05.42 – I due padroni (Matteo 6.24)
“24Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza.”
Ricordando quanto abbiamo letto nei versi precedenti, abbiamo visto l’importanza che rivestono il “tesoro” del cuore e la vista spirituale, soggetta a difetti o ad ammalarsi come quella del corpo. Ora Gesù, con il verso che mediteremo, collega tra loro il cuore, cioè il sentimento che spinge ad agire, le motivazioni profonde che ci motivano, la vista, cioè il riscontro, gli impulsi che determinano le nostre scelte, e la mente, stabilendo per la prima volta un’impossibilità umana tutta interiore, cioè quella di “servire Dio e la ricchezza”. Si tratta di una traduzione dall’originale aramaico “Mamon” che significa “ricchezza”, ma che troviamo anche nella mitologia caldeo-siriaca riferito a un demone. Sapevano gli uditori di Nostro Signore di quest’ultimo significato? Il testo lascerebbe pensare di sì, perché la ricchezza in senso generico è una condizione di vita che si ha, o si brama, e qui si allude a un padrone, a qualcosa che domina la mente: “Mamon” è una personificazione, qualcuno che rende schiavo chi ha a che fare con lui. A prescindere dal fatto che “Mammona” (come traducono i più) sia un personaggio che tenta o esista personificando l’amore smodato per il profitto e l’accumulare, è importante che nel nostro testo si parli di servire “due padroni”, cosa impossibile senza fare delle preferenze per l’uno o per l’altro, da cui deriverebbe un servizio difettoso per uno dei due. Se poi facciamo caso al verbo impiegato nel testo greco, “douléo”, vediamo che quel “servire” si riferisce a uno status giuridico tipico dello schiavo che appartiene interamente al suo padrone ed è a lui completamente sottoposto. Uno schiavo era a tempo pieno, non esisteva il parziale.
Ancora una volta dobbiamo chiederci cosa avessero pensato le persone riunite sul monte ad ascoltare Gesù sentendo quella frase. Erano ebrei e, anche se non possiamo escludere la presenza di qualche Fariseo o Dottore della legge, si trattava di persone che un’infarinatura dei testi sacri la possedevano per cui saranno sicuramente andati agli avvertimenti che Giosuè dette al popolo a Sichem dove, terminato l’esodo, si rinnovò l’alleanza con YHWH prima di entrare nella terra promessa. Leggiamo in Giosuè 24.14,15 “Ora, dunque, temete il Signore e servitelo con integrità e fedeltà. Eliminate gli dèi che i vostri padri hanno servito oltre il Fiume e in Egitto e servite il Signore. Se sembra male ai vostri occhi servire il Signore, sceglietevi oggi chi servire: se gli dèi che i vostri padri hanno servito oltre il Fiume oppure gli dèi degli Amorrei, nel cui territorio abitate. Quanto a me e alla mia casa, serviremo il Signore”. Abbiamo quindi questo verbo, “servire”, che fa riferimento ad un pensiero costante, a un compito, al punto di riferimento che precede l’azione. Anche qui possiamo connetterci al “tesoro del cuore” e al vedere bene o al vedere male: ogni uomo infatti è chiamato a fare una scelta e la fa anche inconsapevolmente, cercando il Signore o rifiutandolo. “Sceglietevi oggi chi servire”, sono parole particolari pronunciate davanti ad un popolo che sarebbe entrato nella terra promessa dopo quarant’anni di vita errabonda nel deserto e tutti coloro che avevano peccato di incredulità, idolatria e ribellione erano ormai morti per il giudizio che si era abbattuto su di loro: “Il Signore disse a Mosè ed Aaronne: Ho sentito gli israeliti lamentarsi continuamente di me! Questo popolo insopportabile, quando la finirà coi suoi lamenti? Di’ loro da parte mia: Io il Signore vivente, dichiaro che vi tratterò come avete detto sul mio conto. Morirete tutti in questo deserto. Tutti voi che siete stati registrati nel censimento, dall’età di vent’anni in su, morirete dal primo all’ultimo, perché vi siete lamentati di me. Giuro che non entrerete nella terra dove avevo promesso di farvi abitare.(…) Voi dicevate che i vostri bambini sarebbero stati fatti prigionieri dai nemici; invece io farò entrare proprio loro nella terra che voi avete disprezzato: essi la conosceranno” (Numeri 14.26-35). Ecco allora che quel “sceglietevi oggi chi servire” si riferiva ad una scelta consapevole dopo aver considerato l’esperienza comune dei loro padri.
Leggendo le parole di Giosuè, mi sono chiesto perché una persona debba essere necessariamente obbligata a scegliere tra Dio e ciò che non lo è, perché non si possa essere neutrali e quindi semplicemente liberi; la risposta immediata è stata: perché è impossibile in quanto l’essere umano è comunque sottoposto alle sue passioni e a queste reagisce dipendendo da esse, per cui in pratica ne è schiavo; loro sono il suo tesoro e lì è il suo cuore.
Se Matteo scrive “Nessuno può servire a due padroni”, Luca specifica meglio il soggetto, “Nessun servitore può servire a due padroni”, per cui implicitamente questo evangelista qualifica l’essere umano, che tanta opinione ha di sé perché constata ogni giorno di essere in grado di pensare e agire in modo apparentemente libero, come un servo a prescindere. Ogni uomo, nessuno escluso, è schiavo, servo delle proprie passioni, aspirazioni, desideri, attitudini, siano esse umanamente positive o negative, a meno che scelga di appartenere a Dio e quindi servirlo; senza un pensiero costante in tal senso, si collocherà in un dualismo impossibile.
L’apostolo Paolo nella sua lettera ai romani afferma “Non sapete che, se vi mettete a servizio di qualcuno per obbedirgli, siete schiavi di colui al quale obbedite, sia del peccato che porta alla morte, sia dell’obbedienza che conduce alla giustizia? Rendiamo grazie a Dio perché eravate schiavi del peccato, ma avete obbedito di cuore a quella forma di insegnamento alla quale siete stati affidati. Così, liberati dal peccato, siete stati resi schiavi della giustizia” (6.16-18). Già qui Paolo cita i due padroni, in questo caso non la ricchezza, ma il peccato inteso come condizione contrapposta alla santità di Dio. Obbedire al peccato significa proprio rifiutare la Sua presenza nella nostra vita. Il peccatore non è necessariamente l’omicida, il ladro o chi frequenta le prostitute o le osterie, ma chi lascia il Signore fuori dalla propria vita. Facendo ciò compie una libera scelta tra l’essere servo Suo o del peccato e quindi dell’Avversario. Non possiamo essere neutrali o “liberi” per il semplice fatto che siamo su un pianeta che è territorio dominato dal “principe di questo mondo” per cui, teoricamente, ogni uomo gli appartiene per nascita. Ecco perché il termine usato per indicare l’opera di Dio nei confronti chi crede in lui è “strappare”: il Signore Gesù Cristo “ha dato se stesso per i nostri peccati al fine di strapparci da questo mondo malvagio” (Galati 1.4), tradotto da altri con “secolo”.
Paolo nel verso che abbiamo letto nella lettera ai Romani parla comunque di un’obbedienza, “al peccato che porta alla morte” o all’ “obbedienza che conduce alla giustizia”. Scegliete chi volete servire. Attenzione al verbo, “servire”, non “seguire”.
Il peccato è allora una realtà nella quale tutti possono cadere accidentalmente, oppure una condizione che schiavizza coinvolgendo il cuore, la mente, gli occhi che restano chiusi alla luce dello Spirito, l’unica in grado ad illuminare la vita per davvero. Il peccato porta all’amore per il mondo, alla ricerca estenuante e continua della sopravvivenza, fisica o psichica poco importa. Il peccato porta al poter contare solo su se stessi in una continua successione di battaglie che possono essere vinte o perse, ma che conducono alla capitolazione definitiva. Giovanni, “il discepolo che Gesù amava”, scrive nella sua prima lettera “Non amate il mondo, né le cose del mondo. Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui; perché tutto quello che è nel mondo – la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita – non viene dal Padre, ma viene dal mondo. E il mondo passa con la sua concupiscenza, ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno” (2.15-17).
Ecco, le tre realtà citate da Giovanni relative al mondo, le possiamo considerare come le altrettante caratteristiche di Mamona: la prima, la “concupiscenza della carne” si riferisce a quanto ricerchiamo per soddisfare tanto il corpo quando la mente, entrambi sempre alla ricerca di saziare la propria fame e sete; la seconda, la “concupiscenza degli occhi” è quella che ho definito in una scorsa riflessione “la ricerca del bello” in tutte le sue forme. Il bello indubbiamente appaga, ma la concupiscenza degli occhi non si sazia mai e finisce per renderli ancora una volta ossessivamente dipendenti. La terza, la “superbia della vita”, è il naturale riassunto dell’atteggiamento di chi si crede libero, ma in realtà è soltanto un misero che si crede qualcuno. La superbia della vita si riassume in tre affermazioni: io sono, io posso, io voglio, guarda caso tutte in opposizione al concetto dell’essere schiavi, destinate a scontrarsi con parole che ogni credente conosce molto bene: “Tu sei polvere, e ritornerai polvere”. Non è un caso se proprio i tre verbi, essere, volere e potere, sono i più usati negli spot pubblicitari. Non è neppure un caso che su queste tre condizioni fece leva Satana tentando Eva per prima.
A questo punto la ricchezza, Mamona, è tutto quanto abbiamo visto finora messo assieme; un concentrato, una brodaglia impura con dentro un po’ di tutto di cui si nutre chi non ha fatto proprio l’amore della verità per essere salvato. Non è la condizione di chi è ricco in sé che ostacola l’incontro e la relazione con Dio, ma è quello che l’accompagna, vale a dire il volerla difendere, l’attaccarsi a lei con tutte le proprie energie. “A quelli che sono ricchi in questo mondo ordina di non essere orgogliosi, di non porre la speranza nell’instabilità delle ricchezze, ma in Dio, che tutto ci dà con abbondanza perché possiamo goderne” (1 Timoteo 6.17): queste parole non contengono una censura relativa alla condizione di chi possiede dei beni, ma la pongono nella giusta prospettiva, vale a dire non base da cui partire per impostare una vita nell’agio egoistico, ma strumento di ringraziamento e metodo come fu, ad esempio, per Giobbe che diceva “…io liberavo il povero che invocava aiuto e l’orfano che ne era privo. (…) al cuore della vedova infondevo gioia” (29.12,13). Le parole “tutto ci dà in abbondanza perché possiamo goderne”, poi, non esortano certo chi crede a desiderare una vita di stenti, ma a considerare ciò che abbiamo come un dono abbondante, termine che si riferisce alla condizione tanto materiale quanto spirituale, quindi a una dimensione. È con lo spirito che si valutano i doni di Dio, non con il metro del denaro o delle possibilità di soddisfazione dei sensi.
Il denaro, le ricchezze, “Mamona”, non è un dio da servire perché è in grado di menomare gravemente se non impedire il rapporto con quello vero. Troppe volte ho sentito affermare che il cristiano è definitivamente liberato dal peccato e quindi non può peccare perché amico di Dio e nuova creatura: questo significa relegare versi che hanno un’indubbia verità isolandoli dal contesto in cui sono stati scritti e soprattutto dare un’interpretazione univoca ai concetti espressi. In realtà troviamo in Colossesi 3.5-11 un invito preciso rivolto ai membri di quella Chiesa, quindi a noi: “Fate dunque morire ciò che appartiene alla terra: impurità, immoralità, passioni, desideri cattivi e quella cupidigia che è idolatria; a motivo di queste cose l’ira di Dio viene su coloro che gli disobbediscono.(…) vi siete svestiti dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova per una piena conoscenza, a immagine di Colui che lo ha creato”. E Giacomo 4.4 ricorda “Non sapete voi che l’amore per il mondo è nemico di Dio?”. Sono parole rivolte a cristiani convertiti, tese a ricordare loro che hanno uno scopo e un compito nel mondo, che è quello di essere “sale della terra” che abbiamo visto può perdere il suo sapore.
Ecco spiegato perché non possiamo servire due padroni: scelto Gesù Cristo, c’è un dovere da compiere, un “giogo leggero” che il vero cristiano ha preso su di sé rifiutando l’altro, quello dell’Avversario che illude e divora l’uomo a tal punto da perderlo. Giosuè ricordò, come abbiamo letto all’inizio, che se Israele avesse abbandonato il Signore per servire dèi stranieri, Lui stesso gli si sarebbe voltato contro e, dopo aver fatto loro del bene, li avrebbe annientati: “Voi non potete servire il Signore, perché è un Dio santo, e un Dio geloso; egli non perdonerà le vostre trasgressioni e i vostri peccati. Se abbandonerete il Signore e servirete dèi stranieri, egli vi si volterà contro e, dopo avervi fatto tanto bene, vi farà del male e vi annienterà”. Questo succederà a chiunque, posta la sua fede nelle ricchezze di questo mondo, avrà impostato la propria vita a inseguirle, accumularle, vivere per loro. In poche parole, servendo Mamona, un dio diverso. Così facendo avrà odiato il Dio d’amore che chiama, sempre. Amen.
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