15.35 – LA PARABOLA DELLE DIECI MINE III/III (Luca 19.15.27)

15.35 – La parabola delle dieci mine III: consegna e verifica (Luca 19.15-27)

 

15Dopo aver ricevuto il titolo di re, egli ritornò e fece chiamare quei servi a cui aveva consegnato il denaro, per sapere quanto ciascuno avesse guadagnato. 16Si presentò il primo e disse: «Signore, la tua moneta d’oro ne ha fruttate dieci». 17Gli disse: «Bene, servo buono! Poiché ti sei mostrato fedele nel poco, ricevi il potere sopra dieci città». 18Poi si presentò il secondo e disse: «Signore, la tua moneta d’oro ne ha fruttate cinque». 19Anche a questo disse: «Tu pure sarai a capo di cinque città». 20Venne poi anche un altro e disse: «Signore, ecco la tua moneta d’oro, che ho tenuto nascosta in un fazzoletto; 21avevo paura di te, che sei un uomo severo: prendi quello che non hai messo in deposito e mieti quello che non hai seminato». 22Gli rispose: «Dalle tue stesse parole ti giudico, servo malvagio! Sapevi che sono un uomo severo, che prendo quello che non ho messo in deposito e mieto quello che non ho seminato: 23perché allora non hai consegnato il mio denaro a una banca? Al mio ritorno l’avrei riscosso con gli interessi». 24Disse poi ai presenti: «Toglietegli la moneta d’oro e datela a colui che ne ha dieci». 25Gli risposero: «Signore, ne ha già dieci!». 26«Io vi dico: A chi ha, sarà dato; invece a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha. 27E quei miei nemici, che non volevano che io diventassi loro re, conduceteli qui e uccideteli davanti a me»».

 

Prima di entrare in questo capitolo, va ricordata la natura dell’incarico dato ai servi: è stato scritto che l’ “uomo di nobile famiglia” non li prende a caso, ma non è stato ancora dato alcun cenno sul fatto che la moneta consegnata era d’oro, metallo che nella Bibbia ha sempre riferimento a Dio. Se quell’uomo avesse dato ai servi una moneta d’argento, di rame o di bronzo, la parabola non avrebbe avuto senso. Certo sarebbe rimasto il principio dell’impegno a far fruttare quel denaro, dell’operosità e inoperosità, ma non sarebbe mai stato messo in risalto, in modo chiaro e assoluto, il fatto che quei personaggi ricevono qualcosa di prezioso che non solo non è loro, ma che viene da Dio e quindi ciascun servitore riceve una Sua piccola parte.

Questo amplia notevolmente e integra quanto scritto nello scorso studio perché ricevere una moneta d’oro comporta una responsabilità estrema in quanto non si tratta di maneggiare e impiegare un materiale qualsiasi: l’oro è diverso da tutti gli altri metalli, non ossida, ai tempi dell’Antico e Nuovo Testamento era inattaccabile ai composti chimici. Ecco allora che, per quei servi, ricevere una mina di quel metallo non poteva far sì che pensassero sempre al compito e all’onore ricevuti da quell’uomo che partiva per un paese lontano.

Quando nella prima parte di questo studio abbiamo fatto il confronto con la parabola dei talenti è stato fatto notare come la quantità affidata ai servi sia la stessa, quindi va da sé che il riferimento non possa essere allo stesso argomento: il talento viene consegnato in misura maggiore o minore, la mina è sempre e solo una e questo ci parla di due posizioni diverse nonostante il principio sia il medesimo. Da tener presente fra l’altro che, essendo la mina la sessantesima parte del talento, i significati delle due parabole devono essere differenti. La moneta d’oro che quei servi ricevono, a differenza dei talenti, ha connessione a ciò che viene consegnato a ciascun credente a monte, cioè la salvezza e il dono dell’acquisizione a figlio di Dio. Ad ogni credente viene affidata la responsabilità di condurre una vita degna della propria fede e del portare un “frutto”, che possiamo individuare anche solo in una posizione di coerenza che, di questi tempi, non è poco.

Rileviamo dal nostro testo che, all’atto della consegna della moneta, non viene dato ai servi alcun obiettivo da raggiungere nel senso che viene loro di farla fruttare, ma non quanto perché avrebbero dovuto farlo in base alle loro capacità, cosa che avvenne. Ognuno dei dieci è lasciato libero di agire come meglio crede con l’unica preoccupazione di portare un risultato, indipendentemente dall’ammontare della somma.

 

E giungiamo così al ritorno: chi ha consegnato le mine ora torna come re, tutto è cambiato: un re ha un potere assoluto, decide la vita e la morte dei suoi sudditi, non deve rispondere ad alcuno se non a se stesso, è padrone di tutto e il verso 15, così come è citato, è tradotto impropriamente poiché sarebbe “Accadde che, quanto tornò, dopo aver preso possesso del suo regno, ordinò che fossero chiamati i servi…”. “Dopo aver preso possesso del suo regno”, quindi una volta adempiute tutte le formalità necessarie e ricevuta l’investitura. Questo è un richiamo a tutti quegli avvenimenti che caratterizzeranno il ritorno di Gesù una volta per sempre, quello ufficiale e la presa di possesso del regno sarà caratterizzata dalla constatazione assoluta della Sua potenza e gloria, quando “ogni occhio lo vedrà” (anche quelli di quanti che non avranno creduto in Lui) perché nel Nome di Gesù sappiamo che dovrà piegarsi “ogni ginocchio”. Indipendentemente dal fatto che appartenga al numero dei servi o a quello di coloro che non lo volevano come re, tutti saranno costretti a inginocchiarsi, non esisteranno alternative come quelle escogitate prima del Suo ritorno per non credere, gli dèi illusori creati dagli uomini. Ricordiamo Filippesi 2.10 citato più volte nel corso di questi studi: “Perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: «Gesù è il Signore!» a gloria di Dio Padre”.

Ora sappiamo che “chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita” (Giovanni 5.24), ma anche del rendiconto, del giustificare il nostro operato proprio davanti a quel re che ha donato una moneta d’oro a ciascuno e – attenzione – non la vuole indietro, ma desidera constatare l’uso che ne abbiamo fatto. Tra l’altro va sottolineata la proporzione fra il risultato ottenuto dai servi e l’equivalenza in “città” loro consegnate, riferimento al premio e alla responsabilità nel mondo spirituale che ci attende.

Ora le dinamiche presentateci da questa parabola sono simili a quella dei talenti alla quale rimando, ma credo sia doveroso esaminare l’ultimo caso, quello del servitore infedele perché, anziché far fruttare la moneta come gli altri, la nasconde in un fazzoletto nell’attesa di restituirla al legittimo proprietario, e qui la meditazione si fa impegnativa perché sotto un’ottica prettamente umana quest’uomo non fa poi qualcosa di tanto deprecabile: non ruba, anzi restituisce ciò che gli era stato consegnato dichiarando la propria stima nei confronti del suo re che prende “quello che non ha messo in deposito e miete dove non ha seminato”. Però questo modo di vedere non considera prima di tutto l’oltraggio che viene fatto al re non avendo risposto con l’operosità e la fatica all’onore ricevuto: “io, che sono re, che raccolgo ciò che non ho depositato e mieto ciò che non ho seminato, chiedo la tua collaborazione”. E quello disattende in toto le aspettative del sovrano.

Non solo, ma possiamo considerare che, riponendo la moneta nel fazzoletto, quel servo abbia trascorso il tempo tra la partenza e il ritorno del suo padrone senza far nulla, mentre gli altri suoi pari si davano da fare per far fruttare il deposito ricevuto. È proprio il far nulla, ma ancor di più il totale disinteresse, a condannarlo perché, come viene detto anche nell’altra parabola, “perché allora non hai consegnato il mio denaro a una banca? Lo avrei riscosso con gli interessi” (v. 23).

Ecco allora che qui vengono messe in rilievo le capacità: quel servo è vero che ricevette una moneta e l’ordine di metterla a reddito come gli altri, ma non gli era stato detto come, era lui che avrebbe dovuto trovare il modo per farlo in base alla proprie forze e possibilità anche perché Gesù qui parla non di tutti i dieci servi, ma solo di quelli che portano il decuplo e il quintuplo, quindi il testo ci autorizza a pensare che gli altri otto abbiano portato tutte le quantità intermedie da dieci fino a due e che tutti vengano ricompensati. Quindi non importa quanto si fa, ma come e perché, qual è il motore del tutto. Se la moneta d’oro è assimilabile ad un’anima redenta, allora le dieci fruttate dal primo servitore sono altre anime e quella messa nel fazzoletto è chi, pur avendo creduto, resta immobile a livello di pensiero, di azione, senza che nessuno sappia niente di lui.

Ancora, se l’oro è oro e non può essere confuso con altro metallo, va da sé che la Chiesa non può barare o cercare, come avvenuto in passato, l’evangelizzazione delle masse e scambiare l’adesione formale delle persone con la conversione e la santificazione, possibile solo quando si ha chiara la propria responsabilità come figli di Dio e questa, purtroppo, viene raramente insegnata.

Appare allora chiara l’urgenza della comprensione del nostro testo che non afferma l’esistenza di una scala di merito, ma evidenzia il fatto che ciascuno dei servi, tranne uno, ha lavorato portando un risultato adempiendo così ai voleri di colui che, partito per ricevere l’investitura, non aveva fissato né un minimo, né un massimo perché il loro lavoro fosse considerato accettabile.

Emergono a questo punto dei personaggi ai quali si fa poco caso, cioè “i presenti”, certamente le guardie reali, pronte ad eseguire gli ordini, nei quali possiamo identificare gli Angeli, i perfetti esecutori delle volontà di Dio così come descritti in Matteo 25.31, “Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra”.

Troviamo gli Angeli anche in 2 Tessalonicesi 1.7, “…quando si manifesterà il Signore Gesù dal cielo, insieme agli angeli della sua gloria, con fuoco ardente, per punire quelli che non riconoscono e che non obbediscono al vangelo del Signore nostro Gesù”, e nella parabola della zizzania, “Come dunque si raccoglie la zizzania e la si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, che raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e quelli che commettono iniquità e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro” (Matteo 13.40-43).

A questo punto abbiamo un breve intermezzo, vale a dire un’osservazione a Gesù da parte di quanti lo ascoltavano, evidentemente stupiti dell’ordine dato alle guardie del re “prendete la moneta d’oro e datela a colui che ne ha dieci”: secondo costoro era troppo, perché il servo fedele era già stato premiato e aveva già abbastanza mine, ma non secondo il Maestro che stabilì un concetto importante, cioè che “A chi ha sarà dato, a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha”, cioè sarà privato anche del nulla cioè di ciò che credeva di avere, o meglio di quello che ha ricevuto, ma non ha voluto far fruttare. È questa l’unica punizione che rileviamo nella parabola, a parte la logica conclusione dei contrari al regno, e questo ci parla della benignità di Dio che non è un despota pretenzioso, ma valuta nella Sua perfezione l’opera dell’uomo da Lui onorato con un incarico, o dono che dir si voglia.

Con altrettanta perfezione, poi, Gesù fa emergere la condizione di quell’unico servitore che dice“ho avuto paura di te, che sei un uomo severo”, ma che in realtà non aveva avuto alcuna voglia di agire perché, appunto, viceversa sarebbe andato in banca ad affidare la moneta ricevuta, che qui credo sia la figura istituzionale della Chiesa nel senso di cooperazione e dedizione a compiti che, magari non “onorevoli” in senso umano come il Ministero, il Dottorato, la Predicazione etc., sono comunque necessari. Spesso, leggendo la Scrittura, tendiamo a vedere le “cose grandi” come alla nostra portata, ma dimentichiamo che prima dobbiamo dimostrare di saper gestire le piccole secondo Luca 16.10, “Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti”.

Al servitore che non aveva ottemperato l’ordine ricevuto, viene tolta la mina avuta, ma non ne viene rivelata la sorte. Non è cioè assimilato ai nemici del re e nemmeno di lui viene detto, come nella parabola dei talenti, “Il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti” (Matteo 25.30). Perché? Personalmente tendo a considerare il talento/i come uno specifico dono dello Spirito, mentre nella moneta d’oro la salvezza, il titolo di figlio di Dio che non può essere tolto e quindi quel servo poté restare nel palazzo, ma non certo con i privilegi e la posizione dei suoi simili, vivendo una vita a margine che prima non aveva. Per lo meno questo è ciò che mi pare di capire, a differenza dell’omologo di Matteo che chiaramente non tiene in alcun conto quanto ricevuto, cioè una somma più importante dalla quale il suo signore si aspettava di ricavare un reddito.

Le ultime parole di Gesù in questa parabola sono per i nemici che non lo hanno voluto come re: c’è quindi volontà nel rifiuto, visto che davanti a Lui non esiste possibilità di essere neutrali, esattamente come è una scelta non aprire quando Lui bussa alla porta della nostra vita. “Non volere” Gesù come re significa ostinarsi nelle proprie convinzioni, convinti di essere noi con la nostra vita – che poi nostra non è – a valere più di Lui. Significa non distogliere lo sguardo da ciò che siamo per rivolgerlo verso la perfezione, in pratica concretare l’amara constatazione di Gesù, “Quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia i suoi pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto!” (Luca 13.34). È il pianto di Gesù su Gerusalemme, nell’attesa che fosse lei a piangere davvero. Amen.

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