12.04 – A GERUSALEMME. AL TEMPIO (I/IV) (Giovanni 7.11-19)

12.04 – A Gerusalemme: Al Tempio I (Giovanni 7.11-19)

          

14Quando ormai si era a metà della festa, Gesù salì al tempio e si mise a insegnare. 15I Giudei ne erano meravigliati e dicevano: «Come mai costui conosce le Scritture, senza avere studiato?». 16Gesù rispose loro: «La mia dottrina non è mia, ma di colui che mi ha mandato. 17Chi vuol fare la sua volontà, riconoscerà se questa dottrina viene da Dio, o se io parlo da me stesso. 18Chi parla da se stesso, cerca la propria gloria; ma chi cerca la gloria di colui che lo ha mandato è veritiero, e in lui non c’è ingiustizia. 19Non è stato forse Mosè a darvi la Legge? Eppure nessuno di voi osserva la Legge! Perché cercate di uccidermi?». 

 

            Siamo “a metà della festa”, quindi dopo tre giorni e mezzo  dopo l’episodio precedente in cui i Giudei cercavano Gesù per tendergli trappole dottrinali ed avere così degli elementi per accusarlo di eresia o bestemmia davanti al Sinedrio. Ebbene Nostro Signore “salì al tempio e si mise ad insegnare”. Un’occasione per metterlo alla prova si verificherà di lì a poco quando, sempre nel Tempio, gli porteranno una donna adultera chiedendogli un parere sulla sua lapidazione o meno (Giovanni 8).

Restando sul nostro episodio, l’Evangelista non ci ha riportato i contenuti esposti, anche se non lo nomina, nel Cortile dei Gentili che era uno spazio libero: lì trovavano posto, in occasione delle grandi feste che richiedevano sacrifici, i mercanti di animali e i cambiavalute, ma nel tempo ordinario si andava lì tanto per trattare affari quanto per incontrare sacerdoti o scribi e i rabbini tenevano le loro lezioni. Sappiamo che quello era uno spazio concesso ai pagani, che però non potevano superare una balaustra in pietra sulla quale un’iscrizione li avvisava che non avrebbero potuto andare oltre, pena la morte. Ecco perché Gesù scelse quel luogo, ritenendolo il più idoneo per comunicare il Suo insegnamento che certamente riguardò particolari propri rabbinici, con parole nuove comunque basate sulla Legge o i Profeti. Sappiamo, a proposito dei Suoi approfondimenti scritturali, che “Egli insegnava loro come uno che ha autorità, e non come i loro scribi” (Matteo 7.29) per cui fu proprio quella particolare modalità a stupire i presenti.

Giovanni scrive che “I Giudei ne erano meravigliati e dicevano “Come mai costui conosce le Scritture, senza avere studiato?” perché solo dopo molti anni di studio si permetteva a uno studente giudeo di insegnare e solo dopo quel lungo periodo veniva ammesso alla confraternita dei Dottori della Legge. Vero è che Gesù, come tutti gli altri ebrei, aveva ricevuto l’istruzione ordinariamente impartita nelle scuole annesse alle varie sinagoghe, ma non aveva mai frequentato le grandi istituzioni rabbiniche né aveva avuto un maestro umano.

Dall’esame del verso 15 rileviamo tre punti, il primo dei quali è “I Giudei ne erano meravigliati”, cioè provarono in loro un senso di stupore dopo aver seguito attentamente i Suoi discorsi: questo particolare è importante perché non lo attaccarono immediatamente quando videro che insegnava, ma ascoltarono, verificarono secondo la loro scienza scritturale le Sue parole e non vi trovarono nulla di biasimevole. Questo significa che quelli dovettero ammettere da un lato che Gesù conosceva le Scritture e che dall’altro dava luogo ad approfondimenti, connessioni e applicazioni alla vita reale andando molto più oltre quanto loro non facessero. Già nel sermone sul monte abbiamo avuto una prova di tutto questo, in particolare quando leggiamo “avete inteso che fu detto (…) ma io vi dico”, cui seguivano riferimenti alla condizione del cuore della persona e al fatto che nessuna religione, nessuna applicazione pedissequa della norma può indirizzare correttamente a Dio, ma la sola fede e amore per Lui.

I Giudei quindi, trovandosi di fronte alla conoscenza di Gesù, furono stupiti, ma in questo sentimento dobbiamo includere anche la reazione di fronte a ciò che non potevano capire e cioè le applicazioni spirituali che coinvolgono l’apparato recettore che solo lo Spirito può attivare. Andando un poco più oltre, dirà “Voi non credete perché non fate parte delle mie pecore” (Giovanni 10.26), quindi abbiamo un’esclusione, una divisione categorica che coinvolge tutta la persona, cioè un’anima e soprattutto uno spirito diversi. È bello considerare che quando Nostro Signore parla di pecore e di gregge coinvolge anche tutti quelli che proprio i Giudei disprezzavano (come oggi), cioè i pagani. Infatti: “E ho altre pecore che non provengono da questo recinto – Israele –: anche quelle devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore” (Giovanni 10.16).

Altro particolare del verso 15, secondo e terzo punto, è che, oltre alla meraviglia, “dicevano” evidentemente l’un l’altro, “Come mai costui – altro spregiativo assieme a “quel tale” incontrato nello scorso capitolo – conosce le scritture, senza avere studiato?”. Lasciamo in sospeso, per ora, la domanda e soffermiamoci sul “dicevano”: si chiesero l’uno con l’altro, ma non andarono a interpellare Gesù. L’uomo carnale si affiderà sempre ad un suo simile nel tentativo di avere una risposta a ciò che per lui è oscuro. Nicodemo, non trovandone, decise di andare da Lui, per quanto di nascosto, ma loro, convinti di essere le sole legittime guide del popolo, ma “cieche”, cercarono nel loro simile una risposta che non sarebbe mai potuta arrivare o, qualora giunta, sarebbe stata errata.

Se ci pensiamo, contrariamente a quanto possa apparire, non appartiene all’uomo dire “Io sono”; al massimo può affermare “Io esisto”, che contempla comunque un’espressione di sé, ma la convinzione di “essere” quanto a dignità e potenza è solo un inganno che, tanto più è presente, quanto più ci tiene ancorati al mondo e alla sua orizzontalità e facendoci agire in contrapposizione a Dio. Ma tutti gli uomini, “grandi e piccoli”, dovranno comparire davanti a Lui e rendere conto di come avranno gestito la loro vita e persona, in bene o in male.

Tornando al “dicevano”, sappiamo che alla domanda su come potesse Gesù conoscere le scritture senza avere studiato non riuscirono a dare una risposta, e non poteva essere altrimenti. È Lui stesso a prevenirli, e disse “La mia dottrina non è mia, ma di colui che mi ha mandato”; con queste parole Gesù ci qualifica come un tramite, ma non solo: si dichiara come la Parola perché nessun altro avrebbe potuto rivelare ciò che Dio è, era e sarà, in modo comprensibile agli uomini. Egli è l’inviato promesso dai Profeti che una parte degli Israeliti non si limitava a sapere che sarebbe venuto un giorno, ma aspettava e in Simeone ed Anna troviamo i loro più illustri rappresentanti (Luca 2. 33-38). La stessa Parola che in tempi enormemente lontani da noi disse “Sia la luce!”, nel Tempio insegnava ed era lì, davanti a tutti, Giudei compresi cioè la stessa categoria di persone che nei tempi antichi aveva tramandato, custodito e preservato la Scrittura e che, in quel momento storico, non aveva la capacità di intenderla. L’importante non era sapere “come mai” Gesù conosceva le Scritture senza avere studiato, ma ammettere che le Sue parole erano di vita e aprivano la mente ad una conoscenza superiore, quella che rende liberi, quella che consente di inquadrare correttamente gli accadimenti della vita, di capire, di dare una prospettiva e uno scopo che non finirà mai a differenza dei progetti terreni che ciascuno di noi può sempre avere e portare eventualmente a compimento.

Subito dopo abbiamo “Chi vuol fare la sua volontà – del Padre – riconoscerà se questa dottrina viene da Dio, o da me stesso”: qui viene chiamata in causa la capacità di scegliere, vista nelle parole “Chi vuol fare la sua volontà”, in cui il volere dell’uomo coincide con quello di Dio; perché ciò accada la creatura deve rinunciare al proprio “Io sono” di cui abbiamo parlato poc’anzi. E poiché l’essere dell’uomo è prima di tutto pensiero, ecco perché fu detto “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Marco 8.34 e rif.). Rinnegare se stessi significa prendere coscienza della nostra bassezza che ci porta inevitabilmente alla domanda “Che cosa è l’uomo, che tu ne abbia memoria? E il figlio dell’uomo, che tu ne prenda cura?” (Salmo 8.4). Il volere, per essere tale, non può rimanere nell’ambito della teoria, ma dare un risultato ed ecco perché, in senso spirituale, non può che portare al riconoscere “se questa dottrina viene da Dio” o da un semplice essere umano.

“Chi parla da se stesso, cerca la propria gloria; ma chi cerca la gloria di colui che lo ha mandato è veritiero e in lui non vi è ingiustizia” (v.18) è un altro verso profondamente indicatore del fatto che una persona possa essere o meno un impostore: parlare da se stessi implica il portare avanti ragionamenti e princìpi col solo fine di attuare un interesse personale e questo lo vediamo oggi nella politica e nel commercio, ma anche nelle varie, false istituzioni religiose, nei fondatori delle sette, nel profondo vuoto morale di un sistema falsamente solidale che lascia Cristo fuori dalla porta. Nel cercare “la propria gloria” c’è allora la volontà di porsi in opposizione a Dio, come avvenuto per Simone il mago in Atti 8. 9-21, che offerse del denaro agli apostoli perché gli fosse dato “…questo potere perché, a chiunque io imponga le mani, egli riceva lo Spirito Santo”.

Per chi “cerca la propria gloria” esiste una definizione particolare, che è quella che Pietro dirà proprio a Simone: “Ti vedo pieno di fiele amaro e preso nei lacci della tua iniquità” (Atti 8.23). E il fiele è un liquido secreto dal fegato indispensabile alla digestione e all’assorbimento dei grassi: consente l’eliminazione della bilirubina, colesterolo e altre sostanze tossiche. Essendo il fegato fondamentale nel metabolismo, quando è sano, spiritualmente, sta a significare una corretta assimilazione dei principi spirituali e della loro applicazione nella vita di tutti i giorni. Quando malato, abbiamo invece la totale intossicazione, addirittura visibile dal colore della pelle. L’essere “pieno di fiele amaro” è allora un riferimento alla totale estraneità alla vera esistenza che aveva Simone, cercando ancora la “propria gloria” nonostante avesse creduto e si fosse fatto battezzare, “stando sempre attaccato a Filippo” (8.13).

Gesù, tornando alle Sue parole e considerandole in senso orizzontale, cioè apparente e terreno quindi adatto ai Giudei, era chiaro che non cercasse la propria gloria perché di tutto il Suo predicare non ebbe alcun tornaconto, anzi, sappiamo che spesso, coi discepoli, “non potevano neppure mangiare” per la gente che lo cercava in tutte le ore né avere “ove posare il capo”.

Al verso 19, Nostro Signore si rivolge ai Suoi oppositori chiamando in causa la Legge data da Mosè, cui tanto facevano riferimento e che si vantavano di osservare, mentre era solo un pretesto per dar luogo alla propria giustizia umana: esteriormente erano inappuntabili, ma dentro di loro erano gli ipocriti e i religiosi di sempre, perché “la circoncisione è quella del cuore, nello spirito, non nella lettera; la sua lode non viene dagli uomini, ma da Dio” (Romani 2.29).

Con la frase “nessuno di voi osserva la Legge”, Gesù intendeva dire proprio questo: “Per mezzo della Legge si ha la conoscenza del peccato” (Romani 3.20), ma questa resta inutile se non viene trasformata dalla Grazia, “perché tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù” (3.23,24). Capiamo? Gesù, dal Cortile dei Gentili che faceva parte del Tempio, considerato la dimora di Dio, in cui ogni cosa si svolgeva secondo le prescrizioni date dalla Legge, afferma che in realtà questa non era osservata da nessuno perché l’abitudine, il rito, aveva preso il posto della partecipazione, del coinvolgimento profondo. Il cuore era messo da parte, stava lì, si limitava a un battere indifferente. Ecco perché nessuno la osservava. Anche oggi molti cristiani frequentano le assemblee senza alcuna partecipazione interiore, restando gli stessi, magari attratti dalla funzione che tanto più è emotivamente appagante quanto più soddisfa la loro carne, ma possono solo identificarsi in quei Giudei che Gesù rimprovera. “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il loro cuore è lontano da me”.

La nostra porzione di Scrittura si conclude con una domanda, “Perché cercate di uccidermi?”, destinata a far capire che il piano dei Giudei non gli era nascosto, segno che l’uomo deve rendere conto a Dio non quando commette il peccato, ma già da quando pensa di attuarlo, come sappiamo dalle parole dette a Caino migliaia di anni prima. Il concetto di prevenzione e prudenza è qualcosa di assolutamente distante dall’uomo, che ha la presunzione di riuscire sempre e che tutto ciò che di negativo possa accadere riguardi sempre gli altri. Con le Sue parole Gesù non intende tanto denunciare la reale intenzione dei Suoi oppositori, ma ne chiede la ragione dando loro un’opportunità per riflettere ancora una volta su di Lui. Il Suo omicidio, quando sarebbe avvenuto, avrebbe dovuto essere qualcosa di cui i Giudei dovessero assumersene pienamente la responsabilità, al contrario dei romani che non avrebbero avuto né la storia, né tantomeno la cultura per riconoscere in Lui il Figlio di Dio, e infatti alla croce pregherà per il loro perdono.

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02.09 – I MERCANTI DEL TEMPIO (Giovanni 2.13-24)

I mercanti del tempio (Giovanni 2.13-24)

 

Giunti al primo miracolo di Gesù avvenuto in Cana, Giovanni scrive un raccordo temporale:

 

12Dopo questo fatto scese a Capernaum insieme a sua madre, ai suoi fratelli e ai suoi discepoli. Là rimasero pochi giorni”.

 

Il fatto che non sia menzionato Giuseppe ha spinto i commentatori a ritenere che a quell’epoca fosse già deceduto e infatti a Cana non è menzionato come presente. Sorge qui il problema di cosa avesse fatto a Capernaum, paese sulle rive del lago di Galilea in quei “pochi giorni”. Matteo e Marco dicono che Gesù andò ad abitare là una volta saputo dell’arresto di Giovanni Battista, cosa che non era ancora avvenuta ai tempi del miracolo in Cana; Luca, dopo aver parlato di un breve ritorno a Nazareth e citato l’episodio in cui gli abitanti del paese volevano gettarlo giù da un burrone, scrive in due versetti (4.14.15)

 

14Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito e la sua fama si diffuse in tutta la regione. 15Insegnava nelle loro sinagoghe e tutti gli rendevano lode”.

 

A questo punto pare legittimo pensare che nessun evangelista parli di cosa fece Nostro Signore a Capernaum in quei giorni. Vero è che là, sulle rive del lago, ci fu la chiamata ai quattro che già lo seguivano (Pietro, Andrea, Giovanni e Giacomo) e in quella cittadina avvennero molti episodi edificanti, ma avvennero in seguito; prima di quegli avvenimenti, vi fu il primo viaggio a Gerusalemme di Gesù da adulto che consideriamo ora.

Veniamo ora al passo in esame:

 

13Si avvicinava intanto la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. 14Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. 15Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori dal tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, 16e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!». 17I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: Lo zelo per la tua casa mi divorerà. 18Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?». 19Rispose loro Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». 20Gli dissero allora i Giudei: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?». 21Ma egli parlava del tempio del suo corpo. 22Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi <, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù. 23Mentre era a Gerusalemme per la Pasqua, durante la festa, molti, vedendo i segni che compiva, credettero nel suo nome. 24Ma lui, Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti 25e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza sull’uomo. Egli infatti conosceva quello che c’è nell’uomo.

 

L’episodio è riportato anche dai sinottici che, pur collocandolo a Gerusalemme come Giovanni, lo inseriscono alla fine della vita pubblica di Gesù. Ciò ha dato adito a due ipotesi: la prima, non trovando possibile un accordo tra le versioni, si è ritenuto trattarsi di due fatti diversi; la seconda è che si tratti di un unico avvenimento che però avvenne al principio del ministero di Gesù, poiché tra gli evangelisti è Giovanni ad essere più accurato cronologicamente. Se i Sinottici lo pongono verso la fine, è perché vi sono indotti da motivi di analogia d’argomento e soprattutto perché, nella loro esposizione molto spesso non cronologica, narrano esplicitamente di una sola permanenza di Gesù a Gerusalemme in luogo delle quattro narrate da Giovanni.

Abbiamo già sottolineato che la Pasqua fosse la festa più importante dell’ebraismo perché ricordava l’avvenuta liberazione del popolo dalla schiavitù d’Egitto. Sappiamo che a Gerusalemme, quindi al Tempio, confluivano tutti gli israeliti che provenivano dalle regioni più remote dell’impero (ecco il perché dei cambiavalute) e, nel cortile dei gentili, vi era tutta un’organizzazione studiata per ridurre al minimo le difficoltà del trovare gli animali necessari da offrire in sacrificio. I sacerdoti, o perché da quel commercio avevano una loro percentuale sulle vendite, o perché affittavano il posto ai mercanti, trovavano probabilmente una giustificazione per quella mescolanza di sacro e profano nel fatto che tutto era fatto a fin di bene: poiché i sacrifici dovevano avere luogo, le monete di chi veniva da lontano cambiate e, senza quel commercio, la gente avrebbe dovuto fare le stesse cose andandole a cercare in città o negli immediati dintorni, si riteneva giusto approfittare di quello spazio.

Esisteva però una differenza sostanziale: se il voler agevolare gli israeliti fornendo loro un servizio che risparmiava loro molte fatiche viste nel cercare il necessario per i sacrifici, quello che indignò profondamente Nostro Signore fu il fatto che in tutta quella confusione era venuto totalmente a mancare il significato del sacrificio e della Pasqua stessa. Il tutto si svolgeva nella formalità e soprattutto nella soddisfazione, da parte dei commercianti, per i guadagni enormi che questi potevano realizzare traendo vantaggio da una festa sacra. In quel cortile nulla poteva far pensare a qualcosa di diverso da un normale mercato in cui la gente vende e compra senza pensare ad altro che ai propri interessi.

Chi ancora oggi visita Roma e in particolare la zona di San Pietro, non può non rimanere profondamente colpito dalla presenza di un commercio profondamente invasivo di oggettistica di vario genere: immagini di ogni dimensione, materiale mediatico stampato in ogni lingua, personale apparentemente religioso che fa da guida a un popolo disinformato nel profondo. Tutto è rito e svuotato con cura quasi programmata da qualsiasi pietà, esempio, insegnamento, distinguo tra ciò che è effettivamente vero ed importante da ciò che non lo è, in una mescolanza totale tra “sacro” e profano o, meglio, in cui il profano è legittimato. Personalmente mi ha molto disturbato la visita al cosiddetto “tesoro di San Pietro”, di inestimabile valore, detenuto e conservato da una organizzazione che, se davvero fosse fedele agli intenti e alla professione che fa, non avrebbe alcuna difficoltà a liberarsene come fece la Chiesa primitiva in Gerusalemme dove leggiamo che 44Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; 45vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno. 46Ogni giorno erano perseveranti insieme nel tempio e, spezzando il pane nelle case, prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore, 47lodando Dio e godendo il favore di tutto il popolo. Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati” (Atti 2.44-47).

Possiamo ricordare anche le parole di Gesù quando mandò i dodici apostoli in missione: “Guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demòni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Matteo 10.8). Gli apostoli, umanamente, avrebbero potuto benissimo chiedere un contributo o un’offerta libera ai parenti di quegli afflitti, ma così facendo avrebbero snaturato totalmente la loro missione. Il “dare gratuitamente”, gesto assolutamente inconcepibile per il mondo salvo che non sia per sfruttare i deboli, rappresenta la contrapposizione tra il possibile e l’impossibile perché la liberazione di un’anima dal peccato non ha prezzo.

Torniamo all’episodio: Gesù è scritto che fa “una frusta di cordicelle”, greco originale “giunchi”, cioè quei fili lunghi e semirigidi che si utilizzano come paglia per il bestiame, e se ne serve per spingerlo fuori dal cortile. Diverso fu per i colombi, contenuti in gabbie, che non potevano scappare e per questo viene ordinato ai loro proprietari di portarle via.

La rappresentazione di Gesù che frusta adirato i presenti che fuggono spaventati quasi ad avere a che fare con un pazzo, non ha fondamento: la Sua autorità bastava e credo che la frase “Non fate la casa del Padre mio una spelonca di ladroni” abbia parlato a qualche coscienza tra i presenti, che non reagirono contro di lui nonostante vedessero svanire il loro guadagno, per non parlare degli addetti al cambio di valuta che videro il loro denaro per terra.

I discepoli che lo avevano accompagnato, non sappiamo quanti perché Giovanni non lo dice, è scritto che “Si ricordarono che sta scritto «Lo zelo per la tua casa mi divora»”, passo tratto dal Salmo 69.10, di Davide. Lo zelo divora, cioè arriva a corrodere il profondo dell’essere che rinuncia a se stesso pur di servire. I discepoli, nonostante non fossero dottori della Legge, si ricordarono spontaneamente di questo passo e lo applicarono al loro Maestro. E il verso del Salmo prosegue dicendo “gli insulti di chi ti insulta ricadono su di me”: quel mercato, allora, era un insulto a Dio così come lo è qualsiasi ritualità svuotata di contenuto. Questi furono i motivi che suscitarono le reazioni di Gesù di fronte allo scempio che si produceva nel cortile, in uno spazio ritenuto di poco conto perché dei gentili, cioè dei pagani che per Israele non contavano nulla, che potevano solo stare in un luogo in cui Dio, nonostante il recinto che lo circondava, si riteneva fosse distante e che le Sue attenzioni fossero esclusivamente per il Suo popolo.

Il passo del Salmo citato, in cui i discepoli riconobbero parlasse del loro Maestro, si raccorda con le parole dell’apostolo Paolo in Ebrei 4.12-13 che parla degli effetti della Parola di Dio sull’uomo che la lascia agire: “12Infatti la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore. 13Non vi è creatura che possa nascondersi davanti a Dio, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi di colui al quale noi dobbiamo rendere conto”.

Sono parole assolute: le sue cinque caratteristiche e azioni, – viva, efficace, più tagliente, penetra, discerne – non lasciano scampo e indicano gli elementi che producono una reazione in ciascun uomo. La Parola di Dio è viva, quindi non è qualcosa che può scadere finendo per diventare inutile come un romanzo che passa da uno scaffale a una cantina per poi venire corroso dall’umidità e mangiato dai topi. È efficace, aggettivo che viene dal latino efficere, “portare a compimento” ed infatti è l’unica che può salvare, risolvere il vero problema della destinazione finale dell’uomo. Più tagliente di ogni spada a doppio taglio, poi, è una definizione che illustra la capacità del discernimento: il bene dal male e tutto il sistema che ruota attorno ad essi. Quell’”ogni”, poi, esclude che ve ne possano essere altre in grado di compiere la sua stessa azione. Sul perché di questo abbiamo le parole successive: “Penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla” quindi svolge quell’azione che porta al discernimento e alla vagliatura di ciò che sono i sentimenti e i pensieri del cuore. È un’azione inevitabile di cui parlò Pietro quando scrisse “Siete stati rigenerati non da un seme corruttibile, ma incorruttibile, per mezzo della Parola di Dio viva e che dura in eterno” (1 Pietro 1,23). Queste parole saranno utili per comprendere ciò che Gesù dirà a Nicodemo poco tempo dopo quest’episodio quando, venuto da Lui di notte, si sentirà spiegare la nuova nascita.

Nella lettera agli Ebrei, però, Paolo parla di un finale visto nel “rendere conto” perché non vi è possibilità alcuna di nascondersi di fronte a Colui che, presto o tardi, chiederà conto a tutti, credenti compresi, di come avranno gestito loro vita. Infatti: “Anche se come l’aquila ponessi in alto il tuo nido, anche se lo collocassi sulle stelle, di lassù ti farò precipitare” (Abdeo 1.4). Per contrapposizione all’orgoglio descritto dal profeta, abbiamo la visione di Giovanni in Apocalisse 6.15-17 all’apertura (futura) del sesto sigillo: 15Allora i re della terra e i grandi, i comandanti, i ricchi e i potenti, e infine ogni uomo, schiavo o libero, si nascosero tutti nelle caverne e fra le rupi dei monti; 16e dicevano ai monti e alle rupi: «Cadete sopra di noi e nascondeteci dalla faccia di Colui che siede sul trono e dall’ira dell’Agnello, 17perché è venuto il grande giorno della loro ira, e chi può resistervi?»”, descrizione dell’inutilità della tecnologia umana.

Torniamo al nostro episodio: in tutto il trambusto conseguente all’azione di Gesù, ecco l’intervento dei Giudei, non uomini del popolo, ma dell’autorità religiosa: costoro volevano da lui delle credenziali, sapere chi fosse, quale autorità avesse per poter fare una cosa simile. Ebbero in risposta un riferimento non al Tempio come edificio, ma al Suo corpo, profetizzando così sulla Sua risurrezione senza che i presenti, compresi i discepoli, lo capissero anche se se ne ricordarono dopo, quando la loro mente fu aperta dallo Spirito Santo.

A questo punto abbiamo una grande lezione: alla domanda “Quale segno ci mostri per fare queste cose?”, che sottintendeva la richiesta di un segno di autorità, un miracolo, Gesù risponde in modo tale da non essere capito, pur esprimendo una verità. Infatti le parole “Distruggete questo tempio e in tre giorni io lo farò risorgere” non solo furono equivocate perché prese alla lettera stante il luogo in cui furono pronunciate, ma riemergeranno in modo beffardo alla croce con la stessa mancanza di comprensione: “Ehi, tu che distruggi il tempio e lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso scendendo dalla croce!” (Marco 15.29-30).

Quei “Giudei”, cioè gli autorevoli tra il popolo, non potevano certo ignorare che, secoli prima, il profeta Geremia aveva detto le stesse parole: “Forse è per voi un covo di ladri questo Tempio sul quale è invocato il mio nome?” (Geremia 7.11) ma, invece di chiedersi se le parole di Gesù fossero vere o meno, spostano il ragionamento su chi fosse per dire certe cose. Se ciò che stavano tollerando fosse cosa legittima o meno, fu una questione che non li sfiorò neppure lontanamente, così come nessun dottore della Legge si era mai sognato di intervenire per fare cessare quel commercio.

L’episodio si conclude così, ma non la permanenza di Gesù in Gerusalemme di cui Giovanni ci dà un cenno riassuntivo, che leggiamo al verso 23, a parte il colloquio avuto con Nicodemo che esamineremo nel capitolo successivo. Scrive Giovanni che il Maestro fece dei segni, dei miracoli di cui non sappiamo, ma che produssero una fede erronea. Leggiamo infatti “Ma lui non si fidava di loro”.

La perfetta conoscenza dell’essere umano che aveva Gesù gli consentiva di sapere che quel “credere in lui” era un’azione dettata dalla ragione e non dal cuore, perché a nulla serve ai fini della salvezza credere che ci sia un Essere superiore, o accettare Gesù come personaggio storico autore di miracoli, se non si è disposti a cedere se stessi, se non lo si vuole realmente trovare per venire rinnovati.

“Conosceva quello che c’è”, non quello che c’era, a conferma delle tante volte in cui i verbi sono utilizzati per esprimere un concetto che oltrepassa le regole della grammatica. Allora come oggi, Lui conosce quello che c’è nell’uomo, cioè il suo tutto, lo spirito che lo muove. Probabilmente è proprio questa fede temporanea e subito soffocata dalle spine che impedirà a Giovanni di parlare dei “segni” fatti in Gerusalemme, soffermandosi subito dopo nel dettaglio su Nicodemo, figura caratteristica di persona tormentata dai dubbi, timoroso dei suoi correligionari ma attratto dalla figura di Gesù: fariseo di alto rango, andò da Lui di notte per non farsi vedere dagli altri. Quell’uomo, a differenza dei molti che avevano creduto, era sincero, voleva sapere, capire, anche se gli ci vorrà molto tempo per compiere una scelta che lo avrebbe estromesso dalla congregazione di Israele: gli disse “Rabbi, sappiamo che sei venuto da Dio come maestro; nessuno infatti può compiere questi segni che tu fai, se Dio non è con lui” (Giovanni 3.2). Da questa frase, come vedremo, Gesù partirà per l’esposizione del concetto e della realtà che implica la nuova nascita.

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