perché possiamo goderne. Facciano del bene, si arricchiscano di buone opere, siano pronti a dare e a condividere: così si metteranno da parte un buon capitale per il futuro, per acquistarsi la vera vita”(1 Timoteo 6.17,18).

Ecco, questo è un verso adatto per concludere queste riflessioni. Paolo scrive a Timoteo, suo discepolo e compagno d’opera, ricordandogli il tipo di esortazione da fare ai ricchi in denaro: non avrebbero dovuto essere orgogliosi, cioè ritenersi migliori di altri perché avevano una posizione sociale rilevante e quindi far leva sulle loro amicizie altolocate ed esclusive, né porre la speranza nella loro ricchezza, definita “instabile” perché può essere perduta (rubata, requisita, distrutta). Soprattutto Dio può chiamarli a sé senza dar loro l’opportunità per goderne, come nella parabola del ricco stolto. Avere ricchezze significa esserne dominati perché ci si deve adoperare affinché crescano, fruttino, non si svalutino e spesso il pensiero di perdere il denaro investito logora chi se ne occupa. La mentalità del mondo non comprende chi si comporta diversamente da lei perché chi appartiene al suo sistema si trova automaticamente inserito in una morale che non contempla favorire il prossimo, ma difendersi da lui a prescindere. È la legge della sopravvivenza espressa nell’antico adagio “mors tua, vita mea”.

Poi c’è qualcosa di illuminante, che riguarda la collettività a prescindere dalla eventuale ricchezza di ciascuno, cioè che la speranza va posta “in Dio, che tutto ci dà con abbondanza”, dove “tutto” e “abbondanza” dichiarano che quanto abbiamo come cristiani è progettato, costruito su misura per noi. C’è tutto un insegnamento riguardo alle sollecitudini ansiose sul mangiare, bere e vestirsi che Gesù tratterà proprio in questo sermone sul monte e verrà espresso in parte nel “Padre nostro” e in altri versi a seguire. Lo scopo del dare con abbondanza di Dio è “perché possiamo goderne” e ringraziare. Nessuno crederebbe in Cristo se non avvertisse su di sé le attenzioni e l’amore del Padre.

Ebbene, anche ai ricchi conosciuti da Timoteo è raccomandato di non considerare i loro averi come qualcosa di esclusivo, ma “siano pronti a dare e a condividere” là dove è quel “pronti” che qualifica la disposizione d’animo.

Gesù quindi dà ai suoi uditori e a noi, ancora una volta, gli elementi per crescere e mettere in pratica un altro aspetto della loro vita spirituale.

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05.23 – OCCHIO PER OCCHIO (I/II) (Matteo 5.38-42)

5.24 – Occhio per occhio I (Matteo 5.38-42)

38Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente. 39Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra, 40e a chi vuole portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. 41E se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due. 42Da’ a chi ti chiede, e a chi desidera un prestito da te non voltar le spalle”.

Con il quarto intervento di Gesù quale Rabbi sulla Legge che era venuto ad adempiere, si esce dal commento al decalogo per approfondire molti temi a partire da Esodo 21.22-25 dove troviamo enunciato per la prima volta che il  colpevole di una lesione al suo prossimo, la doveva subire nello stesso modo: “Quando alcuni uomini litigano e urtano una donna incinta, così da farla abortire, se non vi è altra disgrazia, si esigerà un’ammenda, secondo quanto imporrà il marito della donna, e il colpevole pagherà attraverso un arbitrato. Ma se segue una disgrazia, allora pagherai vita per vita: occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede, bruciatura per bruciatura, ferita per ferita, livido per livido”. Questo principio viene poi ribadito in Levitico 24.19-21 e in Deuteronomio 19.21, dove lo troviamo nella sua essenzialità: dopo le regole per i testimoni in processo, leggiamo “Il tuo occhio non avrà compassione: vita per vita, occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede”.

Premessa importante: Israele non aveva un codice legislativo come altri popoli, vedi ad esempio il noto “Codice di Hammurabi” in uso presso i Babilonesi (che comunque arrivarono secondi). Tutto ciò che gli israeliti avevano era la serie di regole, precetti e norme che Mosè aveva ricevuto e trasmesso contemplanti minuziosamente ogni aspetto della vita di relazione con Dio e tra gli uomini. Do a questo punto una lettura molto superficiale: in un periodo storico che potremmo definire di barbarie e molto primitivo, il principio in base al quale chi causava – ad esempio – una ferita doveva provare lo stesso dolore su di sé per capire cosa questo significasse e non farlo più, poteva essere comprensibile. Era però quella la stessa epoca in cui pensare al proprio simile era non meno raccomandato che ricambiare “livido per livido”: “Quando facendo la mietitura nel tuo campo, vi avrai dimenticato qualche mantello, non tornerai indietro a prenderlo: sarà per il forestiero, per l’orfano e per la vedova. Quando vendemmierai la tua vigna, non tornerai indietro a racimolare. Sarà per il forestiero, per l’orfano e per la vedova. Ricordati che sei stato schiavo nella terra d’Egitto, perciò ti comando di fare questo” (Deuteronomio 24.19-22). Il Codice di Hammurabi citato, databile attorno al 1750 a.C., risentiva delle influenze della Legge di Mosè; ad esempio leggiamo che “I poveri, le vedove e gli orfani sono posti sotto la tutela dello Stato. Le donne sono protette contro i maltrattamenti del marito, in favore dei lavoratori viene alzato il salario e sono stabiliti i giorni di riposo annuali” e veniva applicata la legge del taglione cui Gesù ha fatto riferimento nel passo in esame.

Va poi anche aggiunto, riguardo a Israele, che la giustizia era intesa in modo differente dal nostro: chi svolgeva l’attività di giudice era uno che, esercitandola, a prescindere dalla condanna liberava la persona dall’ingiustizia e dall’oppressione. C’erano così Anziani e Giudici che, prima di emettere una sentenza, indagavano a fondo ascoltando i testimoni a seconda dell’importanza delle cause da trattare. Ai tempi di Gesù l’applicazione della legge del taglione, lungi dall’essere ristretta nelle possibilità dei magistrati che ne ordinavano l’applicazione in determinati casi, era stata estesa liberamente ai singoli concedendo loro di farsi giustizia da sé. “Occhio per occhio e dente per dente” è allora il riassunto di un modo di ragionare, oltre che di un passo scritturale indicatore di un periodo per noi passato.

Dobbiamo prestare attenzione al fatto che Nostro Signore non attacca la Legge in quanto tale, ma l’uso improprio che se nei faceva essendo la vendetta a quel tempo vista come un diritto – dovere. In questo modo, privato della sentenza di un Giudice o degli Anziani, chi si rendeva colpevole di un’offesa fisica poteva subire quella dei parenti dell’offeso ai quali non pareva vero di poter sfogarsi sul malcapitato, ritenuto colpevole senza giusto processo.

Teniamo sempre presente che ogni principio scritturale non può essere estrapolato dal contesto per giustificare l’azione che in esso si sostiene, ma va armonizzato con gli altri: infatti la stessa Legge che ha dato il principio dell’”occhio per occhio”, prima ancora di ripeterlo (Levitico da Esodo), dice “Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore” (Levitico 19.18). La Legge quindi non è solo violenza, punizione e annullamento, così come Nostro Signore non amputa, ma cauterizza, non taglia l’albero che il padrone della vigna vorrebbe eliminare, ma lo concima e gli sistema il terreno attorno per farlo prosperare; non abolisce, ma adempie, completa, rende perfetto ciò che l’essere umano non sarebbe mai stato in grado di compiere.

Il Suo discorso sulla legge del taglione parte da lì, la cita e subito affronta, nei restanti versi, quattro distinti aspetti che riguardano la sfera della persona attraverso espressioni indubbiamente forti che verranno poi sviluppate dagli apostoli Paolo e Pietro. Tutto parte dal principio “Non contrastate il malvagio”, cioè chi perseguita in un modo o in un altro. Dopo questa esortazione, abbiamo la violenza fisica (v.39), la contesa legale (v.40), il lavoro o servizio forzato (v.41) e infine la richiesta di regali o prestiti (v.42).

Prima di esaminare i quattro casi proposti da Gesù, consideriamo ancora una volta che si rivolgeva a un popolo religioso o, meglio ancora, composto da persone che comunque erano educate a far riferimento a quell’Iddio che tante volte veniva pregato, adorato, seguito nelle feste che si celebravano più volte all’anno (finora abbiamo visto solo la Pasqua) ed aveva gli elementi per distinguere il bene dal male, per quanto in linee generali. Il principio dal quale parte Nostro Signore è a monte del non contrastare il malvagio e viene espresso in Proverbi 20.22 in cui leggiamo “Non dire «Renderò male per male»; confida nel Signore ed Egli ti libererà”.

C’è allora ancora una volta un confine che siamo liberi di valicare o meno nel senso che, nel momento in cui le nostre azioni sono tese ad ottenere una vendetta nei confronti di chi ci ha fatto del male, agiamo di nostra iniziativa e precludiamo al Signore la possibilità di intervenire. Se però spostiamo la nostra ottica confidando in lui anche come Difensore, avremo la liberazione effettiva dal male: “…ma liberaci dal male”, o “dal maligno”, che sono la stessa cosa.

In pratica: non contrasto il malvagio perché sono un debole e se mi difendo pecco, ma supero il principio, vado oltre perché confido nel Signore. Restituire, rendere male per male è umano ed è una reazione immediata che siamo invitati a non fare per il semplice fatto che non siamo soli: come cristiani non abbiamo sposato una generica ideologia di amore e pace che mai riusciremmo a mantenere fino in fondo, ma siamo stati salvati e non apparteniamo più a questo mondo con la sua logica e le sue regole. Molto spesso la vendetta è la messa in atto di una rivalsa nel tentativo di placare un animo ferito che tuttavia raramente, a vendetta compiuta, resta soddisfatto, liberato dall’umiliazione o dal torto subito.

Dirà l’apostolo Paolo ai Romani “Non rendete a nessuno male per male. Cercate di compiere il bene davanti a tutti gli uomini. Se possibile, per quanto dipende da voi, vivete in pace con tutti. Non fatevi giustizia da voi stessi, carissimi, ma lasciate fare all’ira divina. Sta scritto infatti «Spetta a me fare giustizia, io darò a ciascuno il suo», dice il Signore. Al contrario, se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete, dagli da bere: facendo questo, infatti, accumulerai carboni ardenti sopra il suo capo. Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene” (12.17-21). Anche questi versi pongono il cristiano in un ambito differente, estraneo al male che viene fatto, ricordando “Se possibile, per quanto dipende da voi”, cioè guardate che quel che fate sia per scelta consapevole e non per una posizione assunta per filosofia. Il principio è “Spetta a me fare giustizia, io darò a ciascuno il suo”. Non sono parole che appartengono a una dispensazione diversa dalla nostra, per cui potremmo ipotizzare siano decadute, anzi: “Chi vuole amare la vita e vedere giorni felici, trattenga la sua lingua dal male e le labbra da parole d’inganno, eviti il male e faccia il bene, cerchi la pace e la segua, perché gli occhi del Signore sono sopra i giusti e le sue orecchie sono attente alle loro preghiere; ma il volto del Signore è contro coloro che fanno il male” (1 Pietro 3.10-12).

Posso testimoniare di avere vissuto personalmente un’esperienza del genere in cui mi sono trovato nell’impossibilità totale, quindi anche volendolo, di “resistere al malvagio” che, così come è comparso, si è dileguato in un tempo molto più breve di quanto sarebbe avvenuto qualora lo avessi combattuto.

Interessante la riflessione dell’apostolo Paolo che scrisse “per questo, affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia” (1 Corinti 12.7): si può ragionevolmente supporre che quell’inviato, o come altri traducono, “angelo” di Satana fosse stata una persona che lo picchiò quando si trovava in carcere a causa delle sue predicazioni; costui gli causò una lesione permanente agli occhi che gli impediva di leggere e di scrivere correttamente. In Galati 4.15 infatti nomina dei credenti che avrebbero voluto, se possibile, cavarsi gli occhi per darli a lui.

Rientrando al tema del porgere l’altra guancia, ma tenendo ben presente quanto citato in precedenza, ci domandiamo: è fattibile? È questo che Nostro Signore intendeva, cioè va preso in senso letterale, oppure questa sua espressione è da intendersi come “parente” dei versi riferiti all’enucleazione dell’occhio e all’amputazione della mano di cui abbiamo già trattato? Mi pare di riconoscere chiaramente, nelle parole che seguono l’invito a non contrastare il male, un modo per qualificare l’atteggiamento interiore che esclude, come già rilevato in altre circostanze, la rivalsa, la vendetta, l’infierire. Sono azioni che non troviamo mai come positive, ma se fosse categoricamente esclusa la reazione a un’aggressione Giovanni Battista avrebbe ordinato ai soldati che gli chiedevano “E noi, cosa dobbiamo fare?” di disertare, mentre disse “non maltrattate e non estorcete niente a nessuno, accontentatevi delle vostre paghe” (Luca 3.14). Le leggi di guerra di allora, infatti, autorizzavano la devastazione e il saccheggio, senza contare la violenza sulla popolazione civile che avviene in tutte le guerre da sempre, anche nel nostro “civilissimo” secolo.

Possiamo ricordare Gesù stesso, che al soldato che gli diede uno schiaffo non offrì l’altra guancia – per lo meno letteralmente – ma gli disse “Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male. Ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?” facendolo desistere (Giovanni 18.22).

Credo che sia la persona coinvolta che debba decidere il comportamento opportuno da adottare in proporzione alla portata dell’offesa fisica, cosa del resto stabilita dai codici penali umani a proposito della legittima difesa, in cui questa deve essere proporzionale alla minaccia. Credo che vada sempre tenuto in considerazione il fatto che Luca, riportando le parole di Gesù lette in Matteo, scrive “A chi ti percuote sulla guancia, offri anche l’altra” e che Pietro scrive “…Cristo patì per voi lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme: egli non commise peccato e non si trovò inganno sulla sua bocca; insultato non rispondeva con insulti, maltrattato non minacciava vendetta, ma si affidava a colui che giudica con giustizia” (1 Pietro 2.22,23).

Credo che il cristiano sia chiamato a valutare con intelligenza quanto si verifica attorno a lui e, alla luce dei passi paralleli che abbiamo coinvolto, tutto viene sviluppato partendo da rapporti tra persone che hanno una base comune, non costrette a confrontarsi – ad esempio – con etnie dedite geneticamente allo sfruttamento, alla delinquenza e agli espedienti per sopravvivere (che tra l’altro combattevano). Viviamo un tempo ultimo in cui tante cose devono accadere ad ogni livello, sia esso politico, ambientale, economico o migratorio e la fine della società che conosciamo non è poi così lontana. Ma quello che deve contraddistinguere il cristiano, da sempre, è la sua capacità di guardare oltre, grazie allo Spirito.

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