6.01 – Il centurione di Capernaum (Luca 7.1-10)
“Quando ebbe terminato di rivolgere tutte le sue parole al popolo che stava in ascolto, Gesù entrò in Cafàrnao. 2Il servo di un centurione era ammalato e stava per morire. Il centurione l’aveva molto caro. 3Perciò, avendo udito parlare di Gesù, gli mandò alcuni anziani dei Giudei a pregarlo di venire e di salvare il suo servo. 4Costoro, giunti da Gesù, lo supplicavano con insistenza: «Egli merita che tu gli conceda quello che chiede – dicevano -, 5perché ama il nostro popolo ed è stato lui a costruirci la sinagoga». 6Gesù si incamminò con loro. Non era ormai molto distante dalla casa, quando il centurione mandò alcuni amici a dirgli: «Signore, non disturbarti! Io non sono degno che tu entri sotto il mio tetto; 7per questo io stesso non mi sono ritenuto degno di venire da te; ma di’ una parola e il mio servo sarà guarito. 8Anch’io infatti sono nella condizione di subalterno e ho dei soldati sotto di me e dico a uno: «Va’!», ed egli va; e a un altro: «Vieni!», ed egli viene; e al mio servo: «Fa’ questo!», ed egli lo fa». 9All’udire questo, Gesù lo ammirò e, volgendosi alla folla che lo seguiva, disse: «Io vi dico che neanche in Israele ho trovato una fede così grande!». 10E gli inviati, quando tornarono a casa, trovarono il servo guarito.”.
Narrato da Matteo e da Luca, è un miracolo particolare perché è il primo in cui a beneficiare dell’intervento di Gesù è un pagano, per quanto, come vedremo, molto vicino all’identità religiosa di Israele. Per analizzare l’episodio occorre tenere presente più fattori: l’operato di Gesù fino a quel punto, chi fosse il centurione, il suo carattere, la sua posizione spirituale e, infine, perché la sua richiesta fu esaudita.
Capernaum fu, come sappiamo, la città in cui Gesù fissò la propria residenza per un certo tempo e in cui operò miracoli non quantificabili per quantità. Sappiamo che nella Sinagoga guarì un indemoniato (Luca 4.31-37), un paralitico calato dal tetto perché raggiungerLo sarebbe stato altrimenti impossibile (Marco 2.1-12), la suocera di Pietro e l’uomo dalla mano rattrappita (Marco 3.1-11), ma non ci vengono riportati tutti gli altri, racchiusi nella frase “…gli presentarono tutti i malati, colpiti da varie infermità e dolori, indemoniati, epilettici e paralitici, ed egli li guarì” (Matteo 4.24). Luca ci dice che “La sua fama si diffondeva in ogni luogo della regione all’intorno” (4.37) e che “le folle lo cercavano e lo raggiunsero e lo trattenevano perché non andasse via da loro” (4.42).
Ora a Capernaum c’era un centurione romano, appartenente a una legione imperiale le cui coorti erano stanziate in varie zone della Galilea di cui Erode Antipa era il tetrarca. Erode aveva un suo esercito, composto da Galilei, che però a quel tempo era dislocato sulle frontiere di Edom, pronto a entrare in guerra col di lui suocero Areta. Per ricordare ad Antipa che, nonostante la sua alta carica, dipendeva comunque da Roma, il proconsole di Siria aveva inviato truppe romane con la funzione di mantenere l’ordine pubblico. Il centurione era il comandante dell’unità di base dell’esercito, la centuria, formata da 80 – 100 uomini. Polibio, per quanto vissuto circa 150 anni prima, scrive “I centurioni devono essere non tanto uomini audaci e sprezzanti del pericolo, quanto invece in grado di comandare, tenaci e calmi, che inoltre non muovano all’attacco quando la situazione è incerta, né si gettino nel pieno della battaglia, ma al contrario sappiano resistere anche se incalzati e vinti, e siano pronti a morire sul campo di battaglia”. Spesso il centurione era un aristocratico, solitamente giovane perché si trovava al primo grado della carriera militare, ma questa posizione sociale non lo favoriva in caso di guerra, poiché era sempre posto in prima linea per infondere coraggio ed esempio ai suoi soldati.
Ora il centurione del nostro episodio viveva a Capernaum da tempo, quello necessario per guardarsi attorno e capire la popolazione con cui aveva a che fare: gente difficile, ostile, che lo guardava, per lo meno all’inizio, con disprezzo perché rappresentante di un governo straniero. Il fatto che leggiamo al “…ama il nostro popolo ed è stato lui a costruirci la sinagoga”, oltre ad altri particolari che vedremo, ci dice che, poco a poco, quell’uomo iniziò ad interessarsi e ad interagire con l’ebraismo, pur non convertendosi ad esso. Da come si esprimerà con Gesù, possiamo dedurre che il far costruire la sinagoga di Capernaum, fornendo evidentemente le risorse economiche e le maestranze, non fu un atto calcolato per ingraziarsi gli abitanti, ma un’azione proveniente dal cuore, toccato dalla profonda diversità del monoteismo giudaico rispetto alle credenze del paganesimo.
Ebbene quel centurione, abituato a comandare e a gestire l’autorità del suo grado, aveva un servo col quale intercorreva un rapporto particolare. Luca annota che quel servo “gli era molto caro”, segno che doveva appartenere alla casa del centurione dalla nascita perché proprio quelli venivano trattati con affetto e indulgenza. Spesso, poi, gli schiavi nati in casa finivano per diventare compagni di gioco dei figli dei padroni e nascevano amicizie che duravano tutta la vita cosicché, una volta cresciuti, il padrone finiva per trattare lo schiavo come un suo eguale. Pare difficile leggere diversamente il rapporto tra questi due uomini soprattutto considerando che un centurione, uomo di guerra in prima fila, era chiamato e abituato a gestire i suoi sentimenti anteponendo autorità e comando.
Leggiamo che il centurione aveva “udito parlare di Gesù”, supponiamo nei dettagli visto che era il responsabile dell’ordine pubblico di quella città: non solo era a conoscenza dei miracoli che Nostro Signore aveva fatto, ma anche il contenuto della sua predicazione che pensiamo approvasse, come emerge dai dettagli di Luca. Matteo scrive che andò di persona, Luca che gli inviò degli anziani del popolo: il primo evangelista pone l’accento sulle sue parole, identificando gli inviati come espressione diretta del mittente, il secondo sul fatto che quegli anziani presero a cuore il problema di quell’uomo conoscendolo come “giusto”e vicino a loro.
Vediamo ora il contenuto della richiesta: per prima cosa, il centurione espone il suo caso: “Signore, il mio servo è in casa, a letto, paralizzato e soffre terribilmente” (Matteo 8.6), parole che escludono una semplice richiesta di guarire una persona che, in quanto malata, procurava un disagio perché non in grado di svolgere il proprio compito. Quel “soffre terribilmente” esprime tutta la preoccupazione e l’immedesimazione verso il servo con parole essenziali come diretto ed essenziale era il carattere di quell’uomo.
C’è un dato molto importante in proposito: abbiamo una richiesta, ma che si limita a presentare una situazione, “soffre terribilmente”, cioè manca l’ordine di una convocazione forzata che, per la posizione che il centurione aveva, avrebbe sempre potuto ordinare inviando dei soldati al posto degli anziani. Tra le righe, quindi, ancora una volta leggiamo “se tu vuoi, puoi” e non “vieni qui e fai quello che ti ordino”. L’anonimo centurione sa di rivolgersi non a un medico, che si chiama quando si ha bisogno perché quello è il suo lavoro, ma a un inviato di Dio e al Figlio di Dio stesso nel quale evidentemente credeva, come rileviamo dalle parole che gli disse tramite alcuni amici che gli mandò mentre Gesù si stava incamminando verso la sua abitazione: “Signore, non disturbarti! Io non sono degno che tu entri sotto il mio tetto; per questo io non mi sono ritenuto degno di venire da te, ma di’ soltanto una parola e il mio servo sarà guarito”.
La prima parte, “non sono degno”, è simile a quanto disse Giacobbe in preghiera in Genesi 32.10 “Io sono indegno di tutta la bontà e di tutta la fedeltà che hai usato verso il tuo servo”, o di Isaia 6.5 quando, alla visione di Dio e dei suoi Angeli, disse “Ohimè, io sono perduto, perché sono un uomo dalle labbra impure e in mezzo a un popolo dalle labbra impure io abito” oppure, per gli scritti del Nuovo Patto, a quelle di Giovanni Battista che, parlando di Colui che sarebbe arrivato dopo, disse “Io non sono degno neppure di slegare il laccio del sandalo” (Giovanni 1.27). Ricordiamo anche Pietro, quando disse a Gesù “Signore, tu lavi i piedi a me?”. Sono espressioni che denotano la coscienza di quanto sia distante la persona che le pronuncia dalla santità di Dio, indegna di ricevere le sue attenzioni, al quale comunque si rivolge sperando, conscio del fatto che possa provvedere.
Il centurione, inoltre, dimostra di conoscere non solo la potenza di Gesù cui sarebbe bastato dire “una parola” perché il suo servo guarisse, ma di collocarlo in un ambito preciso; ricordiamo il Salmo 33.8,9 “Tema il signore tutta la terra, tremino davanti a lui gli abitanti del mondo. Perché egli parlò, e tutto fu creato. Comandò, e tutto fu compiuto”. Alla potenza di Gesù, il centurione riconosce anche il suo potere liberatorio: “Nell’angustia gridarono al Signore, ed egli li salvò dalle loro angosce. (…) Mandò la sua parola, li fece guarire e li salvò dalla fossa” (Salmo 107.13 e v.20). Quel centurione non si riteneva “degno”, sapeva di non essere una pecora“perduta della casa di Israele”, ma, come la donna cananea più avanti, era consapevole di essere una creatura, di avere un’anima che il Signore cercava, in un certo senso ricambiato. Gli riconosceva anche il potere sugli elementi, conscio della distanza tra umano e spirituale che li divideva, come dice al verso ottavo, “anch’io sono un subalterno”, cioè nonostante l’autorità che il Governo di Roma gli aveva dato e il fatto che potesse disporre delle persone, a sua volta era sottoposto ad altri e comunque nulla poteva di fronte a una malattia, cosa che non era per Gesù. Il discorso del centurione in questo verso è militare: se lui era al tempo stesso un’autorità ed era a sua volta sottoposto ad altri, così Gesù avrebbe potuto dire alla morte e alla malattia “Va’”, e questa si sarebbe allontanata dal suo servo. La conoscenza di quel centurione certo era imperfetta, ma aveva capito le cose essenziali che lo portarono non solo all’esaudimento della preghiera, ma a un riconoscimento pubblico: “All’udire questo, Gesù lo ammirò”. Perché Dio ascolti, non è bisogno quindi essere dei “grandi uomini”, dei perfetti, degli asceti, dei santi irraggiungibili cui solo a loro è permesso chiedere, ma delle persone normali, che riconoscono in Cristo il risolutore, Colui che può, a cui appartiene quell’ “oltre” per noi irraggiungibile.
Avrà saputo quel centurione della guarigione del figlio dell’ufficiale reale, avvenuta in Cana di Galilea? Forse, ma in ogni caso dimostra di aver compreso che la volontà di Cristo andava al di là del fatto che fosse presente o meno nella casa. Come noi, che siamo testimoni della sua grazia e del suo amore senza averlo visto, ma con la consapevolezza che è con noi tutti i giorni, fino alla fine. Amen.
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