6.04 – Questa generazione (Luca 7.31-35)
“31A chi dunque posso paragonare la gente di questa generazione? A chi è simile? 32È simile a bambini che, seduti in piazza, gridano gli uni agli altri così: «Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, abbiamo cantato un lamento e non avete pianto!». 33È venuto infatti Giovanni il Battista, che non mangia pane e non beve vino, e voi dite: «È indemoniato». 34È venuto il Figlio dell’uomo, che mangia e beve, e voi dite: «Ecco un mangione e un beone, un amico di pubblicani e di peccatori!». 35Ma la Sapienza è stata riconosciuta giusta da tutti i suoi figli».”.
Il testo che abbiamo letto costituisce la seconda parte di un discorso tenuto da Gesù alla folla dopo che i discepoli del Battista se ne andarono. Ora per capire meglio la parabola dei bambini e le parole successive, va tenuto presente il verso 30, “Ma i farisei e i dottori della Legge, non facendosi battezzare da lui, hanno reso vano il disegno di Dio su di loro” che dà a Nostro Signore l’occasione per delle considerazioni amare sulla “gente di questa generazione” che indica proprio quanti, tra il popolo, non solo non riconoscevano in Lui il Cristo, ma non accettavano neppure Giovanni come “l’Elia che doveva venire” nonostante tutti i riferimenti di cui potevano disporre andando ad indagare nelle loro Scritture. Come qualificare quel comportamento? Questa volta non ci sono invettive, manca il proferimento di “guai”, ma un’amara constatazione: quella generazione, che aveva il privilegio di poterlo vedere, conoscere ed ascoltare, viene paragonata a dei bambini capricciosi e malmostosi cui nulla va bene e che respingono qualunque iniziativa.
È qui importante raccordare il racconto di Luca con quello di Matteo: il primo scrive “gridano gli uni agli altri”, il secondo “stanno seduti in piazza e, rivolti ai loro compagni, gridano”. Alla fine, poi, Matteo scrive “La Sapienza è stata riconosciuta giusta per le opere che essa compie”, Luca “Ma la Sapienza è stata riconosciuta giusta da tutti i suoi figli”. L’atteggiamento infantile, in quanto tale naturale tipico nei bambini, lo è molto meno in età adulta quando dovrebbero essere stati sviluppati il senso critico e di valutazione obiettiva delle cose: questi bambini capricciosi, ma adulti, si erano così trincerati dietro scuse e comode valutazioni di cui leggeremo più volte, ad esempio quando accuseranno Gesù di cacciare i demoni con l’aiuto del loro principe.
Teniamo presente chi era Giovanni, per quello che era noto allora: si era presentato al popolo con le migliori credenziali perché era discendente da una famiglia di sacerdoti, aveva vissuto nel deserto rifiutando fin dalla giovane età il cibo comodo (il pane) e il vino che inebriava. Ebbene, Giovanni sarebbe stato stimato e rispettato se solo non avesse invitato il popolo al ravvedimento, cioè a mettere in discussione i loro pensieri e azioni facendo emergere tutto il sistema di peccato in cui vivevano. E sappiamo che per rimediare il peccato, a quel tempo, c’erano già i sacrifici, i sacerdoti, tutta un’organizzazione religiosa che già provvedeva a riparare – secondo loro – un rapporto incrinato con Dio. Loro, che si ritenevano giusti, non avevano trovato scusa migliore se non quella di dare a Giovanni dell’indemoniato. Teniamo presente che Farisei, Scribi e Dottori della Legge, erano granitici su un punto che troviamo, tra gli altri, in Giovanni 5.45-47: “Non crediate che sarò io ad accusarvi davanti al Padre; vi è già chi vi accusa: Mosè, nel quale riponete la vostra speranza. Se infatti credeste a Mosè, credereste anche a me, perché egli ha scritto di me. Ma se non credete ai suoi scritti, come potrete credere alle mie parole?”. Ecco ancora una volta il preconcetto, l’agire senza intelligenza, dando per scontato che sia sufficiente un impegno apparentemente morale sostenuto da una lettura e studio privo di spirito pur di definirsi credenti. E sì che Mosè aveva scritto “Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto” (Deuteronomio 18.15), là dove quel “pari a me” indica la funzione di guida perché così come Mosè avrebbe condotto il popolo fino alla terra promessa, allo stesso modo Gesù li avrebbe guidati verso il Padre in quel regno eterno preparato per loro.
Ed ecco tornare i bambini capricciosi adulti, che si aggrappano a qualunque pretesto pur di non partecipare alla vita degli altri, molto più semplici e spontanei: se la “generazione” di cui Gesù parla non gli credeva, era perché nel suo intimo non credeva neppure a quella Legge che tanto dichiaravano di osservare, essendo “un pedagogo che conduce verso Cristo” essendo Lui il suo fine.
Da notare il parallelismo che possiamo fare tra questi bambini oscuri e gli altri, che le hanno provate tutte pur di coinvolgerli, perché ci sono dei “piccoli” di cui è il regno dei cieli: “In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli” (Matteo 18.3). Non è un inno alla ingenuità, ma alla condizione di dipendenza naturale e di fiducia che un bambino nutre nei confronti dei o di un genitore col quale si sente al sicuro. È l’apostolo Paolo a spiegare cosa significhi essere veri “bambini” quando scrive “Fratelli, non comportatevi da bambini nei giudizi; siate come bambini quanto a malizia, ma uomini maturi quanto ai giudizi” (1 Corinti 14.20). Positività e negatività dell’essere infantile, positività e negatività dell’essere adulti.
Abbiamo visto la parabola dei bambini nelle piazze e le scuse del popolo per non credere al Battista dandogli dell’indemoniato, ma con Gesù non sono da meno: si attaccano al fatto che lui mangi e beva addirittura coi “pubblicani e coi peccatori”, termine questo che allude a tutti coloro che non appartenevano alla loro casta e non necessariamente a persone dedite al vizio. Ecco che l’essere dei bambini capricciosi si raccorda all’adulto schiavo dei suoi preconcetti, pronto al reperimento di qualunque scusa pur di non cedere di fronte all’immagine di se stesso che si è creata, cui si affianca la ferrea volontà di restare fermo sulle sue convinzioni. Ma rimanere fermi è impossibile perché, in realtà, si arretra sempre. Come uomini possiamo soltanto andare avanti o indietro, migliorare o peggiorare, crescere o regredire.
È bello per me considerare la positività del crescere, che ha dei sinonimi molto positivi quali “svilupparsi, migliorare, maturare, prosperare, germogliare, attecchire, fiorire” e la negatività del suo contrario: “aggravarsi, deteriorarsi, guastarsi, inasprirsi, precipitare, rovinarsi”. Leggerli tutti assieme credo renda molto bene l’idea delle conseguenze cui va incontro tanto chi va avanti, quanto chi crede di rimane fermo. E migliorarsi, per un credente, non dovrebbe essere cosa difficile, vivendo davanti a Cristo che ha dato la sua vita per lui e lo invita continuamente a un cammino in cui non lo lascia mai solo. Siamo noi che a volte ci dimentichiamo di Lui, mai il contrario.
E tornando al rimanere fermi manca l’inacidimento, quel “rancido del cuore” di cui parlava un amico: il guardare costantemente in basso, alla terra, porta l’essere umano all’insoddisfazione perenne che causa un comportamento simile a quello che quella “generazione” – non tutti – aveva nei confronti del Battista e di Gesù. È l’attaccamento alla terra che spinge l’uomo a non voler vedere il Dio che lo cerca. È l’attaccamento alla terra che porta l’umiliazione come frutto. È l’attaccamento alla terra che ci fa agitare, spaventare, gettare nel panico nel momento in cui quelli che riteniamo essere dei nostri punti fermi, vacillano per motivi più o meno gravi. Ma ancora ben più grave è quell’attaccamento alla terra che ci impedisce di credere, di cercare Gesù Cristo e di accoglierlo. Anche oggi c’è chi Lo nega a priori non solo in quanto Figlio di Dio, ma andando a minarne anche la sua esistenza storica. Qui l’attaccamento alla terra si fa dottrina, motivo di orgoglio umano senza accorgersi che in realtà si sta professando una fede, per quanto opposta. Al contrario, vediamo il cammino, la progressione, in 1 Corinti 1.30, “…voi siete in Cristo Gesù, il quale per noi è diventato sapienza per opera di Dio, giustizia, santificazione e redenzione”.
Proseguendo nel testo, vediamo che il verso 35 inizia con un “Ma”. A fronte di tutti i ragionamenti che adulti maliziosi con problemi non solo spirituali, ma di mancato sviluppo di personalità, portano avanti e sui quali si arroccano, basta un monosillabo a liquidarli. “Ma la sapienza è stata riconosciuta giusta da tutti i suoi figli”. Si può fare e dire, chiamare in causa l’arte più sottile del ragionamento, la razionalità, il calcolo, la scienza che a volte dice la verità e a volte bara pur di dimostrare ciò che non può , “MA” c’è la Sapienza, una sola, che viene “riconosciuta giusta” non da tutti, ma da chi le appartiene. Inutile contendere, inutile spiegare, ostacolare, resistere, lasciarsi coinvolgere in discussioni accademiche o da bar poco importa: la sapienza è. Esiste perché senza di Lei il mondo non potrebbe mai essere stato creato e vediamo che inevitabilmente arriviamo a Gesù Cristo, al Cristo che Salomone descrive nel libro dei Proverbi in cui, se sostituiamo “Sapienza” a Lui, ne vediamo effetti e conseguenze.
Consoni e a conclusione di queste riflessioni possiamo riportare i versi da 20 a 33 del capitolo primo: “La Sapienza grida per le strade, nelle piazze fa udire la sua voce; nei clamori della città essa chiama, pronuncia i suoi detti alle porte della città: «Fino a quando, o inesperti, amerete l’inesperienza e gli spavaldi si compiaceranno delle loro spavalderie e gli stolti avranno in odio la scienza? Tornate alle mie esortazioni: ecco, io effonderò il mio spirito su di voi e vi manifesterò le mie parole. Perché vi ho chiamati ma avete rifiutato, ho steso la mano e nessuno se ne è accorto. Avete trascurato ogni mio consiglio e i miei rimproveri non li avete accolti. Anch’io riderò delle vostre sventure, mi farò beffe quando su di voi verrà la paura, quando come una tempesta vi verrà addosso il terrore, quando la disgrazia vi raggiungerà come un uragano, quando vi colpiranno angoscia e tribolazione. Allora mi invocheranno, ma io non risponderò, mi cercheranno, ma non mi troveranno. Perché hanno odiato la sapienza e non hanno preferito il timore del Signore, non hanno accettato il mio consiglio e hanno disprezzato ogni mio rimprovero. Mangeranno perciò il frutto della loro condotta e si sazieranno delle loro trame. Sì, lo smarrimento degli inesperti li ucciderà e la spensieratezza degli sciocchi li farà perire. Ma chi ascolta me vivrà in pace e sarà sicuro senza temere alcun male»”.
Sono parole importanti, ben lontane da quelle apparentemente sagge dei cosiddetti “amici” di Giobbe perché qui non c’è un vuoto elogio del “timor di Dio” con frasi fatte e i luoghi comuni tipici dei tempi antichi, ma una serie di avvertimenti che riguardano gli stolti spirituali: la sapienza chiama “nei clamori della città” perché qui c’è l’invito a non seguire la maggioranza, non adattarsi ai suoi costumi, cercare sempre ciò che è al tempo stesso sopra e oltre. Chi segue la sapienza “vivrà in pace e sarà sicuro senza temere alcun male” a differenza di quelli che non l’avranno voluta ascoltare, per i quali abbiamo descrizioni molto dure e amare: paura, terrore, disgrazia, angoscia e tribolazione, di fronte alle quali non vi sarà alcun soccorso. I motivi sono due, l’uno la conseguenza dell’altro, che abbiamo trovato proprio nella scorsa lettura del Vangelo quando Gesù ha parlato del rendere vano il piano di Dio: “hanno odiato la sapienza e non hanno preferito il timore del Signore, non hanno accettato il mio consiglio e hanno disprezzato ogni mio rimprovero”.
Ognuno di noi mangerà il frutto della propria condotta, in bene o in male. Chi è “figlio della Sapienza” non è un orgoglioso, non s’impone, non fa “suonare la tromba davanti a sé”; al contrario, chi è figlio della sapienza umana, farà di tutto per apparire, guidare, gridare, ottenendo il seguito di chi ha bisogno di un capo, di un modello, di aderire a qualcosa per essere qualcuno. Salomone, addirittura, sapeva di un mondo futuro con il quale tutti i personaggi negativi che abbiamo visto non avrebbero avuto parte alcuna: “…in tal modo tu camminerai sulla strada dei buoni e rimarrai nei sentieri dei giusti; perché gli uomini retti abiteranno nel paese e gli integri vi resteranno. I malvagi invece saranno sterminati dalla terra e i perfidi ne saranno sradicati” (Proverbi 2.20-22).
“MA la Sapienza è stata riconosciuta giusta da tutti i suoi figli”, sono le parole con le quali Gesù conclude il suo ragionamento alla folla riunita. Anche qui c’è un dato di fatto visto nei figli che la riconoscono, ma anche del richiamo, come già avvenuto sul monte, a parole che proprio quei Farisei e Dottori della Legge che lo ostacolavano in ogni modo, avrebbero dovuto conoscere ed esaminare: quelle del libro dei Proverbi che abbiamo citato e che alla Sapienza dedica i primi capitoli, per non dire tutto.
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