12.26 – IL RITORNO DEI SETTANTADUE (Luca 10.17-20)

12.26 – Il ritorno dei settantadue (Luca 10.17-20)

             

17I settantadue tornarono pieni di gioia, dicendo: «Signore, anche i demòni si sottomettono a noi nel tuo nome». 18Egli disse loro: «Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore. 19Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra serpenti e scorpioni e sopra tutta la potenza del nemico: nulla potrà danneggiarvi. 20Non rallegratevi però perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli».

 

Ci troviamo di fronte a un episodio impegnativo sia a livello di riflessioni quanto di collocazione temporale. Luca, che ci illustra ciò che avvenne da quando Gesù uscì da Gerusalemme, scrive che “I settantadue tornarono” senza specificare dove e quando. Ora, essendo stati mandati in missione all’atto della Sua partenza dalla Galilea per Gerusalemme, possiamo supporre che fu da loro raggiunto in quella città, ma gli evangelisti non hanno ritenuto opportuno specificare il momento in cui ciò avvenne anche perché non tornarono tutti insieme. Leggendo Giovanni, poiché pare esservi un breve vuoto narrativo tra l’uscita di Gesù dal Tempio e l’incontro con l’uomo cieco dalla nascita – in cui tra l’altro viene posta in risalto la presenza dei discepoli (Giovanni 9.1,2) – , ecco la scelta di inserire qui l’incontro con loro precisando che si tratta di una mia opinione personale che non vuole sminuire quanto ipotizzato da altri nel loro trattare l’argomento.

Il verso 17 contiene diversi momenti degni di sottolineatura, il primo dei quali è “tornarono” che ci parla di fedeltà alle istruzioni ricevute, tra le quali il luogo dell’appuntamento, ma anche del fatto che quei discepoli dimostrarono di non avere alternative a Gesù e il loro ritorno ci rivela che al di fuori del vivere attorno al loro Maestro non avrebbero saputo cosa fare, soprattutto una volta constatati gli effetti del mandato e la differenza col vivere nel mondo. Ricordiamo in proposito quando Pietro disse “Signore, a chi ce ne andremmo noi? Tu solo hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio” (Giovanni 6.68,69).

Tornare. In senso generale, tutti noi lo facciamo: a volte è un’abitudine, a volte è una scelta ma comunque, quando lo si fa, è perché il luogo o la/le persone che raggiungiamo costituiscono per noi un centro più o meno importante. In questo caso però la pericope “Tornarono pieni di gioia” esclude la routine, il semplice acquisito, qualcosa che si fa perché non si hanno alternative e allora ci si adegua allo status quo. E qui la “gioia” dei discepoli, che arrivarono da Gesù poco per volta stante i diversi luoghi da loro raggiunti, era diversa da quella che avrebbe potuto procurarne una umana. La loro “gioia” fu quella di chi constata l’adempimento delle promesse di Dio e di avere adempiuto correttamente le istruzioni ricevute; ricordiamole: “La messe è abbondante, ma pochi sono gli operai! Pregate dunque il signore della messe perché mandi operai nella sua messe! Andate, ecco, vi mando come agnelli in mezzo ai lupi; non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada. In qualunque casa entriate, prima dite: «Pace a questa casa!». Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà a voi. Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché chi lavora ha diritto alla sua ricompensa. Non passate da una casa all’altra. Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà offerto, guarite i malati che vi si trovano e dite loro: «È vicino a voi il regno di Dio». Ma quando entrerete in una città e non vi accoglieranno, uscite sulle sue piazze e dite: «Anche la polvere della vostra città, che si è attaccata ai nostri piedi, noi la scuotiamo contro di voi; sappiate che il regno di Dio è vicino»” (Luca 10.2-11).

Ora è facile supporre che i settantadue si fossero attenuti scrupolosamente a tutto quanto ordinato, compreso il “pregate”, il non distrarsi per nessun motivo raffigurato nel non salutare “nessuno lungo la strada”; la conseguenza di questo loro comportamento andò al di là della guarigione dalle malattie perché “Anche i demòni si sottomettono nel tuo nome”. Quei discepoli erano consci che da soli non avrebbero mai potuto compiere nulla di quanto era stato ordinato loro. Era dunque la “gioia” del riscontro e della liberazione, dell’elevarsi, del servire con successo perché si erano attenuti alle disposizioni del Maestro senza esitazioni o titubanze ed erano stati premiati con un risultato che andava al di là delle loro aspettative, come rileviamo dall’ “anche” del verso in esame. Se raccordiamo questo successo con l’episodio in cui i dodici non erano riusciti a guarire un indemoniato (Luca 9.40), possiamo capire perché questi discepoli fossero nello stato che ci viene descritto.

La risposta di Gesù si articola su tre punti, il primo dei quali è un’altra dichiarazione della Sua presenza nell’eternità, “Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore”, con la quale dà una visione tanto dell’immediatezza del giudizio su questo personaggio, quanto della fine cui è destinato. Leggendo Isaia 14.12-15, infatti, abbiamo la stessa panoramica: “Come sei caduto dal cielo – tua residenza di un tempo –, astro del mattino, figlio dell’aurora? – la dignità che aveva – Come sei stato gettato a terra, signore di popoli? Eppure tu pensavi nel tuo cuore: «Salirò in cielo, sopra le stelle di Dio innalzerò il mio trono, dimorerò sul monte dell’assemblea, nella vera dimora divina. Salirò sulle regioni superiori delle nubi, mi farò uguale all’Altissimo» – ricordiamo le parole “sarete come Dio” dette ad Eva . E invece sei stato precipitato negli inferi – cioè nelle assolute regioni inferiori –, nelle profondità dell’abisso! Quanti ti vedono ti guardano fisso, ti osservano attentamente: «È questo l’individuo che sconvolgeva la terra, che faceva tremare i regni, che riduceva il mondo a un deserto, che ne distruggeva le città – con una morale perversa –  che non apriva le porte del carcere ai suoi prigionieri?» – perché se non interviene il Cristo a liberare è impossibile che Satana rinunci a tenere l’uomo per sé – Tutti i re dei popoli, tutti riposano con onore, ognuno nella sua tomba. Tu, invece, sei stato gettato fuori dal sepolcro, come un virgulto spregevole; sei circondato da uccisi trafitti da spada – l’onta della sconfitta –, deposti sulle pietre della fossa, come una carogna calpestata – cioè contaminata, immonda, e contaminante –. Tu non sarai unito a loro nella sepoltura, perché hai rovinato la tua terra, hai assassinato il tuo popolo”.

Le parole di Gesù si raccordano anche a Ezechiele 12-19 di cui riporto la parte dal 17: “Il tuo cuore si era inorgoglito per la tua bellezza, la tua saggezza si era corrotta a causa del tuo splendore: ti ho gettato a terra e ti ho posto davanti ai re, perché ti vedano. Con la gravità dei tuoi delitti, con la disonestà del tuo commercio hai profanato i tuoi santuari; perciò in mezzo a te ho fatto sprigionare un fuoco per divorarti. Ti ho ridotto in cenere sulla terra, sotto gli occhi di quanti ti guardano. Quanti fra i popoli ti hanno conosciuto, sono rimasti attoniti per te, sei divenuto oggetto di terrore, finito per sempre”.

La valenza della parole di Gesù, come tutte del resto, è anche in questo caso enorme perché ci parla al tempo stesso della rapidità del giudizio sull’Avversario che cadde dall’alto dei cieli intesi come dimora di Dio ed elevazione spirituale infinita non tanto sulla terra quanto a pianeta, ma nei suoi abissi, nell’inferiorità assoluta come abbiamo visto nella scorsa riflessione. Scrive l’apostolo Pietro nella sua seconda lettera: “Dio infatti non risparmiò gli angeli che avevano peccato, ma li precipitò in abissi tenebrosi, tenendoli prigionieri per il giudizio. Ugualmente non risparmiò il mondo antico, ma con altre sette persone salvò Noè, messaggero di giustizia, inondando con il diluvio un mondo di malvagi. Così pure condannò alla distruzione le città di Sodoma e Gomorra, riducendole in cenere, lasciando un segno ammonitore a quelli che sarebbero vissuti senza Dio. Liberò invece Lot, uomo giusto, che era angustiato per la condotta immorale di uomini senza legge. Quel giusto infatti, per quello che vedeva e udiva mentre abitava in mezzo a loro, giorno dopo giorno si tormentava a motivo delle opere malvagie. Il Signore dunque sa liberare dalla prova chi gli è devoto, mentre riserva, per il castigo nel giorno del giudizio, gli iniqui, soprattutto coloro che vanno dietro alla carne con empie passioni e disprezzano il Signore” (4-10).

E sono convinto che nel “giusto Lot” ci possiamo identificare anche noi, testimoni del degrado morale e dell’indottrinamento satanico di questi ultimi tempi che viviamo.

La citazione di questi versi avrebbe potuto limitarsi al quarto, ma riportarli tutti può aiutare nel considerare come l’Avversario e i suoi angeli costituiscono un tutt’uno con l’uomo che li segue esattamente come chi crede è un tutt’uno con Colui che li ha salvati. Infatti: “…ma costoro – gli iniqui –, irragionevoli e istintivi, nati per essere presi e uccisi, bestemmiando quello che ignorano, andranno in perdizione per la loro condotta immorale, subendo il castigo della loro iniquità. (…) Costoro sono come sorgenti senz’acqua e come nuvole agitate dalla tempesta, e a loro è riservata l’oscurità delle tenebre. Con discorsi arroganti e vuoti e mediante sfrenate passioni carnali adescano quelli che da poco si sono allontanati da chi vive nell’errore. Promettono loro libertà, mentre sono essi stessi schiavi della corruzione. L’uomo infatti è schiavo di ciò che lo domina” (vv. 12,13; 17-19).

Oltre a tutti questi versi dei profeti e di Pietro, non possiamo non citare l’atto finale: Satana è stato privato di tutta la sua regalità e dignità, ma se ne è costruita una propria come del resto fa qualunque persona lontana da Dio, ignorando in realtà di rendersi schiavo di chi non lo libererà mai, come abbiamo letto. Satana, “che seduce tutta la terra abitata, fu precipitato sulla terra e con lui anche i suoi angeli” (Apocalisse 12.9), ma soprattutto sarà gettato “nello stagno di fuoco” assieme alla morte, agli inferi” e a chi non risulterà “scritto nel libro della vita” (20.14,15). E sono convinto che anche qui, cadrà “come una folgore”.

Ora, tornando al nostro episodio, Gesù ricorda a tutti coloro che gli appartengono che, ascoltando e servendo Colui che ha visto “Satana cadere dal cielo come una folgore”, non hanno nulla di cui temere: sono dalla parte di chi è più potente di lui e infatti disse “Nulla potrà danneggiarvi”, certo “se rimanete fedeli alla mia parola” e non, come sostengono alcuni, a prescindere. Ricordiamo Giovanni 8.38,39: “Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi”.

Nostro Signore conclude poi il suo intervento esortando i discepoli a vedere il successo della loro missione non come qualcosa di personale o di umano: certo avevano guarito da malattie e possessioni, ma solo in quanto conseguenza della loro fede e, paradossalmente, i loro risultati andavano ridimensionati, ricondotti all’origine del loro essere figli di Dio. I miracoli, infatti, sono la conseguenza dell’essere vicini a Dio, ma possono anche essere prodotti dall’Avversario per “sedurre se possibile anche gli eletti”. Era quindi importante considerare l’origine, la causa e non l’effetto: “rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli”, la vera gioia assoluta. I – presumo tanti – miracoli operati avevano contribuito allo sviluppo del Vangelo da loro annunciato e non era certo poca cosa, ma il motivo della gioia doveva risiedere nel fatto che i nomi di quei discepoli erano scritti nel libro della vita a prescindere dalle loro opere. Se Gesù  non avesse specificato questo, avrebbe lasciato i futuri credenti nella convinzione che solo chi fa miracoli e gira il mondo a predicare sia degno di Lui. La “gioia” che i settantadue provavano, se non correttamente indirizzata, avrebbe potuto col tempo inorgoglirli: i miracoli compiuti, tangibili, incontestabili, saranno infatti usati con parsimonia dagli stessi apostoli nei libro degli Atti e, come tutti quelli dei Vangeli operati da Gesù, rimarranno nella Chiesa a memoria e si diraderanno una volta acquisito il concetto che il vero miracolo è appunto quello del nome scritto nel registro di Dio.

“Molti, ve l’ho già detto più volte e ora con le lacrime agli occhi ve lo ripeto, si comportano da nemici della croce di Cristo. La loro sorte finale sarà la perdizione, il ventre è il loro dio. Si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi e non pensano che alle cose della terra. La nostra cittadinanza infatti è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che egli ha di sottomettere a sé tutte le cose” (Filippesi 3.18-20).

Ecco il vero motivo della gioia, la radice: il nostro nome scritto, il nostro corpo di morte che è stato riscattato in vista della resurrezione e dell’ultima chiamata ad unirci a Lui, ora e quando ritornerà per rapire la Sua Chiesa o in giudizio. Amen.

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12.02 – LA MISIONE DEI SETTANTADUE (Luca 10.1-12)

12.02 – La missione dei settantadue (Luca 10.1-12)

1Dopo questi fatti il Signore designò altri settantadue e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi. 2Diceva loro: «La messe è abbondante, ma pochi sono gli operai! Pregate dunque il Signore della messe, perché mandi degli operai nella sua messe! 3Andate, ecco, vi mando come agnelli in mezzo ai lupi; 4non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada. 5In qualunque casa entriate, prima dite «Pace a questa casa!» 6Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi. 7Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché chi lavora ha diritto alla sua ricompensa. Non passate da una casa all’altra. 8Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà offerto, 9guarite i malati che vi si trovano e dite loro: «È vicino il regno di Dio!». 10Ma quando entrerete e non vi accoglieranno, uscite sulle piazze e dite: 11«Anche la polvere della vostra città, che si è attaccata ai nostri piedi, noi la scuotiamo contro di voi; sappiate però che il regno di Dio è vicino». 12Io vi dico che, in quel giorno, Sodoma sarà trattata meno duramente di quella città”.

            Episodio riportato dal solo Luca, ha una collocazione temporale incerta, ma siccome abbiamo dedicato le precedenti riflessioni al fatto che Gesù, prima di essere respinto da un villaggio Samaritano, aveva inviato “dei messaggeri davanti a sé” (9.52), ho pensato che l’invio dei settantadue discepoli possa essere avvenuto quando, lasciando la Samaria ed entrando nella Galilea, sapendo che avrebbe avuto un’accoglienza diversa, mandò appunto questi discepoli ad annunziarne l’arrivo e organizzare la sosta per il gruppo. Certo, tutto può essere, anche il fatto che questi settantadue siano partiti da Capernaum e avessero raggiunto i villaggi lungo il tragitto che Nostro Signore aveva prestabilito, che fossero anche loro stessi quei “messaggeri” di cui lo stesso evangelista ha scritto nello scorso episodio: semplicemente a lui non interessa la cronologia, ma ciò che avvenne e i discorsi di Gesù che furono letti per la prima volta dal sommo sacerdote Teofilo cui dedica il suo Vangelo.

Sappiamo che i settantadue vennero inviati e che, come poi esamineremo, “…tornarono pieni di gioia dicendo «Signore, anche i demoni si sottomettono nel tuo nome»” (10.17), ma non ci viene detto dove e quando si ritrovarono, per cui in questa ricostruzione temporale ci troviamo soli, essendo i periodi della vita di Gesù a volte tracciati con precisione, altre volte meno perché ciò che è veramente importante è appunto il contenuto, la descrizione e non un racconto biografico che, se lo si vuole ricostruire, avviene con tutte le lacune del caso. Anzi, si corre il rischio di far dire agli autori ciò che non hanno voluto: ecco perché sono prudente e avverto sempre che questo lavoro, portato avanti con fatica, va preso colo beneficio del dubbio là dove le difficoltà sono evidenti.

La stessa pericope “Dopo questi fatti” al verso uno è di interpretazione difficile, perché ci chiediamo quali siano: ammettendo il rifiuto samaritano e i tre incontri descritti in 9.57-62 già affrontati, verrebbe da sé che Gesù avesse inviato i discepoli appena entrato in Giudea, ma avrebbe dovuto dar loro il tempo di agire come ordinato; se invece la missione loro affidata ebbe luogo in Galilea, allora si potrebbe pensare che fu una parte di loro ad essere giunta in Samaria e che poi lo abbia preceduto in Giudea. È una questione credo tuttora aperta alla luce del fatto che l’importanza di quanto Luca racconta risiede in altri particolari, prima di tutto nel numero degli inviati, settantadue, spesso ridotti a settanta forse perché è una cifra più facile a memorizzarsi e interpretare. La stessa cosa si fa con gli anziani destinati ad essere di aiuto a Mosè e con la cosiddetta “tavola dei popoli” di Genesi 10. Inoltre, con riguardo al nostro episodio, alcune traduzioni hanno “ne mandò altri settanta”, dove quell’ “altri” allude al dopo i dodici cui aveva rimesso un mandato simile, ma non si può escludere che questi “altri” siano in aggiunta a quelli mandati nell’innominato villaggio samaritano, che non possiamo dimostrare essere stato gli apostoli, oppure altri. Ancora, per sottolineare la delicatezza del tema, vi è chi ha proposto una lettura diversa e cioè che l’invio di cui stiamo parlando sia avvenuto in un luogo imprecisato all’interno del “grande viaggio” che Luca riporta nei capitoli da 9.57 a 13.9.

La vera domanda allora è come debba essere interpretato il numero, o per meglio dire i numeri. Cominciando dal settanta, è immediato il richiamo alla perfezione e all’infinito, come visto nella quantità delle volte in cui Pietro avrebbe dovuto perdonare al fratello che mancava verso di lui. Probabilmente la domanda dell’apostolo fu rivolta a Gesù consapevole del rimprovero che aveva ricevuto quando gli disse “Ciò non ti accadrà mai” una volta che fu annunciata la Sua morte e risurrezione e di cui chiedeva perdóno. Il 70 è il risultato della moltiplicazione del 7, numero perfetto secondo Dio, con il 10, che in questo caso ha riferimento con ciò che Lui si aspetta dall’uomo e di cui i dieci comandamenti sono l’esempio. Diverso è il 72, ottenuto dalla moltiplicazione del 6, numero perfetto secondo l’uomo come abbiamo già visto, e il 12, altra cifra che allude al progetto di Dio per la Sua creatura di cui troviamo esempio nelle tribù di Israele e nel numero degli apostoli che ritroveremo nel 24 citato nell’Apocalisse a proposito degli anziani “seduti ai loro seggi nel cospetto di Dio” (11.16), 12 per la Grazia più altrettanti per la Legge, ma anche in altri passi.

Gesù quindi inviò in un primo momento i dodici, due a due, perché era ad Israele che si sarebbero dovuti rivolgere, ma qui ne manda settantadue quanti sono i popoli, vicini e lontani, citati in Genesi 10 e, a copertura generale del tutto, ricordiamo il 6×12 a significare che il Suo messaggio era a perfetta misura di ogni uomo a prescindere dalla sua nazione di appartenenza. I settantadue vengono inviati “in ogni luogo dove stava per recarsi”, ma per noi è facile capire, guardando al significato rivestito dal 6×12, che in tutto ciò ancora una volta il Perfetto e il Santo si piega verso l’imperfetto e il contaminato, conosce la sua natura vista nel 6 e si propone di guarirlo perché il 12 è già sinonimo di un piano, appunto visto nelle tribù prima e negli apostoli poi.

Ecco allora che il 70 si riferisce a qualcosa che l’uomo guarda da lontano consapevole di quanto è distante, la stessa sensazione che provò l’apostolo Pietro quando capì l’immensità del perdono che avrebbe dovuto praticare. Anche le 70 settimane riportate in Daniele 9, che danno il tempo fossato da Dio sul mondo, è qualcosa che è stabilita, un periodo assoluto che all’essere umano, piaccia o meno, deve compiersi, come la morte.

A Pietro viene detto “Settanta volte” (sette) e già lì è implicito un imperativo ed ecco perché il numero 70×7, 490 non si riferisce al numero massimo di volte in cui bisogna perdonare perché sarebbe ridicolo tenere la contabilità della remissione del debito e poi fermarsi. Con il 72 è però tutto diverso, non richiede adeguamento, ma abbandono perché così sarà possibile una pace duratura, prima col Dio che si china e poi anche con se stessi. È quella pace che dà Gesù, il Cristo, ben diversa da come la dà il mondo, temporanea, illusoria, ma soprattutto inevitabilmente destinata a non essere più. La “pace” che si raggiunge coi propri mezzi, è possiamo definirla fragile come un castello di carte, senza contare le attinenze con la casa costruita sulla sabbia.

Veniamo ora alle istruzioni che Gesù diede a questi discepoli, simili ma non identiche a quelle precedentemente impartite ai dodici: la prima cosa che ho notato è la mancanza di un componente, cioè il bastone che solo apparentemente ci fa pensare ad un’arma di difesa da eventuali animali o persone violente, o a qualcosa che garantisce sostegno. In realtà, sul “bastone” che gli israeliti portavano era incisa la storia della loro tribù e l’autorità che avevano in seno ad essa, di modo che chiunque avrebbe potuto verificare chi erano i dodici apostoli inviati ad annunciare il Vangelo e a guarire gli infermi. Era allora cominciato un periodo nuovo, diverso, testimoniato anche dalla mancanza di questo strumento oltre che dalla proibizione, come precedentemente detto ai dodici, “Non andate tra i pagani e non entrate nelle città dei samaritani” (Matteo 10).

Ancora, guardando alle istruzioni date nell’occasione dei primo invio e tornando sul bastone, abbiamo tra i testi un’apparente contraddizione: per Marco 6.7 Gesù disse di non portare “nient’altro che un bastone” mentre Luca 9 “Non portate nulla per il viaggio, né bastone, né sacco, né pane, né denari e non portate due tuniche”, dove abbiamo due usi diversi di questo attrezzo nel senso che avrebbe dovuto essere portato l’uno e non l’altro, dove vi sarebbe dovuta essere identità e non offesa.

Differenza fra i due episodi la si riscontra anche nella premessa, non fatta agli apostoli quando furono inviati, “La messe è abbondante, ma pochi sono gli operai! Pregate dunque il Signore della messe, perché mandi degli operai nella sua messe!” (v.2): è una frase non nuova (Matteo 9.37,38), un soggetto di preghiera che verrà rinnovato dall’apostolo Paolo in 2 Tessalonicesi 3.1 con le parole “Pregate per noi, perché la parola del Signore corra e sia glorificata” in quanto era fondamentale che il Vangelo della Grazia, allora sconosciuto, fosse rivelato e si sviluppasse, come effettivamente avvenne. Il pregare per “gli operai” non è azione che consiste in un ricordare a Dio di inviarli, ma l’espressione di una volontà di partecipazione al Suo piano: guardando al periodo storico in cui Gesù disse quelle parole, poi riprese da Paolo, c’era un intero mondo da evangelizzare, a differenza di oggi in cui esiste una Chiesa ufficiale che ha operato e opera scandali e sotto certi aspetti anche crimini, allontanando le persone anziché portare luce, ma in cui comunque il Vangelo è lì, alla portata di chiunque voglia leggerlo per poi capirlo e salvarsi. Si tratta di una Chiesa in cui comunque opera ed è presente un “rimanente fedele” nonostante tutto.

Credo che per i tempi bui in cui viviamo la preghiera del cristiano debba essere rivolta al Signore perché possa preservare e aiutare tutti coloro che ancora non hanno ancora fatto una professione di fede nell’Avversario, chiedendogli di essere noi stessi nelle condizioni di diventare degli strumenti idonei. La questione allora non è pregare dicendo “manda degli operai perché io non posso”, ma il pregare perché possiamo essere sempre di più strumenti per la testimonianza del Vangelo e la trasmissione ad altri di ciò che abbiamo ricevuto.

Le parole di Gesù, per i tempi che viviamo, non sono tanto quelle dette ai settantadue, ma piuttosto “Questo vangelo del regno sarà annunciato in tutto il mondo, perché ne sia data testimonianza a tutti i popoli, e allora verrà la fine” (Matteo 24.14) per cui è responsabilità del credente riconoscere i segni premonitori del ritorno e operare nei confronti del suo prossimo non attraverso una predicazione generalizzata allo scopo di far proseliti, ma una testimonianza diretta là dove incontra degli spiriti non ostili. E se vogliamo, velatamente, un discorso di questo tipo Gesù lo fece tanto ai dodici quanto ai settantadue dicendo loro “Non andate di casa in casa” come fanno i Testimoni di Geova. Al contrario, tanto gli uni che gli altri discepoli si sarebbero dovuti stabilire là dove la loro pace sarebbe stata accolta e scesa sui componenti della famiglia che avrebbe accolto il Vangelo e da lì avrebbe dovuto partire la diffusione del messaggio “il regno dei cieli è vicino”.

Altra raccomandazione data è quella di non fermarsi “a salutare nessuno lungo la strada”, quindi evitare accuratamente le perdite di tempo, parole analoghe a quelle che disse Eliseo a Giezi suo servo: “Se incontrerai qualcuno, non salutarlo; se ti saluta, non rispondergli” (2 Re 4.29), altra occasione in cui ogni secondo era prezioso (il figlio della sunamita in 2 Re 4.8-16).).

Ecco allora che, per il cristiano che si ritiene impegnato nel discepolato, è vitale “non salutare e non rispondere” nel senso di frequentare persone che gli farebbero perdere quel tempo che altrimenti potrebbe dedicare alle opere dello Spirito. Non è questa un’affermazione estremista, discriminatoria, ma va inquadrata da un lato sotto l’ottica del mandato (se ricevuto), dall’altro nel saper individuare il momento in cui agire e quello di fermarsi: i settantadue non avrebbero dovuto fermarsi a salutare per la durata dell’incarico e non a prescindere.

Guardando alla vita dell’uomo Salomone scrisse: “Per tutto c’è il suo tempo, c’è il suo momento per ogni cosa sotto il cielo: un tempo per nascere e un tempo per morire – quindi lo spazio che viviamo dalla culla alla bara di cui dovremo rispondere –, un tempo per piantare e un tempo per sradicare ciò che è piantato, un tempo per uccidere e un tempo per guarire, un tempo per demolire e uno per costruire; un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per far cordoglio e un tempo per ballare, un tempo per gettar via pietre e un tempo per raccoglierle, un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci, un tempo per cercare e un tempo per perdere, un tempo per conservare e un tempo per buttar via, un tempo per strappare e un tempo per cucire, un tempo per tacere e un tempo per parlare; un tempo per amare e un tempo per odiare, un tempo per la guerra e un tempo per la pace” (Qoèlet 3.1-8).

Sono questi versi molto significativi, che non necessariamente una persona sperimenta tutti assieme nella propria vita, ma che ci parlano, in qualunque situazione ci possiamo venire a trovare, che questo “tempo per” è inevitabile, va accettato e rispettato, che è impossibile provare la gioia senza il dolore, la vita senza la morte perché quello che conta è il percorso, che non può essere subìto, ma richiede una partecipazione attiva e, in ogni caso, questo “tempo” non va perso. Amen.

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