05.38 – Padre nostro VIII (Matteo 6.13)
“…13e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male. Perché tuo è il regno, la potenza e la gloria nei secoli. Amen.”
Come già preannunciato in un altro incontro, la parte finale del verso 13 non compare in tutte le traduzioni ed è ritenuta da molti un inserto, per così dire, rituale o “liturgico”. Credo però che così facendo si snaturi in parte il senso di questa preghiera perché qui si dichiara la ragione, il perché le richieste precedenti vengano rivolte al Padre: a Lui e a nessun altro appartengono i tre elementi, il regno, la potenzae la gloria nei secolicitati da Gesù. La prima parola da considerare è infatti il “perché”, traducibile con “poiché”, “siccome”, “in quanto”, concetto che ci richiama all’unicità del Padre che ascolta e provvede al quale vanno indirizzate le nostre preghiere. La conclusione del “Padre nostro” è allora una dossologia importante perché costituisce una confessione di appartenenza, è la parte finale di un Credo che trova nell’ “Amen” finale, suo quarto elemento, la nostra firma.
Abbiamo cercato di esaminare il concetto di “Regno” quando abbiamo affrontato le parole “Venga il tuo Regno”, ma il questo concetto è immenso per significati e applicazioni: come parlare del regno di Dio, come presentarlo, definirlo? Qualunque sua esposizione risulterebbe limitata perché noi siamo tali e Lui no. È il Suo progetto di comunione e condivisione con l’uomo e, per quanto argomento su cui torneremo molte altre volte, non potremo far altro che affrontarlo in modo riduttivo proprio perché il Regno non è qualcosa che è stato o che sarà, ma una realtà che esiste ed è legata indissolubilmente allo suo essere di Dio. Il Regno è Lui stesso, come noi siamo Lui in una trasformazione costante in vista di quella piena che avremo. È un progetto destinato a realizzarsi, che si può intravedere leggendo il Pentateuco e i libri storici, ma che fu visto come reale ed esistente dai profeti e fu descritto dall’apostolo Giovanni nell’Apocalisse in momenti di attesa e di compimento, per non parlare delle notizie che Gesù diede ai suoi che tuttavia non recepirono perché allora non ne erano in grado. Dobbiamo sempre tenere presente che gli argomenti della Scrittura possono essere visti e spiegati solo in parte e non può esservi nessuno che può avere la pretesa di esaurirne un solo argomento, altrimenti non sarebbe Parola divina e sappiamo che, quando alcuni uomini di Dio si trovarono di fronte alla Sua vastità, non poterono fare altro che soccombere di fronte ad essa e spesso non riuscirono a parlarne in termini umani. Alcuni di loro, come Paolo di Tarso, definirono impronunciabili le parole che ascoltarono e altri, non riuscendo ad esporre le loro visioni, ricorsero a una simbologia tutta particolare confidando che questa fosse recepita dai loro lettori e interpreti.
Sono assolutamente convinto del fatto che, quando riconosciamo a Dio Padre la legittima detenzione del Regno, non possiamo che rifarci, anche e non solo, a quel progetto che iniziò, alla presenza e con la partecipazione del Verbo, con le parole “Sia la luce”. Tutte le sei ere che caratterizzarono la creazione, infatti, non ebbero lo scopo di manifestare la “bravura” di Dio come costruttore in senso autocelebrativo, ma in vista di quella creatura luminosa, Adamo, che con Eva avrebbe dovuto popolare il territorio santo e circondato dai quattro fiumi che prendeva il nome di Eden, cioè “delizia”. Lì l’uomo, così diverso da noi, creato libero, sceglieva ogni giorno di rapportarsi con YHWH liberamente, discorrendo con lui faccia a faccia senza quella limitazione che si sentì dire un giorno Mosè in Esodo 33.20: “Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo”.
Ho scritto all’inizio che il Regno è un concetto e una realtà: alle origini tutto era in Eden o, meglio, là c’era una sua parte, un aspetto visto in quella comunione che ebbe termine quando, dopo la trasgressione all’unico comandamento, Adamo e sua moglie ne furono estromessi. Se leggiamo l’episodio, però, possiamo notare che quel luogo non fu distrutto, ma che “Il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden, perché lavorasse il suolo da cui era stato tratto. Scacciò l’uomo e pose ad oriente del giardino di Eden i cherubini con una spada fiammeggiante, per custodire la via all’albero della vita” (Genesi 3.23,24).
A questo punto individuiamo alcuni elementi: primo, Adamo e sua moglie, che avevano desiderato essere come Dio, si vedono estromessi e avrebbero passato la loro esistenza lavorando la terra dalla quale erano stati tratti. Il loro sguardo, cioè, sarebbe stato costantemente rivolto verso il basso, avrebbero compreso il significato della parola “morte” (“Nel giorno in cui ne mangerai, per certo morirai”) e sarebbero tornati polvere, tutto questo portando in loro il ricordo di ciò che erano. Secondo, la via all’albero della vita non viene preclusa, ma protetta, custodita affinché né Adamo, né Eva, né i loro discendenti a prescindere dalle epoche, l’avessero potuta trovare un giorno e diventare immortali. Terzo e ultimo, quello su cui desidero soffermarmi oggi, abbiamo nominati per la prima volta i Cherubini, creature molto particolari che esistono nel Regno spirituale, quello che non vediamo, ma che per noi ebbero il privilegio di vedere e descrivere i profeti e l’apostolo Giovanni.
Il Cherubino è comunemente ritenuto un angelo, ma più che portare messaggi agli uomini pare avere una funzione di esecutore, di guardiano, di protettore, con un’incessante opera di salvaguardia e adorazione davanti al trono di Dio. L’Avversario, Satana, così potente, era uno di loro e, se non il primo, uno dei più importanti. Leggiamo in Ezechiele al capitolo 28.12-15 “Tu eri al sommo, pieno di sapienza e perfetto in bellezza. Tu eri in Eden, giardino di Dio; tu eri coperto di pietre preziose, di diamanti, di grisoliti, di pietre d’onice, diaspri, zaffiri, smeraldi e carbonchi e di oro; l’arte dei tuoi tamburi e dei tuoi flauti era presso di te, quella fu ordinata nel giorno in cui fosti creato. Tu eri un cherubino unto, protettore e io ti avevo stabilito, tu eri nel monte santo di Dio, tu camminavi in mezzo alle pietre di fuoco. Tu sei stato compiuto nelle tue faccende, dal giorno che tu fosti creato, finché si è trovava iniquità in te”.
Questa era la funzione che aveva quando si chiamava Lucifero, cioè “Portatore di luce”. Di lui è detto in Isaia 14.12-15 “Come mai sei caduto dal cielo, Lucifero, figlio dell’aurora? Come mai sei stato steso a terra, signore dei popoli? Eppure tu pensavi «Salirò al cielo, sulle stelle di Dio innalzerò il trono, dimorerò sul monte dell’assemblea, nelle parti più remote del settentrione. Salirò sulle regioni superiori delle nubi, mi farò uguale all’altissimo». E invece sei stato precipitato negli inferi, nelle profondità dell’abisso!”.
Raccordando tra loro i due versi, rileviamo il nome che aveva l’Avversario nel Regno spirituale di Dio, la sua presenza del Giardino, il grado di eccellenza che possedeva testimoniato dalle pietre preziose che lo ricoprivano, la sua funzione unica di “Unto” e “Protettore” e la perfezione vista nel suo camminare in mezzo alle pietre infuocate essendo il fuoco riferimento al vaglio e al giudizio cui era immune stante la sua condotta. Ma ci è dato di comprendere come, a un certo punto, fu trovata iniquità in lui e questa si manifestò in un progetto che aveva come risultato finale il “farsi uguale all’altissimo”. Sono le stesse parole che, preso possesso del serpente, disse ad Eva: “Dio sa che il giorno in cui ne mangereste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male” (Genesi 3.5). Nella sua improponibile volontà distruttiva, cercava un alleato. Il figlio dell’aurora sapeva benissimo che non avrebbe potuto farsi uguale a Dio essendo stato creato da lui, ma diventare un dio in un mondo corrotto dal peccato certamente sì. E così fu.
Se allora prima di questi eventi ciò che era in cielo e sulla terra – o meglio in Eden – formavano un tutt’uno, nel terribile dopo possiamo affermare che si crearono due regni, due territori differenti, uno santo e un altro impuro; il primo abitato da Dio e dagli esseri spirituali che di Lui sono l’emanazione, il secondo popolato da uomini incompatibili con lui parte dei quali però cercavano la Sua comunione, benevolenza, aiuto: erano quelli che, informati da Adamo e sua moglie delle modalità della caduta e ancor più del vestito che il Creatore aveva loro confezionato, lo pregavano di aver pietà e soccorso in quella vita così ostile che si trovavano ad affrontare loro malgrado. Ogni giorno constatavano delle avversità che non avrebbero dovuto conoscere. Seppero così i nostri progenitori dell’esistenza di due regni, uno terreno e l’altro spirituale. “Venga il tuo Regno”, allora, perché il Tuo è l’unico a durare per sempre.
Il Cherubino ritorna poi nella Legge. Non è un personaggio che compie azioni particolari come gli angeli che distrussero Sodoma e Gomorra o parlarono a molti, ma è ordinato che venga rappresentato sul coperchio dell’arca. Non è una figura minacciosa, non ha una spada, ma: “Farai due cherubini d’oro: li farai lavorati a martello sulle due estremità del coperchio. Fa’ un cherubino ad una estremità e un cherubino all’altra estremità. Farete i cherubini tutti di un pezzo con il coperchio alle sue due estremità. I cherubini avranno le due ali stese di sopra, proteggendo con le ali il coperchio; saranno rivolti l’uno verso l’altro e le facce dei cherubini saranno rivolte verso il coperchio. Porrai il coperchio sulla parte superiore dell’arca e collocherai nell’arca la Testimonianza che io ti darò. Io ti darò convegno appunto in quel luogo: parlerò con te da sopra il propiziatorio, in mezzo ai due cherubini che saranno sull’arca della Testimonianza, ti darò i miei ordini riguardo agli Israeliti” (Esodo 25.18-22).
Per quanto il Cherubino comparisse anche raffigurato sui teli che costituivano il velo della dimora a conferma del fatto che è un essere a diretto contatto con la Santità di Dio e con lui compatibile, è la sua presenza sul coperchio dell’arca a rivelarci elementi che ci consentono delle connessioni molto importanti; i cherubini non erano due belle statuine saldate sul coperchio, ma costituivano un tutt’uno con lui, erano un pezzo solo, d’oro puro – il solo metallo che è riferito costantemente a Dio – posti uno di fronte all’altro. Due e non quattro perché non era un riferimento ai punti cardinali, ma alle dimensioni semplici intese come destra e sinistra, uomo e donna, bene e male, di qua o di là. Le loro ali proteggevano il coperchio: sono estremità che consentono uno spostamento diverso dal nostro, che avviene solo sulla terra, ma che adombrano e proteggono, difendono. In più, i cherubini sono posizionati sì frontalmente, ma il loro sguardo è rivolto verso il coperchio, guardando idealmente all’interno dell’arca che conteneva un vaso d’oro con la manna raccolta nel deserto, il bastone d’Aaronne che era fiorito e le tavole della Legge, quelle che Mosè tagliò e sulle quali Iddio scrisse il decalogo, da destra a sinistra, cinque per ogni tavola secondo il Talmud di Gerusalemme. Anche qui, è interessante il rapporto tra le due tavole e i due Cherubini.
Nel meditare però il passo di Esodo 25 mi sono chiesto perché queste due creature, a parte le ali spiegate, avessero lo sguardo verso il basso, metaforicamente a guardare all’interno dell’Arca quasi a contemplarne il contenuto, cioè la manna per la provvidenza di Dio, il bastone a ricordare il serpente che si mangiò tutti quelli creati dai maghi del Faraone e quindi la supremazia di YHWH e le tavole rappresentanti l’osservanza che il Signore si aspetta dall’uomo, oggi per noi misura di ciò che è bene e ciò che è male.
Non credo sia possibile avere una risposta diversa dall’indizio che ci offre l’apostolo Pietro nella sua prima lettera quando, parlando degli avvenimenti con cui Dio si caratterizzò nei tempi antichi a testimonianza del Regno, scrive: “…perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre raggiungete la meta della vostra fede: la salvezza delle anime. Su questa salvezza indagarono e scrutarono i profeti, che preannunciavano la grazia a voi destinata; essi cercavano di sapere quale momento o quali circostanze indicasse lo Spirito di Cristo che era in loro, quando prediceva le sofferenze destinate a Cristo e le glorie che l’avrebbero seguite. A loro fu rivelato che non per se stessi, ma per voi erano servitori di quelle cose che ora vi sono annunciate mediante lo Spirito Santo, mandato dal cielo: cose nelle quali gli angeli desiderano fissare lo sguardo” (1.8-12). Ed è interessante sottolineare che alcune traduzioni riportano “guardare dentro”.
Il contenuto dell’Arca testimoniava l’amore di Dio e le Sue esigenze, i profeti scrissero e parlarono di un tempo allora imminente, di un regno che sarebbe dovuto venire a suo tempo ma che esisteva già, pronto e preordinato a tal punto che la sua realizzazione piena, così importante per tutte le negatività che verranno annullate e che ogni salvato attende, può sembrare un dettaglio. Perché la cittadinanza eterna già la possediamo ed è quello che ci spinge a vivere. Amen.
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