16.12 – Chi crede in me (Giovanni 12. 44-50)
44Gesù allora esclamò: «Chi crede in me, non crede in me ma in colui che mi ha mandato; 45chi vede me, vede colui che mi ha mandato. 46Io sono venuto nel mondo come luce, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre. 47Se qualcuno ascolta le mie parole e non le osserva, io non lo condanno; perché non sono venuto per condannare il mondo, ma per salvare il mondo. 48Chi mi rifiuta e non accoglie le mie parole, ha chi lo condanna: la parola che ho detto lo condannerà nell’ultimo giorno. 49Perché io non ho parlato da me stesso, ma il Padre, che mi ha mandato, mi ha ordinato lui di che cosa parlare e che cosa devo dire. 50E io so che il suo comandamento è vita eterna. Le cose dunque che io dico, le dico così come il Padre le ha dette a me».
Credo che, con questi versi, l’apostolo Giovanni metta tutti i suoi lettori di fronte a un momento solenne perché abbiamo qui, secondo l’impostazione che ha dato al suoVangelo, le ultime parole di Gesù pronunciate in pubblico. Infatti, i capitoli da 13 in poi sono dedicati esclusivamente all’ultima formazione dei discepoli oltre che, dal 18, al racconto della Sua Passione, morte, risurrezione.
Sono parole che vanno lette come un intervallo, come contenute in un foglio a parte, perché sappiamo che poi Nostro Signore riprenderà ad insegnare il giorno successivo, martedì, con parabole esponendo concetti importanti che riguarderanno la responsabilità dell’uomo di fronte a Dio, ma mancheranno gli appelli alla conversione, al credere in Lui e al perdóno che per più di tre anni aveva portato avanti. Giovanni, allora, all’incredulità dei Giudei decritta prima, oppone queste parole, a ricordare le conseguenze tanto dell’accoglienza che del rifiuto della Sua Persona.
A “Esclamò” preferisco “Gridò” usata dal Diodati e altri a conferma del fatto che con le parole che seguono Gesù riassume la Sua identità, lo scopo della Sua venuta, le conseguenze dell’accoglierLo o meno, la Sua fedeltà, quattro concetti che chiudono l’uomo in un futuro di vita o di morte a seconda di ciò che sceglie. Gridare nel senso non comunemente inteso da noi, cioè urlare, strillare, ma in quello di chiamare, porre l’attenzione su un fatto o un argomento, rappresentare l’urgenza di una comunicazione. Ad esempio, quando Giovanni Battista predica nel deserto è presentato da Isaia come “Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri” (Matteo 3.3), ma certo non urlava né parlava in modo alterato come alcuni lo hanno voluto rappresentare e così Gesù.
Il “gridare” è qui utilizzato come presentare delle alternative chiare, una voce purtroppo udibile solo da pochi quasi che occupi una frequenza sulla quale si possono sintonizzare solo le persone interessate; ricordiamo ancora Proverbi 1.20,21, “La sapienza grida per le strade, nelle piazze fa udire la sua voce; nei clamori della città essa chiama, pronuncia i suoi detti alle porte della città”. Ora, è lo stesso autore del libro a spiegare chi sia questa “sapienza” poco più avanti: “Il Signore mi ha creata come inizio della sua attività, prima di ogni sua opera, all’origine. Dall’eternità sono stata formata, fin da principio, dagli inizi della terra”, quindi “io ero con lui come artefice ed ero la sua delizia ogni giorno; giocavo davanti a lui in ogni istante, giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo” (8.22,23; 30,31). Queste ultime parole ci parlano dell’opera sostenitrice e di conferma dei “figli dell’uomo” da parte della Sapienza, e cioè di tutti coloro che a Lui avrebbero risposto e gli avrebbero ubbidito, da Set in poi. Si noti, poi la citazione del “globo terrestre” che sconfessa la teoria in base alla quale la Bibbia proponga la terra come piatta.
Ora con il suo “gridare” Gesù proclama la propria identità col Padre perché solo così avrebbe potuto manifestarsi nel senso che credere in Lui ha senso unicamente se lo si prende come Colui che rivela, come mai accaduto prima, quel Dio che esprimeva la sua potenza, distanza e inaccessibilità, ma anche amore, aiuto e giustizia, essendo fonte di benedizione o maledizione, ma certo non alla portata della creatura come invece lo è il Figlio fattosi uomo. Infatti Dio Padre è “…colui che abita una luce inaccessibile: nessuno fra gli uomini lo ha mai visto né può vederlo”. Se ci pensiamo, l’Iddio dell’Antico Testamento non ha mai avuto discepoli, ma profeti, uomini chiamati ad assolvere una funzione che poi si esauriva, lasciavano un’eredità più o meno forte, ma non una linea di continuità, rivelando la volontà di Dio su un preciso punto, non Lui, che aveva già comunicato le Sue aspettative tramite la Legge.
Senza Gesù noi crederemmo in un Creatore, forse nell’Iddio d’Israele e saremmo passati dalla categoria dei “timorati” a quella dei “proseliti” come scritto qualche capitolo fa, avremmo un’infarinatura scientifico-rabbinica, ma certo non potremmo “vedere” Dio con gli occhi dello Spirito, non potremmo “credere” con la Sua assistenza e guida. Quando leggiamo “Chi crede in me, non crede in me, ma in colui che mi ha mandato” significa proprio questo, andare oltre l’Iddio che si rivela tramite pochi profeti eletti per arrivare a Gesù Cristo, da Lui appositamente inviato per manifestare tutto ciò che occorre sapere tanto per la nostra salvezza che, soprattutto, comunione con Lui, la sola che può farci capire che gli apparteniamo.
Quindi: il Padre era troppo lontano? Ha mandato il Figlio come tramite, rivelatore umano e divino e, se il divino è irraggiungibile, l’umano no ed è al divino che può condurre e porta. Anche il “chi vede me, vede colui che mi ha mandato” sta a significare la stessa cosa, dove “vedere” per noi non significa guardare le sue sembianze fisiche, ma essere presenti con Lui nel Vangelo assimilando le Sue parole, vedendolo guarire, rimproverare, commentare e rispondere agli interrogativi delle persone. Perché Gesù è quello che ha rivelato non “il volto umano del Padre” (che non ha), ma la Sua benevolenza verso di noi, la Sua Nuova Alleanza. Inoltre, Gesù è il Dio che si è fatto uomo, fatto da non trascurare perché di più, per comprendere la creatura prigioniera in un corpo di carne, non poteva davvero fare.
Ciò che sconvolge in quest’ultima frase di Gesù, però, è il fatto che gli ebrei sapevano benissimo che Dio non poteva essere “visto” con occhi umani perché non sarebbe fisicamente e costituzionalmente in grado di reggerne la presenza, come dalle parole di Esodo 33.20, “Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi, e restare vivo”. Tale è la forza, energia e santità che irradia la Sua presenza.
Sull’unicità del Cristo leggiamo in Atti 4.12 le parole dell’apostolo Pietro ai Sinedrio: “…in nessun altro vi è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati”. Quindi non possiamo inventarci altri dèi, altre persone, perché è già stato dato Colui che avrebbe riscattato l’essere umano; abbiamo infatti il verbo “stabilito”, cioè la salvezza può passare solo ed esclusivamente attraverso di Lui.
Solo come Dio fattosi uomo Gesù avrebbe potuto essere “la porta delle pecore” e il “buon pastore” al tempo stesso, solo come Dio sacrificato avrebbe potuto produrre quell’immenso miracolo ricordato in Ebrei 10.19-22: “Avendo dunque fratelli, piena libertà d’entrare nel santuario – prima azione concessa solo al Sommo Sacerdote una volta all’anno – per mezzo del sangue di Gesù, per questa via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne: avendo noi un sacerdote grande sopra la casa di Dio, accostiamoci con cuore sincero nella pienezza della fede, con i cuori purificati da ogni cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura”.
Gesù è venuto “nel mondo come luce, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre”, quelle in cui l’uomo naturale ha dimora stabile a meno che non si converta, non riconosca il calore che proviene dalla luce e scelga di far parte di essa. E il “rimanere nelle tenebre”, che Diodati traduce “dimorare”, suggerisce proprio l’idea da un lato della volontà del soccorritore di liberare da esse, dall’altro il fatto che la persona può anche scegliere di persistere nella propria condizione, come purtroppo accade. Il verbo “dimorare” suggerisce l’idea di un’abitualità, di realtà date per scontate ed acquisite, di un metodo fisso di lavoro, azione e pensiero. Per contro, Giovanni al capitolo primo del suo Vangelo scrive “Egli era la luce vera che illumina ogni uomo”, certo che gli consente di farlo, perché sono davvero molti coloro che si nascondono.
L’azione dell’illuminare proviene sì dalla volontà del Figlio, ma contemporaneamente dalla Sua stessa natura; quindi, rifiutandola, la persona si condanna da sola con un suicidio assurdo che si realizza, paradossalmente, con una vita costruita sulla morte. Sappiamo che il ritorno di Gesù non sarà in salvezza, ma in giudizio, eppure qui Lui stesso dichiara che saranno le Sue stesse parole di Grazia e di Verità non accolte che si ritorceranno contro coloro che le avranno rigettate: “La parola che io vi ho detto, lo condannerà nell’ultimo giorno” (v.48). Terribile: l’uomo troverà solo in se stesso la ragione della propria rovina e scoprirà di essersi condannato da solo perché così avrà scelto. Se ci pensiamo, la Parola di Dio in un modo o in un altro è annunciata anche oggi e credo che la sola presenza di un edificio in cui la comunità cristiana si raduna dia una testimonianza, se non altro di esistenza e stia alla persona interrogarsi sul fatto che esista qualcosa di superiore oppure no, cercare e trovare.
Per la superficialità che caratterizza l’uomo naturale, sempre pronto ad evitare responsabilità che chiamino in gioco le sue scelte più profonde, non è frequente sentire, a commento di certe affermazioni di Gesù, che abbia esagerato e da qui deriva la visione universalista del Vangelo, quella del “Ma sì, tanto perdonerà tutti” o de “l’inferno è qui, su questa terra, non può esservene un altro”. Ora che il Maestro a volte esagerasse era ciò che pensava Pietro che – fra due giorni secondo la cronologia di Marco – si stupirà del fico trovato seccato dicendogli “Maestro, guarda, l’albero che hai maledetto è seccato!” (Marco 11.21). Però, come insegna quell’episodio, ogni parola detta da Gesù si è avverata e soprattutto si concreterà puntualmente; non era venuto a scherzare, a enfatizzare dei concetti, ma le Sue parole hanno la stessa valenza di quelle della Legge, che non potevano essere prese con sufficienza. Se Dio non esagerava dandole a Mosè, Gesù fece altrettanto coi discepoli e con tutte le persone con le quali parlò.
Abbiamo poi al verso 47 la citazione di un tempo dispensazionale nel senso che Gesù non è venuto per giudicare il mondo, come avverrà in futuro, ma per salvarlo in quanto, come Lui stesso disse, “venuto non per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Matteo 20.28). Credo proprio che Nostro Signore non avrebbe mai potuto venire al mondo (la prima volta) per giudicare e condannare: su quali basi? Non bastavano gli interventi punitivi di Dio riportati nelle Antiche Scritture, così esatti e chirurgici? Come condannare un mondo che non era stato messo in grado di scegliere da che parte stare, chi servire, a chi aderire, su chi basare la propria fede?
Venendo come servo, invece, e rivelandosi non solo come tale, ma in tutti i suoi aspetti salvifici, identificandosi nell’uomo, nel peccatore ma non nel peccato, trionfando su quel personaggio tremendo che è l’Avversario che nessun altro avrebbe potuto sconfiggere, lì veramente l’essere umano è stato posto di fronte a una scelta: credi in me e in Colui che mi ha mandato, oppure rifiutami.
Rifiutare Gesù Cristo non è semplicemente non credere a un personaggio storico o porre dei dubbi sul fatto che sia stato veramente Dio, ma è opporsi tanto all’amore del Padre nell’inviarlo quando al Suo nel morire per la creatura che, per quelle che erano le sue possibilità, avrebbe potuto solo “dimorare nelle tenebre”.
Gesù, Figlio di Dio ebbe questo compito e lo mantenne per tutta la vita; non è che visse tranquillamente fino al momento del Suo Sacrificio, anzi: ogni Sua parola, ogni miracolo, dottrina, esposizione, procedeva dal Padre e quindi fu il Padre, tramite Lui, ad avere una parola per ogni uomo, peccatore o convertito. Amen.
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