7.03 – Le parabole del regno 2 (Il seminatore, Matteo 13.3-23)
“3Egli parlò loro di molte cose con parabole. E disse: «Ecco, il seminatore uscì a seminare. 4Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono. 5Un’altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c’era molta terra; germogliò subito, perché il terreno non era profondo, 6ma quando spuntò il sole, fu bruciata e, non avendo radici, seccò. 7Un’altra parte cadde sui rovi, e i rovi crebbero e la soffocarono. 8Un’altra parte cadde sul terreno buono e diede frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno. 9Chi ha orecchi, ascolti». 0Gli si avvicinarono allora i discepoli e gli dissero: «Perché a loro parli con parabole?». 11Egli rispose loro: «Perché a voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato. 12Infatti a colui che ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a colui che non ha, sarà tolto anche quello che ha. 13Per questo a loro parlo con parabole: perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono. 14Così si compie per loro la profezia di Isaia che dice: Udrete, sì, ma non comprenderete, guarderete, sì, ma non vedrete. 15Perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile, sono diventati duri di orecchi e hanno chiuso gli occhi, perché non vedano con gli occhi, non ascoltino con gli orecchi e non comprendano con il cuore e non si convertano e io li guarisca! 16Beati invece i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano. 17In verità io vi dico: molti profeti e molti giusti hanno desiderato vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono! 18Voi dunque ascoltate la parabola del seminatore. 19Ogni volta che uno ascolta la parola del Regno e non la comprende, viene il Maligno e ruba ciò che è stato seminato nel suo cuore: questo è il seme seminato lungo la strada. 20Quello che è stato seminato sul terreno sassoso è colui che ascolta la Parola e l’accoglie subito con gioia, 21ma non ha in sé radici ed è incostante, sicché, appena giunge una tribolazione o una persecuzione a causa della Parola, egli subito viene meno. 22Quello seminato tra i rovi è colui che ascolta la Parola, ma la preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza soffocano la Parola ed essa non dà frutto. 23Quello seminato sul terreno buono è colui che ascolta la Parola e la comprende; questi dà frutto e produce il cento, il sessanta, il trenta per uno».”
Leggendo questa parabola tendiamo a focalizzare la nostra attenzione, come è giusto che sia e come era nelle intenzioni di Gesù, sui quattro terreni che ricevono il seme della parola oltre che sulla spiegazione che dà di loro. La figura del seminatore la diamo per scontata e non facciamo caso all’articolo che ci mette in guardia fin da subito perché, se leggere “Un seminatore uscì a seminare”ci lascerebbe pensare all’inizio di un racconto o a una favola, “Il seminatore” ci pone nelle condizioni di chiederci chi sia questa persona, essendo un articolo determinativo. “Un seminatore” potrebbe essere tanto un incaricato della semina, quindi un lavorante, quanto il proprietario del terreno, ma “Il seminatore” è impossibile da confondere, è un individuo che “esce” dalla propria casa per compiere un’azione destinata a rendergli un guadagno nel futuro, un raccolto. Il seminatore è un professionista, non si mette a lavorare se non è il mese adatto per farlo, ha deciso in anticipo il giorno e l’ora per la semina per un raccolto che, a livello di collettività, avverrà in un tempo conosciuto solo dal Padre. Ricordiamoci che anche per la venuta del Figlio di Dio nel mondo e per tutto il Suo ministero c’è sempre stato un giorno e un’ora e tutto quanto da Lui compiuto, sempre, ha avuto un motivo visto nel raccolto finale. Il verbo “uscire”, poi, ci parla anche della profezia su Betlehem di Efrata, “così piccola per essere tra i capoluoghi di Giuda, da te mi uscirà colui che deve essere il dominatore in Israele; le sue origini sono dall’antichità, dai giorni remoti” (Michea 5.1). Gesù stesso, nella notte in cui fu tradito, disse “Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; ora lascio di nuovo il mondo e vado al Padre” (Giovanni 16.28).
Vediamo il primo terreno su cui cade il seme, la strada: quelle di allora erano in terra battuta, dura, arsa dal sole, se un seme vi cadeva sopra rimbalzava e stava lì, senza alcuna possibilità di sviluppo. Quella terra serviva ad altro, nessuno la lavorava perché altrimenti persone, animali o carri non avrebbero potuto passarvi sopra. A volte le strade non si costruivano neppure, ma erano il risultato del continuo passare di gente e carri che avevano così indurito la terra. Così è per l’uomo, che di fronte alle ingiustizie della vita, al dolore e all’incomprensione altrui si fa l’idea che la gente che popola il mondo sia divisa in due categorie, chi subisce e chi fa subire e sceglie di essere dalla parte di chi s’impone con metodi spesso non leciti, o risponde come meglio può, difendendosi ad oltranza e finendo per essere vittima di se stesso anziché degli altri. Abituato a reagire sempre e comunque per difendere il proprio territorio fisico o morale, non vede altro al di fuori delle proprie esigenze, della realtà che si è costruito a fatica.
Esempi in proposito nella Scrittura ne troviamo tanti, come i sommi sacerdoti Anna e Caiafa (o Caifa) e coloro che combatterono Gesù: pensiamo a quelli che, dopo aver ascoltato il discorso dell’apostolo Paolo nell’Areopago di Atene, “appena sentirono parlare della resurrezione dei morti, cominciarono a deridere Paolo. Altri invece gli dissero «Su questo punto ti sentiremo un’altra volta»” (Atti 17.32). Ricordando poi sempre la sua testimonianza a Festo, Agrippa e Felice, leggiamo “Mentre parlava così per difendersi– portando il Vangelo e non giustificandosi – il governatore Festo disse ad alta voce «Tu sei pazzo, Paolo! Hai studiato troppo e sei diventato matto!(…) Agrippa allora rispose a Polo: «Ancora un po’ e tu mi convincerai a farmi cristiano». Ma Paolo rispose «Io non sono pazzo, eccellentissimo Festo, sto dicendo cose vere e ragionevoli.” Quando poi l’apostolo cominciò a parlare del giusto modo di vivere, del dominare gli istinti e del giudizio futuro di Dio, Felice si spaventò e disse «Basta, per ora puoi andare. Ti farò chiamare quando avrò tempo». Intanto sperava di poter ricevere da Paolo un po’ di soldi, per questo lo faceva chiamare abbastanza spesso e parlava con lui” (Atti 24.25).
“Un’altra volta” e “Quando avrò tempo”, frasi che denotano quanto sia distante, da chi appartiene al terreno indurito della strada, la comprensione del fatto che la vita non ci appartiene perché può finire da un momento all’altro senza che possiamo far nulla per impedirlo, la mancata acquisizione del principio del pericolo e del giudizio: se nessuno in balia dell’acqua profonda e agitata rifiuta un salvagente, l’idea, il concetto del Dio che vuole salvare dalla perdizione eterna è disprezzato, sottovalutato, ritenuto procrastinabile.
Il secondo terreno è quello che ha pietre e poca terra: qui, a differenza del primo, il seme germoglia, ma non essendo la terra sufficientemente profonda, la piantina viene bruciata dal sole, che altrimenti le avrebbe dato vita. Possiamo vedere in questo ambito anche la figura di Giuda Iscariotha, che percorse al pari degli altri le strade della Galilea e della Giudea patendo la sete e il caldo, vivendo di poco (ma rubando dalla cassa comune) e che alla fine tradì il suo Maestro coscientemente per trenta sicli d’argento, il prezzo di uno schiavo. Pensiamo anche al “giovane ricco” di cui parla Matteo 19.16-22: “Un tale si avvicinò a Gesù e gli disse: «Maestro, che devo fare di buono per avere la vita eterna?». Gesù gli rispose: «Perché m’interroghi intorno a ciò che è buono? Uno solo è il buono. Ma se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti». «Quali?» gli chiese. E Gesù rispose: «Questi: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso.Onora tuo padre e tua madre, e ama il tuo prossimo come te stesso». E il giovane a lui: «Tutte queste cose le ho osservate; che mi manca ancora?» Gesù gli disse: «Se vuoi essere perfetto, va’, vendi ciò che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro nei cieli; poi, vieni e seguimi». Ma il giovane, udita questa parola, se ne andò rattristato, perché aveva molti beni”.
Altro esempio lo troviamo in Dema, compagno d’opera di Paolo che, a un certo punto, preferì tornare ad occuparsi di filosofia anziché proseguire l’evangelizzazione con lui. I termini con cui l’apostolo si esprime, cioè “Dema mi ha lasciato, avendo amato il mondo presente, e se ne è andato a Tessalonica” (2 Timoteo 4.10,11), ci lasciano pensare che il suo abbandono non sia stato dovuto al fatto che la vita apostolica fosse divenuta pesante e volesse riposarsi, ma una scelta: amò “il mondo presente” e non quello futuro. Ancora, l’opera del sole ci richiama Osea 6.4: “Il vostro amore è come una nube del mattino, come la rugiada che all’alba svanisce”.
Il terzo terreno cade in mezzo alle spine, cioè ai rovi. O meglio, alle piantine di rovo che crescono più velocemente di lui. All’inizio la loro ombra, l’umidità che si cela tra essi crea un ambiente favorevole al germogliare della piantina, la fa crescere, ma poi finisce per soffocarla. Un fratello identificava qui il popolo di Israele al quale Gesù parlava che, in un’altra parabola, quella degli invitati al “gran convito”, è descritto in modo più preciso: «Ma uno dopo l’altro gli invitati cominciarono a scusarsi. Uno disse: Ho comprato un terreno e devo assolutamente venderlo; ti prego di scusarmi-appellandosi alla norma della Legge -. Un altro disse: Ho comprato cinque paia di buoi e sto andando a provarli. Ti prego di scusarmi-anche questo si appella alla tradizione-. Un terzo invitato gli disse: Mi sono sposato da poco e perciò non posso venire-ricordiamo che la Legge esentava per un anno da un impegno attivo, come ad esempio la guerra, colui che aveva preso moglie-» (Lc 14.18). La variante vista in Mt 22.3 aggiunge «Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati, ma quelli non vollero venire».
Precisando meglio il concetto: gli invitati non erano degli sconosciuti, ma persone che avevano un rapporto con il re che aveva organizzato un banchetto per le nozze del proprio figlio. Tutta la tradizione religiosa millenaria, gli studi dei rabbini, i riti e i sacrifici altro non avevano prodotto se non un rifiuto all’invito di quel “Re” che onoravano a parole, ma non con i fatti.
Certo, questo terreno comprende anche un raggio più vasto, quello di chi viene soffocato da ciò che lo circonda e al quale o attribuisce un valore, o non risponde con fede, che poi è la certezza assoluta dell’aiuto e del soccorso da parte di Dio, della protezione nella vita a prescindere. Questo terreno è quello che mi ha impegnato di più perché mi sono chiesto che colpa abbia, figurativamente parlando, quella piantina se il seme non è caduto nella buona terra. Ebbene, se il rovo è la figura delle “preoccupazioni del mondo”, della “seduzione della ricchezza”, sicuramente questa tenta e crea difficoltà anche a quei credenti che rientrano nel terreno buono, perché altrimenti crescerebbero senza fatica e non avrebbero alcun premio; la differenza è che gli uni se ne lasciano dominare, gli altri non consentono che queste interferiscano nella loro vita spirituale, pur soffrendo perché nel mondo sono comunque. Ecco perché è fondamentale avere ogni giorno cura del nostro uomo interiore, “che si rinnova continuamente ad immagine di chi lo ha creato”. Ricordiamo il dettaglio “Non ha radice in sé ed è incostante”.
C’è poi il quarto terreno, quello definito “buono”, di cui il seminatore si è preso cura prima di operare. Anche questo passaggio non è semplice da spiegare se ci si pongono delle domande “scomode”, perché anche qui la pianta che cresce, apparentemente, lo fa senza sforzo. Chi rientra in questo terreno sono quelli come Natanaele, Lidia, il carceriere di Filippi, Onesiforo, Timoteo, Gaio e tutti quelli che, un tempo peccatori, accettarono di diventare parte attiva nel progetto di Dio per loro prima, e per gli altri uomini poi. Di Natanaele – Bartolomeo abbiamo già trattato, ma ricordiamo Atti 16.14,15: “Ad ascoltare c’era anche una donna di nome Lidia, commerciante di porpora, della città di Tiàtira, una credente in Dio, e il Signore le aprì il cuore per aderire alle parole di Paolo”. E fu battezzata assieme alla sua famiglia.
Al versi da 31 a 34 abbiamo il carceriere: “…poi li condusse fuori e disse «Signori, che cosa devo fare per essere salvato?» Risposero: «Credi nel Signore Gesù e sarai salvato tu e la tua famiglia». E proclamarono la parola del Signore a lui e a tutti quelli della sua casa. Egli li prese con sé a quell’ora della notte, ne lavò le piaghe e subito fu battezzato lui con tutti i suoi; poi li fece salire in casa, apparecchiò la tavola e fu pieno di gioia insieme a tutti i suoi per avere creduto in Dio”. Si potrebbe obiettare che anche costoro avrebbero potuto rientrare nella categoria del terzo terreno, perché non sappiamo come continuò la loro vita, ma il fatto stesso che siano citati come esempio è eloquente e di certo la loro esperienza sarà stata duratura, “fino alla fine”.
C’è però un’applicazione collaterale di questa parabola e cioè che le quattro categorie dei terreni, pur nella loro classificazione ufficiale, non sono rigidamente stagni nel senso che, nella vita umana anche di coloro che crescono nel quarto, possono capitare momenti di cedimento in cui può succedere che si venga temporaneamente sopraffatti dall’arsura, dalle sollecitudini, dalle preoccupazioni della vita materiale, ma non si verifica mai la scelta definitiva di lasciarsi coinvolgere da esse fino in fondo e ribellarsi abbandonando il Signore. La crescita può rallentarsi, si può soffrire e ci si può anche ammalare, ma non capitolare perché sempre e comunque siamo figli del Dio che ha salvato. Per questo motivo credo che Gesù abbia esposto una parabola che cita solo Marco: “Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è matura, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura” (4.26,29). Ed è doveroso, a conclusione di queste brevi riflessioni, sottolineare che Luca, in 8.15, ci dà un particolare che denota fatica: “Quello sul terreno buono sono coloro che, dopo aver ascoltato la Parola con cuore integro e buono, la custodiscono e producono frutto con perseveranza” (ma c’è chi traduce “con sofferenza”). Ci sarà quindi chi verrà chiamato a rispondere del mancato invito al Vangelo, e chi concluderà una vita di testimonianza, ottenendone il premio.
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