07.19 – CINQUE CANTICI III/V (Isaia50.4-6)

7.19 – Cinque cantici III/V (Isaia 50.4-6)

 

TERZO CANTICO

 

4Il Signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo, perché io sappia indirizzare una parola allo sfiduciato. Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come i discepoli. 5Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro. 6Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi. 7Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso. 8È vicino chi mi rende giustizia: chi oserà venire a contesa con me? Affrontiamoci. Chi mi accusa? Si avvicini a me. 9Ecco, il Signore Dio mi assiste: chi mi dichiarerà colpevole? Ecco, come una veste si logorano tutti, la tignola li divora. 10Chi tra voi teme il Signore, ascolti la voce del suo servo! Colui che cammina nelle tenebre, senza avere luce, confidi nel nome del Signore, si affidi al suo Dio. 11Ecco, voi tutti che accendete il fuoco, che vi circondate di frecce incendiarie, andate alla fiamme del vostro fuoco, tra le frecce che avete acceso. Dalla mia mano vi è giusto questo; voi giacerete nel luogo dei dolori.”.

 

L’esame dei quattro (o cinque a seconda  di come li si vuol suddividere) canti del servo è scaturito dalla domanda dei discepoli a seguito dell’episodio della tempesta sedata in cui dissero “Chi è costui, cui anche il mare e i venti obbediscono?”. Commentando ciò che quegli uomini si chiedevano, è stato sottolineato che i discepoli avevano a portata di mano tutti gli elementi per darsi una risposta, se non altro per i riferimenti al Dio che era intervenuto, ai tempi dell’Antico Patto, sugli elementi della natura servendosi di loro e dominandoli. I discepoli però non erano dottori della Legge, anche se non possiamo escludere che tra loro ve ne fossero, e difficilmente avrebbero potuto collegare i canti del Servo al loro Maestro, cosa che fecero successivamente, come dimostrato da Matteo che cita costantemente le profezie che Lo riguardavano. Questi canti possono essere letti e interpretati oggi e sono in grado di rispondere alla domanda sorta sulla barca a tempesta sedata, “Chi è costui?” sotto l’aspetto profetico.

Il terzo canto espone sinteticamente, da un punto di vista “morale”, la vita del Servo da quando iniziò a insegnare e predicare alla morte sulla croce. Il quarto verso ne spiega la condizione, lo scopo: gli è stata data “una lingua da discepolo” e, secondo questa traduzione, ha avuto come Maestro direttamente il Padre; disse infatti un giorno “Tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi” (Giovanni 15.15). Diodati, tralasciando altre versioni che usano termini intermedi, come ad esempio “da iniziati”, riporta “Mi ha dato la lingua degli uomini dotti” con riferimento non ai sapienti di questo mondo, ma di coloro che erano in grado di esporre la Legge allo stesso popolo che attribuiva Gesù che la spiegava un’autorità vera, superiore a quella degli Scribi e Farisei. Ricordiamo in proposito l’annotazione a commento di quando, dodicenne,  era in mezzo ai dottori: “Tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte”. “Lingua dei dotti” vista nel suo significato più alto che è quello di essere in grado di parlare a chiunque, con concetti semplici o comunque adatti alla persona che ascolta perché lo scopo di quel parlare era “saper indirizzare una parola allo sfiduciato”, tradotto anche con “afflitto” che ci collega alla seconda beatitudine, quella di coloro che “saranno consolati”. Dare una parola che porti sollievo non è facile se ci si vuole immedesimare in chi ne ha bisogno e il libro di Giobbe, con gli interventi dei suoi “amici” venuti a consolarlo con frasi fatte moralmente condivisibili nei contenuti, ma per nulla rapportate al suo caso, testimonia che parole sbagliate e di giudizio portano all’effetto opposto e aumentano la sofferenza dell’interessato.

Le parole di Gesù, invece, indicarono sempre una via d’uscita, l’unica possibile per determinare una soluzione spirituale del problema, dell’origine del dolore, a volte accettata e altre, più spesso, rifiutata. La via spirituale è infatti opposta a quella della carne e una persona, di fronte a una situazione o a uno stato che gli dà pena, se non ne cerca le ragioni e i rimedi spirituali per uscirne, resta coinvolto in essa. È il “laccio” di cui più volte troviamo citazione nelle Scritture. Sono concetti che si collegano al verso 10 che nella sua prima parte dice: “Chi tra voi teme il Signore, ascolti la voce del suo servo!”. Chi “teme il Signore”, cioè lo conosce od è cosciente della Sua esistenza, non deve ascoltare altre voci se non quella di chi è stato “fatto e formato” per rappresentarLo, portare la Sua parola agli uomini perché temere il Signore non è sufficiente, non dà garanzie di riuscita se non ci si appella al Servo. Ricordiamo le parole “Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (Giovanni 14.6) e “Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò” (Matteo 11.28). A me e non ad altri.

I più grandi profeti, da Mosè in poi, nonostante il ruolo determinante che ebbero nella conduzione del popolo oppure nel trasmettere il messaggio di JHWH, ebbero dei punti di fallimento e non poteva essere diversamente in quanto uomini. Così non per Gesù, attento “ogni mattina”, di cui i vangeli attestano lunghe preghiere in cui non solo presentava i suoi perché fossero preservati dal male, ma perché nessuna Sua parola andasse sprecata: “Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme a chi semina e il pane a chi mangia, così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata” (Isaia 55.10,11). La parola di Dio infatti non torna senza un risultato, in salvezza o in giudizio.

Il verso quinto, “il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro”, testimonia l’instancabilità del Servo, fedele in tutto tanto nel poco che nel grande, dagli spostamenti per le varie regioni del territorio al punto più alto e per noi determinante della Sua vita, quello dell’arresto, del processo fino alla crocifissione. Rileviamo il non opporre resistenza alla volontà del Padre – che aveva accettato responsabilmente – nelle tre azioni viste nel dare il dorso ai flagellatori, le guance a chi gli strappava la barba, il non sottrarre la faccia agli sputi, tutti eventi che rientravano in ciò per cui era venuto al mondo. Gesù infatti non nacque per risolvere problemi umanamente contingenti come nella visione messianica ebraica, ma dare la sua vita per gli uomini quale “Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo”.

Nel verso settimo ci troviamo di fronte a un interessante parallelo con Luca 9.51 che non tutti traducono allo stesso modo: “Avvenne, nel compiersi dei giorni della sua assunzione, che egli indurì il volto– letteralmente “fermò la faccia” – per andare a Gerusalemme”; altri, preoccupati di dare il significato più immediato, riportano “prese la ferma decisione di”, impedendo però di fatto la connessione col cantico. L’indurimento del volto come la pietra può essere visto effettivamente con la risolutezza: Gesù sapeva che, a Gerusalemme, avrebbe dovuto affrontare il combattimento più grande di tutta la sua vita terrena che iniziava proprio col mettersi in viaggio recandosi al Golgotha.

Il Servo indurisce il volto, prende ferma determinazione in quanto cosciente dell’assistenza del Padre e sa che non resterà confuso: ciò testimonia la piena coscienza del Suo ruolo, ma è anche sinonimo di resistenza addirittura maggiore rispetto alle violenze e agli oltraggi che gli verranno fatti. Anche qui possiamo fare una connessione importante: si tratta di Ezechiele 3.8,9 quando Dio dice al profeta “Ecco, io ti do una faccia indurita quanto la loro faccia e una fronte dura quanto la loro fronte. Ho reso la tua fronte come diamante, più dura della selce. Non li temere, non impressionarti davanti a loro; sono una genìa di ribelli”. È compito del profeta, quindi dell’uomo di Dio, non avere timore dei suoi simili né del destino che gli prospettano, avendo fondato e costruito la loro esistenza su un terreno diverso, destinato a crollare perché non vedono che il loro presente illudendosi che resti immutabile. Chiariscono bene il concetto le parole dell’apostolo Paolo “A me poco importa venire giudicato da voi o da un tribunale umano;(…) il mio giudice è il Signore” (1 Corinti 4.3,4).

Paolo è quindi conscio non solo dell’abisso che separa il metro valutativo umano da quello di Dio, ma che l’uomo può arrivare solo fino a un certo punto: “Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno il potere di uccidere l’anima; temete piuttosto colui che ha il potere di far perire l’anima e il corpo nella Geenna” (Matteo 10.28). Ancora Paolo spiegherà il concetto in Romani 8.31-39, le cui parole su rifanno anche al volto e alla fronte duri letti in Ezechiele: “Se Dio è con noi, chi sarà contro di noi?(…) Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è quel che giustifica! Chi condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risorto alla destra di Dio e intercede per noi. Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?(…) Io infatti sono persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Gesù Cristo, nostro Signore”.

Penso che questi versi siano un ideale collegamento con l’ottavo e nono del cantico, quando leggiamo “Chi oserà venire a contesa con me?(…) Chi mi accusa?(…) Chi mi dichiarerà colpevole?”; sappiamo che furono necessari falsi testimoni contro di Lui e che Gesù fu dichiarato colpevole dagli uomini, non certo dal Padre. La morte stessa, data la forza totale della Sua innocenza, non poté trattenerlo. Una delle vere ragioni della resurrezione di Nostro Signore non fu tanto perché era onnipotente e in grado di sconfiggere la morte, ma perché lei stessa era la conseguenza del peccato per cui, se il Cristo non ne aveva commessi, anzi aveva adempiuto la legge punto per punto, era impossibile avesse potere su di lui, neppure sul suo corpo. Per concludere questo breve inserto, Isaia 51.7,8 riporta un appello: “Non temete l’insulto degli uomini, non vi spaventate per i loro scherni; poiché le tarme li roderanno come una veste e la tignola li roderà come la lana, ma la mia giustizia dura per sempre, la mia salvezza di generazione in generazione”.

Tornando al cantico, la frase “Come veste si logorano tutti, la tignola li divora” mostra la reale condizione in cui versano gli accusatori: da un lato Lui, attaccabile solo nel corpo, dall’altro loro, che si logorano “come veste” – e sappiamo che lo stesso è scritto anche per la terra – quindi poco a poco, quasi senza che se ne accorgano e, in questo accadere, non esiste rimedio. “La tignola” che il vestito corrode, poi, è figura di quel processo che porta il corpo esanime a decomporsi lasciando solo alla polvere il compito di testimoniare quel che resta di una vita coscientemente spesa ad opporsi all’amore di Dio. Perché anche la loro anima verrà ridotta al nulla: “Ecco, tutte le vite sono mie:(…) chi pecca morirà” (Ezechiele 18.4).

Il cantico, per quel che ci compete, si conclude con un invito a due categorie di persone, “Chi teme il Signore” e “Chi cammina nelle tenebre”: i primi, pur avendo un atteggiamento corretto, devono “ascoltare la voce del Suo servo”, l’unico in grado di condurli correttamente lungo quei “pascoli erbosi” figura della fede e della dottrina. Senza questo ascolto, si rischia di essere sterili e di possedere convinzioni errate destinate ad ostacolare il rapporto con il Padre. I secondi, sono quelli che sono coscienti di andare a tentoni, senza una luce che ne rischiari cammino: anche per loro, proprio perché consapevoli della condizione in cui versano, è detto di “confidare nel nome del Signore”, quindi non in un Dio generico, costruito per appagare il vuoto interiore.

Resta il verso undicesimo in cui vediamo non solo gli accusatori, i detrattori e i responsabili della morte del corpo del Servo per eccellenza, ma tutti quelli che combattono gli altri servi, coloro che hanno creduto e testimoniano: “Voi tutti che accendete il fuoco– figura di un’idea, di un progetto per distruggere –, che vi circondate di frecce incendiarie– chi si circonda di qualcosa è per rafforzarsi anche psicologicamente –, andate alle fiamme del vostro– la responsabilità – fuoco, tra le frecce che avete acceso– altro rafforzativo della responsabilità –. Dalla mia mano– figura della volontà e del potere – vi è giunto questo: voi giacerete nel luogo dei dolori”. Sicuramente da porre una sottolineatura sul fatto che i nemici del Servo (e dei suoi fratelli) non confluiranno in un luogo di dolore generico, ma “nel luogo”, quindi in un posto preciso in cui possiamo identificare quello “stagno ardente di fuoco e zolfo” in cui verrà gettato Satana con i suoi angeli. Angeli ribelli, ma anche tutti coloro che gli avranno dato ascolto e obbedienza. Amen.

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07.18 – CINQUE CANTICI II/V (Isaia 49.1-6)

7.18 – Cinque cantici II/V (Isaia 49.1-6)

 

 

SECONDO CANTICO

 

1Ascoltatemi, o isole, udite attentamente, nazioni lontane; il signore dal seno materno mi ha chiamato, fino dal grembo di mia madre ha pronunciato il mio nome. 2Ha reso la mia bocca come spada affilata, mi ha nascosto all’ombra della sua mano, mi ha reso freccia appuntita, mi ha riposto nella sua faretra. 3Mi ha detto: «Mio servo tu sei, Israele, sul quale manifesterò la mia gloria». 4Io ho risposto: «Invano ho faticato, per nulla e invano ho consumato le mie forze. Ma, certo, il mio diritto è presso il Signore, la mia ricompensa presso il mio Dio». 5Ora ha parlato il Signore, che mi ha plasmato suo servo dal seno materno per ricondurre a lui Giacobbe e a lui riunire Israele – poiché ero stato onorato dal Signore e Dio era stato la mia forza – 6e ha detto: «È troppo poco che tu sia mio servo per restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti d’Israele. Io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra.”.

 

Il secondo cantico, a differenza del primo, inizia come un appello proprio alle “isole” e “nazioni lontane” di cui in altro passo (Isaia 42.4) si dice che “attendono il suo insegnamento” perché la risposta alle domande di ogni uomo circa la propria origine e fine sarebbe giunta un giorno anche a loro. Se le “nazioni lontane” sono tali sia per distanza, ma soprattutto per mentalità, usi e costumi, sono accomunate dall’essere composte da uomini che, a differenza degli animali, hanno la possibilità di scegliere consapevolmente e determinare il loro destino.

Nel nostro passo questi popoli sono invitati a “udire attentamente”, quindi con cura, diligenza, cautela, sinonimi che escludono imprudenza, sbadataggine, distrazione. In pratica il testo tende a responsabilizzare e ad invitare, avvertire che il messaggio che sta per essere recapitato è fondamentale per la vita della persona. Ogni essere umano è chiamato a mettere alla prova, verificare, porsi delle domande su quanto verrà annunciato: “Venite, e discutiamone insieme”, com’è scritto (Isaia 1.18). Non si tratta quindi di un qualcosa che deve venire imposto, un indottrinamento forzato, non si richiede una conversione di massa come purtroppo avvenuto nella storia con effetti devastanti, ma piuttosto le parole del secondo cantico sono un annuncio rivolto ai pagani, quelli che Israele disprezza.

Occorre fare attenzione al “seno materno” qui menzionato per due volte, ai versi 1 e 5: dando un brevissimo sguardo a come è usata quest’espressione nella Scrittura, la vediamo citata nel Nuovo Testamento a proposito di Giovanni Battista e dell’apostolo Paolo: del primo è detto “sarà colmato di Spirito santo fin dal seno di sua madre” (Luca 1.15), del secondo è lui stesso a scrivere “mi scelse fin dal seno di mia madre” (Galati 1.15). Per quanto riguarda l’Antico Patto va ricordato Geremia a cui viene detto in 1.4,5: “Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto, prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato; ti ho stabilito profeta delle nazioni”. A questo profeta fu rivolto un messaggio particolare oltre che un’autorità precisa “sopra le nazioni e sopra i regni per sradicare e demolire, per distruggere e abbattere, per edificare e piantare” (v.10), eppure nessuno di questi uomini, per quanto tutti profeti e quindi con un incarico preciso e unico da parte di Dio, fu mai in grado di salvare un’anima. Il profeta, per quanto unico per messaggio, compito e appartenenza, non sarà mai paragonabile a Gesù, il Cristo, di cui l’angelo disse in sogno a Giuseppe “Il bambino che è generato in lei(Maria) viene dallo Spirito Santo; (…) egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati” (Matteo 1.20,21). Nessuno dei profeti dei due patti non solo non “venne dallo Spirito Santo”, ma neppure nacque da una vergine a conferma che solo Gesù venne al mondo senza concorso umano da parte maschile; se così fosse non avrebbe potuto avere un’origine divina e sarebbe stato soltanto una semplice creatura che, per quanto originale nel suo messaggio e grande maestro nelle Scritture, si sarebbe identificato in tutto e per tutto nella definizione di Giobbe 14.1 che accomuna ogni essere umano, nessuno escluso: “L’uomo, nato di donna, breve di giorni e sazio d’inquietudine, come un fiore spunta e avvizzisce, fugge come l’ombra e mai si ferma”.

Il primo verso del nostro cantico parla di chiamata e di nome pronunciato – “Lo chiamerai Gesù”, detto a Maria in Luca 1.31 e a Giuseppe in Matteo 1.21 –, ma il quinto riporta il “plasmare”, cioè modellare una materia malleabile dandole la forma voluta, quindi perfezione, essendo stato il Padre in persona ad agire sulla materia del Figlio per dargli la “forma” voluta quindi carattere, la funzione, la totalità dello scopo. Se allora sommiamo i dati fin qui ottenuti, cioè la chiamata, la pronuncia del nome e l’essere stato plasmato, ne abbiamo tre che testimoniano come nulla sia stato trascurato per porre in grado di operare secondo la Sua volontà quel “Figlio diletto nel quale mi sono compiaciuto” di cui è profetizzato “Ecco, io vengo, poiché di me sta scritto nel rotolo del libro, per fare la tua volontà” (Ebrei 10.7). Diversamente, come già rilevato, Gesù sarebbe stato un uomo come gli altri, impossibilitato a sconfiggere la sua stessa morte, operando miracoli apparenti, magari mettendosi d’accordo prima con qualcuno disposto a fingere di essere paralitico, lebbroso, cieco e indemoniato. Avrebbe poi plagiato dodici poveri ignoranti che, per qualche assurdo motivo, avrebbero imbastito la truffa più colossale della storia. C’è chi sostiene questo e un giorno, purtroppo per lui, dovrà assumersene la responsabilità.

Il secondo verso del cantico parla dell’opera del “servo”: alla “bocca come spada affilata” è immediato l’abbinamento con la Parola, spada a doppio taglio descritta dall’apostolo Paolo in un passo molto conosciuto di Ebrei 4.12, ma ancora di più in Apocalisse 1.16 dove leggiamo, nella visione del Cristo glorificato che parla a Giovanni, “dalla sua bocca usciva una spada a doppio taglio”.

Il “Mi ha nascosto all’ombra della sua mano” ha riferimento con il fatto che Gesù fu costantemente sotto la protezione del Padre per quanto riguarda gli interventi esterni degli uomini che poterono prenderlo, processarlo, umiliarlo e crocifiggerlo solo in un momento preciso e non prima, ma non fu da Lui agevolato nelle prove a cominciare dalla tentazione nel deserto in poi. E penso alle fatiche dei viaggi missionari e alle angosce al Getsemane, al fatto che, in croce, non vennero legioni di angeli a liberarlo.

Mi ha reso freccia appuntita”: in mano a un valido arciere, la freccia centra subito il bersaglio a una velocità stimata di circa 250 km/h. Se il maligno tira “dardi infuocati” che hanno per scopo la distruzione indiscriminata, la “freccia appuntita” è selettiva, va dritta al punto interessato: in questo caso possiamo individuare tutte le volte in cui Gesù puntualmente demolì le false costruzioni degli Scribi e Farisei con l’interpretazione di quella Legge che si vantavano di osservare e che in realtà avevano svuotato di qualsiasi significato. Si tratta di una freccia che va dritta al cuore come nel caso in cui, dopo che Pietro predicò a Gerusalemme leggiamo che i suoi uditori “si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: «Fratelli, che cosa dobbiamo fare?»” (Atti 2.37). Non possiamo però trascurare il significato profetico del Salmo 64.7-9 da cui emerge come il rifiutare la proposta del Messaggero di Dio per eccellenza sia sufficiente a provocare un giudizio: “Tramano delitti, attuano le trame che hanno ordito; l’intimo dell’uomo e il suo cuore: un abisso! Ma Dio li colpisce con le sue frecce: all’improvviso sono feriti, la loro stessa lingua li manderà in rovina, chiunque, al vederli, scuoterà la testa”. L’intimo dell’uomo non rigenerato, ciò di cui ha più prezioso perché è la sua stessa vita, l’anima, il tutto è considerato un abisso, quindi tenebre che vanno illuminate dall’unica luce in grado di mostrargli ciò che veramente è.

Mi ha riposto nella sua faretra” sta a indicare che la freccia è ben custodita nell’attesa di venire utilizzata, scoccata. Questa frase sta a significare quindi che, al tempo in cui Isaia scriveva, non era ancora giunto il momento per cui il “servo” si sarebbe dovuto manifestare. E qui, personalmente, si apre un collegamento davvero illuminante con l’apertura del primo sigillo nel libro dell’Apocalisse quando nessuno poteva aprire quel libro “scritto sul lato interno e su quello esterno, sigillato con sette sigilli” (5.1). Il libro della vita, su cui sono scritti i nomi dei salvati, non poteva essere aperto se non dall’Agnello immolato dopo l’apertura dei sigilli, cioè eventi precisi che interessano la storia dell’umanità. Ebbene il primo riguarda proprio la visione di “…un cavallo bianco. Colui che lo cavalcava aveva un arco; gli fu data una corona ed egli uscì vittorioso per vincere ancora” (6.1,2). Su questo passo si sono scritti davvero “fiumi d’inchiostro”, la maggioranza dei quali a sproposito; ma il colore del cavallo, l’arco, la corona e le due vittorie, una conseguita e l’altra futura non lasciano dubbi sul fatto che si tratti della venuta di Gesù sulla terra, la prima quale Figlio dell’uomo vincitore sul peccato e la morte e la seconda come trionfatore definitivo sul sistema satanico perverso e il suo artefice, sull’inferno e gli abissi degli uomini perversi.

Il terzo verso, in cui sembra si parli di Israele come popolo “servo” e quindi possa essere identificato col servo stesso, costituisce un problema solo apparente perché è indubbio che sia lui il popolo eletto fin dai tempi antichi ed è altrettanto innegabile che, rinnegando per ora il Cristo, si trovi nelle condizioni descritte dall’apostolo Paolo in 2 Corinti 3.12-15 quando, parlando degli ebrei, scrive “…e non facciamo come Mosè che poneva un velo sul suo volto, perché i figli di Israele non vedessero la fine di ciò che era solo effimero– tornando dal Sinai, quando il suo volto era splendente-. Ma le loro menti furono indurite; infatti fino ad oggi quel medesimo velo rimane, non rimosso, quando si legge l’Antico Testamento, perché è in Cristo che esso viene eliminato. Fino ad oggi, quando si legge Mosè, un velo è steso sul loro cuore; ma quando vi sarà la conversione al Signore, il velo sarà tolto”. Sarà proprio con la conversione di Israele che si manifesterà la gloria di Dio. È un percorso a tappe verso la realizzazione del piano di salvezza in cui ogni successo può essere paragonato a tanti mattoni che vengono posti uno accanto all’altro, uno sopra l’altro per la costruzione dell’edificio di Dio, del Regno, della totalità nella comunione dei santi con Lui.

Tornando al nostro testo, anche la risposta del servo è profetica, perché quel “Invano ho faticato, per nulla e invano ho consumato le mie forze” si riferisce alla constatazione umanamente immediata del risultato delle fatiche di Nostro Signore: i discepoli che si dispersero al suo arresto, la loro difficoltà a credere alla Sua risurrezione e poi via fino ai 120 a Gerusalemme, il cui numero tuttavia crebbe in fretta, come leggiamo nel libro degli Atti.

Infine, nel verso sesto che fa da contrapposizione al quinto, gli appartenenti alle “isole” e alle “nazioni lontane” sono invitati a considerare ciò che li riguarda direttamente: l’opera perfetta del “servo”, che apparentemente non ha ottenuto il risultato sperato della conversione dell’intero popolo, viene ampliata ed elargita anche a quelli che ad Israele non appartengono: “È troppo poco che tu sia mio servo per restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti d’Israele. Io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra”.

Alla nascita di Gesù è scritto che  “Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una gran luce”: quella stessa luce è oggi alla portata di tutte quelle genti che a quei tempi, pur esistendo, non erano state coinvolte. Persone che avrebbero vissuto in modi diversi da quel popolo, parlato lingue allora sconosciute, nazioni entro le quali sarebbero nati (di nuovo) e vissuti dei figli di Dio. Persone salvate, concittadine dei santi e membri della famiglia di Dio. Amen.

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