12.21 – Abramo per padre IV/IV (Giovanni 8.39-41)
39Gli risposero: «Il padre nostro è Abramo». Disse loro Gesù: «Se foste figli di Abramo, fareste le opere di Abramo. 40Ora invece voi cercate di uccidere me, un uomo che vi ha detto la verità udita da Dio. Questo, Abramo non l’ha fatto. 41Voi fate le opere del padre vostro». Gli risposero allora: «Noi non siamo nati da prostituzione; abbiamo un solo padre: Dio!».
Negli ultimi tre capitoli si è cercato di affrontare il personaggio di Abrahamo, sviluppato in modo sommario stante la profondità dei contenuti che avrebbero richiesto ben più spazio. Si è sorvolato su molti versi, fatti e vicende, ma l’intento era quello di fornire un orientamento sul testo e non di sviluppare la sua persona in modo esauriente. Giungiamo così a Genesi 22 col quale concluderemo la panoramica su di lui che, va sottolineato, termina in realtà con 25.8 che riassume la sua esistenza: “L’intera durata della vita di Abrahamo fu di centosettantacinque anni. Poi Abrahamo spirò e morì in felice canizie, vecchio e sazio di giorni, e si riunì ai suoi antenati”.
Venendo quindi al capitolo 22, già il primo verso ci introduce in un àmbito nuovo: “Dopo queste cose, avvenne che Iddio provò Abrahamo, e gli disse: «Abrahamo!», ed egli gli disse «Eccomi»”. Entra qui espressamente, per la prima volta nella sua vita, il tema della prova, l’unico mezzo col quale l’uomo può dimostrare a Dio (e a se stesso) la propria fede e coerenza. La prova, indipendentemente dal tipo, giunge in modo inaspettato e difficilmente si ha modo di riconoscerla, a differenza di quanto avvenne per Gesù quando fu tentato da Satana nel deserto. Della prova abbiamo l’esempio principe in Giobbe, che fra gli antichi la sperimentò più di tutti e, per gli scritti del Nuovo Testamento, abbiamo questa rivelazione a Pietro: “Simone, Simone, ecco, Satana ha chiesto di vagliarvi come si vaglia il grano, ma io ho pregato per te, affinché la tua fede non venga meno”(Luca 22.31,32).
La prova, per la carne, non è mai qualcosa di piacevole, anzi: può turbare profondamente l’anima, gli affetti e il corpo, isolatamente o tutti nell’insieme a seconda dei casi ed è lì che ci riveliamo per ciò che effettivamente siamo. Abrahamo risponde alla chiamata di Dio con “Eccomi”, cioè pronto all’ascolto di qualunque ordine o annuncio, sapendo che non aveva nulla da temere pensando a quanto gli fu detto in occasione dell’alleanza stabilita in Genesi 17, “Io sono l’Iddio Onnipotente, cammina alla mia presenza e sii integro; e io stabilirò il mio patto fra me e te e ti moltiplicherò grandemente” (vv. 1 e 2).
Quanto si sentì dire però al capitolo 22 fu qualcosa di categorico e sconvolgente: “Prendi ora il tuo figliolo, il tuo unico– nato secondo la promessa dalla quale Ismaele era escluso –, il quale tu ami– nel senso che le sue speranze alla luce delle benedizioni ricevute erano riposte in lui –, cioè Isacco, e va’ nella contrada di Moria ed offrilo qui in olocausto, sopra uno di quei monti che ti dirò”(v.2). Mi sono chiesto cosa fosse avvenuto in Abrahamo in quel momento, a parte il proprio dolore di padre: Mosè e coloro che hanno tramandato il libro della Genesi fino a noi non ci hanno lasciato alcuna sua obiezione, ma solo il fatto che pose in atto tutte le premesse perché l’olocausto avvenisse: “Abrahamo dunque, levatosi la mattina di buon’ora, mise il basto al suo asino e prese con sé due suoi servitori ed Isacco suo figliolo e, stipata la legna per l’olocausto, partì e andò nel luogo che Dio gli aveva indicato”(v.3). Il viaggio durò tre giorni, certo ricchi di pesanti interrogativi sul senso che poteva avere quell’ordine di Dio che metteva in discussione la promessa in base alla quale sarebbe diventato “padre di una moltitudine di nazioni”(17.4,5,6), chiamava in causa il perché della nascita di Isacco, la circoncisione che gli aveva fatto e il convito offerto quando fu svezzato (21.8). Ora tutto era diventato oscuro, senza spiegazione razionale e, poiché la voce di Dio non poteva averla confusa con nessun’altra, non restava che adempiere a quanto gli era stato detto nonostante tutte queste contraddizioni. Teniamo presente che però questa è solo una lettura immediata del testo.
Certo Abrahamo aveva ben presente ciò che il Signore gli aveva detto a proposito dei suoi due figli in 21.19-21: “Sara, tua moglie, ti partorirà un figlio e tu gli porrai nome Isacco, e io stabilirò il mio patto con lui per patto perpetuo per la sua progenie dopo di lui. E quanto ad Ismaele, ancora, io t’ho esaudito: ecco, l’ho benedetto e lo farò moltiplicare grandissimamente: egli genererà dodici prìncipi ed io lo farò diventare una grande nazione. Ma io fermerò il mio patto con Isacco, che Sara ti partorirà l’anno che viene, in questa stessa stagione”. Eppure, alle parole di Dio sull’olocausto da compiere, Abrahamo non disse nulla, cosa che invece avvenne col dialogo intercessore sui giusti eventualmente presenti in Sodoma: perché? Credo che una prima ragione vada ricercata nel fatto che, se nel caso della città che sarebbe stata distrutta stava parlando al Dio apparso in forma umana mentre, qui fu immediatamente chiaro che la parola rivoltagli, provenendo da YHWH, non poteva essere messa in discussione.
Va poi ricordata la corretta interpretazione del nostro episodio che già avevo messo in risalto in un precedente capitolo, e cioè che Abrahamo da un lato provava un dolore assolutamente umano, ma dall’altro era sospinto da una fede basata sulla certezza che non solo sarebbe stato protetto, ma che Isacco non sarebbe morto nel senso che sarebbe solo passato oltre la vita e qui abbiamo la fede nella resurrezione. Ricordiamo il commento all’episodio di Ebrei 11.17: “Per fede Abrahamo, messo alla prova, offrì Isacco, e proprio lui, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unigenito figlio, del quale era stato detto: Mediante Isacco avrai una discendenza. Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti, per questo lo riebbe anche come simbolo”.Ecco allora che Abrahamo fondò tutto il suo agire sulla base che le promesse di Dio si sarebbero realizzate comunque a prescindere del fatto che il proprio figlio passasse o meno attraverso la morte del corpo.
Altra nota va rilevata sul luogo indicato da Dio, la contrada di Moria e i suoi relativi due monti, il Sion e il Moria, sul quale sarà poi costruito il Tempio:“Salomone cominciò a costruire il tempio del Signore a Gerusalemme sul monte Moria, dove il Signore era apparso a Davide, suo padre, nel luogo preparato da Davide sull’aia di Ornan il Gebuseo”(2 Cronache 3.1). Il fatto che prima dell’apparizione a Davide Abrahamo fu fermato, molto dice sul significato di questo luogo.
“Ed Abrahamo stese la mano e prese il coltello per uccidere suo figlio. Ma l’Angelo del Signore gli gridò dal cielo e disse: «Abrahamo, Abrahamo!». Ed egli disse: «Eccomi» – segno che l’evento non aveva mutato la sua disponibilità nei confronti di Dio –. E l’Angelo gli disse: «Non mettere la mano addosso al ragazzo e non fargli nulla, perché ora so che tu temi Iddio, poiché non mi hai negato tuo figlio, il tuo unico– cioè quello della promessa e non Ismaele –»”. È assolutamente rilevante quel “mi”e non “gli”: Dio Padre non poteva essere certo definito “L’Angelo del Signore”, mentre il Figlio, la cui esistenza non era stata ancora rivelata (per quanto deducibile, ma alla luce del Nuovo Testamento) non poteva che venire raffigurato in quell’ “Angelo”così come, in Eden, nell’ “albero della vita”.
Altra frase che non può essere ignorata è “Ora so che tu temi Iddio”: e prima? Ancora una volta vale quanto osservato sul significato dell’essere “predestinati”, termine che è stato molto abusato e che non implica l’inevitabilità assoluta da parte dell’uomo di non poter agire diversamente da come opera in quel momento, ma semplicemente il fatto che ogni cosa che facciamo esiste quando avviene ed è sempre conseguenza di una nostra scelta, come fu per Abrahamo. “Ora so”sono parole pronunciate dall’Angelo per fargli capire il motivo della richiesta del sacrificio di Isacco, cioè la necessità che superasse la prova perché attraverso quella, la più ardua, avrebbe potuto dimostrare di essere in grado di portare tutte le benedizioni ricevute. La gratuità del dono di Dio andava confermata mediante la prova perché altrimenti Abrahamo non avrebbe potuto essere credibile né essere considerato padre di tutti i credenti indipendentemente dall’etnia di appartenenza.
La prova superata – attenzione – non costituì un merito umano di cui Abrahamo poteva andare fiero, ma semplicemente fu un comportamento corretto che produsse quanto scritto da Giacomo 2.21: “Abrahamo, nostro padre, non fu forse giustificato per le sue opere, quando offrì Isacco sull’altare? Vedi: la fede agiva insieme alle opere di lui, e per le opere la fede divenne perfetta”. Senza la fede, quindi quest’uomo non sarebbe mai stato in grado di giungere al punto di sacrificare il proprio figlio; però, essendo la fede senza le opere qualcosa di inerte, ecco che per esse diventa “perfetta”ed ecco perché gli fu rinnovata la promessa: “Io giuro per me stesso, dice il Signore Iddio, poiché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuo figlio, l’unico tuo figlio, io certo ti benedirò grandemente e moltiplicherò la tua discendenza come le stelle dei cielo e come la sabbia che è sul lido del mare e la tua discendenza possederà la porta dei tuoi nemici– modo di dire per alludere al pieno potere su di loro – . E tutte le nazioni della terra saranno benedette nella tua discendenza, perché tu hai ubbidito alla mia voce”(vv.16-19).
Il fatto che la promessa venne ripetuta due volte sta quindi a indicare che con la prima abbiamo una gratuita offerta, proveniente dalla libera iniziativa e dall’amore di Dio, mentre la seconda è il frutto dell’impegno reciproco. Abrahamo le accettò entrambe, la prima per fede (e fu già molto), la seconda per le opere che la confermarono, “rendendola perfetta”come commenta Giacomo, fratello del Signore.
Concludendo ancora una volta con l’attualità del tempo in cui Gesù parlò ai Giudei, certo alla luce di quanto ricordato non potevano dire “il padre nostro è Abrahamo”; indubbiamente discendevano da lui, ma ne erano distanti anni luce in quanto a fede ed è proprio ciò che si sentirono dire: “Se foste figli di Abrahamo, fareste le opere di Abrahamo. Ora invece voi cercate di uccidere me, un uomo che vi ha detto la verità udita da Dio. Questo, Abrahamo non lo ha fatto. Voi fate le opere del padre vostro”, chiaro riferimento all’Avversario che i Giudei compresero solo in parte, poiché la loro replica, “Noi non siamo nati da prostituzione, abbiamo un solo padre, Dio”altro non è che una menzogna rinnovata come la precedente, quella di non essere stati mai schiavi di nessuno: “nati da prostituzione”, o “fornicazione”come traducono altri, è un modo di sostenere che non provenivano da un popolo idolatra e quindi si arrogano il diritto di essere figli di Dio, cosa impossibile perché l’appartenergli non è cosa che si trasmette geneticamente.
Avere“un solo padre”è un richiamo alle origini, quando Dio disse a Mosè “Tu dirai al faraone: «Così dice il Signore: Israele è mio figlio, il mio primogenito. Perciò io ti dico: Lascia andare il mio figlio affinché mi serva; ma se tu rifiuti di lasciarlo andare, ecco io ucciderò il tuo figlio, il tuo primogenito»”(Esodo 4.22,23).
Nei versi che seguono e che affronteremo nel prossimo capitolo, Gesù stabilirà in modo univoco la differenza fra l’avere un Padre e un padre: “Se Dio fosse vostro padre, mi amereste, perché da Dio sono uscito e vengo; non sono venuto da me stesso, ma lui mi ha mandato. Per quale motivo non comprendete il mio linguaggio? Perché non potete dare ascolto alla mia parola. Voi avete per padre il diavolo e volete compiere i desideri del padre vostro. Egli era omicida fin da principio e non stava saldo nella verità, perché in lui non c’è verità. Quando dice il falso, dice ciò che è suo, perché è menzognero e padre della menzogna. A me, invece, voi non credete, perché dico la verità. Chi di voi può dimostrare che ho peccato? Se dico la verità, perché non mi credete? Chi è da Dio ascolta le parole di Dio. Per questo voi non ascoltate: perché non siete da Dio”.
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