13.15 – SE NON VI CONVERTITE (Luca 13.1-5)

13.15 – Se non vi convertite (Luca 13.1-5) 

 

1 In quello stesso tempo si presentarono alcuni a riferirgli il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici. 2Prendendo la parola, Gesù disse loro: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subìto tale sorte? 3No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. 4O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? 5No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo».

 

            Ci troviamo di fronte a un passo che, concettualmente, potrebbe essere considerato imparentato con quello in cui i discepoli, vedendo un uomo nato cieco e ritenendo la sua condizione dovuta a un’infrazione alla Legge, chiesero a Gesù chi avesse peccato, lui o i suoi genitori. Se però allora la risposta fu “Né lui ha peccato, né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio”, qui leggiamo “No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo”: radice comune, quindi, vista nella negazione dell’opinione diffusa secondo cui un male materiale trovava la sua spiegazione in un male morale a monte. Però la “desinenza” è diversa.

Venendo ai fatti storici che vengono citati, il sangue dei Giudei e la torre di Siloe, va detto che non se ne trova traccia nella storia del tempo nel senso che Giuseppe Flavio non li riporta, ma è certo siano avvenuti perché Luca ne parla come se si trattasse di un fatto noto ai suoi lettori del tempo, primo fra tutti il sommo sacerdote Teofilo cui ha dedicato il Vangelo e gli Atti. Fra le ipotesi formulate in proposito quella che ha maggior credito vede in “quei galilei”degli Zeloti, setta fondata da Giuda il Galileo che, quando Augusto ordinò il pagamento delle tasse, insegnò ai suoi concittadini che non era lecito pagare il tributo a Cesare. Viene spontaneo allora ricordare la domanda posta a Gesù da alcuni farisei ed erodiani che “…vennero e gli dissero: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno, ma insegni la via di Dio secondo verità. È lecito o no pagare il tributo a Cesare? Lo dobbiamo dare, o no?»”(Marco 12.14). Sappiamo la risposta, “Date a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio”, cose difficili entrambe.

La strage di quei galilei nel Tempio potrebbe allora essere avvenuta nel corso di uno dei numerosi tumulti che si verificavano, prodotti da loro a Gerusalemme per le feste, quando appunto la città era particolarmente sorvegliata dalle truppe di Roma. Invero di tumulti ve n’era stato in particolare uno, di Giudei, che protestarono perché Pilato aveva sottratto del denaro dalla cassa del Tempio per la costruzione di un acquedotto: a quel punto, il prefetto romano ordinò ai suoi soldati di mescolarsi coi dimostranti e di percuoterli con bastoni. Giuseppe Flavio testimonia che molti giudei morirono per i colpi ricevuti o per la calca della folla in tumulto.

Il crollo della torre, poi, è stato individuato nel cedimento di una delle torri costruite a salvaguardia dell’acquedotto che portava l’acqua alla piscina di Siloe a Sud dell’angolo orientale di Gerusalemme.

Riassumendo: Gesù viene interpellato a proposito dei due episodi che Luca ha riportato, in cui delle persone morirono, alcuni – viene a pensare – di spada, altri schiacciati dai massi e detriti della torre; l’importante, come accennato all’inizio, non era tanto lo specificare che ciò che era avvenuto a quelle persone non era una punizione per i loro peccati, ma, parole identiche in entrambi i casi, “Se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo”, quindi di morte violenta che non penso sia riferita a quella del corpo.

“Se non vi convertite”è quindi l’unica indicazione che Gesù dà ai suoi interlocutori per evitare la morte e possiamo dire che la Sua sia una frase che, per quanto già annunciata da Giovanni Battista (“Ravvedetevi, perché il regno dei cieli è vicino”), sia un tassello importante per comprendere altre Sue parole.

Apriamo una breve parentesi sulla conversione e l’incontro con Gesù e consideriamo ad esempio Giovanni 6.35, “Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!”: possiamo stabilire che il “viene a me”presume un percorso animato da una ferma volontà di risoluzione. Se così non fosse, infatti, sarebbe tutto inutile, sarebbe un po’ come fanno quelle persone che si rivolgono a un medico, ma poi, quando propone una cura che a loro non sta bene, pretendono di continuarla a modo proprio, chiaramente non guarendo. Ora invece sappiamo dalla storia che ci propone il Vangelo che, prima ancora che Gesù si presentasse ufficialmente al mondo, c’era un invito al ravvedimento tramite la conversione. Appunto, “Se non vi convertirete”, cioè non vi trasformate divenendo qualcosa di diverso da quello che adesso siete.

Un tempo ero convinto che la conversione fosse la rinuncia a tutte quelle abitudini che avevo naturalmente ereditato dal mondo: con sofferenza, ma anche con entusiasmo, ho allora rinunciato a tante cose che purtroppo, presto o tardi, si ripresentavano in tutta la loro forza non avendo io capito che il privarsi di qualcosa può essere fatto solo quando si è compreso nel profondo il vantaggio che questo comporta. Se ci pensiamo, è quello che successo agli apostoli quando, una volta chiamati da Gesù, lasciarono ogni cosa e lo seguirono. E nessuno di loro tornò indietro alle loro vecchie abitudini e alla relativa tranquillità della vita di sempre. Nel mio caso, il “lasciare” degli apostoli lo riferisco all’orgoglio, alla volontà di possedere cose e persone, al valore che davo a quanto mi apparteneva e all’opinione che avevo di me stesso.

“Convertirsi”, per me, era tutto sommato un modo di presentarmi agli altri come qualcosa di diverso, ma era anche purtroppo un vestito che indossavo per non mostrare quello che effettivamente ero, cioè una persona che, per quanto animata da “nobili propositi”, era immatura e si nascondeva sotto quell’abito sperando che gli altri non notassero i disagi o le problematiche nelle quali mi dibattevo. Mi era sconosciuto il concetto che la “conversione” altro non era che diventare un tutt’uno col mio Signore e Salvatore, ferma restando la realtà della carne contrapposta a quella dello Spirito. Se è vero che ci si converte una volta, lo è altrettanto che pressoché quotidianamente si presenterà la scelta se agire in un modo o in un altro, secondo lo spirito o la carne. Ecco perché siamo provati ogni giorno. La conversione allora si basa proprio sulla convinzione, corroborata da prove certe dentro di noi, che non possiamo più essere quelli di prima, né lo vogliamo. È il risultato dell’elaborazione e dell’assimilazione della verità del Vangelo e del fatto che apparteniamo veramente a Gesù Cristo, Nostro Signore.

Ora esaminiamo la realtà degli episodi riferiti a Gesù in questo passo e i morti, chi per spada – ricordiamo “il sangue fatto scorrere”–  chi per schiacciamento sotto il peso della torre: per entrambi i casi è possibile un riferimento spirituale visto nella locuzione “allo stesso modo”; certo non poteva essere che, se gli uditori di Gesù non si fossero convertiti, sarebbero tutti morti uccisi o schiacciati dal crollo di una torre, ma ciò che Egli vuole rivelare è che, senza conversione, la persona è destinata a una fine violenta, qui evidentemente dell’anima.

Il primo strumento di morte è la spada, che troviamo per la prima volta in Genesi 3.24, quando Iddio “…scacciò l’uomo e pose a oriente del giardino di Eden i cherubini e la fiamma della spada guizzante, per custodire la via all’albero della vita”: quella via nessun essere umano l’avrebbe più potuta trovare. In questo caso la “spada”è figura del limite assoluto imposto all’uomo, che essendo diventato impuro a causa del peccato non avrebbe potuto più avere a che fare tanto con l’eternità quanto con la santità di Dio talché fu detto a Mosè “Tu non potrai vedere il mio volto, perché l’uomo non può vedermi e vivere”(33.20).

Per il tema del nostro verso, la spada, da sempre strumento di morte, è anche figura del giudizio: “Quanto a voi, vi disperderò tra le nazioni e sguainerò la spada dietro di voi – perché il giudizio arriva sempre quando uno meno se lo aspetta –, la vostra terra sarà desolata e le vostre città saranno deserte”(Levitico 26.33). Quest’arma è sinonimo di sterminio, come avvenne in tutti i casi in cui“a fil di spada”furono passati tutti gli abitanti delle città conquistate o gli eserciti di cui leggiamo negli scritti dell’Antico Patto, ma è anche uno strumento che appartiene al Signore: “Àlzati, Signore, affrontalo, abbattilo; con la tua spada – non la mia – liberami dal malvagio”(Salmo 17.23). Ho citato versi indicativi, che certo non sono i soli nella letteratura antica. Arrivando al Nuovo Testamento, questa è prevalentemente riferita allo Spirito Santo e alla Parola di Dio che separa ciò che è puro da ciò che è impuro, oltre ad essere strumento di difesa dagli attacchi dell’Avversario e dei suoi rappresentanti come da Efesi 6.17 quando si parla della “spada dello Spirito, che è la Parola di Dio”.

Fatte queste premesse, arriviamo così ad Apocalisse 19, quando appare il cavaliere bianco: “Poi vidi il cielo aperto, ed ecco un cavallo bianco; colui che lo cavalcava si chiamava Fedele e Veritiero; egli giudica e combatte con giustizia, (…) è avvolto in un mantello intriso di sangue e il suo nome è: il Verbo di Dio. (…) Dalla sua bocca esce una spada affilata, per colpire con essa le nazioni”(vv. 11-15). Riferito alle nazioni pagane che non avranno accolto il Figlio di Dio, è agevole raccordare quanto descritto dall’apostolo Giovanni col giudizio degli ultimi tempi, precisamente quelli che precederanno il Millennio. Illuminante in proposito i versi 20 e 21: “Ma la bestia fu catturata, e con essa il falso profeta, che alla sua presenza aveva operato i prodigi con i quali aveva sedotto quanti avevano ricevuto il marchio della bestia e ne avevano adorato la statua. Ambedue furono gettati vivi nello stagno di fuoco, ardente di zolfo. Gli altri furono uccisi dalla spada che usciva dalla bocca del cavaliere, e tutti gli uccelli si saziarono delle loro carni”.

“Perirete allo stesso modo”,quindi, perché non avrete la possibilità di salvarvi dalla spada, non essendovi convertiti. Ed ecco, fin da allora Gesù offre ai suoi uditori l’opportunità di scampare da questa morte terribile perché, se certo fa impressione il pensiero di venire uccisi nel corpo tramite quello strumento, la morte seconda in giudizio sarà molto più atroce. In mancanza di conversione, c’è dunque prospettiva di morte certa attraverso la spada.

C’è poi la fine la morte per il crollo della torre, quindi per schiacciamento, come purtroppo accade nei terremoti quando sono le case, che per noi rappresentano un riparo e che cerchiamo di rendere gradevoli alla nostra permanenza per quanto possibile, a collassare. Ebbene, la morte per schiacciamento si verifica quando un peso di notevole portata va a gravare su un corpo vivente. Il peso esiste per la gravità ed è quindi, poiché abitiamo la Terra, a lei strettamente attinente. Ed è sulla Terra che l’uomo pensa, agisce e costruisce la propria vita, non potendo esentarsi in alcun modo dal peccare, cioè agire in modo contrario alle aspettative e alla natura di Dio che lo ha creato e avrebbe voluto che vivesse in un Luogo, Eden, da Lui appositamente creato, circondato e protetto.

Arriviamo così al peso del peccato, di cui Davide scrisse “Mi opprime il peso delle mie colpe, ma Tu perdonerai i miei peccati”quindi liberandolo (Salmo 65.3). Il peccato separa da Dio, riduce l’uomo al fantasma di se stesso, lo priva della dignità che avrebbe se fosse a Lui unito e lo rende schiavo dell’avversario, incapace di qualsiasi forma di elevazione e soprattutto di liberazione da esso. E, soprattutto, resta. Ricordiamo in proposito le parole di Gesù ai Giudei nell’episodio del cieco nato: “Se foste ciechi non avreste alcun peccato; ma siccome dite: «Noi vediamo», il vostro peccato rimane”(Giovanni 9.41).

Infine, è proprio il peccato a uccidere perché ve n’è uno, quello delle origini, che viene individuato nella frase “il salario del peccato è la morte”(Romani 6.23) e al quale tutti devono sottostare, mentre vi è quello per scelta personale che determinerà “la morte seconda”cui scamperanno tutti coloro che, scegliendo di vivere la conversione, non ne saranno colpiti: “Per i codardi, gli increduli, gli abominevoli, gli omicidi, i fornicatori, gli stregoni, gli idolatri e tutti i bugiardi, la loro parte sarà nello stagno ardente di fuoco e zolfo, che è la morte seconda”(Apocalisse 21.8).

La domanda che si pone credo a questo punto sia: chi uccide? Colui che porrà queste anime nello stagno, o gli stessi uomini che non avranno “aperto il cuore all’amore della verità per essere salvati”(2 Timoteo 2.10)? Credo allora che a uccidere sarà il peccato con il suo peso che le anime dei non salvati avranno voluto tenersi addosso e che solo alla fine, dopo una quantità innumerevoli di segnali in tal senso, li schiaccerà inevitabilmente. Perché “Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mansueto e umile di cuore, e troverete ristoro per le anime vostre. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero”(Matteo 11.28,29). Amen.

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11.19 – RENDERÀ A CIASCUNO SECONDO LE LORO AZIONI II/II (Matteo 16.27.28)

11.19 – Renderà a ciascuno II (Matteo 16. 27,28)

 

 27Perché il Figlio dell’uomo sta per venire nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e allora renderà a ciascuno secondo le sue azioni28In verità io vi dico: vi sono alcuni tra i presenti che non moriranno, prima di aver visto venire il Figlio dell’uomo con il suo regno».

Il tema del rendiconto, cioè quel momento in cui l’uomo dovrà rispondere delle sue azioni, è stato accennato diverse volte nel corso di questa serie di studi. Gesù lo ha presentato anche attraverso le parabole, cioè quei messaggi figurati studiati appositamente perché rimanessero nella mente delle persone semplici molto meglio dei discorsi dedicati a chi della Legge e degli altri scritti aveva una conoscenza più approfondita. Qui, dopo aver parlato di rinnegamento di sé, di fare attenzione a come si considera la propria vita, della necessità di appartenergli perché altrimenti non avremmo nulla da dare in cambio per la nostra salvezza, ecco presentarci il motivo di tutta questa serie di esortazioni: la venuta del “Figlio dell’uomo nella gloria del Padre suo” è imminente. “Sta per venire” e “verrà” sono i modi con cui l’espressione originale è tradotta ed è da sottolineare che Gesù, allora sottomesso come tutti gli uomini anche allo scorrere del tempo, qui si apre ad una visione che gli appartiene come Dio. E qui l’apostolo Pietro, spinto dallo Spirito Santo, scrive “Carissimi, c’è una cosa che non dovete dimenticare: per il Signore, lo spazio di un giorno è come mille anni e mille anni sono come un giorno solo. Il Signore non ritarda a compiere la sua promessa: alcuni pensano che sia in ritardo, ma non è vero. Piuttosto egli è paziente con voi, perché vuole che nessuno di voi si perda e che tutti abbiate la possibilità di cambiare vita. Il giorno del Signore verrà all’improvviso, come un ladro. Allora i cieli spariranno con grande fracasso, gli astri del cielo saranno distrutti dal calore e la terra, con tutto ciò che essa contiene, cesserà di esistere” (1 Pietro 3.1-10).

A parte che questi versi aprono varie prospettive sulle quali torneremo, è la proporzione tra i “mille anni” e “un giorno” a dirci che qui Gesù parla come Dio all’uomo, per cui non possiamo aspettarci un avvenimento imminente secondo il nostro metro valutativo e soprattutto in base quell’istinto che ci spinge a considerare procedente in un tempo misurabile ciò che il Signore classifica come “breve”. E infatti per questo abbiamo letto “Il Signore non ritarda a compiere l’adempimento della sua promessa, come alcuni credono”.

Su questo “Sta per venire”, o “verrà”, possono valere le stesse considerazioni fatte quando Nostro Signore operò una rilevante distinzione fra “L’ora viene, ed è questa, in cui i morti udranno la voce del Figlio di Dio e quelli che l’avranno ascoltata vivranno”, e “Viene l’ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce e ne usciranno” (Giovanni 5.25-28) in cui due periodi per noi distanti nel tempo vengono da Lui divisi dalla specificazione “ed è questa”, ma utilizzando lo stesso tempo, al presente. Una cosa sono i nostri tempi, un’altra i Suoi.

Studiando i versi in esame occorre distinguere il 27 dal 28, poiché il termine “regno” implica la presenza di più significati. “Il Figlio dell’uomo sta per venire nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e allora renderà conto a ciascuno secondo le sue azioni” si riferisce all’ultima fase della storia umana, quando avranno avuto fine tutti gli eventi che caratterizzeranno il periodo dato all’umanità per salvarsi tra cui vengono annoverati, oltre alla Grazia e il rapimento della Chiesa, la Gran Tribolazione e il Millennio. Gesù, che qui non parla di questi eventi, va dritto al nocciolo della questione visto nel giudizio finale, chiaramente collegato alla retribuzione, al “rendere a ciascuno secondo le sue opere”, principio noto dai tempi antichi quando Salomone, in Proverbi 24.12 scrive “Se tu dicessi: «Io non lo sapevo», credi che non l’intenda colui che pesa i cuori? Colui che veglia sulla tua vita lo sa; egli renderà a ciascuno secondo le sue opere”.

Ora è stato detto da molti, me compreso, che gli uomini dell’Antico Patto potevano constatare la maledizione o benedizione su di loro in base alla qualità di vita, per cui la presenza di malattie era sintomo di un peccato, così come la prosperità rivelava loro il premio per l’osservanza alla Sua Legge; eppure, qui abbiamo la conferma che il verbo “rendere” espresso al futuro non si riferisce necessariamente a qualcosa di immediato, come la diretta constatazione dell’essere benedetti. È un futuro che riguarda l’anima. Da sottolineare anche il vegliare di Dio sull’uomo perché “Io, il Signore, scruto la mente e saggio i cuori, per dare a ciascuno secondo la sua condotta, secondo il frutto delle sue azioni” (Geremia 17.10): qui il Signore va oltre a ciò che facciamo, ma ne guarda il “frutto” con gli occhi della Sua Santità e Onniscienza. Stessa cosa in 32.19 in cui Geremia parla degli occhi di Dio “aperti su tutte le vie degli uomini, per dare a ciascuno secondo la sua condotta”, ancora “secondo il frutto delle sue azioni”, per cui quando Gesù parla di un rendiconto futuro sa bene di essere capito. Teniamo anche presente che gli Autori dei Vangeli scrivono un riassunto anche dei discorsi fatti alle persone sapendo che, attraverso lo Spirito Santo, sarebbero stati compresi dai loro lettori.

Nel Nuovo Patto il principio del rendiconto non viene ampliato come in molti casi, ma confermato perché l’uomo rimane sempre lo stesso: lo vediamo dal comportamento crudele e prevaricatore che ha in guerra, sempre lo stesso nonostante passino gli anni a migliaia, nel giudicare frettolosamente, nel compiere sempre le stesse trasgressioni davanti a Dio. Se c’è un progresso, questo è tecnologico, mai interiore. Ecco perché “Tu, con il tuo cuore duro e ostinato, accumuli collera su di te per il giorno dell’ira e della rivelazione del giusti giudizio di Dio, che renderà a ciascuno secondo le sue opere – stesse parole rivolte agli antichi -: la vita eterna a coloro che, perseverando nelle opere di bene, cercano gloria, onore, incorruttibilità; ira e sdegno contro coloro che, per ribellione, disobbediscono alla verità e obbediscono all’ingiustizia” (Romani 2.6), dove “cercare”, “disobbedire” e “obbedire” sono i cardini di tutto il discorso.

Per fugare ogni dubbio va precisato che esiste un giudizio di Dio che sarà rivolto agli uomini che non lo avranno posto nelle condizioni di agire perché a lui “ribelli”, ma che non riguarderà i credenti, poiché – parole di Gesù – “chi ascolta la mia parola e crede in Colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita” (Giovanni 5.24). Questo però non esime dal comparire “davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno – perché individuale è il messaggio di Dio come individuale la risposta – la ricompensa dalle opere compiute quando era nel corpo, sia in bene che in male” (2 Corinti 5.10). Questo è imbarazzante per quelli che predicano unicamente la salvezza di chi crede vedendo il cristiano come un privilegiato dall’amore di Dio, fatto indubbio, ma a scapito delle responsabilità che occupa come tale. È un ripetersi della dottrina che alcuni predicavano nella Chiesa di Corinto.

In pratica, ogni credente scamperà al Giudizio, perché “passato dalla morte alla vita”, come descritto in 2 Tessalonicesi 1.7-9: “…quando si manifesterà il Signore Gesù dal cielo, insieme agli angeli della sua potenza, con fuoco ardente, per punire quelli che non riconoscono Dio e quelli che non obbediscono al vangelo del Signore nostro Gesù. Essi saranno castigati con una rovina eterna, lontano dal volto del Signore – che è calore e luce – e dalla sua gloriosa potenza. In quel giorno egli verrà per essere glorificato dai suoi santi ed essere riconosciuto mirabile da tutti quelli che avranno creduto, perché è stata accolta la nostra testimonianza in mezzo a voi”.

Ma c’è di più, come leggiamo nel libro dell’Apocalisse: in tutte le lettere alle sette chiese si leggono elogi e rimproveri, ma a tutte loro, quindi a ogni cristiano, viene detto “Ecco, io vengo presto – ecco perché “il Figlio dell’uomo sa per venire” – e ho con me il mio salario per rendere a ciascuno secondo le sue opere” (22.12): di qui la responsabilità che abbiamo, correlata a quel verso più volte ricordato in base al quale “il fuoco darà la prova dell’opera di ciascuno”, cioè il passaggio di tutto ciò che abbiamo fatto attraverso la visione di Colui che ha “gli occhi di fuoco”, Gesù Cristo glorificato e il solo ad avere diritto di valutazione sull’operato dei credenti.

 

Tutte queste parole sono e furono considerate dagli uomini, quindi allora come oggi, solo come teoriche e per questo il verso successivo fornisce un elemento fonte di accurata meditazione: “In verità io vi dico: vi sono alcuni tra i presenti che non moriranno, prima di aver visto venire il Figlio dell’uomo con il suo regno”. Qui purtroppo la traduzione è errata perché non si tratta di “con il suo”, ma “nel suo”, dove Luca precisa per i non ebrei “prima di aver visto il regno di Dio”: è un verso che ha fatto inciampare molti che hanno sostenutoo che qui non è stato detto il vero, fraintendendo il regno di Dio con il ritorno di Gesù per giudicare. “Vedere il regno” ha qui il significato delle Sue manifestazioni a prescindere dal tipo, perché sono multiformi, ma va precisato che la traduzione del verso 28 “con il suo regno” è frutto di interpretazione.

In proposito ricordiamo le parole di Gesù in Matteo 12.28: “Ma se io scaccio i demòni per mezzo dello Spirito di Dio, allora è giunto a voi il regno di Dio”. Se allora l’espressione “regno di Dio” comprende molte realtà, qui abbiamo un riferimento alla Sua resurrezione, con la relativa ascensione con la quale Nostro Signore abbandonò questa terra perché ogni cosa era stata compiuta e adempiuta per la salvezza dell’uomo, ma anche alle altri avvenimenti, come tutto ciò che caratterizzò la Sua morte, e qui possiamo pensare sicuramente all’oscurità che cadde sulla terra, al terremoto, alla resurrezione di molti, ma soprattutto alla cortina del tempio che si crepò in due lasciando aperta la visione del luogo santissimo, a conferma dell’abolizione del Vecchio Patto con il popolo di Israele. Ancora, pensiamo alla discesa dello Spirito Santo sui centoventi e alla distruzione di Gerusalemme e del suo Tempio ad opera delle truppe romane di Tito, avvenuta nel 70 d.C.

C’è anche però un altro riferimento, molto più immediato, che quanto avverrà davvero “a breve” secondo il metro umano, ed è quello alla trasfigurazione di Gesù, evento al quale Pietro, Giacomo e Giovanni avranno il privilegio di essere testimoni, che sii verificherà sei giorni dopo queste parole.

Ecco allora che le parole di Gesù qui esaminate ci parlano dell’assoluta necessità di recepirle: a un avvenimento allora lontano del rendiconto così come espresso al verso 27, ne fa da contrappunto un altro, quello del “Figlio dell’Uomo venire nel suo regno” a garanzia del primo, qui enunciato, che ogni vero cristiano attende.

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