09.01 – LA MISSIONE DEI DODICI, INTRODUZIONE (Matteo 9.35-38)

9.01 – La missione dei dodici: introduzione (Matteo 9.35-38)

 

35Gesù percorreva tutte le città e i villaggi, insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il vangelo del Regno e guarendo ogni malattia e infermità. 36Vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore. 37Allora disse ai suoi discepoli: «La messe è abbondante, ma son pochi gli operai! 38Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe!»”.

 

Iniziamo una serie di riflessioni sull’invio dei dodici apostoli in missione ed è naturale che risalga dal momento in cui, come leggiamo in Matteo 10.1 in poi o nei paralleli, Gesù li chiama a sé dando loro “potere sugli spiriti impuri per scacciare e guarire ogni malattia e ogni infermità”. È chiaramente così, ma i versi che ho scelto come introduzione a questo tema fondamentale hanno la funzione di rivelarci cosa mosse Nostro Signore per mandare i Suoi in predicazione. Matteo prima ci informa di Nostro Signore che percorre città e villaggi, insegna nelle sinagoghe “annunciando il Vangelo del Regno”, cioè spiegando quei passi profetici che Lo riguardavano e le modalità con cui il regno di Dio si sarebbe manifestato, oltre che guarire ogni tipo di infermità. Da notare che le guarigioni occupano l’ultimo posto nell’elenco, venendo prima l’insegnamento e l’annuncio del regno. In altri termini, era il Vangelo che doveva avere la prevalenza sui miracoli ed ecco perché, dopo che avvenivano, quando avevano carattere privato, ne veniva proibita la divulgazione.

Quanto riportato da Matteo in questi versi lascerebbe pensare al fatto che Gesù intraprese un secondo viaggio missionario, ma il fatto che la versione greca usi il tempo imperfetto (anziché l’aoristo) può significare che Matteo alluda agli spostamenti giornalieri, da un paese all’altro della Galilea anziché riferirsi ad un viaggio vero e proprio. La questione è e rimane aperta, ma credo che a contare sia ciò che traspare dalle parole di Matteo: Gesù opera incessantemente, percorre “tutte le città e i villaggi” senza tralasciare neppure le Sinagoghe più piccole, quelle composte da dieci persone, senza fare distinzione tra centri importanti o meno perché ogni uomo era ugualmente unico e irripetibile così come non faceva distinzione tra malattie più o meno gravi perché tutte riconducevano a una condizione di peccato della quale ciascuno era vittima. Le persone cui si rivolgeva erano i “poveri”, i “malati” secondo la Sua definizione, coloro che non avevano scelto deliberatamente la via degli empi, ma non avevano modo di andare oltre la miopia della carne, subendola senza poter porvi rimedio.

Ed è qui che Matteo fornisce un dato sull’indole e l’amore di Gesù: “Vedendo le folle…”, non radunate in un luogo particolare, ma quelle che accorrevano a Lui da ogni città o villaggio e lo seguivano, “…ne ebbe compassione”, termine che, descrivendo un atteggiamento comprensivo e soccorrevole verso uno stato penoso, trova la sua origine nel latino cum-patior, vale a dire “patire assieme”, quindi Nostro Signore si immedesimò in quella gente a tal punto da soffrire per chi, probabilmente, non si rendeva neppure conto dello stato in cui versava.

Infatti subito dopo abbiamo la spiegazione di questo sentimento: “perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore”. Questa era la valutazione che Gesù fece di loro. Erano gli “stanchi e oppressi” che avevano bisogno del Suo ristoro anche senza sapere esattamente chi fosse Colui al quale si rivolgevano. E la confusione attorno alla Sua persona  era grande, come leggiamo in Marco 8.28 “La gente chi dice che io sia? Ed essi gli risposero: «Giovanni Battista, altri poi Elia e altri uno dei profeti”.

È bello vedere che Gesù, quando cerca e trova un uomo, non dia importanza al fatto che questi sappia o meno chi è chi gli parla, ma aspetti di essere da lui riconosciuto: “Tu sei il Cristo, il Figlio dell’Iddio vivente”. Fino a quel momento, l’uomo è “stanco e sfinito” perché il mondo che conosciamo non può fare altro che produrre nella creatura questo stato, come possiamo vedere nel paragone con la pecora che non ha pastore. Ricordiamoci sempre che possiamo identificare la stanchezza e lo sfinimento del mondo a patto che riguardi i tempi nostri, mentre quella di allora si riferiva sempre allo stato spirituale del popolo che gemeva sotto il giogo dell’insegnamento tradizionale degli Scribi e dei Farisei: questo aveva portato non alla costituzione di un gregge ordinato e compatto, ma il disorientamento e la dispersione delle pecore teoricamente loro affidate.

Riguardo alla pecora, si può dire che è un animale in grado di riconoscere fino a cinquanta propri simili, distingue un volto umano imbronciato da uno sorridente dando la preferenza a quest’ultimo e ha in sé il senso della cooperazione. Il pastore è da lei riconosciuto fisicamente e dalla voce anche quando le chiama una ad una – e una ad una rispondono e vanno da lui –, ma non possiede il senso dell’orientamento e ha bisogno di essere guidata costantemente, come provato dai recinti in cui è contenuto il gregge che, quando è libero, va continuamente compattato dai cani. Anche se agli orgogliosi può non far piacere, l’uomo è spesso paragonato alla pecora perché nonostante l’intelligenza di cui è dotato, è spiritualmente soggetto a perdersi di continuo e ha bisogno che Dio lo guidi costantemente. Tutti, nessuno escluso.

Sappiamo che Gesù ebbe compassione delle folle perché prese atto che erano “stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore”, cioè lo stato in cui versavano non era tanto imputabile a loro, quanto all’assenza dei pastori nonostante vi fossero quelli che si dichiarassero tali. Ma cosa distingue il pastore bravo da uno che non lo è? La sua abilità non risiede nel tenere unito il gregge ed evitare che la pecora si perda; piuttosto il buon pastore sa gestire il pascolo ottenendo una crescita equilibrata del manto erboso e quindi una corretta alimentazione degli animali. La pecora tende ad essere ingorda ed è golosa, non possiede il senso di sazietà, per cui chi si prende cura di lei deve fare attenzione a che non si ingozzi e deve regolare il tempo di permanenza in un pascolo particolarmente appetibile. Il pastore ha quindi le funzioni di guida al pascolo più idoneo, si deve occupare interamente di loro anche perché se l’erba che assumono, per quanto a loro gradita, è sempre la stessa, si stancano. Il gregge allora deve avere a disposizione una nutrita quantità di erbe e pascoli diversi. Sono poi animali che hanno paura dell’acqua e solo se il pastore è vicino a loro riescono a guadare un torrente, o anche solo un ruscello. Ecco perché si tratta di un mestiere che non si può improvvisare e soprattutto richiede dedizione. Ricordiamo che Abele fu pastore, mentre Caino agricoltore.

Ecco, Gesù constata tutto questo: le folle erano “stanche e sfinite” perché nessuno si prendeva cura di loro, o lo faceva talmente male che era come se il pastore non ci fosse. Di qui la compassione di Gesù, che conosceva i pensieri di ogni componente di quei gruppi, chi gli sarebbe appartenuto e chi no, come disse ai Farisei un giorno: “Voi non credete perché non siete delle mie pecore” (Giovanni 10.26). Il suo sentire quelle cose fece sì che iniziasse un periodo nuovo preceduto dalla richiesta ai Suoi di pregare: la messe era grande e pochi gli operai; c’era urgenza di provvedere a tutta quella massa di gente che Matteo descrive come un gregge senza pastore mentre Gesù lo vede come una messe che va a male per mancanza di mietitori e la Sua reazione non è quella di dire ai discepoli di agire, “fare qualcosa” per loro, ma di pregare “perché (il Signore) mandi degli operai nella sua messe”. Da soli, senza istruzioni, senza sapere come agire, cosa aspettarsi, senza capire, i dodici avrebbero aggiunto danni a quelli già esistenti. Perché se il pastore non può essere improvvisato, chi annuncia il Vangelo non può essere una persona impreparata e non avere la protezione di Dio su di sé.

A conferma l’apostolo Paolo scriverà in 2 Tessalonicesi 3.1-3: “…pregate per noi, perché la parola del Signore corra e sia glorificata, come lo è anche tra voi, e veniamo liberati dagli uomini corrotti e malvagi. La fede infatti non è di tutti. Ma il Signore è fedele: egli vi confermerà e vi custodirà dal maligno”. La richiesta di pregare rivolta ai membri della Chiesa di Tessalonica rivela il nuovo bisogno di quel tempo: c’era necessità di pastori, ma anche coloro che già operavano andavano sostenuti in quanto è nel momento che un cristiano parla del Vangelo che diventa un obiettivo per l’Avversario e i suoi angeli, siano essi umani o entità spirituali negative.

Ma il piano di Dio è diverso: “Lascerò ancora che la casa d’Israele mi supplichi e le concederò questo: moltiplicherò gli uomini come greggi, come greggi consacrate, come un gregge di Gerusalemme nelle sue solennità. Allora le città rovinate saranno ripiene di greggi di uomini e sapranno che io sono il Signore” (Ezechiele 36.37).

Tornando all’episodio vediamo che, contrariamente all’istinto che spinge gli uomini ad agire per “fare qualcosa” di fronte a un problema, la preghiera dev’essere al primo posto e costituire il primo passo; quelli che erano già stati chiamati apostoli prima del sermone sul monte ubbidirono all’invito del loro maestro, pregarono perché il Signore mandasse degli operai nella sua messe e qualche tempo dopo, che non possiamo quantificare, vennero inviati in missione con un mandato preciso. Come vedremo, Gesù non li mandò allo sbaraglio, ma li informò dei pericoli che avrebbero corso, dei tipi di uomini che avrebbero incontrato, oltre a dotarli delle elementari regole di comportamento e conferendo loro il potere di guarire e resuscitare i morti. E, lui Figlio di Dio e dell’uomo, avrebbe pregato per loro.

Concludendo, nel nostro ultimo verso Nostro Signore non dice agli apostoli di chiedere a lui, ma “Pregate il Signore della messe”, quindi Colui che Lo aveva mandato, perché solo così avrebbero avuto l’approvazione del Padre in un’opera formidabile non di proselitismo, ma di liberazione dell’uomo dal peccato e dalla morte.

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4.01 – APOSTOLI 1 (Introduzione)

4.1 – Apostoli, introduzione

L’elezione dei dodici apostoli costituisce, nel campo delle nostre riflessioni sui Vangeli, un episodio importante e molto particolare, che ci consente di dare uno sguardo panoramico sulla personalità e i ruoli che questi ebbero nella storia della salvezza. La loro scelta è posta da Marco e Luca prima del discorso della montagna, mentre Matteo la pone dopo, in occasione del loro invio in missione nelle città di Israele, ma non dice che la loro costituzione avvenne in quel momento lasciando intendere che l’elezione ad apostoli avvenne in precedenza.

Studiare l’elenco dei dodici e svilupparlo non è facile perché occorre orientarsi, passare attraverso passi nascosti stante la nostra attenzione umana che tende più a focalizzarsi sui discorsi, sui fatti così diversi tra loro che incontriamo nella lettura dei Vangeli più che sulle persone, soprattutto quelle nominate magari solo in un versetto su cui sorvoliamo. Anche per questo è necessaria un’introduzione allo studio sugli apostoli che ci impegnerà per un certo tempo, introduzione che terrà conto di molti punti e idee che, pur attinenti al testo, si svilupperanno considerando fatti e motivazioni non così immediate rispetto a Luca 6. L’elezione dei dodici fu un’iniziativa che ebbe radici molto profonde e nascoste al lettore; la stessa notte che Nostro Signore passò in preghiera al verso 12 tendiamo a considerarla come un fatto scontato, dimenticandoci forse di quanto una notte sia lunga, che chi si trova ad affrontarla deve farei i conti con le ondate di sonnolenza che arrivano fisiologicamente, dell’attenzione che cala e che la stanchezza prevalse su Pietro, Giacomo e Giovanni quando, invitati a pregare dal loro Maestro nell’orto del Ghetsemane in un momento di assoluta gravità, si addormentarono: “Così non siete stati capaci di vegliare con me una sola ora? Vegliate e pregate per non entrare in tentazione: Lo spirito è pronto, ma la carne è debole” (Matteo 26.40).

Gli evangelisti non ci hanno trasmesso i contenuti della preghiera che Gesù elevò al padre prima di scegliere i dodici, ma posso pensare che fosse basata principalmente non tanto su chi scegliere, ma sullo sviluppo della loro elezione: Nostro Signore conosceva il cuore umano, il passato, il presente e il futuro di quelle persone, ma soprattutto le loro debolezze e sapeva che era a loro che veniva affidato il compito di essere i coadiutori nella predicazione prima e soprattutto dell’evangelizzazione dopo la Sua risurrezione: gli apostoli sarebbero stati i costruttori e i fondatori della Chiesa per cui la preghiera al Padre fu incentrata sul loro sviluppo, sulla loro crescita nella storia affinché fossero custoditi nella fede e sostenuti nell’ora del turbamento forte e violento che avrebbero avuto al suo arresto, sul fatto che fossero oggetto dell’attenzione divina in ogni loro passo e perché svolgessero fedelmente il loro ruolo di inviati. Un esempio di preghiera in questo senso lo troviamo al capitolo 17 del Vangelo di Giovanni in cui abbiamo le richieste al Padre non solo per tutti quelli che avevano creduto in Lui allora, ma anche per quelli che sarebbero venuti dopo: “9Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per coloro che tu mi hai dato, perché sono tuoi. 10Tutte le cose mie sono tue, e le tue sono mie, e io sono glorificato in loro. 11Io non sono più nel mondo; essi invece sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, custodiscili nel tuo nome, quello che mi hai dato, perché siano una sola cosa, come noi. (…)15Non prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li custodisca dal Maligno. 16Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. 17Consacrali nella verità. La tua parola è verità. 18Come tu hai mandato me nel mondo, anche io ho mandato loro nel mondo; 19per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità.”.

La preghiera che Gesù rivolse al Padre prima di chiamare alcuni dei suoi discepoli “apostoli”, poi, è anche un esempio per tutti i credenti tenuti ad interrogarsi su quanto preghino e chiedano al Padre prima di effettuare delle scelte che inevitabilmente influenzeranno la loro vita spirituale e materiale. Se anche noi dessimo spazio a una preghiera di questo tipo quanto a dipendenza da Dio quando ci troviamo di fronte a dei bivi importanti, probabilmente non ci troveremmo a pagarne delle conseguenze amare dopo.

Gesù prega “tutta la notte” dimostrando così umanamente il proprio impegno spirituale e sceglie i dodici “quando fu giorno”, segno che c’è prima un tempo nascosto e riservato in cui prega per loro e uno ufficiale in cui li chiama: anche oggi, se un essere umano viene invitato a seguire Gesù credendo, viene chiamato dopo un tempo, che lui stesso ignora, in cui è stato progettato un percorso e un ruolo. Per questo un passo conosciuto recita “quand’anche camminassi nella valle dell’ombra della morte, io non temerei male alcuno, perché tu sei con me” (Salmo 22.4), perché la protezione di Dio è totale.

Padre e Figlio allora parlarono dei dodici, o per meglio dire di quegli undici che lo avrebbero seguito fino alla fine e dell’uno che avrebbe tradito morendo suicida, fatto previsto e di cui si parla nel Salmo 41.9 dove leggiamo “Anche l’amico in cui confidavo, anche lui che mangia il mio pane, alza contro di me il suo calcagno”, detto ebraico che significa “tramare contro qualcuno a sua insaputa”.

Altro argomento importante come premessa alla chiamata dei dodici è quello della “trasmissione” che ci fu: la volta scorsa abbiamo parlato del Servo scelto perché nessuno se non Gesù poteva portare a compimento l’opera che Padre, Figlio e Spirito Santo avevano progettato. Iddio quindi scelse il Servo, il Servo a suo volta scelse gli Apostoli senza alcun errore neppure riguardo a quello che lo tradirà.

Leggiamo in Marco “Salì poi sul monte, chiamò a sé quelli che voleva ed essi andarono da lui. Ne costituì dodici, che chiamò apostoli, perché stessero con lui e per mandarli a predicare con il potere di scacciare i demoni” (3.13,14); Matteo scrive che “Chiamati a sé i suoi dodici discepoli, diede loro potere sugli spiriti impuri per scacciarli e guarire ogni malattia ed ogni infermità” (10.1); cioè fa due azioni distinte la prima delle quali è chiamarli, definirli, dare loro la qualifica di “apostoli” come coloro che, nella vita civile di allora, erano inviati a comunicare le decisioni giudiziarie. Ricordiamo che lo stesso Sinedrio, il massimo organo teologico – giudiziario di allora, si serviva di persone, chiamate “apostoli” per far pervenire le sue delibere alle varie comunità sparse per il territorio. L’apostolo non era un semplice inviato, un “Anghelos”, un messaggero, ma una persona fornita di credenziali che, nel caso dei dodici, furono quelle di avere “potere sugli spiriti impuri per cacciarli e guarire ogni malattia ed ogni infermità”, cioè quelle negatività chiaramente riscontrabili che l’uomo aveva contratto come conseguenza dell’incontro con Satana, quell’Avversario che la superstizione, la leggenda, la cinematografia e la credenza popolare tendono a raffigurare attraverso immagini e manifestazioni estreme, ignorando che la sua pericolosità consista nel mettere in atto tutto ciò che allontana l’uomo da Dio. Satana non si manifesta mai in tutto il suo orrore, ma in forme che lo mimetizzano e usando strumenti insospettabili come il serpente in Eden, animale conosciuto e non temuto da Eva fece prima di tutto l’errore di dialogare con un essere inferiore ponendolo sul suo stesso piano.

A dare la qualifica di “apostolo” è Gesù, lui solo. Fu una carica unica, non trasmissibile ad altri ad eccezione di quel Mattia che prenderà il posto di Giuda Iscariotha di cui leggiamo in Atti 1.15-26: “15In quei giorni Pietro si alzò in mezzo ai fratelli – il numero delle persone radunate era di circa centoventi – e disse: 16«Fratelli, era necessario che si compisse ciò che nella Scrittura fu predetto dallo Spirito Santo per bocca di Davide riguardo a Giuda, diventato la guida di quelli che arrestarono Gesù. 17Egli infatti era stato del nostro numero e aveva avuto in sorte lo stesso nostro ministero. 18Giuda dunque comprò un campo con il prezzo del suo delitto e poi, precipitando, si squarciò e si sparsero tutte le sue viscere. 19La cosa è divenuta nota a tutti gli abitanti di Gerusalemme, e così quel campo, nella loro lingua, è stato chiamato Akeldamà, cioè «Campo del sangue». 20Sta scritto infatti nel libro dei Salmi: «La sua dimora diventi deserta e nessuno vi abiti, e il suo incarico lo prenda un altro».21Bisogna dunque che, tra coloro che sono stati con noi per tutto il tempo nel quale il Signore Gesù ha vissuto fra noi, 22cominciando dal battesimo di Giovanni fino al giorno in cui è stato di mezzo a noi assunto in cielo, uno divenga testimone, insieme a noi, della sua risurrezione». 23Ne proposero due: Giuseppe, detto Barsabba, soprannominato Giusto, e Mattia. 24Poi pregarono dicendo: «Tu, Signore, che conosci il cuore di tutti, mostra quale di questi due tu hai scelto 25per prendere il posto in questo ministero e apostolato, che Giuda ha abbandonato per andarsene al posto che gli spettava». 26Tirarono a sorte fra loro e la sorte cadde su Mattia, che fu associato agli undici apostoli”.

Come abbiamo letto, nella ricerca del nuovo, dodicesimo “apostolo”, lo stesso Pietro mette l’accento su una caratteristica storica ben precisa: deve essere un uomo che è stato presente per tutto il tempo in cui Gesù fu sulla terra dal Suo battesimo al giorno della Sua ascensione e quindi è una carica che nessuno può arrogarsi il diritto di ricoprire; lo stesso Paolo di Tarso, apostolo per i motivi che vedremo, scrisse agli Efesi in 4.10,11 “Colui che discese è lo stesso che anche ascese al sopra di tutti i cieli, per essere pienezza di tutte le cose. Ed egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri per preparare i fratelli a compiere il ministero allo scopo di edificare il corpo di Cristo finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la pienezza di Cristo”.

Ad Efeso Paolo c’era rimasto tre anni nel 60 circa, lui stesso scrive ai componenti di quella Chiesa che “Siete stati edificati sul fondamento degli apostoli e dei profeti”; ad Efeso pare che morì Giovanni in età molto avanzata tra gli anni 98 e 99 d.C.. Alla morte dei diretti testimoni della vita, morte e risurrezione di Gesù, nella Chiesa rimasero uomini con i doni di cui abbiamo letto, ma la qualifica di apostolo non è trasmissibile proprio per le ragioni di cui ha parlato Pietro e di cui abbiamo letto poc’anzi. Gli apostoli, inoltre, dovevano essere uomini ispirati sulla dottrina e la storicità di Cristo, testimoni reali dei miracoli, della predicazione e dell’esperienza del loro Maestro; tutto questo cessò alla loro morte perché quella carica era unica, specifica, riservata.

E Saulo di Tarso, che lui stesso si definisce “apostolo” per più volte? “Chiamato ad essere apostolo di Cristo per volontà di Dio” (1 Corinti 1.1), “…servo di Gesù Cristo, apostolo per chiamata, scelto per annunciare il Vangelo di Dio” (Romani 1.1), “Paolo, apostolo non da parte degli uomini, né per mezzo di un uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre che lo ha resuscitato dai morti” (Galati 1.1): per lui ci fu una chiamata particolare, ma soprattutto ebbe altrettanto particolari rivelazioni: “1Se bisogna vantarsi – ma non conviene – verrò tuttavia alle visioni e alle rivelazioni del Signore. 2So che un uomo, in Cristo, quattordici anni fa – se con il corpo o fuori del corpo non lo so, lo sa Dio – fu rapito fino al terzo cielo. 3E so che quest’uomo – se con il corpo o senza corpo non lo so, lo sa Dio – 4fu rapito in paradiso e udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunciare. 5Di lui io mi vanterò! Di me stesso invece non mi vanterò, fuorché delle mie debolezze. 6Certo, se volessi vantarmi, non sarei insensato: direi solo la verità. Ma evito di farlo, perché nessuno mi giudichi più di quello che vede o sente da me 7e per la straordinaria grandezza delle rivelazioni” (2 Corinti 12.1-7). Paolo ebbe quindi questa esperienza e giunse a definirsi – certo non da sé – “prescelto ad annunciare il Vangelo di Dio” e a qualificare la sua predicazione contenuta nelle sue lettere come “Il mio Vangelo”: “Ricordati di Gesù Cristo, risorto dai morti, discendente di Davide, come io annuncio nel mio Vangelo” (2 Timoteo 2.8). Ecco perché abbiamo 12 apostoli oltre a uno, più tardi ma loro contemporaneo, che per annunciare il Vangelo si comportò coi pagani come Pietro coi Giudei.

Sono gli scritti dell’apostolo Paolo che, grazie alle sue visioni e alla trasmissione diretta della dottrina, ci permettono di crescere nella conoscenza di Dio avendo Gesù rivelato, nei suoi insegnamenti, fondamentalmente gli aggiornamenti alla Legge, le sue estensioni, cosa questa significasse alla luce del suo Ministero che lo rivelava quale unico inviato da Dio e, certo, quali cambiamenti sarebbero avvenuti. Molte delle applicazioni spirituali che possiamo fare sono possibili grazie all’opera di Paolo e non di altri.

Veniamo a un argomento particolare, che è quello del numero, che indica stabilità in modo molto superiore al quattro a misura dell’uomo e del creato in cui vive; il 12 è il risultato della moltiplicazione fra il 3, che potremmo definire il perfetto numero d’ordine spirituale, e il 4, numero d’ordine terreno. È anche la somma dei primi tre numeri pari (2, 4 e 6), più che il risultato della moltiplicazione del 2 col 6, cifre dell’imperfezione soprattutto il 6. In questo caso credo che il 2 ci richiami ai testimoni necessari (due o più) per confermare un evento (Deuteronomio 17.6). Ancora, nel nostro caso, questo numero ci parla di collaborazione: “Due uomini camminano forse insieme senza essersi messi d’accordo?” (Amos 3.3) e, per finire, Ecclesiaste 4.9 “Meglio essere in due che uno solo, perché due hanno un miglior compenso della loro fatica. Infatti, se vengono a cadere, uno rialza l’altro. Guai invece a chi è solo: se cade, non ha nessuno che lo rialzi”.

Prima di citare il 12 nella scrittura, vediamo alcune sue applicazioni nel mondo tangibile: 12 sono le paia dei nostri nervi cranici, delle vertebre toraciche, i semitoni che formano l’ottava nel sistema musicale occidentale, le ore meridiane e quelle notturne per un totale delle 24 del giorno, gli anni prima di arrivare alla pubertà, i mesi dell’anno che costituiscono un tempo che abbiamo e che viviamo senza conoscerne eventi e sviluppi se non quando sono avvenuti, i segni zodiacali. Nella numerologia, per quanto considerata una pseudoscienza, è interessante notare che questo numero sta a simboleggiare il sacrificio, la fatica fisica e morale, devozione e abnegazione.

Nella scrittura poi lo troviamo per la prima volta a indicare un periodo massimo di sopportabilità (Genesi 14.4 in cui abbiamo i dodici anni di servitù a Chedarlaòmer da parte dei cinque re) e non a caso il Creatore pose il termine di 120 anni alla vita dell’uomo. Questo numero coi suoi multipli rappresenta il punto d’incontro tra le esigenze, i progetti di Dio a favore della creatura e la creatura stessa. È una cifra che ci parla di dono e impegno, come nel caso delle dodici sorgenti e delle settanta palme dell’oasi di Elim (Esodo 15.27) trovate non a caso dopo le acque di Mara, imbevibili senza il bastone che Mosè vi buttò dentro.

Il 12 è un numero che è sempre presente nella storia del popolo di Dio, sia questo Israele o quello acquisito e costituisce una linea che, dalla sua nascita, non avrà mai fine come testimoniano le parole dell’apostolo Giovanni sulla Gerusalemme Celeste: “È cinta da grandi e alte mura con dodici porte: sopra queste porte stanno dodici angeli e nomi scritti, i nomi delle dodici tribù dei figli d’Israele. 13A oriente tre porte, a settentrione tre porte, a mezzogiorno tre porte e a occidente tre porte. 14Le mura della città poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello.
15Colui che mi parlava aveva come misura una canna d’oro per misurare la città, le sue porte e le sue mura. 16La città è a forma di quadrato: la sua lunghezza è uguale alla larghezza. L’angelo misurò la città con la canna: sono dodicimila stadi; la lunghezza, la larghezza e l’altezza sono uguali”
(Apocalisse 21.12-15).

Ora l’argomento del numero 12 è stato appena accennato, con un elenco volutamente limitato; in realtà è uno dei tanti temi immensi che troviamo nella lettura dell’Antico e del Nuovo Testamento ed è impossibile svilupparlo senza aprire capitoli nuovi che esulerebbero dal motivo per cui ho intrapreso la lettura dei Vangeli. Se però con i versi dell’Apocalisse citati abbiamo la visione dell’architettura finale di Dio, nell’elezione dei dodici siamo di fronte a un nuovo, importante passo nel lungo cammino della dispensazione della Grazia e questa cifra prenderà sempre di più la forma, lasciandola vedere da lontano, della Santa Città che ogni cristiano attende e in cui avrà una sua collocazione secondo la promessa di Gesù quando parlò della casa dalle molte stanze.

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