8.05 – La figlia di Giairo (Marco 5.21-24; 35-43)
“21Essendo Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. 22E venne uno dei capi della Sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi 23e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva». 24Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno. (…) 35Stava ancora parlando, quando dalla casa del capo della Sinagoga vennero a dire: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». 36Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della Sinagoga: «Non temere. Soltanto, abbi fede». 37E non permise a nessuno di seguirlo, fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo. 38Giunsero alla casa del capo della Sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava forte. 39Entrato, disse loro: «Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme. 40E lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della bambina e quelli che erano con lui ed entrò dov’era la bambina. 41Prese la mano della bambina e le disse «Talità kum», che significa “Fanciulla, io ti dico, alzati!» 42E subito la fanciulla si alzò e camminava; aveva infatti dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. 43E raccomandò con insistenza che nessuno venisse a saperlo e disse di darle da mangiare”.
Fra i tanti che attendevano il ritorno di Gesù che si era allontanato in barca alla riva opposta del lago nel territorio della Decàpoli, i più ansiosi erano senza dubbio Giairo e la donna emorroissa. La figura di Giairo è particolare per il suo ruolo oltre che per carattere: Matteo non lo cita per nome e lo qualifica come “uno dei capi”, Marco “uno dei capi della Sinagoga” e poco dopo “capo della Sinagoga”. E Luca fa lo stesso definendolo “capo”. Non credo ci sia discordanza nel modo in cui quest’uomo è definito, poiché la Sinagoga poteva venir governata, a seconda della sua importanza, tanto da un collegio di rabbini che facevano riferimento a un presidente, quando da uno solo. Poi, gli stessi erano anche magistrati preposti agli affari della comunità giudaica e avevano autorità di infliggere sanzioni di vario genere.
Guardando alla figura di Giairo e come si era posto nei confronti di Gesù, possiamo concludere che, se non lo avesse stimato e ritenuto in grado di guarire la propria figlia, non si sarebbe certamente rivolto a Lui nel senso che non va da Gesù come “ultima spiaggia”, ma per fede. Giairo era stato sicuramente tra quelli che avevano parlato in bene di quel centurione che, tempo prima, Gli aveva chiesto di guarire il suo servo. Ricordando l’episodio, avevamo letto che il centurione “gli mandò alcuni anziani dei Giudei – e Giairo era il più importante – a pregarlo di venire e di salvare il suo servo. Costoro, giunti da Gesù, lo pregavano con insistenza: «Egli merita che tu gli faccia questa grazia – dicevano – perché ama il nostro popolo ed è stato lui a costruirci la sinagoga»” (Luca 7.3-5). Interessatosi quindi assieme ad altri perché Gesù si prendesse carico del caso del centurione, è impossibile che non avesse saputo del miracolo. Ora però Giairo si ritrovava nella stessa condizione, con una figlia dodicenne che stava morendo, non sappiamo se per una malattia o per un incidente occorsole; sta di fatto che l’attesa che il Signore tornasse dal viaggio fu molto penosa e che, non appena lo vide, gli si gettò ai piedi, atteggiamento che esprime tanto la deferenza che nutriva nei Suoi confronti, quando l’estrema gravità dell’occasione.
Sappiamo che in quei momenti si intrecciarono due casi importanti, Giairo e l’anonima emorroissa, ma anche due “dodici” visti negli anni della giovane e in quelli di patimento della donna. Coi primi stava per finire l’infanzia e si entrava nell’età adulta (diversamente dai nostri usi, la figlia di Giairo aveva appena raggiunto o stava per avere età da marito) quindi si trattava di un numero importante che suggeriva speranza anziché morte; i secondi invece, quelli della donna, sappiamo che ci parlano di sofferenza e umiliazione.
Giairo quindi si getta ai piedi di Gesù supplicandolo “con insistenza”, quella che credo solo un padre angosciato per l’imminente perdita di una figlia possa avere. Nessuno se non Lui avrebbe potuto aiutarlo anche perché dalle versioni che abbiamo emerge che Giairo non poteva sapere se la ragazzina fosse viva o meno. Teniamo anche presente che tra le rive del lago e Capernaum intercorrevano circa 4km, che percorsi di buon passo avrebbero richiesto almeno 40 minuti. In più, dopo le parole “Vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva”, ecco frapporsi il caso della donna con la sua confessione di fede, per cui possiamo immaginarci con quanta ansia Giairo avesse atteso la conclusione della vicenda. Quell’uomo voleva che Gesù imponesse le mani alla figlia perché guarisse: quindi Lo considerava un profeta in grado di intervenire là dov’era umanamente impossibile, idea che accomuna entrambi i protagonisti di quei momenti, Giairo e l’emorroissa. Possiamo dire che, quel giorno, Nostro Signore fu riconosciuto tale da due esponenti che rappresentavano il popolo comune da una parte e l’autorità religiosa dall’altra. Giairo non era un dottore della legge venuto da Gerusalemme per condannare a priori, chiuso nel proprio formalismo, ma un responsabile che aveva avuto modo di meditare gli insegnamenti di Gesù e constatarne gli effetti attraverso l’edificazione dei componenti della Sinagoga e i miracoli fatti a Capernaum, per cui sapeva esattamente a chi si stava rivolgendo. Certo, il tutto considerando la limitatezza delle idee che allora si avevano su di Lui perché sappiamo che ci volle molto tempo prima che fosse riconosciuto come “…il Cristo, il Figlio dell’Iddio vivente”.
La reazione di Gesù fu proporzionale alla richiesta, “andò con lui”. A questo punto sappiamo che si inserisce la guarigione della donna con relativa testimonianza e, al termine, l’arrivo di un messaggero che porta la notizia del decesso della giovane. Le sue parole sono di una realtà cruda dalla quale traspare l’inevitabile umano: “Tua figlia è morta, perché disturbi ancora il Maestro?”, oppure, secondo Luca, “non disturbare più il Maestro”. In pratica, secondo quella persona e chi l’aveva mandata era giusto chiedere a Gesù un intervento mentre la giovane era in vita, ma nel momento in cui la morte aveva posto il proprio sigillo scrivendo la parola “fine” alla sua esistenza, ogni preghiera avrebbe cessato di avere senso. Ecco, qui abbiamo già un’anticipazione del miracolo perché le parole “Non temere, soltanto abbi fede”, che provenivano da chi aveva autorità sulla vita e sulla morte fanno da contrasto a ogni idea, mentalità, ragionamento umano.
Da una parte abbiamo l’invito “Non disturbare più il Maestro” sottintendendo “perché tanto non può fare più nulla”, dall’altra, contro ogni logica umana, c’è un appello a Giairo a non temere e ad avere fede. È una chiamata diretta, precisa, individuale, in direzione contraria a tutto ciò che gli altri pensavano, al loro acquisito. “Non temere, soltanto abbi fede” sono le stesse parole che il Signore rivolge ad ogni essere umano anche oggi, invitandolo a staccarsi dal metro valutativo terreno che contiene sempre una conoscenza esclusivamente carnale, dimostrando che è la Sua l’unica logica possibile. significava porgli dei limiti o presumere che li avesse, proprio come avviene ora in cui la conoscenza umana è progredita, certo non dal punto di vista spirituale.
Questo passo, per il modo con cui gli evangelisti sviluppano i personaggi, dimostra che siamo noi non solo a porre dei limiti alla potenza di Dio, ma che corriamo il pericolo di non avere di Lui una corretta opinione se non ci dedichiamo allo studio della Sua parola. Le dinamiche dell’episodio, poi, sottolineano che questo applicarsi serve a ben poco se non si mette lo Spirito Santo nelle condizioni di agire in noi per illuminarci per primi e renderci così utili. Per questo ci vuole molta umiltà e vigilanza, un confronto serio, un giudizio continuo su noi stessi valutando i risultati delle nostre azioni dopo un attento esame. Ricordiamoci dei dodici e della loro missione, quando “Al loro ritorno, gli apostoli raccontarono a Gesù tutto quello che avevano fatto” (Luca 9.10) . La stessa cosa dobbiamo fare noi, quando la giornata concessaci sta per concludersi, per discutere alla Sua presenza di come abbiamo speso il nostro tempo e i risultati ottenuti, come e se abbiamo saputo reagire alle negatività, se abbiamo conseguito successi o fallimenti e probabilmente li avremo riportati entrambi. Ma il fallimento, che indica la nostra umanità e debolezza, dev’essere strumento di crescita per la costituzione di quell’armatura che solo noi possiamo procurarci attivamente. Un risultato mancante trova sempre la sua origine in un difetto della nostra “armatura”.
Andiamo in Efesi 6.10-17: “Per il resto, rafforzatevi nel Signore e nel vigore della sua potenza – quindi il credente, se non agisce così, rimane debole –. Indossate l’armatura di Dio per poter resistere alle insidie del diavolo. La nostra battaglia infatti non è contro la carne e il sangue, ma contro i Principati e le Potenze, contro i dominatori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti – cioè in territori diversi dai nostri, “cieli” come tutto ciò che non possiamo raggiungere –. Prendete dunque l’armatura di Dio, perché possiate resistere nel giorno cattivo e restare saldi dopo aver superato tutte le prove – e superare è l’opposto della sconfitta –. Siate saldi, dunque: attorno ai fianchi, la verità; indosso, la corazza della giustizia; i piedi, calzati e pronti a propagare il vangelo della pace. Afferrate sempre lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutte le frecce infuocate del Maligno; prendete anche l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito che è la Parola di Dio”.
Bene. A Giairo Gesù, che a quel tempo poneva le basi anche per un edificio spirituale che poi sarà lo Spirito Santo a costruire, chiede fede perché quella freccia che il Maligno aveva scagliato e aveva colpito a morte la figlia potesse essere spenta.
Dalla lettura dei sinottici sappiamo che la gente seguì Gesù fino davanti alla casa in cui tutti facevano il solito cordoglio fuori luogo che si manifestava, anziché tramite un dolore dignitoso e nobile, attraverso musiche e soprattutto l’opera di piangitrici di professione pagate per emettere alte grida e invitare alla commozione generale, vera o finta non importava. Ecco perché abbiamo letto che la gente “piangeva e urlava forte”, traduzione che letteralmente suona con “facevano un grande strepito, gente che piangeva e faceva un grande urlare”. Erano tutti elementi di tradizione pagana che andavano a snaturare la nobiltà e dignità del dolore.
A questo punto ci troviamo di fronte ad una frase illuminante di Gesù sulla quale si è molto discusso, “La bambina non è morta, ma dorme”, abbiamo “bambina”, non “fanciulla” o “ragazza” perché qui il termine usato è neutro, “to paidìon”, adattabile a qualsiasi genere in quanto la figlia di Giairo è vista come creatura al di là del sesso e non aveva ancora raggiunto i 13 anni in cui sarebbe stata dichiarata “figlia del comandamento”. Sul significato del “dormire”, che fu preso dai presenti come un controsenso e quindi motivo di derisione nei confronti di Gesù, molto è stato scritto e detto, ma l’unica lettura possibile è che con la frase “non è morta, ma dorme”, Lui intenda correggere l’opinione che la quasi totalità del genere umano ha del decesso, cioè la fine di tutto, a parte usare una strategia che vedremo a breve.
La “morte” intesa come cessazione del battito cardiaco e la consunzione del corpo certo è un dato di fatto, ma in realtà le persone “si addormentano” perché destinate alla resurrezione e sarà lì che avverrà lo “smistamento” tra la vera vita e la vera morte. È triste constatare che alcune Bibbie, per semplificare, hanno stravolto il senso profondo di questo termine e così, ad esempio in 1 Tessalonicesi 4.15, leggiamo “Non vogliamo, fratelli, lasciarvi nell’ignoranza a proposito di quelli che sono morti”, quando l’originale è “di quelli che dormono”, o “si sono addormentati”. L’uomo infatti non muore mai e se ciò accadrà, sarà per quelli che non avranno accolto il sacrificio di Gesù per essere salvati. Infatti: “Poi la Morte e gli inferi furono gettati nello stagno di fuoco. Questa è la seconda morte, lo stagno di fuoco. E chi non risultò scritto nel libro della vita fu gettato nello stagno di fuoco” (Apocalisse 20.14).
Tornando all’episodio, a questo punto Gesù non ammette che la soglia di casa sia varcata da nessuno salvo un gruppo molto stretto di persone, Pietro, Giacomo e Giovanni (Luca 8.51) oltre a Giairo e sua moglie; parla alla giovane in aramaico, “Talita kum”, cioè “Fanciulla, alzati”, richiamandola in vita e dimostrando di avere potere tanto sulla vita quanto sulla morte. Questo era lo scopo che Nostro Signore si prefiggeva, perché nonostante il dare sollievo a due genitori affranti non fosse certo cosa da poco, riportare in vita una bambina destinata a morire comunque più avanti avrebbe avuto senso solo se inquadrato nel concetto “Io ho le chiavi della morte e degli inferi”, uno dei cardini della dottrina cristiana.
Mi sono chiesto perché Gesù abbia ordinato “che nessuno venisse a saperlo” quando sarebbe stato impossibile: credo che si riferisse alle modalità con la quale aveva operato quella resurrezione in opposizione all’incredulità manifestata dai presenti che lo avevano deriso. Il miracolo non solo era stato operato alla presenza di cinque testimoni, ma si era manifestato con modalità che agli altri non dovevano interessare. I tre apostoli sono la figura del credente spirituale cui sono affidate responsabilità che altri non hanno, sono la rappresentazione del fatto che l’essere “fratelli” non è cosa che si può generalizzare esistendo credenti vittime della propria carnalità e altri che si sono appartati e hanno ricevuto posizioni e doni diversi. Giairo e la moglie invece rappresentano chi sperimenta su di sé i benefici del Vangelo, potenza che non ha né può avere limiti. Agli altri però, quelli che avevano reagito deridendo Gesù, si sarebbe potuto dire che la bambina era caduta in una sorta di sonno molto profondo che, per quanto spiegabile, era tale. Alla ragazzina, infine, fu dato da mangiare non per recuperare le forze, ma perché fosse dimostrato tramite il prender cibo che era tornata in possesso di tutte le facoltà vitali esattamente come al paralitico, sempre in Capernaum, fu ordinato di prendere la propria barella e tornarsene a casa.
* * * * *