01.19 – LA FUGA IN EGITTO (Matteo 2.13-15)

01.19 – La fuga in Egitto (Matteo 2.13-15)

 

13Essi erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: «Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo».14Egli si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto, 15dove rimase fino alla morte di Erode, perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: Dall’Egitto ho chiamato mio figlio. 16Quando Erode si accorse che i Magi si erano presi gioco di lui, si infuriò e mandò a uccidere tutti i bambini che stavano a Betlemme e in tutto il suo territorio e che avevano da due anni in giù, secondo il tempo che aveva appreso con esattezza dai Magi. 17Allora si compì ciò che era stato detto per mezzo del profeta Geremia: 18Un grido è stato udito in Rama, un pianto e un lamento grande: Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata, perché non sono più.”.

 

I Magi, dopo la loro adorazione e aver lasciato i doni che consentiranno a Gesù e alla sua famiglia una vita dignitosa oltre al loro sostentamento nel periodo in Egitto, non verranno più nominati. Con la loro venuta e partenza da Betlehem si apre e si chiude una finestra su quella moltitudine di popoli che sarebbero stati chiamati e salvati in seguito. L’omaggio dei Magi, di cui non ci viene detto il nome né quanti fossero, è quello delle anime che aspettano l’adempimento del regno di Dio, di chi è conscio di un mistero che verrà rivelato un giorno. I Magi si basavano su pochi elementi, ma li seppero conservare con certezza aspettando quella stella ogni notte, in un buio solo apparente, amico. Metto sempre a confronto il mettersi in viaggio di quelle persone, che si fidarono solo della loro tradizione e fede, e il comportamento dei sapienti interpellati da Erode che, per nulla interessati dal racconto di quegli stranieri, risposero freddamente che il Messia sarebbe nato a Betlehem per poi tornarsene alle loro occupazioni, ai loro riti, alla gestione della propria ignoranza interiore, all’incapacità di distinguere, in quei testi davvero sacri orgogliosamente studiati, che era giunto il tempo in cui il regno di Dio sarebbe giunto a loro.

Il sogno dei Magi fu una rivelazione che dovette confortarli molto: tutti loro ricevettero lo stesso messaggio, ebbero la medesima visione, cosa umanamente impossibile; così, all’aver trovato la stella, al Re dei Giudei individuato e omaggiato, si aggiunse un ordine di Dio in sogno che osservarono. Considerata la continuità del triplice messaggio ricevuto – stella, Re e sogno -, alla parola data ad un re umano preferirono rispettare quella che il Re divino aveva rivolto a loro.

Subito dopo la partenza dei Magi abbiamo la quinta rivelazione dell’angelo, termine che non si riferisce ad un essere con ali e aureola, ma a un personaggio identificabile come un “messaggero”. Nessun profeta, tranne che nelle sue visioni riguardanti realtà soprannaturali che si svolgono in ambienti non umanamente raggiungibili, ha mai dato sugli angeli in terra descrizioni diverse da quelle di “uomini” talché l’autore della lettera agli Ebrei in 13.2 scrive “Non dimenticate l’ospitalità: alcuni, praticandola, hanno ospitato senza saperlo degli angeli”.

Rivelazioni angeliche precedenti al sogno di Giuseppe furono l’annunzio a Zaccaria, quello a Maria, a Giuseppe invitato a non lasciare la sua promessa sposa, quello ai pastori, e infine questo, che costituisce anche il secondo sogno di Giuseppe, che ebbe rivelata la volontà di Dio sempre in questo modo.

Va rilevato che la traduzione “sta cercando il bambino per ucciderlo” non è corretta ed è preferibile quella che recita “si accinge a cercare il bambino per eliminarlo” o, come traduce Diodati, “cercherà il bambino per farlo morire”. Anche Ricciotti scrive “sta per cercare il bambino”. La versione che ho scelto per il suo italiano più scorrevole, fa istintivamente pensare che Erode decise la “strage degli innocenti” a seguito di un attacco d’ira perché gabbato dai Magi. Dio invece, perfetto conoscitore degli eventi anche futuri, preavvisa il “padre” di Gesù quando ancora Erode progettava di eliminare il bambino e aspettava il rientro a palazzo della delegazione dei Magi.

La reazione di Giuseppe, uomo d’azione, è un esempio di fedeltà: destatosi, comprende la vitale importanza del sogno, sveglia la moglie, entrambi prendono le loro cose e partono in breve tempo affrontando una settimana circa di viaggio con un bimbo di pochi mesi raggiungendo a un certo punto l’antica strada carovaniera che costeggiava il Mediterraneo per poi raggiungere la Palestina e finalmente l’Egitto. Un viaggio duro ed estenuante caratterizzato dal caldo del deserto. È utile ricordare che lo stesso percorso, relativamente alla carovaniera, è citato da Plutarco che afferma che i soldati romani di Gabinio, una delle personalità più importanti del periodo che precedette la guerra civile tra Cesare e Pompeo, temevano quella traversata più della guerra che li aspettava in Egitto.

Giunti là, penso che la famiglia si sia stabilita vivendo dignitosamente perché aveva con sé l’oro portato in dono dai Magi venuti da oriente. Giuseppe, Maria e Gesù sarebbero rimasti in Egitto fino a quando il messaggero non fosse tornato, vale a dire alla morte di Erode il Grande, avvenuta pare per cancrena di Fournier. Scrive Giuseppe Flavio (Guerre Giudaiche 1,656) “…tutto il suo corpo fu preda della malattia, diviso tra varie forme di mali; aveva una febbre non violenta, un prurito insopportabile su tutta la pelle e continui dolori intestinali, gonfiori ai piedi come per idropisia, infiammazione all’addome e cancrena dei genitali con formazione di vermi, e inoltre difficoltà a respirare se non in posizione eretta, e spasmi di tutte le membra”.

Torniamo alla cronologia: Maria e Giuseppe erano partiti come i Magi prima di loro ed Erode attendeva, sempre più spazientito, fino a quando non comprese, di suo o perché informato dai suoi agenti sparsi ovunque – tra i quali c’erano anche persone “normali” che gli riferivano fatti e comportamenti dietro compenso – di essere stato ignorato. Credo che nulla possa fare infuriare di più un despota del non essere preso in considerazione. Credo che nulla possa preoccupare di più un simile personaggio del sapere della nascita di un rivale, a parte le considerazioni che abbiamo fatto nel precedente studio: la domanda che gli fu rivolta, “Dov’è il re dei giudei che è nato”, era un presagio nefasto che lo preoccupava e che vedeva abbattersi non solo su di sé, ma anche sulla sua discendenza, su tutto ciò che aveva fatto e costruito.

Erode, che allora non era ancora malato, è scritto che si infuriò e prese l’unica decisione per lui possibile, cioè uccidere tutti i bambini di Bethlehem dai due anni in giù e, non volendo sbagliare, abbondò nei calcoli possibili basandosi sui dati che i Magi gli avevano fornito sulla durata del loro viaggio e da quando avevano visto la stella. Ebbe così luogo quella conosciuta come “strage degli innocenti”, che è stato calcolato, in base agli abitanti di Bethlehem (un migliaio) e ai bambini maschi che potevano esservi, potesse avere fatto una ventina di vittime. Fu episodio che, per la scarsa rilevanza per la mentalità di allora e per le altre nefandezze di Erode, non fu riportato da nessuno storico, neppure da Giuseppe Flavio, nonostante gli fosse ostile.

Sicuramente possiamo dire che questa strage può costituire un primo segno di contraddizione, il primo “sasso su cui inciampare” di cui parlò Simeone: ci si può chiedere perché, se

Dio è tanto misericordioso, abbia permesso la morte di bambini innocenti trucidati, presumiamo, con la spada, causando tanto dolore in chi restava, le madri per prime. La domanda è simile a quella che molti si pongono ogni qualvolta avvengono fatti di cronaca che turbano la sensibilità e l’opinione pubblica, come i terremoti, le inondazioni, gli attentati in cui “pagano” persone innocenti. Ci si dimentica che il mondo, la vita che viviamo, da quando i nostri progenitori furono esclusi da Eden, non offre alcuna garanzia di sopravvivenza e che siamo soggetti a termine. Non abbiamo firmato, né noi, né chi per noi, un contratto che ci dice che la nostra vita sarà longeva e avrà una scadenza lontana nel tempo, che si concluderà quando saremo soddisfatti perché vedremo ogni nostro progetto realizzato, che ce ne andremo come Abrahamo, che morì “in felice canizie, vecchio e sazio di giorni” (Genesi 25.8). Al contrario, scrive Paolo ai romani, “Noi sappiamo che fino ad ora tutto il mondo creato geme insieme ed è in travaglio” (8.24). La vita che ogni essere umano vive non è esente da nessuna sofferenza: malattie più o meno gravi, progetti e intenti che naufragano, attitudini che raramente riescono ad esprimersi come vorremmo. La morte dell’innocente, che una volta ho sentito definire come “un mistero”, rientra purtroppo nei casi dell’esistenza di cui l’agente che la causa porterà la responsabilità, come in questo caso. Rientra nelle conseguenze del peccato, in quelle “spine e triboli” che avrebbe prodotto la terra ad Adamo, là dove per “terra” non si deve intendere solo il suolo, ma la vita sul pianeta in quanto tale che, dal momento in cui inizia, non può che finire. Solo in Eden, territorio che ricordiamo fu posto da Dio sulla terra e da lui stesso circondato con quattro fiumi, non vi era sofferenza né morte, così come non vi sarà nel Regno di Dio, nei “Nuovi cieli e nuova terra ove dimora stabile la giustizia”.

Quando leggo questo episodio mi viene solo in mente la speranza che chi abbia ucciso quei bambini sapesse come e dove colpire, anche se le guerre combattute da sempre conoscono orrori anche maggiori e penso che il peccato non può che produrre la morte. La morte, che non è detto sia rapida, può arrivare in qualunque momento e ad ogni età; è un aspetto di quel “giorno del Signore che arriva come un ladro di notte”: coglie di sorpresa. Così sarà il suo ritorno, così accade sempre per la sua chiamata attraverso il decesso: pochissimi sono quelli che si trovano preparati a riceverlo. Per noi quanto avvenuto in Betlehem è un fatto orribile, ma non per gli storici antichi i quali, rispetto alle nefandezze di cui si macchiò Erode, non lo riportarono neppure. C’è chi sostiene che l’episodio non sia avvenuto e che Matteo abbia voluto colorire il suo Vangelo con un racconto teso a dimostrare due profezie adducendo il pretesto che il re non avrebbe potuto emettere una condanna a morte senza l’approvazione del Sinedrio: di fatto, Giuseppe Flavio riferisce che, pochi istanti prima di morire, Erode fece uccidere molti insigni giudei nell’ippodromo di Gerico perché ci fosse chi piangesse nell’occasione della sua dipartita. E non chiese il permesso a nessuno.

La strage degli innocenti, a conferma della prudenza che il re ebbe nell’ordinarla, non avvenne solo a Betlemme, ma nel territorio circostante e Rama era nei pressi. Ecco perché il pianto di Rachele, moglie di Giacobbe e madre di Giuseppe e Beniamino che morì di parto e venne sepolta là, “sulla via di Efrata, cioè di Betlemme” (Genesi 35.19) è accomunato a quello delle madri degli innocenti; Rachele non era una donna comune, soffrì perché era sterile e non riusciva a dare una discendenza al marito, al contrario dell’altra di lui moglie Lea.

La permanenza in Egitto durò circa due anni, ed ecco il terzo sogno di Giuseppe col messaggero: aspettava l’angelo che gli aveva detto di restare in Egitto, dove c’erano comunque ebrei e sinagoghe, e che lo avrebbe avvertito di tornare. Ciò avvenne alla morte di Erode il Grande, avvenimento che adempie quel proverbio di Salomone che recita “L’empio è travolto dalla sua stessa malvagità, ma il giusto ha speranza nella sua stessa morte” (Prov. 14.32).

Ho chiamato mio figlio fuori dall’Egitto” è la profezia che Matteo ci ricorda e la troviamo in Osea 11.1, “Quando Israele era fanciullo, io l’amai e dall’Egitto chiamai mio figlio”: è un aggiornamento storico che ci offre il passaggio da quando il popolo si mosse da quel Paese avendo Mosè come conduttore, a quello attuale, il Cristo. Ricordiamo che Mosé si troverà a parlare con Gesù ed con Elia alla trasfigurazione (Matteo 17.1-13).

A questo punto leggiamo che Giuseppe, di cui non abbiamo tramandato nessuna parola, esecutore obbediente alle istruzioni ricevute da Dio, fu preso da timore quando seppe che, morto Erode, gli era succeduto Archelao, crudele come suo padre. Il regno di Erode, in forza del suo testamento poi ratificato e modificato da Augusto che non voleva che il titolo di re competesse ad alcuno dei suoi figli, fu diviso tra loro: ad Archelao toccarono Giudea, Idumea e Samaria; Antipa ebbe la quarta parte del regno con la Galilea e la Perea e a Filippo toccò la Batanea con l’Auranitide, la Traconide e una parte dell’Iturea. Un altro figlio di Erode, Filippo omonimo del precedente, non ebbe alcun governo ma visse a Roma da privato cittadino. Mentre Antipa e Filippo governarono il loro territorio per tutto il tempo della vita di Gesù ed oltre, Archelao fu accusato di tirannia presso Augusto che lo destituì esiliandolo a Vienna nelle Gallie.

Ecco, qui abbiamo il raccordo con Luca, che inserisce un versetto che fa da ponte tra le benedizioni di Simeone ed Anna e l’episodio che lo vede dodicenne tra i dottori della Legge: “Ora quando ebbero compiuto tutto quello che riguardava l’osservanza della legge del Signore, ritornarono in Galilea, nella loro città di Nazareth” (2.39). Interessante l’aggiunta che fa al verso successivo: “intanto il bambino cresceva e si fortificava nello spirito, essendo ripieno di sapienza, e la grazia di Dio era sopra di lui”.

Ecco, Matteo spiega come mai Maria e Giuseppe tornarono a Nazareth, un perché spirituale e non solo: Gesù sarebbe stato chiamato “Nazareno” sia perché proveniente da quel paese, sia perché la parola ebraica da cui deriva il nome, “netzer” (“germoglio, ramo”) ricorda Isaia 11.1 “Poi un ramoscello uscirà dal tronco d’Isai – padre di Davide – e un germoglio spunterà dalle sue radici. Lo Spirito dell’Eterno riposerà su di lui: spirito di sapienza e di intelligenza, spirito di consiglio e di potenza, spirito di conoscenza e di timor dell’Eterno”. Tutto iniziò da Nazareth, che ricordiamo come prima località visitata dall’angelo Gabriele quando annunciò a Maria che avrebbe avuto un figlio.

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01.07 – GIUSEPPE (Matteo 1.18-25)

18Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. 19Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto. 20Mentre però stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; 21ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati». 22Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: 23Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele, che significa Dio con noi. 24Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa; 25senza che egli la conoscesse, ella diede alla luce un figlio ed egli lo chiamò Gesù”.

Matteo ci parla di Giuseppe, figura molto particolare dei Vangeli: non parla mai, ma fa tutto quello che gli viene ordinato operando un silenzioso servizio. Quel poco che sappiamo di lui è frutto, quando non chiaramente raccontato, di deduzioni, per quanto fondate. E chi farà da padre putativo a Gesù compare così, all’improvviso, quale promesso sposo di Maria. È importante tenere presente il primo verso di questo Vangelo: “Genealogia di Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abramo” perché Matteo, nel diciassette versi precedenti, ci ha tracciato una genealogia a partire da Abrahamo che, dopo essere stato vagliato con il sacrificio di Isacco, ricevette la promessa “Tutte le nazioni della terra saranno benedette nella tua discendenza, perché tu hai ubbidito alla mia voce” (Genesi 22.18). Anche a Davide, secondo personaggio menzionato, furono rivolte parole di conferma: “Stabilirò la tua progenie in eterno ed edificherò il tuo trono per ogni età” (Salmo 89.3,4). Così, la casata reale si era ridotta all’umile persona di un falegname.

Giuseppe è anche questo, un protagonista nella storia della salvezza che qui incontriamo per la prima volta, turbato, fortemente contrariato e amareggiato perché Maria gli aveva da poco dichiarato di essere gravida. Abbiamo letto “Prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo”, parole con le quali Matteo riassume ciò che Luca ha esposto nei dettagli e che ci consentono di dare uno sguardo al fidanzamento di allora, una promessa di matrimonio che veniva contratta quasi sempre tra i genitori degli sposi, soprattutto dal padre di lui, quando entrambi i giovani erano in età di circa 18 anni (per l’uomo) e dai 12 e mezzo in avanti per le donne. La durata del fidanzamento era di circa un anno, tempo durante il quale il futuro sposo doveva preparare la casa in cui sarebbero andati ad abitare, ma i fidanzati erano considerati marito e moglie a tutti gli effetti per cui, per interrompere la relazione, era richiesta la stessa procedura per il divorzio, vale a dire la lettera di ripudio e, nel caso il motivo del divorzio fosse stato l’infedeltà, la donna veniva lapidata secondo la legge di Mosè.

La frase “si trovò gravida”, ci lascia intuire una circostanza sicuramente drammatica per Giuseppe che ben difficilmente avrebbe potuto credere a Maria qualora gli avesse parlato dell’annuncio angelico: una gravidanza, da sempre, non poteva essere che la conseguenza di un rapporto carnale, consenziente o meno.

Di Giuseppe, come accennato, i Vangeli parlano poco, anzi, si può dire che il fatto che fosse un “uomo giusto” è l’unico che abbiamo: l’unico dato ufficiale sul suo carattere ce lo dà proprio quell’aggettivo che allude non tanto all’osservanza minuziosa della legge e dei suoi corollari, ma alla pietà che aveva e alla gestione della sua persona in sintonia con la fede che professava. Ricordiamo sempre che Abramo fu considerato “giusto” da Dio per aver creduto in Lui e nella sua promessa.

Giuseppe, come dimostra il comportamento che voleva tenere nei confronti di Maria, era un uomo compassionevole, non orgoglioso né desideroso di rivalersi su di lei con un gratuito spirito di vendetta: leggiamo che “non voleva accusarla pubblicamente”, cioè non voleva si scatenasse quanto previsto dalla Legge al riguardo cioè “Quando una fanciulla vergine è fidanzata e un uomo la trova in città e si corica con lei, li condurrete ambedue alla porta di quella città e li lapiderete con pietre, ed essi moriranno: la fanciulla perché, pur essendo in città, non ha gridato, e l’uomo perché ha disonorato la moglie del suo prossimo. Così estirperai il male di mezzo a te. Ma se l’uomo trova una fanciulla fidanzata in campagna, e le fa violenza e si corica con lei, allora morirà solamente l’uomo che si è coricato con lei; ma non farai niente alla fanciulla, non c’è alcun peccato che merita la morte, perché questo caso è come quando un uomo si leva contro il suo prossimo e l’uccide; egli infatti l’ha trovata in campagna; la fanciulla fidanzata ha gridato, ma non c’era nessuno che la potesse salvare” (Deuteronomio 22.23-27).

Giuseppe aveva quindi, in mancanza dell’uomo ipotetico che si era congiunto con la sua fidanzata, due possibilità per procedere contro Maria: accusarla pubblicamente davanti ai magistrati che l’avrebbero condannata alla lapidazione, oppure regolare la cosa privatamente consegnandole una lettera di divorzio in presenza di due o tre testimoni, lasciando a lei la possibilità di regolarsi come meglio potesse. Infatti: “Quando uno prende una donna e la sposa, se poi avviene che essa non gli è più gradita perché ha trovato per lei qualcosa di vergognoso, scriva per lei una lettera di ripudio, gliela dia in mano e la mandi via da casa sua” (Deuteronomio 24.1).

Abbiamo letto che un angelo del Signore gli apparve in sogno “mentre considerava tutte queste cose”, segno che Giuseppe era una persona che non agiva d’impulso, ma era pacato e riservato: l’amore per Maria implicava il rispetto per la sua persona nonostante il supposto tradimento ed escludeva il sentimento di una rivalsa, per quanto legale.

Abbiamo poi il terzo intervento angelico in cui viene usato un appellativo specifico, “Figlio di Davide”, a ricordare a Giuseppe non solo la sua discendenza, ma soprattutto l’adempimento della promessa secondo la quale il Messia sarebbe arrivato dalla discendenza di quel re e non da altre. Anche qui troviamo un “non temere”, ma diverso dai precedenti incontrati, tesi a rassicurare che la presenza angelica non avrebbe comportato un giudizio sulla persona: dicendo “Non temere di prendere con te Maria tua sposa”, l’angelo dichiarava a Giuseppe che tanto Maria quanto il figlio che aspettava, a prescindere dalle traversie che avrebbero incontrato, sarebbero sempre stati assistiti da Dio. Ciò che era accaduto in Maria era la conseguenza dell’opera Spirito Santo inteso come forza creatrice, cioè lo stesso “Spirito di Dio” che “aleggiava sulle acque” che troviamo in Genesi 1, tradotto anche con “si muoveva” da un verbo riferentesi all’atto del covare degli uccelli.

Ed ella partorirà un figlio e tu gli porrai nome Gesù”, nome che ha lo stesso significato di Giosuè, “Salvatore”, colui che introdusse il popolo nella terra di Canaan, la terra promessa. Il figlio di Maria sarebbe stato chiamato così “Perché è lui che salverà il suo popolo dai loro peccati”. Se il nome di un essere umano influenza la sua vita e lo caratterizza, quello del “figlio di Maria e Giuseppe” ha la sua ragione di essere non per la personalità, ma per scopo e ruolo: è lui – e nessun altro – che salverà il suo popolo che, come ci dice Giovanni, poi non lo accolse come avrebbe dovuto; “Egli è venuto in casa sua e i suoi non lo hanno ricevuto, ma a tutti coloro che l’hanno ricevuto ha dato l’autorità di diventare figli di Dio, a quelli che credono nel suo nome” (1.11,12). Come disse Pietro davanti al Sinedrio, l’organo ufficiale per l’emanazione delle leggi e dell’amministrazione della giustizia, “In nessun altro vi è la salvezza, poiché non c’è altro nome sotto il cielo che sia dato agli uomini per essere salvati” (Atti 4.12).

Gesù sarà il solo che, adempiendo interamente la legge, permetterà a tutti gli uomini e donne che avranno creduto in lui di essere idonei a presentarsi senza timore alla presenza di Dio: come già letto in Giovanni, Gesù è Colui che ha dato a tutti coloro che l’hanno accolto “l’autorità – o poteredi diventare figli di Dio”, quindi passare dallo stato di creatura, comune a tutti nel mondo, a quello di figli come scriverà poi l’apostolo Paolo nella sua lettera ai Romani, “Se siamo figli, siamo anche eredi, eredi di Dio e coeredi di Cristo, se pure soffriamo con lui per essere anche con lui glorificati” (8.17).

Il salvare dai peccati significa liberare l’uomo dal giogo della legge, aprire un canale di comunicazione con Dio Padre prima impensabile. È una questione di condizione, di prospettive, di comprensione e possiamo ricordare, a proposito della dispensazione della Legge, l’amara riflessione di Salomone nell’Ecclesiaste: “…tutto ciò che succede ai figli degli uomini succede alle bestie, a entrambi succede la stessa cosa: come muore l’uno, così muore l’altra. Sì, hanno tutti uno stesso soffio e l’uomo non ha alcuna superiorità rispetto alla bestia, perché tutto è vanità. Tutti vanno nello stesso luogo: tutti vengono dalla polvere e tutti ritornano alla polvere” (3.19,20).

È lui che salverà il suo popolo dai loro peccati”: l’apostolo Pietro dirà “Dio lo ha esaltato con la sua destra e lo ha fatto principe e salvatore per dare a Israele ravvedimento e perdono dei peccati” (Atti 5.31), senza considerare il discorso illuminante il di Paolo nella Sinagoga di Antiochia in Atti 14.13-23.

A conclusione del racconto dell’annuncio in sogno a Giuseppe, Matteo come sua consuetudine fa un raccordo con le parole dei profeti dell’Antico Testamento, in questo caso Isaia 7.14 che già allora dava le “istruzioni” per individuare l’Eletto in un bambino partorito da una vergine. Matteo nel suo citare Isaia va direttamente al nocciolo, senza trascrivere le prime parole di del verso che gli ebrei conoscevano molto bene: “Ecco, il Signore vi darà un segno”. Un segno certo inequivocabile vista l’impossibilità che una vergine possa dare alla luce un figlio.

Leggiamo che “Giuseppe, destatosi dal sonno, fece come l’angelo del Signore gli aveva ordinato, e ricevette la sua moglie”. La “giustizia” di Giuseppe si rivela anche in questo atto di obbedienza: sarebbe stato padre di un figlio non suo, ma certo non di un altro uomo.

Ma egli non la conobbe fino a quando ella non ebbe partorito il suo figlio primogenito, al quale pose nome Gesù” è il verso che ha generato più confusione in assoluto, ma solo a quanti hanno voluto sostenere il ruolo di Maria come solo madre e non anche moglie. L’originale greco, come la traduzione latina di San Girolamo, riportano “donec”, cioè “fino a quando”. Controversie ci sono anche sul “primogenito”, che alcuni manoscritti non riportano. Quello che è certo è che Giuseppe si astenne dai rapporti coniugali fino al parto di Maria attendendo i giorni prescritti dalla legge (40 secondo Levitico 12.2-4) prima di avere rapporti carnali con lei.

Ponendo il nome Gesù al bambino, sia lui che Maria accettarono ufficialmente il ruolo cui Dio li aveva destinati. Fu quella la loro “firma” al contratto di ubbidienza alla volontà di JHWH.

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