5.03 – LE BEATITUDINI 2: QUELLI CHE SONO NEL PIANTO (Matteo 5.3-10)

5.3 – Il sermone sul monte : le beatitudini II (Matteo 5.3-10)

3«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. 4Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati.5Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. 6Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. 7Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. 8Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. 9Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. 10Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli”.

Prima di esaminare la seconda beatitudine occorre una brevissima premessa: stiamo leggendo un testo che riporta le parole di Gesù che, in quel momento, sta parlando a tre categorie di persone: coloro che erano venuti per ascoltarlo e farsi guarire, in gran parte israeliti, i discepoli, in numero ben maggiore rispetto ai dodici che conosciamo, e sicuramente qualche pagano, probabilmente rientrante in quei tanti provenienti dal “litorale di Tiro e Sidone” ebrei e pagani. Ricordiamo le parole di Luca già citate la volta scorsa: “C’era una gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e Sidone che erano venuti per ascoltarlo ed essere guariti dalle loro malattie” (Luca 6.17,18).

Il sermone sul monte ha quindi una doppia possibilità di lettura: una per i presenti e l’altra per tutti coloro che sarebbero venuti dopo di loro e avrebbero preso costruttivamente atto delle Sue parole, quelli di cui parlò Gesù a Tommaso e agli altri quando disse “Tu hai creduto perché hai visto; beati quelli che, pur non avendo visto, crederanno” (Giovanni 20.28).

Pensiamo a chi era su quel monte: si trovava lì dopo aver faticato, percorso molti chilometri perché bisognoso di soddisfare chi la propria sete di parole di vita, chi la propria curiosità, chi perché confidava nel fatto di venire guarito, ma avendo una base culturale diversa dalla nostra che si basava sull’ascolto della Legge e dei Profeti commentati nella sinagoga. Dichiarando la prima beatitudine ai “Poveri in spirito perché di essi è il Regno dei cieli”, Gesù fece una prima distinzione tra coloro che si ritenevano già “ricchi”, e quindi non avevano bisogno di Lui, e i “poveri”, che avrebbero ottenuto la cittadinanza in un regno a loro riservato. Certamente con quella prima frase fu compreso immediatamente, mentre noi abbiamo bisogno di riflettere di più prima di capire, stante le molte interferenze che abbiamo dal nostro tempo, con le sue consuetudini, che inevitabilmente ci condiziona.

BEATI QUELLI CHE SONO NEL PIANTO

Ecco, questa è una traduzione che, se applicata a un testo normale sarebbe accettabile, ma non lo è altrettanto in quello di Matteo perché ci indirizza immediatamente a una manifestazione specifica del dolore, diversa da persona a persona, che più propriamente altri hanno tradotto con “gli afflitti”, o “coloro che sono nell’afflizione” o “che fanno cordoglio”. Per gli israeliti l’afflizione poteva essere certamente individuale, ma c’era un forte senso collettivo come popolo che attendeva il Messia, certo con aspettative diverse da come lui si sarebbe rivelato. Eppure non tutti attendevano un re potente, ma un consolatore. Vediamo ancora il passo di Isaia 61.1-3 che abbiamo citato la volta scorsa: “Lo Spirito del Signore è sopra di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione per recare una buona novella– ecco il Vangelo – agli umili, mi ha inviato a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà agli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l’anno di grazia del Signore, il giorno di vendetta del nostro Dio, per consolare tutti gli afflitti, per dare agli afflitti di Sion una corona invece della cenere, olio di letizia invece di abito da lutto, veste di lode invece di uno spirito mesto”.

Ecco allora la beatitudine: era arrivato il consolatore e anche qui, per accoglierlo e realizzarla, era necessario riconoscere Colui che  era stato consacrato con l’unzione per annunciare il vangelo destinato, riservato agli umili, cioè tutti coloro che avrebbero riconosciuto la propria inferiorità “naturale” espressa nelle parole del Salmo ottavo “Quando io considero i tuoi cieli, opera delle tue dita; la luna e le stelle che tu hai disposte; che cos’è l’uomo, che tu ne abbia memoria? E il figlio dell’uomo, che tu ne prenda cura?”. Ricordiamo che il cielo che vedeva il salmista non era inquinato come oggi, per cui appariva in tutta la sua vastità. Vediamo, sempre nel verso di Isaia, il “fasciare le piaghe dei cuori spezzati”, di cui troviamo traccia nella parabola detta del “buon samaritano” in Luca 10. 25-37 che “Vide – l’uomo mal ridotto dai suoi assalitori, i briganti figura del peccato nelle sue multiformi oppressioni – e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite versandovi olio e vino, poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in albergo e si prese cura di lui”. “Vide” come tutti gli altri che passarono, il sacerdote e il levita, ma al contrario di loro “ne ebbe compassione”, attivandosi perché guarisse. Il Consolatore avrebbe proclamato la libertà agli schiavi, cioè a chi non era considerato nemmeno una persona, e la “scarcerazione” ai prigionieri, termine che può essere tradotto anche con “luce” perché chi era carcerato stava in grotte buie e malsane nella quale la luce non entrava mai. Ricordiamo la prima prigione menzionata dalla Bibbia in Genesi 37.23,24: “Quando Giuseppe fu arrivato presso i suoi fratelli, essi lo spogliarono della sua tunica, quella tunica con maniche lunghe che egli indossava, lo afferrarono e lo gettarono nella cisterna: era una cisterna vuota, senz’acqua”.

“Gli “afflitti di Sion”, coloro che aspettavano consci della loro condizione di schiavitù e per questo portavano la cenere sul capo in segno di penitenza e dolore, avrebbero ricevuto una corona, olio di letizia al posto dell’abito da lutto, cioè una sorta di sacco composto da pelli di capra e cammello, e veste di lode al posto di uno spirito mesto. Tutto questo stava per realizzarsi: beato chi si trovava in questa condizione perché la sua consolazione era giunta.

Possiamo dire che all’umile, al mansueto, all’afflitto e al povero di spirito non interessava avere un re potente che rovesciasse una situazione politica, ma la stabilità e la libertà interiore, ricevere la “buona notizia” che solo l’Emanuele “Dio con noi” poteva dare; quei miracoli che la folla aveva visto erano solo una pallida anticipazione di quello che sarebbe venuto dopo, con il possesso di un Regno che sarebbe stato “dei cieli” e non “della terra” il cui principato è lasciato a Satana. Un altro regno per gente diversa, che sa e si trova mancante nel proprio intimo, che ha bisogno non di un dio, ma di Dio e lo aspetta pronta a riconoscerlo.

Saranno consolati” è poi un termine ampio. C’è la consolazione che si prova nel momento in cui avviene l’incontro con Dio e l’accettazione di appartenergli come figlio, e c’è quella quotidiana, continua, perché nonostante una parte del cristianesimo voglia vedere il credente come perennemente guidato dallo Spirito e quindi in una condizione di continua letizia vista nell’espressione “pace nel cuore”, in realtà è soggetto come tutti gli altri uomini al dolore fisico e morale, al quale si aggiunge quello spirituale, in particolare al conflitto tra la propria natura sempre disposta a cedere alle tentazioni che variano a seconda della propria personalità, e all’astenersene.

Va sottolineato che, se il cammino cristiano fosse semplice, non sarebbe paragonato all’opposto di quella via “larga e spaziosa” che conduce alla perdizione. Ecco perché del Consolatore abbiamo bisogno sempre! Ciascuno di noi si scontra con la propria fragilità e il constatare quanto sia esteso il divario tra ciò che siamo e ciò che vorremmo-dovremmo essere, alla luce della perfezione che ci è richiesta, può a volte essere frustrante. È una perfezione ideale vista nella frase che Gesù dirà proprio in questo discorso sul monte: “Siate dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (v.48). Un cammino verso la perfezione è l’attivazione delle nostre forze per tendere ad essa, il curare noi stessi sapendo che non siamo lasciati soli perché, appunto, c’è un Consolatore che veglia su di noi.

Ecco allora che iniziamo a delineare la figura dell’afflitto del nostro tempo, che poi è quello di tutti coloro che sono vissuti prima di noi da quando lo Spirito Santo è stato dato ai membri della Chiesa di Gerusalemme, destinati ad incontrare ostacoli spirituali di ogni tipo proprio a causa della loro natura umana: “Siate sobri, vegliate. Il vostro nemico, il diavolo, come un leone ruggente va in giro cercando chi divorare. Resistetegli saldi nella fede, sapendo che le medesime sofferenze sono imposte ai vostri fratelli sparsi per il mondo” (1 Pietro 5.8,9).

Attenzione però a vedere queste parole e a vivere il concetto dell’afflitto con fatalità filosofica, guardando a questa condizione come se fosse stabile, perché Pietro continua dicendo “E il Dio di ogni grazia, il quale vi ha chiamati alla sua gloria eterna in Cristo Gesù, egli stesso, dopo che avrete un poco sofferto, vi ristabilirà, vi confermerà, vi rafforzerà, vi darà solide fondamenta” (v.10). È un ricordo, un’esortazione a vivere tenendo presente la prospettiva che ogni cristiano dovrebbe conoscere. E qui ci troviamo di fronte alla vera consolazione, così diversa dal conforto che un uomo può dare al proprio simile, momentaneo: quando finisce lascia la persona nella stessa condizione di prima. “Consolare” implica eliminare radicalmente il problema che causa l’afflizione, un cambiamento di stato, non ci può essere cristiano che non testimoni questa azione di Gesù Cristo nella propria vita, di questa sua opera continua nonostante i propri sbagli, il suo cammino a volte incerto.

Se Gesù si indirizza all’afflitto, significa che c’è chi non lo è, o meglio affronta il dolore in modo sbagliato escludendo Lui che desidera chinarsi per soccorrere (vedi la suocera di Pietro) e lo fa, nel caso del sermone sul monte, proprio dopo aver guarito e liberato persone da infermità e malattie sottolineando che, al ristabilimento del corpo a lungo desiderato, avrebbe fatto seguito quello dell’anima.

Ci chiediamo: di fronte a un dolore, si può solo aspettare che passi? Ci si può solo rassegnare, rinchiudere in uno stoicismo assoluto che indurisce? È una possibilità, un’alternativa che però non porta da nessuna parte perché esclude Cristo dalla nostra vita, quando questo è un mezzo per arrivare a lui o provare il suo sostegno lungo il cammino.

Ricordo le parole di un fratello a proposito di un bambino appena nato: “conoscerà il dolore e si chiederà perché”. Ecco, il perché è nella vita stessa nel senso che occorre accettarlo, non rifiutarlo come se non ci appartenesse. Va accolto, vissuto e posseduto ma, se questo lo faremo da soli, ci tormenterà senza uno scopo, non risolverà in consolazione, ma finirà eventualmente in un archivio disturbante, pronto ad emergere nei momenti più impensati; se sarà un mezzo per arrivare a Cristo, ecco che questo avrà una consolazione, l’unica possibile perché ciò che attende l’afflitto non è un incontro con un generico essere superiore che nella sua magnanimità assoluta risponderà a una preghiera, ma prima di tutto con la Parola fatta carne che, in quanto uomo, ha patito al di là del sopportabile conoscendo fatica e sofferenza in modo perfetto e totale. Ricordiamo quello che scrive l’autore della lettera agli Ebrei: “Perciò doveva rendersi in tutto simile ai fratelli, per diventare un Sommo Sacerdote misericordioso e degno di fede nelle cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo. Infatti, proprio per essere stato messo alla prova e avere sofferto personalmente, egli è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova” (2.17,18).

Gesù Cristo è quindi “in grado” prima di tutto non perché è onnipotente, ma per essere stato “messo alla prova e avere sofferto personalmente”. Lui tutt’uno col Padre, Unico, perfetto e totale intercessore che abbiamo, benedetto in eterno. Amen.

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