05.47 – Chiedete e vi sarà dato (Matteo 7.7-11)
“7Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. 8Perché chiunque chiede riceve, e chi cerca trova, e a chi bussa sarà aperto. 9Chi di voi, al figlio che gli chiede un pane, darà una pietra? 10E se gli chiede un pesce, gli darà una serpe? 11Se voi, dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele chiedono!”.
Con questo invito Gesù torna all’insegnamento sulla preghiera, anche se vista in modo diverso da quello esposto sul Padre Nostro al capitolo quinto. Stupisce nei versi che abbiamo letto la distanza intercorrente tra i due atteggiamenti e al tempo stesso l’identità dei rapporti: chi chiede ottiene, chi cerca trova, a chi bussa viene aperto proprio in virtù della relazione figlio – padre che si instaura: “A quanti lo hanno accolto, ha dato il potere di diventare figli di Dio” (Giovanni 1.12), verso che da un lato esprime l’universalità della condizione e dall’altro circoscrive la qualifica ricevuta; non tutti gli uomini sono figli di Dio, non tutti gli uomini sono fratelli.
L’apostolo Paolo approfondirà il concetto scrivendo “Quindi non sei più schiavo, ma figlio e, se figlio, sei anche erede per grazia di Dio” (Galati 4.7), realtà che esclude un rapporto a termine, ma ha una prospettiva di eternità: “Voi non siete più stranieri né ospiti, ma concittadini dei santi e famigliari di Dio” (Efesi 2.19). È importante soffermarsi su questi principi, perché determinano lo stato di “nuova creatura” in cui si trova chi ha creduto accettando Gesù nella propria vita, venendo cancellato il proprio passato proprio alla luce della nuova dignità ricevuta: “Un tempo, per la vostra ignoranza di Dio – perché non lo conoscevamo – voi eravate sottomessi a divinità che in realtà non lo sono – divinità presunte o create da noi, come il denaro e tutti gli altri falsi miti –. Ora che invece avete conosciuto Dio, anzi da lui siete stati conosciuti – proprio per il rapporto nuovo che si è venuto a creare –, come potete rivolgervi di nuovo a quei deboli e miserabili elementi, ai quali di nuovo come un tempo volete servire?” (Galati 4.8,9).
Con questi versi l’apostolo Paolo ricorda almeno due importanti verità: primo, la condizione di estraneità alla realtà di Dio per l’ignoranza in cui vivevamo e, secondo, la necessità di perseverare nella nuova vita ricevuta rimanendo con la mente uniti alla Verità. Si tratta di un metodo che molti nelle chiese della Galazia avevano smesso di perseguire tornando a “quei deboli e miserabili elementi” di cui un tempo erano servi, influenzati dal giudaismo e da quanti volevano mettere sullo stesso piano Legge e Grazia.
Ho tratteggiato questo piccolo quadro per sottolineare che le tre azioni descritte da Gesù al verso settimo, “Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto”, sono al tempo stesso un invito e una norma di relazione con promessa; impossibile non ottenere chiedendo, non trovare cercando, che non ci venga aperta la porta qualora noi bussiamo a quella della Grazia: non siamo stranieri né ospiti, come abbiamo letto, ed è soprattutto quel cercare e trovare che ci ricorda quando noi, alla ricerca di una ragione di vita o consapevoli dell’inquietudine derivante dalla presa d’atto che nulla di quanto ci circondava poteva saziarci, ci siamo messi alla ricerca di una ragione superiore chiedendo a quel Dio che non conoscevamo, di rivelarsi. E qui ciascun credente potrebbe narrare la sua esperienza e la scoprirebbe diversa da quella del proprio fratello, o sorella. Personalmente amo ricordare quel passo di Isaia che dice “Cercate il Signore mentre lo si può trovare, invocatelo mentre è vicino” (Isaia 55.6), oppure la verità stabilita in Salmo 145.18 “Il Signore è vicino a chiunque lo invoca, a quanti lo invocano con sincerità”. Perché? Perché anche oggi, nonostante i tempi moralmente difficili, esiste chi lo cerca con quella sincerità che esclude doppi fini. Si cerca il Signore perché non si hanno alternative, perché viene in momento in cui scopriamo di essere soli nonostante amici, compagne, fidanzate o mogli, perché la sazietà non può venire dal nostro simile, né da quanto il mondo può offrire.
Dobbiamo sempre considerare che la folla presente sul pianoro del monte aveva tutti gli elementi per non considerarlo uno dei tanti predicatori che saltuariamente comparivano in quella regione; Luca infatti, al quale dedicheremo qualche riflessione una volta concluse quelle su Matteo, inquadra l’ambiente con parole illuminanti: “C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e Sidone, che erano venuti per ascoltarlo ed esser guariti dalle sue malattie; anche quelli che erano tormentati da spiriti immondi, venivano guariti. Tutta la folla cercava di toccarlo, perché da lui usciva una forza che guariva tutti” (Luca 6.17,18). E Luca era medico. E chi era presente aveva dovuto fare della strada, anche molta, per trovare Gesù. Aveva dovuto cercarlo. Aveva dovuto iniziare un percorso per uno scopo, per vedere se effettivamente quell’uomo che parlava di Dio con autorità e faceva miracoli avrebbe potuto fare qualcosa per loro individualmente.
Ecco allora che le promesse delle tre azioni contenute nell’invito di Gesù sono a largo raggio e coinvolgono tutti quelli che si pongono delle domande e insistono fino a quando non hanno ottenuto delle risposte, fino a quando non hanno trovato. Esattamente come tutti quegli uomini e donne che, nell’episodio descritto da Matteo e Luca, erano presenti dopo aver tanto camminato ed aver fatto la fatica di salire su quel monte. Certo, tutta la Bibbia narra di uomini che hanno avuto questa esperienza, hanno cercato e trovato ma, anche, sono stati trovati perché scelti, eletti come Saulo di Tarso che così spesso citiamo. Su tutto, però, si elevano le parole di Proverbi 8.17 in cui leggiamo “Io amo quelli che mi amano, e quelli che mi cercano mi trovano”. Gesù non poteva non lasciarsi trovare e, guarendo, dimostrare andare ben oltre il fatto di essere un bravo filosofo o un buon parlatore.
È però necessario soffermarci sulla prima promessa, “chiedete e vi sarà dato”, perché ho notato che spesso si tende a confonderla e ad usarla ingenuamente, infantilmente, come un ricatto: in pratica, chiedere a Dio per noi stessi aggrappandoci al testo letterale senza riflettere sulla portata di quanto domandiamo, della serie “hai promesso, adesso mi dai”. Allora si scambia la fede con l’autoconvincimento, forti ad esempio del testo che recita “Tutto quello che chiederete con fede nella preghiera, lo otterrete” (Matteo 21.22) oppure Marco 11.24 “Tutto quello che chiederete nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto e vi accadrà”. Altri, quasi scaramanticamente, concludono le loro preghiere pubbliche “Nel nome di Gesù” perché così è stato scritto e Lui stesso lo ha raccomandato dicendo “E qualunque cosa chiederete nel mio nome, la farò, perché il Padre sia glorificato nel Figlio. Finora non avete chiesto nulla nel mio nome; chiedete e otterrete, perché la vostra gioia sia piena” (Giovanni 16.23,24).
Chiedere qualcosa “nel nome” di Gesù però non significa usare il suo Nome quasi fosse una formula magica, ma proporre una preghiera che abbia in Cristo il suo Amen, cioè risponda al Suo e al nostro essere. È un esame perché il Nome, come sappiamo, non può essere detto invano. Ecco, qui cominciamo a intravedere il senso della promessa “chiedete e vi sarà dato”; quando infatti Nostro Signore si trovò a spiegare ai discepoli il loro ruolo e condizione nella storia, disse “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga, perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda” (Giovanni 15.16). Il verso successivo poi, è illuminante: “Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto”. Qui sta la promessa, la preghiera, l’esistenza cristiana, senza sminuire le preghiere che vengono rivolte al Padre per avere l’aiuto, il soccorso anche materiale. Non mi stancherò mai di ricordare l’esempio di Salomone, premiato da Dio con la sapienza e la regalità perché gliela chiese al posto di onori e ricchezze nonostante, essendo giovane, fosse sicuramente sensibile ad esse. Ecco perché dovremmo chiedere al Padre l’intelligenza e il discernimento prima di qualsiasi altra cosa, rendendoci docili al suo insegnamento. Giacomo, “fratello del signore” scrive “Se qualcuno di voi è privo di sapienza, la domandi a Dio, che dona a tutti con semplicità e senza condizioni, e gli sarà data. La domandi però con fede, senza esitare, perché chi esita somiglia all’onda del mare, mossa e agitata dal vento. Un uomo così non pensi di ricevere qualcosa dal Signore: è un indeciso, instabile in tutte le sue azioni” (Giacomo 1.5). La fede quindi non è autoconvincimento o determinazione, ma il semplice sapere che ci rivolgiamo a Colui che può. È una scelta, la stessa che fecero tutti coloro che, nel Vangelo, si rivolsero a Gesù per guarire. La fede è consapevolezza, la gioia di sapere che quanto chiediamo viene valutato da Dio che, conoscendoci a differenza nostra, ci dà quello di cui abbiamo bisogno e non ciò che crediamo sia importante per noi. Chi esita, come abbiamo letto, non è chi ha timore di non ricevere, ma chi ora chiede e ora si ritrae, chi prega tanto per farlo e sa già in partenza che, eventualmente ottenendo, non saprebbe cosa farsene perché non ha prospettive. Ecco perché Giacomo scrive “Un uomo così non pensi di ricevere qualcosa dal Signore”.
Ai versi 9 e 10 Gesù fa riflettere sulla relazione padre – figlio nel mondo naturale: nessun genitore darebbe una pietra a un figlio che gli chiede del pane, o una serpe al posto di un pesce (Luca scrive “O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione?”), nonostante sia “malvagio”, cioè “non buono” secondo le aspettative di Dio che, parlando dopo il giudizio del diluvio, disse “Non maledirò più il suolo a causa dell’uomo, perché ogni intento del cuore umano è incline al male fin dall’adolescenza; né colpirò più ogni essere vivente come ho fatto” (Genesi 8.21). Allora Gesù invita i suoi uditori a riflettere sul fatto che, se l’uomo nonostante la sua impurità interiore è in grado di provvedere dando “buone cose” ai propri figli, Dio che è perfetto potrà andare ben oltre. Rileggendo il testo, “Se vuoi, dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliene chiedono”.
“Cose buone” provengono da un padre umano imperfetto per il sostentamento dei figli, “Cose buone” provengono dal Padre perfetto che è nei cieli. Luca va più nello specifico e scrive “Quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono” nel senso dei doni, delle rivelazioni, illuminazioni, di tutto ciò che serve ad orientamento in una terra che non è nostra e nella quale ogni vero cristiano non può che trovarsi a disagio, talvolta anche profondo. Ed è poi da sottolineare che anche qui si ritorna all’inizio della nostra lettura, del “chiedere e ricevere” perché il Padre dà in dono le “cose buone” quando gli vengono richieste: a una richiesta di chi è figlio corrisponde un “dare” perfetto, cioè secondo le nostre capacità, possibilità che abbiamo di gestire quanto ci viene donato. Infatti: “E questa è la fiducia che abbiamo in lui: qualunque cosa gli chiediamo secondo la sua volontà, Egli ci ascolta. E se sappiamo che ci ascolta in tutto quello che gli chiediamo, sappiamo di avere già da Lui quanto abbiamo chiesto” (1 Giovanni 5.14). È questa una certezza che abbiamo e che ci aiuta di molto a vivere nel deserto affollato e rumoroso che è la terra. Amen.
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