01.10 – BENEDICTUS II/II (Luca 1.67-80)

01.10 – Benedictus II/II (Luca 1.67-80)

 

67Zaccaria, suo padre, fu colmato di Spirito Santo e profetò dicendo:68«Benedetto il Signore, Dio d’Israele, perché ha visitato e redento il suo popolo,69e ha suscitato per noi un Salvatore potente
nella casa di Davide, suo servo, 70come aveva detto per bocca dei suoi santi profeti d’un tempo:
71salvezza dai nostri nemici, e dalle mani di quanti ci odiano. 72Così egli ha concesso misericordia ai nostri padri e si è ricordato della sua santa alleanza, 73del giuramento fatto ad Abramo, nostro padre, di concederci, 74liberati dalle mani dei nemici, di servirlo senza timore, 75in santità e giustizia al suo cospetto, per tutti i nostri giorni. 76E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo perché andrai innanzi al Signore a preparargli le strade, 77per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza nella remissione dei suoi peccati. 78Grazie alla tenerezza e misericordia del nostro Dio, ci visiterà un sole che sorge dall’alto, 79per risplendere su quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra di morte, e dirigere i nostri passi sulla via della pace». 80Il bambino cresceva e si fortificava nello spirito. Visse in regioni deserte fino al giorno della sua manifestazione a Israele”.

Se la prima parte del cantico di Zaccaria è incentrata sulla realizzazione delle promesse di Dio rivolte al popolo tramite i profeti, la seconda si basa interamente sul ruolo di Giovanni Battista, precursore del Messia. Le parole profetiche di Zaccaria esaminate brevemente la volta scorsa avevano riguardato l’inizio del nuovo cammino che il popolo di Dio avrebbe dovuto compiere, ma quelle su Giovanni riguardano l’immediato futuro e il suo ruolo così importante per il popolo di Israele. Il padre usa nei confronti del proprio figlio parole quasi di rispettoso distacco: mancano espressioni del tipo “figlio mio” o quant’altro indichi una rivendicazione di appartenenza, ma semplicemente “o piccolo bambino”, a sottolineare la distanza fra ciò che Giovanni era e ciò che diventerà al di là della relazione filiale, molto meno importante rispetto al ruolo che avrebbe avuto, cioè riprendere il servizio profetico, interrotto da 400 anni, e di preparazione alle vie del Cristo. Non che gli altri profeti non l’avessero fatto, ma la loro opera era tesa sia a testimoniare che l’assistenza di Dio non veniva meno nei secoli, sia a descrivere sempre più nei dettagli ciò che sarebbe avvenuto man mano che il piano di salvezza per l’uomo andava avanti. Giovanni avrebbe preparato le strade davanti al Signore con uno stile di vita particolare tipico del Nazireo e una predicazione che Matteo sintetizza con le parole “Ravvedetevi, perché il regno dei cieli è vicino” (3.2). Sono le stesse con le quali anche Gesù inizierà a predicare (4.17) con miracoli nelle sinagoghe.

Ravvedetevi”, imperativo greco (metanoèite), che indica un cambiamento di pensiero e di sentimento relativamente al peccato e a un modo di vita non consono agli ideali di Dio. Il ravvedimento porta non solo a deplorarle, ma anche ad abbandonarle interamente perché non ci appartengono più. Giovanni, per “preparare le vie” del Signore, avrebbe svolto un’opera di invito ad una valutazione della propria vita e del proprio modo di pensare visto, per coloro che conoscevano la legge e la scrittura, nella capacità di avvertire i propri errori non come una semplice colpa, un peso che Dio avrebbe potuto perdonare dietro l’osservanza di un cerimoniale, ma come qualcosa di ostacolante la relazione con Lui e che solo Lui avrebbe potuto rimuovere.

La necessità del ravvedimento urgeva in vista del “Regno dei cieli” che era vicino. Non è una frase fatta, ma l’annuncio di qualcosa atteso da tempo da tutte le anime sensibili di allora e di oggi. Se viene detto che quel regno ora è vicino, significa che prima era lontano. “Regno dei cieli” è un’espressione che usa solo Matteo e corrisponde, negli altri Vangeli, al “Regno di Dio” ed entrambe alludono a diverse cose: prima di tutto la nuova era della Grazia che stava per cominciare, ma anche la liberazione del peccato, la santificazione, la vita sotto una nuova prospettiva.

L’ “andrai innanzi” indica il precedere il Cristo non in ordine di importanza, ma come una sorta di araldo che avrebbe informato che stava per arrivare Colui del quale avevano parlato la legge e i profeti. Il “preparargli le strade” è un’espressione che infatti richiama le parole di Isaia, che scrisse nel 750 a.C. : “Una voce grida: Nel deserto preparate la via al Signore, spianate nella steppa la strada per il nostro Dio. Ogni valle sia innalzata. Ogni monte e ogni colle siano abbassati; il terreno accidentato si trasformi in piano e quello scosceso in vallata” (40.3-4); questo testo allude al rientro in patria da Babilonia a Gerusalemme che fecero gli esuli ebrei quando Ciro, re di Persia, nel 538 a.C., li autorizzò a tornare in patria. Guardando così a quella storia per loro non troppo lontana, gli ebrei del tempo di Giovanni avevano bene in mente che nel 586 a.C. Gerusalemme era stata distrutta col suo Tempio, che il popolo fu deportato e poté tornare dopo circa 50anni. Ecco allora che Giovanni Battista sarebbe stato l’ultimo profeta dell’Antico Testamento e avrebbe fatto da ponte tra quello e il Nuovo: le strade di Dio si sarebbero incrociate con quelle degli uomini che, riconosciutele, le avrebbero intraprese.

E lo scopo delle vie di Dio le dichiara lo stesso Zaccaria: “Per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza nella remissione dei suoi peccati”. Non è detto che Giovanni sarebbe diventato il precursore di un condottiero potente, ma di uno che avrebbe fatto conoscere “al suo popolo”, Israele nell’immediato, ma poi a tutti gli altri, la “conoscenza della salvezza”: riflettendo sul termine, se nella nostra mentalità “conoscenza” è sinonimo di sapere, ottenere dei dati attraverso uno studio, per gli ebrei era sinonimo di provare qualcosa su di sé, sperimentare, vivere. Ciò equivaleva allora all’invito, alla certezza di trovare un rifugio e un riparo sicuro presso Dio, alla certezza di appartenergli in virtù della “remissione dei peccati”. Ricordiamo le parole di Gesù in Luca 13.34,35 che rivela le intenzioni di Dio contrapposte al rifiuto della maggioranza: “Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi coloro che ti sono mandati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli come una gallina la sua covata sotto le ali e voi non avete voluto! Ecco, la vostra casa è lasciata deserta! Vi dico infatti che non mi vedrete più fino al tempo in cui direte «Benedetto colui che viene nel nome del Signore!»”.

Se nel Salmo 32.1 leggiamo “Beato l’uomo a cui è tolta la colpa e coperto il peccato”, in Efesi 1.19 abbiamo la grande apertura che ogni uomo o donna può vivere oggi qualora accetti Gesù come suo personale salvatore, riconoscendosi peccatore e lontano da Dio: “Voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e famigliari di Dio”.

Zaccaria prosegue così: “Grazie alle tenerezza e alla misericordia del nostro Dio, ci visiterà un sole che sorge dall’alto, per risplendere su quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra di morte, e dirigere i nostri passi sulla via della pace”: compare in questo cantico il verbo “visitare” per la seconda volta: nel primo caso, che abbiamo cercato di sviluppare nella scorsa riflessione, Dio ha “visitato il suo popolo”, realtà che ci parla di un’azione valutativa sotto la spinta della Sua “tenerezza e misericordia”, ma nel secondo abbiamo la conseguenza di tutto questo, cioè l’arrivo di un “sole che sorge”. Di “Un” e non “del”: un’altra luce, un altro progetto, un altro scopo, un altro genere di illuminazione e riscaldamento. L’apostolo Giovanni scrive “Egli – Giovanni Battista – non era la luce, ma doveva rendere testimonianza della luce. Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo” (1.8-9). Possiamo fare ancora una citazione da Malachia 4.2 “Per voi, che avete timore del mio nome, sorgerà con raggi benefici il sole di Giustizia” e da Isaia che dice al popolo “Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla su di te” (60.1).

Simeone, dopo che prese in braccio Gesù quando aveva 8 giorni e fu presentato al tempio come primogenito, disse : “Ora lascia, Signore, che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli, luce per illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele” (Luca 2.29,32). “Illuminare le genti” nel senso di proiettarle in una vita nuova che si sarebbe svolta non più nelle tenebre. Paolo scrisse ai credenti della Chiesa di Efeso “Ricordatevi che voi in quel tempo – cioè prima di conoscere il piano di Dio ed averlo accolto – eravate senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza di Israele, estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio in questo mondo” (2.12). Lo stare “nelle tenebre e nell’ombra della morte” è la condizione di ogni essere umano che vive senza la luce che solo il “Sole di giustizia”, quello che “sorge” può dare: lo stare nelle tenebre implica spiritualmente il non vedere, quindi incapacità di valutare, percepire, dirigersi, orientarsi. La permanenza nell’ombra della morte invece si riferisce non solo alla prospettiva certa che tutti hanno, ma ad uno stato di non illuminazione che trova nella morte l’unica prospettiva possibile. Ora se la morte, per chi vive nelle tenebre, rappresenta la fine di tutto (quindi progetti, desideri, l’essere se stessi con i propri averi), per chi è illuminato dal “Sole di giustizia” non esiste più alcuna ombra di morte, ma il passaggio dalla questa alla vita: “In verità, in verità vi dico: chi ascolta la mia parola e crede in colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita” (Giovanni 5.24).

Da notare inoltre che il sole che sorge dall’alto di cui parla Zaccaria è detto che risplende, non si limita a mandare una luce generica, non ci sono nubi a coprirlo. È una luce forte e vivida quella che investe chi ne è illuminato, per cui questi si viene a trovare in una condizione diametralmente opposta alla prima.

Non solo, ma questo sole dirige i passi su una vita particolare, quella della pace. Non c’è altra pace al di fuori di quella che solo Gesù Cristo può dare, che disse “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Io non la do come la dà il mondo” (Giovanni 14.21). La “via della pace” non è quella della tranquillità, di uno stato mentale raggiungibile attraverso una generica meditazione o ad imitazione del Budda, che pure aveva capito molte dinamiche della psicologia umana, non implica un percorso libero né da turbamenti né da errori, ma è quella conseguente alla rappacificazione con Dio, che fa scendere sulla creatura una pace particolare, diversa: il pieno confidare in Lui e la conoscenza, la certezza di essere nelle sue mani.

A questo punto Zaccaria conclude il suo intervento e Luca inserisce questa nota: “Il bambino cresceva a si fortificava nello spirito. Visse in regioni deserte fino al giorno della sua manifestazione a Israele”. C’è qui descritto un periodo di trent’anni circa salvo altri, pochi dettagli sul come si vestiva e come si nutriva. Giovanni non frequentava le scuole rabbiniche del tempo, ma visse i silenzi del deserto e crebbe illuminato dallo Spirito Santo che lo preparò alla predicazione, fortificandosi nello spirito, quindi nella parte più profonda della sua persona, e pare molto improbabile che, come alcuni hanno supposto, fosse stato affidato alla comunità di Qumran.

Nel deserto non esistono rumori al di fuori di quello del vento, se presente. Giovanni visse così “fino al giorno della sua manifestazione a Israele”, quindi attese che Dio stesso gli rivelasse il momento di agire predicando con modalità e parole riferite in parte dai Vangeli, ma che troveremo nei profeti dell’Antico Testamento.

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01.09 – BENEDICTUS I/II (Luca 1.67-80)

01.09 – Benedictus I/II (Luca 1.67-80)

 

67Zaccaria, suo padre, fu colmato di Spirito Santo e profetò dicendo:68«Benedetto il Signore, Dio d’Israele, perché ha visitato e redento il suo popolo,69e ha suscitato per noi un Salvatore potente
nella casa di Davide, suo servo, 70come aveva detto per bocca dei suoi santi profeti d’un tempo:
71salvezza dai nostri nemici, e dalle mani di quanti ci odiano. 72Così egli ha concesso misericordia ai nostri padri e si è ricordato della sua santa alleanza, 73del giuramento fatto ad Abramo, nostro padre, di concederci, 74liberati dalle mani dei nemici, di servirlo senza timore, 75in santità e giustizia al suo cospetto, per tutti i nostri giorni. 76E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo perché andrai innanzi al Signore a preparargli le strade, 77per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza nella remissione dei suoi peccati. 78Grazie alla tenerezza e misericordia del nostro Dio, ci visiterà un sole che sorge dall’alto, 79per risplendere su quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra di morte, e dirigere i nostri passi sulla via della pace». 80Il bambino cresceva e si fortificava nello spirito. Visse in regioni deserte fino al giorno della sua manifestazione a Israele”.

Sicuramente colpisce la precisazione di Luca su quest’uomo che, dopo aver ritrovato parola e udito, si espresse solo in termini atti a glorificare Dio: “fu colmato di Spirito Santo e profetizzò”. Zaccaria era un sacerdote, quindi una persona qualificata a quel tempo (anche) come mediatore tra JHWH e l’uomo che commetteva un peccato. Sappiamo che sia lui che sua moglie erano, come detto da Luca, “ambedue giusti davanti a Dio, camminando in tutti i comandamenti e leggi del Signore, senza biasimo”, ma senza l’intervento dello Spirito le sue sarebbero solo rimaste delle parole ammirevoli e sagge, buone tutt’al più come quelle utilizzate dagli “amici” venuti per consolare Giobbe dalle sue disgrazie. Invece la condizione di Zaccaria fu duplice: “ripieno di Spirito Santo” – la condizione – e “profetizzò”, che non significa predire il futuro come molti credono, ma parlare correttamente di Dio sospinti dallo Spirito, il solo che può orientare la persona e farle comprendere le verità e i piani del Signore per sé e per altri.

Per il credente sincero, nonostante gli sbagli che commette nella propria vita per la sua stessa debolezza, lo Spirito Santo è colui che può orientarlo e illuminarlo, come disse Nostro Signore ai suoi discepoli in Giovanni 14.15-17: “Se mi amate, osservate i miei comandamenti. Ed io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore, che rimarrà con voi per sempre, lo Spirito della verità che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce, ma voi lo conoscerete, perché dimora con voi e sarà in voi”.

Il cantico che segue dopo questa brevissima premessa inizia con un’espressione molto antica,

ma tutto il resto delle sue parole sono, per l’epoca e non solo, assolutamente nuove perché capiamo che, di lì a poco, Dio avrebbe adempiuto le promesse fatte agli antichi e di cui avevano parlato i profeti. La critica neotestamentaria ha visto nelle parole di Zaccaria numerosi riferimenti agli scritti dell’Antico Patto e non vede in esse nulla di eccezionale e questo può essere vero se non si considera il tempo in cui queste furono pronunciate. Il padre di Giovanni Battista è conscio che quello e non altri erano i momenti in cui il Dio di Israele stava visitando e compiendo la redenzione del suo popolo, nelle sue parole non c’è nulla pronunciato per una ritualità o convenzione, ma il visitare è per redimere o, meglio ancora secondo un’altra traduzione, “ha visitato e riscattato il suo popolo”. Il “riscattare”, per la legge di Mosè, era un’azione prevista per riavere una cosa altrimenti perduta, ma soprattutto per liberare una persona tenuta in schiavitù; ad esempio in Deuteronomio 7.8 leggiamo “…perché l’Eterno vi ama e ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri, l’Eterno vi ha fatto uscire con mano potente e vi ha riscattati dalla casa di schiavitù, dalla mano del Faraone, re d’Egitto”.

Ancora, sempre in proposito, si parla in Deuteronomio 13.5 “…vi ha redenti dalla casa di schiavitù per trascinarvi fuori dalla via nella quale l’Eterno, il tuo Dio, ti ha ordinato di camminare”. Ogni uomo di Dio ha sperimentato un Esodo nella propria vita: dai propri parenti, dal proprio mondo, dalla schiavitù di se stesso. Le azioni storiche che Zaccaria ha ben presente, fatte nella prospettiva del piano di Dio che contemplava la progenie della donna schiacciare il capo al serpente, le vede compiute sotto una prospettiva spirituale nonostante Giovanni fosse nato da otto giorni e Gesù non ancora. Zaccaria, che conosceva la storia del suo popolo, vede il visitare di Dio come un atto di pietà e non di giudizio come, ad esempio, avvenne la prima volta che “scese” per vedere la costruzione della torre in Babele: Egli, che non può mai essere neutrale, è ora venuto per redimere, cioè liberare dal peccato e dalle sue conseguenze che potevano essere constatate, allora come oggi, dalla presenza di malattie, indemoniati, dal giogo di un dominatore straniero che solo apparentemente erano i romani, ma che nella realtà spirituale simboleggiava il peccato che impediva una serena relazione con Dio. Ogni uomo, prima di conoscere Cristo, ha e avrà sempre un suo dominatore straniero, spirituale o fisico che sia.

Proseguendo nel cantico, Zaccaria riconosce che la salvezza proveniva dalla “casa di Davide suo servo, come Egli aveva dichiarato per bocca dei suoi santi profeti fin dai tempi antichi, perché fossimo salvati dai nostri nemici e da tutti coloro che ci odiano”. La traduzione letterale delle prime parole del verso non è di facile comprensione perché dice “destò un corno di salvezza per noi nella casa di Davide suo servo” per cui il suscitare una potente salvezza, per quanto rispondente a verità, oscura leggermente la comprensione di un simbolo che si trova molte volte nell’Antico Testamento, soprattutto nel linguaggio profetico. Il corno, per l’animale che lo possiede, è al tempo stesso arma offensiva e difensiva ed è espressione di potenza (da ricordare per la lettura dell’Apocalisse), per cui: “Dio ha destato – dichiarazione di avvenimento anche se i suoi effetti non si manifesteranno ancora – un corno di salvezza”,- quindi una salvezza potente e soprattutto duratura, stabile: non è un “corno” animale, naturale, ma qualcosa che proviene direttamente da Dio e che nessuno potrà mai sconfiggere.

Tornando quindi alla traduzione più comprensibile: questa salvezza, impossibile a togliersi, viene dalla casa di Davide (Maria e Giuseppe), la sola a poter garantire che quel “germoglio”, quella “progenie della donna” che avrebbe schiacciato il capo al serpente, fosse veramente Gesù Cristo. Non a caso, se la genealogia di Matteo si riferisce a Giuseppe e parte da Abrahamo, quella di Luca, riferita a Maria, risale fino ad Adamo: è il ricordo di quella promessa e del giudizio sull’Avversario. È bello vedere che Dio non si limitò a pronunciare quelle parole una volta, ma le aggiornò nel corso del tempo, ripetendole agli uomini da lui preposti a guidare il popolo con l’autorità del condottiero o del re, o a consolarlo o riprenderlo per bocca dei profeti.

Zaccaria poi considera lo scopo di tutto questo: “perché fossimo salvati dai nostri nemici e da tutti coloro che ci odiano”: qui c’è un riferimento alle promesse dell’Antico Patto che sono contemporaneamente presenti e future a prescindere dal tempo in cui vengono pronunciate. Prendiamo l’ultimo profeta, Malachia, che abbiamo citato spesso a motivo dell’ultima parola con cui si chiude l’Antico Testamento: scrisse “Poiché ecco, il giorno viene, ardente come una fornace, e tutti quelli che operano empiamente saranno come stoppia; il giorno che viene li brucerà in modo da non lasciar loro né radice né ramo. Ma per voi che temete il mio nome – solo per questi, quindi – sorgerà il sole della giustizia con la guarigione nelle sue ali e voi uscirete e salterete come vitelli di stalla. Calpesterete gli empi perché saranno cenere sotto la pianta dei vostri piedi nel giorno che io preparo, dice il Signore degli eserciti” (4.1-3).

Zaccaria, riportando le promesse degli antichi, allude alla liberazione totale dal giogo penalizzante del peccato per tutti gli uomini che l’avrebbero accolta, ma non solo: esprimendo un concetto che esporrà l’apostolo Paolo, sostiene la sconfitta del nemico per eccellenza, Satana, e da qualsiasi altra forza oscura: “Infatti io sono persuaso che né morte, né vita, né angeli, né principati, né potenze, né cose presenti, né cose future, né altezze, né profondità, né alcun’altra creatura potrà separarci dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù, nostro Signore” (Romani 8.38).

Riflettendo sul paragone tra le due frasi possiamo dire che Zaccaria, uomo del suo tempo, proclama giunto il tempo in cui Dio ha provveduto alla “potente salvezza dalla casa di Davide suo servo” mentre il secondo, che proveniva dallo studio della Legge, fariseo zelante e profondo conoscitore della tradizione rabbinica, ci dà un aggiornamento reale e adatto alla nostra realtà di uomini che vivono in un nuovo tempo, quello della Grazia. Non solo: “A me, il minimo di tutti i santi, è stata data questa grazia di annunciare fra i gentili – quindi a noi – le imperscrutabili ricchezze di Cristo e di manifestare a tutti la partecipazione del mistero che dalle età più antiche è stato nascosto in Dio, il quale ha creato tutte le cose per mezzo di Gesù Cristo” (Efesi 3.8-10).

Un’ultima riflessione su cosa abbia voluto dire Zaccaria, che parla a un uditorio di ebrei e fonda le sue parole sulle rivelazioni profetiche giunte fino a lui, è ancora Paolo a fornirla: “Siccome per mezzo di un uomo – Adamo – è venuta la morte, così anche per mezzo di un uomo – Gesù – è venuta la resurrezione dai morti. Perché, come tutti muoiono in Adamo – perché così come concluse la sua vita noi concluderemo la nostra – così tutti saranno vivificati in Cristo. (…). Poi verrà la fine, quando rimetterà il regno nelle mani di Dio Padre, dopo avere annientato ogni dominio, ogni potestà e potenza. Bisogna infatti che egli regni finché non abbia messo tutti i nemici sotto i suoi piedi e l’ultimo nemico che sarà distrutto sarà la morte” (1 Corinti 21.26).

Arriviamo così alle parole che concludono la prima parte del cantico, “Per usare misericordia verso i nostri padri e ricordarsi del suo santo patto, il giuramento fatto ad Abrahamo nostro padre, per concederci che, liberati dalle mani dei nostri nemici, lo potessimo servire senza paura, in santità e giustizia, tutti i giorni della nostra vita”: la liberazione dalle mani dei nemici, come visto poco prima, non può essere intesa come storica poiché le vicende antiche da noi conosciute nella Bibbia, vale a dire quelle che hanno visto il popolo di Dio liberato dalla dominazione straniera, hanno sempre avuto un significato, uno stato, una conseguenza, un effetto spirituale: Israele oppresso in Egitto e liberato da Dio al mar Rosso era ed è figura dell’uomo che vive oggi in una condizione di peccato, incapace di provare sentimenti e comprensioni spirituali nel vero senso del termine. Perché noi sappiamo bene che “L’uomo naturale non riceve le cose dello Spirito di Dio perché sono follia per lui e non le può conoscere, poiché si giudicano spiritualmente” (1 Corinti 2.14). Ecco, chi vive la propria vita di tutti i giorni, perso nei propri interessi, legato al contingente perché ha inserito nel proprio animo dei valori che ritiene prioritari, “non riceve le cose dello Spirito di Dio”; può riceverne altre, tutte quelle che con Lui non hanno nulla a che fare. Non le riceve perché, alla luce dei propri valori e convinzioni scontate ed errate, “sono follia per lui”. La conseguenza è che “non le può conoscere, perché si giudicano spiritualmente”.

Ecco, quando a un uomo, o donna, è stata data l’autorità di diventare figlio di Dio, gli viene conferita un’abilitazione alla possibilità, capacità di rivedere le cose spirituali in base alla grazia che gli viene data. Da lì in poi è chiamato a servire senza paura, in santità e giustizia, tutti i giorni della propria vita oppure, secondo una traduzione dalle versioni più antiche, “tutti i nostri giorni”. Si tratta di un servizio in “santità e giustizia”, non più secondo i desideri dell’uomo vecchio, ma di quello nuovo che vede le cose secondo una prospettiva di realizzazione eterna e non umana.

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01.03 – ZACCARIA (Luca 1. 18-25)

18Zaccaria disse all’angelo: «Come potrò mai conoscere questo? Io sono vecchio e mia moglie è avanti negli anni». 19L’angelo gli rispose: «Io sono Gabriele, che sto dinanzi a Dio e sono stato mandato a parlarti e a portarti questo lieto annuncio. 20Ed ecco, tu sarai muto e non potrai parlare fino al giorno in cui queste cose avverranno, perché non hai creduto alle mie parole, che si compiranno a loro tempo».21Intanto il popolo stava in attesa di Zaccaria e si meravigliava per il suo indugiare nel tempio. 22Quando poi uscì e non poteva parlare loro, capirono che nel tempio aveva avuto una visione. Faceva loro dei cenni e restava muto. 23Compiuti i giorni del suo servizio, tornò a casa. 24Dopo quei giorni Elisabetta, sua moglie, concepì e si tenne nascosta per cinque mesi e diceva: 25«Ecco che cosa ha fatto per me il Signore, nei giorni in cui si è degnato di togliere la mia vergogna fra gli uomini».”.

 

            Con questi versi si conclude l’episodio dell’annuncio angelico a Zaccaria, sacerdote impegnato nell’offerta dell’incenso all’altare del luogo Santo. Dalla lettura del primo verso, il 18, emerge un dato già esposto nello studio precedente, dove abbiamo letto che “Elisabetta era sterile e tutti e due erano avanti negli anni”: Zaccaria si definisce “vecchio” e per sua moglie usa la stessa espressione dell’evangelista, “avanti negli anni”. Sappiamo che tutti coloro che prestavano servizio al Tempio dovevano avere un’età compresa fra i “trenta e i cinquant’anni” (Numeri 3) per cui quel sacerdote doveva necessariamente non averli ancora raggiunti. Indicando Elisabetta come persona “avanti negli anni”, poi, usava un’espressione che alludeva all’età fertile della donna che, al suo grado massimo dei 20 – 25 anni decresce fino ad arrivare allo zero attorno ai 44, per quanto oggi questo limite sia stato superato. Essendo Elisabetta sterile, in pratica Zaccaria vedeva una doppia impossibilità in sua moglie a partorire anche tenendo presente gli anni che aveva lui stesso, poiché anche gli uomini, sposandosi giovanissimi secondo la nostra ottica occidentale, avevano figli a un’età compresa tra i 14 e i 16 anni.

Pensando queste cose nell’immediatezza dell’annuncio, Zaccaria chiede all’angelo un segno, perché la traduzione letterale della domanda è “Da che cosa conoscerò questo?”; si tratta di una richiesta apparentemente identica ad altre che troviamo negli scritti dell’Antico Patto fatte in situazioni analoghe: pensiamo ad Abramo che, riferendosi al territorio che Dio gli aveva promesso, chiese “Signore Dio, come potrò sapere che ne avrò il possesso?” (Genesi 15.8). Possiamo ricordare anche Gedeone che disse “Se ho trovato grazia ai tuoi occhi, dammi un segno che proprio tu mi parli” (Giudici 6.17), per non dire di Maria stessa, madre di Gesù che, quando lo stesso angelo Gabriele le annuncerà la nascita di un figlio, chiederà “Come avverrà questo, perché non conosco – nel senso di avere rapporti coniugali – uomo?”.

            Riguardo alle parole di Zaccaria, molti commentatori hanno difficoltà a capire come mai fu punito per avere rivolto a Gabriele una domanda che, in fin dei conti, altri avevano porto senza subire conseguenze. Va detto che in tutti i tre i casi ricordati c’era già stato, a monte, il credere nelle promesse di Dio: Abramo chiese un segno dopo aver creduto alla promessa che avrebbe avuto una discendenza e Gedeone era veramente desideroso di capire perché erano avvenuti determinati avvenimenti negativi al suo popolo: senza preconcetti e riserve chiese all’angelo “Perdona, mio signore: se il Signore è con noi, perché ci è capitato tutto questo?”. Maria, infine, non manifestò dubbi sul fatto che avrebbe dato alla luce il figlio annunciato, ma chiese come sarebbe stato possibile visto che non era ancora sposata e con Giuseppe non aveva avuto rapporti. Tutti questi personaggi, quindi, rivolsero domande legittime, dettate dal voler capire e sapere, ma Zaccaria non volle tener conto di alcuni elementi che gli sarebbero stati sufficienti per accogliere il messaggio rivoltogli.

L’apparizione dell’Angelo accanto all’altare dell’incenso, quindi nel luogo Santo inaccessibile a chiunque pena la morte, era già garanzia di un evento soprannaturale. “La tua preghiera è stata esaudita” era poi un’affermazione che chiaramente si riferiva a qualcosa di molto personale che solo Zaccaria e Iddio potevano conoscere, per cui da quell’annuncio avrebbe potuto avere solo gioia e non dubbio. Ricordiamo che Natanaele riconobbe in Gesù “il Figlio di Dio, il Re d’Israele” solo perché gli disse di averlo visto sotto un albero di fichi. Zaccaria quindi, uomo pio che camminava con Elisabetta “in tutti i comandamenti del Signore, senza biasimo”, in quel caso non credette e perciò fu punito – o meglio ebbe nel mutismo il “segno” chiesto – rimanendo incapace prima di tutto di pronunciare quelle parole di benedizione che il popolo aspettava nel Tempio e poi di comunicare col suo prossimo: “Intanto il popolo stava in attesa di Zaccaria e si meravigliava per il suo indugiare tanto nel tempio” (v.21).

Teniamo presente che Zaccaria non chiese un segno sul fatto che sua moglie avrebbe un giorno partorito, ma pretendeva, dopo tutte le dettagliate descrizioni su cosa suo figlio avrebbe rappresentato e le caratteristiche che avrebbe avuto, un segno che le confermasse.

Con le parole “Io sono Gabriele, che sto davanti a Dio, e sono stato mandato per parlarti e portarti questo lieto annuncio”, l’angelo ricorda la sua dignità e funzione di messaggero potente: prima di lui era apparso soltanto a Daniele rivelandogli la visione dell’ariete e del capro (Daniele 8. 16-26) oltre al mistero delle settanta settimane di anni (9. 21-27). Certo Zaccaria aveva quanto meno sottovalutato la portata dell’annuncio e di colui che gli aveva parlato: “sto davanti a Dio” ci rimanda ad Apocalisse 8.2, all’apertura del settimo sigillo, “Quando l’Agnello aprì il settimo sigillo, si fece silenzio per circa mezz’ora. E vidi i sette angeli che stanno davanti a Dio, e a loro furono date sette trombe”. Gabriele, il cui nome significa “Uomo di Dio”, aveva onorato Zaccaria della sua presenza, senza contare il fatto che lo stesso Iddio l’Iddio di Israele aveva accolto la sua preghiera e della moglie e li aveva designati per essere i genitori del precursore del Suo Amato Figlio. Quell’uomo sarebbe rimasto così muto “fino al giorno in cui queste cose avverranno”, in realtà anche sordo perché leggiamo che, quando i suoi vicini e parenti volevano avere conferma sul nome di suo figlio, “domandavano con cenni a suo padre come voleva che si chiamasse” (Luca 1.62).

Zaccaria, in quel suo isolamento di circa nove mesi, ebbe modo così di riflettere su cosa significasse l’appartenere a quel Dio che un giorno disse a Mosè “Chi ha dato una bocca all’uomo o chi lo rende muto o sordo, veggente o meno?” (Esodo 4.11). Fu così che Zaccaria non si allontanò da Lui ritenendosi offeso o colpito ingiustamente, ma una volta riacquistate le sue normali facoltà esplose in un cantico che, se ne avremo la possibilità, esamineremo.

Zaccaria è per noi l’esempio di un uomo che dà per quello che è, conscio della responsabilità che aveva come sacerdote che per quanto era in suo potere, con un cuore desideroso di rimanere in comunione con Dio nella dispensazione in cui viveva, fece emergere la sua umanità là dove non avrebbe dovuto. Come mi disse un giorno un fratello, “si distrasse”. Zaccaria non ritenne il giudizio dell’angelo su di lui come qualcosa di eccessivo come Caino, che disse “Il mio castigo è troppo grande perché io lo possa sopportare” (Genesi 4.13) e poi si allontanò dalla presenza di YHWH, ma si identificò nelle parole di Proverbi 3.11,12 “Figlio mio, non disprezzare la punizione dell’Eterno e non detestare la sua correzione, perché il Signore corregge colui che gli ama, come un padre il figlio che gradisce”. È questo un verso importante che l’autore della lettera gli Ebrei commenta così: “È per vostra correzione che voi soffrite! Dio vi tratta come figli; e qual è il figlio che non viene corretto dal padre? Se invece non subite correzione, mentre tutti ne hanno avuto la loro parte, siete illegittimi, non figli! Del resto noi abbiamo avuto come educatori i nostri padri terreni e li abbiamo rispettati; non ci sottometteremo perciò molto di più al Padre celeste, per avere la vita? Costoro infatti ci correggevano per pochi giorni, come sembrava loro; Dio invece lo fa per il nostro bene, allo scopo di farci partecipi della sua santità. Certo, sul momento ogni correzione non sembra causa di gioia, ma di tristezza. Dopo, però, arreca un frutto di pace e di giustizia a quelli che per suo mezzo sono stati addestrati” (12. 7-11).

Giunti a questo punto non va trascurato un altro elemento dell’episodio, un protagonista apparentemente passivo che individuo nel popolo presente nei cortili del tempio che aspettava la benedizione che quel sacerdote non poteva pronunciare perché muto. Leggiamo “Capirono che nel tempio aveva avuto una visione. Faceva loro dei cenni, e restava muto” (v. 22). Il popolo fu testimone del primo evento ufficiale della manifestazione di Dio e chi avesse voluto indagare, come fece Luca, sulla persona del Battista, avrebbe potuto avere un primo elemento relativo all’autorità con la quale predicava. Figlio di sacerdoti va bene, ma annunciato con quelle manifestazioni era tutt’altra cosa. La stessa cosa si sarebbe potuta fare sulla persona di quel Gesù che diceva di essere il Cristo: esisteva un piano, una linea di eventi a catena inconfutabili.

Zaccaria rimase a Gerusalemme fino al termine della settimana di servizio che doveva prestare la sua classe e quindi se ne tornò a casa, che pare sia stata a Jutta, a poco più di sei chilometri dalla città. Secondo la promessa, Elisabetta rimase gravida, ma “si tenne nascosta cinque mesi”, cioè aspettando il sesto, quando il feto è già completamente formato, è in grado di sentire i suoni, le voci e si posiziona gradualmente a testa in giù in vista del parto. Mi sono chiesto perché Elisabetta si comportò in questo modo: penso che il suo fu un comportamento dettato dalla prudenza in considerazione della sua età avanzata oppure, dovendo essere Giovanni un nazireo, non voleva contrarre nessuna impurità. Alla moglie di Manoah, citata nella scorsa riflessione, fu detto “Guardati dal bere vino o bevanda inebriante e non mangiare nulla di impuro poiché ecco, tu concepirai e partorirai un figlio sulla cui testa non passerà rasoio, perché il bambino sarà un nazireo di Dio fin dal seno materno” (Giudici 13.4,5). Ancora, uno dei motivi del suo tenersi nascosta, poteva risiedere nel fatto che Elisabetta non desiderasse esporsi alla curiosità dei vicini dando così prova, oltre che di prudenza, di riservatezza, qualità non comuni soprattutto oggi, tanto nella donna che nell’uomo.

01.02- L’ANNUNCIO A ZACCARIA (Luca 1. 7-17)

 

7Essi non avevano figli, perché Elisabetta era sterile e tutti e due erano avanti negli anni.
8Avvenne che, mentre Zaccaria svolgeva le sue funzioni sacerdotali davanti al Signore durante il turno della sua classe, 9gli toccò in sorte, secondo l’usanza del servizio sacerdotale, di entrare nel tempio del Signore per fare l’offerta dell’incenso. 10Fuori, tutta l’assemblea del popolo stava pregando nell’ora dell’incenso. 11Apparve a lui un angelo del Signore, ritto alla destra dell’altare dell’incenso. 12Quando lo vide, Zaccaria si turbò e fu preso da timore. 13Ma l’angelo gli disse: «Non temere, Zaccaria, la tua preghiera è stata esaudita e tua moglie Elisabetta ti darà un figlio, e tu lo chiamerai Giovanni. 14Avrai gioia ed esultanza, e molti si rallegreranno della sua nascita, 15perché egli sarà grande davanti al Signore; non berrà vino né bevande inebrianti, sarà colmato di Spirito Santo fin dal seno di sua madre 16e ricondurrà molti figli d’Israele al Signore loro Dio. 17Egli camminerà innanzi a lui con lo spirito e la potenza di Elia, per ricondurre i cuori dei padri verso i figli e i ribelli alla saggezza dei giusti e preparare al Signore un popolo ben disposto».”.

                Considerando l’annuncio angelico a Zaccaria e la circostanza in cui avvenne, non si può trascurare la sterilità di Elisabetta la cui esperienza, per come si svilupperanno gli eventi, ha connessione con quella di altre donne dei tempi dell’Antico Patto: ricordiamo Sara moglie di Abramo, Rebecca di Isacco, Rachele di Giacobbe, la moglie di Manoah (Giudici 13.2), Anna di  Elkanà (1 Samuele 1.2), tutte costoro cambiarono la loro condizione a seguito di un intervento di Dio. Tra queste donne vi fu chi ricevette la visita di un angelo ad annunciare loro l’imminente nascita di un figlio (Sara e la moglie di Manoah) e chi venne esaudita a seguito di una preghiera loro (Rachele e Anna) o del marito (Rebecca). Questo dato verrà utile quando affronteremo la personalità del sacerdote Zaccaria cui “…toccò in sorte, secondo l’usanza del servizio sacerdotale, di entrare nel tempio del Signore per fare l’offerta dell’incenso” (v.8). A quel tempo infatti si decideva tirando a sorte chi degli 800 sacerdoti della classe di Abia avrebbe avuto il privilegio di offrire ogni giorno l’incenso nel Santo, cioè la prima delle due stanze che costituivano il tabernacolo all’interno del quale vi era l’altare dei profumi. In Esodo 30.7,8 leggiamo: “Aaronne brucerà su di esso l’incenso aromatico: lo brucerà ogni mattina, quando riordinerà le lampade, e lo brucerà anche al tramonto, quando Aaronne riempirà le lampade: incenso perenne davanti al Signore di generazione in generazione”.

Vanno considerate le parole di Dio a Mosè riguardo all’incenso: “Procurati balsami: storace, onice, galbano e incenso puro, il tutto in parti uguali. (…) Non farete per vostro uso alcun profumo di composizione simile a quello che devi fare: lo riterrai una cosa santa in onore del Signore. Chi ne farà di simile per sentirne il profumo sia eliminato dal suo popolo” (Esodo 30. 24-38).

Qui notiamo alcuni particolari: tutte le sostanze che componevano l’incenso sono balsami, cioè atti a lenire sofferenza per arrecare conforto, sollievo, consolazione. Secondo altre traduzioni erano “aromi”, cioè sostanze avente una caratteristica olfattiva propria, che la distingueva dalle altre. Erano tutte resine o comunque estratti mediante sofferenza degli esseri viventi – pensiamo all’onice, tradotto altrove con “conchiglia profumata” – da cui venivano ricavate. L’incenso per quell’uso doveva essere composto da elementi in parti uguali, in perfetto equilibrio tra loro, e doveva essere unico, il solo che sarebbe stato gradito a Dio, “una cosa santa in onore del Signore”: bruciato, sprigionava un profumo che non poteva essere riprodotto per curiosità o usi umani, pena la morte.

L’offerta dell’incenso avveniva su un altare ad esso dedicato e, se accompagnava le offerte sacrificali, questo era escluso da quelli compiuti per i peccati (Levitico 5.11 “Non metterà su di essa né incenso né olio perché è un sacrificio per il peccato” e Numeri 5.15 “Non vi verserà sopra né olio né vi metterà sopra incenso, perché è un’oblazione di cibo per gelosia, un’oblazione commemorativa destinata a ricordare una colpa”). Bruciare quell’incenso, allora, simboleggiava la preghiera di ringraziamento e di adorazione a Dio che non poteva venire inquinata dal peccato, ma aveva riferimento alla purezza di cuore, un’offerta unica riservata al solo Creatore e Signore dell’uomo come leggiamo in Salmo 141.2: “Salga la mia preghiera davanti a te come l’incenso, l’elevazione delle mie mani come il sacrificio della sera”. E nel libro dell’Apocalisse abbiamo dei riferimenti, come in 5.8 in cui si parla di “…profumi, che sono le preghiere dei santi”.

Quell’incenso, per il significato che aveva, non poteva essere prodotto per usi personali perché stava a simboleggiare un atteggiamento, una destinazione che spettava al solo Dio col quale l’uomo non poteva competere e realizzare quella sostanza per scopi diversi dall’adorazione veniva punita con la morte. Per la dispensazione della Legge vigeva il principio “Così toglierai il male di mezzo da te” (Deuteronomio 13.5). L’Oriente aveva profumi e incensi per gli usi più disparati, ma uno solo, quello con la composizione indicata in Esodo, spettava all’Iddio che Israele avrebbe dovuto adorare.

Se l’incenso aveva connessione con la preghiera e l’adorazione, è importante Esodo 30.9 in cui, a proposito dell’altare su cui veniva bruciato, si legge “Non vi verserete sopra incenso illegittimo, né olocausto, né oblazione, né vi verserete libagione”: sono parole che ci aiutano a capire il concetto di preghiera di offerta cristiana oggi, che non può contenere contraddizioni o disarmonie pena suo rifiuto, come ad esempio ricordato nel “Padre Nostro” con le parole “Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”, ma anche nella parabola del servo spietato (Matteo 18.21-35) e da altri elementi che Gesù porrà all’attenzione del suo uditorio.

A proposito della preghiera Giacomo, il “fratello del Signore”, scrive “Non avete perché non chiedete; chiedete e non ottenete perché chiedete male, per spendere per i vostri piaceri” (4.2,3).

L’offerta di quell’incenso così unico che il sacerdote offriva aveva due scopi: sottolineare e accompagnare la preghiera per l’unico Dio e, simbolicamente, annunciare il sacrificio del Cristo che si sarebbe offerto a Lui: “Cristo ci ha amati e ha dato se stesso per noi, in offerta e sacrificio a Dio come un profumo di odore soave” (Efesi 5.2). E lo scopo del sacrificio di Cristo è stato quello di “Sottrarci dal presente malvagio secolo secondo la volontà di Dio nostro Padre” (Galati 1.4), con particolare riguardo al destino comune di tutti quanti si identificano nel “malvagio secolo” condividendone ideali, prospettive e metodi. “Sottrarre” qui è da intendersi coi suoi sinonimi: salvare, liberare da un pericolo, salvaguardare da un danno.

L’incenso veniva offerto al mattino alle nove e al pomeriggio alle 15, preghiera per il giorno e per la notte, ma anche di attesa messianico: sarebbe venuto un tempo in cui quell’offerta avrebbe perso il suo significato, sostituito da un profumo di ben altra portata, definitivo, “il sacrificio di odor soave” di cui Paolo ha scritto ai credenti della Chiesa di Efeso.

 

Ora l’offerta dell’incenso fu per Zaccaria, che non aveva ancora compiuto 50 anni età in cui sarebbe stato messo a riposo, fu il punto culminante della sua carriera sacerdotale e alcuni hanno supposto che l’apparizione dell’Angelo avvenne nel corso dell’ufficio considerato serale, deducendolo dalla presenza di “tutta l’assemblea del popolo” che pregava.

Ecco, qui appare l’angelo “a destra dell’altare”, riferimento all’autorità e posizione che Gabriele aveva in relazione all’offerta dell’incenso. Si noti che l’altare, che era un parallelepipedo in legno di acacia rivestito d’oro, era il punto dal quale partiva l’offerta: l’altare di legno raffigurava l’uomo, il rivestimento d’oro ciò che allora era irraggiungibile e l’incenso offerto, nella composizione stabilita, era un ulteriore simbolo di perfezione, di preghiera accettata pienamente da Dio. L’angelo Gabriele era a destra di tutto questo. Non poteva esserci posizione più autorevole in testimonianza aggiunta a quanto stava per rivelare.

Zaccaria, alla vista dell’angelo, si spaventò. In tutta la Scrittura c’è sempre questa reazione nel momento in cui l’uomo incontra un essere spirituale e soprattutto santo, ma fu da lui immediatamente rassicurato con quel “Non temere” che compare in tutta la Bibbia per 356 volte, tanti sono i giorni dell’anno. Le prime parole, “Non temere”, furono quindi per lui e subito dopo gli viene detto che la sua preghiera era stata esaudita, in particolare quella di avere un figlio perché gli israeliti temevano che la propria casata potesse estinguersi e, infatti, la sterilità della donna era vista come una maledizione. Poi l’annuncio si sposta su qualcosa di inaspettato, cioè il nome da dare al figlio che avrebbe avuto da Elisabetta: Giovanni, che significa “Dio fa grazia”, oppure secondo altri “Dio ha esaudito”, o “Dio ascolta”, entrambi compresi nel primo. Qui abbiamo un caso particolare perché dare il nome al proprio figlio era un atto che competeva al padre. Giovanni sarebbe stato quindi una persona che avrebbe avuto una funzione precisa a prescindere dalla volontà umana e il suo nome, comandato dall’Alto e non scelto dal padre naturale, è indicativo per designare la sua missione di precursore del Messia continuamente ricordata, anche con riferimenti agli scritti dell’Antico Patto, da Matteo.

Veniamo al contenuto dell’annuncio: Gabriele dà a Zaccaria otto informazioni su Giovanni la prima delle quali è “Molti si rallegreranno della sua nascita”, che allude non tanto alla gioia che porta l’arrivo di un figlio desiderato ai genitori e ai parenti solidali con loro, ma a quella di tutti coloro che in Israele avrebbero creduto all’annuncio dell’imminente arrivo del Messia facendosi battezzare come testimonianza del loro ravvedimento. Sono convinto che, fra questi “molti”, siano inclusi anche tutti quegli esseri spirituali che, presenti nella Corte Celeste, vedevano il piano di Dio avanzare verso la meta perfetta, la costituzione della Gerusalemme celeste che avverrà dopo la definitiva sconfitta dell’Avversario e il Giudizio sull’umanità.

Il secondo dato è “Sarà grande nel cospetto del Signore”, descrizione del carattere, delle fatiche e della relazione di Giovanni con il Messia, per non parlare del fatto che sarebbe stato formato dallo Spirito Santo nella sua vita preparatoria nel deserto: “Il bambino cresceva e si fortificava nello spirito, e rimase nei deserti fino al giorno in cui doveva manifestarsi ad Israele” (Luca 1.80). La “grandezza” di cui parla l’angelo si sarebbe rivelata anche esteriormente col non bere “nè vino, né cervogia”, tradotto anche con “bevanda inebriante”, che poteva essere o l’antenata della birra, ottenuta dalla fermentazione di orzo e avena definita dai romani “barbaro vino d’orzo”, oppure un liquido ottenuto da fichi e datteri fermentati. Con queste parole Gabriele comunica a Zaccaria che suo figlio sarebbe stato un nazireo, cioè un consacrato, simbolo vivente della santità che trovava al suo opposto il lebbroso, considerato il simbolo vivente del peccato. Riflettendo sul nazireato in generale, bisogna sottolineare che se il separarsi dagli altri era volontario e temporaneo, per Giovanni sarebbe stata una condizione costante della sua vita, “fin dal ventre di sua madre” come lo furono Sansone e Samuele. Il Battista quindi sarebbe stato il terzo nazireo nella storia di Israele.

La quarta caratteristica sarebbe stata “ripieno dello Spirito Santo fin dal ventre di sua madre” cioè: in opposizione al vino e a ciò che inibisce le facoltà mentali, abbiamo tutta l’assistenza e l’amore di cui Giovanni avrebbe beneficiato in vista del compito che lo avrebbe atteso. Segue poi il risultato delle sue fatiche, quinto dato, viste nel convertire “molti dei figli di Israele all’Iddio loro”. Il messaggio del precursore sarà incentrato sul ravvedimento, sul cambiare il modo di pensare in vista dell’arrivo di Gesù: “Giovanni comparve nel deserto, battezzando e predicando un battesimo di ravvedimento per il perdono dei peccati. E tutto il paese della Giudea e quelli di Gerusalemme andavano a lui ed erano tutti battezzati da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati” (Marco 1.4,5).

Andrà innanzi a lui nello spirito e virtù di Elia”, sesto dato, denota la volontà e il desiderio unito alla forza e all’azione che aveva avuto Elia, suscitato come profeta e riformatore religioso in Israele nei giorni forse più oscuri della sua storia, quando Achab e sua moglie Jezebel avevano sostituito il culto di Baal al posto di quello per YHWH cercando di sterminare tutti i Suoi profeti. A questo punto non si può omettere la citazione di Malachia 4.5 “Ecco, io vi manderò Elia il profeta, prima che venga il giorno grande e spaventevole dell’Eterno”, parole che vennero spiegate da Gesù con “Tutta la Legge e i profeti hanno profetizzato fino a Giovanni. E se lo volete accettare, lui è l’Elia che doveva venire” (Matteo 11. 13,14).

Se poi confrontiamo le parole successive, “per ricondurre il cuore dei padri verso i figli e i ribelli alla saggezza dei giusti” con quelle di Malachia 4.6 “Fara ritornare il cuore dei padri ai figli e il cuore dei figli ai padri”, abbiamo l’espressione del concetto secondo cui appropriarsi del messaggio di Giovanni avrebbe implicato ammettere di non avere altre alternative all’infuori del ravvedimento, del cambiare modo di pensare ed agire indipendentemente dal fatto di essere padri o figli: “Ravvedetevi, perché il regno dei cieli è vicino” (Matteo 3.2) è un messaggio che riguardava la totalità del popolo.

Abbiamo infine lo scopo finale, l’ottavo e ultimo: “Preparare al Signore un popolo ben disposto”: con la sua predicazione, con il battesimo del ravvedimento, Giovanni avrebbe preparato il popolo a riconoscere il Cristo di Dio e lo indicò personalmente dicendo “Ecco l’Agnello di Dio che toglie il peccato del – non “dal” – mondo” facendo così emergere il fatto che c’era un popolo teorico, quello di Israele, e un popolo vero costituito da tutti coloro che, appartenendo a lui, avrebbero accettato la predicazione di quell’Agnello.

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01.01- ERODE, ZACCARIA, ELISABETTA (Luca 1.5-6)

01.01- Erode, Zaccaria, Elisabetta (Luca 1.5-6)

5Al tempo di Erode, re della Giudea, vi era un sacerdote di nome Zaccaria, della classe di Abia, che aveva in moglie una discendente di Aronne, di nome Elisabetta”. 6Ambedue erano giusti davanti a Dio e osservavano irreprensibili tutte le leggi e le prescrizioni del Signore”.

                 Nella riflessione precedente abbiamo accennato a come, per iniziare la lettura dei Vangeli, siano possibili delle alternative al prologo di Giovanni citando Matteo e Luca: il primo inizia dalla dignità regale di Gesù con una genealogia che parte da Abramo e il secondo, dopo la dedica a Teofilo – Sommo Sacerdote in Gerusalemme dal 37 al 41 – e una breve introduzione in cui illustra i metodi di indagine che caratterizzeranno la sua opera, colloca storicamente il suo primo episodio, l’annuncio dell’angelo Gabriele a Zaccaria.

Con le parole “Al tempo di Erode, re della Giudea” Luca ci pone negli anni tra il 40 a.C. e il 4 d.C. ma dobbiamo tener presente che, quando si parla di date, queste non possono essere prese con assoluta certezza stante l’errore di calcolo che commise Dionigi il Piccolo nel 525 d.C.: monaco sciita in Roma, Dionigi venne incaricato da Papa Giovanni I di stabilire una data per la Pasqua che, fin dal III secolo, veniva ricordata in tempi differenti dalla Chiesa d’Oriente e da quella d’Occidente. Per questo calcolo, molto complesso in cui non entro nei dettagli, Dionigi il Piccolo non volle contare gli anni, come in uso a quel tempo, a partire dal giorno in cui Diocleziano salì al trono e lasciò scritto così: “Non vogliamo che nei nostri calcoli c’entri in alcun modo la persona di un persecutore, ma piuttosto che occorra prendere in considerazione la nascita di Nostro Signore Gesù Cristo”. Dionigi stabilì così che il Salvatore fosse nato nell’anno 1 facendolo coincidere col 753 dalla fondazione di Roma, ma sbagliò di almeno quattro anni. Tenere presente questo errore è importante perché, consultando dei testi storici, ci potrebbero essere delle discrepanze che potrebbero disorientare.

Altra considerazione su “Al tempo di Erode” va fatta sul personaggio che, coi suoi eredi, domina la scena evangelica in una sorta di “dietro le quinte”, emergendo a volte in tutta la sua brutalità. Non è un personaggio che possiamo ignorare perché è il primo a venire citato storicamente dopo Teofilo, se iniziamo il nostro viaggio a partire da Luca.

Al tempo di Erode” è allora la scena di apertura che allude ad un’epoca molto triste per gli ebrei: Israele si trovava sotto il dominio straniero ed era senza profeti da circa 430 anni, tanti sono quelli che separano Malachia, ultimo dell’Antico Patto che conclude il suo scritto con la parola “sterminio”, da Giovanni Battista, che funge da spartiacque tra Antico e Nuovo.

Capire Erode, che non fu migliore o peggiore rispetto ai tanti re, imperatori o “guide” che hanno governato regioni più o meno estese del pianeta in ogni tempo, è necessario anche se si tratta di una figura non certo edificante. Quasi tutte le notizie che abbiamo su di lui ci provengono da Giuseppe Flavio, storico nato nel 37 a.C. a Gerusalemme, autore delle “Guerre Giudaiche” e delle “Antichità Giudaiche”.

 

Il padre di Erode, Antipatro, era ministro di Ircano II re di Giudea membro della dinastia degli Asmonei e, col favore di Giulio Cesare, riuscì ad usurpare l’autorità del suo principe ed essere nominato amministratore della regione. Quando Antipatro fu assassinato nel 43 (o nel 44) a.C., gli successero i figli Fasaele, descritto come nobile e coraggioso che divenne governatore della Galilea fino al 40 a.C., ed Erode, cui fu data la Giudea con Gerusalemme. Erode, detto il Grande, fu un politico astuto che favorì prima Marco Antonio e poi, dopo la di lui sconfitta ad Anzio nel 31, fece subito visita al suo rivale Ottaviano a Rodi togliendosi la corona in sua presenza e giustificandosi dell’appoggio dato ad Antonio, ma gli venne restituita e, con decreto, gli fu riconfermato il potere con godimento di autonomia interna e di libertà dai tributi a Roma, restando a lei soggetto nelle questioni di guerra e di politica estera. A Roma salì così sul Campidoglio per offrire sacrifici di ringraziamento a Giove Capitolino.

Gli anni dal 37 al 25 furono utili ad Erode soprattutto per consolidare il suo potere e furono caratterizzati dalla fredda, sistematica eliminazione di chiunque avrebbe potuto contestare o contrastare la sua autorità; ricordiamo fra i tanti il sedicenne Aristobulo III che in precedenza aveva nominato sommo sacerdote, fatto affogare in una piscina; ricordiamo come sue vittime anche Giuseppe, marito di sua sorella Salome, Ircano II, la moglie Mariamme e la suocera Alessandra. La sua crudeltà, fondata su un’ambizione insaziabile, era notoria ed era circondato da intrighi e cospirazioni che lo fecero combattere per la sua stessa sopravvivenza.

Gli anni dal 25 al 13 furono dedicati alla promozione culturale del suo regno, finanziata soprattutto con le tasse: favorì il culto dell’imperatore e, per rendere grandiosa la celebrazione quadriennale che si faceva, provvide alla costruzione di templi in suo onore, teatri, ippodromi, palestre, bagni e nuove città. A Gerusalemme edificò un teatro, un anfiteatro, parchi, giardini, fontane, un palazzo reale e la fortezza Antonia per poi procedere, nel tentativo di ingraziarsi il favore del popolo, alla magnifica costruzione di quel Tempio che, quanto ai cortili, fu completato verso il 63 d.C., otto anni prima che le truppe romane lo distruggessero nel 70. Fuori da Gerusalemme costruì Sebaste in onore di Augusto, con un tempio a lui dedicato, Cesarea Marittima col porto; edificò fortezze tra le quali quella di Macheronte, in cui sarà imprigionato Giovanni Battista, e Masada. Nonostante fosse re dei Giudei – ricordiamo le parole dei Magi “Dov’è il re dei Giudei che è nato?” che lo sconvolsero – non riuscì mai a guadagnarsi il loro appoggio in quanto, essendo idumeo, era disprezzato salvo che dagli “Erodiani”, corrente politica citata da Matteo e Marco.

Abbiamo infine il periodo dagli anni dal 13 a.C. al 4 d.C. che furono caratterizzati da conflitti famigliari interni: aveva sposato dieci mogli e col tempo ne aveva ripudiate alcune assieme ai loro figli. Una reale preoccupazione gli venne dai due nati da Mariamme, Alessandro e Aristobulo, che uccise nell’anno 7 a.C. assieme a 300 ufficiali accusati di parteggiare per loro. La sua ultima malattia fu terribile: Flavio Giuseppe scrive “Tutto il suo corpo fu preda della malattia, diviso tra varie forme di mali; aveva una febbre non violenta, un prurito insopportabile su tutta la pelle e continui dolori intestinali, gonfiori ai piedi come per idropisia, infiammazione all’addome e cancrena dei genitali con formazione di vermi, e inoltre difficoltà a respirare se non in posizione eretta, e spasmi di tutte le membra” (Guerre Giudaiche 1, 656). Cinque giorni prima di morire fece uccidere il primogenito Antipatro, da lui già designato erede al trono. Mentre era malato si sparse la voce che fosse morto e immediatamente due legali giudei colsero l’occasione per incitare il popolo ad abbattere l’aquila d’oro che stava sul Tempio di Gerusalemme: Erode lo seppe e si vendicò ordinando che fossero bruciati vivi.

Si potrebbe osservare, dopo questo elenco di nefandezze, che quanto scritto mal si adatti ad una “lectio” che, per gli scopi che si prefigge, dovrebbe avere solo temi edificanti; credo però che anche i dati negativi siano utili per capire alcune circostanze anche perché, se così non fosse, i libri storici della Bibbia si limiterebbero a non illustrare le azioni dei personaggi di cui è detto “Fece ciò che è male agli occhi del Signore”. Erode, morto nell’anno 4, non può essere solo un nome legato alla strage degli innocenti, fatto di cui il solo Matteo parla probabilmente perché, a fronte dei crimini commessi e di cui ho riportato una parte, appare un episodio paradossalmente trascurabile: erano figli del popolo, di persone umili, “poca cosa” rispetto alla gente “importante” che fece uccidere.

 

Al nome di Erode, che significa “discendente da eroi”, si contrappone quello di Zaccaria, “Dio si ricorda” o “si è ricordato”, sacerdote “della classe di Abia”. Anche qui è importante sviluppare il personaggio, cosa che faremo nel prossimo studio, per ora limitandoci agli stretti dati che ci fornire Luca nei versi oggetto di riflessione.

Zaccaria apparteneva all’ottava classe sacerdotale discendente da Abia, uno dei 24 nipoti del primo sommo sacerdote di Israele, Aaronne, fratello di Mosè. L’istituzione delle classi sacerdotali risaliva ai tempi di Davide quando, dovendo organizzarle, “…assieme con Sadoc dei figli di Eleazaro e con Achimelec dei figli di Itamar, li divise in classi secondo il loro servizio. (…) La prima sorte toccò a Ioiarib, la seconda a Iedaia, la terza a Carim, la quarta a Seorim, la quinta a Malchia, la sesta a Miamin, la settima ad Akkos, l’ottava ad Abia… (…). Queste furono le classi secondo il loro servizio, per entrare nel Tempio del Signore secondo la regola stabilita dal loro antenato Aaronne, come gli aveva ordinato il Signore, Dio di Israele” (1 Cronache 24.3-19).

Zaccaria, come è scritto, “aveva in moglie una discendente di Aaronne, di nome Elisabetta”, cioè “Dio ha giurato”, oppure secondo altri “Dio è perfetto”: il figlio che sarebbe nato da loro non solo avrebbe avuto una discendenza autorevole tanto da parte di padre che di madre, ma sarebbe stato il risultato di un’unione che avrebbe implicato ricordo e giuramento, o ricordo e perfezione. Poiché i nomi sono indice di “predisposizione a”, ma non sempre garantiscono un reale compiersi del loro significato, ecco che Luca specifica l’atteggiamento interiore di entrambi i genitori, “giusti davanti a Dio, camminando in tutti i comandamenti e leggi del signore senza biasimo”: “biasimo” di chi? Così erano reputati dai loro simili, ma soprattutto “senza biasimo” erano considerati da quel Dio che servivano ciascuno secondo le proprie possibilità.

Diversamente dai farisei che incontreremo, che si ritenevano giusti ma Luca in 16.15 definisce “attaccati al denaro”, i due coniugi erano fiduciosi in Dio per il compimento delle Sue promesse ed erano sempre disposti ad essere guidati dalla Sua volontà. Il loro cioè non era un atteggiamento formale, ma simile a quello di Abrahamo, che “…credette a Dio e ciò gli fu messo in conto di giustizia”. Zaccaria ed Elisabetta quindi si distinguevano dagli altri loro contemporanei per una vita condotta in modo consono all’attesa del Messia promesso ad Israele, aspettavano e amavano la Fonte dalla quale sarebbe giunto un giorno.

Sono due gli atteggiamenti che una persona può assumere davanti a Dio, quando non lo rifiuta a priori: uno è formale e un altro profondamente interiore, come dimostrato nella parabola del giovane ricco, convinto di essere un “giusto” perché osservava i comandamenti fin dalla sua giovinezza, che però si ritrasse da Gesù nel momento in cui fu invitato ad abbandonare le sue sostanze per darle ai poveri e seguirlo (Marco 10.17-30). La Legge andava osservata, ma a nulla sarebbe servito senza l’amore per il Signore “con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”.

Concludendo, Luca ci presenta tre personaggi: Erode, il “discendente da eroi”, uomo potente, gestore per il tempo concessogli di molte vite altrui, che scelse di servire se stesso finendo tra gli spasmi di una malattia implacabile, figura della “morte seconda”, quella vera, che avrebbe sperimentato. Qui viene in mente la frase che molti conoscono, ma su cui sorvolano: “Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi si perde o rovina se stesso?” (Luca 9.25). È il “se stesso”, tradotto anche con “la sua anima” che sopravvive alla morte che non è la fine di tutto, ma un passaggio che trova nell’oltre la retribuzione di ciò che avremo fatto in vita, in bene o in male. Chiediamoci quanti Erode esistano oggi, che vivono nel rancore, nel sospetto, nella dissolutezza e, pur non facendo uccidere gli avversari, li condannano alla morte civile. Erodi moderni, senza neppure le manie di grandezza suggerite della mitologia greca, che stringono e sciolgono alleanze per ingrandirsi ad ogni livello: politico, industriale, economico, criminale, poteri spesso intrecciati tra loro, ma che inevitabilmente dovranno constatare la propria rovina nel momento in cui scopriranno di avere sbagliato meta, prospettiva, finalità. L’amore per noi stessi non ci porterà mai da nessuna parte, saremo sempre e soltanto soli, magari senza rendercene conto.

Opposte al “discendente da eroi” abbiamo due persone che, al di là degli aspetti che vedremo, testimoniano che nessuna delle promesse di Dio mancherà di avere un compimento: “Dio si ricorda” e “Dio ha giurato”. Perché “Tutte le le promesse di Dio sono in lui – Gesù Cristo – sì ed Amen alla gloria di Dio, per noi” (1 Corinti 1.20).