12.25– Prima che Abrahamo fosse, io sono (Giovanni 8.58 )
58Rispose Gesù: «In verità, in verità io vi dico: prima che Abrahamo fosse, Io Sono». 59Allora raccolsero delle pietre per gettarle contro di lui, ma Gesù uscì dal Tempio.
Con questo verso, le cui parole scaturiscono dall’impossibilità dei Giudei di comprendere l’essenza e il ruolo di Gesù, ci troviamo di fronte a una realtà di enorme portata. Già abbiamo avuto modo di ragionare sul significato dell’ “Io Sono”, ma qui gli insegnamenti che possiamo trarre sono infiniti perché la realtà di Nostro Signore si raccorda al tempo in cui Abrahamo era vissuto e al tempo stesso parlava ai suoi oppositori nel Tempio. In queste parole, precedute da due amen, vediamo l’eternità dell’ “Io Sono”, ma soprattutto sottolineiamo il “prima”e il “fósse”, anche questa forma del verbo essere che implica l’esistere, cioè pensare ed agire, scegliere, muoversi. Umanamente l’ “essere”, visto dalla parte dell’uomo, comprende un inizio e una fine, chiama in causa la persona dalla nascita alla morte, quindi ci parla di come l’uomo ha agito.
Vediamo anche come Abrahamo, il cui nome compare in questo capitolo dieci volte, venga citato per primo e sia usato come collegamento in quanto nominato dai Giudei ai versi 39 (“Il nostro padre è Abrahamo”), 52 (“Abrahamo è morto e anche i profeti”) e 53 (“Sei tu più grande del nostro padre Abrahamo, che è morto? Anche i profeti sono morti; chi pretendi di essere”?). In questo caso, allora, Abrahamo è usato perché citato dai Giudei ed è da vedere non più come il cosiddetto “padre della fede”, ma come essere umano cui è abbinato il “fósse”, al passato remoto cioè un tempo che si usa per indicare un fatto ormai avvenuto, concluso e – attenzione – senza legami con il presente. Il passato remoto, nell’uso comune, può corrispondere a un distacco emotivo rispetto all’evento raccontato, mentre nello scritto letterario risponde più a una scelta stilistica.
Il “fósse”, quindi, indica che la persona è indubbiamente esistita ma che, nonostante la sua importanza, in quel momento non aveva più senso e non certo perché la sua valenza storica era diminuita: davanti ai Giudei non stava un uomo, ma l’ ”Io Sono”, il “Colui che è”, che Abrahamo lo aveva chiamato e assistito, aveva a lui parlato ed era a lui infinitamente superiore.“Fósse”è quindi da applicare a tutti gli uomini, ciascuno con la sua storia che lo distingue dagli altri indipendentemente dalla fede, dal fatto che accolga o rifiuti l’invito di Dio a ravvedersi, racchiude ciò che ha fatto dalla culla alla bara e, soprattutto, annuncia un tempo ormai chiuso, scaduto, ed è sotto questo aspetto che va letto il libro del Qoèlet, o Ecclesiaste, che dà una lettura orizzontale della vita umana avvertendo il lettore che tutto passa e scavando in profondità nel tema arrivando a dire che “Né del saggio né dello stolto resterà un ricordo duraturo e nei giorni futuri tutto sarà dimenticato. Allo stesso modo muoiono il saggio e lo stolto”(2.16). Nel “fósse”possiamo allora considerare il passo “vi è una sorte unica per tutto: per il giusto e per il malvagio, per il puro e l’impuro, per chi offre sacrifici e per chi non li offre, per chi è buono e per chi è cattivo, per chi giura e per chi teme di giurare”(9.2).
Il “fósse”che ci accomuna, però, si scontra con l’ “Io Sono”quando, sempre in questo libro, leggiamo “Riconosco che qualsiasi cosa Dio fa, dura per sempre; non c’è nulla da aggiungere, nulla da togliere. Dio agisce così perché lo si tema. Quello che accade, già è stato; quello che sarà, è già avvenuto. Solo Dio può cercare ciò che ormai è scomparso”(3.14,15).
E infatti “Io Sono” è una definizione che solo Dio può dare perché non soggetto al tempo degli uomini, Lui che ha comandato la fine dell’immobilità in quell’allora “non universo” nato dal “Sia la luce!”del primo giorno. Il Figlio è quindi l’ “Io Sono”che si manifestò proprio allora e poi in tutti gli interventi nei confronti degli uomini dell’Antico Patto, quindi dal tempo dei Vangeli ad oggi e nell’attesa che tutti gli eventi stabiliti si compiano in quanto è “l’Alfa e l’Omega, il principio e la fine”. La Sua presenza costante nell’eternità verrà dichiarata in questo Vangelo quando, in un passo che vedremo fra breve, disse ai settantadue discepoli tornati da Lui “Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore”(Luca 10.18).
Quando mi sono trovato a progettare questo scritto mi sono chiesto quanto valesse la pena sviluppare il verso in esame, ma l’ho trovato infinito per cui, se solitamente di fronte a passi importanti tendo a svilupparlo in più parti, qui preferisco dare solo degli spunti che ciascuno sarà libero di seguire o ampliare se e come meglio crede. Non si può sottolineare un dato importante e cioè che “prima che Abrahamo fosse”è una traduzione che omette “nato”in quanto il verbo greco usato non è “eimi”, appunto “essere”, ma “ghignomai”, che sì ha “essere” come primo significato, ma rapportato al nascere come “divenire”, “accadere”, per cui il Figlio era lì tanto quando Abrahamo nacque, quanto quando “diventò”, cioè crebbe con tutto ciò che comporta (gioia, dolore, riflessione, amara constatazione dei propri errori e fede operante nelle promesse e nei comandamenti di Dio).
La domanda ora è se possiamo sapere qualcosa di ciò che era nell’eternità di YHWH prima che il mondo fosse, ma non ci è stato rivelato dalla Scrittura. Di ciò che c’era prima, per lo meno fisicamente, c’è la sola spiegazione che abbiamo imparato a conoscere non appena presa in mano una Bibbia, “In principio Iddio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque”(Genesi 1.1). Poi, però, se la figura di YHWH rimane distante, quanto a santità ed esigenze, dall’essere umano, non così il Figlio, raffigurato come sappiamo nella Sapienza che fu “generata”nel senso di rivelazione agli uomini, chiamata, vita in un contesto diverso. E in Proverbi 8.22-31 e segg. abbiamo qualcosa di assolutamente nuovo: “Il Signore mi ha creato come inizio della sua attività, prima di ogni sua opera, all’origine. Dall’eternità sono stata formata, fin dal principio, dagli inizi della terra. Quando non esistevano gli abissi, io fui generata, quando ancora non vi erano le sorgenti cariche d’acqua; prima che fossero fissate le basi dei monti, prima delle colline, io fui generata, quando ancora non aveva fatto la terra e i campi né le prime zolle del mondo. Quando egli fissava i cieli, io ero là; quando tracciava un cerchio sull’abisso, quando condensava le nubi in alto, quando fissava le sorgenti dell’abisso, quando stabiliva al mare i suoi limiti, così che le acque non ne oltrepassassero i confini, quando disponeva le fondamenta della terra, io ero con lui come un artefice ed ero la sua delizia ogni giorno: giocavo davanti a lui in ogni istante, giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo”. Ora, qui è racchiuso quel periodo antecedente a “Sia la luce”fino alle tante parole rivolte ad Adamo quando era innocente e che Mosè non ci ha riportato.
Nel Nuovo Testamento poi abbiamo “In principio era il Verbo”, cioè l’inizio assoluto, o “l’inizio senza inizio” come è stato definito perché non si può negare che, se il “Principio”di Genesi 1 è riferito al tempo della terra, quello di Giovanni 1 è un “Principio”che appartiene all’eternità. Poi, nel nostro verso, Gesù contrappone il divenire di Abrahamo alla Sua realtà di “Io Sono”e, senza il Suo intervento, l’uno sarebbe stato incommensurabilmente distante dall’Altro, non ci sarebbe stato nessun piano di Dio e Nostro Signore non sarebbe neppure venuto sulla terra. Padre, Figlio e Spirito Santo sarebbero rimasti com’erano nel loro splendido isolamento, ma sarebbero rimasti senza amore da dare. Ogni uomo sarebbe assolutamente lontano ed estraneo da Loro, condannato a una vita priva di futuro, di progetto, di programma, di destinazione. Suicidi dalla nascita. Ma, appunto, abbiamo usato il condizionale, cioè Gesù “sarebbe”, non “È”, non “Io Sono”.
Tornando al nostro episodio, i Giudei presenti non ebbero alcun problema a raccordare l’ ”Io Sono”di Gesù all’ “Io Sono colui che sono”di Esodo 3.14,15 quando Dio rispose così quando gli fu chiesto come si chiamasse: Mosè disse a Dio: «Ecco, io vado dagli israeliti e dico loro: «Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi». Mi diranno: «Qual è il suo nome?». E io cosa risponderò loro?». Dio disse a Mosè: «Io sono colui che sono!”». E aggiunse: «Così dirai agli israeliti: «Io-Sono mi ha mandato a voi!»»”.
I Giudei, fatto questo collegamento per una volta corretto, lungi dal credere, vollero ricorrere alla lapidazione per bestemmia e, per farlo, raccolsero le pietre che si trovavano in gran quantità nel cortile esterno non essendo il Tempio ancora ultimato.
Sorge a questo punto il problema insito nel “ma Gesù uscì dal tempio”che conclude il nostro episodio: certo un bestemmiatore degno di lapidazione non poteva non venire sorvegliato per cui è inammissibile che Nostro Signore abbia approfittato della distrazione dei Giudei che, intenti a raccogliere pietre, non si curarono di Lui; piuttosto abbiamo una ripetizione di quanto già avvenuto altre volte, ad esempio a Nazareth quando lo volevano gettare dalla rupe della città. Semplicemente, non era ancora giunta l’ora della Sua morte, per cui l’importante non è il metodo usato da Lui, ma il tema dell’assoluta impotenza dell’uomo di fronte a Dio. E mi viene in mente Salmo 2.1-4: “Perché le genti sono in tumulto e i popoli cospirano invano? Insorgono i re della terra e i prìncipi congiurano insieme contro il Signore e il suo consacrato: «Spezziamo le loro catene, gettiamo via da noi il loro giogo!». Ride colui che sta nei cieli, il Signore si fa beffe di loro”. Ricordiamo anche Abdia 1.10, “Si fa beffe dei re e dei capi se ne ride; si fa gioco di ogni fortezza: l’assedia e la conquista”.
Credo che sia questa la spiegazione più pertinente anche perché “Ma Gesù uscì dal tempio”è una traduzione che concilia il problema dei testi più antichi che non hanno una versione univoca. Ad esempio Giovanni Diodati e non solo, affidandosi a un altro corpo di scritti altrettanto autorevoli, riporta “Ma Gesù si nascose ed uscì dal tempio, essendo passato per mezzo loro, e così se ne andò”, creando così un parallelo con Luca 4.30 (a Nazareth) “Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino”.
Se Gesù era il “Servo”per eccellenza, allora vale quanto scritto da Davide in Salmo 18.18, “Mi liberò da nemici potenti, da coloro che mi odiavano ed erano più forti di me”, o in Salmo 53.4, “Siano svergognati e confusi quanti attentano alla mia vita; retrocedano e siano umiliati quanti tramano la mia sventura”.
Ragionando poi sul verso esteso, cioè quello che amplia “Ma Gesù uscì dal tempio”, vediamo che il “si nascose”non specifica dove, per cui dobbiamo ammettere che poté benissimo rendersi non visibile dai suoi oppositori nel senso di aver “impedito ai loro occhi di riconoscerlo”come avverrà ai due discepoli sulla via di Emmaus (Luca 24.16). Ricordiamo che “Siano svergognati e confusi quanti attentano alla mia vita”rende più probabile l’irriconoscibilità fisica, oltre che di ruolo, di Gesù per i Giudei. Credo che il testo ci autorizzi a pensarla in questo modo.
La giornata al Tempio si conclude in questo modo, col “nascondersi” di Nostro Signore passando “in mezzo a loro”e uscendo, azione che anticipa quel “mi cercherete, ma non mi troverete”che abbiamo recentemente incontrato in queste meditazioni figura del fatto che, se il Signore va cercato “mentre lo si può trovare”, va da sé che verrà il tempo in cui questo non sarà possibile. Sarà allora, nell’ineluttabilità di un destino scelto, responsabilmente o irresponsabilmente non importa, che il Signore raccoglierà il grano nel Suo granaio e lascerà le scorie a bruciare. Amen.
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