5.02 – LE BEATITUDINI 1. I POVERI IN SPIRITO (Matteo 5.3-10)

5.2 – Il sermone sul monte : le beatitudini 1 (Matteo 5.3-10)

3«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. 4Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. 5Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. 6Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. 7Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. 8Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. 9Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. 10Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli”.

 BEATI I POVERI IN SPIRITO

Poveri in spirito” o “di spirito” sono le traduzioni dall’originale “per lo spirito” ed è opinione di alcuni che la precisazione sul tipo di povertà sia stato un inserimento nel testo greco fatta da un ignoto traduttore dall’aramaico per rendere più compiuto e distinguibile il senso delle parole di Gesù. Va detto però che orientarsi sulle origini del testo di Matteo non è facile: opinione diffusa è che sia stato scritto in aramaico e poi tradotto, basandosi sulle parole di Papia vescovo di Ierapoli nel 130 che scrisse “Matteo raccolse quindi i detti nella lingua degli ebrei, traducendoli ognuno come poteva”. In base agli studi che si intraprendono e quali testi si consultano le opinioni in proposito sono differenti anche sulla data e su chi materialmente abbia compilato il suo Vangelo. Fatto sta che Luca scrive “Beati i poveri” senza specificare altro, ma se prendessimo questa a condizione a senso unico rischieremmo di rendere l’essere poveri materialmente la sola condizione possibile per poter realizzare questa beatitudine. La precisazione che troviamo in Matteo è quindi fondamentale per la tipologia delle persone cui si riferisce.

Parlando di povertà in senso letterale, oggi è suddivisa in assoluta e relativa: la prima è riferita all’estrema difficoltà della sopravvivenza, vale a dire che la vita di chi versa in tale condizione è tale da metterlo in pericolo: non ha da mangiare, non è in grado di provvedere al proprio vestiario, non ha un alloggio, non ha dove lavarsi. Questo stato esclude il poter fruire di beni e/o servizi essenziali per la sopravvivenza. La povertà relativa è invece un parametro che esprime le difficoltà economiche nelle fruizione di beni e servizi in rapporto al livello economico medio di vita dell’ambiente o della nazione.

Soffermiamoci brevemente su questa condizione: chi è povero, assoluto o relativo, sa di esserlo, conosce le difficoltà che incontra e molto spesso ne è angosciato, soprattutto se si ritrova così dopo non aver conosciuto questo tipo di preoccupazioni, quindi aveva una vita tranquilla, normale o agiata e il caso dei molti imprenditori che si sono suicidati in Italia lo conferma. La mancanza di denaro per soddisfare le esigenze elementari o a che fanno da contorno all’esistenza è vissuta da molti come un fallimento e un’umiliazione anche di fronte a se stessi.

La condizione di povertà spirituale, invece, è molto più subdola da ammettere perché si riferisce all’interiorità dell’essere umano. C’è un senso di vuoto, connesso alla “carne” che si cerca di riempire in tutti i modi andando a sopperire i deficit interni e la religione, intesa come pratica che lo riempia, può aiutare a tal punto da essere definita come “l’oppio dei popoli”. Così accade che, praticandola anche nel cristianesimo, l’uomo si senta appagato e perciò si ritenga ricco esattamente come l’angelo (e i componenti) della Chiesa di Laodicea che dice “Io sono ricco, mi sono arricchito e non ho bisogno di nulla” (Apocalisse 3.17).

Il povero materiale è distinguibile e soprattutto sa di esserlo ma il povero in spirito, se non è onesto con se stesso, può mascherarsi, è disposto inconsapevolmente a tutto pur di sentirsi ricco davanti a sé e poi pur di apparirlo di fronte agli altri. Chi è “ricco in spirito” lo è perché così si è voluto definire, ha cercato quest’autodeterminazione e gli esempi nella scrittura sono tanti, primo fra tutti quel fariseo che pregava nel Tempio, ringraziando Dio di non essere come gli altri uomini perché digiunava due volte alla settimana e pagava le decime su quanto possedeva. Il cosiddetto “ricco in spirito” non ha bisogno di nulla, basta a se stesso, è convinto di essere sano e da qui le parole di Nostro Signore “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati”. Il fariseo che abbiamo citato pregava in piedi, il pubblicano stava “a distanza”, in solitudine, è scritto che “non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo”, cioè verso quel luogo da lui incommensurabilmente così distante.

Ecco, qui abbiamo in modo perfettamente reale due atteggiamenti: uno è “ricco”, l’altro è “povero”. Uno ha rimediato coi suoi mezzi alla propria povertà, diventandolo così ancora di più, l’altro ne è conscio e sa di avere nella preghiera di perdono l’unico rimedio a disposizione: “O Dio, sii placato verso di me, peccatore”. Ecco allora che solo chi sa di essere povero di spirito, cioè di non avere mezzi per la sua sopravvivenza spirituale, è beato: dipende da Dio in tutto e per tutto, ammette di avere dentro di sé quella fame che non può soddisfarsi in altro modo se non accettandoLo accogliendoLo dentro di lui.

Il sapere nel profondo di essere dei “Poveri in spirito”, cioè il riconoscersi tali perché si sa o si è sperimentato che le alternative e gli atteggiamenti che la vita può offrire non sono sufficienti né possono garantire stabilità, è il primo passo per il “Regno dei cieli” perché questi poveri lo cercheranno e lo troveranno. Al “ricco in spirito” interessa star bene godendo delle cose effimere che ha a disposizione, al “povero” non interessa la sopravvivenza apparente, qualcosa di generico in cui credere, una ricchezza secondo il mondo o una stabilità incerta, ma sarà attento a come porre rimedio alla sua condizione: non cercherà la compagnia delle persone per sentirsi meno solo, non aderirà a correnti politiche o filosofiche perché dovrà dimostrare a se stesso e agli altri di avere bisogno di qualcosa o di qualcuno a cui credere. Se mai, questi saranno dei passaggi per sperimentare, ma non trovando ciò che realmente cerca, finirà per arrivare a Gesù Cristo perché la sua povertà cessi definitivamente.

Il vero cristiano quindi porta in sé questo dualismo, quello della povertà assoluta quando porta avanti sé stesso, quello della ricchezza quando vive in compagnia di Dio, amandolo. Una ricchezza che non possiede. La parabola dell’uomo ricco di Luca 12.16,21 ci presenta un possidente che aveva avuto un raccolto ottimale dalla sua campagna e progettava una vita esente da preoccupazioni, ma si sentì dire “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?” Notiamo il commento di Gesù: “Così è di chi accumula tesori per sé, e non arricchisce davanti a Dio”.

C’è quindi un cammino da fare, e il riconoscersi poveri nel profondo è la condizione indispensabile per arricchire dentro, come abbiamo letto, “davanti – o “in” a seconda della traduzione – a Dio”; sono due mondi diversi, opposti, per la vita che conta, quella eterna. Chi crede, nel vero senso della parola, non lo fa perché ha bisogno di una religione, ma per diventare e conoscere cose che sa essere irraggiungibile senza una grazia, una rivelazione. Cercherà le promesse per lui e sperimenterà su di sé la loro realizzazione, altrimenti la propria vita non avrebbe scopo. Ricordiamo le parole di Pietro “Signore, a chi ce ne andremmo noi? Tu solo hai parole di vita eterna”: quest’uomo aveva sperimentato la quotidianità della vita, aveva un lavoro, una moglie. Aveva ascoltato da chissà quanto tempo i rabbini nelle sinagoghe e poi Giovanni Battista che preparava il popolo alla venuta di Gesù, ma nessuna di queste cose lo aveva mai arricchito, placato la sua sete interiore, quella di spirito. Pietro sapeva che le uniche parole da ascoltare, per la prospettiva futura che gli venivano garantite, erano quelle di Colui che un giorno lo aveva chiamato con gli altri discepoli e poi lo aveva reso apostolo.

La beatitudine dei poveri in spirito è quindi la descrizione di una condizione base per essere accolti dal Padre ed equivale al senso di sete spirituale che alcuni avvertivano quando Gesù, alzandosi in piedi, gridò “Se qualcuno ha sete, venga a me e beva” (Giovanni 7.37). Non era venuto per vendere qualcosa, ma per dare gratuitamente e invitò gli apostoli a fare altrettanto con il suo “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”. Tutta la Scrittura, Antico e Nuovo patto, sono piene di passi che attestano sia l’attenzione che Dio dà ai poveri, anche quelli materiali, tenuti a cercarlo secondo Isaia 55,6,7 “mentre si trova”, a invocarlo “mentre è vicino”. Ricordiamo l’invito “venite e comprate senza denari e senza prezzo” perché la Grazia non può essere comprata avendo un valore inestimabile.

E possiamo citare anche parole di Isaia 1.18 “Su, venite e discutiamo insieme, dice il Signore. Anche se i vostri peccati fossero come lo scarlatto, diventeranno bianchi più che neve”. In questo passo rileviamo che è Dio a invitare l’uomo addirittura ponendosi sul loro stesso piano, non certo quello del peccato, ma dello Spirito che è nell’uomo, quel “soffio vitale” che inalò nelle narici di Adamo. Qui c’è un incontro tra il Santo e la creatura che certo così non è, anzi è invitata nel verso 16 a lavarsi, purificarsi, ad allontanare dai Suoi occhi il male delle loro azioni. Dio invita l’uomo a discutere assieme dando la Sua piena disponibilità al perdono con un intervento che nessun essere terreno sarebbe stato mai in grado di compiere, smacchiare lo scarlatto, cioè un rosso intenso e brillante, a tal punto da farlo diventare più bianco della neve. È l’impossibile che appartiene al Padre, alla trinità, a quel plurale che un giorno disse “Facciamo l’uomo”.

Dio, soprattutto nel tempo in cui la Grazia è aperta non convoca imperiosamente, ma invita a discutere con lui. Dichiara la propria benevolenza, ma non costringe a subirla. E, riferendoci a questi versi, non tutti cessarono di fare il male e non tutti andarono a Lui, consapevoli del valore di quell’invito, a discutere assieme. Oggi il verbo “discutere” è usato per indicare una lite, uno scontro acceso in cui ogni parte difende strenuamente le proprie posizioni, ma ciò solo perché si è perso il senso reale del termine che, al contrario, implica il trattare, esaminare un tema confrontando opinioni diverse, dialogare alla ricerca di una soluzione.

Beati i poveri in spirito” è allora un annuncio importante, una dichiarazione in base alla quale chi appartiene alla categoria dei poveri non è lasciato solo, ma può entrare a far parte di un piano che va oltre le sue aspettative. Infatti, “di loro è il Regno dei cieli”. “Di loro” e di nessun altro. Ecco perché questa beatitudine è al primo posto: esprime quello che potremmo definire un requisito base, quello di chi non ha nulla mentre gli altri pensano di avere chi molto, chi tutto. Il ricco sta bene in questo mondo a prescindere da quale sia la ricchezza su cui fonda la propria vita, il povero certamente soffre e non sa come porvi rimedio, è costantemente in bilico tra la realtà che vorrebbe cambiare e i mezzi che non ha. Ed è beato perché si trova nella sola condizione che gli può consentire l’accettazione di Cristo come proprio Salvatore e fornitore di quella cittadinanza eterna che il ricco certamente non può avere.

Le beatitudini che seguono (gli afflitti, i miti, quelli che hanno fame e sete di giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, gli operatori di giustizia e i perseguitati per – e non “da” – essa), sono tutte riferite alla conseguenza della povertà di spirito proprio alla luce di quanto abbiamo detto all’inizio: chi in questo mondo si trova a proprio agio, parla già di sé disprezzando chi appartiene a categorie diverse dalla sua perché già umanamente beato, possedendo non la “makaria”, ma l’”òlbia”, come abbiamo visto nel capitolo precedente.

Nostro Signore sappiamo che aveva da poco guarito tutti quelli che gli si erano presentati a lui: quei miracoli erano per tutti e per tutti erano quelle parole di vita perché non potevano esservi dei sordi tra loro – se c’erano, questo era prima di incontrarlo -, ma nel momento in cui iniziò a parlare disse “Beati i”, cioè “quanti tra voi si riconoscono nella mia descrizione”. Il resto del Vangelo, la “buona notizia” rivelata agli uomini, è proprio la ricchezza in Dio che il povero in spirito trova e che arriverà al culmine con il possesso di quel “Regno dei cieli”, o “Regno di Dio” concepito fin dalla creazione dell’universo. Possiamo concludere con le parole dell’apostolo Paolo in Efesi 1.3 “Benedetto sia Dio, Padre del Signor nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti di ogni benedizione spirituale nei luoghi celesti in Cristo”.

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5.01 – IL SERMONE SUL MONTE: INTRODUZIONE (Luca 6.17-19; Matteo 5.3-7;)

5.1 – Il sermone sul monte: introduzione (Luca 6.17-19; Matteo 5.3-7)

 17Disceso con loro, si fermò in un luogo pianeggiante. C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidone, 18che erano venuti per ascoltarlo ed essere guariti dalle loro malattie; anche quelli che erano tormentati da spiriti impuri venivano guariti. 19Tutta la folla cercava di toccarlo, perché da lui usciva una forza che guariva tutti.

Con il sermone sul monte entriamo nel territorio delle profondità dell’insegnamento di Gesù alla folla e ai discepoli di cui ci cui Matteo e Luca ci hanno lasciato tracce importanti. Numerose sono le differenze tra i due racconti: il primo evangelista lo riporta in 107 versi, il secondo in 30 perché entrambi adattano i contenuti in base agli scopi che si prefiggono nello scrivere e possiamo presumere che includano nel loro scritto anche parte degli insegnamenti che il loro Maestro faceva nella sinagoga. Sappiamo che Gesù aveva appena eletto i dodici, più in alto rispetto a quel “luogo pianeggiante” in cui trovò una folla composta da discepoli e la “gran moltitudine di gente” composta ormai da giudei, e forse qualche pagano, che avevano saputo delle Sue guarigioni e dell’autorità con la quale predicava commentando i contenuti della Legge e dei profeti. Gli apostoli stessi, da lui scelti, avevano fino ad allora ricevuto una formazione rudimentale, basata soprattutto su ciò che potevano sperimentare di persona attraverso un rapporto continuo e privilegiato con Lui: gli rivolsero domande, chiarimenti, pensieri che gli evangelisti non ci hanno trasmesso. Come qualcuno ha osservato, c’era un grosso divario tra i sentimenti che provavano per Gesù e il reale fondamento dottrinale che ancora non possedevano. Era quindi necessario non solo formare i dodici e gli altri discepoli, ma chiarire a tutti coloro che andavano a lui per farsi guarire tanto dalle malattie quanto tagli spiriti immondi che, se si fossero limitati alla risoluzione di un grave problema contingente quale poteva essere la cecità, la paralisi o la possessione, non avrebbero risolto nulla per le loro anime. E a proposito della “forza che usciva da lui che guariva tutti” (v.19) abbiamo un’anticipazione dell’episodio della donna emorraissa narrata in Matteo 9.20-22: “Ed ecco, una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni, gli si avvicinò alle spalle e toccò il lembo del suo mantello. Diceva infatti tra sé: «Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò salvata». Gesù si voltò, la vide e disse: «Coraggio, figlia, la tua fede ti ha salvata». E da quell’istante la donna fu guarita”.

Era quindi necessario che la gente sapesse. I miracoli che faceva alla presenza di tutti e che risolvevano il problema di una vita limitata, potevano trovare la loro ragione e destinazione finale con la soluzione del problema reale, la Vita vera vista nell’incontro con la Verità e la Via, l’unica, da percorrere. Ciò che Gesù faceva guarendo le infermità del corpo erano la figura di quello che avrebbe fatto guarendo l’anima. Per questo Nostro Signore apre il suo discorso, in Matteo, iniziando dalle beatitudini che analizzeremo. Ecco il testo di Matteo che inizia il suo quinto capitolo in modo più breve rispetto a Luca: “Vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo”…

3«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. 4Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. 5Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. 6Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. 7Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. 8Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. 9Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. 10Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. 11Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. 12Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti perseguitarono i profeti che furono prima di voi.”.

Contando le beatitudini non ne abbiamo nove, ma otto più una e quell’una si distacca dalle altre, apre un capitolo nuovo con quel “beati voi” così diverso da “beati i”. Ci soffermeremo pertanto solo sulle prime otto, numero dalle ampie prospettive.

Leggendo ora le categorie di persone nei confronti delle quali sono indirizzate le beatitudini (versione di Matteo) e considerandole da un punto di vista esclusivamente umano, queste non hanno umanamente senso perché per “beato”, dimenticando qualsiasi riferimento cosiddetto “religioso”, si intende una persona felice, pienamente appagata e soddisfatta e, nel mondo in cui viviamo, le caratteristiche che hanno i “beati” di cui Gesù parla sono quanto di più lontano dalla condizione che il termine esprime. Il “povero di spirito” è ritenuto una persona senza qualità intellettuali. Dall’afflitto ci si allontana perché mette tristezza . Chi ha fame e sete di giustizia è un povero essere che non ha ancora capito che deve mettersi alla ricerca di chi lo possa aiutare, raccomandare, di un potente che possa intervenire a suo favore. E così via col misericordioso, da sempre scambiato per debole, col puro di cuore quotidianamente calpestato dal potere che non lo tollera come documentano i tanti processi contro di lui, primi fra tutti quelli contro le mafie.

Il Vangelo però non lo si può leggere con gli occhi del mondo in cui viviamo. Il Vangelo propone realtà agli antipodi tra loro usando la stessa terminologia ma, proprio perché opposti, non hanno nulla in comune e il loro significato è diverso. Guardiamo l’episodio: Gesù ha appena eletto i dodici e scendendo trova la folla composta da discepoli, o da chi tale avrebbe voluto diventare, o da persone provenienti da ogni dove e affette da malattie, come ci ha descritto Luca. Gesù guarisce anche “involontariamente” nel senso che bastava toccarlo perché gli inconvenienti fisici cessassero, ma poi inizia a parlare rivolgendosi a tutti quelli che, tra la folla, si sarebbero riconosciuti nelle categorie che avrebbe elencato. Il suo appello, “Beati i” delle otto beatitudini non è lo stesso della nona, o prima dopo le otto, “Beati voi” in cui si rivolge ai discepoli, ai tanti che affollavano quel luogo. Notiamo un particolare al verso 2 di Matteo 5: “Ed Egli, aperta la bocca, li ammaestrava”, che in diverse traduzioni si abbrevia erroneamente con “Cominciò a parlare”, perché “aprire la bocca” era un formula, secondo l’uso ebraico, usata per indicare l’inizio di un discorso autorevole e solenne.

Ho iniziato queste riflessioni ponendo in contrasto la diversa interpretazione che il mondo dà al termine “beato” e quella opposta che dà l’àmbito spirituale, che si ritrova anche nel termine ebraico e biblico: il testo masoretico, la versione della Bibbia in uso fra gli ebrei, usa la parola ashré e indica lo stato interiore di chi vive nell’integrità perché si lascia guidare dai comandamenti di Dio. In questa parola è racchiusa anche l’idea del movimento, dell’alzarsi, dell’essere in cammino. Nel Salmo 128.1,2 leggiamo “Beato chi teme il Signore e cammina nelle sue vie. Della fatica delle tue mani ti nutrirai, sarai felice e avrai ogni bene”; la benedizione è cioè la conseguenza della beatitudine, non viceversa: in pratica, sei benedetto perché sei beato, hai scelto di temere il Signore e camminare nelle sue vie. Vie distanti, sconosciute, incomprensibili per il mondo in cui vivi. Il greco invece ha machàrios, cioè “felice, beato” con riferimento allo stato di chi è in tale condizione perché propria degli dèi, rappresentati sempre al di là di qualsiasi preoccupazione umana, quindi esenti dalla fatica, dal lavoro e dalla morte. “Makàrios” contemplava le caratteristiche di “lungo, ampio, grande” e “favore, dono, cura amorevole”, intesi come qualcosa di concesso. Nel caso di quanto dichiarato da Gesù, allora, i “Makàrioi” (plurale) sono i “felici, fortunati, favoriti perché curati con le cure di Dio”. La beatitudine, la felicità umana, terrena, era indicata con un altro termine, òlbia.

Allora l’essere “beato” è qualcosa che si ha, una caparra, un conto a giustizia, una condizione che a volte può essere sconosciuta e c’è bisogno di qualcuno che la dichiari, come nel caso di Pietro quando riconobbe in Gesù il Cristo, il Figlio dell’Iddio Vivente. Gli fu detto infatti “Tu sei beato Simone, figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te le hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli” (Matteo 16.17). Nel caso delle beatitudini, quindi, Gesù rivolge ai presenti e a tutti quelli che avrebbero letto le sue parole nei secoli a venire, un’esortazione a pensare al privilegio che hanno nel momento in cui si trovano nelle circostanze che andrà a descrivere, un invito amorevole che rivolgerà spesso ad andare oltre quelle che possono sembrare circostanze o posizioni negative perché nella realtà queste porteranno – o hanno già portato – a un risultato che andrà enormemente oltre. Più avanti, del resto, l’apostolo Paolo in Romani 8.28 scriverà che “tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio, per coloro che sono stati chiamati secondo il suo disegno”. Penso che ogni volta che Gesù sul monte abbia pronunciato quella parola, “beati”, intendesse in subordine anche questo.

Il cristiano quindi è un costruttore beato sia dal punto di vista greco, che suggerisce l’idea di ciò che si possiede già nonostante tutto, ed ebraico, che invece implica un cammino da compiere, è figura di chi è in movimento verso una meta, un progetto che ha garanzia di riuscita come abbiamo letto nella porzione del Salmo 128; la differenza è che, se nell’Antico Testamento la benedizione era tangibile mediante la riscossione di un risultato sulla terra, nel Nuovo è vista nel premio ultraterreno, come provano i verbi usati da Nostro Signore, che sono sempre al futuro.

Sappiamo che le beatitudini sono otto – più una che incorporeremo nella seconda parte del discorso sul monte – e che costituiscono una sorta di cerchio secondo me, ma che indiscutibilmente rappresentano un perimetro all’interno del quale ne sono rinchiuse anche altre, ricorrendo nel Nuovo Testamento la parola “Makàrios” 68 volte al singolare e 50 al plurale. Gesù non poteva dire tutto, ma fornire delle basi ai suoi uditori certamente sì: parlava a discepoli, a malati guariti ed ancor più a una categoria molto particolare rappresentata da quelli che erano tormentati da spiriti impuri, la cui condizione veniva a cessare.

La malattia affligge, lo spirito impuro tormenta perché prende possesso della mente costringendo il posseduto a fare ciò che non vorrebbe, lo umilia davanti a se stesso e spesso anche agli altri quando non si manifesta in modo sommesso, nascosto come nel caso dell’indemoniato guarito nella sinagoga di Capernaum. Ecco, molti dei presenti su quel pianoro avevano avuto una liberazione e si ritenevano beati, ma la vera gioia, il vero favore di Dio, la condizione per poter iniziare e proseguire un cammino vero, quelle persone la avrebbero avuta solo identificandosi nelle categorie di apertura contenute nel discorso che Gesù stava per iniziare. Alla liberazione delle infermità poteva seguire quella vera dal regno della morte e sarebbe avvenuta attraverso la comprensione della necessità di un percorso interiore, il riconoscerlo come il Liberatore Unico e  non, come la maggioranza voleva, vederlo e volerlo come un imperatore, un re terreno invincibile, uno dei tanti condottieri che avrebbero costituito territori politici a prezzo di vite umane, guerre ed oppressioni, per poi finire nel giro di poco tempo. Il Regno di cui parlerà fin dalla prima beatitudine sarebbe stato quello “dei cieli”, non relegato al un tempo che, pensando all’eternità, è poco a prescindere. Il Regno della terra, di cui Gesù non parla mai se non lasciando indizi, è stato dato a Satana che di questo mondo è il principe.

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4.05 – APOSTOLI 5 (Luca 6.12-16)

4.5 – Apostoli V (Luca 6.12-16)

 12In quei giorni egli se ne andò sul monte a pregare e passò tutta la notte pregando Dio. 13Quando fu giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede anche il nome di apostoli: 14Simone, al quale diede anche il nome di Pietro; Andrea, suo fratello; Giacomo, Giovanni, Filippo, Bartolomeo, 15Matteo, Tommaso; Giacomo, figlio di Alfeo; Simone, detto Zelota; 16Giuda, figlio di Giacomo; e Giuda Iscariota, che divenne il traditore.”

GIUDA DI GIACOMO

È chiamato anche Taddeo nell’elenco di Matteo e Marco e in alcuni manoscritti Lebbeo, parole che significano entrambe “Diletto, coraggioso”, che si è pensato essere dei soprannomi stanti a indicarne il carattere. A puro titolo di citazione, secondo Eusebio di Cesarea questo apostolo fu lo sposo innominato delle nozze di Cana, ma non abbiamo dati a suffragio di quest’ipotesi. È citato da Giovanni, che spesso dà dei ritratti veloci ma molto indicativi dei dodici, in 14.15-22, nell’occasione in cui Gesù promise il Consolatore facendo un distinguo tra gli uomini: “Se mi amate, osservate i miei comandamenti ed io pregherò il Padre ed Egli vi darà un altro Consolatore, che rimanga con voi per sempre, lo Spirito della verità che il mondo non può ricevere, perché non lo vede e non lo conosce; ma voi lo conoscerete, perché dimora con voi e sarà in voi.(…) Chi ha i miei comandamenti e li osserva, è uno che mi ama; e chi mi ama sarà amato dal Padre mio, e io lo amerò e mi manifesterò a lui. Giuda, non l’Iscariotha, gli disse «Signore, come mai ti manifesterai a noi e non al mondo?». Gesù rispose e gli disse «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio l’amerà, e noi verremo a lui e faremo dimora presso di lui»”.

La domanda di Giuda di Giacomo lo qualifica allora come uditore attento alle parole del Maestro, non uno che ricorda soltanto l’ultima frase e se ne accontenta. È ritenuto da alcuni l’autore dell’omonima epistola, presentandosi come “Giuda, servo di Gesù Cristo e fratello di Giacomo”, quel Giacomo detto “fratello del Signore” che è annoverato tra le colonne della Chiesa di Gerusalemme, ma altri negano questa possibilità, in particolare la critica moderna.

GIUDA ISCARIOTHA

Il secondo nome, Iscariotha, ha un doppio significato perché se l’ebraico potrebbe qualificare la sua provenienza, “Uomo di Kerioth” città del Sud della Giudea, il significato dall’aramaico è “il mentitore, l’ipocrita”. Dei dodici è sicuramente il personaggio più complesso e credo che una buona analisi su di lui debba attenersi il più possibile ai dati che abbiamo. Non sappiamo nulla riguardo al tempo intercorso tra il primo incontro con Gesù e la sua elezione ad apostolo; di certo c’è solo che fu eletto al pari di tutti gli altri, dopo un certo tempo vissuto con loro. Incontriamo Giuda per la prima volta in Giovanni 6 nell’episodio che abbiamo già ricordato quando, insegnando nella sinagoga di Capernaum, Gesù fece il suo discorso sul mangiare la sua carne e bere il suo sangue. Sappiamo che molti discepoli furono scandalizzati da questo discorso e si allontanarono da lui. Ora è scritto che disse “Tra voi vi sono alcuni che non credono” e, subito dopo, “Gesù infatti sapeva fin da principio chi erano quelli che credevano in lui e chi era colui che lo avrebbe tradito” (v.64). La prima differenza quindi è tra chi crede e chi no. Due mondi diversi nonostante il cielo sotto cui si vive sia lo stesso, ci si incontri per strada, si frequenti la stessa gente. Il fatto che Gesù sappia chi crede in lui, che legga nel cuore della persona, è garanzia della sua attenzione e protezione, ma allo stesso modo il contrario esiste per chi non crede per scelta, vale a dire trova alternative al Suo messaggio e le ritiene migliori. Molto spesso il non credere è una scelta che si fa per continuare a vivere ignorando il messaggio di Cristo, per fare i propri comodi, per non adeguarsi a Lui perché una vita senza gli obiettivi che hanno tutti e che tutti si tramandano da secoli, spaventa.

Secondo dato che i versi di Giovanni ci comunicano è che Gesù sapeva chi lo avrebbe tradito. Lo sapeva da sempre, prima ancora di chiamare l’Iscariotha nel numero dei 12 e possiamo dire che non lo avrebbe mai ammesso al gruppo degli apostoli se non avesse avuto il ruolo di consegnarlo di notte al sinedrio ebraico. Giuda Iscariotha non fu usato per compiere il tradimento, ma piuttosto partecipò alla vita comunitaria dei dodici, ascoltò gli insegnamenti di Gesù, vide molto più di noi che abbiamo solo un libro su cui basarci, ma non credette mai, neppure di fronte ai miracoli. Se avesse avuto anche un solo dubbio, se avesse posto in discussione il suo essere anche in una minima parte, avrebbe avuto il Maestro per un confronto.

Il fatto è che Giuda aveva un’altra caratteristica negativa; sempre nello stesso capitolo, alle parole di Pietro che riconosceva che Gesù era il solo ad avere parole di vita eterna, gli fu risposto: “«Non sono forse io che ho scelto voi, i dodici? Eppure uno di voi è un diavolo». Parlava di Giuda, figlio di Simone Iscariotha: costui infatti stava per tradirlo, ed era uno dei dodici” (v.70,71). Occorre prestare molta attenzione al termine “diavolo”, al quale associamo una figura repellente e macabra che ci è stata tramandata dalla superstizione o da dipinti di artisti più o meno grandi: il termine greco “diàbolos” è colui che divide, accusa, calunnia ed è quindi avverso, contrario, ostile. In altre parole, un nemico. Così “diabolico” è ciò che allontana da Dio e non necessariamente ciò che è perverso, malvagio, assolutamente riconoscibile come opposto al bene. E “diavolo” come persona concreta, nel senso etimologico, Giuda lo fu sempre, come possiamo dedurre dal terzo episodio in cui è citato da Giovanni in cui commenta in modo sprezzante quanto avvene alla cena di Betania: lì Maria, sorella di Lazzaro e Marta, aveva cosparso i piedi di Gesù con una libbra (300 grammi), di nardo puro, del valore di 300 denari, quasi la paga di un anno di un operaio che veniva pagato un denaro al giorno. Al verso 4 leggiamo “Allora Giuda Iscariotha, uno dei suoi discepoli che doveva poi tradirlo, disse «Perché quest’olio profumato non lo si è venduto per 300 denari per poi darlo ai poveri?». Disse questo non perché gli importasse dei poveri, ma perché era ladro e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro”. (vv.5.6).

Ora dire “era ladro” è diverso che, come alcuni traducono, “era un ladro”, perché la prima definizione indica uno stato d’animo, un atteggiamento, un’attitudine, mentre il secondo può riferirsi anche a qualcosa di occasionale e compiuto per necessità, come leggiamo in Proverbi 6.30 “Non si disprezza il ladro che ruba per soddisfare l’appetito quando ha fame; ma se viene colto in fallo, dovrà restituire sette volte, e dare tutti i beni della sua casa”. Giuda era quindi ladro dentro, privo di rispetto qualsiasi per la cosa altrui, pensava esclusivamente al suo vantaggio incurante della buona fede degli altri undici che lo ritenevano uno di loro, come disse Pietro con quel famoso “Signore, a chi ce ne andremo noi?”. Pensiamo al valore dato al denaro da personaggi che conosciamo: Maria aveva dato per ungere i piedi di Gesù 300 denari – ricordiamo che Filippo disse a Gesù che ce ne sarebbero voluti 200 per sfamare le persone al miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci -, e Nicodemo ne portò 100 libre, quindi 3.000, per l’imbalsamazione del corpo del crocifisso.

Giuda era insensibile a qualsiasi amore che non fosse per se stesso e rubava per il gusto del furto, non certo per arricchirsi, come Anania e Saffira in Atti 5.1-11 che avevano trattenuto per loro una parte del ricavato di un podere che avevano venduto, e arrivò a tradire Gesù per 30 sicli, il prezzo di uno schiavo. Tanto aveva stimato valere il proprio Maestro ed ecco perché Giuda fu un oppositore costante, un “diavolo”, un terreno impermeabile alla parola di Vita, ma permeabile a quella di morte perché in 13.2 Giovanni scrive “Mentre cenavano, il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda Iscariotha, figlio di Simone, di tradirlo.” Qui è l’opera dell’avversario che agisce non certo nei confronti di un innocente, ma di chi da sempre gli aveva dato sempre più spazio, come fosse un veicolo senza freni su una strada in discesa.

Sappiamo che Giuda il tradimento lo aveva già preparato: era già andato dai capi dei sacerdoti per fare arrestare Gesù (Marco 14.10), aveva già ricevuto il prezzo pattuito e “Da quell’ora cercava l’opportunità di tradirlo” (Matteo 26.15,16), ma l’accettazione piena e incondizionata del suo compito la accettò definitivamente nel prendere il “boccone intinto”: “E quel discepolo– Giovanni – chinatosi sul petto di Gesù, gli disse «Signore, chi è?». Gesù rispose «È colui al quale io darò il boccone, dopo averlo intinto» e, intinto il boccone lo diede a Giuda Iscariotha, figlio di Simone. Ora, dopo quel boccone, Satana entrò in lui” (Giovanni 13.25-27). Giuda, prendendo quanto Gesù gli porgeva, è come se avesse posto la propria firma a un terribile contratto stipulato con l’Avversario, gli diede il suo benestare anche se non possiamo escludere abbia pensato che, con tutti i miracoli che aveva fatto il suo Maestro, avrebbe potuto farne un altro, liberandosi come già avvenuto in altre occasioni. È l’unica attenuante che però non sminuisce la portata dell’atto, è come dire che chi fa un sorpasso azzardato a folle velocità, se causa un incidente in cui muoiono delle persone, non voleva uccidere. Non è un omicidio preterintenzionale.

C’è poi il pentimento: “Allora Giuda – colui che lo tradì -, vedendo che Gesù era stato condannato, preso dal rimorso, riportò le trenta monete d’argento ai capi dei sacerdoti e agli anziani, dicendo: «Ho peccato, perché ho tradito sangue innocente». Ma quelli dissero: «A noi che importa? Pensaci tu!». Egli allora, gettate le monete d’argento nel tempio, si allontanò e andò a impiccarsi. I capi dei sacerdoti, raccolte le monete, dissero: «Non è lecito metterle nel tesoro, perché sono prezzo di sangue». Tenuto consiglio, comprarono con esse il «Campo del vasaio» per la sepoltura degli stranieri. Perciò quel campo fu chiamato «Campo di sangue» fino al giorno d’oggi. Allora si compì quanto era stato detto per mezzo del profeta Geremia: E presero trenta monete d’argento, il prezzo di colui che a tal prezzo fu valutatodai figli d’Israele, e le diedero per il campo del vasaio, come mi aveva ordinato il Signore”(Matteo 27.3-10). Nel libro degli Atti Luca riporta le parole di Pietro che aggiunge dei particolari, vale a dire che Giuda aveva già acquistato un appezzamento di terra con quei soldi pur avendo poi restituito la somma ai capi dei sacerdoti: “In quei giorni Pietro si alzò in mezzo ai fratelli – il numero delle persone radunate era di circa centoventi – e disse: «Fratelli, era necessario che si compisse ciò che nella Scrittura fu predetto dallo Spirito Santo per bocca di Davide riguardo a Giuda, diventato la guida di quelli che arrestarono Gesù. Egli infatti era stato del nostro numero e aveva avuto in sorte lo stesso nostro ministero. Giuda dunque comprò un campo con il prezzo del suo delitto e poi, precipitando, si squarciò e si sparsero tutte le sue viscere. La cosa è divenuta nota a tutti gli abitanti di Gerusalemme, e così quel campo, nella loro lingua, è stato chiamato Akeldamà, cioè «Campo del sangue». Sta scritto infatti nel libro dei Salmi: La sua dimora diventi deserta e nessuno vi abiti, e il suo incarico lo prenda un altro”. (Atti 1. 16-19).

Giuda si rese conto di quello che aveva fatto, ma il suo fu un pentimento disperato, che non contemplava la possibilità del perdono. Scrive Paolo che “La tristezza secondo Dio produce un ravvedimento che porta alla salvezza e del quale non c’è mai da pentirsi, ma la tristezza del mondo produce la morte” (2 Corinti 7.10). Abbiamo detto che l’accettazione del boccone intinto fu la firma di Giuda a un contratto dal quale non poteva più tirarsi indietro: umanamente aveva ragionato fino a poco prima di tradirlo, poi aveva concesso a Satana di disporre di lui e da Satana fu abbandonato una volta raggiunto il suo scopo. Solo con se stesso, si ritrovò totalmente deserto con la propria colpa e il peso fu intollerabile perché non c’era chi potesse sollevarlo. La tristezza secondo il mondo produce la morte e la psicodinamica del suicidio è la disperazione che si forma nella persona quando non esiste più nulla in cui sperare, manca una prospettiva e il peso conseguente si fa insopportabile a tal punto che la non esistenza appare l’unica soluzione.

Pietro, dopo aver rinnegato Gesù per tre volte, è scritto che “pianse amaramente”: pianse sulla sua natura avendo agito per paura dopo una crisi nervosa vista in quel “cominciò a maledirsi”, pensando alla verità delle parole del Maestro che gli aveva predetto quel comportamento, ma a Giuda restava solo quel peccato, l’aver tradito quel “sangue innocente” che tanto aveva “amato il mondo”. Era possibile un perdono per lui? Se il pentimento può nascere solo dalla comprensione dell’errore, è indubbio che ci sia stato, ma questo stato d’animo può trovare rimedio solo rivolgendosi all’Unico in grado di dare perdono, cosa che non avvenne. Forse le parole che più lo tormentarono furono “Amico, tradisci il Figlio dell’uomo con un bacio?”. Amico.

Si possono concludere queste riflessioni con le parole di don Primo Mazzolari: “Credete voi che non ci fosse stato posto anche per Giuda, se avesse voluto? Se si fosse portato ai piedi del calvario, se l’avesse guardato almeno a un angolo o a una svolta della strada della via crucis, la salvezza sarebbe arrivata anche per lui. Povero Giuda, una croce e l’albero di un impiccato, dei chiodi e una corda”.

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4.04 – APOSTOLI 4 (Luca 6.12-16)

4.4 – Apostoli IV (Luca 6.12-16)

 

 12In quei giorni egli se ne andò sul monte a pregare e passò tutta la notte pregando Dio. 13Quando fu giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede anche il nome di apostoli: 14Simone, al quale diede anche il nome di Pietro; Andrea, suo fratello; Giacomo, Giovanni, Filippo, Bartolomeo, 15Matteo, Tommaso; Giacomo, figlio di Alfeo; Simone, detto Zelota; 16Giuda, figlio di Giacomo; e Giuda Iscariota, che divenne il traditore.”

BARTOLOMEO 

           Sappiamo che Natanaele e Bartolomeosono la stessa persona e che a lui si Filippo, non appena lo incontrò, gli parlò di Gesù che lo aveva da poco chiamato a seguirlo. Filippo, in questo modo, dette prova di essere una persona selettiva perché non parlò di Gesù a chiunque incontrava per la strada, ma si mise alla ricerca dell’amico col quale probabilmente aveva condiviso i discorsi su Colui che Giovanni Battista annunciava dicendo di non essere degno neppure di sciogliergli il laccio dei sandali. Se Filippo “era di Betsaida, città di Andrea e Pietro” (Giovanni 1.44), sapeva anche dello Spirito Santo sceso su di lui in forma di colomba, evento che agli attenti ebrei che aspettavano “la consolazione di Israele” non poteva sfuggire.

L’amicizia tra Filippo e Natanaele si basava allora, al di là di quella umana, proprio sul profondo interesse sull’arrivo del nuovo inviato di Dio per il quale abbiamo visto che lui pregava sotto il fico. Questo apostolo è una bella figura di uomo in attesa della rivelazione, della manifestazione del Signore aperta, nonostante la titubanza iniziale espressa con quel “può esserci qualcosa di buono da Nazareth?”; alla possibilità: all’affermazione “Noi abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti, il figlio di Giuseppe, da Nazareth”, risponde con un’obiezione cui non fa comunque seguito un’esclusione categorica. E infatti, seguì Filippo che lo condusse da Gesù che lo definì “Un israelita in cui non c’è falsità”, o come traduce Diodati “in cui non vi è frode alcuna”.

Natanaele, allora, era una persona onesta dal punto di vista morale e spirituale, simile a quel Simeone di cui parla Luca definendolo “Uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione di Israele”: al primo, Simeone, ormai vecchio, fu concesso di vedere Gesù nato da poco, al secondo, il cui nome significa “Dono di Dio”, di condividerne il ministero pubblico.

Tornando al loro primo incontro, vediamo che Nostro Signore gli si rivela come colui che già lo conosceva, perché prima lo definisce come uomo in cui non vi era falsità e poi di averlo visto sotto l’albero al quale si recava per pregare, dichiarazioni che compendiano sia la conoscenza dell’uomo, ma soprattutto la sua presenza spirituale: “Prima che Filippo ti chiamasse, ti ho visto quando eri sotto il fico”. Natanaele capì immediatamente il messaggio: Gesù non lo aveva visto perché passava di là, nei pressi dell’albero, ma perché era testimone della sua preghiera che non riguardava argomenti quotidiani personali, ma la venuta del Messia con particolare riguardo all’annuncio del Battista di cui pregava perché potesse averne parte.

Sappiamo che, alle parole su di lui, rispose “Rabbi, tu sei il Figlio di Dio, il Re di Israele”, una dichiarazione di fede completa, non senza la gioia per le sue preghiere esaudite che fece sgorgare spontanea una testimonianza che addirittura precede quella di Pietro: Natanaele chiama Gesù Rabbi, cioè “Mio maestro” più che “Maestro” in genere, poi “Figlio di Dio” riconoscendogli un’origine non terrena, e infine “Re d’Israele”, confermando di credere pienamente nella Sua funzione messianica. Soprattutto, poi, è quel “Figlio di Dio” posto fra gli altri due titoli a rivelare che Natanaele riconoscesse a Gesù quanto scritto in Salmo 2.7-9: “Voglio annunciare il decreto del Signore. Egli mi ha detto «Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato. Chiedimi e ti darò in eredità le genti e in tuo dominio le terre più lontane. Le spezzerai con scettro di ferro, come vaso di argilla le frantumerai”.

Soffermandoci molto brevemente su questa profezia, che ha per tema il sostentamento del Signore al Suo Consacrato, quell’ “oggi” si riferisce al momento in cui il Figlio sarebbe stato dichiarato agli uomini, cui segue la promessa dell’eredità sulle “genti e le terre più lontane”, cioè le popolazioni pagane che avrebbero creduto in Lui profetizzate da Noè stesso con le parole “Iddio allarghi Iafet, e dimori nelle tende di Sem” (Genesi 9.27). E la violenza che traspare dallo spezzare e frantumare è riferita non al destino finale di quelle genti e territori, ma di quella parte di umanità che muoverà guerra, in tempi che devono ancora venire, a tutto ciò che esulerà dalla religione dell’impero mondiale destinato a realizzarsi e di cui intravediamo oggi comunque il corpo.

Natanaele, chiamando Gesù in quel modo, si sentì certamente liberato, ascoltato, esaudito e stette sempre vicino a Gesù anche se di lui non sappiamo altro, se non che era di Cana di Galilea e fu testimone del miracolo dell’acqua mutata in vino. Era presente con tutti gli altri discepoli nella casa di Gerusalemme in cui si riuniva la Chiesa ed alcuni hanno ipotizzato che fosse uno scriba o comunque una persona versata nelle scritture: ciò coinciderebbe col fatto del fico, pianta sotto la quale gli scribi amavano studiare, con i tre attributi coi quali qualifica Gesù e con la stessa domanda su Nazareth perché gli scribi sapevano benissimo, come abbiamo visto nell’episodio in cui Erode si informa da loro su dove sarebbe nato il Messia, che era Bethlehem e non Nazareth il luogo in cui questi sarebbe nato.

 

LEVI MATTEO

Abbiamo sviluppato recentemente il carattere e la personalità di quest’apostolo nell’affrontare la sua chiamata, avvenuta mentre esercitava la sua professione. Era una persona colta, metodica e conoscitore delle scritture come ha testimoniato scrivendo il suo Vangelo, in lingua aramaica poi tradotto in greco, entrambe lingue parlate in Israele ai tempi di Nostro Signore. Scopo del suo scritto, il primo del canone, è quello di presentare Gesù come Re: “Dov’è il re dei giudei che è nato? Abbiamo visto spuntare la sua stella, e siamo venuti ad adorarlo” (Matteo 2.2). Parente di Gesù, era anche fratello di Giacomo di Alfeo, anche lui chiamato ad essere apostolo che nel passo di Luca è collocato al nono posto. Nel gruppo dei dodici, c’erano così tre coppie di fratelli.

 

TOMMASO

Non sappiamo quando avvenne la sua chiamata, ma è certo che seguisse il Signore come discepolo da tempo. Tommaso compare raramente, ma credo che per capirne il carattere occorra partire dal nome: “Toma” significa “Gemello” così come il suo nome greco, Didimo. Quando leggiamo quindi le traduzioni che scrivono “Tommaso detto Didimo” nei tre episodi narrati da Giovanni 11.16; 20.24 e 21.2, in realtà non abbiamo un soprannome, ma due nomi dal significato identico. Gemello è un doppio ed è indice di una personalità che, pur avendo indubbiamente dei pregi come la costanza di cui aveva dato prova seguendo Gesù nei suoi spostamenti da quando fu chiamato, era una persona spiritualmente instabile, in bilico tra il comprendere e non, capace di slanci impetuosi e di atteggiamenti che denotavano una mancata comprensione delle parole che sentiva da Gesù.

Il primo episodio, in Giovanni 11, è riferito alla malattia, poi morte, di Lazzaro che Gesù risusciterà e al clima che si era creato attorno a Lui da parte dei Farisei: quando Gesù dichiarò ai discepoli che voleva tornare in Galilea perché Betania, città di Lazzaro, era là, i suoi gli dissero “Maestro, i giudei poco fa cercavano di lapidarti, e tu vai di nuovo là?” (11.8), tranne Tommaso che sbottò dicendo “Andiamo anche noi a morire con lui!” (v.15), dichiarazione temeraria ma che dice molto su come Tommaso considerasse la propria vita e amasse il suo Maestro, pur con la sua natura rudimentale.

Abbiamo poi Giovanni 14, all’ultima cena, in cui rivela quanto poco avesse capito, o per meglio dire quanto poco in lui fosse rimasto, di tutte le parole che Gesù aveva detto in sua presenza: è un passo che molti conoscono ed è riferito alle ultime parole dette agli undici, poco dopo che Giuda era uscito dalla sala in cui mangiavano: “Il vostro cuore non sia turbato. Credete in Dio, e credete anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte stanze, se no ve l’avrei detto. Io vado a prepararvi un posto. E quando sarò andato e vi avrò preparato il posto, ritornerò e vi accoglierò presso di me, affinché dove sono io siate anche voi. Voi sapete dove io vado e conoscete anche la via”. Facciamo ora attenzione alle parole di Tommaso, che prende la parola esprimendosi al plurale: “Signore, noi non sappiamo dove vai; come possiamo dunque conoscere la via?” (vv.1-5). Le parole successive di Gesù furono “Io sono la via, la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se mi aveste conosciuto, avreste conosciuto anche mio Padre, fin da ora lo conoscete e l’avete visto”. Al che sappiamo che intervenne Filippo dicendo “Signore, mostraci il Padre e ci basta”.

Perché tanta ignoranza? Le reazioni dei discepoli testimoniano due realtà comuni a tutti gli uomini e connesse tra loro: la prima è che non basta sentire delle parole o un’esposizione chiara di concetti se non li si assimilano, soprattutto se questi hanno carattere spirituale. Si rischia di prenderli come dei dati di cui ne si intuisce l’importanza, ma senza un’illuminazione e la volontà onesta di capirle, ci si perde. La seconda è che, senza un’illuminazione, si corre il rischio di essere sterili, di fare magari molto, ma senza raccogliere un frutto. Con ciò non si vuole giudicare gli undici, ma fare un’applicazione alla nostra vita perché ci può essere lo zelo senza la conoscenza così come la conoscenza senza zelo che, entrambe, portano a un nulla, o a un poco, di fatto. Sempre Giovanni al capitolo 6 del suo Vangelo riporta un episodio interessante in proposito: si trovava nella sinagoga di Capernaum con molti giudei e discepoli quando Gesù prese a insegnare e fece un discorso che scandalizzò molti a tal punto che numerosi discepoli smisero di frequentarlo; fu quando disse che, se non avrebbero mangiato la sua carne e bevuto il suo sangue, non avrebbero avuto la vita in loro. Allora è scritto “Da quel momento molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui. Allora Gesù disse ai dodici: «Volete andarvene anche voi?» e Simon Pietro gli rispose «Signore, da chi ce ne andremo? Tu hai parole di vita eterna. E noi abbiamo creduto e abbiamo conosciuto che tu sei il Cristo, il Figlio dell’Iddio vivente»” (Giovanni 6.66-69). Ecco l’importanza del capire, del “credere” e “conoscere”: uno crede perché sperimenta, elabora dentro di sé, matura con tempi che non possono essere immediati, passo dopo passo, tempo dopo tempo, insegnamento dopo insegnamento.

La differenza esistente tra gli apostoli prima e dopo la discesa dello Spirito Santo credo che insegni questo: se Dio non dà una mente nuova, tutto resta inutile, vuoto, privo di risultato e qui sta la verità e l’essenza della condizione apostolica, perché lo Spirito Santo ricordò loro tutte le cose che Gesù aveva insegnato nella sua giusta dimensione. Non leggiamo più di errori dottrinali da parte degli apostoli, salvo un fraintendimento di Pietro sulla circoncisione. Forti di questo avvenimento, una parte del cristianesimo è convinta che sia sufficiente credere per venire illuminati su tutto e comprendere ogni passo della Bibbia che si legge, ma lo stato di apostolo fu unico e limitato agli undici, Mattia a parte che comunque era stato con loro per molto tempo. Purtroppo, costoro non tengono presente che la natura umana è ben presente in tutti e porta con sé presunzione, egoismo, o peggio integralismo, figlio di ignoranza e grettezza. Appartenere a una Chiesa non è appartenere a un gruppo da difendere, ma avere un’identità che si condivide con gli altri, è “essere uno” pur con le differenze di carattere, di doni e di chiamate. Ma ci vuole rispetto, carità reciproca e identificazione, altrimenti quella Chiesa sarà solo uno dei tanti gruppi religiosi che fanno propaganda. E si spegnerà spiritualmente.

Il terzo episodio di Tommaso è quello più conosciuto: non era con gli altri quando Gesù, risorto, si presentò a loro e, quando li raggiunse e gli dissero “Abbiamo visto il Signore”, rispose “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò” (20.25 e seguenti). Qui il “Gemello”, di nome e di fatto, dimostra due cose, cioè di non credere alla testimonianza degli altri e di difendere fino infondo quella parte di uomo in lui che si opponeva a credere una volta per tutte. Tommaso credo sia conosciuto ingiustamente come colui che non credeva perché poi riconoscerà Gesù come suo “Dio”, cosa che nessuno degli altri prima di allora aveva mai detto usando quelle parole. Tommaso dice agli altri che vuole verificare: non gli basta vedere Gesù risorto, vuole toccare con mano, esaminare che sia effettivamente Lui e non un sosia: dovevano esservi i segni dei chiodi non come cicatrici, ma ci avrebbe dovuto passare il dito e avrebbe dovuto mettere la mano nel costato, cioè nel torace, nel punto in cui entrò la lancia del soldato romano che causò la fuoriuscita di sangue ed acqua.

Giovanni ci informa che, quando Gesù ritornò ai dodici otto giorni dopo, non si oppose alla richiesta di Tommaso, non lo sgridò perché aveva messo in dubbio la sua risurrezione: “Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!»” (Giovanni 20.26,29).

Il giudizio di chi legge l’episodio è quasi sempre negativo su quest’apostolo, ma in realtà mostra una trasformazione definitiva da un essere a un divenire definitivo: non essere incredulo, ma (diventa) credente. Definendo Gesù “mio Dio”, Tommaso con quel possessivo capitola una volta per tutte. Don Claudio Doglio, nel suo “Personaggi giovannei” scrive a proposito dell’imperativo rivolto a Tommaso “È un cammino, è la prospettiva della vita, non diventare nella strada della incertezza, della infondatezza, della infedeltà, della sfiducia, ma diventa nella strada della fondatezza, della certezza, della fiducia, della fedeltà. Diventa, matura, cresci; nel dubbio, nella situazione doppia, scegli la strada giusta”.

Può concludere questa riflessione la beatitudine dichiarata da Gesù a tutti quelli che avrebbero creduto: la richiesta di Tommaso non è più possibile, il Figlio siede alla destra del Padre eppure il cristiano è il frutto della testimonianza dei dodici. Si crede per tanti motivi, ma primo fra tutti perché Egli è risorto, vincendo la morte e il peccato al nostro posto, perché avessimo vita nel Suo nome. Amen.

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4.03 – APOSTOLI 3 (Luca 6.12-16)

4.3 – Apostoli III (Luca 6.12-16)

12In quei giorni egli se ne andò sul monte a pregare e passò tutta la notte pregando Dio. 13Quando fu giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede anche il nome di apostoli: 14Simone, al quale diede anche il nome di Pietro; Andrea, suo fratello; Giacomo, Giovanni, Filippo, Bartolomeo, 15Matteo, Tommaso; Giacomo, figlio di Alfeo; Simone, detto Zelota; 16Giuda, figlio di Giacomo; e Giuda Iscariota, che divenne il traditore.”

GIACOMO E GIOVANNI

            Tratteremo questi due apostoli assieme per i dati a disposizione che spesso li accomunano, oltre che per parentela intercorrente fra loro. Sappiamo che erano figli di Zebedeo che sulle rive del lago di Galilea aveva una flotta di barche e dei dipendenti, per cui erano benestanti, ma a differenza di Pietro e Andrea di cui è ricordato solo il padre, Giona, per Giacomo e Giovanni abbiamo anche il nome della madre, Salome, che si distinguerà per far parte del gruppo di donne che condivideva, coi discepoli, i viaggi con Gesù nel suo ministero. Faceva parte del suo seguito, ma soprattutto fu presente alla crocifissione come ci dice Matteo 27.55,56 quando scrive “Vi erano là anche molte donne, che osservavano da lontano; esse avevano seguito Gesù dalla Galilea per servirlo. 56Tra queste c’erano Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo e di Giuseppe, e la madre dei figli di Zebedeo”. Salome non solo seguirà Gesù fino alla morte sulla croce, ma voleva occuparsi anche del suo corpo per imbalsamarlo. Sarà una componente della Chiesa di Gerusalemme e probabilmente faceva parte di quelle 120 persone sulle quali scenderà lo Spirito Santo.

Marco ci dice che a questi due apostoli Gesù “diede il nome di Boanèrges, cioè figli del tuono” a significare secondo molti il loro carattere umano energico e impetuoso che si rivelò in alcuni episodi nei Vangeli: ad esempio Giovanni era tra quelli che volevano impedire a un innominato di cacciare i demoni nel nome di Gesù (Marco 9.38) e col fratello rivolsero al loro Maestro una richiesta che denotava poca riflessione e una forte ambizione umana, probabilmente sobillati dalla loro madre col la quale avevano parlato. Scrive sempre Marco: “Gli si avvicinarono Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra». Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». Gli risposero: «Lo possiamo». E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato»” (10.35-40). Matteo, nel passo parallelo, scrive che la richiesta fu portata avanti dalla loro madre Salome (20.20-24), ma il fatto che la risposta di Gesù anche in quella versione sia al plurale, “Voi non sapete quello che chiedete”, lascia supporre che i tre fossero concordi nel presentare quella richiesta. Questo episodio è scritto che provocò l’indignazione degli altri dieci apostoli: “All’udire questo, gli altri dieci furono indignati contro i due fratelli” (v. 24).

Altro passo particolare che denota il loro carattere lo troviamo in Luca 9.51,55: Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, egli prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme e mandò messaggeri davanti a sé. Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per preparargli l’ingresso. Ma essi non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme. Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». Si voltò e li rimproverò. E si misero in cammino verso un altro villaggio”.

A parte questi dati mi risulta però difficile pensare che Nostro Signore li chiamò “figli del tuono” unicamente per il loro carattere, così come non credo abbia chiamato Simone “Cefa” perché era il più robusto di tutti; piuttosto, Lui che guardava non all’uomo ma al suo cuore e a quello che sarebbe diventato con l’opera della Grazia e dello Spirito Santo, pensava al “tuono” come quella voce e presenza di Dio che la maggioranza non comprende e che va rivelata. Dopo il discorso di Gesù sulla sua imminente morte e resurrezione, quando disse “Padre, glorifica il tuo nome”, leggiamo che “Venne allora una voce dal cielo: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!». La folla, che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato»” (Giovanni 12.28,29). Un ultimo passo, che poi cronologicamente nella storia umana è il primo a mettere in connessione il tuono con la presenza di Dio, lo troviamo in Esodo 19.16: “Il terzo giorno, sul far del mattino, vi furono tuoni e lampi, una nube densa sul monte e un suono fortissimo di corno: tutto il popolo che era nell’accampamento fu scosso da tremore”.

Possiamo fare allora queste considerazioni: il tuono nella Scrittura è un suono sostitutivo di una realtà percepibile e pochi, ma incomprensibile a molti ed infatti, nel passo di Giovanni, fu quello sentito dalla folla e fu solo l’evangelista, e probabilmente quanti dei discepoli erano con lui, ad ascoltare le parole “L’ho glorificato e lo glorificherò ancora”. Ciò che non avvenne al battesimo di Gesù, quando la voce “Questo è il mio diletto figlio in cui mi sono compiaciuto” fu udita da tutti. Giacomo e Giovanni, allora, furono chiamati “figli del tuono” anche perché avrebbero rivelato ciò che Dio voleva fosse conosciuto dagli uomini senza possibilità di fraintendimento. Perché fossero formati, furono anch’essi testimoni di eventi che gli altri dodici non videro a parte Pietro: pensiamo alla trasfigurazione, alla resurrezione della figlia di Giairo, capo della sinagoga di Capernaum. A loro Gesù concesse di essergli vicini negli ultimi momenti nell’orto del Getsemani: “Allora Gesù andò con loro in un podere, chiamato Getsèmani, e disse ai discepoli: «Sedetevi qui, mentre io vado là a pregare». E, presi con sé Pietro e i due figli di Zebedeo, cominciò a provare tristezza e angoscia. E disse loro: «La mia anima è triste fino alla morte; restate qui e vegliate con me». Andò un poco più avanti, cadde faccia a terra e pregava, dicendo: «Padre mio, se è possibile, passi via da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!». Poi venne dai discepoli e li trovò addormentati. E disse a Pietro: «Così, non siete stati capaci di vegliare con me una sola ora? Vegliate e pregate, per non entrare in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole». Si allontanò una seconda volta e pregò dicendo: «Padre mio, se questo calice non può passare via senza che io lo beva, si compia la tua volontà». Poi venne e li trovò di nuovo addormentati, perché i loro occhi si erano fatti pesanti. Li lasciò, si allontanò di nuovo e pregò per la terza volta, ripetendo le stesse parole. Poi si avvicinò ai discepoli e disse loro: «Dormite pure e riposatevi! Ecco, l’ora è vicina e il Figlio dell’uomo viene consegnato in mano ai peccatori. Alzatevi, andiamo! Ecco, colui che mi tradisce è vicino» (Matteo 26.36-46).

Giacomo e Giovanni realizzarono il loro compito di “figli del tuono” come testimoni ed effettivamente bevvero quel “calice” ed ebbero quel “battesimo” di cui parlò loro Gesù dopo la richiesta non corretta che gli rivolsero; ciò avvenne con la testimonianza che dettero entrambi il primo come componente di spicco nella comunità di Gerusalemme divenendo martire della Chiesa, fatto uccidere da Erode Agrippa I: “In quel tempo il re Erode cominciò a perseguitare alcuni membri della Chiesa. Fece uccidere di spada Giacomo, fratello di Giovanni. Vedendo che ciò era gradito ai Giudei, vece arrestare anche Pietro” (Atti 12.1,2). Di Giovanni invece è noto che, pur non passando attraverso il martirio, subì tutte le forti persecuzioni di cui fu oggetta la Chiesa tanto per mano giudaica quanto sotto l’impero di Domiziano. Autore del quarto Vangelo, il più spontaneamente dottrinale, quello che può essere definito “il Vangelo dell’amore”, è autore di tre lettere e dell’Apocalisse, l’unico libro lasciato ai cristiani per riconoscere i tempi e gli eventi che avrebbero accompagnato la Chiesa nella sua storia dall’ascensione al cielo di Gesù al suo ritorno.

Giacomo, secondo una terminologia che non mi trova consenziente, è detto “il maggiore” per distinguerlo da un altro omonimo apostolo, che è già indicato negli elenchi come “Giacomo di Alfeo”. C’è poi anche un altro Giacomo, detto nel libro degli atti il “fratello del Signore”, che ebbe un ruolo importante nella Chiesa di Gerusalemme.

La singolarità del rapporto che Giovanni aveva col suo Maestro è descritta nel suo Vangelo dopo l’annuncio dell’imminente tradimento da parte di uno di loro: “I discepoli si guardavano l’un l’altro, non sapendo bene di chi parlasse. Ora uno dei discepoli, quello che Gesù amava, si trovava a tavola a fianco di Gesù. Simon Pietro gli fece cenno di informarsi chi fosse quello di cui parlava” (Giovanni 13.22-24). Giovanni accompagnerà Gesù fino alla crocifissione, che in quella occasione gli affidò sua madre: “Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco tuo figlio!». Poi disse al discepolo «Ecco tua madre». E da quell’ora il discepolo lo accolse con sé” (Giovanni 19.26,27).

È da notare che Gesù affida la propria madre a Giovanni quando Maria aveva altri figli e figlie che avrebbero potuto occuparsi di lei, ma non vi sarebbe stata la stessa parentela spirituale e quel discepolo sarebbe stato il più idoneo a sostenerla.

 

FILIPPO

Altro apostolo che conosciamo già in queste meditazioni cronologiche. Il suo carattere ed il retroterra culturale che lo caratterizzavano emergono proprio dai passi che abbiamo già affrontato: ricordiamo che mentre Giovanni e Andrea si recarono spontaneamente da Gesù, con Filippo che conoscevano fu il contrario: “Il giorno dopo Gesù volle partire per la Galilea, trovò Filippo e gli disse «Seguimi». Filippo era di Betsaida, la città di Andrea e di Pietro” (Giovanni 1.43,44). Il “Trovare”, che è tradotto anche con “incontrare”, se può significare imbattersi in qualcuno, implica però una ricerca, un’attesa. Certo Nostro Signore non s’imbatté per caso in Filippo perché sapeva che lo avrebbe incontrato e chiamato usando lo stesso invito che ebbe con Levi Matteo, “Seguimi”. E Filippo è scritto che subito dopo “trovò” Natanaele,: come Giovanni, Andrea e i loro fratelli, era un discepolo di Giovanni Battista che non solo non seppe trattenere la gioia del suo incontro col Maestro, ma diede prova di essere persona avveduta ed espansiva andando a cercare Natanaele (Bartolomeo) per dirgli “Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè, nella Legge, e i profeti: Gesù, figlio di Giuseppe, da Nazareth” (Giovanni 1.45). Persona discreta, scelse di non perdere tempo a convincerlo del fatto che Gesù fosse il Messia, ma preferì che fosse Natanaele stesso a sperimentarlo di persona con le parole “Vieni e vedi”.

Filippo era anche una persona aperta e pronta al servizio, come già abbiamo accennato mettendolo in relazione con Andrea nell’episodio dei greci che volevano vedere Gesù e, nell’occasione del miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, fu messo alla prova dal Maestro con la frase “Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?” (Giovanni 6.5). Non ottenne altro che una risposta tecnica, cioè che duecento denari di pane non sarebbero bastati.

La figura di quest’apostolo, come accaduto con Pietro, è utile perché testimonia ancora una volta di quanto la natura umana sia sempre in opposizione alle esigenze, alle realtà di Dio e non possa comprenderle senza l’opera dello Spirito Santo: tornando ancora all’ultima cena, leggiamo ciò che avvenne dopo che Giuda uscì dalla sala.

Simon Pietro gli disse: «Signore, dove vai?». Gli rispose Gesù: «Dove io vado, tu per ora non puoi seguirmi; mi seguirai più tardi». Pietro disse: «Signore, perché non posso seguirti ora? Darò la mia vita per te!». Rispose Gesù: «Darai la tua vita per me? In verità, in verità io ti dico: non canterà il gallo, prima che tu non m’abbia rinnegato tre volte. Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: «Vado a prepararvi un posto»? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. E del luogo dove io vado, conoscete la via». Gli disse Tommaso: «Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?». Gli disse Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto». Gli disse Filippo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta». Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire: «Mostraci il Padre»? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso; ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere. Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro, credetelo per le opere stesse.” (Giovanni 13.36-38; 14.1-11).

Abbiamo qui un quadro desolante: Pietro si dichiara pronto a dare la vita per il suo Maestro ma, terrorizzato, lo avrebbe rinnegato tre volte. Tommaso, dopo tre anni di vita comune con lui, non aveva ancora capito che Gesù se ne sarebbe tornato al Padre soprattutto dopo il suo discorso sulla casa dalle molte stanze e Filippo, completamente fuori contesto, gli dice che a loro sarebbe bastato che gli fosse mostrato il Padre dimenticando le parole “Io e il Padre siamo uno”. Questo episodio è la prova di quanto qualsiasi uomo, in quanto tale, sia naturalmente distante da Dio nel momento in cui segue i propri pensieri, dà retta ai suoi impulsi, cerca di capire con il proprio metro e intelligenza ciò che invece dev’essere lo spirito a comunicare. Vero è che lo Spirito Santo non era ancora sceso, ma ricordiamo che già da allora erano possibili rivelazioni da parte del Padre, come quando Pietro riconobbe in Gesù “Il Cristo, il figlio dell’Iddio Vivente”.

Concludendo, anche la storia di Giacomo, Giovanni, Filippo e come vedremo di tutti gli undici, testimonia che per ogni essere umano che accetta di far entrare Gesù Cristo nella propria vita non può che esistere un prima e un dopo, una progressione nella conoscenza, nella grazia e nell’amore ricambiato di Dio. E lo stesso Pietro, nella sua prima lettera, cita Isaia scrivendo “Ecco, io pongo in Sion una pietra angolare, eletta e preziosa. E chi crederà in lei non resterà confuso”.

 

GIACOMO DI ALFEO

            Sono davvero pochi i dati su questo nono apostolo salvo che, come abbiamo visto con Matteo, fosse suo fratello. Di lui si sa solo che faceva parte della Chiesa di Gerusalemme e che era presente alla discesa dello Spirito Santo sui suoi componenti.

 

SIMONE LO ZELOTA

Così chiamato da Luca, ma da Matteo e Marco “Simone il cananita” che, contrariamente a quando si possa pensare, non indica una provenienza geografica, ma ha lo stesso significato perché l’ebraico “qana” si riferisce alla corrente degli zeloti fondata da Giuda il galileo di cui parlò Gamaliele in Atti 5-37: “Dopo di lui – Teuda – al tempo del censimento sorse Giuda il Galileo, che trascinò dietro a sé molta gente; anch’egli perì e tutti coloro che lo seguirono furono dispersi”. Come per Giacomo di Alfeo, null’altro sappiamo di questo apostolo se non che era stato un appartenente di quel gruppo, che oggi i media definirebbero “terrorista”. Gli zeloti infatti erano nati da una rivolta contro il censimento di Quirino ed erano divenuti una setta che faceva incursioni e uccideva sia i cittadini dell’impero romano che gli ebrei sospettati di collaborare con loro. I romani li chiamavano “sicari”, cioè “pugnalatori” per la loro tecnica più diffusa descritta da Giuseppe Flavio nella sua “Guerra giudaica”: “in Gerusalemme nacque una nuova forma di banditismo, quella dei cosiddetti sicari, che commettevano assassinii in pieno giorno nel mezzo della città. Era specialmente in occasione delle feste che essi si mescolavano alla folla, nascondevano sotto le vesti dei piccoli pugnali e con questo colpivano i loro avversari. Poi, quando questi cadevano, gli assassini si univano a coloro che esprimevano il loro orrore e recitavano così bene da essere creduti e quindi non riconoscibili”. Se Simone lo zelota era uno di loro, resta un testimone di quanto profondo sia stato il cambiamento avvenuto in lui, che accettò di condividere la vita dei dodici accanto a un pubblicano come Matteo e a vivere le adunanze di chiesa non solo con ebrei.

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4.02 – APOSTOLI 2 (Luca 6.12-16)

4.2 – Apostoli II (Luca 6.12-16)

 

 12In quei giorni egli se ne andò sul monte a pregare e passò tutta la notte pregando Dio. 13Quando fu giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede anche il nome di apostoli: 14Simone, al quale diede anche il nome di Pietro; Andrea, suo fratello; Giacomo, Giovanni, Filippo, Bartolomeo, 15Matteo, Tommaso; Giacomo, figlio di Alfeo; Simone, detto Zelota; 16Giuda, figlio di Giacomo; e Giuda Iscariota, che divenne il traditore.”

PIETRO

            Prima di iniziare a parlare di questo apostolo, ma anche di tutti gli altri, va tenuto presente che sarà necessario citare degli episodi o delle frasi che potranno essere sviluppate solo in parte. Le brevi note che si troveranno su tutti gli apostoli, quindi, vanno intese come dei semplici appunti in vista dell’approfondimento che verrà fatto quando si giungerà a commentare i passi veri e propri secondo la cronologia che ci siamo dati.

Dei dodici abbiamo quattro elenchi forniti dai sinottici e dal libro degli Atti, alcuni dei quali differiscono per nome e ordine, ma riferenti alle stesse persone. Pietro è il primo a comparire in tutti e Matteo scrive “Il primo è Simone, detto Pietro”, nome che sappiamo anticipatogli da Gesù nell’incontro che ebbe con lui per interessamento di suo fratello Andrea. In quell’occasione fu chiamato così in aramaico: “«Tu sei Simone, figlio di Giona; sarai chiamato Cefa», che significa pietra” (Giovanni 1.42). Cefa significa “sasso”, “pietra”, ma anche “roccia”, elementi da considerare perché costituiscono una profezia su di lui che riguardò la sua vita dopo la discesa dello Spirito Santo a Gerusalemme, ma è al tempo stesso connessa al fatto che fu Pietro il primo dei dodici a riconoscerlo come “Il Cristo, il figlio dell’Iddio vivente”. In quell’occasione Gesù gli disse “«Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli.E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli»” (Matteo 16.17-19). È questo un verso che purtroppo costituisce un terreno minato, un caso di contesa per la cristianità perché in essi la Chiesa Romana vede l’istituzione di Pietro come primo fra gli apostoli nel senso di capo e ha dato l’imprimatur a una versione che, con una licenza che quanto meno intristisce, al posto di “su questa pietra” ha “su di te”, stravolgendone il senso.

Pietro, per le ragioni che vedremo, era una persona dal carattere particolare e Gesù, chiamandolo Cefa, volle fare riferimento al ruolo che avrebbe avuto; nel verso di Matteo che abbiamo letto, impiegò il termine “pietra” definendo come tale la verità sulla quale poggia la fede del vero cristianesimo: Gesù è il Cristo, il Figlio dell’Iddio vivente. Simone sarebbe stato una pietra secondo quanto troviamo nella sua prima lettera in cui usa lo stesso termine: “Avvicinandovi a lui, pietra viva, rifiutata dagli uomini ma scelta e preziosa davanti a Dio, quali pietre vive siete costruiti anche voi come edificio spirituale, per un sacerdozio santo e per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, mediante Gesù Cristo” (1 Pietro 2.4). Ora l’apostolo fa un distinguo ben preciso fra la “pietra viva”, e le “pietre vive” divenute tali non per loro potere: queste costituiscono la Chiesa, composta da tutti coloro che credono e sono stati salvati di cui Gesù è la pietra angolare, la prima che viene posata e che sorregge tutto l’edificio, quella che i costruttori avevano disprezzato (Salmo 118.22), quella che Dio aveva “…posto come fondamento in Sion, una pietra provata, una pietra angolare e preziosa, un fondamento solido; chi confiderà in essa non avrà fretta di fuggire” (Isaia 28.16).

Se Gesù è quindi la pietra d’angolo, Cefa è una pietra come tutte le altre, ma particolare ed unica al tempo stesso proprio perché non solo sarà il primo a riconoscere in Gesù il Cristo, ma per tutto quello che darà in seguito, per il ruolo importante non solo di predicazione verso gli ebrei.

Cefa non sarà “la” pietra, ma “una” pietra e il testo di Matteo 16.18 su cui tanti hanno conteso significa proprio che Gesù avrebbe edificato la propria Chiesa non su Pietro come apostolo, ma sulla verità che lui espresse: “Tu sei il Cristo, il figlio dell’Iddio Vivente”. Pietro, attribuendo a Gesù il titolo di Cristo lo riconosce come il Messia che avrebbe dovuto venire un giorno e come “Figlio dell’Iddio vivente” cioè individua come procedenti da Dio tutti gli eventi che sarebbero accaduti, ammette che Gesù era non solo un inviato, ma dichiara chi veramente era, da dove venisse, la realtà spirituale e fisicamente eterna che lo contraddistingueva dagli altri. Impossibile una Chiesa che non si fondi su questa verità che non a caso fu minata dalle eresie che, fin dal primo secolo, iniziarono a mettere in discussione proprio la natura del Cristo. È da lì che si parte, dal Figlio di Dio che assunse forma di servo e che morì per noi. Senza quella dichiarazione di Pietro, fatta poi anche dagli altri, in cosa si crederebbe? Riconoscere Gesù nei termini che abbiamo visto è il primo passo, non ve ne possono essere di alternativi perché sarebbero inutili; non salva sapere che Lui è stato un pensatore e un predicatore d’amore, pace e fratellanza tra gli uomini: non è vero, è riduttivo, offensivo alla luce del fatto che, prima di tutto, Gesù mostrò l’amore dell’unico Dio vero e Santo a favore dell’uomo, così inadeguato e lontano, sacrificandosi per la salvezza di quanti lo avrebbero accolto.

Pietro fu un personaggio diverso dagli altri dodici: irruento, facile tanto ad entusiasmarsi quanto a cadere nella paura, energico e pronto a parlare a volte a sproposito nel momento in cui seguiva la propria umanità, era quello tenuto in più considerazione dal gruppo dei dodici senza che lo considerassero comunque un capo, vista la discussione che sorgerà tra loro in Marco 9.33,35: “Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?». 34Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande. 35Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti»”.

Pietro fu testimone, con Giacomo e Giovanni, di miracoli ed avvenimenti che gli altri apostoli non videro. Se il Vangelo ce lo dipinge come una persona molto “umana” nelle sue reazioni (l’orecchio tagliato di Malco, episodio che ci lascia supporre che quest’apostolo fosse corpulento, o il camminare sull’acqua salvo sprofondarvi dentro, il suo pianto amaro al terzo rinnegamento di Gesù), il libro degli Atti lo descrive come una persona di cui Dio si servì per la predicazione, istruendolo anche con visioni. Paolo lo cita come Cefa in Galati 2.9 come colonna della Chiesa assieme a Giacomo e Giovanni e qui, se vogliamo, possiamo vedere anche il significato di “roccia” come risultato dell’azione della Grazia che farà di lui un personaggio così importante per la predicazione del Vangelo e nell’edificazione della Chiesa primitiva essendogli affidato il compito di essere “l’apostolo degli incirconcisi”, cioè degli ebrei (Galati 2.8).

Pietro abbiamo detto essere interessante per la sua profonda umanità nel senso che, se fu un predicatore formidabile e per nulla timoroso di fronte all’autorità politica contraria al Vangelo, non fu esente da errori di comportamento trattando differentemente quanti si convertivano dal giudaismo e dal paganesimo. Si tratta di un episodio che può insegnare molto anche a noi perché possiamo capire quanto sia facile essere condizionati dalle nostre certezze presunte, dal nostro retaggio culturale. Il passo di riferimento è quello di Pietro che predica in casa del centurione romano Cornelio narrato in Atti 10.9-33. In quell’occasione, quando iniziò a parlare, l’apostolo disse “In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga”. Ebbene, questo concetto fondamentale fu da lui dimenticato nonostante la visione avuta e le parole udite in quell’occasione.

Pietro dovette essere ripreso da Paolo per la preferenza che dava ai giudei convertiti rispetto ai pagani e questo, anziché squalificarlo, rivela quanto sia facile cadere nell’errore nonostante rivelazioni che poi, involontariamente e per la nostra natura defettibile, si dimenticano. Ed è da sottolineare che in Pietro la potenza di Dio operava non poco, vista la resurrezione di Tabità a Giaffa operata poco tempo prima dell’incontro con Cornelio e la sua famiglia. Questo ci fa tornare al principio dell’impossibilità dell’esistenza del “conduttore perfetto” perché, se esistesse, non ci sarebbe bisogno de “il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. Pietro fu quindi “il primo” sotto le ottiche che abbiamo visto brevemente, ma non con funzioni direttive che ci autorizzino a ritenere che avesse autorità sugli apostoli: nella Chiesa non può esistere una gerarchia o una scala di importanza, ma uomini che hanno un dono e che lo esercitano rispondendo direttamente a Dio e che vanno riconosciuti, ma senza pensare ad un’autorità umana o di gradi come può accadere per l’esercito o altri corpi organizzati. La Chiesa di Cristo non può essere una multinazionale o una grande azienda, con dirigenti e operai, ma è una struttura spirituale, un tempio in cui ciascuno opera in base ai domi ricevuti e non dalle persone che “converte”, dal carisma umano o dalla cultura che possiede.

 

ANDREA

                  Sappiamo che fu il primo dei discepoli con cui Gesù Parlò, assieme a Giovanni. Il suo nome significa “Virile” o “Uomo di valore” e sappiamo essere fratello di Pietro, come lui pescatore, col quale aveva un rapporto di amicizia e di condivisione spirituale come rileviamo dalla frase che gli disse non appena lo incontrò, “Noi abbiamo trovato il Messia” (Giovanni 1.41). La Chiesa ortodossa, per questo episodio, lo definisce “Protòcletos”, cioè “il primo chiamato”. Come Giovanni, suo amico, era una persona sensibile e dette prova di riconoscersi peccatore e bisognoso del Cristo che sarebbe arrivato non limitandosi a farsi battezzare da Giovanni Battista, ma divenendo suo discepolo.

Andrea era una persona profondamente interessata alla predicazione di Gesù e desideroso di conoscere gli avvenimenti che avrebbero riguardato l’umanità in futuro. Leggiamo in proposito Marco 13.1-5: Mentre usciva dal tempio, uno dei suoi discepoli gli disse: «Maestro, guarda che pietre e che costruzioni!». Gesù gli rispose: «Vedi queste grandi costruzioni? Non sarà lasciata qui pietra su pietra che non venga distrutta». Mentre stava sul monte degli Ulivi, seduto di fronte al tempio, Pietro, Giacomo, Giovanni e Andrea lo interrogavano in disparte: «Di’ a noi: quando accadranno queste cose e quale sarà il segno quando tutte queste cose staranno per compiersi?»”. Questa fu una domanda che suscitò l’esposizione del cosiddetto “sermone profetico” e testimonia quanto Andrea, con gli altri tre che ebbero un rapporto con Gesù più ravvicinato che non i rimanenti otto,tenessero in considerazione le parole di Gesù in ogni cosa, comprese quelle che riguardavano avvenimenti non ancora avvenuti. Credo sia un particolare importante, perché un conto e credere a un miracolo che si constata di persona, e un altro è accettare per vere parole che non si ha modo di verificare.

Andrea, chiamato a seguire personalmente Gesù dopo la pesca miracolosa sul mare di Galilea con Pietro, Giacomo e Giovanni sulla quale abbiamo riflettuto, abitava con Pietro e sua moglie a Capernaum ed era di Betsaida. Come lo ha definito un caro fratello, era un “uomo di pubbliche relazioni” come vediamo nell’episodio degli ebrei greci che volevano vedere Gesù: “Tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c’erano anche alcuni Greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli domandarono: «Signore, vogliamo vedere Gesù». Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù” (Giovanni 12.20-22).

Andrea aveva già dato prova di interessarsi delle persone che venivano alle predicazioni di Gesù, come leggiamo nel miracolo della prima moltiplicazione dei pani e dei pesci: fu lui infatti ad indicare che, in mezzo alla fola, c’era “un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due piccoli pesci, ma cos’è questo per tanta gente?” (Giovanni 6.9). In proposito e aprendo una piccola parentesi, è degno di nota come Papa Francesco Bergoglio ha inquadramento l’episodio quando, urtando non poco la suscettibilità dei tradizionalisti, disse che i pani e i pesci non si moltiplicarono, «ma semplicemente non finirono, come non finì la farina e l’olio della vedova. Quando uno dice “moltiplicare” può confondersi e credere che faccia una magia. No, semplicemente è la grandezza di Dio e dell’amore che ha messo nel nostro cuore che, se vogliamo, quello che possediamo non termina”.

In effetti a parlare di moltiplicazione sono coloro che si sono adoperati per scrivere i brevi titoli che precedono gli episodi dei Vangeli e non i diretti Autori e scrivere di “moltiplicazione dei pani” risulta più immediato che non “i pani che non finirono”; il paragone con la farina e l’olio della vedova, poi, appare quanto mai pertinente perché abbiamo due casi, tra loro simili, il primo dei quali ricordato in 1 Re 17.14-16: si tratta di un miracolo che operò il profeta Elia alla vedova di Sarepta: “«La farina della giara non si esaurirà e l’orcio dell’olio non diminuirà fino al giorno in cui il Signore manderà la pioggia sulla faccia della terra». Quella andò e fece come aveva detto Elia; poi mangiarono lei, lui e la casa di lei per diversi giorni. La farina della giara non venne meno e l’orcio dell’olio non diminuì, secondo la parola che il Signore aveva pronunciato per mezzo di Elia”.In 2 Re 4.1-38, ve ne fu un altro, operato invece da Eliseo, in cui fu un vasetto d’olio a riempire tutti i vasi che la vedova fu in grado di farsi prestare dai vicini.

Vero è che nel miracolo dei pani e dei pesci è scritto che ne avanzarono dodici ceste, ma furono appunto di avanzi, non pani o pesci interi; è scritto che “Raccolsero dodici ceste piene di pezzi di pane e di resti di pesci. Or coloro che avevano mangiato di quei pani erano cinquemila uomini” (Marco 6.43,44). Del resto ricordiamo il miracolo delle nozze di Cana, in cui mutò la sostanza e non cambiò il numero degli otri. Il gesto creativo di Dio non può essere limitato, iscritto nei confini delle possibilità umane.

Andrea viene citato un’ultima volta nel libro degli Atti in cui abbiamo il quarto elenco degli apostoli ed è, come negli altri tranne che in Marco, citato al secondo posto. Leggiamo che, dopo l’ascensione, tutti erano soliti riunirsi in una casa, in una stanza al piano superiore di essa: “Tutti questi erano perseveranti e concordi nella preghiera, insieme ad alcune donne e a Maria, la madre di Gesù, e ai fratelli di lui” (Atti 1.12-14).

Notizie successive non ce ne sono state trasmesse nel Nuovo Testamento, ma Eusebio di Cesarea, vissuto tra il 265 e il 340, considerato il primo ad occuparsi di storia della Chiesa, scrive che fu attivo in Asia Minore, lungo il Mar Nero, il Volga e a Kiev. Si tratta di un autore, Eusebio, i cui studi non sono accettati all’unanimità così come il suo racconto della morte di questo apostolo, tramite crocifissione a forma di “X” ancora oggi nota come “Croce di S. Andrea”.

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4.01 – APOSTOLI 1 (Introduzione)

4.1 – Apostoli, introduzione

L’elezione dei dodici apostoli costituisce, nel campo delle nostre riflessioni sui Vangeli, un episodio importante e molto particolare, che ci consente di dare uno sguardo panoramico sulla personalità e i ruoli che questi ebbero nella storia della salvezza. La loro scelta è posta da Marco e Luca prima del discorso della montagna, mentre Matteo la pone dopo, in occasione del loro invio in missione nelle città di Israele, ma non dice che la loro costituzione avvenne in quel momento lasciando intendere che l’elezione ad apostoli avvenne in precedenza.

Studiare l’elenco dei dodici e svilupparlo non è facile perché occorre orientarsi, passare attraverso passi nascosti stante la nostra attenzione umana che tende più a focalizzarsi sui discorsi, sui fatti così diversi tra loro che incontriamo nella lettura dei Vangeli più che sulle persone, soprattutto quelle nominate magari solo in un versetto su cui sorvoliamo. Anche per questo è necessaria un’introduzione allo studio sugli apostoli che ci impegnerà per un certo tempo, introduzione che terrà conto di molti punti e idee che, pur attinenti al testo, si svilupperanno considerando fatti e motivazioni non così immediate rispetto a Luca 6. L’elezione dei dodici fu un’iniziativa che ebbe radici molto profonde e nascoste al lettore; la stessa notte che Nostro Signore passò in preghiera al verso 12 tendiamo a considerarla come un fatto scontato, dimenticandoci forse di quanto una notte sia lunga, che chi si trova ad affrontarla deve farei i conti con le ondate di sonnolenza che arrivano fisiologicamente, dell’attenzione che cala e che la stanchezza prevalse su Pietro, Giacomo e Giovanni quando, invitati a pregare dal loro Maestro nell’orto del Ghetsemane in un momento di assoluta gravità, si addormentarono: “Così non siete stati capaci di vegliare con me una sola ora? Vegliate e pregate per non entrare in tentazione: Lo spirito è pronto, ma la carne è debole” (Matteo 26.40).

Gli evangelisti non ci hanno trasmesso i contenuti della preghiera che Gesù elevò al padre prima di scegliere i dodici, ma posso pensare che fosse basata principalmente non tanto su chi scegliere, ma sullo sviluppo della loro elezione: Nostro Signore conosceva il cuore umano, il passato, il presente e il futuro di quelle persone, ma soprattutto le loro debolezze e sapeva che era a loro che veniva affidato il compito di essere i coadiutori nella predicazione prima e soprattutto dell’evangelizzazione dopo la Sua risurrezione: gli apostoli sarebbero stati i costruttori e i fondatori della Chiesa per cui la preghiera al Padre fu incentrata sul loro sviluppo, sulla loro crescita nella storia affinché fossero custoditi nella fede e sostenuti nell’ora del turbamento forte e violento che avrebbero avuto al suo arresto, sul fatto che fossero oggetto dell’attenzione divina in ogni loro passo e perché svolgessero fedelmente il loro ruolo di inviati. Un esempio di preghiera in questo senso lo troviamo al capitolo 17 del Vangelo di Giovanni in cui abbiamo le richieste al Padre non solo per tutti quelli che avevano creduto in Lui allora, ma anche per quelli che sarebbero venuti dopo: “9Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per coloro che tu mi hai dato, perché sono tuoi. 10Tutte le cose mie sono tue, e le tue sono mie, e io sono glorificato in loro. 11Io non sono più nel mondo; essi invece sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, custodiscili nel tuo nome, quello che mi hai dato, perché siano una sola cosa, come noi. (…)15Non prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li custodisca dal Maligno. 16Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. 17Consacrali nella verità. La tua parola è verità. 18Come tu hai mandato me nel mondo, anche io ho mandato loro nel mondo; 19per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità.”.

La preghiera che Gesù rivolse al Padre prima di chiamare alcuni dei suoi discepoli “apostoli”, poi, è anche un esempio per tutti i credenti tenuti ad interrogarsi su quanto preghino e chiedano al Padre prima di effettuare delle scelte che inevitabilmente influenzeranno la loro vita spirituale e materiale. Se anche noi dessimo spazio a una preghiera di questo tipo quanto a dipendenza da Dio quando ci troviamo di fronte a dei bivi importanti, probabilmente non ci troveremmo a pagarne delle conseguenze amare dopo.

Gesù prega “tutta la notte” dimostrando così umanamente il proprio impegno spirituale e sceglie i dodici “quando fu giorno”, segno che c’è prima un tempo nascosto e riservato in cui prega per loro e uno ufficiale in cui li chiama: anche oggi, se un essere umano viene invitato a seguire Gesù credendo, viene chiamato dopo un tempo, che lui stesso ignora, in cui è stato progettato un percorso e un ruolo. Per questo un passo conosciuto recita “quand’anche camminassi nella valle dell’ombra della morte, io non temerei male alcuno, perché tu sei con me” (Salmo 22.4), perché la protezione di Dio è totale.

Padre e Figlio allora parlarono dei dodici, o per meglio dire di quegli undici che lo avrebbero seguito fino alla fine e dell’uno che avrebbe tradito morendo suicida, fatto previsto e di cui si parla nel Salmo 41.9 dove leggiamo “Anche l’amico in cui confidavo, anche lui che mangia il mio pane, alza contro di me il suo calcagno”, detto ebraico che significa “tramare contro qualcuno a sua insaputa”.

Altro argomento importante come premessa alla chiamata dei dodici è quello della “trasmissione” che ci fu: la volta scorsa abbiamo parlato del Servo scelto perché nessuno se non Gesù poteva portare a compimento l’opera che Padre, Figlio e Spirito Santo avevano progettato. Iddio quindi scelse il Servo, il Servo a suo volta scelse gli Apostoli senza alcun errore neppure riguardo a quello che lo tradirà.

Leggiamo in Marco “Salì poi sul monte, chiamò a sé quelli che voleva ed essi andarono da lui. Ne costituì dodici, che chiamò apostoli, perché stessero con lui e per mandarli a predicare con il potere di scacciare i demoni” (3.13,14); Matteo scrive che “Chiamati a sé i suoi dodici discepoli, diede loro potere sugli spiriti impuri per scacciarli e guarire ogni malattia ed ogni infermità” (10.1); cioè fa due azioni distinte la prima delle quali è chiamarli, definirli, dare loro la qualifica di “apostoli” come coloro che, nella vita civile di allora, erano inviati a comunicare le decisioni giudiziarie. Ricordiamo che lo stesso Sinedrio, il massimo organo teologico – giudiziario di allora, si serviva di persone, chiamate “apostoli” per far pervenire le sue delibere alle varie comunità sparse per il territorio. L’apostolo non era un semplice inviato, un “Anghelos”, un messaggero, ma una persona fornita di credenziali che, nel caso dei dodici, furono quelle di avere “potere sugli spiriti impuri per cacciarli e guarire ogni malattia ed ogni infermità”, cioè quelle negatività chiaramente riscontrabili che l’uomo aveva contratto come conseguenza dell’incontro con Satana, quell’Avversario che la superstizione, la leggenda, la cinematografia e la credenza popolare tendono a raffigurare attraverso immagini e manifestazioni estreme, ignorando che la sua pericolosità consista nel mettere in atto tutto ciò che allontana l’uomo da Dio. Satana non si manifesta mai in tutto il suo orrore, ma in forme che lo mimetizzano e usando strumenti insospettabili come il serpente in Eden, animale conosciuto e non temuto da Eva fece prima di tutto l’errore di dialogare con un essere inferiore ponendolo sul suo stesso piano.

A dare la qualifica di “apostolo” è Gesù, lui solo. Fu una carica unica, non trasmissibile ad altri ad eccezione di quel Mattia che prenderà il posto di Giuda Iscariotha di cui leggiamo in Atti 1.15-26: “15In quei giorni Pietro si alzò in mezzo ai fratelli – il numero delle persone radunate era di circa centoventi – e disse: 16«Fratelli, era necessario che si compisse ciò che nella Scrittura fu predetto dallo Spirito Santo per bocca di Davide riguardo a Giuda, diventato la guida di quelli che arrestarono Gesù. 17Egli infatti era stato del nostro numero e aveva avuto in sorte lo stesso nostro ministero. 18Giuda dunque comprò un campo con il prezzo del suo delitto e poi, precipitando, si squarciò e si sparsero tutte le sue viscere. 19La cosa è divenuta nota a tutti gli abitanti di Gerusalemme, e così quel campo, nella loro lingua, è stato chiamato Akeldamà, cioè «Campo del sangue». 20Sta scritto infatti nel libro dei Salmi: «La sua dimora diventi deserta e nessuno vi abiti, e il suo incarico lo prenda un altro».21Bisogna dunque che, tra coloro che sono stati con noi per tutto il tempo nel quale il Signore Gesù ha vissuto fra noi, 22cominciando dal battesimo di Giovanni fino al giorno in cui è stato di mezzo a noi assunto in cielo, uno divenga testimone, insieme a noi, della sua risurrezione». 23Ne proposero due: Giuseppe, detto Barsabba, soprannominato Giusto, e Mattia. 24Poi pregarono dicendo: «Tu, Signore, che conosci il cuore di tutti, mostra quale di questi due tu hai scelto 25per prendere il posto in questo ministero e apostolato, che Giuda ha abbandonato per andarsene al posto che gli spettava». 26Tirarono a sorte fra loro e la sorte cadde su Mattia, che fu associato agli undici apostoli”.

Come abbiamo letto, nella ricerca del nuovo, dodicesimo “apostolo”, lo stesso Pietro mette l’accento su una caratteristica storica ben precisa: deve essere un uomo che è stato presente per tutto il tempo in cui Gesù fu sulla terra dal Suo battesimo al giorno della Sua ascensione e quindi è una carica che nessuno può arrogarsi il diritto di ricoprire; lo stesso Paolo di Tarso, apostolo per i motivi che vedremo, scrisse agli Efesi in 4.10,11 “Colui che discese è lo stesso che anche ascese al sopra di tutti i cieli, per essere pienezza di tutte le cose. Ed egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri per preparare i fratelli a compiere il ministero allo scopo di edificare il corpo di Cristo finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la pienezza di Cristo”.

Ad Efeso Paolo c’era rimasto tre anni nel 60 circa, lui stesso scrive ai componenti di quella Chiesa che “Siete stati edificati sul fondamento degli apostoli e dei profeti”; ad Efeso pare che morì Giovanni in età molto avanzata tra gli anni 98 e 99 d.C.. Alla morte dei diretti testimoni della vita, morte e risurrezione di Gesù, nella Chiesa rimasero uomini con i doni di cui abbiamo letto, ma la qualifica di apostolo non è trasmissibile proprio per le ragioni di cui ha parlato Pietro e di cui abbiamo letto poc’anzi. Gli apostoli, inoltre, dovevano essere uomini ispirati sulla dottrina e la storicità di Cristo, testimoni reali dei miracoli, della predicazione e dell’esperienza del loro Maestro; tutto questo cessò alla loro morte perché quella carica era unica, specifica, riservata.

E Saulo di Tarso, che lui stesso si definisce “apostolo” per più volte? “Chiamato ad essere apostolo di Cristo per volontà di Dio” (1 Corinti 1.1), “…servo di Gesù Cristo, apostolo per chiamata, scelto per annunciare il Vangelo di Dio” (Romani 1.1), “Paolo, apostolo non da parte degli uomini, né per mezzo di un uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre che lo ha resuscitato dai morti” (Galati 1.1): per lui ci fu una chiamata particolare, ma soprattutto ebbe altrettanto particolari rivelazioni: “1Se bisogna vantarsi – ma non conviene – verrò tuttavia alle visioni e alle rivelazioni del Signore. 2So che un uomo, in Cristo, quattordici anni fa – se con il corpo o fuori del corpo non lo so, lo sa Dio – fu rapito fino al terzo cielo. 3E so che quest’uomo – se con il corpo o senza corpo non lo so, lo sa Dio – 4fu rapito in paradiso e udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunciare. 5Di lui io mi vanterò! Di me stesso invece non mi vanterò, fuorché delle mie debolezze. 6Certo, se volessi vantarmi, non sarei insensato: direi solo la verità. Ma evito di farlo, perché nessuno mi giudichi più di quello che vede o sente da me 7e per la straordinaria grandezza delle rivelazioni” (2 Corinti 12.1-7). Paolo ebbe quindi questa esperienza e giunse a definirsi – certo non da sé – “prescelto ad annunciare il Vangelo di Dio” e a qualificare la sua predicazione contenuta nelle sue lettere come “Il mio Vangelo”: “Ricordati di Gesù Cristo, risorto dai morti, discendente di Davide, come io annuncio nel mio Vangelo” (2 Timoteo 2.8). Ecco perché abbiamo 12 apostoli oltre a uno, più tardi ma loro contemporaneo, che per annunciare il Vangelo si comportò coi pagani come Pietro coi Giudei.

Sono gli scritti dell’apostolo Paolo che, grazie alle sue visioni e alla trasmissione diretta della dottrina, ci permettono di crescere nella conoscenza di Dio avendo Gesù rivelato, nei suoi insegnamenti, fondamentalmente gli aggiornamenti alla Legge, le sue estensioni, cosa questa significasse alla luce del suo Ministero che lo rivelava quale unico inviato da Dio e, certo, quali cambiamenti sarebbero avvenuti. Molte delle applicazioni spirituali che possiamo fare sono possibili grazie all’opera di Paolo e non di altri.

Veniamo a un argomento particolare, che è quello del numero, che indica stabilità in modo molto superiore al quattro a misura dell’uomo e del creato in cui vive; il 12 è il risultato della moltiplicazione fra il 3, che potremmo definire il perfetto numero d’ordine spirituale, e il 4, numero d’ordine terreno. È anche la somma dei primi tre numeri pari (2, 4 e 6), più che il risultato della moltiplicazione del 2 col 6, cifre dell’imperfezione soprattutto il 6. In questo caso credo che il 2 ci richiami ai testimoni necessari (due o più) per confermare un evento (Deuteronomio 17.6). Ancora, nel nostro caso, questo numero ci parla di collaborazione: “Due uomini camminano forse insieme senza essersi messi d’accordo?” (Amos 3.3) e, per finire, Ecclesiaste 4.9 “Meglio essere in due che uno solo, perché due hanno un miglior compenso della loro fatica. Infatti, se vengono a cadere, uno rialza l’altro. Guai invece a chi è solo: se cade, non ha nessuno che lo rialzi”.

Prima di citare il 12 nella scrittura, vediamo alcune sue applicazioni nel mondo tangibile: 12 sono le paia dei nostri nervi cranici, delle vertebre toraciche, i semitoni che formano l’ottava nel sistema musicale occidentale, le ore meridiane e quelle notturne per un totale delle 24 del giorno, gli anni prima di arrivare alla pubertà, i mesi dell’anno che costituiscono un tempo che abbiamo e che viviamo senza conoscerne eventi e sviluppi se non quando sono avvenuti, i segni zodiacali. Nella numerologia, per quanto considerata una pseudoscienza, è interessante notare che questo numero sta a simboleggiare il sacrificio, la fatica fisica e morale, devozione e abnegazione.

Nella scrittura poi lo troviamo per la prima volta a indicare un periodo massimo di sopportabilità (Genesi 14.4 in cui abbiamo i dodici anni di servitù a Chedarlaòmer da parte dei cinque re) e non a caso il Creatore pose il termine di 120 anni alla vita dell’uomo. Questo numero coi suoi multipli rappresenta il punto d’incontro tra le esigenze, i progetti di Dio a favore della creatura e la creatura stessa. È una cifra che ci parla di dono e impegno, come nel caso delle dodici sorgenti e delle settanta palme dell’oasi di Elim (Esodo 15.27) trovate non a caso dopo le acque di Mara, imbevibili senza il bastone che Mosè vi buttò dentro.

Il 12 è un numero che è sempre presente nella storia del popolo di Dio, sia questo Israele o quello acquisito e costituisce una linea che, dalla sua nascita, non avrà mai fine come testimoniano le parole dell’apostolo Giovanni sulla Gerusalemme Celeste: “È cinta da grandi e alte mura con dodici porte: sopra queste porte stanno dodici angeli e nomi scritti, i nomi delle dodici tribù dei figli d’Israele. 13A oriente tre porte, a settentrione tre porte, a mezzogiorno tre porte e a occidente tre porte. 14Le mura della città poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello.
15Colui che mi parlava aveva come misura una canna d’oro per misurare la città, le sue porte e le sue mura. 16La città è a forma di quadrato: la sua lunghezza è uguale alla larghezza. L’angelo misurò la città con la canna: sono dodicimila stadi; la lunghezza, la larghezza e l’altezza sono uguali”
(Apocalisse 21.12-15).

Ora l’argomento del numero 12 è stato appena accennato, con un elenco volutamente limitato; in realtà è uno dei tanti temi immensi che troviamo nella lettura dell’Antico e del Nuovo Testamento ed è impossibile svilupparlo senza aprire capitoli nuovi che esulerebbero dal motivo per cui ho intrapreso la lettura dei Vangeli. Se però con i versi dell’Apocalisse citati abbiamo la visione dell’architettura finale di Dio, nell’elezione dei dodici siamo di fronte a un nuovo, importante passo nel lungo cammino della dispensazione della Grazia e questa cifra prenderà sempre di più la forma, lasciandola vedere da lontano, della Santa Città che ogni cristiano attende e in cui avrà una sua collocazione secondo la promessa di Gesù quando parlò della casa dalle molte stanze.

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3.12 – IL SERVO CHE HO SCELTO (Matteo 12.15-21)

3.12 – Il servo che ho scelto (Matteo 12.15-21)

 

 15Gesù però, avendolo saputo, si allontanò di là. Molti lo seguirono ed egli li guarì tutti 16e impose loro di non divulgarlo, 17perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaia: 18Ecco il mio servo, che io ho scelto; il mio amato, nel quale ho posto il mio compiacimento. Porrò il mio spirito sopra di lui e annuncerà alle nazioni la giustizia. 19Non contesterà né griderà né si udrà nelle piazze la sua voce. 20Non spezzerà una canna già incrinata, non spegnerà una fiamma smorta, finché non abbia fattotrionfare lagiustizia; 21nel suo nome spereranno le nazioni.

Riconosciamo subito lo stile di Matteo che ci presenta un adempimento della profezia di Isaia che cercheremo di analizzare non senza sottolineare che quanto scritto sia da lui che da Marco, che mette più particolari, avviene poco prima dell’elezione dei dodici ad apostoli. Quanto abbiamo letto si verifica dopo l’ultimo insegnamento sul sabato culminato con la guarigione della mano rattrappita di un uomo presente nella sinagoga, probabilmente di Capernaum.

L’allontanamento di Gesù da quel luogo avvenne per vari motivi, primo fra tutti lo stesso che lo aveva visto spostarsi da Gerusalemme a Capernaum: non creare i presupposti perché fosse catturato prima del tempo e perché il campo da seminare con la Sua Parola era veramente enorme. Inoltre con il suo insegnamento sul sabato aveva esposto dei concetti talmente chiari che altro non avrebbe avuto da dire ai suoi detrattori che, volendo, avrebbero avuto tutti gli elementi per “andare e imparare”, cioè procedere ad una revisione del loro sapere.

Possiamo rilevare che la guarigione di quella mano paralizzata, oltre che l’applicazione spirituale sul sabato fatta da Gesù, abbia suscitato due reazioni, viste prima di tutto nel delineare il piano omicida nei suoi confronti, e poi nel fatto che molti fra il popolo iniziarono a seguirLo: “Gesù, intanto, con i suoi discepoli si ritirò presso il mare e lo seguì molta folla dalla Galilea. Dalla Giudea e da Gerusalemme, dall’Idumea e da oltre il Giordano e dalle parti di Tiro e Sidone, una grande folla, sentendo quanto faceva, andò da lui. Allora egli disse ai suoi discepoli di tenergli pronta una barca, a causa della folla, perché non lo schiacciassero. Infatti aveva guarito molti, cosicché quanti avevano qualche male si gettavano su di lui per toccarlo. Gli spiriti impuri, quando lo vedevano, cadevano ai suoi piedi e gridavano: «Tu sei il Figlio di Dio!». Ma egli imponeva loro severamente di non svelare chi egli fosse”. (Marco 3.7-12).

Notiamo la zone di provenienza di coloro che seguivano Gesù: venivano dalla Galilea, dalla Giudea e da Gerusalemme, quindi erano ebrei, ma vi erano anche molti che non lo erano: gli Idumei (dai quali proveniva la famiglia di Erode il Grande) che discendevano da Esaù, e genti dalle parti di Tiro e Sidone, cioè fenici oltre ad ebrei che risiedevano in quelle città. Tutti costoro erano compresi nella “gran folla che, sentendo quello che faceva, andò a lui”. Stando il fatto che Nostro Signore predicava e guariva, viene da pensare che andassero da lui per vedere e ascoltare e non a caso la loro presenza produrrà la predicazione totale che sfocerà nel cosiddetto “discorso della montagna”. Non si trattava di ascoltare un rabbi, ma uno che confermava la veridicità dei suoi insegnamenti con miracoli e, guarendo e cacciando i demoni, dimostrava di avere autorità su di loro e di essere in grado di annunciare la verità: le parole conclusive di Matteo che cita Isaia, “nel suo nome spereranno le nazioni”, è qui applicato agli idumei e ai fenici che le rappresentano poiché è da quei popoli, oltre ai samaritani che abbiamo visto tempo fa, che si riconoscono tutti gli altri che verranno.

Prendiamo ora in esame il testo di Isaia, che troviamo nel capitolo 42 dai versi 1 a 4, cercando di sottolineare i termini che vengono impiegati: “Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto in cui mi compiaccio. Ho posto il mio spirito su di lui; egli porterà il diritto alle nazioni. Non griderà né alzerà il tono, non farà udire in piazza la sua voce, non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta; proclamerà il diritto con verità. Non verrà meno e non si abbatterà finché non avrà stabilito il diritto sulla terra, e le isole attendono il suo insegnamento“.

“Ecco” è la prima parola della profezia ed esprime la presenza di qualcosa, o di qualcuno, nel momento esatto in cui se ne parla o appare. Ci sarebbe stato allora un tempo preciso, unico e irripetibile in cui sarebbe venuto “il mio servo”, primo riferimento possessivo e/o personale di quattro – numero di stabilità nell’Universo e nel mondo creato per l’uomo –  assieme a “io ho eletto”, “mio amato”, “mio compiacimento”. In Zaccaria 3.8 YHWH dirà “Ecco, io faccio giungere il mio servo, il Germoglio”. Il termine “servo” qui usato da Matteo, che non trascrive il passo di Isaia ma lo traduce dall’ebraico, è lo stesso da lui impiegato in 8.6 nel raccontare la guarigione del servitore di un anonimo centurione romano per il quale lo stesso provava un amore praticamente filiale: “Signore, il mio servo è in casa, a letto, paralizzato, e soffre grandemente”. Il “mio servo” di cui Dio parla in Isaia aveva allora questa caratteristica di doppio rapporto, “servo” quanto a ruolo e “figlio” quanto a dignità. L’inviato di YHWH però doveva essere perfetto e una sola definizione non poteva bastare: ne abbiamo contate quattro, oltre una che viene dopo: quel “servo” che avrebbe avuto su di lui lo spirito del Creatore. Immaginiamoci allora un quadrato, che chiude un’area, o una casa composta da quattro pareti e da un tetto. Il primo lato, o parete, è lo stato di servo, non generico, che a parte l’implicazione filiale ha quella del riferimento diretto a Dio, cioè rispondere unicamente a Lui. Secondo, questo servo lo ha scelto il Creatore, il Progettista tanto dell’Universo quanto del piano di salvezza per l’uomo; “che io ho scelto” o, in altra traduzione, “che io ho eletto” garantisce la perfezione perché operata dall’Onnisciente che non poteva fare altro che operare un’elezione perfetta, al tempo stesso analoga e diversa da quella che lui stesso aveva fatto con Isaia dopo averlo valutato e purificato. L’episodio è ricordato così in 6.4-6: “Vibravano gli stipiti delle porte al risuonare di quella voce, mentre il tempio si riempiva di fumo. E dissi “Ohime! Io sono perduto, perché sono un uomo dalle labbra impure e abito in mezzo a un popolo dalle labbra impure, eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti– quelli angelici, non quelli umani come molti fraintendono -. Allora uno dei serafini volò verso di me; teneva in mano un carbone ardente che aveva preso con le molle dall’altare. Egli mi toccò la bocca e disse: «Ecco, questo ha toccato le tua labbra, perciò è scomparsa la tua colpa e il tuo peccato è espiato». Poi io udii la voce del Signore che diceva «Chi manderò, e chi andrà per noi?» ed io dissi «Eccomi, manda me». Egli disse “Va’ e riferisci a questo popolo… (segue)”. Se Isaia, per portare il messaggio di Dio al popolo, doveva essere santificato, il nuovo inviato era stato scelto per un’opera a carattere perfetto e definitivo; il suo messaggio sarebbe stato non quello della venuta imminente di un servitore perfetto, ma quello della Scrittura adempiuta, come ebbe a dire Gesù ai nazareni nella loro sinagoga: “Oggi si è compiuta questa scrittura che avete ascoltato” (Luca 4.21). Pietro scrive che Gesù è quella “pietra viva, rifiutata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio” (1 Pietro 2.4).

Dobbiamo notare che Matteo, scrivendo “Ecco il servo che ho scelto” usa un termine che, oltre al concetto immediato di elezione, usa un verbo che significa anche “tenere forte, sostenere”. Sono convinto che, nelle Sue preghiere al Padre, Gesù facesse riferimento anche a questa promessa.

Terzo lato, parete, terza caratteristica del servo scelto è “il mio amato”. Anche qui c’è un’indicazione inequivocabile, unica, di fronte alla quale la comprensione umana può perdersi perché è esclusiva e allude a un rapporto reciproco: Dio ama il suo servo-figlio a tal punto da definirlo “amato” pubblicamente, nel senso che non avrebbe avuto alcuna importanza se fosse stato odiato da molti. Qui avvertiamo tutta l’inutilità del sentimento di ostilità nei suoi confronti: le attenzioni amorevoli di Dio Padre sarebbero state su di lui, condizione determinante assieme alle altre. Se Gesù non avesse avuto tutte le quattro caratteristiche più una di cui Isaia ha parlato, la Sua opera non sarebbe stata perfetta: togliendone anche una sola, non avremmo avuto il quadrato, figura della chiusura di un discorso, di completezza e pienezza e la casa, la stanza di cui abbiamo parlato, non avrebbe potuto definirsi tale. Paolo scrivendo ai Colossesi dice “Ringraziate con gioia il Padre che vi ha resi capaci di partecipare alla sorte dei santi nella luce. È lui che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del Figlio del suo amore, per mezzo del quale abbiamo la redenzione, il perdono dei peccati” (Colossesi 1.13).

Quarta caratteristica è “nel quale ho posto il mio compiacimento”, cioè soddisfazione, piacere provato per qualcosa, soddisfazione, sentimento che sappiamo sia impossibile far provare a Dio da parte di qualsiasi uomo al quale, al massimo, può guardare con favore. Qui parliamo del compiacimento dell’Autore, del Responsabile di quegli equilibri perfetti che ancora sussistono in natura nonostante il peccato, delle Sue esigenze e dei Suoi calcoli, della Sua essenza: ha posto il suo compiacimento in Lui e lo dichiarò non solo tramite Isaia ma, come sappiamo, al battesimo di Gesù e non solo: “Tu sei il mio figlio, l’amato, in te ho posto il mio compiacimento” (Luca 3. 22). Ricordiamo la stessa frase nell’episodio della trasfigurazione, che però termina con l’esortazione “Ascoltatelo” (Marco 9.6).

Se con queste caratteristiche, viste anche se brevemente ma quanto basta per una panoramica generale, si chiude il nostro “quadrato”, ecco ora la conclusione che paragono alla firma di Dio, o al tetto della casa: “Porrò il mio spirito sopra di lui e annuncerà alle nazioni la giustizia”, frase più correttamente traducibile con “e annuncerà il giudizio alle genti”. Quello “Spirito” fu messo su Nostro Signore al suo battesimo quando uscì dall’acqua identificandosi completamente nell’uomo che aveva bisogno dell’adempiersi nell’opera di Dio. Quel battesimo era il simbolo del ravvedimento di cui Gesù non necessitava, ma lo accomunava a quanti lo praticavano confessando pubblicamente di attenderlo, di voler ripensare la loro condotta ed esistenza. Perché lo Spirito scese su di Gesù solo allora? Perché possiamo dire che, battezzandosi nelle acque del Giordano, Gesù dichiarava di voler prendere ufficialmente possesso dell’incarico ricevuto, che comportava condividere la vita umana in tutto fuorché nel peccato. Era come se quel battesimo fosse una dichiarazione ufficiale: uomo come gli altri, li avrebbe condotti come l’unico pastore al solo ovile possibile, quello di Dio.

Nell’annuncio del giudizio alle genti, alle nazioni, vediamo l’universalità del messaggio che non esclude nessun essere umano indipendentemente dalla razza o dalla condizione sociale oltre che la profezia in base alla quale l’opera dell’Inviato di Dio non sarebbe stata solo per il popolo eletto. Egli avrebbe predicato per mezzo dello Spirito Santo, l’unico a poter convincere l’uomo di peccato, giustizia e giudizio. L’uomo deve sapere che dovrà incontrare il proprio Creatore, in salvezza o in condanna, deve sapere che cos’è il giudizio e cosa sia effettivamente la giustizia, quella cui a modo suo tende come dimostrano tutti quei codici che, almeno nei tempi antichi, erano stati studiati e scritti a tutela della persona e non per la sua umiliazione, come oggi.

Con la deposizione dello Spirito Servo amato termina la prima parte dei versi di Isaia: se questa riguarda le caratteristiche, le credenziali del servo, la seconda ne illustra i metodi. “Non contesterà, non griderà e non si udrà la sua voce nelle piazze”, caratteristiche che si riferiscono a quelle che Paolo definisce “la dolcezza e la mansuetudine di Cristo” (2 Corinti 10.1) e al suo metodo che sarà sempre volto a voler recuperare e non condannare l’uomo agendo individualmente senza irrompere con grandi manifestazioni pubbliche facendo comizi per promuovere l’appartenenza a un partito.

Gesù cercò sempre l’essere umano che andrò da lui per ascoltarlo, seguirlo, farsi guarire. Se Salomone diceva che “la sapienza grida nelle piazze” alludeva al fatto che anche in un luogo come quello era possibile trarre considerazioni utili per riflettere, che questa era ovunque tranne nelle manifestazioni sguaiate, coreografiche o imposte come fanno alcuni regimi.

A questo metodo, che il servo farà proprio per tutta la sua vita terrena, si aggiungono altri esempi: “Non spezzerà una canna già incrinata, non spegnerà una fiamma smorta, finché non abbia fatto trionfare la giustizia”: qui “canna” e “fiamma” sono figure per indicare l’uomo per il quale c’è ancora una speranza di vita. La canna incrinata, o ammaccata che altri spezzerebbero ritenendola inutile, potrebbe tornare a vivere e produrre frutto se rialzata e legata a un sostegno e la “fiamma smorta”, o “lucignolo fumante”, se ravvivata con sostanze opportune, potrebbe tornare a fare luce. Gesù stesso illustra questo metodo nella parabola del lavoratore della vigna in Luca 13. 6-9: “Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarne dei frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo «Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Taglialo, dunque! Perché deve sfruttare il terreno?». Ma quello gli rispose: «Padrone, lascialo stare ancora quest’anno, finché gli avrò zappato intorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai»”.

Anche qui vediamo l’intercessione del vignaiolo, figura di Gesù pronto non ad abbattere l’albero infruttifero, ma a mettere in atto a favore dell’albero, figura dell’uomo, tutto quanto è in suo favore per porlo nella condizione di diventare produttivo. Senza la sua intercessione ed opera, alla quale nessuno può sostituirsi, ci sarebbe solo la morte. Per questo “Nel suo nome spereranno le nazioni”.

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3.11 – L’UOMO DALLA MANO RATTRAPPITA (Luca 6.6-11)

3.11 – L’uomo dalla mano rattrappita (Luca 6.6-11)

 

6Un altro sabato egli entrò nella sinagoga e si mise a insegnare. C’era là un uomo che aveva la mano destra paralizzata. 7Gli scribi e i farisei lo osservavano per vedere se lo guariva in giorno di sabato, per trovare di che accusarlo. 8Ma Gesù conosceva i loro pensieri e disse all’uomo che aveva la mano paralizzata: «Àlzati e mettiti qui in mezzo!». Si alzò e si mise in mezzo. 9Poi Gesù disse loro: «Domando a voi: in giorno di sabato, è lecito fare del bene o fare del male, salvare una vita o sopprimerla?». 10E guardandoli tutti intorno, disse all’uomo: «Tendi la tua mano!». Egli lo fece e la sua mano fu guarita. 11Ma essi, fuori di sé dalla collera, si misero a discutere tra loro su quello che avrebbero potuto fare a Gesù.”

 

 

Siamo così giunti al terzo miracolo operato da Gesù in giorno di sabato, dopo la liberazione dell’indemoniato nella Sinagoga di Capernaum e della suocera di Simone dalla febbre. Apparentemente non sappiamo dove avvenne l’episodio, ma poiché Matteo scrive “…andò nella loro sinagoga”, quella cui facevano riferimento i farisei che avevano accusato i discepoli di infrangere il sabato strappando le spighe e mangiando i chicchi di grano, ci lascia ragionevolmente supporre sia stata la stessa.

Il racconto, che armonizzeremo con gli interventi di Marco e Matteo, non trova problemi interpretativi e può considerarsi complementare a quello precedente delle spighe strappate; ciò ci consente di dare qualche cenno sugli scribi, i farisei e gli erodiani, oltre che meditare quanto avvenuto. Eviterò di citare i casi in cui compaiono nei Vangeli ritenendo più utile avere una base storica, per quanto sommaria, per comprendere i passi in cui verranno citati nel corso della nostra lettura cronologica.

 

Gli scribi

Nascono in tempi molto antichi come persone versate nell’arte dello studio e dello scrivere e perciò tenute in grande considerazione nelle corti. Quando nell’esilio di Babilonia (VII° – VI° sec. a.C.) il popolo giudaico si trovò privato di tutti i suoi beni materiali e morali salvo che della Legge, vi furono uomini che consacrarono tutta la loro operosità e vita all’unico bene che era rimasto, la Legge, perché fosse conservata e trasmessa con ogni cura ed esattezza, per investigarla ed applicarla in tutta la sua scrupolosità: questi erano gli scribi. Lo scriba ai tempi del Nuovo Testamento è persona che non è mai disgiunto dal Rabbi, cioè dal maestro, dal dottore della Legge che la insegnava e la interpretava considerandola come l’unica, somma forma di erudizione. Si diventava Scriba dopo studi severi che duravano molti anni nelle scuole più importanti del tempo che erano quella di Hillel e di Shammai. Molti scribi erano anche Farisei ed è per questo che si trovano quasi sempre associati a loro nei racconti evangelici: aderivano cioè a quel movimento, o categoria di persone, che negli anni avevano finito per detenere il potere religioso assoluto assieme ai sadducei, che non abbiamo ancora incontrato, dai quali però si discostavano per la diversa tradizione che li caratterizzava. Per questo motivo non è sempre facile distinguere gli Scribi dai Farisei: potevano tanto formare un tutt’uno, quando costituire due gruppi distinti, ma non erano mai in contrasto tra loro. Non è azzardato ipotizzare che il fariseo potesse essere considerato uno scriba “perfetto”.

Con l’andar del tempo, man mano che gli scribi e i dottori della legge elaboravano il materiale della tradizione interpretativa della Torah scritta, questa diventò sempre più importante. Nel Talmud leggiamo che “Maggior forza hanno le parole degli Scribi che le parole della Torah”, che “È peggior cosa andar contro le parole degli Scribi che alle parole della Torah”, elementi che ci fanno capire quanto fosse facile portare all’estrema esasperazione i loro sentimenti, religiosi e non, quando leggiamo che Gesù “insegnava avendo autorità e non come gli scribi e i farisei”. Questo lo notavano anche loro e lo consideravano come un furto. Il sistema religioso fondato da questi personaggi era rigidamente dogmatico e li poneva al vertice di una piramide in cui trovava posto solo ed esclusivamente il loro orgoglio. Occorre però sottolineare che non tutta l’elaborazione della Legge fatta da scribi e farisei fosse menzognera; piuttosto, come osserva l’abate Ricciotti, “In un mare di futilità e pedanterie erano contenute vere perle preziose che rappresentavano l’eredità dell’insegnamento profetico spirituale. Ma troppa sproporzione correva tra l’ampiezza del mare e la scarsità delle perle, tra lo smisurato scenario giuridico e l’esigua impalcatura spirituale, cosicché l’utile rimaneva affogato fra tanto disutile.” Ad esempio una sentenza di Hillel, anteriore a Gesù di pochi anni, alla richiesta di un pagano che gli chiedeva di spiegargli tutta la legge nel tempo che riusciva a stare in equilibrio su un piede solo, gli disse “Ciò che non desideri per te, non fare al tuo prossimo. Questa è tutta la Legge, il resto è solo commento. Va’ e impara”. Facciamo attenzione a come conclude Hillel, “va’ e impara”, tipico detto degli scribi e farisei che Gesù utilizzò, rivoltandolo contro di loro quando disse “Andate e imparate ciò che vuol dire «Voglio misericordia e non sacrificio»”. La massima “Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”, attribuita a Gesù, è però soltanto di comodo poiché Gesù andò oltre dicendo “Le cose che vorreste fossero fatte a voi, fatele agli altri”.

 

I Farisei

È molto probabile che questo gruppo derivi storicamente da quello degli scribi e che farisei diventeranno quelli più radicali fra i componenti del gruppo originario, cioè degli scribi. Il termine “fariseo” significa “separato” da tutto ciò che non era religioso e giudaico. Se ciò può essere visto come qualcosa di apprezzabile stante la volontà di preservare le tradizioni, questo andava a sfociare in un formalismo rigido e in una minuziosità assoluta nello studio e interpretazione della Legge che aveva già portato ad un profondo disprezzo verso il popolo che, nonostante l’elezione che aveva perché appartenente a Dio, era chiamato con disprezzo “Popolo della terra”. Lo studio farisaico si basava su tre argomenti principali: il riposo del sabato, che era il primo. Ecco perché i Vangeli insistono sull’insegnamento di Gesù al riguardo, contrapposto al loro. Seguivano il pagamento delle decime e la purità rituale oltre l’immenso campo delle sentenze già emanate dalla loro tradizione che studiavano ed estendevano e andava a confluire nel Talmud che già i dottori della Legge avevano trasmesso. Giuseppe Flavio nelle Antichità Giudaiche scrive che ai tempi di Erode il Grande c’erano 6000 farisei in Israele, ricchi e poveri. Quelli che non appartenevano alla loro cerchia erano chiamati, come già sappiamo, con disprezzo “il popolo della terra”, cioè dei maledetti e per questo non avevano con loro alcun contatto nel senso che non potevano ospitare né farsi ospitare da un normale israelita o peggio contrarre vincoli matrimoniali con una donna che non fosse della loro cerchia: tutti erano giudicati in base alla conoscenza che avevano delle loro leggi, usanze, costumi. E sulla loro messa in pratica. Sempre lo storico Giuseppe Flavio scrive che “tanta potenza hanno sulla folla, che pure se dicano alcunché contro il re o contro il sommo sacerdote, sono immediatamente creduti”.

 

Gli Erodiani

Nel passo in esame gli erodiani compaiono per la prima volta. Erano questi dei giudei che sostenevano apertamente la dinastia degli Erodi costituendo una sorta di partito politico anziché una setta religiosa. Ligi al potere costituito, si opponevano a qualsiasi forma di ribellione che potesse causare l’intervento dei dominatori romani. Attenti quindi all’ordine pubblico, avevano capito che Gesù poteva essere un potenziale pericolo e perciò potevano essere usati dagli altri due gruppi per cospirare contro di lui. Pare che gli erodiani non fossero molto numerosi, ma il fatto che vengano citati indica che comunque un peso politico nella vita della nazione lo avessero, per quanto marginale. Il fatto è che tanto agli scribi che ai farisei serviva qualunque tipo di appoggio pur di giungere ad una futura eliminazione fisica di Gesù, ormai divenuto chiaramente e ufficialmente un loro avversario.

 

A parte gli erodiani di cui si sa poco, possiamo aprire una parentesi citando la preghiera di ringraziamento di Gesù al Padre al ritorno dei 70 discepoli inviati in missione: “Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli” (Luca 10.21). Quei discepoli, non appartenenti né agli scribi né ai farisei, erano persone comuni, non apprezzate per la loro scienza religiosa, ma “Tornarono pieni di gioia dicendo «Signore, anche i demoni si sottomettono nel tuo nome” (v.17) Sicuramente gli scribi e i farisei erano i “sapienti e i dotti” di cui parlò Gesù nella sua preghiera, ma non possiamo nemmeno annoverare nella categoria dei “semplici” coloro che sono convinti che sia sufficiente leggere il Vangelo e stare genericamente assieme per essere considerati tali.

L’uomo dalla mano paralizzata è un personaggio che ritengo particolare e su di lui hanno indagato molti a cominciare dalla ricerca di una traduzione corretta per stabilire con la maggiore esattezza possibile in cosa consistesse la sua infermità: così troviamo “mano secca”, “anchilosata”, “paralizzata”, “rattrappita” e ciò poteva essere avvenuto dalla nascita o per incidente sul lavoro. C’è chi ha pensato più alla seconda ipotesi, sostenendo che quest’uomo avesse potuto un tempo essere un muratore che si fosse accidentalmente schiacciato una mano e si trovasse nelle condizioni di non poter lavorare, e nulla ce lo dice e nulla ce lo lascia escludere. Di fatto però, quell’uomo si trovava nella sinagoga come tutti, quindi non aveva imputato a Dio la sua sventura tanto per il fatto di essere nato così, quanto per essersela lesionata sul lavoro, ritenendosi offeso per non essere stato protetto da Lui.

Dal suo comportamento si può dedurre che fosse un uomo dalla forte dignità, visto che un altro avrebbe potuto benissimo, nelle sue condizioni, chiedere l’elemosina, a meno di non avere soldi da parte o chi lo assisteva. Sicuramente si trovava in una situazione invalidante, ma non ritenne di chiedere a Gesù nulla: gli bastava l’attenzione che prestava, o stava per prestare, ai Suoi insegnamenti. E Nostro Signore, che sapeva la storia di ognuno dei presenti come abbiamo letto dalla frase “conosceva i loro pensieri” al v.8, colse l’occasione tanto per guarirlo quanto per dare un’ulteriore lezione a quanti nella sinagoga erano a lui ostili. Questo episodio, a parte il suo significato più immediato visto nell’insegnamento sul sabato, ci vuol dire che l’intervento di Dio nella vita di una persona può giungere anche in modo inaspettato, visto che è Lui che cerca.

Vediamo il clima che si venne a creare nella sinagoga confrontando il racconto dei sinottici: Matteo non espone i dettagli, ma si preoccupa di mettere in risalto i motivi che spinsero Gesù ad agire in giorno di sabato; Marco però, che ha una narrazione simile a quella di Luca, ci parla dell’attenzione che scribi e farisei misero per accusare Gesù di un’altra violazione del sabato tant’è che gli chiesero “È lecito guarire in giorno di sabato?” (Matteo 12.10). Fu allora che Nostro Signore mise a confronto i due atteggiamenti, quello ostile del suoi accusatori che lo interrogavano non certo per istruirsi, e quello di attesa dell’uomo nell’assemblea cui chiese di venire al centro non prima di rivolgere ai suoi oppositori due domande, la prima riportata da Marco e la seconda da Matteo: “È lecito in giorno di sabato fare del bene o del male, salvare una vita o ucciderla?“ (Marco 3.4).

A questa domanda, secondo i loro metodi di ragionamento, non poteva esserci risposta perché fare del male non era lecito in nessun giorno, mentre far del bene e salvare una vita, sempre. Quella domanda però aveva un significato che per noi, lettori che pensiamo sempre da un’ottica esterna data in gran parte dal tempo in cui viviamo e dal nostro bagaglio storico, è più recondito: Gesù parlava a persone in cui l’ostilità era sempre più in fase montante e già allora portava in sé l’idea dell’omicidio per cui quel “salvare una vita o ucciderla” era un riferimento alle loro intenzioni. A questa domanda Marco dice che quelli tacevano, credo perché non sapevano cosa rispondere, ma soprattutto perché pensavano a come fare per sbarazzarsi di lui. Era il loro un silenzio che non prendeva in considerazione la riflessione e nemmeno quella contesa dottrinale che avevano proposto, ma la sua eliminazione fisica che sfocerà in una discussione aperta tra loro, cioè scribi, farisei ed erodiani, su “quello che avrebbero potuto fare a Gesù” secondo Luca, “per farlo morire” secondo Marco. Sapevano che, se la predicazione di Gesù fosse proseguita, avrebbero perso il loro prestigio e il loro potere sul popolo.

Matteo riporta poi la seconda domanda: “Chi di voi, se possiede una pecora e questa in giorno di sabato cade in un fosso, non l’afferra e la tira fuori? Ora un uomo vale ben più di una pecora! Perciò è lecito in giorno di sabato fare del bene!”. Si tratta di una questione che Matteo inserisce qui, ma che probabilmente fu posta più avanti, in un altro miracolo operato sempre di sabato, il cui beneficiario fu un uomo idropico.

A questo punto Gesù ordina all’uomo di stendere la mano: per farlo, l’innominato infermo dovette ordinare alla mano di stendersi tramite il cervello esattamente come se si trattasse di un arto sano, quindi non ebbe titubanze, non rispose “è impossibile”, o “non riesco”: semplicemente, fece ciò che il Signore gli aveva chiesto. Se l’uomo vuole avere un risultato nella propria vita, deve farsi collaboratore di Dio che non gli chiede mai l’impossibile: a Naaman fu chiesto di bagnarsi sette volte nel Giordano, qui la richiesta fu di stendere la mano.

Abbiamo letto che a quel punto gli scribi, i farisei e gli erodiani, visto il risultato, uscirono dalla sinagoga e iniziarono a discutere sul da farsi per uccidere Gesù: fuori da quel luogo sacro, pensavano fosse possibile progettare un omicidio, quasi pensando che in quel modo Dio non li sentisse. Per loro, in quel giorno era lecito fare del male.

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3.10 – LE SPIGHE STRAPPATE (Matteo 12.1-8)

3.10 – Le spighe strappate (Matteo 12.1-8)

In quel tempo Gesù passò, in giorno di sabato, fra campi di grano e i suoi discepoli ebbero fame e cominciarono a cogliere delle spighe e a mangiarle. 2Vedendo ciò, i farisei gli dissero: «Ecco, i tuoi discepoli stanno facendo quello che non è lecito fare di sabato». 3Ma egli rispose loro: «Non avete letto quello che fece Davide, quando lui e i suoi compagni ebbero fame? 4Egli entrò nella casa di Dio e mangiarono i pani dell’offerta, che né a lui né ai suoi compagni era lecito mangiare, ma ai soli sacerdoti. 5O non avete letto nella Legge che nei giorni di sabato i sacerdoti nel tempio vìolano il sabato e tuttavia sono senza colpa? 6Ora io vi dico che qui vi è uno più grande del tempio. 7Se aveste compreso che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrifici, non avreste condannato persone senza colpa. 8Perché il Figlio dell’uomo è signore del sabato».”

Fra le tre versioni di questo episodio, la più accurata è quella di Matteo che utilizzeremo per le nostre riflessioni per quanto la collochi più avanti rispetto agli altri, che preferiscono porla dopo la questione sollevata dai discepoli di Giovanni e dai farisei sul digiuno. Luca è quello che colloca l’avvenimento temporalmente, anche se di questa sua annotazione in diverse traduzioni non v’è traccia: leggendo infatti 6.1 troviamo che “Un sabato Gesù passava tra i campi di grano e i suoi discepoli coglievano e mangiavano le spighe”. Alcuni testi dai quali diversi traduttori hanno attinto, primo fra tutti San Girolamo (317-420 d.C.), riportano “E avvenne che nel sabato secondo primo, passando egli per i seminati, i suoi discepoli coglievano spighe, e stritolatele con le mani, le mangiavano”. Diodati nel 1600, chiarisce cosa fosse quel “secondo primo” traducendo “nel primo sabato dal dì dopo la Pasqua”, come in effetti è. Di questa precisazione rimangono tracce sia nella Diodati riveduta, “”Ora avvenne che in giorno di sabato, dopo il gran sabato”, quanto nella Bibbia tradotta dall’abate Giuseppe Ricciotti (1949), sostanzialmente identica a quella di San Girolamo. La differenza è dovuta ai diversi codici greci presi in esame in cui il “sabato secondo primo” manca.

Fatta questa precisazione, doverosa perché chi legge Luca potrebbe chiedersi il perché di una differenza piuttosto rilevante tra i testi, entriamo nell’oggetto della presunta infrazione alla Legge che i discepoli di Gesù avrebbero compiuto. Era sabato, giorno di riposo, per il quale i Farisei avevano stabilito e aggiunto ben 39 azioni proibite tra le quali il mietere, che era indubbiamente un lavoro, ma anche stropicciare le spighe fra le mani. Per i farisei, per i quali era lavoro di sabato anche raccogliere un frutto caduto spontaneamente da un albero oppure mangiare un uovo, l’accusa bastava. Leggiamo invece in Deuteronomio 23.26 quanto segue: “Se passi tra la messe del tuo prossimo, potrai coglierne le spighe con la mano, ma non potrai mettere la falce nella messe dei tuo prossimo”, quindi di mietitura non se ne poteva parlare e la Legge, che proibiva il furto ma consentiva la spigolatura, faceva sì che e il proprietario del campo, indipendentemente dal fatto dal tipo di coltivazione, nel raccoglierne i frutti non ripassasse mai a cercare quelli rimasti indietro, ma li lasciasse ai poveri che avrebbero potuto raccoglierli. “Quando bacchierai i tuoi ulivi, non tornare a ripassare i rami. Sarà per il forestiero, per l’orfano e per la vedova. Quando vendemmierai la tua vigna, non tornerai indietro a racimolare. Sarà per il forestiero, per l’orfano e per la vedova. Ricordati che sei stato schiavo nella terra d’Egitto; perciò ti comando di fare questo” (Deuteronomio 24.20-22). Ancora: “Quando mieterete la messe della vostra terra, non mieterete fino ai margini del campo, né raccoglierete ciò che resta da spigolare della messe; quanto alla vigna, non coglierai i racimoli e non raccoglierai gli acini caduti: li lascerai per il povero e per il forestiero. Io sono YHWH, vostro Dio” (Levitico 19.9,10).

Quindi i discepoli, che presumiamo percorressero il “cammino di sabato” perché nulla in proposito rilevano gli oppositori di Gesù, non infrangevano le prescrizioni stabilite per quel giorno perché non solo non mietevano, ma neppure commettevano un furto. Gesù però non fa osservare loro questo, non li segue né apre una dissertazione su ciò che era o meno concesso di sabato, ma li riconduce allo spirito della Legge e li richiama a riconsiderare un episodio che dovevano conoscere molto bene. In casi come questo, in cui Lui cita episodi descritti nell’Antico Patto, mi viene sempre in mente che il Figlio di Dio era là, presente e testimone degli avvenimenti.

Ebbene Davide, perseguitato da Saulle che, accecato dall’invidia a seguito delle parole del canto delle donne israelite “Saul ha abbattuto i suoi mille, ma Davide i suoi diecimila”, voleva ucciderlo, giunse in fuga a Nob, città sacerdotale appartenente alla tribù di Beniamino. Nob era popolata da sacerdoti che, come membri della tribù di Levi, non possedevano una regione precisa ma si trovavano sparsi tra i vari centri della terra di Israele. Davide arriva così da Achimelech che, non avendo pane comune, alla sua richiesta di averne, gli dà quello sacro, cioè le dodici focacce che dovevano essere conservate davanti al luogo santo del tempio e rinnovate ogni sabato.

È un episodio al quale bisogna prestare molta attenzione perché contiene insegnamenti che vanno oltre le parole di Gesù a quei farisei: citando l’episodio, Nostro Signore implicitamente ricorda loro le verità nascoste bell’episodio che avrebbero dovuto e potuto meritare se solo avessero voluto. Ora Davide, e i suoi che lo attendevano in un luogo precedentemente concordato, era stremato dopo tre giorni di viaggio per cui la fame sua e degli altri era grave. Il fatto poi che il sacerdote non avesse pane e abbia scelto di dargli quello sacro, non trovandosi isolato in mezzo al deserto e potendo quindi cucinargli del pane normale, lascia supporre che fosse sabato e che quei pani, detti “di presentazione” fossero gli unici che gli fosse lecito preparare. Certo la Legge prescriveva che nessuno li potesse toccare o mangiare, ma se il sacerdote non avesse deciso di sfamare Davide e i suoi con quelli, li avrebbe debilitati visto che erano in fuga e sarebbero potuti morire. Erano uomini stremati. Inoltre Davide, quando si presenta ad Achimelech, non gli dice che stava scappando da Saul, ma “Il re mi ha ordinato e mi ha detto «Nessuno sappia di questa cosa per la quale io ti mando e di cui ti ho dato incarico»”, sempre per proteggere la propria vita. L’episodio è raccontato al capitolo 21 del primo libro di Samuele.

A proposito dei pani di presentazione, leggiamo Esodo 25.30: “Sulla tavola collocherai i pani della presentazione, saranno sempre alla mia presenza”. È un comandamento non da poco le cui parole “sempre” e “mia presenza” ci danno l’idea della continuità e di quanto quest’ordine fosse assoluto e il termine stesso “pane di presentazione” letteralmente dall’ebraico si traduce con “pane di facce” a motivo del fatto che dovesse restare davanti a Dio.

Se andiamo in Levitico 24.5-9, poi, abbiamo una visione ancora più esaustiva di quanto fosse seria la funzione di quei pani: “Prenderai anche fior di farina e ne farai cuocere dodici focacce. (…) Le disporrai su due pile, sei per pila, sulla tavola d’oro puro davanti al Signore, sempre. Porrai incenso puro sopra ogni pila, perché serva da memoriale per il pane, come sacrificio consumato dal fuoco in onore del Signore. Ogni giorno di sabato lo si disporrà davanti al Signore perennemente da parte degli israeliti: è un’alleanza eterna. Sarà riservato ad Aaronne e ai suoi figli: essi lo mangeranno in luogo santo, perché sarà per loro una cosa santissima tra i sacrifici da bruciare in onore del Signore. È una legge perenne”. Anche qui il redattore del libro del Levitico usa termini che poco spazio lasciano all’interpretazione: “in onore del Signore” – “perennemente” – “alleanza eterna” – “riservato” – “luogo santo” – “cosa santissima” – “in onore del Signore“ (per la seconda volta) – “legge perenne” (per la seconda volta).

Ebbene, queste istruzioni così particolareggiate vengono temporaneamente abolite dietro un’iniziativa non contemplata dalla Legge per salvare una vita umana e Dio non ne chiederà conto né ad Achimelech, né a Davide quando il solo annusare l’incenso preparato per il servizio sacerdotale o il fabbricarne di simile, era punito con la morte. Tutto questo abbatteva il formalismo esasperato – oggi lo chiameremmo radicalismo – di quei farisei ancora una volta chiamati a considerare da Gesù che la misericordia valeva più del sacrificio. Ancora una volta viene citato Osea, ancora una volta si sottolinea il principio in base al quale quando la misericordia – vedasi l’amore – e il sacrificio, cioè la parte esterna della religione, vengono in conflitto, Dio nella sua benignità sceglie la prima.

È indubbiamente questa una verità che dovrebbe molto insegnare a quei cristiani che si arroccano su posizioni che tendono a dividere il mondo in bianco e nero senza possibilità di grigio e dimenticano che Dio ha creato il colore. Camminare in mezzo a un bosco in estate equivale a vedere non del verde, ma sue sfumature infinite tutte riferite alla vita, così come guardare il cielo non significa vedere solo un azzurro uniforme che si trova, solo e al limite, in quei cartoni animati in cui i disegnatori devono produrre fotogrammi dipendenti da costi di produzione.

Marco scrive che Gesù disse nell’occasione che “il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato”, cioè: l’uomo aveva bisogno di riposo per rigenerare le proprie energie e per questo era stata imposta l’astensione dal lavoro dandogli modo di far propria e meditare l’opera di Dio che in quel giorno contemplò il suo lavoro minato da Satana attraverso la disubbidienza dei nostri progenitori. Il sabato di Dio doveva essere eterno, santificato dalla reciprocità di amore tra lui e l’uomo, suo vero capolavoro protagonista in un creato perfetto e puro. L’uomo non era stato creato per osservare il sabato, ma per vivere pienamente condividendo con il suo Creatore giorno di eternità e beatitudine. Dopo la caduta, era chiamato ad osservarlo anche per riflettere sulla sua condizione consacrando il suo tempo al Signore.

Per questo Gesù, “Figlio dell’uomo” indicato nei testi profetici, era “Signore del sabato” e anche “più grande del Tempio”, cosa che i farisei non potevano accettare perché, in quel caso, tutto il loro castello di teoremi e il loro stesso modo di vivere, con il rispetto che avevano presso il popolo, sarebbe crollato. Avrebbero dovuto rinunciare a loro stessi, porre tutto in discussione da capo. In poche parole, avrebbero dovuto ubbidire a quell’esortazione detta loro qualche giorno prima, “Andate e imparate cosa vuol dire «Voglio misericordia e non sacrificio»”. Là dove il termine allude, da dizionario, a un “sentimento di compassione e pietà per l’infelicità e la sventura altrui che induce a soccorrere, a perdonare e a non infierire”. E l’episodio successivo sarà proprio un nuovo miracolo, il terzo operato da Gesù in giorno di sabato.

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3.09 – LA DISCUSSIONE SUL DIGIUNO (Matteo 9.18-22)

3.09 – La discussione sul digiuno (Matteo 9.18-22)

 

14Allora gli si avvicinarono i discepoli di Giovanni e gli dissero: «Perché noi e i farisei digiuniamo molte volte, mentre i tuoi discepoli non digiunano?». 15E Gesù disse loro: «Possono forse gli invitati a nozze essere in lutto finché lo sposo è con loro? Ma verranno giorni quando lo sposo sarà loro tolto, e allora digiuneranno. 16Nessuno mette un pezzo di stoffa grezza su un vestito vecchio, perché il rattoppo porta via qualcosa dal vestito e lo strappo diventa peggiore. 17Né si versa vino nuovo in otri vecchi, altrimenti si spaccano gli otri e il vino si spande e gli otri vanno perduti. Ma si versa vino nuovo in otri nuovi, e così l’uno e gli altri si conservano»”.

 

Questo episodio viene integrato da Marco con una precisazione importante vista nella frase di apertura “I discepoli di Giovanni e i farisei stavano facendo un digiuno” (2.18), mentre Matteo (che era presente) e Luca lo collocano subito dopo le parole di Gesù ai farisei e ai loro discepoli che abbiamo esaminato la volta scorsa. Qui c’è però un cambio di interlocutori perché i farisei erano stati ridotti al silenzio. Non sapevano più cosa rispondere anche perché, citando Osea, Nostro Signore era risalito ai tempi in cui la tradizione rabbinica ancora non esisteva e, con le Sue parole, si era collegato alla sintesi degli antichi profeti che avevano mirato molto più alla formazione spirituale che alle formalità rituali, cosa che aveva fatto anche Giovanni Battista, l’ultimo profeta dell’Antico Patto.

È a questo punto che intervengono i discepoli di Giovanni, che con il loro rimanere ancorati al loro maestro dimostravano di non aver capito nulla né delle sue parole, né di che cosa aveva significato il suo battesimo, anzi, con la frase “Perché noi e i farisei digiuniamo molte volte, mentre i tuoi discepoli non digiunano?” (v.14) si associano a loro. È come se volessero dire “Noi e i farisei abbiamo questa tradizione che ha radici nella Legge, perché tu non dici ai tuoi discepoli di fare altrettanto?”. È triste considerare quanto, nella pratica, quelli che seguivano il Battista fossero distanti dal loro maestro che, nella sua predicazione, si era sempre distinto da Gesù per ruolo e funzione: aveva detto di non essere il Cristo, che dopo di lui sarebbe venuto uno cui non era degno di sciogliere neppure il laccio dei sandali, lo aveva indicato come “l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo” e aveva spiegato ai suoi discepoli che chi doveva “crescere” non era l’amico dello sposo, ma lo sposo stesso: meglio di così, non poteva parlare per spiegare ai suoi che il suo compito volgeva ormai al termine.

Il voler rimanere fedeli a Giovanni da parte dei suoi discepoli denotava allora che non solo non avevano capito la differenza tra i due inviati di Dio, ma che rimanevano ancorati a vecchi preconcetti: non avevano realizzato il fatto che Giovanni era e sarebbe stato l’ultimo dei profeti secondo le parole “La Legge durò fino a Giovanni”, ponte tra le due dispensazioni della Legge e della Grazia. Ora che Gesù aveva iniziato a predicare dimostrando di essere Colui che avrebbe rivelato il Padre, erano le Sue parole che gli uomini avrebbero dovuto conoscere, ascoltare e mettere in pratica, era Lui che avrebbero dovuto seguire. Invece tutti avevano una grande confusione in merito, compreso più avanti lo stesso Battista che, come abbiamo già ricordato, gli mandò a chiedere se era lui quello che avrebbe dovuto arrivare oppure avrebbero dovuto aspettarne un altro. Queste parole dimostrano che Giovanni, pur avendolo riconosciuto nelle modalità che abbiamo visto a suo tempo, era ancora ancorato all’idea secondo la quale il Messia avrebbe agito con potenza sui suoi nemici e quindi lo avrebbe liberato dalla prigione del Macheronte in cui certamente soffriva.

I discepoli del Battista, quindi, a vedere quell’abbondante convito, si scandalizzarono, ritenendo il digiuno meritevole davanti a Dio e l’agire dei discepoli di Gesù in contrasto con la loro posizione. Il digiuno: non lo troviamo comandato in modo chiaro e assoluto nella Legge, ma lo vediamo la prima volta come forma esteriore di penitenza nel caso di Mosè, che a fronte dei peccati del popolo stette senza mangiare né bere per un certo periodo (Deuteronomio 9.17-19). È probabile che il digiuno sia citato con l’espressione “affliggerete le vostre persone”, tradotto anche con “vi umilierete” in Levitico 16.28-34: in questo caso il digiuno è comandato una volta all’anno nel gran giorno dell’espiazione nel quale si compendiavano tutte le cerimonie espiatorie. Dice il testo “29Questa sarà per voi una legge perenne: nel settimo mese, nel decimo giorno del mese, affliggerete le vostre persone, vi asterrete da qualsiasi lavoro, sia colui che è nativo del paese sia il forestiero che soggiorna in mezzo a voi, 30poiché in quel giorno si compirà il rito espiatorio per voi, al fine di purificarvi da tutti i vostri peccati. Sarete purificati davanti al Signore. 31Sarà per voi un sabato di riposo assoluto e voi vi umilierete; è una legge perenne. 32Compirà il rito espiatorio il sacerdote che ha ricevuto l’unzione e l’investitura per succedere nel sacerdozio al posto di suo padre; si vestirà delle vesti di lino, delle vesti sacre. 33Purificherà la parte più santa del santuario, purificherà la tenda del convegno e l’altare; farà l’espiazione per i sacerdoti e per tutto il popolo della comunità. 34Questa sarà per voi una legge perenne: una volta all’anno si compirà il rito espiatorio in favore degli Israeliti, per tutti i loro peccati».

Fu nel corso del tempo che il digiuno assunse valore come pratica di penitenza e soprattutto con l’intento di mortificare gli appetiti della carne concentrandosi sullo spirito in grado di dominarla. Sappiamo che Gesù digiunava spesso e che non lo proibì, ma nel nostro episodio siamo di fronte a una realtà diversa: Marco ci spiega l’origine di quella contesa con le parole “I discepoli di Giovanni e i farisei stavano facendo un digiuno” (v.18); si trattava quindi di un’astinenza tradizionale, quella di cui, per lo meno i farisei, abusavano spacciandola come mezzo per essere giustificati davanti a Dio, ma facendo in modo di farlo notare agli altri. Gesù commentò così questo atteggiamento: “E quando digiunate, non diventate malinconici come gli ipocriti, che assumono un’aria disfatta per far vedere agli altri che digiunano. In verità vi dico che hanno già ricevuto la loro ricompensa. Invece, quando tu digiuni, profumati la testa e làvati il volto, perché la gente non veda che tu digiuni, ma solo il Padre tuo, che è nel segreto. E il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà” (Matteo 6.16-18).

Anche prendendo il digiuno a prescindere da quanto abbiamo letto, a questo punto Gesù usa un termine che i discepoli di Giovanni dovevano conoscere molto bene perché lo avevano già sentito dal loro maestro, quello dello sposo: “Possono forse gli invitati a nozze essere in lutto finché lo sposo è con loro?”. E, parlando della Sua morte imminente, aggiunge “Ma verranno giorni quando lo sposo sarà loro tolto, e allora digiuneranno”. Giovanni non era lo sposo, ma il suo amico, che si “rallegra grandemente alla sua voce”. Il digiuno quindi, emblema del cordoglio, era lì fuori luogo.

Gesù si definisce quindi come “lo sposo” e i presenti al banchetto come “gli invitati alle nozze”, o meglio “gli amici della camera nuziale”, in questo caso quei pubblicani e i peccatori ai quali aveva o avrebbe predicato invitandoli a condividere, credendo in lui, la partecipazione alle nozze future, quelle che si sarebbero celebrate quando la Chiesa, sposa di Cristo, avrebbe potuto essere presentata a lui completa, con tutti i suoi membri.

Già negli scritti dell’Antico Patto i profeti avevano parlato dello sposo, fra i molti Isaia che scrive “…poiché il tuo sposo è il tuo creatore, Signore degli eserciti – angelici – è il suo nome; tuo redentore è il santo di Israele, è chiamato Dio di tutta la terra” (Isaia 54.5), parole che Paolo accosta alla Gerusalemme che deve venire in cui dimoreranno tutti i credenti: “La Gerusalemme attuale è di fatto schiava assieme ai suoi figli. Invece la Gerusalemme di lassù è libera ed è la madre di tutti noi” (Galati 4.25,26).

Lo sposo però, tornando al presente cui Gesù fa riferimento, “sarà tolto”, termine che esprime violenza e sta ad indicare il dolore e la paura che si impossesserà dei discepoli dal Suo alla resurrezione.

A questo punto Gesù pone i suoi uditori innanzi a due paragoni, quello del panno e degli otri: c’è un vestito, termine che nella Scrittura si riferisce sempre a una condizione (giustizia, perdono, purezza, vendetta, gioia e lode) e c’è un rattoppo, cioè una parte nuova, ma grezza, non gestibile perché il rammendo provocherebbe al primo lavaggio il restringersi dal tessuto vecchio lacerandolo e ottenendo un effetto ancora peggiore. Ci sono poi gli otri vecchi che, già indeboliti e irrigiditi dalla fermentazione del vino precedente, scoppierebbero di fronte alla forza del nuovo: Gesù allora non parla di uomini, ma di sistemi e, come scrive Robert Stewart, “Nel vino nuovo è simboleggiato il Vangelo con la sua energia viva e spirituale, negli otri vecchi la dispensazione cerimoniale giudaica”. L’insegnamento di Gesù in questo caso è che l’energia, la potenza del Vangelo, non può essere limitata dall’osservanza della lettera, ma deve svilupparsi con lo Spirito perché è scritto che la prima uccide, mentre lo spirito vivifica. Mescolando tra loro le due dispensazioni e i loro contenuti entrambe non potrebbero reggere e verrebbero sfigurate, svuotate, si distruggerebbero per quanto non siano tra loro in antitesi. Un vestito è vecchio, ma c’è un panno nuovo che in comune col primo ha solo la composizione del tessuto. Gli otri sono vecchi, hanno già svolto il loro compito, hanno già dato, non sono in grado di reggere un vino nuovo. Sappiamo che l’apostolo Paolo, nonostante il suo passato di dottore della Legge, scrive in proposito:“8Dio infatti, biasimando il suo popolo, dice: Ecco: vengono giorni, dice il Signore, quando io concluderò un’alleanza nuova con la casa d’Israele e con la casa di Giuda. 9Non sarà come l’alleanza che feci con i loro padri, nel giorno in cui li presi per mano per farli uscire dalla terra d’Egitto; poiché essi non rimasero fedeli alla mia alleanza, anch’io non ebbi più cura di loro, dice il Signore. 10E questa è l’alleanza che io stipulerò con la casa d’Israele dopo quei giorni, dice il Signore: porrò le mie leggi nella loro mente e le imprimerò nei loro cuori; sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo. 11Né alcuno avrà più da istruire il suo concittadino, né alcuno il proprio fratello, dicendo: «Conosci il Signore!». Tutti infatti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande di loro. 12Perché io perdonerò le loro iniquità e non mi ricorderò più dei loro peccati. 13Dicendo alleanza nuova, Dio ha dichiarato antica la prima: ma, ciò che diventa antico e invecchia, è prossimo a scomparire.” (Ebrei 8.8-13). I versi che Paolo cita, riferiti al capitolo 31 di Geremia, li pone in una prospettiva che deve ancora venire.

Torniamo al nostro episodio e facciamo ora riferimento a Luca, il solo a fare un’aggiunta dopo il paragone dei rattoppo e degli otri: “Nessuno poi che beve il vino vecchio desidera il nuovo, perché dice «Il vecchio è gradevole»” (5.39). Gesù fa qui una considerazione amara su quanti, abituati al sapore del vino vecchio, non gradiscono il nuovo. I farisei e i discepoli di Giovanni erano abituati, affezionati alle loro antiche abitudini, dottrine e tradizioni e in queste si ritenevano al sicuro perché “si è sempre fatto così”, come sentiamo dire da molti. Così avevano ereditato le tradizioni, c’erano rabbini che su di esse costruivano interpretazioni e teoremi, la Legge cerimoniale era una condizione di vita alla quale attingere, ma anche sulla quale sostare in pace con la propria coscienza, convinti di essere nel giusto, che a tutto ci fosse rimedio. Ne erano però prigionieri, nulla vedevano al di là di essa né volevano alcunché di nuovo per cui la dottrina di Cristo era malvista nonostante fosse accompagnata da segni volti a far capire che il Regno di Dio era giunto a loro dopo millenni di deserto, pur con qualche speranza data da profeti troppo spesso rimasti inascoltati. Diversi furono però i samaritani, che dissero “Noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo”. Vino nuovo in otri nuovi.

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3.08 – LEVI MATTEO (Matteo 9.9-13)

3.08 – La chiamata di Levi Matteo (Matteo 9.9-13)

9Andando via di là, Gesù vide un uomo, chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: «Seguimi». Ed egli si alzò e lo seguì. 10Mentre sedeva a tavola nella casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e se ne stavano a tavola con Gesù e con i suoi discepoli. 11Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: «Come mai il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?». 12Udito questo, disse: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. 13Andate a imparare che cosa vuol dire: Misericordia io voglio e non sacrifici. Io non sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori»”

Levi Matteo è il settimo ad essere chiamato personalmente da Gesù nel gruppo dei suoi discepoli. Ricordiamo cronologicamente gli altri, che verranno disposti più avanti in ordine di funzione e carattere: i primi incontrati furono Giovanni con Andrea, quindi Simon Pietro, Filippo e Natanaele, chiamato Bartimeo. A seguirlo dopo la pesca sulle rive del lago di Galilea furono Pietro col fratello Andrea e subito dopo Giacomo con Giovanni. Matteo fu quindi il quinto di cui è espressamente scritta la chiamata, settimo se si contano i discepoli, poi chiamati apostoli, che incontrarono Gesù. Tutti i sinottici concordano nel collocare l’episodio dopo quello della guarigione del paralitico di Capernaum, di modo che il filo cronologico temporaneamente perduto o dubbio si riannoda. Marco scrive che “Uscì di nuovo lungo il mare, tutta la folla veniva a lui ed egli insegnava loro. Passando, vide Levi, figlio di Alfeo, seduto al banco delle imposte, e gli disse «Seguimi»” (2.13,14). Capernaum infatti, posta sulla via principale tra l’Egitto e Damasco, aveva una dogana posta dai romani per la riscossione delle tasse sulle merci che transitavano.

Matteo è chiamato da Marco “Levi, figlio di Alfeo” (2.14) e semplicemente “Levi” da Luca (5.29) perché, come molti stante la situazione politica del tempo, aveva un nome ebreo (Levi, cioè “Congiunzione”) e uno romano (Matteo, comunque di derivazione greca, “Dono del Signore”): coi romani, considerato il lavoro che faceva, si relazionava molto in quanto dipendente del loro governo. I pubblicani erano considerati dei “venduti” e disprezzati al pari delle prostitute e sappiamo che il fariseo di una nota parabola ringraziava Dio di non essere “come gli altri uomini e neppure come quel pubblicano” che era salito al Tempio con lui a pregare.

Levi Matteo era una persona colta e benestante, che conosceva già Nostro Signore perché era un suo parente. Matteo, lo abbiamo visto in Marco, è chiamato “Figlio di Alfeo” che in aramaico diventa “Cleopa”, o “Cleofa”, probabile marito di quella “Maria di Cleofa” presente alla crocifissione assieme ad altre donne, sorella di Maria madre di Gesù. Stante l’impossibilità di avere certezze assolute in proposito, è stato supposto che Alfeo–Cleofa fosse lo zio di Gesù e Matteo suo cugino, fratello di quel Giacomo detto “il minore” che rientrerà nel gruppo dei dodici. Va detto che lo studio delle relazioni parentali si presenta assai arduo sia per la doppia valenza che ha il termine “fratello”, che nell’antichità indicava anche una parentela prossima, ma anche per il “di” che poteva riferirsi a un rapporto di paternità come a un vincolo matrimoniale. Inoltre uno scritto di un autore esegetico importante pubblicato nei primi anni del ‘900 arriva a sostenere che non vi siano prove dell’equivalenza “Alfeo – Cleopa”. Personalmente ritengo che quel “figlio di Alfeo” non compaia a caso e che effettivamente vi fosse un legame tra i personaggi citati, per quanto non dimostrabile con assoluta certezza.

A prescindere da questi rapporti che nulla vanno a modificare nella dottrina, cerchiamo di capire Matteo più da vicino: era una persona che viveva col guadagno del suo lavoro e non faceva la cresta sulle tasse come molti suoi colleghi. Il fatto che sapesse benissimo di essere disprezzato dai suoi correligionari e che non se ne facesse un cruccio, è indice di autonomia decisionale e maturità. Evidentemente Matteo era giunto alla conclusione che fosse meglio lavorare onestamente e dignitosamente senza infrangere il comandamento “Non rubare”. Era poi una persona attenta alla realtà che lo circondava: sicuramente, per il suo lavoro e le conoscenze di persone che gli raccontavano le cronache dei dintorni, aveva avuto modo di ragionare molto su quel Gesù da Narareth che già aveva operato miracoli di ogni tipo in Capernaum e nella Galilea, oltre che sui contenuti dei discorsi alla gente. Questo apostolo dai due nomi si rivelerà come “Congiunzione” nello scrivere in suo Vangelo, particolarmente accurato nell’analizzare le profezie che riguardano Gesù come Cristo – ne cita 60 -, e “Dono di Dio” per la sua opera scritta, che da sempre ha aiutato i credenti nel corso della storia per la comprensione dell’opera di Nostro Signore. Gesù quindi sapeva di poter contare su di lui esattamente come era successo con gli altri, Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni, Filippo e Natanaele-Bartolomeo. Se così non fosse, non gli avrebbe mai detto “Seguimi” e se Matteo non avesse concluso, non sappiamo quanto tempo prima, che la vita che conduceva quotidianamente non poteva avere nulla a che fare con quella spirituale ed eterna, o anche solo il voler vivere vicino a quel Maestro, non avrebbe mai abbandonato il suo lavoro: Luca scrive infatti “Ed egli, lasciando tutto, si alzò e lo seguì” (5.28). Fu una reazione immediata, colse al volo un’occasione irripetibile non preoccupandosi di altro, il che ci dice molto della considerazione nella quale teneva la propria vita fino ad allora tranquilla e ordinata nonostante il disprezzo in cui era tenuta la sua professione.

In lui vi dovette essere molta gioia poiché organizzò poco dopo “un grande banchetto nella sua casa” non penso per festeggiare l’avvenimento della sua chiamata, ma piuttosto per permettere alle persone che conosceva di avere il privilegio di ascoltare Gesù, di stare con lui, di condividere la sua presenza. Esattamente come dovrebbe accadere nelle riunioni di Chiesa in cui occhi e orecchie spirituali dovrebbero essere centrate su Cristo, presente secondo la Sua promessa dei “due o tre” radunati nel Suo nome.

Matteo quindi organizza un convito importante non solo quanto a numero e tipo di partecipanti e invitando le persone che conosceva: tutto questo suscitò l’indignazione dei farisei (“Gli scribi dei farisei” secondo Marco): come poteva, quel Rabbi che faceva miracoli cacciando demoni e insegnando nelle sinagoghe, stare a tavola con “pubblicani e peccatori”, termine quest’ultimo riferito ai trasgressori della legge morale e cerimoniale di Israele?

La risposta di Gesù, che sentì la domanda, fu duplice: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati”, alludendo al fatto che, se fosse vissuto separato dai peccatori non avrebbe mai potuto parlare loro. Egli li vedeva soli nella loro condizione spirituale, ma non arroganti e presuntuosi nell’anima e nello spirito come quei farisei, malati pure loro, ma nella condizione di chi il medico lo rifiuta perché convinto di essere sano. La frase che segue subito dopo, “Io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori”, allude proprio a questo perché era tutto l’impianto morale dei farisei ad essere in difetto per cui li invita ad “andare” e a “imparare” (un modo per dire che avrebbero dovuto tornare a scuola) cosa volesse dire “Io voglio misericordia e non sacrifici”. Tra l’altro, proprio “Va’ e impara” era un’espressione che i Farisei utilizzavano molto spesso a conclusione di un discorso per far pesare sugli altri la superiorità che pensavano di avere.

Da sempre i farisei – allora come oggi – facevano e fanno interminabili dissertazioni su qualunque versetto biblico andando ben oltre l’esegesi con un metodo che Gesù definirà con queste parole: “Guai a voi, scribi e farisei, ipocriti, (…) che filtrate il moscerino e ingoiate il cammello”, un paragone che illustra molto bene il loro metodo di guardare alle minuzie perdendo di vista ciò che effettivamente era ed è la sostanza delle cose. Solo la conversione avrebbe potuto guarire quei malati che si credevano sani, e per questo Gesù li invita a considerare il passo di Osea 6.6 che conoscevano molto bene, ma che viene loro ripetuto a voce: la misericordia “piuttosto che” – traduzione più corretta di “e non” – sacrifici, quindi la parte cerimoniale della Legge a loro tanto cara. Anche oggi molti per conversione intendono una rinuncia, un abbandono di azioni e comportamenti che caratterizzavano la loro vita di peccatori prima del loro incontro personale col Signore: se questo non è di per sé sbagliato, va detto che senza una profonda rivisitazione della propria vita e un’assimilazione della Parola di Dio che porta alla rinuncia, il loro gesto può essere un’azione che può lasciare dei rimpianti e dei residui all’interno dei loro cuori che a lungo andare possono sempre esplodere con conseguenze destabilizzanti. Matteo, e prima di lui gli altri, avevano lasciato le loro cose, quindi il loro modo di vivere, solo nel momento in cui avevano capito sì che quella era l’unica cosa che potessero fare, ma che tutto ciò che possedevano si era svuotato di significato. Non fu una rinuncia dolorosa, ma la scelta tra ciò che era prezioso e ciò che non aveva più valore. Purtroppo molti anche oggi intendono il cristianesimo come un’applicazione di norme e comandamenti, dimenticando che è una libera espressione di un sé che si manifesta attraverso l’applicazione di principi etici.

Tornando all’episodio, guardare alla Legge cerimoniale da parte dei farisei e dei loro scribi significava osservare una religione che consisteva soltanto nell’aderire alla lettera a quanto era comandato da Dio, ma trascurandone totalmente lo spirito. Anche ai tempi di Osea (VII secolo a.C.) si credeva che la cosa più gradita a Dio fosse il sacrificio esteriore e materiale perché era molto più facile far pagare i propri peccati a una vittima innocente, l’animale, piuttosto che esaminarsi profondamente per mutare radicalmente il proprio interno. Anche Samuele, ancora prima, aveva detto “Il Signore gradisce gli olocausti e i sacrifici come chi ubbidisce alla sua voce? Ecco, ubbidire è più prezioso che il sacrificio, e attendere più del grasso dei montoni” (1 Samuele 15.22). Possiamo dire che questo tipo di ragionamento avviene anche oggi nel cristianesimo nel momento in cui, ad esempio, si fa di Dio una persona che dovrebbe essere sempre attenta ad esaudire le preghiere che pongono sempre e costantemente al centro le necessità materiali dell’individuo anziché una richiesta di aiuto e soccorso per eliminare ciò che ritarda il cammino con lui. Sono queste preghiere che vengono costantemente disattese perché, come disse l’apostolo Giacomo, “Non avete perché non chiedete; chiedete e non ottenete perché chiedete male, per soddisfare cioè le vostre passioni. Gente infedele! Non sapete che l’amore per il mondo è nemico di Dio?” (Giacomo 4.2,3).

Alla base dell’atteggiamento farisaico esiste sempre una presunzione che ha santificato l’orgoglio, che nulla sa dell’amore che non sia per se stessi. Invece pochi versi dopo quelli che abbiamo citato, Giacomo scrive “Dio resiste ai superbi, ma dà la sua grazia agli umili. Sottomettetevi dunque a Dio; resistete al diavolo, ed egli fuggirà da voi. Avvicinatevi a Dio ed Egli si avvicinerà a voi. Peccatori, purificate le vostre mani. Uomini dall’animo indeciso, santificate i vostri cuori. Riconoscete la vostra miseria, fate lutto e piangete; le vostre risa si cambino in lutto e la vostra allegria in tristezza. Umiliatevi davanti al Signore ed egli vi esalterà”. (4.6-10).

 

Gesù dichiara quindi di non essere venuto a chiamare chi si ritiene giusto, ma chi sa di avere bisogno di lui, cosa possibile solo se è consapevole di essere un peccatore, una persona in antitesi a lui e quindi soggetta ad essere respinta da parte Sua. In pratica, chi è malato chiama il medico perché si rende conto della sua condizione, ne avverte i sintomi e quindi si rivolge a lo può guarire, anzi, se è grave cerca il medico migliore. Per tutti i cosiddetti “sani” valgono invece le parole, tra le innumerevoli, di Proverbi 1.30,31: “Vi ho chiamati, ma avete rifiutato, ho steso la mano e nessuno se ne è accorto. Avete trascurato ogni mio consiglio e i miei rimproveri non li avete accolti; anch’io riderò delle vostre sventure, mi farò beffe quando su di voi verrà la paura, quando come una tempesta vi piomberà addosso il terrore, quando la disgrazia vi raggiungerà come un uragano, quando vi colpiranno angoscia e tribolazione. Allora mi invocheranno, ma io non risponderò, mi cercheranno, ma non mi troveranno. Perché hanno odiato la sapienza e non hanno preferito il timore del Signore e non hanno accettato il mio consiglio e hanno disprezzato ogni mio rimprovero; mangeranno perciò il frutto della loro condotta e si sazieranno dei loro consigli”.

Se quindi una persona è consapevole di essere un peccatore, riconoscendosi in tal modo malato, ha bisogno di confrontarsi con Dio e Gesù Cristo, la Sua diretta Parola. Solo allora potrà essere guarito ed instaurare con Lui un rapporto unico di dipendenza e bisogno continuo; viceversa potrà solo rimanere nelle propria convinzione, umanamente sazio nella propria coscienza. Si tratta di un pericolo che tutti possono correre, anche i cristiani che perdono di vista la loro chiamata e lo scopo per cui vivono il loro pellegrinaggio terreno in vista dei “nuovi cieli e nuova terra dove dimora stabile la Giustizia” promessi e preparati per loro. Ricordiamo le parole all’angelo della Chiesa di Laodicea: “Tu dici «Sono ricco, mi sono arricchito, non ho bisogno di nulla». Ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo” (Apocalisse 3.17). Perché, questo è il punto, “Non c’è nessun giusto, neppure uno” (Romani 3.9). Amen.

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3.07 – IL PARALITICO DI CAPERNAUM (Luca 5.17-26)

3.07 – Il paralitico di Capernaum (Luca 5.17-26)

 

17Un giorno stava insegnando. Sedevano là anche dei farisei e maestri della Legge, venuti da ogni villaggio della Galilea e della Giudea, e da Gerusalemme. E la potenza del Signore gli faceva operare guarigioni. 18Ed ecco, alcuni uomini, portando su un letto un uomo che era paralizzato, cercavano di farlo entrare e di metterlo davanti a lui. 19Non trovando da quale parte farlo entrare a causa della folla, salirono sul tetto e, attraverso le tegole, lo calarono con il lettuccio davanti a Gesù nel mezzo della stanza. 20Vedendo la loro fede, disse: «Uomo, ti sono perdonati i tuoi peccati». 21Gli scribi e i farisei cominciarono a discutere, dicendo: «Chi è costui che dice bestemmie? Chi può perdonare i peccati, se non Dio soltanto?». 22Ma Gesù, conosciuti i loro ragionamenti, rispose: «Perché pensate così nel vostro cuore? 23Che cosa è più facile: dire «Ti sono perdonati i tuoi peccati», oppure dire «Àlzati e cammina»? 24Ora, perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere sulla terra di perdonare i peccati, dico a te – disse al paralitico -: àlzati, prendi il tuo lettuccio e torna a casa tua». 25Subito egli si alzò davanti a loro, prese il lettuccio su cui era disteso e andò a casa sua, glorificando Dio. 26Tutti furono colti da stupore e davano gloria a Dio; pieni di timore dicevano: «Oggi abbiamo visto cose prodigiose»”.

 

La guarigione del paralitico di Capernaum è narrata da tutti i sinottici, per quanto con varianti che non mutano sostanzialmente il significato dell’episodio, anzi lo arricchiscono di particolari. Anche questo rientra in quei miracoli che gli evangelisti inseriscono senza una successione cronologica certa per quanto Matteo lo collochi dopo il discorso della montagna e l’intervento sugli indemoniati di Gadara, scrivendo “Salito su una barca, passò all’altra riva e giunse nella sua città”. Credo che agli evangelisti prema, nel caso dell’esposizione di questi miracoli, dare la precedenza più sul contenuto dottrinale che cronologico, problema che non si sono posti non ritenendolo importante al contrario degli autori del Pentateuco in cui la successione degli eventi è fondamentale e non può lasciare adito a dubbi pena la loro non comprensione. Marco scrive che Gesù tornò a Capernaum “dopo alcuni giorni” lasciando così indeterminato il periodo di predicazione in Galilea: lì sappiamo, ricordando Giovanni 2.12, che “dopo le nozze di Cana scese a Capernaum insieme a sua madre, ai suoi fratelli e ai suoi discepoli”.

Ora il fatto che fosse tornato là, fece sì che ricominciasse la sua attività spirituale alla quale si accompagnavano guarigioni di ogni tipo. La sua presenza in Capernaum attirò non solo il popolo comune, ma anche “farisei e dottori della Legge, venuti da ogni villaggio della Galilea e della Giudea, e da Gerusalemme”, segno che la guarigione del paralitico avvenne non immediatamente il suo ritorno in quella cittadina. Ci volle infatti del tempo tra il suo arrivo in città e che questa notizia si diffondesse, così come per il viaggio che dovettero fare alcuni da Gerusalemme alla casa di Gesù.

È triste constatare che quella che avrebbe dovuto essere teoricamente la parte migliore del popolo di Israele vista nei farisei e nei dottori della Legge, che avrebbero dovuto tramandarsi, tradizioni religiose a parte, anche quanto fosse profonda la dottrina che Gesù aveva dimostrato di possedere fin dall’età di dodici anni, era là non per ascoltarlo e confrontarsi con l’Unica fonte di vita, ma per giudicarlo e coglierlo in flagrante secondo il loro metodo. Non troviamo se non con Nicodemo, che era dei loro, un dialogo che denoti una volontà di capire, di raccordare il principio in base al quale “nessuno può fare i segni che tu fai, se Dio non è con lui ” con il voler assimilare la reale identità di Gesù. Quel fariseo però, nonostante il proprio bagaglio storico culturale che molto lo impedì nel suo cammino – ma chi, salvo rare eccezioni, non lo è? – era un onesto.

Ora c’era in Capernaum un paralitico – che in nessuno dei tre racconti dice mai una parola – che poteva contare sull’aiuto di alcune persone, almeno quattro, che volevano a tutti i costi fosse guarito: volevano portarlo a Gesù, ma capirono ben presto che i loro tentativi di entrare per la porta della casa sarebbero stati inutili a causa della folla che, essendo la casa piena, si accalcava per ascoltare il Maestro.

A questo punto è doveroso spendere qualche parola su come fossero fatte le case di allora: avevano un solo piano oltre il quale c’era una terrazza alla quale si accedeva tramite una stretta scalinata posta all’esterno. In alternativa, se la casa confinava con altre, c’era un muretto di divisione a dividere le due terrazze – e l’eventuale area cortilizia circostante –, che naturalmente avevano anche la funzione di tetto come leggiamo ad esempio in Matteo 24.17 “Chi si trova sul tetto della casa, e avrà le sue masserizie dentro la casa, non scenda a prenderle”. Allora come oggi, se vedere una persona su un tetto è cosa inusuale, certo non lo è se si tratta di una terrazza.

Ora è molto probabile che avvenne così: i quattro o più amici del paralitico arrivarono alla casa di Gesù e compresero l’impossibilità di entrarvi, stante la molta gente accalcata intorno; non riuscirono neppure a raggiungere la scalinata esterna per accedere alla terrazza e allora passarono da quella vicina. Scavalcarono, con tutta la fatica e la cautela del caso stante l’amico che trasportavano sul lettino, il muretto che divideva una terrazza dall’altra e così giunsero a quella della casa di Gesù. A questo punto, si misero a lavorare sul pavimento – soffitto, costituito da fango essicato o argilla che poggiava su un fitto strato di rami sostenuti da travi. Sulla terrazza esisteva molto spesso uno strumento particolare, una sorta di rullo, un cilindro che in caso di pioggia veniva fatto rotolare su e giù per il pavimento per compattare l’impasto di argilla ed evitare che piovesse in casa. Vero è che Luca, a differenza di Matteo e Marco, parla di “tegole”, ma il termine non va collegato al nostro; piuttosto alla sua etimologia dal latino “tegere”, cioè “coprire”. Ciascuno proteggeva il soffitto-terrazzo come poteva e non è escluso che vi fossero, nel punto scelto dagli amici del paralitico, magari delle tavole a protezione del pavimento che, per la natura del manufatto, avrebbe potuto essere riparato dagli stessi in breve tempo e con uno sforzo certo minore rispetto a quello fatto per condurre il loro amico infermo fin lì.

A quanto risulta dai sinottici, questi calarono il loro amico dal tetto senza dire nulla: il loro comportamento parlava da solo perché avevano fatto la fatica di portare quell’uomo fin lì e quindi ingegnarsi per raggiungere Gesù consapevoli che avrebbero dovuto fare in fretta stante le probabilità che, da un momento all’altro, finisse di parlare ed uscisse di casa per ritirarsi in qualche luogo sconosciuto a pregare. Ecco che il loro comportamento rivelava due cose: erano certi che Gesù avrebbe potuto guarire il loro amico e al tempo stesso denota l’amore che avevano per lui perché sicuramente quel trasporto era faticoso se non altro per il caldo, visto che non sappiamo quanto pesasse quel corpo incapace di muoversi e forse di parlare. Non credo di essere azzardato dicendo che quella che Gesù e i presenti videro altro non fu che una preghiera fatta con le opere e non con le parole, come ve ne saranno altre. E sappiamo molto bene che è quello che facciamo che rivela spesso il nostro pensiero al di là di ciò che possiamo dire.

A questo punto avviene qualcosa di estraneo alle aspettative di tutti: Gesù non dice “guarisci” o “àlzati”, ma “Uomo, ti sono rimessi i peccati”, frase che Matteo riporta leggermente diversa: “Coraggio, figlio, ti sono perdonati i peccati”, segno che Lui conosceva il passato, la storia di quella persona e che era la condizione di peccato in cui versava a renderlo paralitico per cui solo il perdono di Dio avrebbe potuto liberarlo. Ma posiamo anche andare oltre: perché Gesù avrebbe detto “Coraggio” se non ci fosse stato bisogno di consolarlo al di là della sua condizione fisica? Dire “Àlzati” avrebbe risolto tutto, e invece la prima parola fu “Coraggio”, cioè un invito morale. È così azzardato supporre che quell’uomo fosse angosciato, oltre che dalla sua paralisi, per uno o più peccati commessi che avevano finito per penalizzarlo in quel modo? Non credo che Gesù avesse pronunciato una frase del genere se non fosse stato il peccato che tormentava la coscienza e non la paralisi il problema di quell’uomo, né tantomeno che dire “ti sono rimessi i peccati” fosse stato uno strumento per suscitare la discussione, che poi avvenne, coi farisei e i dottori presenti che Robert Steward definisce “al tempo stesso giuristi e teologi, legislatori e sacerdoti della nazione giudaica”.

Ebbene, quei sapienti furono immediatamente scandalizzati: “Chi è costui che dice bestemmie? Chi può perdonare i peccati, se non Dio soltanto?”. Due sono gli elementi su cui soffermarsi, il “costui” usato in senso spregiativo, e il bestemmiare, che se nel greco classico si usa per denotare ogni sorta di maldicenza contro il prossimo, in quello ellenistico di Luca denota empietà e malvagio parlare contro Dio.

A questo punto Nostro Signore, che conosceva i ragionamenti dei suoi oppositori, li interroga sul perché pensassero quelle cose. Matteo scrive “Perché pensate cose malvagie nel vostro cuore? Che cosa infatti è più facile: dire «Ti sono perdonati i peccati», oppure «Àlzati e cammina»?”: fu sicuramente un rimprovero, ma con lo scopo di porre i suoi antagonisti di fronte alla loro coscienza. Parafrasando: “Perché pensi così? Prima che a me, rispondi a te stesso, cerca le ragioni di questo tuo astio alla luce di quello che sai giù su di me e a quello che vedrai”. La seconda parte delle parole di Gesù sono destinate a zittire i pensieri e i mormorii di quelli: è facile dire a una persona “ti sono rimessi i peccati”, ma non altrettanto a un paralitico di alzarsi e camminare, cosa che avvenne, lasciando muti e soli quei religiosi di fronte alle loro responsabilità. E il termine ebraico che indicava la parola “peccato” poteva indicare tanto una colpa commessa quanto le sue conseguenze ed era proprio l’infermità corporale grave e cronica che, come già visto in altri episodi, la denotava.

Venendo a noi, l’incontro con Gesù e le sue parole lascia sempre, all’inizio, l’essere umano solo di fronte a sé stesso: è a un bivio, deve inevitabilmente scegliere se rimanere nelle convinzioni di cui è vittima nonostante creda il contrario, oppure mettersi in discussione di fronte a quanto gli viene detto. Non è facile: richiede umiltà, apertura, disponibilità e sì, rinunciare a se stessi per seguirLo nel cammino. Il problema, la domanda, non è “cosa perdo se accetto Gesù Cristo”, ma “dove vado e a quale punto arrivo se seguo me stesso e dove vado e dove arrivo se seguo Lui”.

La vita che scorre da quando l’uomo è stato estromesso da Eden ad oggi è descritta in sintesi dal re Salomone in tutto il libro dell’Ecclesiaste, o Qoelet: “3Quale guadagno viene all’uomo
per tutta la fatica con cui si affanna sotto il sole? 4Una generazione se ne va e un’altra arriva,
ma la terra resta sempre la stessa. 5Il sole sorge, il sole tramonta e si affretta a tornare là dove rinasce.
6Il vento va verso sud e piega verso nord. Gira e va e sui suoi giri ritorna il vento.
7Tutti i fiumi scorrono verso il mare, eppure il mare non è mai pieno: al luogo dove i fiumi scorrono,
continuano a scorrere. 8Tutte le parole si esauriscono e nessuno è in grado di esprimersi a fondo.
Non si sazia l’occhio di guardare né l’orecchio è mai sazio di udire. 9Quel che è stato sar
e quel che si è fatto si rifarà; non c’è niente di nuovo sotto il sole. 10C’è forse qualcosa di cui si possa dire:
«Ecco, questa è una novità»? Proprio questa è già avvenuta nei secoli che ci hanno preceduto.
11Nessun ricordo resta degli antichi, ma neppure di coloro che saranno si conserverà memoria
presso quelli che verranno in seguito”
(Ecclesiaste 1.3-11). Anche questa è una paralisi, per quanto illusoriamente mobile.

Al paralitico vengono affidati tre compiti: alzarsi, prendere il lettino al quale per molto tempo e con sofferenza era stato costretto, e andarsene a casa sua. Sarebbe iniziata per lui una vita nuova, perfettamente conseguente al perdono dai peccati ricevuto. E non è certo sottovalutabile la sua reazione: “Subito egli si alzò davanti a loro, prese il lettuccio su cui era disteso e andò a casa sua, glorificando Iddio”. Si noti che non è scritto che ringraziò l’uomo Gesù, ma glorificò Iddio, cioè riconobbe che quanto avvenuto era stato possibile unicamente grazie a quel Dio che prima gli aveva fatto patire le conseguenze di una condizione di peccato e poi gli aveva rimesso ogni colpa. “Glorificare Dio” era la stessa cosa che ringraziare chi lo aveva guarito e, ancor di più, chi gli aveva rimesso i peccati. Da un lato abbiamo perdono e guarigione, dall’altro gli uomini della Legge orale e scritta che rimasero lì, induriti sulle loro posizioni senza un perché. Non si trattava più, come annota Giuseppe Ricciotti, “di qualche elegante questione casistica rabbinica, ad esempio di sapere se fosse lecito di sabato sciogliere il nodo di una fune o trasportare un fico secco”, ma di ammettere semplicemente che il Regno di Dio era finalmente giunto a loro e che Gesù stava dimostrando di essere l’incarnazione delle promesse fatte ai profeti a partire da Abrahamo, che loro ritenevano loro padre. Nessuno di loro lo fece.

Concludendo, abbiamo una cosa che in questo episodio accomuna gli ostili a Gesù, il paralitico e i suoi amici: tutti intraprendono un cammino per andare da Lui. I primi per accusarlo e il risultato che ottennero fu solo sconfitta e livore, i secondi consapevoli che solo Nostro Signore avrebbe potuto risolvere il loro grave problema, E la gioia fu il loro premio. I primi pensavano di essere qualcosa, i secondi partecipavano alla sofferenza dell’amico e andarono a Cristo per essere esauditi, o anche solo ascoltati attraverso le loro azioni. Solo la Parola di Dio che è Spirito e Vita può quindi risolvere la condizione di peccato in cui si trova l’uomo perché solo per mezzo della fede si riceve la giustificazione e la pace di Dio.

E Davide nel suo Salmo 108.13 scrive sotto la dispensazione della Legge “Il Signore è buono e pietoso, lento all’ira e grande nell’amore. Egli non continua a contestare e non conserva per sempre il suo sdegno, non ci tratta secondo le nostre colpe – cosa che il cristiano sa molto bene –. Come il cielo è alto sulla terra, così grande è la sua misericordia su quanti lo temono; come dista l’Oriente dall’Occidente, così allontana da noi le nostre colpe. Come un padre ha pietà dei suoi figli – il Padre Nostro che è nei cieli – così il Signore ha pietà di quanti lo temono”. Amen.

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3.06 – GESÙ IN PREGHIERA (Luca 5.15,16)

3.06 – Gesù in preghiera (Luca 5.15-16)

15Di lui si parlava sempre di più. E folle numerose venivano per ascoltarlo e farsi guarire dalle loro malattie. 16Ma Egli si ritirava in luoghi deserti a pregare”.

Con questa lettura ci troviamo di fronte a due situazioni distinte di cui solitamente si prende atto passandovi sopra, quasi ansiosi di leggere l’episodio successivo, tra la guarigione del lebbroso e quella del paralitico. Ciò che Luca descrive nei nostri versi è semplice: da un lato abbiamo le folle composte da curiosi che volevano vederlo, ascoltarlo e alcuni di loro guarire dalle malattie che li affliggevano, dall’altro vediamo la volontà di Gesù di ritirarsi in luoghi deserti e pregare, azione che lo accomuna a tutti gli altri uomini cui premeva e preme instaurare un rapporto con Dio.

Lui, il Figlio, tutt’uno con il Padre nella dimensione spirituale prima, durante e dopo la creazione, aveva assunto un corpo assolutamente identico al nostro provando la fatica, la fame e la sete. Lui, che teoricamente non aveva bisogno di nulla, si ritira in luoghi deserti per compiere un atto che per noi è indice di subordinazione e dipendenza, condizioni che si riferiscono al suo essere uomo per l’eredità materna che aveva ricevuto nella carne e alla quale non poteva sottrarsi. Questo era il limite di Gesù uomo, “limite” che scandalizza quelli che sono convinti che parlare di Dio impiegando espressioni come “non potere” o pensare che Lui potesse avere dei confini da non superare sia un oltraggio stante la sua onnipotenza.

La storia “interiore” di Gesù è spiegata in Filippesi 2.5-11: “Egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che al di sopra di ogni altro, perché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami «Gesù è il Signore!» a gloria di Dio Padre”.

Esaminiamo brevemente le fasi attraverso le quali passò Gesù descritte in questi veri. La prima è descritta in poche parole: era nella condizione di Dio, quindi in Lui e con Lui tanto prima che dopo la creazione. Era tutt’uno con quel Dio divenuto irraggiungibile dopo il peccato dei nostri progenitori perché Santo e quindi assolutamente distante e incompatibile con loro. Eppure, nei tempi da lui decretati, “non ritenne un privilegio essere come Dio, ma svuotò se steso assumendo una condizione di servo, divenendo simile agli uomini”. Si svuotò, scelse di farlo, l’azione del verbo riflessivo non lascia dubbi in proposito. Non era possibile diventare uomo senza rinunciare alla gloria e al posto che aveva quando era nella sua condizione originale e, per diventare creatura, dovette rinunciare ad essere creatore nel senso di essere quella “Parola” mediante la quale tutte le cose sono state create. “Parola” certo lo rimase e lo era, ma per portare agli uomini la “Grazia e la Verità che sono venute per mezzo di Gesù Cristo”. Assunse così “la condizione di servo, diventando simile agli uomini”. Pensiamo: Dio stesso, il Figlio, si fa uomo per servire, come nessun altro avrebbe mai potuto fare, il Padre., perché non c’era nessuno che potesse farlo. Atanasio di Alessandria, vescovo e teologo greco vissuto tra il 200 e il 300, scrisse che “Non volle semplicemente essere in un corpo né volle soltanto apparire in un corpo. Infatti, se avesse voluto semplicemente apparire, avrebbe potuto manifestare la sua divinità per mezzo di un essere più potente” come da sempre avvenuto – aggiungo io – nella mitologia tanto antica quanto moderna (Atanasio, L’incarnazione del verbo, cap.2). Era necessario un corpo di uomo, quella creatura che nonostante i suoi sforzi non riusciva mai ad essere interamente giusto a causa dei peccati che commetteva, accidentali o per semplice ignoranza. Ecco che Gesù si identifica con noi senza però condividere ed effettuando le nostre scelte.

Identico agli uomini per aspetto, Isaia 53.2 ci dice che “Non aveva né forma, né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere”, “umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte, e a una morte di croce”: l’umiliazione di Dio fu possibile unicamente grazie ad un amore smisurato più che dalla Sua onnipotenza: da un lato quello per il Padre visto nell’obbedienza alla legge, al suo “compimento”, e dall’altro quella per l’essere umano. Non fu facile: l’obbedienza fu faticosa e sofferente, che sempre Isaia nello stesso capitolo – per non parlare dei Vangeli quando affrontano il tema dall’arresto alla crocifissione e non solo – scrive “Eppure si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che dà salvezza si è abbattuto su di lui, per le sue piaghe noi siamo stati guariti”.

Gesù quindi, prendendo un corpo come il nostro, provò su di sé la separazione dal Padre cui era unito dall’eternità, la soggezione al tempo che mai aveva avuto, la debolezza sua e di quanti lo circondavano contro la quale non poteva permettersi di perdere a meno di rinunciare a salvare la creatura. Ecco allora spiegato quanto avesse da pregare e ancora di più il perché. Lui, in grado di esaudire le preghiere dei malati, non poteva pregare sé stesso, sarebbe stata una cosa incompatibile, avrebbe generato un cortocircuito e infatti non fece mai un miracolo che lo agevolasse. Fu infatti il Padre a inviargli degli angeli a servirlo e consolarlo dopo i quaranta giorni nel deserto, non Lui a chiamarli.

Capire la condizione di Gesù uomo è basilare non solo perché il suo essere tale è uno dei cardini della fede cristiana, ma piuttosto per avere un quadro del suo essere, di cosa provasse. E L’Antico Testamento, che contiene una quantità immensa di contenuti che trovano la loro rivelazione perfetta nel Nuovo, ci aiuta con due personaggi che si possono sotto certi aspetti collegare a Nostro Signore, cioè Mosè e il sommo sacerdote: il primo avrebbe dovuto condurre il popolo di Israele dall’Egitto alla terra promessa, ma purtroppo in quanto essere umano peccò e al suo posto fu Giosuè a portare a termine la sua opera. Si tratta di un avvenimento su cui occorre soffermarsi: in Numeri 27.12-14 leggiamo “12Il Signore disse a Mosè: «Sali su questo monte degli Abarìm e contempla la terra che io do agli Israeliti. 13Quando l’avrai vista, anche tu sarai riunito ai tuoi padri, come fu riunito Aronne tuo fratello, 14perché vi siete ribellati contro il mio ordine nel deserto di Sin, quando la comunità si ribellò, e non avete manifestato la mia santità agli occhi loro, a proposito di quelle acque». Sono le acque di Merìba di Kades, nel deserto di Sin”.

La lettura del passo di riferimento in Numeri 20.1-13, che narra della ribellione di Mosé, a prima vista passa sotto questo aspetto quasi inosservata; proviamo a leggerla: “1Ora tutta la comunità degli Israeliti arrivò al deserto di Sin il primo mese, e il popolo si fermò a Kades. Qui morì e fu sepolta Maria.2Mancava l’acqua per la comunità: ci fu un assembramento contro Mosè e contro Aronne. 3Il popolo ebbe una lite con Mosè, dicendo: «Magari fossimo morti quando morirono i nostri fratelli davanti al Signore! 4Perché avete condotto l’assemblea del Signore in questo deserto per far morire noi e il nostro bestiame? 5E perché ci avete fatto uscire dall’Egitto per condurci in questo luogo inospitale? Non è un luogo dove si possa seminare, non ci sono fichi, non vigne, non melograni, e non c’è acqua da bere».6Allora Mosè e Aronne si allontanarono dall’assemblea per recarsi all’ingresso della tenda del convegno; si prostrarono con la faccia a terra e la gloria del Signore apparve loro. 7Il Signore parlò a Mosè dicendo: 8«Prendi il bastone; tu e tuo fratello Aronne convocate la comunità e parlate alla roccia sotto i loro occhi, ed essa darà la sua acqua; tu farai uscire per loro l’acqua dalla roccia e darai da bere alla comunità e al loro bestiame». 9Mosè dunque prese il bastone che era davanti al Signore, come il Signore gli aveva ordinato. 10Mosè e Aronne radunarono l’assemblea davanti alla roccia e Mosè disse loro: «Ascoltate, o ribelli: vi faremo noi forse uscire acqua da questa roccia?». 11Mosè alzò la mano, percosse la roccia con il bastone due volte e ne uscì acqua in abbondanza; ne bevvero la comunità e il bestiame.12Ma il Signore disse a Mosè e ad Aronne: «Poiché non avete creduto in me, in modo che manifestassi la mia santità agli occhi degli Israeliti, voi non introdurrete quest’assemblea nella terra che io le do». 13Queste sono le acque di Merìba, dove gli Israeliti litigarono con il Signore e dove egli si dimostrò santo in mezzo a loro”.

Ecco, qui vediamo da un lato che la nostra mente umana non trova elementi per rimproverare qualcosa a Mosè, ma dall’altro che lui aggiunge delle parole che Dio non gli aveva ordinato di pronunciare (il rimprovero agli israeliti) e che usa il bastone percuotendo la roccia per due volte quando gli era stato detto di limitarsi a portarlo con sé. Questo bastò perché il Signore intervenisse prima con parole di rimprovero e poi con un intervento di esclusione. Al di là di tutte le applicazioni possibili su questi passi, per la natura di questo studio l’unica riflessione che mi sento di fare è che nessun uomo può essere un conduttore perfetto verso Dio, così come nessun uomo può essere un mediatore adeguato tra il suo simile e Lui. Mosè era stato scelto da YHWH, è considerato il legislatore nella storia del popolo eletto e già allora, velatamente, era possibile prendere atto di come che la Legge non aveva il potere di redimere, ma solo quello di dare il senso della enorme distanza che intercorreva tra Dio e gli uomini, una Legge che sappiamo fu definita dall’apostolo Paolo “Ombra dei futuri beni, non la forma reale stessa delle cose” (Ebrei 10.1). A Mosè non fu consentito di portare il popolo nella terra promessa, ma fu anche l’uomo che ebbe l’onore di essere sepolto da Dio stesso sul monte Nebo dopo avere visto il territorio in cui Israele sarebbe entrato. Elia ed Enoch furono da Lui rapiti in cielo, Mosé fu da lui sepolto. Noto adesso come, del tutto involontariamente, io continui a porre sempre due casi, due esempi, due che nella Bibbia è sia numero di contrapposizione che di collaborazione al tempo stesso.

C’è poi la figura del sommo sacerdote, che aveva una funzione del tutto particolare che gli altri, i semplici sacerdoti, non avevano. Era l’unico abilitato a entrare nel “Santo dei Santi”, la camera più interna del Tempio di Gerusalemme e poteva farlo una volta all’anno nella festa dello Yom Kippur, il giorno dell’espiazione, in cui offriva un sacrificio di espiazione per i peccati di tutto il popolo. Eppure anche lui aveva un limite: era un uomo come gli altri, come i suoi simili peccava, non poteva avere la dimensione del compatimento per le debolezze altrui perché preso a pensare alle proprie, era in una parola imperfetto nonostante l’assenza di difetti fisici che lo avrebbero reso incompatibile con la sua funzione. Ecco perché in Ebrei 4.14-16 sono spiegate le differenze tra il sommo sacerdote secondo la carne e Gesù stesso: “Dunque, poiché abbiamo un sommo sacerdote grande che è passato attraverso i cieli – con la sua ascensione – Gesù il Figlio di Dio, manteniamo ferma la nostra professione di fede. Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato. Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno”.

Ma l’apostolo Paolo, probabile autore di questa lettera, fariseo autorevole formatosi alla scuola rabbinica più autorevole del tempo, non si ferma qui, ma spiega l’umanità di Gesù mettendola in relazione all’espiazione dei peccati: “…perciò doveva rendersi in tutto simile ai fratelli per diventare un sommo sacerdote misericordioso e degno di fede nelle cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo. Infatti, proprio per essere stato messo alla prova e avere sofferto personalmente, egli è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova” (Ebrei 2.17-18). Se il sommo sacerdote dell’antico patto offriva sacrifici anche per se stesso, Gesù offrì se stesso come sacrificio nonostante la sua perfezione. Se e quando il credente soffre per le prove che la vita inevitabilmente gli riserva, sa che prima di lui Gesù ha sofferto e non lo ha dimenticato. “È in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova”.

E per rendere ancora più chiara la funzione di Nostro Signore sotto questo aspetto, Paolo attinge ancora dalla memoria dell’Antico Patto specificando che “Cristo è venuto come sommo sacerdote dei beni futuri, attraverso una tenda più grande e più perfetta – che va oltre quindi al luogo santissimo – non costruita da mano d’uomo, cioè non appartenente a questa creazione. Egli entrò una volta per sempre nel santuario non mediante il sangue di capri e di vitelli, ma in virtù del proprio sangue, ottenendo così una redenzione eterna” (Ebrei 9.11,12).

Ecco, con questi versi che abbiamo citato ed esaminato brevemente, abbiamo un’idea dei motivi per cui Gesù pregasse, essendo necessaria una costante, continua comunione col Padre dal quale si era separato per poter condurre a termine la missione che aveva scelto di intraprendere. Solo attraverso la preghiera, con la quale confessava il bisogno che aveva dell’assistenza del Padre, poteva essere in grado di affrontare il compimento della Legge che gli era richiesto. “Non sono venuto per abolire la legge, ma per adempierla”. Lui, come Parola ab eterno, non ne aveva nessun bisogno, noi sì. Amen.

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3.05 – IL LEBBROSO GUARITO (Matteo 8.1-4 e riferimenti)

3.05 – Il lebbroso guarito (Matteo 8.1-4, Marco 1.40-45, Luca 5.12-15)

 

Dalla chiamata di Simone, Andrea, Giacomo e Giovanni, per un certo tempo, stabilire una cronologia di avvenimenti diventa praticamente impossibile ed è probabile che i sinottici mettano i miracoli che Gesù fece in Galilea senza preoccuparsi di indicarne la reale successione stante il fatto che i loro Vangeli sono un libro di testimonianza e non si preoccupano della successione temporale. Se gli Autori avessero dovuto e/o voluto scrivere un trattato storico, si sarebbero comportati diversamente ma, stante il profondo significato che rivestono i miracoli, ce ne presentano alcuni fra quelli compiuti in Galilea. In particolare la guarigione del lebbroso, il primo a venire narrato da Marco e Luca dopo la chiamata dei quattro, avvenne forse dopo il sermone di Gesù detto “della montagna”, stante la precisione con la quale Matteo lo colloca. Leggiamo infatti al suo capitolo ottavo:

1 Scese dal monte e molta folla lo seguì. 2Ed ecco, si avvicinò un lebbroso, si prostrò davanti a lui e disse: «Signore, se vuoi, puoi purificarmi». 3Tese la mano e lo toccò dicendo: «Lo voglio: sii purificato!». E subito la sua lebbra fu guarita. 4Poi Gesù gli disse: «Guàrdati bene dal dirlo a qualcuno; va’ invece a mostrarti al sacerdote e presenta l’offerta prescritta da Mosè come testimonianza per loro»” (Matteo 8.1-4)”.

Leggiamo Marco, che fornisce qualche particolare in più, con Luca che concorda interamente con lui:

“40Venne da lui un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi purificarmi!». 41Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, sii purificato!». 42E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato. 43E, ammonendolo severamente, lo cacciò via subito 44e gli disse: «Guarda di non dire niente a nessuno; va’, invece, a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto, come testimonianza per loro». 45Ma quello si allontanò e si mise a proclamare e a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti; e venivano a lui da ogni parte”. “ (1.40-45)

Prima di analizzare l’episodio, occorre dare delle indicazioni sulla lebbra, malattia terribile che, nella Bibbia, non indica necessariamente quella oggi conosciuta dalla medicina, ma anche altre irritazioni patologiche infettive della pelle. Alcune traduzioni antiche infatti la chiamano vitiligine (che però non è infettiva e non corrisponde alle caratteristiche riportate nel levitico), Tacito ne parla come “consunzione che contamina i corpi”, altri la paragonano alla tigna. In realtà, nei testi riguardo alla lebbra, è fuor di dubbio che la si citi nelle sue due forme, a macchie o a noduli. C’è anche, come abbiamo fatto per la febbre, da stabilire un preciso distinguo sul significato che aveva per Israele e per gli altri popoli perché, come abbiamo ricordato in un altro episodio, se la malattia per i pagani altro non era che la conseguenza del peccato in Adamo, quindi facente parte degli eventi che rientravano nella esclusione da Eden in cui non esisteva, per Israele era un evento che avrebbe potuto essere evitato con l’osservanza della Legge e dei suoi comandamenti secondo il capitolo 28 del Deuteronomio.

La lebbra così come è stata e viene studiata, quella che flagellò l’Europa medievale, si distingue in tubercoloide o lepromatosa: nel primo caso si presenta con alcune macule o placche ipopigmentate o eritematose, a volte con lesioni papulose raggruppate. Alcune possono diventare ipoanestetiche. La terminazione nervosa appare edematosa e ispessita, con possibile danno neurologico attorno ad esse. La seconda è invece molto più invalidante: dal naso chiuso con epistassi si passa a macchie ipocromiche seguite da lesioni di ogni tipo sui tessuti molli: pustole, noduli, placche, la pelle del volto si ispessisce con lesioni che poi portano alla deformazione o distruzione della cartilagine, del setto e delle ossa nasali. Si modificano le ossa, la pelle delle gambe si ispessisce e viene interessata da ulcere che causano deformazioni, infezioni, necrosi e non di rado si rendono necessarie le amputazioni delle estremità.

Vediamo come è descritta nell’Antico Testamento. Il capitolo 13 del libro del Levitico dà istruzioni minuziose al sacerdote per distinguerla ed in Deuteronomio 24.8, per evitare contagi, leggiamo “In caso di lebbra, bada bene ad osservare diligentemente e fare quanto i sacerdoti leviti vi insegneranno”: spettava infatti solo al sacerdote fare la diagnosi e dichiarare il lebbroso guarito o meno.

Il lebbroso perdeva qualunque tipo di ruolo e di contatto con la società, come fu nel caso del re Ozia, detto anche Azaria, punito con quella malattia perché voleva offrire l’incenso sull’altare al posto dei sacerdoti consacrati a quel compito: “18Questi si opposero al re Ozia, dicendogli: «Non tocca a te, Ozia, offrire l’incenso al Signore, ma ai sacerdoti figli di Aronne, che sono stati consacrati per offrire l’incenso. Esci dal santuario, perché hai prevaricato. Non hai diritto alla gloria che viene dal Signore Dio». 19Ozia, che teneva in mano il braciere per offrire l’incenso, si adirò. Mentre sfogava la sua collera contro i sacerdoti, gli spuntò la lebbra sulla fronte davanti ai sacerdoti nel tempio del Signore, presso l’altare dell’incenso. 20Azaria, sommo sacerdote, e tutti i sacerdoti si voltarono verso di lui, che apparve con la lebbra sulla fronte. Lo fecero uscire in fretta di là; anch’egli si precipitò per uscire, poiché il Signore l’aveva colpito. 21Il re Ozia rimase lebbroso fino al giorno della sua morte. Egli abitò in una casa d’isolamento, come lebbroso, escluso dal tempio del Signore. Suo figlio Iotam era a capo della reggia e governava il popolo della terra.22Le altre gesta di Ozia, dalle prime alle ultime, le ha descritte il profeta Isaia, figlio di Amoz. 23Ozia si addormentò con i suoi padri e lo seppellirono con i suoi padri nel campo presso le tombe dei re, perché si diceva: «È un lebbroso»” (2 Cronache 26.18-23).

Il caso di Azaria è anche raccontato così: “2Quando divenne re aveva sedici anni; regnò a Gerusalemme cinquantadue anni. Sua madre era di Gerusalemme e si chiamava Iecolia. 3Egli fece ciò che è retto agli occhi del Signore, come aveva fatto Amasia, suo padre. 4Ma non scomparvero le alture. Il popolo ancora sacrificava e offriva incenso sulle alture. 5Il Signore colpì il re, che divenne lebbroso fino al giorno della sua morte e abitò in una casa d’isolamento” (2 Re 15.2-5).

Lo stato psicologico dei lebbrosi è descritto in 2 Re 7.3-4, erano persone che non avevano nulla da perdere perché nulla possedevano, neppure la loro vita: “3Ora c’erano quattro lebbrosi sulla soglia della porta. Essi dicevano fra di loro: «Perché stiamo seduti qui ad aspettare la morte? 4Se decidiamo di andare in città, in città c’è la carestia e vi moriremo. Se stiamo qui, moriremo. Ora, su, passiamo all’accampamento degli Aramei: se ci lasceranno in vita, vivremo; se ci faranno morire, moriremo».

Possiamo anche ricordare in opposizione il generale siriano Naaman, lebbroso, che guarì dalla malattia dopo essersi bagnato sette volte nel giordano dietro ordine di Eliseo (2 Re 5.1-14).

Ai tempi di Gesù molti erano i lebbrosi e quando ciò capitava, ricordando la malattia che aveva colpito Maria, sorella di Mosé che lo aveva criticato, dicevano “Il dito di Dio ha colpito ancora”. Allo stesso modo la guarigione di un lebbroso era attribuita ad un intervento benevolo di Dio, ricordando proprio Naaman, oppure l’episodio di Mosé nel suo colloquio con YHWH, per quanto con significato diverso: “6Il Signore gli disse ancora: «Introduci la mano nel seno!». Egli si mise in seno la mano e poi la ritirò: ecco, la sua mano era diventata lebbrosa, bianca come la neve. 7Egli disse: «Rimetti la mano nel seno!». Rimise in seno la mano e la tirò fuori: ecco, era tornata come il resto della sua carne” (Esodo 4.6,7).

I lebbrosi vivevano lontani dal popolo, non potevano avere contatti con nessuno e sopravvivevano con cibo che persone caritatevoli lasciavano loro nei pressi delle loro dimore. Erano vestiti con un sacco o stracci, erano a volte dotati di un campanello che facevano suonare agitandolo o facendo rumore con altri oggetti e dovevano gridare, nel caso si avvicinassero altre persone, “L’immondo! L’immondo!”. Quando lungo il cammino incrociavano una o più persone, dovevano cedere loro il passo, velarsi le labbra e porsi sempre controvento senza mai parlare di fronte a una persona sana. La vita dei lebbrosi era di stenti anche morali, perdendo i loro affetti più cari, di emarginazione e sofferenze: non c’erano cure né gli antibiotici che hanno reso oggi la malattia curabile.

Ora, in questa città o villaggio innominato, un lebbroso arriva, la folla gli fa largo con un sentimento misto a repulsione e curiosità di vedere quale atteggiamento avrebbe tenuto il Maestro, che si trova di fronte a lui quest’uomo che gli si inginocchia davanti, poi gli si stende a terra davanti a lui (“si prostrò”) in segno di sottomissione e adorazione talché alcune traduzioni riportano “lo adorò” riassumendo i due atteggiamenti che assunse. Quel lebbroso non gli chiede di guarirlo come faranno altri supplicandolo, ma gli dice “Signore se tu vuoi, puoi guarirmi”, cioè si rimette alla sua volontà e soprattutto alla sua conoscenza dell’uomo perché un conto è chiedere di essere guariti anteponendo la propria persona, altro è rivolgersi lasciando libero chi può guarire dal farlo o meno. Quel “Signore” col quale si rivolge a Gesù denota la fede che aveva: non sapeva chi fosse, cioè non lo adora come Figlio di Dio come faranno i cristiani in seguito, ma sa che in Lui c’è la Sua potenza. È questo un passo molto delicato e importante, perché sono convinto che in quel “se vuoi” sia compreso il sapere, da parte di quell’uomo, che solo Gesù avrebbe potuto capirlo e valutare se meritasse o no la guarigione alla luce della fede che poneva in lui, che al pari di molti aveva sentito parlare dei miracoli e degli insegnamenti fatti nella regione.

Due quindi erano le convinzioni di quel lebbroso: la prima era che lui fosse qualcuno superiore a tutti, la seconda che avrebbe potuto guarirlo se solo avesse voluto, concetto che altri nel corso della narrazione evangelica esporranno dimostrando umiltà e fede. L’atteggiamento esterno del lebbroso fu assolutamente corrispondente a quello interno, perché altrimenti non sarebbe stato esaudito: non era Gesù ad avere bisogno di quel miracolo, ma quell’uomo che, con quella frase, non solo si pone in secondo piano rispetto a Lui, ma gli rimette ogni decisione conscio di una valutazione divina sull’operare o meno: “Se tu vuoi, puoi”, in altri termini “Io sono nulla per poterti suggerire come operare”. Possiamo dire che quelle parole fossero un modo, da parte del lebbroso, di riconoscersi peccatore. Quelli come lui, inoltre, erano soliti chiedere l’elemosina agli altri, cosa che nel nostro caso non avviene.

Abbiamo letto il risultato di quella preghiera così singolare: il lebbroso guarì, Gesù gli disse “Lo voglio, sii guarito” e tese la mano verso di lui e lo toccò, cosa permessa solo al sacerdote. Chiunque toccava un lebbroso diventava automaticamente impuro, ma Gesù aveva già dimostrato, e lo avrebbe fatto ancora, che “chiunque” proprio non era: se chi, deputato a decretare tanto la presenza della lebbra quanto la sua guarigione non si contaminava, a maggior ragione non poteva infettarsi Colui che la malattia era in grado di guarire. E questo implicava il perdono, la liberazione dal peccato che l’aveva provocata.

Gesù, a guarigione avvenuta, lo ammonisce di non dir niente a nessuno: perché? Non spettava agli uomini comuni ammettere che era avvenuta la guarigione, ma al sacerdote, che gli rilasciava un attestato grazie al quale l’ex lebbroso ricuperava la propria libertà sociale e i diritti che aveva perso. Chi vuole approfondire, può leggere il capitolo 14 del Levitico, che illustra nei dettagli i passi che venivano effettuati dal sacerdote e dal lebbroso per recuperare la propria dignità sociale.

Il sacerdote di quella cittadina in cui si era verificato il miracolo, non solo avrebbe attestato la guarigione di quella persona, ma avrebbe dovuto ammettere che questa era stata procurata da Gesù in persona e, per quel tipo di malattia, era cosa non certo da poco visto che una delle caratteristiche del Messia promesso sarebbe stata quella di guarire i lebbrosi.

Abbiamo già citato Giovanni Battista in prigione che, anche provato dai mesi di prigionia nella fortezza di Erode, gli mandò a chiedere se era Gesù quello che doveva venire oppure dovevano aspettarne un altro: la Sua risposta fu “Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, è annunciato il Vangelo” (Matteo 11.2.5).

L’ammonizione di Gesù a quel lebbroso, che secondo Marco fu particolarmente severa, è probabile che poggiasse le sue ragioni sul fatto che il beneficiario di quell’intervento avesse un carattere particolarmente impulsivo – espansivo: infatti non fece come gli era stato comandato, ma divulgò il fatto a tutti e poi andò dal sacerdote. Il risultato fu un colossale fraintendimento da parte del popolo, che lo prese come guaritore formidabile, cioè risolutore di problemi umanamente invalidanti, senza guardare al reale scopo della Sua presenza in mezzo a loro: portare una dottrina utile allo spirito, in poche parole la “buona notizia” dell’amore di Dio finalmente dato e dichiarato agli uomini, al suo popolo. Leggiamo che Gesù non poteva più entrare in nessuna città, che era costretto a stare in luoghi deserti, ma che anche lì era raggiunto da gente che veniva da ogni parte. Ne approfitterà per insegnare nel suo “sermone sul monte” che esamineremo al termine di questa rassegna di miracoli.

Luca, che fino ad ora non abbiamo mai citato, descrive Gesù con queste parole: “Di lui si parlava sempre di più, e folle numerose venivano per ascoltarlo e farsi guarire dalle loro malattie. Ma Egli si ritirava in luoghi deserti a pregare” (Luca 5.15,16).

Concludo queste riflessioni con una domanda importante alla quale ho cercato di dare una risposta: se è chiaro e vero che Israele – e solo lui – aveva nelle malattie e nelle infermità una prova della riprensione di Dio nei cuoi confronti, come deve interpretare il credente – e solo lui – quanto gli avviene ogni giorno, poiché è scritto che i capelli del suo capo sono tutti contati? Credo che, se sia azzardato sostenere nel nostro caso che la malattia sia il castigo per una disubbidienza, sia anche vero che solo il diretto interessato, che conosce la propria storia e il proprio eventuale peccato, sia in grado di dare una risposta a questa domanda perché generalizzare come purtroppo molti fanno sia un’azione che porti alla superstizione e alla (purtroppo giusta e inevitabile) derisione da parte di quanti non credono. Per noi una malattia può essere un modo che ha il Signore di provare la nostra fede, il nostro comportamento nell’avversità, può essere anche un modo per affinare la nostra sensibilità per farci progredire e imparare perché non può esistere maturazione senza dolore: ricordando le parole di Paolo in Romani 5.3-5 “…ci vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, 4la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. 5La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato”.

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3.04 – PESCATORI DI UOMINI (Luca 5.1-11)

3.04 – Pescatori di uomini (Luca 5.1-11 con riferimenti a Matteo 4.18-22 e Marco 1.16-20)

L’episodio della chiamata dei quattro, Simone e Andrea con Giacomo e Giovanni è riportato dai tre sinottici ed è fondamentale considerarli nella loro unitarietà perché a prima vista, leggendo Matteo e Marco, si può essere indotti a pensare che questa sia avvenuta all’inizio del ministero di Gesù, dopo il suo battesimo e la tentazione nel deserto. La versione di Matteo, più essenziale, dice: “18Mentre camminava lungo il mare di Galilea, vide due fratelli, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello, che gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. 19E disse loro: «Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini». 20Ed essi subito lasciarono le reti e lo seguirono. 21Andando oltre, vide altri due fratelli, Giacomo, figlio di Zebedeo, e Giovanni suo fratello, che nella barca, insieme a Zebedeo loro padre, riparavano le loro reti, e li chiamò. 22Ed essi subito lasciarono la barca e il loro padre e lo seguirono” (Matteo 4.18-22).

            Marco, dalla narrazione molto simile, aggiunge che “lasciarono il loro padre Zebedeo nella barca con i garzoni e andarono dietro a lui” (1.2’), ma Luca, accurato redattore sulla base delle testimonianze che riuscì a raccogliere, colloca con precisione l’episodio ponendolo al termine di un percorso che Gesù compì da solo, dopo aver lasciato che i quattro tornassero al loro mestiere. Leggiamo infatti: “Egli però disse loro «È necessario che io annunci la buona notizia del regno di Dio anche nelle altre città; per questo sono stato mandato. E andava predicando nelle sinagoghe della Galilea” (vv.43, 44). C’è chi ha calcolato che questo sia stato un itinerario di predicazione durato dai tre ai quattro mesi, dopo di che ci fu il ritorno a verso Capernaum, che toccò Bethsaida, che tradotto significa “Casa del pescatore” o le sue immediate vicinanze. Qui comincia il quinto capitolo di Luca.

 

1Mentre la folla gli faceva ressa attorno per ascoltare la parola di Dio, Gesù, stando presso il lago di Gennèsaret, 2vide due barche accostate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti. 3Salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra. Sedette e insegnava alle folle dalla barca. 4Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: «Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca». 5Simone rispose: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti». 6Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano. 7Allora fecero cenno ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare. 8Al vedere questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: «Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore». 9Lo stupore infatti aveva invaso lui e tutti quelli che erano con lui, per la pesca che avevano fatto; 10così pure Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, che erano soci di Simone. Gesù disse a Simone: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini». 11E, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono.”

 

            Ricordiamo che l’itinerario scelto da Gesù per la sua predicazione, come abbiamo già visto nel suo passare per la Samaria, fu sempre compiuto per motivi di ordine spirituale, che non fece mai nulla a caso e che quindi il passare lungo le rive del lago avesse come scopo proprio quello di chiamare i primi quattro discepoli a seguirlo. Veniamo al contesto umano descritto da Luca: Gesù era ormai conosciuto e riconosciuto da molti che lo attorniarono per ascoltarlo. Per quelle persone comportarsi in quel modo non era inusuale essendo costume dei rabbini del tempo insegnare nei luoghi più disparati e chiunque poteva fermarsi ad ascoltarli, quando non erano nelle loro scuole. Le acque del lago di Galilea erano evidentemente molto calme e la scelta di scostarsi un poco da terra fu la soluzione per poter parlare alla gente che avrebbe potuto ascoltarlo meglio.

Anche qui non abbiamo il contenuto del discorso che Gesù fece alla folla, ma lo troveremo in parte nella sua “summa” riportata nel discorso detto “della montagna”: ciò che preme a Luca non è qui riportare gli insegnamenti del Maestro, ma descrivere come e perché Simone, Andrea, Giacomo e Giovanni, che fino ad allora lo avevano seguito nei suoi spostamenti occasionalmente, scelsero di lasciare tutto per far parte dei discepoli, che poi chiamerà “apostoli”, cioè “inviati, rappresentanti”, a tempo pieno. Tra loro esisteva già familiarità, i quattro sapevano chi era Gesù, erano già stati resi edotti su chi Lui fosse prima da Giovanni Battista prima poi e da Lui stesso; avevano visto dei miracoli come la liberazione dell’indemoniato nella sinagoga e la guarigione della suocera di Simone dalla febbre, lo avevano ascoltato – non sappiamo se tutti – nei due giorni passati coi samaritani e ora erano lì, non più a lavare le reti, ma a sentire i suoi insegnamenti con gli altri. Questo ci conferma che fosse mattino presto: i pescatori lavoravano di notte a motivo delle reti che usavano: erano spesse, del tipo a tramaglio cioè costituite da tre reti distinte che, se fossero state usate di giorno, sarebbero state viste dai pesci che le avrebbero potute evitare. Erano reti di corda, pesanti, adatte al fondale roccioso della zona, che andavano poi lavate una volta rientrati pena il loro marcire. E il lavoro dei pescatori era particolarmente duro perché non disponevano di attrezzi meccanici a motore, né di cerate a proteggerli dall’acqua come oggi. E le reti non erano di nylon.

Finito di parlare alle folle, le prime parole furono per Pietro: “Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca”, una richiesta quanto meno curiosa. Simone aveva lavorato tutta la notte, lui e i suoi erano stremati e la risposta “sulla tua parola getterò le reti”, rivela la deferenza e il riguardo verso il suo futuro Maestro più che pensare a una buona riuscita della pesca, che la sua esperienza di esperto pescatore dava per impossibile. Da notare che Simone sapeva che, una volta gettate, quelle reti avrebbero dovuto essere lavate di nuovo con un conseguente, ulteriore dispendio di energie. Pietro sapeva che doveva esservi un motivo per quella richiesta, ma lo ignorava: agì “sulla tua parola”, cioè gli ubbidì senza addurre motivi di stanchezza dovuta alla fatica notturna e alla frustrazione dell’insuccesso che comunque gli fece presente. Oltretutto, era giorno e i pesci quelle reti le avrebbero sicuramente evitate. Simone, obbedendo alle parole di Gesù, fa qualcosa di umanamente e professionalmente irrazionale che può essere spiegato solo col termine con cui gli si rivolge, “Maestro” che, traducibile dal greco Epìstrata anche come “Guida”, “Uno che ha autorità sopra un altro”, che rivela i sentimenti che nutriva nei Suoi confronti. Se poi Pietro era stato presente alle nozze di Cana – nulla ci vieta di ipotizzarlo – implica sicuramente che si ricordasse di quell’ordine “riempite di acqua i recipienti fino all’orlo” apparentemente senza senso al pari di quella richiesta di gettare in acqua le reti. Pietro quindi, obbedendo senza discutere, compie un atto di fede: “Gettate le vostre reti per pescare”.

Fu allora che si rivelò non la conoscenza umana, ma quella di Dio: arrivò un banco di pesci, di quelli di cui hanno parlato scrittori più o meno antichi, tutti concordi nel descrivere il lago di Galilea come estremamente pescoso. Non solo ne parla Giuseppe Flavio, ma anche Henry Baker Tristram, storico naturale e viaggiatore vissuto nel 1800, che scrisse che quel lago era talmente ricco di pesce da avere dei banchi che a volte occupavano una superficie di circa 2,5 kmq. Difficile pensare che Simone e i suoi non lo sapessero; solo che i loro tentativi umani di quella notte non avevano prodotto alcun risultato, mentre bastò obbedire alla voce di Gesù per avere un esito ben oltre le loro aspettative. Questo fu il primo, diretto significato di quel miracolo. Il pesce era lì, c’era già, non fu creato sul momento apposta per loro, ma quei pescatori non potevano saperlo. Questo ci parla della quantità enorme delle cose che spesso non vediamo e continueremmo a non vedere se non ci affidassimo alle parole di Cristo e agli insegnamenti spirituali che abbiamo davanti. Non troviamo scritto che la pesca fu fruttuosa, ma che addirittura si trovarono in difficoltà a gestirla: “Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano. Allora fecero cenni ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare” (vv.6,7).

Possiamo immaginare lo stupore e la meraviglia di Simone e degli altri, che erano professionisti, mentre cercavano di far fronte come potevano a tutta quell’abbondanza e questo portò Pietro a concludere che quanto avvenuto sarebbe stato impossibile senza che Gesù sapesse che avrebbero pescato così tanto. Non gli rimase che ammettere la propria condizione: “Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore”. Conscio della sua inadeguatezza, il futuro apostolo ha una reazione che abbiamo già trovato negli scritti dell’Antico Patto che, dopo la creazione, praticamente si apre con l’incompatibilità dell’uomo con Dio una volta trasgredito il Suo unico comandamento. Adamo ed Eva infatti persero la loro innocenza e avrebbero trasmesso questa loro condizione a tutti quelli che avrebbero generato e così via in una catena. Ricordiamo Mosè, che quando Dio si presentò a lui è scritto che “…si coprì il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio” (Esodo 3.6), e Isaia stesso, i cui scritti sono fondamentali per individuare in Gesù il Messia promesso, che descrisse la sua reazione di fronte alla visione del Signore seduto sul trono e di tutta la Corte celeste: “E dissi «Ohimè, io sono perduto, perché sono un uomo dalle labbra impure e abito in mezzo a un popolo dalle labbra impure, eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti” (1.5).

            Pietro era cosciente della propria condizione, di quanto fosse distante e piccolo di fronte alla santità di Gesù. “Signore – non più “Maestro” – allontanati da me – conscio della sua condizione di fronte a lui, ne ha paura e si sente profondamente inadeguato – perché sono un peccatore – quindi non degno della tua presenza”. Simone temeva che, in quanto peccatore, la sua stessa vicinanza al Signore avrebbe potuto offenderlo, era conscio dei mondi, delle dimensioni che li separavano. Simone non alludeva a un peccato specifico commesso, ma alla sua intera natura fatta di peccato cioè di imperfezione, lontananza da Dio e incompatibilità con Lui a meno di una grazia, di un “favore immeritato”, di un’accettazione da parte Sua di cui dubitava fortemente. Certo aveva vissuto con Gesù dei momenti intensi, aveva visto dei miracoli, ma non si era mai forse posto il problema del perché di quelli, più attratto da quegli eventi e dalle reazioni dei beneficiati e dei testimoni, ma su quella barca le cose erano diverse: per la prima volta toccava con mano la realtà in un campo che conosceva benissimo, il suo mestiere. Capì senza saperlo, in una condizione di profondo turbamento emotivo, quello che Gesù dirà apertamente più avanti, “Senza di me non potete far nulla”. Simone e quelli che erano con lui leggiamo che non gioirono per il risultato di quella pesca come se fosse una vincita al lotto o similari, ma ne furono spaventati, capendo che quanto stava avvenendo non rientrava nell’ambito di fatti che, pur eccezionali, potevano sempre accadere in quel lago: era qualcosa di incomprensibile avvenuto dietro l’ottemperanza ad un semplice ordine ricevuto. Ma in Salmo 8.7-10 leggiamo “Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto ai suoi piedi: tutte le greggi e gli armenti e anche le bestie della campagna, gli uccelli del cielo e i pesci del mare, ogni essere che percorre le vie dei mari. O Signore, Signore nostro, quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra!”.

È molto importante a questo punto precisare una differenza che si riscontra nei sinottici: in Luca Gesù dice a Pietro, spaventato, “Non temere, d’ora innanzi sarai pescatore di uomini”, ma Matteo e Marco scrivono “Seguitemi, e vi farò pescatori di uomini”. Perché? La frase di Luca fu detta a Simone quando erano sulla barca alla presenza, oltre che del futuro apostolo, di Andrea suo fratello e di altri perché su quei mezzi l’equipaggio era solitamente composto da quattro persone. Luca ci riporta quindi una chiamata individuale. “Non temere” sappiamo essere un’esortazione che nella Bibbia compare 365 volte: ogni giorno porta la sua pena, ogni volta abbiamo questa esortazione. Col diventare “pescatore di uomini” poi viene prospettato a Simone il suo futuro che si sarebbe realizzato attraverso la predicazione e il governo della Chiesa in Gerusalemme e poi in Roma, anche se da qui a vederlo come Papa o “Vicario di Cristo in terra” ce ne corre.

Restavano Andrea, Giacomo e Giovanni che non potevano certo essere esclusi dall’invito a seguirlo, che si verificherà una volta arrivati a riva. Con quella chiamata esplicita, Gesù li pose di fronte a una scelta tra l’approfittare del guadagno che avrebbe rappresentato tutto quel pesce o il rinunciarvi per una vita diversa, cosa che avvenne consapevolmente e senza dubbi: “Tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono” (Luca), mentre per Giovanni e Giacomo “soci di Simone” è detto che “Subito lasciarono la barca e il loro padre, e lo seguirono”. Non lasciarono quindi Zebedeo in difficoltà, perché aveva dei dipendenti e avrebbe rimpiazzato i figli con altri, cioè il loro non fu un abbandono irresponsabile.

Si può allora concludere l’episodio con due considerazioni che, per la personale esperienza avuta nella Chiesa, mi sento di fare: la prima è che i quattro accettarono di seguire Gesù e che Lui stesso rivolse a loro l’elezione dopo che ciascuno di essi aveva compiuto un percorso individuale e profondo. Egli dette loro il tempo per vedere, ascoltare, lasciare che sedimentassero i facili entusiasmi, analizzare i sentimenti che provavano e soprattutto, riflettere. Non li assillò, non li costrinse, non fece su di loro alcun lavoro di “marketing psicologico” attivo o passivo perché la scelta di seguire Cristo non può essere condizionata da facili impulsi sopravvalutando le proprie forze, ma da un confronto tra quello che può essere la vita con Lui o senza, tra l’andare avanti a pescare conoscendo i successi e gli insuccessi del mestiere, il condurre una vita benestante destinata un giorno a conoscere il suo termine, o diventare dei “pescatori di uomini”.

Seconda considerazione: cosa vuol dire oggi per il cristiano essere “pescatore di uomini”? In molte Chiese si pensa che sia la predicazione all’esterno il dovere di ogni credente, ma così facendo si rischia di fare dei proseliti, mentre credo che siamo chiamati a “pescare noi stessi” per primi, pur avendo già creduto ed essendo stati già salvati. Non si diventa pescatori senza un lungo tirocinio, senza acquisire conoscenza e soprattutto esperienza. Non esiste persona uguale all’altra, ciascuna ha attitudini precise e soprattutto funzioni diverse, come illustrato dal paragone col corpo e le sue membra: “Come infatti il corpo, pur essendo uno, ha molte membra e tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche Cristo. E in realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti ci siamo abbeverati a un solo Spirito. Ora il corpo non risulta di un membro solo, ma di molte membra. Se il piede dicesse: «Poiché io non sono mano, non appartengo al corpo», non per questo non farebbe più parte del corpo. E se l’orecchio dicesse: «Poiché io non sono occhio, non appartengo al corpo», non per questo non farebbe più parte del corpo. Se il corpo fosse tutto occhio, dove sarebbe l’udito? Se fosse tutto udito, dove l’odorato? Ora, invece, Dio ha disposto le membra in modo distinto nel corpo, come egli ha voluto. Se poi tutto fosse un membro solo, dove sarebbe il corpo? Invece molte sono le membra, ma uno solo è il corpo. Non può l’occhio dire alla mano: «Non ho bisogno di te»; né la testa ai piedi: «Non ho bisogno di voi». Anzi quelle membra del corpo che sembrano più deboli sono più necessarie; e quelle parti del corpo che riteniamo meno onorevoli le circondiamo di maggior rispetto, e quelle indecorose sono trattate con maggior decenza, mentre quelle decenti non ne hanno bisogno. Ma Dio ha composto il corpo, conferendo maggior onore a ciò che ne mancava, perché non vi fosse disunione nel corpo, ma anzi le varie membra avessero cura le une delle altre. Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui. Ora voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte”. (1 Corinzi 12.12-27)

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3.03 – LA SUOCERA DI PIETRO E I MALATI (Luca 4.38-44)

3.03 – La suocera di Pietro e i malati (Luca 4.38-44)

 

38Uscito dalla sinagoga, entrò nella casa di Simone. La suocera di Simone era in preda a una grande febbre e lo pregarono per lei. 39Si chinò su di lei, comandò alla febbre e la febbre la lasciò. E subito si alzò in piedi e li serviva.40Al calar del sole, tutti quelli che avevano infermi affetti da varie malattie li condussero a lui. Ed egli, imponendo su ciascuno le mani, li guariva. 41Da molti uscivano anche demòni, gridando: «Tu sei il Figlio di Dio!». Ma egli li minacciava e non li lasciava parlare, perché sapevano che era lui il Cristo.42Sul far del giorno uscì e si recò in un luogo deserto. Ma le folle lo cercavano, lo raggiunsero e tentarono di trattenerlo perché non se ne andasse via. 43Egli però disse loro: «È necessario che io annunci la buona notizia del regno di Dio anche alle altre città; per questo sono stato mandato». 44E andava predicando nelle sinagoghe della Giudea”.

Nulla sappiamo, come in numerosi casi di guarigione, dell’uomo liberato dallo spirito impuro che abbiamo visto nella scorsa riflessione se non che era stato messo nella condizione di ricominciare tutto da capo dopo un’attenta revisione del suo comportamento. Ora Luca e non solo, nell’episodio precedente, avendoci informato che tutto avvenne di sabato, ci consente di sapere che la casa di Pietro e Andrea era nei pressi della Sinagoga, poiché in quel giorno non potevano essere percorsi più di 890 metri, distanza stabilita dai rabbini studiando il passo di Giosuè 3.4 in cui si parla dello spazio che doveva intercorrere tra l’Arca dell’Alleanza, portata dai sacerdoti e dai leviti, e il resto del popolo. Anche il primo verso del nostro testo, “Uscito dalla sinagoga, entrò nella casa di Simone”, lascia pensare ad un’azione quasi immediata.

Marco riferisce che “Usciti dalla sinagoga vennero, con Giacomo e Giovanni, in casa di Simone e Andrea. Ora la suocera di Simone giaceva in letto, con la febbre, ed essi subito gliene parlarono” (1.30). È quindi probabile che quella casa fosse di proprietà di entrambi i fratelli, poiché erano benestanti stante il guadagno ottenuto dalla loro professione di pescatori. Il lago di Galilea infatti non era povero di fauna ittica e i guadagni erano consistenti (pensiamo a Zebedeo, padre di Giacomo e Giovanni, che aveva una flotta di barche e dei dipendenti al suo servizio).

Della febbre abbiamo già parlato in occasione della guarigione del figlio del funzionario reale, ma qui possiamo notare il diverso approccio: Gesù si chinò su di lei, “comandò alla febbre” – Marco scrive “La fece alzare” – “…e la febbre la lasciò”. Il chinarsi implica piegarsi con la persona verso qualcuno, in questo caso per sollevarla: è un gesto di aiuto verso un essere umano in difficoltà, a letto. Implica l’avvicinarsi ed è segno di compassione che denota volontà di aiutare, in questo caso guarire. È la prima volta in cui troviamo scritto che Nostro Signore si china su qualcuno, lui che avrebbe potuto agire stando distante come già avvenuto. Lui Figlio e Dio stesso, che poteva rimanere nella gloria e nell’onore che aveva, Creatore e Signore del cielo e della terra, si occupa di un essere umano chinandosi. Non so se quella donna fosse più grave del figlio del funzionario reale che stava per morire –, ma era in condizioni prossime alle sue perché Luca ci parla di “grande febbre” secondo l’uso di classificarla in “grande” o “piccola” di allora, come testimonia Galeno, medico greco del primo secolo D.C. i cui punti di vista hanno dominato la medicina occidentale fino al Rinascimento; con quel gesto Gesù volle manifestare la sua identificazione con l’essere umano nella sua condizione di impotenza a vivere come vorrebbe, cioè senza incappare in malattie e tutto quanto lo rallenta nelle sue attività quotidiane. Ricordiamo che la febbre poteva anche essere preludio di malattie più importanti, se non saliva e raggiungeva livelli tali da causare la morte. Gesù si china su di lei, denotando interesse e compassione. È giusto ripeterlo perché a volte, soggetti come tutti gli esseri umani istintivamente a reagire con ansia e paura di fronte alla malattia, tendiamo a dimenticare questo atteggiamento del Salvatore chino sull’uomo dimostrando prima di tutto si comprendere e sapere la condizione in cui la persona può venirsi a trovare.

Gesù opera non di sua iniziativa, ma perché i discepoli “lo pregarono per lei” diventando così un esempio anche per i cristiani, chiamati a pregare gli uni per gli altri e non solo per loro stessi. Troppe volte si tende a porre davanti a Lui i nostri problemi contingenti, si prega magari perché si hanno dei dolori fisici e non si fa caso alle sofferenze fisiche e morali del nostro prossimo, che crede come noi e forse non importuna Dio presentando i suoi problemi di salute perché ne ha di più importanti. I discepoli “Lo pregarono” perché sapevano che il suo intervento poteva essere risolutore. Gesù quindi operò come scrisse Isaia 750 anni prima della Sua venuta nel mondo in 53.4 quando scrisse “…eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori”.

Leggiamo che “comandò alla febbre”, altri traducono “sgridò la febbre”: non sappiamo quali parole usò, fatto sta che il Suo fu un comando pronunciato a voce alta e quella donna guarì istantaneamente: leggiamo “subito si alzò in piedi e li serviva”. La risposta a quella preghiera fu rapida, ma soprattutto inequivocabile come lo è qualsiasi intervento di Dio nei confronti nostri e di altri.

Per estensione, se la febbre naturale blocca le attività ordinarie dell’uomo, quella spirituale fa altrettanto e in un ambito più importante. Si contrae per ignoranza, per negligenza, trascuratezza, perché siamo esseri umani, di carne e può capitare che non sempre, per molte ragioni, siamo in grado di porre su noi stessi la vigilanza che dovremmo. Di qui l’importante contenuto della preghiera del “Padre Nostro” “non esporci alla tentazione”, traduzione più corretta rispetto a quella più usata, “non indurci”. Come cristiani, dovremmo avere il coraggio di riconoscere la nostra febbre, possibilmente quanto inizia appena ad insorgere, e chiedere a Dio l’aiuto per uscirne.

 

Ora la notizia di quella guarigione trapelò all’esterno e andò ad aggiungersi a quella della liberazione dell’indemoniato nella sinagoga fatta poco prima: era sabato, era proibito svolgere qualsiasi attività e per questo la gente attese, prima di portargli i malati nel prosieguo del racconto, che arrivasse il tramonto, cioè quando il giorno si concludeva e non si era più sotto il vincolo del quarto comandamento che è opportuno citare: “Ricordati del giorno di sabato per santificarlo. Sei giorni lavorerai e farai ogni tuo lavoro, ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: non farai alcun lavoro, né tu né tuo figlio né tua figlia, né il tuo schiavo o la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te” (Esodo 20.9,10). Ancora, Geremia 17.21,22 riporta “Così dice il Signore: per amor della vostra stessa vita, guardatevi dal trasportare un peso in giorno di sabato e di introdurlo per le porte di Gerusalemme. Non portate alcun peso fuori dalle vostre case in giorno di sabato e non fate alcun lavoro, ma santificate il giorno di sabato, come io ho comandato ai vostri padri”.

Rileggiamo ora i versi di Luca: “Al calar del sole, tutti quelli che avevano infermi affetti da varie malattie li condussero a lui. Ed egli, imponendo su ciascuno le mani, li guariva. Da molti uscivano anche demoni, gridando “Tu sei il Figlio di Dio!”. Ma egli li minacciava e non li lasciava parlare, perché sapevano che era lui il Cristo”. Marco completa l’episodio: “Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demoni, ma non permetteva ai demoni di parlare, perché lo conoscevano” (1.32-33).

Credo sia importante porre la nostra attenzione su due elementi, cioè la differenza intercorrente fra il “tutta la città”, o i “tutti” e i “molti”, che non indicano la stessa cosa. Si radunò davanti alla porta della casa di Simone una quantità impressionante di gente a tal punto che si può dire che tutta la città di Capernaum era presente, malati e indemoniati compresi portati là dai parenti. Però non tutti quelli portati a Gesù guarirono, poiché Marco scrive “Guarì molti”, cioè non adottò un comportamento universale, ma selettivo proprio perché altrove abbiamo letto che “conosceva quel che c’è nell’uomo”. Ecco allora che Nostro Signore guarì coloro che erano vittime e non protagoniste della loro condizione di peccato. La guarigione di un peccatore infatti ha senso solo se questi è disposto a ravvedersi e non per comportarsi come se nulla fosse una volta guarito perché tornerebbe nella sua condizione di prima, se non peggiore. Anche oggi credo che il Signore sappia fare distinzioni tra chi è protagonista o vittima di un peccato, quindi di se stesso nel profondo a livello di volontà, e che agisca di conseguenza. La Sua lettura dei cuori infatti è la capacità di valutare, più che i pensieri presenti in esso, ciò che è nell’anima e lo spirito che muove la persona, vale a dire il suo passato e il suo presente. E sì, anche il futuro che ne è spesso la conseguenza.

Poi ci sono gli indemoniati, persone che si manifestavano con i loro disturbi apertamente, a differenza dell’anonimo che abbiamo visto nella Sinagoga. Qui direi che è obbligatoria una domanda: si può escludere che Marco e Luca abbiano fatto rientrare nella categoria degli indemoniati anche delle persone disturbate mentalmente? Non a priori poiché il campo delle scienze che si occupano della mente è oggi molto vasto e una gran quantità degli interrogativi di allora hanno trovato una spiegazione nelle neuroscienze e nella psichiatria, per quanto non tutte. Piuttosto, l’indemoniato va raccordato al contesto storico di allora, in cui la lontananza da Dio del popolo di Israele aveva causato loro gravi danni: ricordiamo che non avevano profeti da 350 anni, che la presenza stessa dei malati, dei paralitici, ciechi e altre categorie a vasto raggio erano i sintomi di un allontanamento da quel Dio che aveva promesso, in caso di fedeltà ai suoi comandamenti, l’assenza di quelle che chiamiamo “sventure” e di qualsiasi tipo di malattie. Nell’Antico Patto, una malattia in Israele era sempre il risultato di un peccato, mentre per gli altri popoli era piuttosto la conseguenza della loro condizione ereditata da Adamo, vale a dire un corpo soggetto ad ammalarsi, logorarsi e infine morire. La presenza degli indemoniati tra il popolo testimoniava, in fin dei conti, quanto fosse lontana la loro mente dall’attesa del Cristo promesso.

Oggi Satana agisce in coloro che glielo consentono e ne fa dei suoi strumenti come fu il caso di Giuda Iscariotha di cui a un certo punto, nell’ultima cena di Gesù con gli apostoli, è scritto: “E intinto il boccone, lo prese e lo diede a Giuda Iscariotha, figlio di Simone. E allora, dopo quel boccone, Satana entrò in lui” (Giovanni 26,27). Ciò va detto per non incorrere nell’errore di alcune Chiese i cui componenti tendono a vedere l’opera del demonio ovunque, anche nelle persone depresse dimenticando che la mente, al pari del corpo, può sempre ammalarsi e va curata.

Credo che ogni cristiano debba piuttosto meditare quanto scrive Giovanni nella sua prima lettera: “Questo è il messaggio che abbiamo udito da lui e che noi vi annunciamo: Dio è luce e non vi è in lui tenebra alcuna. Se diciamo di essere in comunione con lui e camminiamo nelle tenebre, siamo bugiardi e non mettiamo in pratica la verità. Ma se camminiamo nella luce, come egli è nella luce, siamo in comunione gli uni con gli altri e il sangue di Gesù, il Figlio suo, ci purifica da ogni peccato. Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se confessiamo i nostri peccati, egli è fedele e giusto tanto da perdonarci i peccati e purificarci da ogni iniquità. Se diciamo di non avere peccato, facciamo di lui un bugiardo e la sua parola non è in noi” (1 Giovanni 5,10).

Tornando all’ultimo verso del nostro secondo episodio, leggiamo che i demoni lo qualificavano come Figlio di Dio, ma che Gesù non li lasciava parlare: erano testimoni di cui non aveva bisogno, inopportuni, che non avevano alcun diritto di qualificarlo in quel modo per quanto corrispondesse a verità. “Tu sei il Cristo, il Figlio dell’Iddio vivente”, come gli disse Pietro, è una frase che compete alla persona che Lo riconosce come Unico riferimento per la propria salvezza eterna.

 

Il terzo momento descritto da Luca ci conferma le due nature di Gesù, che dopo i tre episodi, cioè la guarigione dell’indemoniato, della suocera di Pietro e dei molti indemoniati, si alzò presto per pregare, cioè chiedere al Padre l’assistenza di cui aveva bisogno come uomo; ricordiamo le parole “Il mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha mandato”, quel cibo che i suoi discepoli non conoscevano. Gli abitanti di Capernaum non potevano certo dimenticare le guarigioni del giorno precedente e si misero a cercarlo. I primi a fare questo furono i discepoli, poi seguiti dagli altri. Infatti Marco scrive “E Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce. Lo trovarono e gli dissero «Tutti ti cercano»” (1.36,37): erano legati al fatto che dovesse restare lì, che avesse ancora molto da fare. Quelli di Capernaum però erano animati da un sentimento egoistico, come scrive Luca, perché “cercavano di trattenerlo perché non se ne andasse via” nel senso che volevano avere a loro disposizione quel Maestro così diverso dagli altri: prima doveva guarire le loro malattie e poi gli insegnare la Scrittura nella Sinagoga. Doveva essere motivo di vanto per Capernaum, città sulla quale poi pronuncerà una maledizione. Fu il loro un comportamento diverso da quello dei samaritani che abbiamo letto da poco, in cui Giovanni non riferisce di miracoli fatti in mezzo a loro, anche se non possiamo escludere che non siano avvenuti. I samaritani accolsero Gesù “con gioia”, a Capernaum inizia la volontà, non molto velata, di farne un condottiero politico o uno strumento di richiamo per la città al punto che più avanti, quando si recherà a Nazarth, i suoi concittadini pretendevano che facesse presso di loro gli stessi miracoli che aveva fatto là.

Su Capernaum Gesù formulerà un giudizio importante: “…e tu, Capernaum, sarai forse innalzata fino al cielo? Precipiterai fino agli inferi! Perché, se a Sodoma fossero avvenuti i prodigi che sono stati in mezzo a te, oggi essa esisterebbe ancora! Ebbene io vi dico, nel giorno del giudizio la terra di Sodoma sarà trattata meno duramente di te” (Matteo 11.22-24).

Gesù però non poteva accettare i sentimenti che animavano i suoi nuovi concittadini e, come lui stesso dice, la sua predicazione non poteva essere contenuta in un perimetro limitato, ma avrebbe dovuto essere per tutto il popolo di Israele: “È necessario che io annunci la buona notizia del regno anche alle altre città; per questo sono stato mandato”. Quindi, Luca dà un accenno su un periodo ulteriore: “E andava predicando nelle sinagoghe della Giudea”, che altre versioni indicano più correttamente nella Galilea dove si trovava. Un cammino che diversi commentatori hanno ritenuto abbia compiuto da solo.

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3.02 – L’INDEMONIATO NELLA SINAGOGA DI CAPERNAUM (Luca 31.37))

3.02 – L’indemoniato nella Sinagoga di Capernaum (Luca 4.31-37)

 

31Poi scese a Cafàrnao, città della Galilea, e in giorno di sabato insegnava alla gente. 32Erano stupiti del suo insegnamento perché la sua parola aveva autorità. 33Nella sinagoga c’era un uomo che era posseduto da un demonio impuro; cominciò a gridare forte: 34«Basta! Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!». 35Gesù gli ordinò severamente: «Taci! Esci da lui!». E il demonio lo gettò a terra in mezzo alla gente e uscì da lui, senza fargli alcun male. 36Tutti furono presi da timore e si dicevano l’un l’altro: «Che parola è mai questa, che comanda con autorità e potenza agli spiriti impuri ed essi se ne vanno?». 37E la sua fama si diffondeva in ogni luogo della regione circostante”.

Di questo episodio parlano Luca e Marco, che integra il racconto con una annotazione: “…erano stupiti dal suo insegnamento: Egli insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi” (1.22). Come abbiamo anticipato nello scorso episodio, la guarigione dell’indemoniato fu il primo dei sette miracoli compiuti da Gesù in giorno di sabato ed avvenne in una Sinagoga a sottolineare la continuità fra Antico e Nuovo Patto. Il contenuto della Sua predicazione fu probabilmente graduale: parlando a tutti, quindi in gran parte al popolo e poi agli eventuali dottori presenti, partiva dalle Scritture che lo riguardavano e le aggiornava, mostrando i veri contenuti della Legge e dei Profeti. Ma soprattutto la Legge, che secondo l’insegnamento dell’apostolo Paolo “possiede soltanto l’ombra dei futuri beni e non la realtà stessa delle cose”, andava esposta, commentata in modo tale da condurre il popolo a Lui.

Nello scorso capitolo ho accennato al fatto che a Capernaum inizia un tempo nuovo, un periodo di insegnamento e di dedizione totale alla creatura e lo vedremo nei miracoli, negli insegnamenti, nei segni di Cristo. Ora Credo che il Suo insegnamento consistesse appunto in questo: ampliare la conoscenza in merito agli avvenimenti e ai precetti che molti, se non tutti, conoscevano in modo limitato e freddamente osservante.

L’obiettivo di Gesù era quindi da un lato quello di portare in luce ciò che era in ombra, dall’altro dimostrare inconfutabilmente che, attraverso i segni che compiva e avrebbe compiuto, aveva un’autorità che procedeva da Dio, ciò per condurre gli uomini a riconoscerlo come il Figlio di Dio nel quale il Padre si era compiaciuto. Non era infatti lontano il tempo in cui, parlando nella Sinagoga di Nazareth e commentando Isaia dirà “Oggi si è compiuto quello che voi avete ascoltato” (Luca 4.21), facendo esplicito riferimento a se stesso. Insegnando nella Sinagoga, già provocava nella gente un senso di rispetto e di edificazione perché si distingueva da chiunque nell’esporre: era la sua consacrazione e la conseguente relazione che aveva con il Padre che produceva quell’insegnamento autorevole così distante da quello degli scribi che si limitavano a discorsi basati su concetti religiosi, osservanti l’estensione della tradizione orale così lontana dall’amare “il Signore Iddio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e tutta la tua mente”; ciò produceva un’esposizione magari accademica, ma certo non in grado di dissetare l’anima perché mancava l’acqua viva che doveva sgorgare. Luca 4.14 ha scritto “Insegnava nello loro sinagoghe e tutti gli rendevano lode”, cosa impossibile senza questa caratteristica. Anche oggi chi insegna il Vangelo dovrebbe essere in grado di presentarlo con l’autorità che deriva dall’esperienza, dall’aver provato prima di tutto i benefici della Grazia su di sé piuttosto che percorrere i sentieri della storia e della tradizione, a meno che non sia strettamente necessario e limitatamente all’inquadramento nel tempo di un determinato personaggio o corrente.

Qual era la destinazione, l’obiettivo a lunga scadenza che Gesù si prefiggeva? Dare la sua vita perché gli uomini credessero in Lui e si salvassero. Così Paolo in Ebrei 10.11-14: “Ogni sacerdote si presenta giorno per giorno a celebrare il culto e a offrire molte volte gli stessi sacrifici, che non possono mai eliminare i peccati. Cristo, invece, avendo offerto un solo sacrificio per il peccato, si è assiso per sempre alla destra di Dio, aspettando ormai che i suoi nemici vengano posti a sgabello dei suoi piedi. Infatti, con un’unica offerta, egli ha reso perfetti per sempre quelli che vengono santificati”.

Salvare l’uomo significa sottrarlo a Satana in vista del giudizio futuro su di lui e questo è uno dei motivi per cui lo spirito immondo, come abbiamo letto, gli si rivolterà contro. E qui abbiamo il primo dato: un vero insegnamento, fosse anche una semplice frase di natura spirituale, non può che generare una reazione in positivo o in negativo. In quella Sinagoga Luca e Marco ci dicono che c’era un uomo posseduto da uno spirito immondo di cui probabilmente nessuno si era mai accorto perché, in caso di comportamento sconnesso, gli sarebbe stato impedito l’accesso: frequentava allora le riunioni in quell’edificio probabilmente con regolarità e non aveva mai dato adito a preoccupazioni o provvedimenti tali da escluderlo dalla comunità. Ecco allora che quell’uomo frequentava l’assemblea sentendosi a suo agio tra le preghiere formali e gli insegnamenti frutto della scienza scritturale umana proposta dagli scribi. Anche oggi sono tanti quelli che frequentano i radunamenti di Chiesa per lavare le loro coscienze, oppure per sentirsi a posto senza pensare al Corpo di Cristo al quale appartengono. La Chiesa non è costituita da membri isolati gli uni dagli altri, ma da persone che interagiscono tra loro per un bene comune. In pratica sono un corpo solo, ciascuno con una funzionalità precisa. Chiamati fuori da un mondo che non riconosce Dio, rischiano di chiudersi dentro loro stessi, attratti più da eventuali riti e atteggiamenti esteriori più che dal vivere assieme in Cristo.

Ma torniamo all’episodio: non resta che concludere che la presenza di Gesù e le sue parole su un brano di scrittura specifico abbiano provocato nel demone che abitava quella persona anonima la reazione che abbiamo letto. Penso che Gesù abbia affrontato un passo impegnativo, come del resto tutti quelli che coinvolgono l’osservanza spirituale di un comandamento, quello che c’è dietro, le sue profonde implicazioni, della Legge o di una profezia sul trionfo del Messia sul peccato, su Satana e i suoi angeli. Prestiamo ora attenzione alle parole di Giacomo, fratello di Gesù nella sua lettera: “Tu credi che c’è un solo Dio? Fai bene, anche i demoni lo credono e tremano” (2.19). I demoni, come ha spiegato Giacomo, hanno due caratteristiche: la prima è che credono – ma per questo non sono salvati – perché lo hanno visto e conosciuto il Suo primo giudizio; la seconda è il tremare, verbo che ha come suo secondo significato l’essere in uno stato di agitazione, di ansia, di paura interiore.

I demoni infatti sanno che un giorno Satana avrà il capo schiacciato dalla progenie della donna e che il loro destino sarà l’essere gettati nello stagno di fuoco e di zolfo con lui, ma non quando. Ecco il perché della frase che quello spirito, che fino a quel momento era rimasto silente accontentandosi di vivere in quell’uomo dominandolo, ha una reazione che si caratterizza con delle frasi che iniziano quasi con un imperativo: “Basta!”, che tuttavia è più corretto tradurre con “Lasciaci” o con un grido, “Ah!”. Marco scrive infatti “diede in grido” (1.23). Quel demone non tollerava prima di tutto di ascoltare un insegnamento di vera dottrina perché, se lo Spirito convince di peccato, quella predicazione generava in lui un cortocircuito. La presenza e le parole di Gesù erano diventate letteralmente intollerabili.

Se l’intento di Satana è tenere l’uomo all’oscuro della verità in modo che l’uomo non giunga alla salvezza e di compromettere nella maniera più grave possibile il rapporto dei credenti, non poteva tollerare quelle parole di vita che, per lui, erano di morte. L’apostolo Giovanni, nella sua prima lettera in 3,8, scrive che “Gesù è venuto per distruggere le opere del diavolo“.

Lo spirito impuro, inoltre, si considerava un tutt’uno con la persona che occupava, la considerava già una sua proprietà e, infatti, parla al plurale, “Che vuoi da noi (…) sei venuto a rovinarci?”. Da qui possiamo fare un’altra riflessione: per possedere quella persona, vale a dire la sua anima e il suo spirito, voleva dire che la stessa glielo aveva permesso con un comportamento non consono alla Scrittura, in particolare nei confronti della Legge, con una ribellione sistematica a uno o più comandamenti, quel decalogo dato agli uomini per evitare che offendessero Dio. Dei dieci, diversi da quello che è insegnato nel catechismo della Chiesa di Roma, ne abbiamo quattro che riguardano la relazione con Dio (1. Non avere altri dèi oltre a me – 2. Non farti scultura, né immagine alcuna delle cose che sono lassù nel cielo o quaggiù sulla terra o nelle acque sotto la terra, non ti prostrare davanti a loro e non li servire – 3. Non pronunciare il nome del Signore, tuo Dio, invano – 4. Ricordati del giorno di riposo per santificarlo) e sei sono norme comportamentali tra simili che vanno a danneggiare uno o più soggetti in modo tale da rendere impossibile un contatto con Lui: “5. Onora tuo padre e tua madre – 6. Non uccidere – 7. Non commettere adulterio – 8. Non rubare – 9. Non attestare il falso contro il tuo prossimo – 10. Non desiderare la casa del tuo prossimo, non desiderarne la moglie né il suo servo, né la sua serva, né il suo bue né il suo asino, né cosa alcuna del tuo prossimo”.

Ora va fatta molta attenzione: i punti in cui quella persona era mancante alla luce del decalogo poteva riguardare il settimo comandamento “Non commettere adulterio” o l’ottavo “Non rubare”, azioni che possono diventare continuative, abitudinarie perché suscettibili, soddisfacendo la carne, ad essere continuate nel tempo e a coperte da una coscienza di per sé impura. Entrambe le infrazioni, poi, sono la conseguenza della coltivazione del decimo comandamento relativo al non desiderare ciò che è di altri, azione che non implica la semplice, bonaria invidia che porta ad esempio un uomo che manca di certe cose accessorie a considerare un suo simile fortunato perché invece le possiede e lì si ferma.

La pratica abituale del trascurare i comandamenti di Dio, soprattutto quelli che possono essere difficilmente scoperti, porta l’uomo a porsi in contrapposizione con Lui, ad adagiarsi su un sistema religioso fatto da uomini: “tanto nessuno mi vede”. Frequentando la Sinagoga, quell’uomo aveva trovato un compromesso e da un lato il recarsi alle riunioni soddisfaceva il suo senso religioso, quindi carnale. Era una situazione da sdoppiamento della persona, che si comportava ora in un modo ora in un altro senza alcun problema.

A questo punto occorre precisare che lo spirito impuro aveva trovato un terreno quanto mai fertile in quella persona per potersi stabilire al suo interno: l’innominato indemoniato aveva finito per diventare una vittima delle proprie concupiscenze materiali e paradossalmente aveva trovato un equilibrio nella sua incontinenza. Solo di fronte alla responsabilizzazione vista nella predicazione di Nostro Signore fu possibile una reazione perché l’impurità non può reggere di fronte alla santità di Dio che la giudica e condanna.

Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei, il Santo di Dio!” (v.34): vediamo che prima lo chiama “Nazareno”, in tono evidentemente spregiativo per denigrarlo davanti ai presenti che sapevano quanto fossero rozzi gli abitanti di quella città; poi abbiamo la domanda “Sei venuto a rovinarci?”, che in un altro episodio altri demoni aggiungeranno “prima del tempo?”.

Ecco, qui intervenire Giuda nella sua lettera ai versetti 5 e 6 che scrive “A voi che conoscete tutte queste cose, voglio ricordare che il Signore, dopo aver liberato il popolo dalla terra d’Egitto, fece poi morire quelli che non vollero credere e tiene in catene eterne, nelle tenebre, per il giudizio del grande giorno, gli angeli che non conservarono il loro grado ma abbandonarono la propria dimora”: sono catene che non li bloccano nella loro attività, ma non consentono loro di andare oltre a un certo punto, non hanno piena autonomia. Ecco perché possono agire solo in quei contesti in cui viene loro dato uno spazio.

E questo episodio ci insegna una realtà sulla persona indemoniata: il problema non è se indemoniato sia il malato mentale o chi ha problemi psichici che a volte la psicoterapia o le cure farmacologiche sono in grado di aiutare, ma l’uomo che, col suo comportamento, consente di lasciarsi dominare da istinti e forme di ragionamento che a lungo andare consentono a uno spirito immondo di abitarlo. Non tutti quelli che si comportano come l’indemoniato di Capernaum a livello di infrazioni ai comandamenti sono effettivamente tali, ma l’episodio ci insegna che questo è possibile. Non è un ragionamento superstizioso, anzi è un’estensione delle parole di Gesù a proposito di due realtà, entrambe attinenti al nostro caso.

In Luca 16.13 leggiamo che “Nessuno può servire a due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro”. Da questo importante passo rileviamo che l’uomo, che si ritiene autonomo e si proclama libero, in realtà è e rimane un servo; è l’entità con la quale si relaziona che determina il suo carattere e l’a chi sono rivolti i suoi pensieri.

La seconda ci è data per descrivere lo stato di una persona liberata dallo spirito immondo, che non può rimanere da sola, ma iniziare un cammino che abbia Cristo come fondamento: “Quando lo spirito impuro esce dall’uomo, si aggira per luoghi aridi cercando sollievo, ma non ne trova. Allora dice «Ritornerò da dove sono uscito». E, venuto, la trova vuota, spazzata e adorna. Allora va, prende con sé altri sette spiriti peggiori di lui, vi entrano e vi prendono dimora e l’ultima condizione di quell’uomo diventa peggiore della prima” (Matteo 12.43-45).

 

C’è una terza frase che lo spirito impuro pronuncia pubblicamente: “Io lo so chi sei, il Santo di Dio!”: non riconosce Gesù come profeta generico, ma gli dà quel titolo conosciuto dal popolo come Colui che doveva arrivare, era un titolo non morale, ma ufficiale e preciso che quello spirito non poteva pronunciare: se lo fece, era solo per evidenziare che il tempo per la sua fine non era ancora giunto e voleva essere lasciato stare, libero di occupare quell’uomo.

Satana conosce il suo destino, ma sa anche che prima della sua definitiva sconfitta avrà modo di sedurre “perfettamente” gli uomini degli ultimi tempi, quando si manifesterà tramite un sistema politico (la Bestia) e con un suo rappresentante – un presidente? – chiamato “falso profeta”: “Nessuno vi inganni in alcun modo! Prima infatti verrà l’apostasia e si rivelerà l’uomo della perdizione, l’avversario, colui che si innalza sopra ogni essere chiamato e adorato come Dio, fino a insediarsi nel tempio di Dio, pretendendo di essere Dio” (2 Tessalonicesi 2.3). Riconoscere in Gesù “Il Santo di Dio”, che costituisce per l’uomo salvezza, qui ha per conseguenza la proibizione di parlare e l’ordine di uscire da quell’uomo.

A questo punto il resoconto di Luca e di Marco sono diversi: Luca scrive “E il demonio lo gettò a terra in mezzo alla gente e uscì da lui, senza fargli alcun male”, mentre Marco “E lo spirito immondo, straziandolo e gridando forte, uscì da lui” (1.26). Mi sono chiesto il perché di questi punti di vista, apparentemente contraddittori perché tra lo straziare fortemente e il non fare alcun male esiste differenza. Luca esamina il fatto dal punto di vista medico e, considerato il fatto che quell’uomo ritornò in sé, pone l’accento sulla sua guarigione: non riportò fratture, sanguinamenti, tornò in sé. Marco, che ebbe Pietro come fonte primaria sicuramente presente nella Sinagoga, mette invece l’accento sulla sofferenza spirituale di quell’uomo. “Straziandolo forte” si riferisce probabilmente alla sofferenza che lo spirito impuro gli provocò, sofferenza psichica e morale: lo gettò a terra e con convulsioni. Un tentativo di rivalsa di fronte all’abbandono che gli era stato ordinato.

Sono senz’altro da citare le parole che un caro fratello scrisse un giorno: “Ecco un’importante verità alla quale tutti i credenti devono prestare la massima attenzione: quando noi consegniamo a Satana parte della nostra mente o del nostro corpo, ricordiamoci che, pur se aiutati, protetti e salvati da Gesù, prima di lasciarci il male cercherà di umiliare la nostra vita senza pietà come fece proprio con l’anonimo posseduto”. “Senza pietà”, sentimento che non appartiene né a Satana, né ai suoi angeli, siano essi spiriti immondi o esseri definiti “umani”.

L’episodio si conclude col timore che si impossessò dei presenti, abituati ad assemblee regolate da un susseguirsi di eventi senza che nulla le turbasse: non poteva essere altrimenti. Tuttavia il fatto generò delle domande importanti perché all’insegnamento con autorità di Gesù era subentrata la dimostrazione del suo dominio sugli spiriti a Lui contrari: “Che parola è mai questa, che comanda con autorità agli spiriti impuri, ed essi se ne vanno?”.

Marco scrive invece “Che è mai questo? Un insegnamento nuovo, dato con autorità – notare il termine “nuovo” –. Comanda persino agli spiriti impuri, ed essi gli obbediscono” (1.27). Con quest’ultima frase, i presenti confessano di non aver mai visto niente di simile, soprattutto gli anziani che probabilmente avevano anche visto spiriti impuri all’opera senza che nessuno avesse potuto far niente per scacciarli e farsi ubbidire da loro. Solo Gesù c’era riuscito, a conferma di essere l’unico liberatore possibile.

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3.01 – UN TEMPO NUOVO (Vari autori)

3.01 – Un tempo nuovo (vari).

 

Con la venuta di Gesù in Galilea ci raccordiamo a Marco 1.14,15 che dice “Ora, dopo che Giovanni fu messo in prigione, Gesù venne in Galilea predicando il Vangelo del Regno di Dio e dicendo «Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino. Ravvedetevi e credete al Vangelo”».

Matteo 4.13,17 scrive “Poi lasciò Nazareth e venne ad abitare a Capernaum, città posta sulla riva del mare, ai confini di Zabulon e Neftali. Affinché si adempisse ciò che fu detto dal profeta Isaia quando scrisse «Il paese di Zabulon, il paese di Neftali, sulla riva del mare, in regione al di là del Giordano, la Galilea dei Gentili, il popolo che giaceva nelle tenebre ha visto una gran luce, e su coloro che giacevano nella regione e nell’ombra della morte si è levata una gran luce». Da quel tempo Gesù cominciò a predicare e a dire: «Ravvedetevi, perché il regno dei cieli è vicino»”.

            Luca conferma l’attività di Gesù scrivendo che “…Gesù, nella potenza dello Spirito, se ne tornò in Galilea e la sua fama si sparse per tutta la regione circostante. Ed Egli insegnava nelle loro sinagoghe, essendo onorato da tutti” (4.14,15).

 

Entriamo in un nuovo periodo dell’attività di Gesù, un tempo nuovo che, almeno secondo la visione che ho avuto del Vangelo, inizia quando Gesù venne ad abitare a Capernaum, città posta sulle rive del lago, o mare di Galilea, detto anche di Tiberiade prendendo il nome dalla città costruita da Erode Antipa in onore di Tiberio Claudio Nerone nell’anno 20 circa. Capernaum era posta sulla riva del lago e da lei passavano le vie principali che dall’Egitto portavano in Siria e da Gerusalemme a Damasco. Gesù poteva così non solo incontrarsi con persone con cui non avrebbe mai potuto avere a che fare restando nella lontana Nazareth, ma da lì potevano essere diffuse nelle regioni circostanti le notizie dei suoi miracoli e i contenuti, seppur a grandi linee, della sua predicazione. Se nessuno poteva fare i segni che faceva se Dio non era con lui, come riconobbe Nicodemo, va da sé che alle notizie dei miracoli non si accompagnassero resoconti più o meno particolareggiati delle sue parole e dei suoi commenti alle Scritture esposti nelle Sinagoghe.

Da Capernaum, inoltre, Gesù poteva visitare più facilmente le città della Galilea senza contare che, usando una barca, poteva avere accesso alle città che si affacciavano sul lago e raggiungere così la Traconitide, la Perea e la Decapoli. Matteo, coprendo uno spazio temporale rilevante, ci dice “La Sua fama si diffuse per tutta la Siria e conducevano a lui tutti i malati tormentati da varie malattie e dolori, indemoniati, epilettici e paralitici, ed Egli li guarì. Grandi folle cominciarono a seguirlo dalla Galilea, dalla Decàpoli, da Gerusalemme, dalla Giudea e da oltre il Giordano” (4.24,25).

Matteo collega l’abitare di Gesù a Capernaum con l’adempimento della profezia di Isaia in 8.23 e 9.1,2 che quanti conoscevano non potevano non collegare al suo seguito, che l’evangelista non riporta: “Perché un bambino ci è nato, un figlio ci è stato dato. Sulle sue spalle è il potere e il suo nome sarà: Consigliere mirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace. Grande è il suo potere e la pace non avrà fine sul trono di Davide e sul suo regno, che egli viene a consolidare e rafforzare con il diritto e la giustizia, ora e per sempre” (Isaia 9.5,6). Notiamo i verbi, “nato” e “dato” che riassumono il periodo della vita di Gesù, “nato”, venuto al mondo come tutti gli altri uomini, e offerto, “dato”, in sacrificio per loro. Ai lettori ebrei che non ignoravano il libro di Isaia, Matteo offre un’altra possibilità di connessione, vale a dire con 11.2-4: “Su di lui si poserà lo Spirito del Signore – in forma di colomba e non solo – Spirito di sapienza e di intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e timore del Signore. Si compiacerà nel timore del Signore. Non giudicherà secondo le apparenze e non prenderà decisioni per sentito dire, ma giudicherà con giustizia i poveri e prenderà decisioni eque per gli oppressi del paese”.

 

Ho intitolato queste riflessioni “Un tempo nuovo”, preferendo “tempo” a “periodo”, parola forse più immediata ma che avrebbe definito in misura minore le implicazioni del prendere residenza in quella città. La profezia di Isaia riportata da Matteo che abbiamo letto è la settima usata in quel Vangelo, a sottolineare la pienezza dell’opera di Dio e a sottindendere che tutto quanto fatto da Gesù prima di allora era stato compiuto in maniera perfetta. Sappiamo che il settimo giorno, di riposo per quell’entità perfetta riassunta nel tetragramma YHWH, avvenne dopo la constatazione che “tutto era molto buono”. “Tempo nuovo” perché da Capernaum inizierà una predicazione pressoché ininterrotta consistente in insegnamenti, dottrina, miracoli e guarigioni.

Ricordiamo le profezie precedenti di Matteo:

 

  1. La nascita da una vergine, fatto tecnicamente impossibile senza l’opera dello Spirito Santo. Gesù non poteva avere un DNA unicamente umano, essere figlio carnale di Maria e Giuseppe, perché altrimenti non avrebbe potuto essere al tempo stesso Figlio dell’uomo e Figlio di Dio, vero Dio e vero uomo. Fu quello, oltre alla vittoria sul peccato, che lo fece risorgere. Il numero uno, come prima profezia, ci parla di un’esistenza autonoma, santa, non competente all’uomo che, piuttosto, trova la sua dimensione nei numeri pari. L’uno è l’esistere pieno, il tutto, l’autosufficienza, in poche parole l’“io sono colui che sono”;
  2. La nascita di Gesù a Betlehem, l’unica che avrebbe potuto dare i natali al “Capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele”. Non a caso abbiamo questo annuncio al secondo posto: è l’uomo Gesù che viene al mondo, perfetto connubio di due nature, umana e divina. Il due è condivisione e soccorso (“se uno cade l’altro lo rialza”), ma anche separazione vista nell’appartenere a Cristo oppure no, di scelta.
  3. Il ritorno in Israele dalla fuga in Egitto perché Erode il Grande voleva ucciderlo, “Dall’Egitto ho chiamato mio Figlio”. Terza profezia, tre come numero proprio di Dio e che ci questo caso ci parla di quanto sia inutile, oltre che controproducente, ostacolare i suoi piani che si realizzano e realizzeranno comunque;
  4. Il grido udito in Rama, la strage degli innocenti in cui Satana, cui Erode il Grande esattamente come col Faraone molti secoli prima aveva dato spazio nella sua persona, commise uno dei tanti suoi crimini. Il quattro è un numero che ha sempre riferimento alla materia e, in questo caso, a quanto avvenuto ad opera dell’avversario e quindi del peccato.
  5. L’abitare per circa 30 anni a Nazareth perché “Sarà chiamato Nazareno” con l’evidente riferimento, più che alla città dalla quale non poteva venire nulla di buono secondo le parole di Natanaele – Bartolomeo, al Germoglio che sarebbe uscito dal tronco di Jesse, padre di Davide da cui Gesù discendeva sia da parte di padre che di madre. Il cinque, numero intermedio, ci parla di uno stato che porta ad una progressione, ad uno sviluppo nelle mani di Dio e alla sua Grazia. Cinque è 4+1, cioè un dono di Dio aggiunto alla realtà dell’uomo.
  6. La persona e l’opera di Giovanni Battista, visto nella “Voce d’uno che grida nel deserto”. Da notare anche qui il numero sei, che sottintende l’uomo nella sua imperfezione e incompletezza se rimane da solo, dell’uomo che ha bisogno dell’”Uno” di Dio per completarsi. Solo se Giovanni avesse annunciato Gesù secondo l’insegnamento ricevuto nel deserto, come fece, avrebbe davvero assolto al compito lui affidatogli. Ricordiamo, a proposito della completezza, quel giovane ricco che voleva seguire Gesù che si sentì dire “Una cosa sola ti manca: va’, vendi ciò che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro nei cieli; poi vieni e seguimi” (Marco 10.21): al suo “6” mancava un “1” per essere perfetto.
  7. Terra di Zabulon e terra di Neftali, il popolo che giaceva nelle tenebre ha visto una gran luce”. Settimo passo citato, punto di arrivo e di partenza verso altre destinazioni spirituali. Arrivando a Capernaum Gesù conclude e inizia un periodo della sua vita, che fin qui ho cercato di sviluppare a grandi linee, per iniziarne uno nuovo e lo farà predicando nelle Sinagoghe e chiamando ufficialmente a sé coloro che diventeranno i suoi primi quattro apostoli (Natanaele in un certo senso era già stato chiamato nel breve dialogo riportato da Giovanni, “Vedrai cose più grandi di queste”).

 

Come tutta la creazione, l’universo, iniziò con la luce, allo stesso modo l’universo spirituale e nuovo iniziava con la “gran luce” vista dal popolo che abitava quelle terre, toccate in sorte alle due tribù di Zabulon e Neftali, rispettivamente la nona e la decima. Parte di questo territorio, quella settentrionale, era chiamato “La Galilea dei gentili” a motivo della sua prossimità con la Siria e la Fenicia e al fatto che pare che la popolazione fosse in parte un misto di ebrei e gentili. Ma in quali tenebre giaceva il popolo, a parte l’ovvio, inevitabile riferimento alla sua lontananza da Dio? Leggiamo due elementi negativi, “tenebre” e, da traduzione più corretta “nella regione e nell’ombra della morte”, riferita non alla Giudea, ma alla Galilea con particolare riguardo alle terre di Zabulon e Neftali. Le tenebre sono nella Scrittura una figura familiare per rappresentare non solo l’ignoranza e l’errore, ma la depravazione e la miseria morale e intellettiva di cui sono il frutto, la conseguenza: non possono esservi le une senza le altre. Ricordiamo le parole dell’apostolo Paolo che, con grande umiltà e verità, descrisse il suo passato: 12Rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me, 13che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento. Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo per ignoranza, lontano dalla fede, 14e così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù”. (1 Timoteo 1.12-14).

La luce si è levata su quel paese che, paradossalmente, avrebbe dovuto avere molte più difficoltà rispetto ai giudei nel riconoscerla, perché era lì che si era sviluppato lo studio della Legge, in Gerusalemme si esercitava il sacerdozio e si offrivano i sacrifici nel Tempio. I galilei erano considerati più corrotti e ignoranti dei giudei. “Una luce si è levata”, quella del Cristo, il solo a potere rivelare l’amore e la volontà del Padre e a compierla.

Proseguendo nella lettura di Matteo, questi riporta il senso della predicazione di Gesù, che sintetizza con parole familiari: “Ravvedetevi, perché il Regno dei cieli è vicino”, le stesse che diceva Giovanni Battista. Marco, invece, scrive “Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino: convertitevi e credete nel Vangelo”, frase che merita un breve approfondimento perché non può esservi conversione senza credere nel Vangelo nel suo senso etimologico di “buona notizia”, la sola di cui l’uomo ha bisogno. E la buona notizia era proprio che finalmente Dio recuperava ciò che altrimenti sarebbe stato perduto, la sua creatura. “Il tempo è compiuto” cioè “Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò suo Figlio, nato di donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli” (Galati 4.4). E “Il Regno di Dio è vicino” significa che sarebbe stato imminente, sarebbe stato prima “dentro di voi” e in futuro si sarebbe caratterizzato con la sconfitta di Satana, gettato nello stagno di fuoco coi suoi angeli, termine che ha riferimento sia con gli esseri spirituali che lo seguirono, ma anche con tutti quegli uomini che gli dettero spazio perché si potesse servire di loro. Ecco perché chi sentiva le parole di Gesù avrebbe dovuto credere nel Vangelo, quindi in Lui. Credere nel Vangelo implica un profondo ravvedimento, il sapere che così come si è, si agisce, si pensa, può condurre solo alla morte. Di qui il collegamento con le tenebre e la scelta di rimanere in loro fatta dalla maggior parte degli uomini: “Ma gli uomini hanno amato le tenebre più della luce”, verso su cui ci siamo già soffermati in breve.

Tornando ai versi che descrivono l’attività di Gesù in Galilea, che Matteo e Marco sintetizzano con l’accennare alla predicazione della necessità del ravvedersi e nel credere al Vangelo, Luca aggiunge un altro particolare: “Insegnava nelle loro sinagoghe, essendo onorato da tutti” (4.15). Perché è un particolare non marginale? Innanzitutto per la Sinagoga, parola che etimologicamente è formata da syn, insieme, e aghèin, condurre, portare. È un termine che quindi allude a un cammino comunitario e il verbo synàgo significa “radunare”. La sinagoga era ed è tuttora un luogo di preghiera e di istruzione religiosa; le sue adunanze si tenevano ogni sabato mattina e pomeriggio, ma anche in altri giorni; era proibito agli ebrei risiedere in luoghi ove la sinagoga non vi fosse e la sua esistenza era condizionata dalla presenza di non meno di dieci persone, al contrario della Chiesa che ne prevede dalle due o tre. Infatti “Dove due o tre sono radunati nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Matteo 18.20). Se la sinagoga era un luogo di preghiera e di lettura, la Chiesa radunata ha la presenza del Signore Gesù: è “in mezzo”, “tra” di loro come un familiare visto nella frase “Ecco, io sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Apocalisse 3.20). Si tratta di una frase particolare, detta all’Angelo della Chiesa di Laodicea sulla quale, se ci soffermassimo, andremmo fuori tema; tuttavia è interessante notare l’atteggiamento così diverso del Dio giudice inflessibile e tremendo dell’Antico Patto e quello aperto alla comprensione e al perdono del Nuovo: si tratta infatti di parole rivolte a quei credenti che hanno bisogno di ravvedersi ancora perché hanno contristato lo Spirito con una condotta non consona alla loro fede e vivono una condizione per cui sono definiti “tiepidi”.

Ma torniamo alla Sinagoga. La dinamica delle riunioni al suo interno era la seguente: prima vi era lo “Shemà”, (“Ascolta”) che si caratterizzava con la lettura di tre passi del Pentateuco, al quale seguivano una serie di diciotto brevi preghiere che esprimevano adorazione, sudditanza e speranza verso il Dio d’Israele, dopo di che si procedeva alla lettura e spiegazione dei testi sacri, vale a dire la Torà (il Pentateuco) suddivisa in 154 sezioni di modo che veniva letta integralmente in tre anni, e poi i Profeti, cioè i libri da Giosuè in poi. Terminata la lettura, in ebraico e nella lingua di allora che era l’aramaico, seguiva un commento istruttivo che poteva essere tenuto da chiunque tra i presenti giudicati più adatti dal responsabile locale.

Nella pratica chi svolgeva tale ufficio, visto che era richiesta una conoscenza dei testi, era uno scriba o un fariseo, ma Luca ci dice che era Nostro Signore a prendere la parola, o chiamato dal responsabile della Sinagoga o di sua iniziativa visto che ciò era consentito. L’adunanza terminava poi con la benedizione sacerdotale, che recitava il testo di Numeri 6.24-26: “Ti benedica il Signore e ti custodisca. Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia. Il Signore rivolga verso di te il suo volto e ti conceda pace”. I presenti rispondevano “Amen”. Proprio nella sinagoga di Capernaum Gesù compirà il suo primo miracolo dei sette in giorno di sabato, oggetto della nostra prossima riflessione.

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02.16 – IL FIGLIO DEL FUNZIONARIO REALE (Giovanni 4.43-54)

2.15 – Il figlio del funzionario reale (Giovanni 4.43-54)

43Trascorsi due giorni, partì di là per la Galilea. 44Gesù stesso infatti aveva dichiarato che un profeta non riceve onore nella propria patria. 45Quando dunque giunse in Galilea, i Galilei lo accolsero, perché avevano visto tutto quello che aveva fatto a Gerusalemme, durante la festa; anch’essi infatti erano andati alla festa.46Andò dunque di nuovo a Cana di Galilea, dove aveva cambiato l’acqua in vino. Vi era un funzionario del re, che aveva un figlio malato a Cafàrnao. 47Costui, udito che Gesù era venuto dalla Giudea in Galilea, si recò da lui e gli chiedeva di scendere a guarire suo figlio, perché stava per morire. 48Gesù gli disse: «Se non vedete segni e prodigi, voi non credete». 49Il funzionario del re gli disse: «Signore, scendi prima che il mio bambino muoia». 50Gesù gli rispose: «Va’, tuo figlio vive». Quell’uomo credette alla parola che Gesù gli aveva detto e si mise in cammino. 51Proprio mentre scendeva, gli vennero incontro i suoi servi a dirgli: «Tuo figlio vive!». 52Volle sapere da loro a che ora avesse cominciato a star meglio. Gli dissero: «Ieri, un’ora dopo mezzogiorno, la febbre lo ha lasciato». 53Il padre riconobbe che proprio a quell’ora Gesù gli aveva detto: «Tuo figlio vive», e credette lui con tutta la sua famiglia. 54Questo fu il secondo segno, che Gesù fece quando tornò dalla Giudea in Galilea”.    

La collocazione di questo episodio pone problemi cronologici più apparenti che reali ed è riportato da Giovanni che, come abbiamo letto al verso 44, cita le parole di Gesù a proposito del profeta che non riceve onore nella propria patria, detta quando si troverà a Nazareth in un contesto particolare, cioè quando i suoi concittadini lo disprezzeranno dopo il suo discorso nella locale sinagoga. Ricordiamo Luca 4.23-24 “Certamente voi mi citerete questo proverbio: «Medico, cura te stesso, tutto ciò che abbiamo udito essere avvenuto in Capernaum, fallo anche qui nella tua patria». Ma egli disse «In verità vi dico che nessun profeta è bene accetto nella sua patria»”.

In realtà, guardando la cartina della Giudea, Samaria e Galilea, possiamo vedere che l’itinerario del Signore, quando dopo due giorni lasciò la regione di Samaria, toccò proprio Cana (dopo Nain) per prima; Capernaum e Nazareth erano più distanti e non potevano essere raggiunte se non passando per questa cittadina in cui Gesù era conosciuto per il miracolo alle nozze, ma anche perché molti galilei che avevano compiuto il pellegrinaggio a Gerusalemme erano presenti sia quando erano stati cacciati i mercanti dal tempio ed erano avvenuti dei miracoli. Ricordiamo infatti le parole lette in Giovanni 2.23 “Ora, mentre Egli si trovava in Gerusalemme per la festa della Pasqua, molti credettero nel suo nome vedendo i segni che faceva”.

Così come l’itinerario di Gesù per raggiungere la Galilea avrebbe potuto essere diverso (ma così non fu perché doveva incontrare la donna samaritana e i suoi conterranei), raggiungendo Cana sapeva che in quella regione c’era un padre, a Cafàrnao o Capèrnaum, distante 40 km circa, in angoscia per il proprio figlio, gravemente ammalato. Il termine greco utilizzato per descrivere la qualifica di quell’uomo è basilikòs che nelle opere di Giuseppe Flavio indica un funzionario civile o militare così come un dignitario di qualche casa reale come ad esempio Cuza, la cui moglie Giovanna farà parte delle donne al seguito di Gesù, o Manaen, importante membro della chiesa di Antiochia compagno d’infanzia di Erode il Tetrarca (cioè Antipa, Atti 13.1). Tutto quindi lascia supporre che il figlio di quell’uomo, probabilmente l’unico, nonostante le cure dei migliori medici della regione, non guarisse, anzi si fosse aggravato: “gli chiedeva di scendere perché suo figlio stava per morire”. Quel giovane aveva la febbre, che a quel tempo stante le poche possibilità di cura destava molta preoccupazione: nell’uomo la temperatura normale è mediamente di 37°C, quando va oltre i 41 può condizionare un danno cerebrale e a 43 si registra l’exitus, la morte: possiamo pensare che la febbre che colpì quel ragazzo, così come la suocera di Pietro di lì a poco tempo, fosse attorno a quei valori.

La febbre negli scritti dell’Antico Patto compare poche volte ed è sempre legata alle conseguenze del peccato. Del resto, è un’anomalia anche oggi per un corpo progettato teoricamente per stare bene ma che in realtà, per il peccato entrato nel mondo, è soggetto ad ammalarsi in modo più o meno grave. Per la dispensazione della Legge la febbre rientrava nelle conseguenze e punizioni per la disubbidienza: “L’Eterno ti colpirà con la consunzione, con la febbre, con l’infiammazione, con il caldo bruciante, con la spada, con il carbonchio e con la ruggine, che ti perseguiteranno fino alla tua distruzione” (Deuteronomio 28.22). Altre conseguenze erano le emorroidi, la scabbia, la tigna, la pazzia, la cecità e la depressione ansiosa oltre al fallimento in qualsiasi attività intrapresa (in proposito tutti i versi dal 15 alla fine del capitolo 28 del Deuteronomio illustrano la maledizione per la disubbidienza del popolo.

Va però aperto un distinguo importante, al fine di evitare la domanda spontanea su cosa potesse avere fatto nella sua vita quel bambino, o i suoi genitori, per meritare una febbre che, senza l’intervento di Gesù, lo avrebbe portato alla morte. Una simile domanda la rivolsero a Gesù i suoi discepoli di fronte ad un uomo cieco dalla nascita: “«Maestro, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?» Gesù rispose «Né lui, nè i suoi genitori hanno peccato, ma ciò è accaduto affinché siano manifestate in lui le opere di Dio»” (Giovanni 9.2,3). Ecco allora che con questa frase viene corretto un metodo di ragionamento popolare e superstizioso che, fondato sull’ignoranza, tendeva a generalizzare una situazione che solo l’individuo può conoscere. Ancora oggi credo vi siano malattie che siano la conseguenza di un peccato specifico e non di un naturale processo dovuto a una mancata cura della propria persona o alla prevenzione, ma questa è una realtà che solo l’individuo colpito da essa (o esse) può conoscere.

La febbre che aveva colpito il giovane figlio del funzionario di Erode Antipa, era quindi perché fosse manifestata in lui l’opera di Dio. Quel padre, saputo che Gesù era giunto a Cana, non esitò a partire da Capernaum facendo un viaggio di 40 km sulle dissestate strade del tempo, con la sua scorta, per raggiungerlo: dovette partire, fare la strada e, una volta giunto là, cercarlo. Ci domandiamo: era questa la sua “ultima spiaggia” nel senso che sapeva di recarsi da un generico guaritore, o piuttosto sapeva che, se avesse voluto, Gesù, sarebbe stato in grado di guarirlo? Quell’uomo si era messo in cammino perché sapeva ciò che Nostro Signore aveva fatto a Gerusalemme e, se mai, la sua fede era legata al fatto che fosse la presenza di Gesù accanto al figlio a guarirlo e che non potesse farlo a distanza: “gli chiedeva di scendere, e guarire suo figlio, perché stava per morire”.

Fu in quel momento che Gesù mise a confronto, probabilmente, la differenza fra i giudei e i samaritani: qui aveva persone che gli chiedevano degli interventi miracolosi, là c’erano stati individui che lo avevano ascoltato e avevano concluso che era Lui il “Salvatore del mondo”. “Se non vedete segni e prodigi (miracoli) voi non credete” è un rimprovero perché da un lato Gesù leggeva in quell’uomo la fede in Lui, ma dall’altro prendeva atto che, se suo figlio non fosse stato malato, difficilmente sarebbe venuto da Capernaum per ascoltarlo. Le parole di Gesù non costituiscono una sorta di gesto di stizza, ma di lettura della realtà umana specifica di quel popolo per il quale era venuto. Leggendo il cuore di quel funzionario, Gesù si immedesimò in lui facendo proprio il suo caso anche se l’ansia che aveva per il figlio gli impedirono di cogliere il senso di quelle parole: “Signore, scendi prima che il mio bambino muoia”.

Fu a quel punto che Gesù gli rispose “Va’, tuo figlio vive”: Cirillo d’Alessandria, vescovo e teologo greco vissuto tra il 300 e il 400, osservò che “…con queste parole il Signore guarì due persone al tempo stesso: condusse alla vera fede l’ufficiale reale e liberò il corpo di suo figlio dalla malattia”; possiamo aggiungere su queste parole che ne beneficiarono più persone perché è scritto “…e credette lui, con tutta la sua famiglia”, moglie e probabilmente tutti i suoi sottoposti che avevano conosciuto la gravità della malattia di quel giovane.

Al di là del miracolo, che per la sua potenza possiamo tranquillamente accomunare ai molti che seguiranno, quello che importa è rilevare che costituisce la storia della conversione di un uomo già predisposto e che in poco tempo acquisisce dei dati fondamentali: conosceva Gesù per sentito dire e aveva creduto in lui, certo in modo imperfetto, ma quanto bastava per sapere che poteva guarire suo figlio. Va da Gesù perché non ha alternative in quanto quelle umanamente possibili, medici e cure, le aveva già provate. L’insistenza con cui chiede al Signore di recarsi dal figlio malato esclude una speranza generica in Lui, ma una certezza, pur se limitata al fatto che, per guarirlo, avrebbe dovuto essere fisicamente presente. Il fatto che, rassicurato sul fatto che la febbre aveva abbandonato suo figlio, se ne fosse andato, ci dice che quelle parole gli bastarono per cui abbiamo una certezza acquisita esclusivamente sulla parola.

Poi abbiamo l’incontro coi servi, che gli erano andati incontro lungo la strada per informarlo dell’avvenuta guarigione: è in quel momento che la sua fede divenne piena, totale, perché chiede a che ora suo figlio non avesse più avuto la febbre: aveva bisogno di un riscontro per credere una volta per sempre.

C’è un particolare che ci rivela che il funzionario reale aveva già creduto alle parole di Gesù “Va’, tuo figlio vive” e lo rileviamo nella risposta dei suoi servi che gli dicono che la febbre aveva abbandonato suo figlio “Ieri, all’ora settima” (versione letterale, cioè all’una del pomeriggio): quell’uomo era rimasto allora a Cana per la notte, avendo già creduto che il proprio figlio era guarito.

Abbiamo così il credere, azione che fino ad ora, nella nostra lettura cronologica dei Vangeli, è stata raggiunta da dei pescatori (professione dei discepoli o di gran parte di essi), un Fariseo importante (Nicodemo), la donna Samaritana e i suoi conterranei e per finire questo funzionario reale: condizioni sociali diverse, ma tutte creature di Dio ciascuna con la necessità di un percorso e reazioni diverse che concretano il credere. Nel caso del funzionario del re, che credette con tutta la sua famiglia e che il sapere dell’ora in cui la febbre aveva abbandonato il figlio contribuì a rafforzare la sua fede dandogli una prova inequivocabile, abbiamo probabilmente la stessa dinamica del carceriere di Filippi che, dopo essere stato evangelizzato dall’apostolo Paolo, è scritto che “Condottili quindi in casa sua, apparecchiò loro la tavola e si rallegrava con tutta la sua famiglia di aver creduto in Dio” (Atti 16.28).

Credere trova tra le sue conseguenze l’acquisizione del senso della liberazione dal quotidiano che obbliga e umilia, “Perché il Figlio dell’uomo è venuto a salvare ciò che era perduto” (Luca 19.9). La guarigione dalla febbre importante, che causa sudore e brividi di freddo, che tiene la persona a letto non in grado di fare nulla, ha riferimento con il peccato, che fa la stessa cosa sotto l’ottica spirituale.

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02.15 – IL CIBO CHE NON CONOSCETE (Giovanni 4.31-38)

2.13 – Il cibo che non conoscete (Giovanni 4.31-38)

 

31Intanto i discepoli lo pregavano: «Rabbì, mangia». 32Ma egli rispose loro: «Io ho da mangiare un cibo che voi non conoscete». 33E i discepoli si domandavano l’un l’altro: «Qualcuno gli ha forse portato da mangiare?». 34Gesù disse loro: «Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera. 35Voi non dite forse: «Ancora quattro mesi e poi viene la mietitura»? Ecco, io vi dico: alzate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura. 36Chi miete riceve il salario e raccoglie frutto per la vita eterna, perché chi semina gioisca insieme a chi miete. 37In questo infatti si dimostra vero il proverbio: uno semina e l’altro miete. 38Io vi ho mandati a mietere ciò per cui non avete faticato; altri hanno faticato e voi siete subentrati nella loro fatica».”

Nel resoconto che Giovanni fa dell’incontro con la donna samaritana, parla dell’arrivo dei discepoli con le provviste acquistate nelle vicinanze: “27In quel momento giunsero i suoi discepoli e si meravigliavano che parlasse con una donna. Nessuno tuttavia disse: «Che cosa cerchi?», o: «Di che cosa parli con lei?». 28La donna intanto lasciò la sua anfora, andò in città e disse alla gente: 29«Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia lui il Cristo?». 30Uscirono dalla città e andavano da lui”.

Mentre quindi la donna andava in città ad annunciare agli altri chi aveva incontrato, si inserisce questo dialogo coi discepoli che, vedendo che Gesù si era dissetato, lo esortavano a mangiare, preoccupati delle sue condizioni perché consapevoli delle energie perse a causa del lungo viaggio sotto il sole. La sua risposta a quell’invito pone per la prima volta a confronto la Sua realtà e quella del discepoli, che fino ad allora avevano seguito quel Rabbi nei suoi spostamenti impressionati dai suoi miracoli e dalle parole di vita che aveva per coloro che lo incontravano. Di lui avevano una visione parzialmente corretta, quella che potevano sperimentare quotidianamente, ma non avevano la piena consapevolezza che verrà loro data solo qualche anno dopo, da quando in Gerusalemme lo Spirito Santo, il Consolatore promesso, scenderà su di loro ed altri per un totale di 120 persone (Atti, capitolo 2).

Sappiamo che in precedenza era avvenuta la tentazione nel deserto in cui Gesù aveva ricordato all’Avversario che l’uomo non vive di solo pane, ma di ogni parola che procede dalla bocca di Dio; qui però abbiamo un annuncio diverso, non in opposizione al metro di ragionamento che Satana cercava di insinuare in Lui, ma di distinzione: “Ho da mangiare un cibo che voi non conoscete”, cioè “fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera”, parola con cui corregge la loro visione terrena: “Qualcuno gli ha forse portato da mangiare?”.

Va notato che, nell’ambito di questo episodio, c’è anche la contrapposizione tra l’“acqua” e il “cibo”: l’acqua della vita che Gesù avrebbe dato alla Samaritana e ai suoi conterranei, usi a bastonare se non a uccidere i giudei che transitavano sulle loro terre come attesta Giuseppe Flavio, e il cibo che sia i discepoli che altri ignoravano: la prima era alla portata di chiunque avesse voluto riceverla, il secondo era riservato a Lui, venuto per rivelare il Padre e l’apertura della dispensazione della Grazia.

Il cibo di Gesù consisteva in due azioni distinte viste nel “fare la volontà di Colui che mi ha mandato” e di “compiere la Sua opera”, strettamente collegate tra loro: la prima, fare la volontà, allude all’attività continua e ininterrotta giorno per giorno tramite la preghiera, la comunione col Padre e la perfetta ubbidienza nei Suoi confronti, la seconda ha riferimento con quel “tutto è compiuto”, sesta frase detta alla croce che precede quel “Padre, nelle tue mani rimetto il mio spirito”.

Compiere è un verbo che usiamo quando abbiamo portato a termine un’azione, un’opera, quando giungiamo al termine di un percorso e implica non solo la sua fine materiale, ma la sua riuscita. Nel caso di Gesù, perfetto esecutore dei voleri e delle aspettative del Padre, abbiamo la perfezione del suo compiere quel “tutto”, vale a dire che nulla era stato tralasciato per la salvezza dell’uomo, cosa possibile solo se quel sacrificio avesse realmente soddisfatto le esigenze di giustizia del Padre viste nell’Agnello di Dio innocente immolato. Senza la perfezione della vita quotidiana di Gesù davanti a Dio Padre, non sarebbero stati possibili i miracoli ed ancor più la Sua resurrezione e quindi la salvezza dell’uomo perché solo la santità, vista nella totale assenza di peccato, avrebbe potuto qualificare il Figlio come l’unico idoneo a riscattare la creatura peccatrice. Abbiamo qui un confronto tra ciò che è divino e santo e ciò che è impuro e peccatore per natura.

L’apostolo Pietro parla del risultato dell’opera di Cristo con queste parole: “…sapendo che non con cose corruttibili, con argento o con oro, siete stati riscattati dal vano modo di vivere tramandatovi dai vostri padri, ma con il prezioso sangue di Cristo, come quello di un agnello senza difetto né macchia. Già designato prima della creazione del mondo, egli è stato manifestato negli ultimi tempi per voi; per mezzo di lui credete in Dio che lo ha risuscitato dai morti e gli ha dato gloria affinché la vostra fede e la vostra speranza siano in Dio” (1 Pietro 1.18-21).

Soffermiamoci un attimo su queste parole: la prima che abbiamo è il riscatto che, nel diritto privato, è la liberazione da un obbligo contrattuale attuata mediante il pagamento di una somma. Nelle parole di Pietro leggiamo che il cristiano è stato riscattato da un modo di vivere “vano”, cioè vuoto, privo di corpo o consistenza materiale, inutile, trasmessogli dai suoi padri che non potevano fare altrimenti. È infatti la vita vuota, resa tale dalla condizione di peccato in cui vive, l’unica che l’uomo può conoscere e trasmettere agli altri: una vita fondata sull’esclusivo soddisfacimento dei propri bisogni perché “cioè che è nato di carne è carne” e che il quotidiano terreno tende a fargli vedere come ricca e significativa. L’argento e l’oro, che nel mondo in cui viviamo sono i soli in grado di riscattare qualcosa – un appartamento, anni di studio, un debito – beni corruttibili soggetti ad essere rubati dai ladri o per noi oggi dalle banche – nulla possono per il riscatto di un’anima. E il “prezioso sangue di Cristo”, agnello senza difetto né macchia, è l’unico in grado di garantire un futuro eterno alla creatura che lo vuole accettare. Se Dio ai tempi dell’Antico Patto richiedeva il sacrificio di un agnello perfetto e puro esteriormente, Cristo ora è l’agnello perfetto e puro nell’esterno e nell’interno, l’unico, vale a dire che Dio Padre, che scruta e vaglia ogni cosa, prima di accettare il sacrificio del Figlio, ha dovuto riconoscerlo come senza difetto né macchia ai suoi occhi. È una questione di idoneità che nessun uomo avrebbe mai potuto avere.

Pietro afferma che Cristo è stato designato prima della creazione del mondo: il “Sia la luce” fu un ordine emanato dunque dopo che Padre, Figlio e Spirito Santo si consultarono sul da farsi una volta che l’uomo e la donna avrebbero peccato perché sapevano che ciò sarebbe avvenuto. Allora, la creatura di Dio non era predestinata ad essere estromessa da Eden, ma a venire creata e recuperata dal Suo amore.

La seconda parte delle parole di Pietro sono affini a quelle dette da Gesù ai discepoli: è per noi che il Figlio è stato manifestato, perché senza di lui crederemmo (forse) in un Dio generico come molti, un creatore nei confronti del quale non sapremmo quali sentimenti provare e soprattutto quali risposte avere su di lui a fronte di molte domande: chi è, cosa vuole, si interessa di noi, può intervenire nella nostra vita, esiste, o siamo il frutto di un incidente molecolare, di un’evoluzione, della fisica quantistica?

Invece, per noi, vista la perfezione della Sua vita e del conseguente sacrificio, Dio lo ha risuscitato dai morti e gli ha dato gloria perché la nostra fede e la nostra speranza siano in Lui. C’è quindi un fine, uno scopo. Fede e speranza in Dio escludono la fede e la speranza nel quotidiano, nelle promesse umane quasi mai mantenute perché la giustizia e l’onore dell’uomo sono suscettibili a enormi variazioni e la scala di valori su cui si basano è quanto mai mobile. Ma sappiamo che “Gesù Cristo è lo stesso di ieri, di oggi e in eterno” (Ebrei 13.8): non cambia, né Lui, né le sue parole che sappiano non passeranno, a differenza del cielo e della terra che conosciamo.

Torniamo ora al nostro episodio, che propone le parole di Gesù ai discepoli espresse tramite una parabola: dal verso 35 in poi il discorso di Gesù passa dalla Sua persona alla loro: nella Sua onniscienza, vede l’opera che stava compiendo nei suoi risultati futuri e la vede non disgiunta da quella dei suoi – allora – cinque discepoli. La visione di Gesù è nel futuro: dalla spiegazione della parabola della zizzania (Matteo 13.24-30) ricaviamo dati importanti: “Colui che semina il buon seme è il Figlio dell’uomo. Il campo è il mondo, il buon seme sono i figli del regno e la zizzania sono i figli del maligno e il nemico che l’ha seminata è il diavolo, mentre la mietitura è la fine del mondo, e i mietitori sono gli angeli. Come dunque si raccoglie la zizzania e si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. Il figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, ed essi raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e gli operatori di iniquità e li getteranno nella fornace del fuoco. Lì sarà pianto e stridor di denti. Allora i giusti risplenderanno come il sole nel regno del padre loro. Chi ha orecchi da udire, oda”.

Queste parole, certo più dettagliate da quelle esposte nel nostro episodio che Gesù non spiegò ai discepoli, ci fanno capire quanto sia importante la funzione di chi collabora con Lui nell’Opera di Dio secondo le sue possibilità e i doni ricevuti: c’è un tempo preciso per la mietitura, un giorno e un’ora che “nemmeno il Figlio conosce, ma solo il Padre”, ma il campo del mondo biondeggia da sempre così come la vigna, altra figura di cui Gesù si serve per spiegare il progetto di Dio; la lettura della parabola degli operai delle diverse ore ci può aiutare (Matteo 20.1-16). Le parole di Gesù che abbiamo letto in questa parabola, oltre alla frase del nostro episodio “io vi ho mandati a mietere ciò per cui non avete faticato; altri hanno faticato, e voi siete subentrati nella loro fatica”, si riferiscono a tutti coloro che nel corso dei secoli si sono adoperati perché Dio si rivelasse, dando ciascuno il proprio contributo a partire da Enosh, figlio di Seth figlio di Adamo in Genesi 4.26 in cui leggiamo “Anche a Seth nacque un figlio e lo chiamo Enosh. Allora si cominciò a invocare il nome dell’Eterno”. Poi, per citarne alcuni, pensiamo a Mosè, ai profeti e allo stesso Giovanni Battista che sarebbe stato messo a morte: tutti avevano lavorato al tempo loro e secondo il mandato loro affidato, per preparare il popolo del patto a ricevere il Messia e il Regno di Dio.

Gesù, quando parla di “mietitura” nei versi oggetto di riflessione, non si riferisce tanto a quella finale, nel giorno del giudizio, il solo in cui verrà definitivamente e una volta per tutte separato il grano dalla zizzania apparentemente simile a lui, ma di quella del guadagnare un’anima a Cristo, che contrassegna già la persona come appartenente a lui per cui distaccata, separata dagli altri uomini che non condividono la fede in Lui.

I mietitori di questo tipo, da non confondere con gli altri visti negli angeli, ricevono un salario e raccolgono frutto per la vita eterna, vale a dire che compiono quelle opere che, alla vagliatura del fuoco secondo 1 Corinti 3.13, resisteranno e avranno un premio: gioire insieme a chi miete. Può accadere, presi nelle nostre occupazioni, che ci dimentichiamo che certe espressioni che troviamo nella Scrittura hanno sempre la perfezione come sostanza: non sarà la gioia che intendiamo noi, ma una gioia perfetta, totale, quella che sarà realizzata in spirito e che i pochi che la videro, come Paolo o Giovanni, si ritrovarono impotenti a descrivere nella sua pienezza.

Concludendo, con la citazione del proverbio “l’uno semina, l’altro miete”, popolare ai tempi di Gesù e che alludeva alla precarietà della vita, Gesù intende dire che dove altri seminarono, Cristo manda i suoi discepoli a mietere; dove poi essi avrebbero seminato nel duro terreno delle genti, altri a loro turno ne avrebbero raccolto il frutto visto nella conversione dei Gentili. Ma, in ogni caso, seminatore e mietitori si rallegreranno insieme”, alla e nella gloria di Dio Padre. Amen.

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02.14 – LA SAMARITANA II/II (Giovanni 4.16-30)

2.14 – La Samaritana II/II (Giovanni 4.16-30)

 

16Le dice: «Va’ a chiamare tuo marito e ritorna qui». 17Gli risponde la donna: «Io non ho marito». Le dice Gesù: «Hai detto bene: «Io non ho marito». 18Infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero». 19Gli replica la donna: «Signore, vedo che tu sei un profeta! 20I nostri padri hanno adorato su questo monte; voi invece dite che è a Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare». 21Gesù le dice: «Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. 22Voi adorate ciò che non conoscete, noi adoriamo ciò che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. 23Ma viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano. 24Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità». 25Gli rispose la donna: «So che deve venire il Messia, chiamato Cristo: quando egli verrà, ci annuncerà ogni cosa». 26Le dice Gesù: «Sono io, che parlo con te». 27In quel momento giunsero i suoi discepoli e si meravigliavano che parlasse con una donna. Nessuno tuttavia disse: «Che cosa cerchi?», o: «Di che cosa parli con lei?». 28La donna intanto lasciò la sua anfora, andò in città e disse alla gente: 29«Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia lui il Cristo?». 30Uscirono dalla città e andavano da lui”.

La seconda parte del dialogo di Nostro Signore con la donna samaritana ha avuto due interpretazioni differenti, una letterale e un’altra allegorica, non priva di qualche fondamento, sulla quale ci soffermeremo ogni tanto. Vediamo che, rispetto alle parole che furono dette alla donna riguardo all’acqua viva, c’è una brusca variazione di argomenti: posto che lei non aveva capito il riferimento all’ “acqua viva” di Gesù, era necessario aprirle un percorso che si concluderà con la rivelazione di essere Lui il Messia; la donna infatti disse infatti “So che deve venire il Messia, chiamato Cristo: quando egli verrà, ci annuncerà ogni cosa”. Da queste parole abbiamo un dettaglio molto importante, cioè che la samaritana credeva che il Messia sarebbe arrivato un giorno, senza sapere quando e se lo avrebbe visto, poiché dice “So che deve venire”, non un generico e scettico “Dicono”.

Rispettando la cronologia del racconto, vediamo che il nuovo contenuto del dialogo è “Va’ a chiamare tuo marito – originale “l’uomo” – e torna qui”. Gesù rivolge questo invito per dimostrare a quella donna la sua conoscenza del percorso che aveva compiuto. La sua risposta “Io non ho marito”, trovò infatti la sua giusta lettura nella replica: “Hai detto bene, «Io non ho marito». Infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero”.

Ecco, qui molti si sono cimentati in diverse interpretazioni, accusando la samaritana di poligamia o di immoralità, oppure altri hanno messo in connessione i cinque mariti della donna con le cinque fasi storiche e le attività idolatre dei samaritani, ma in questo caso Gesù avrebbe detto cose note e non sarebbe stato mai riconosciuto dalla donna come un profeta; al limite, come una persona colta o uno storico. La samaritana, invece, aveva avuto cinque mariti che poi l’avevano ripudiata seguendo le modalità della Legge mosaica e, dopo quei cinque divorzi, era ospitata da una persona che non era suo marito, cioè non aveva rapporti carnali con lei. Non era nemmeno promessa in sposa a qualcuno – perché in tal caso il “fidanzato” sarebbe stato chiamato “marito” – né poteva convivere more uxorio perché inconcepibile per quei tempi. “Non è tuo marito” si deve leggere nel senso “si prende cura di te in un altro modo”, quindi un parente, più o meno lontano.

Occorre fare molta attenzione nella lettura di questo testo, perché si rischia di adattarlo ai nostri tempi e costumi: allora era all’uomo che era concesso divorziare, non alla donna. Così in Deuteronomio 24.1: “Quando un uomo ha preso una donna e ha vissuto con lei da marito, se poi avviene che ella non trovi grazia ai suoi occhi perché ha trovato in lei qualcosa di vergognoso, scriva per lei un libello di ripudio, glielo consegni in mano e la mandi via dalla casa”. A quel punto la donna era libera e poteva diventare moglie di un altro. Non possiamo sapere se gli uomini che avevano ripudiato la samaritana lo avevano fatto perché aveva un carattere difficile perché, per lo meno in Israele, quel “qualcosa di vergognoso” era diventato col tempo un pretesto e poteva anche essere costituito da una minestra mal cucinata o qualsiasi altro difetto che l’uomo desideroso di sbarazzarsi della propria moglie potesse trovare. Questi “difetti” ai tempi di Gesù erano considerati sufficienti per divorziare.

Per la donna ripudiata, se non trovava un altro marito, si apriva un percorso molto difficile: la sua famiglia di origine si sentiva disonorata e non la riprendeva con sé per cui non era infrequente che si avviasse sulla strada della prostituzione per mantenersi. L’innominata samaritana che parlò con Gesù, aveva trovato una sistemazione diversa e, se fosse ospite da un parente misericordioso, a servizio oppure ospite di qualcuno, non sappiamo con certezza. Giovanni ha ritenuto di informarci dettagliatamente sul dialogo intercorso, non sul passato di questa donna che, per il ruolo avuto di testimone, appare sinceramente irrilevante. Se le condizioni spirituali della samaritana fossero state tali da renderla incompatibile col Vangelo, (vedi ad esempio i presuntuosi, religiosissimi farisei) Gesù non le avrebbe parlato, ma se all’inizio dell’episodio abbiamo letto che “doveva passare per la Samaria” nonostante le strade per la Galilea fossero due, ciò implica sia che aveva un appuntamento sia con lei, sia coi suoi conterranei.

Se il Dio che perdona cancella gli errori della persona ponendola nelle condizioni di credere in Lui e quindi avere una vita nuova, a maggior ragione ipotizzare un passato “discutibile” della samaritana appare inutile e fuori luogo. Dio non tiene un inventario di quello che siamo stati, ma quello che stiamo diventando dopo averlo incontrato perché “Le cose vecchie sono passate, ecco, ne sono nate di nuove”: quelle che dobbiamo cercare e scoprire sono quindi le nuove, non le altre, nostre o, ancora peggio, degli altri.

Solo nel caso in cui l’essere umano rifiuta coscientemente e consapevolmente il messaggio del Vangelo “l’ira di Dio permane su di lui” ed ecco perché rifiutare lo Spirito Santo, che convince l’uomo di peccato, è l’unica bestemmia che non sarà perdonata.

C’è, nel colloquio con la samaritana, un crescendo di attenzioni da parte sua e un atteggiamento ben diverso da quello iniziale di diffidenza e, forse, ostilità nei confronti di un giudeo che osava chiederle da bere: “Signore, vedo che tu sei profeta. I nostri padri hanno adorato su questo monte, voi invece dite che è a Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare”. Abbiamo qui un primo riconoscimento, perché il “profeta” non era e non è chi predice il futuro o vede il passato di una persona, ma chi ha una missione spirituale, non terrena. La samaritana quindi passò attraverso tre stadi: un primo diffidente e di ostilità per quanto non sfacciata, un secondo di ascolto perché accettò di conversare con Gesù, e un terzo di riconoscere in Lui un profeta. A questo se ne aggiungerà un quarto, di annuncio ai suoi conterranei.

La seconda parte del versetto è più difficile e ci domandiamo: la donna cerca di cambiare discorso sentendosi imbarazzata e non volendo che Gesù proseguisse a raccontarle la sua vita trascorsa, oppure, visto che aveva di fronte a lei un profeta, ne approfitta per avere una spiegazione autorevole su quale fosse il vero luogo dove adorare, stante la questione teologica che divideva i due popoli? È una domanda che si sono posti in molti. Io credo che Giovanni, che non era presente e scrive ricordando il racconto che gli fece Gesù, abbia scritto solo i punti salienti del dialogo, ma è la reazione della donna a rivelare quanto fosse in attesa di un annuncio: lasciò lì la sua anfora per andare a dire alla gente “Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia lui il Cristo?”. La diffidenza aveva lasciato posto a un senso di possibilità. Altri traducono “Non è costui forse il Cristo?”, ma il senso esatto espresso dalla forma grammaticale suggerisce una parafrasi nel senso di “Potrebbe esserci una benedizione così tra di noi?”.

Torniamo però leggermente indietro: la samaritana non poteva che difendere le sue tradizioni religiose che avevano un iniziale fondamento: aveva il pozzo costruito da Giacobbe, la tomba di Giuseppe, il monte Garizim, quello della benedizione in opposto al monte Ebal (Deuteronomio 11.29), luoghi importanti perché lì si riunirono tutte le dodici tribù, (sei sul Garizim e altrettante sull’Ebal), figura della pienezza dei piani di Dio e delle sue promesse. Se leggiamo Deuteronomio 27.11-26, possiamo vedere la terribile attualità che rivestono anche e oggi quelle parole: “11In quello stesso giorno Mosè diede quest’ordine al popolo: 12«Ecco quelli che, una volta attraversato il Giordano, staranno sul monte Garizìm per benedire il popolo: Simeone, Levi, Giuda, Ìssacar, Giuseppe e Beniamino; 13ecco quelli che staranno sul monte Ebal per pronunciare la maledizione: Ruben, Gad, Aser, Zàbulon, Dan e Nèftali. 14I leviti prenderanno la parola e diranno ad alta voce a tutti gli Israeliti: 15«Maledetto l’uomo che fa un’immagine scolpita o di metallo fuso, abominio per il Signore, lavoro di mano d’artefice, e la pone in luogo occulto!». Tutto il popolo risponderà e dirà: «Amen». 16«Maledetto chi maltratta il padre e la madre!». Tutto il popolo dirà: «Amen».17«Maledetto chi sposta i confini del suo prossimo!». Tutto il popolo dirà: «Amen». 18«Maledetto chi fa smarrire il cammino al cieco!». Tutto il popolo dirà: «Amen». 19«Maledetto chi lede il diritto del forestiero, dell’orfano e della vedova!». Tutto il popolo dirà: «Amen». 20«Maledetto chi si unisce con la moglie del padre, perché solleva il lembo del mantello del padre!». Tutto il popolo dirà: «Amen».21«Maledetto chi giace con qualsiasi bestia!». Tutto il popolo dirà: «Amen». 22«Maledetto chi giace con la propria sorella, figlia di suo padre o figlia di sua madre!». Tutto il popolo dirà: «Amen».23«Maledetto chi giace con la suocera!». Tutto il popolo dirà: «Amen». 24«Maledetto chi colpisce il suo prossimo in segreto!». Tutto il popolo dirà: «Amen». 25«Maledetto chi accetta un regalo per condannare a morte un innocente!». Tutto il popolo dirà: «Amen». 26«Maledetto chi non mantiene in vigore le parole di questa legge, per metterle in pratica!». Tutto il popolo dirà: «Amen».

            Tornando al dialogo con la samaritana, Gesù le ricorda due cose; la prima è che sta per arrivare il momento in cui l’adorazione sarebbe stata resa indipendente da un tempio e da un luogo, la seconda è che “la salvezza viene dai giudei” in riferimento alle promesse del Messia che sarebbe arrivato proprio dalla tribù di Giuda.

Voi adorate quello che non conoscete” era il motivo della presenza di Gesù in mezzo a loro, il motivo per cui “doveva passare per la Samaria”, lo stesso che consentì all’apostolo Paolo di predicare nell’areopago di Atene in Atti 17.22.31: “22Allora Paolo, in piedi in mezzo all’Areòpago, disse:
«Ateniesi, vedo che, in tutto, siete molto religiosi. 23Passando infatti e osservando i vostri monumenti sacri, ho trovato anche un altare con l’iscrizione: «A un dio ignoto». Ebbene, colui che, senza conoscerlo, voi adorate, io ve lo annuncio. 24Il Dio che ha fatto il mondo e tutto ciò che contiene, che è Signore del cielo e della terra, non abita in templi costruiti da mani d’uomo 25né dalle mani dell’uomo si lascia servire come se avesse bisogno di qualche cosa: è lui che dà a tutti la vita e il respiro e ogni cosa. 26Egli creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini, perché abitassero su tutta la faccia della terra. Per essi ha stabilito l’ordine dei tempi e i confini del loro spazio 27perché cerchino Dio, se mai, tastando qua e là come ciechi, arrivino a trovarlo, benché non sia lontano da ciascuno di noi. 28In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, come hanno detto anche alcuni dei vostri poeti: «Perché di lui anche noi siamo stirpe».
29Poiché dunque siamo stirpe di Dio, non dobbiamo pensare che la divinità sia simile all’oro, all’argento e alla pietra, che porti l’impronta dell’arte e dell’ingegno umano. 30Ora Dio, passando sopra ai tempi dell’ignoranza, ordina agli uomini che tutti e dappertutto si convertano, 31perché egli ha stabilito un giorno nel quale dovrà giudicare il mondo con giustizia, per mezzo di un uomo che egli ha designato, dandone a tutti prova sicura col risuscitarlo dai morti».

            Adorare “in spirito e verità” al di fuori quindi del rito, dei sacrifici offerti, del luogo, in una dimensione diversa non più legata e dipendente da intermediari: “l’ora che viene” di cui parlò Gesù alla samaritana fu assolutamente precisa e fu simboleggiata da un evento che sarebbe bastato a convertire chiunque: fu costituito dal momento in cui, alla morte di Gesù, “il velo del tempio si squarciò in due, dall’alto in basso” (Matteo 15.38). Ebbene quel velo, enorme che richiedeva 70 uomini per tirarlo giù, spostarlo e lavarlo, alto circa 20 metri e spesso 10 centimetri che secondo Flavio Giuseppe non sarebbe bastata la forza di due cavalli per lacerarlo, era quello che separava la zona dei sacerdoti dal Santo dei Santi in cui poteva entrare il sommo sacerdote solo una volta all’anno. Un segno più eloquente della fine di quel tempo non poteva esservi.

La samaritana, dopo l’intervento di Gesù sull’adorazione, gli rispose “So che deve venire il Cristo: quando verrà, ci annuncerà ogni cosa. Le dice Gesù: «Sono io, che parlo con te»”. L’innominata donna, profondamente scossa da quelle parole, non poteva dimenticare quanto Gesù le aveva detto: come sappiamo lasciò l’anfora a terra, che l’avrebbe impedita nel cammino, e corse in città parlando a chiunque incontrava. Il risultato è noto:39Molti Samaritani di quella città credettero in lui per la parola della donna, che testimoniava: «Mi ha detto tutto quello che ho fatto». 40E quando i Samaritani giunsero da lui, lo pregavano di rimanere da loro ed egli rimase là due giorni. 41Molti di più credettero per la sua parola 42e alla donna dicevano: «Non è più per i tuoi discorsi che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo»”.

Veramente il salvatore del mondo”, un attestato di fiducia e fede piena che Gesù non trovò mai tra il suo popolo. I Samaritani, inoltre, lo definiscono in un modo nuovo, universale, a differenza dell’ostinata rivendicazione dei giudei. In un certo senso, si tratta di un attributo futuro per cui la gioia di quel popolo è di appartenenza universale. Da notare che il testo originale aggiunge “Il Cristo” dopo “il salvatore del mondo”.

È da notare, per concludere, che i samaritani saranno premiati, confermando la fede avuta in Gesù, diversi anni più tardi, poiché leggiamo nel libro degli Atti: “5Filippo, sceso in una città della Samaria, predicava loro il Cristo. 6E le folle, unanimi, prestavano attenzione alle parole di Filippo, sentendolo parlare e vedendo i segni che egli compiva. 7Infatti da molti indemoniati uscivano spiriti impuri, emettendo alte grida, e molti paralitici e storpi furono guariti. 8E vi fu grande gioia in quella città” (Atti 8.5-8).

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02.13 – LA SAMARITANA I/II (Giovanni 4.1-16)

2.12 – La Samaritana I/II (Giovanni 4.1-16)

 

1 Gesù venne a sapere che i farisei avevano sentito dire: «Gesù fa più discepoli e battezza più di Giovanni» – 2sebbene non fosse Gesù in persona a battezzare, ma i suoi discepoli -, 3lasciò allora la Giudea e si diresse di nuovo verso la Galilea. 4Doveva perciò attraversare la Samaria. 5Giunse così a una città della Samaria chiamata Sicar, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: 6qui c’era un pozzo di Giacobbe. Gesù dunque, affaticato per il viaggio, sedeva presso il pozzo. Era circa mezzogiorno. 7Giunge una donna samaritana ad attingere acqua. Le dice Gesù: «Dammi da bere». 8I suoi discepoli erano andati in città a fare provvista di cibi. 9Allora la donna samaritana gli dice: «Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?». I Giudei infatti non hanno rapporti con i Samaritani. 10Gesù le risponde: «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: «Dammi da bere!», tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva». 11Gli dice la donna: «Signore, non hai un secchio e il pozzo è profondo; da dove prendi dunque quest’acqua viva? 12Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede il pozzo e ne bevve lui con i suoi figli e il suo bestiame?». 13Gesù le risponde: «Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; 14ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna». 15«Signore – gli dice la donna -, dammi quest’acqua, perché io non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua».

È curioso che Giovanni introduca l’episodio con un’annotazione di natura politica che ci informa di quanto fosse attenta l’attenzione dei farisei su tutto ciò che di nuovo si affacciava sulla vita religiosa del Paese: li abbiamo visti inviare i propri informatori quando il Battista svolgeva il suo ministero sulle rive del Giordano e mandare alcuni di loro, con sacerdoti e leviti, per interrogarlo direttamente, evitando di far proprio il messaggio che veniva rivolto a tutti gli ebrei, quindi anche a loro, consistente nel ravvedimento. Le autorità religiose di Israele non ritennero subito Giovanni per loro pericoloso, ma successivamente sì ed è probabile che abbiano avuto un ruolo determinante nel suo arresto e reclusione nel Macheronte, la fortezza di Erode su una collina sulle rive del Mar Morto. Giovanni Battista, come abbiamo, letto si era spostato a svolgere il suo ministero ad Àinon, o Enon, città sulla quale Erode non aveva giurisdizione perché facente parte della città libera di Scitopoli, a sua volta inserita nella Decapoli, autonome e indipendenti dall’impero. Trovandosi però Scitopoli, incuneata fra i due tronconi del territorio di Antipa, la Galilea e la Perea, fu probabilmente facile attirare il Battista con qualche stratagemma nella giurisdizione erodiana e farlo arrestare. Ora che i farisei stavano per liberarsi di lui, o di lui si erano già appena liberati, l’informativa che giunse a loro li mise in allarme perché Gesù faceva più discepoli e battezzava più di Giovanni.

Gesù decise di andare in Galilea non solo perché a conoscenza dei piani che i farisei avrebbero ordito contro di lui – ammesso che non fossero già in atto – ma per un importante dettaglio che ci viene dai Sinottici: Matteo 4.12 scrive “Quando Gesù seppe che Giovanni era stato arrestato, si ritirò nella Galilea, lasciò Nazareth e venne ad abitare a Cafarnao”, Marco 1.14 “Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il Vangelo di Dio”, Luca 3.20 “Ma il tetrarca Erode, rimproverato da lui – Giovanni Battista – a causa di Erodiade, moglie di suo fratello, e per tutte le malvagità che aveva commesso, aggiunse alle altre anche questa: fece rinchiudere Giovanni in prigione”. Su questo fatto torneremo più avanti; per ora basta sapere che il Tetrarca (Antipa), aveva intrecciato una relazione con Erodiade, già moglie di suo fratello Erode Filippo, ancora in vita, che poi sposò macchiandosi così di incesto oltre che di adulterio, essendo considerata la moglie “carne” del proprio marito e viceversa.

Ecco spiegate allora le ragioni dello spostarsi di Gesù dalla Giudea, quella maggiormente dominata dal potere religioso farisaico, alla Galilea: Egli sapeva che, ora che i farisei avevano risolto il problema rappresentato dal Battista, potevano concentrare tutte le loro attenzioni e congiure su di lui. Loro che si ritenevano gli unici depositari della Legge e della sua interpretazione, per non turbare gli equilibri dei rapporti con Erode, nulla avevano detto al re sulla sua relazione illecita.

Per raggiungere la Galilea i percorsi possibili erano due: il primo era molto frequentato e passava per Gerico attraversando la Perea; il secondo era più breve, ma passava per la Samaria, i cui abitanti non erano certo graditi dai Giudei (e viceversa) per le forti rivalità religiose che intercorrevano tra i due popoli. Ebrei e samaritani avevano ciascuno il loro tempio che ritenevano l’unico legittimo. I primi avevano sì la Legge, ma equiparavano la sua autorità alla loro tradizione, mentre i secondi ritenevano legittima la sola Legge data al popolo da Mosè.

I samaritani erano frutto di una mescolanza di razze, per quanto si dichiarassero appartenenti al popolo di Israele e si considerassero discendenti della tribù di Efraim e Manasse. Quando la città di Samaria fu distrutta dagli Assiri nel 721 a.C., questi deportarono la maggioranza degli ebrei e li sostituirono con altra gente di usi e lingue diverse che finì per mescolarsi con i pochi rimasti. Gli stranieri importati nel territorio samaritano avevano portato le loro credenze religiose e i loro culti, ma col passar del tempo prevalse quella dell’Iddio d’Israele, adorato sotto forma di vitello nei due santuari di Dan e Bethel. Più delle molte parole che si potrebbero spendere per spiegare ciò che avvenne nei tempi antichi, si può leggere 2 Re 17.23.41: “…Israele fu deportato dalla sua terra in Assiria, fino ad oggi. 24Il re d’Assiria mandò gente da Babilonia, da Cuta, da Avva, da Camat e da Sefarvàim e la stabilì nelle città della Samaria al posto degli Israeliti. E quelli presero possesso della Samaria e si stabilirono nelle sue città. 25All’inizio del loro insediamento non veneravano il Signore ed egli inviò contro di loro dei leoni, che ne facevano strage. 26Allora dissero al re d’Assiria: «Le popolazioni che tu hai trasferito e stabilito nelle città della Samaria non conoscono il culto del dio locale ed egli ha mandato contro di loro dei leoni, i quali seminano morte tra loro, perché esse non conoscono il culto del dio locale». 27Il re d’Assiria ordinò: «Mandate laggiù uno dei sacerdoti che avete deportato di là: vada, vi si stabilisca e insegni il culto del dio locale». 28Venne uno dei sacerdoti deportati da Samaria, che si stabilì a Betel e insegnava loro come venerare il Signore. 29Ogni popolazione si fece i suoi dèi e li mise nei templi delle alture costruite dai Samaritani, ognuna nella città dove dimorava. 30Gli uomini di Babilonia si fecero Succot-Benòt, gli uomini di Cuta si fecero Nergal, gli uomini di Camat si fecero Asimà. 31Gli Avviti si fecero Nibcaz e Tartak; i Sefarvei bruciavano nel fuoco i propri figli in onore di Adrammèlec e di Anammèlec, divinità di Sefarvàim. 32Veneravano anche il Signore; si fecero sacerdoti per le alture, scegliendoli tra di loro: prestavano servizio per loro nei templi delle alture. 33Veneravano il Signore e servivano i loro dèi, secondo il culto delle nazioni dalle quali li avevano deportati. 34Fino ad oggi essi agiscono secondo i culti antichi: non venerano il Signore e non agiscono secondo le loro norme e il loro culto, né secondo la legge e il comando che il Signore ha dato ai figli di Giacobbe, a cui impose il nome d’Israele. 35Il Signore aveva concluso con loro un’alleanza e aveva loro ordinato: «Non venerate altri dèi, non prostratevi davanti a loro, non serviteli e non sacrificate a loro, 36ma venerate solo il Signore, che vi ha fatto salire dalla terra d’Egitto con grande potenza e con braccio teso: a lui prostratevi e a lui sacrificate. 37Osservate le norme, i precetti, la legge e il comando che egli ha scritto per voi, mettendoli in pratica tutti i giorni; non venerate altri dèi. 38Non dimenticate l’alleanza che ho concluso con voi e non venerate altri dèi, 39ma venerate soltanto il Signore, vostro Dio, ed egli vi libererà dal potere di tutti i vostri nemici». 40Essi però non ascoltarono, ma continuano ad agire secondo il loro culto antico. 41Così quelle popolazioni veneravano il Signore e servivano i loro idoli, e così pure i loro figli e i figli dei loro figli: come fecero i loro padri essi fanno ancora oggi”.

Da quel tempo a quello di Gesù erano cambiate alcune cose: ai samaritani, disprezzati dagli ebrei e ritenuti assolutamente impuri, non fu concesso di partecipare alla ricostruzione del Tempio di Gerusalemme e da allora tra giudei e loro nacque una profonda inimicizia. Quel popolo costruì un proprio tempio sul monte Gherizim, poi distrutto 150 anni prima di Gesù da Giovanni Ircano I, re di Giuda e sommo sacerdote. Ciò acuì ulteriormente l’inimicizia tra i due popoli.

Il Maestro, quindi, arriva a un pozzo che esiste ancora oggi, profondo circa 35 metri, da solo, verso mezzogiorno, ed è impossibilitato a bere perché sprovvisto del necessario per attingere acqua, cioè di un recipiente e ancor di più di una lunga corda per calarlo. Anche Sichar esiste ancora, col nome di Askar e il pozzo dista da lei poche centinaia di metri. A 300 metri dal pozzo, c’è la tomba di Giuseppe dove attualmente vengono scortati a pregare i coloni israeliani in aperto conflitto con la popolazione araba alla quale, in quelle occasioni, è impedito di circolare liberamente. È questo un dato triste, ma che verrà utile per le riflessioni che potremo fare in altri studi.

A questo punto abbiamo l’incontro con la persona che Gesù aspettava, una donna particolare che in un certo senso farà da ponte tra Lui e il popolo samaritano: arriva poco dopo per attingere acqua e Gesù le chiede di farlo bere. La risposta che ottiene testimonia la situazione di tensione esistente tra Giudei e quella popolazione, ma Nostro Signore sposta immediatamente la questione sulla differenza tra l’acqua che avrebbe ricevuto dalla donna e quella che lui avrebbe potuto darle. Qui, pensando alla funzione vitale di questo elemento, ci viene immediatamente il ricordo di una frase che Gesù dette poco tempo addietro, citando la Scrittura, a Satana: “L’uomo non vive di solo pane, ma di ogni parola che procede dalla bocca di Dio”. Là abbiamo avuto il pane, figura di ciò che nutre il corpo, qui abbiamo l’acqua che lo fa vivere, dove il corpo è la figura dell’anima, paragone che la donna non comprende perché gli dice “Signore, dammi di quest’acqua, perché io non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua”.

Gesù però parlava di un’acqua viva, quella che solo lui avrebbe potuto e può dare, e lo fa con parole che trovavano le loro radici nei rotoli dei profeti. Infatti: “Attingete acqua con gioia alle sorgenti della salvezza” (Isaia 12.3); “Io verserò acqua sul suolo assetato, torrenti sul terreno arido” (44.3), ma ancor più Geremia 2.12 quando il profeta rimprovera il popolo per bocca di Dio: “Oracolo del Signore. Due sono le colpe che ha commesso il mio popolo: ha abbandonato me, sorgente di acqua viva, e si è scavato delle cisterne, cisterne piene di crepe, che non trattengono l’acqua”. Il paragone è sempre attuale nonostante siano passati secoli. In quest’ultimo passo e nelle parole di Gesù si parla di una differenza sostanziale tra l’acqua naturale, che disseta temporaneamente, e quella viva, che risolve il problema per sempre. Nel passo di Geremia il popolo aveva abbandonato l’unica sorgente possibile e aveva costruito delle cisterne che Dio definisce “piene di crepe, che non trattengono acqua” con una descrizione appropriata di quei manufatti che, viene da pensare, crepati materialmente non fossero, ma spiritualmente sì. Le cisterne che il popolo si era costruito costituivano un’alternativa per calmare una sete diversa, quella della carne. “Ha abbandonato me, sorgente di acqua viva”, cioè ha rifiutato di vivere per e di fede, dimenticando tutte le volte in cui il Signore aveva dimostrato tutto il suo piano per loro e la sua assistenza. “E si è scavato”, cioè ha voluto farlo, ha scelto, ha faticato pur di avere una esistenza lontana da lui: acqua per acqua, era meglio quella della “libertà”, dell’autonomia umana del tutto apparente e vana, piuttosto che quella che poteva essere raccolta direttamente alla fonte; per farlo, però, bisognava essere fedeli e avere soprattutto quell’atteggiamento che viene naturale una volta sottomessi a Dio. E viene qui in mente il “gran comandamento”, allora in embrione, dichiarato da Gesù a un anonimo dottore della legge in Matteo 22.37: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. È da lì e solo da lì che si sviluppa il rapporto Creatore – creatura e l’abbandonare la sorgente di acqua viva per bere alle cisterne rivela proprio quel distacco che si produce quando si ascoltano le interferenze della vita materiale che chiama ad altro, sempre in opposizione al richiamo di Dio.

Torniamo alla roccia in Horeb, figura velata del Figlio sempre presente: parlando di lei e del popolo di allora, Paolo scrive “…e tutti bevvero la stessa bevanda spirituale, perché bevevano alla stessa roccia che li seguiva, e la roccia era Cristo. Ma la maggior parte di loro non fu gradita a Dio e perciò furono sterminati nel deserto” (1 Corinti 10.4,5). Ecco perché, tanto al tempo della samaritana quanto ai nostri, è solo Cristo che può dare quell’acqua, con effetti totalmente nuovi visti in due distinti periodi: “Chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno”, condizione presente e futura ben diversa da quella dell’uomo ricco che, nella parabola del povero Lazzaro, trovandosi nei tormenti, disse ad Abrahamo “Abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito, perché questa fiamma mi tortura” (Luca 16.24).

L’acqua che solo Gesù può dare esenta dalla sete spirituale per sempre perché coinvolge profondamente la parte più intima dell’anima e dello spirito, i più suscettibili a provare un’insoddisfazione riguardo ai quali la carne, che beve l’acqua naturale, non sa come comportarsi: non esistono cose sulla terra in grado di placare la sete dell’anima. Gli interessi e passioni che possiamo avere, se coltivate anche seriamente e come teoricamente meriterebbero, si rivelano alla fine come un placebo perché viene, o verrà, sempre il punto in cui, tirando le somme, si scoprirà puntualmente di non aver realizzato nulla. Ci si ritroverà, al limite, con dei beni materiali che un giorno passeranno ad altri.

Il fatto di prendere l’acqua che disseta per sempre implica il chiederla a Cristo, il fidarsi di lui sapendo che dà a chi chiede: “Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chi chiede ottiene, chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto. Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pane, gli darà una pietra? O se gli chiede un pesce, gli darà al suo posto una pietra? Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!” (Luca 11.9). Ecco allora che, con queste parole, Gesù parla della necessità che ha l’essere umano di cambiare ottica: cercare la vita, l’acqua viva, è la prima cosa necessaria che non può non venire data, è quel valore inestimabile, che la maggioranza sottovaluta, descritto in Isaia 55.1-3: “O voi tutti che siete assetati, venite alle acque; voi che non avete denaro – idoneo a comprare quelle cose – venite, comprate e mangiate. Venite, comprate senza denaro, senza pagare, vino e latte. Perché spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro guadagno per ciò che non sazia? Su, ascoltatemi e mangerete cose buone e gusterete dei cibi succulenti. Porgete l’orecchio e venite a me, ascoltate e vivrete”.

La seconda parte del verso che riporta le parole di Gesù alla samaritana dice “L’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna”. Non sarà questa la prima volta che parlerà in questo modo: l’ultimo giorno in cui si celebrava la festa della Capanne, che commemorava il pellegrinaggio del popolo d’Israele nel deserto, disse gridando “Se qualcuno ha sete, venga a me e beva. Chi crede in me, come dice la Scrittura, fiumi d’acqua viva usciranno dal suo grembo. Questo disse dello Spirito che avrebbero ricevuto quanti avrebbero creduto il lui: infatti non vi era ancora lo Spirito, perché Gesù non era stato ancora glorificato” (Giovanni 7.37,38).

Ecco perché, alla samaritana, Gesù parla di un’acqua che avrebbe dato al futuro e non al presente: “L’acqua che io gli darò”. Lo Spirito sarebbe stato quindi una sorgente d’acqua zampillante, non fluente dalla terra o da una roccia, ma dal credente stesso, il cui unico scopo sarebbe stato in vista della vita eterna. Sarebbe stata quindi una caratteristica, una consolazione, un orientamento nel percorso, più o meno lungo, nella vita terrena sotto la prospettiva di quella eterna, una caparra.

Infatti “È Dio stesso che ci conferma, insieme a voi, in Cristo e ci ha conferito l’unzione, ci ha impresso il sigillo e ci ha dato la caparra dello Spirito nei nostri cuori” (2 Corinti 1.22,23). E la “caparra” è un termine tecnico giuridico che, nel diritto civile, è una somma di denaro o una quantità di altre cose fungibili versata a titolo di reciproca e mutuale garanzia contro l’inadempimento di un contratto. La caparra dello Spirito, è data in questo caso da Dio all’uomo.

Possono degnamente concludere questa prima parte le parole dell’apostolo Paolo che spiega la realtà di chi ha scelto di appartenere a Cristo: “Sappiamo infatti che quando sarà distrutta la nostra dimora terrena, che è come una tenda, riceveremo da Dio un’abitazione, una dimora non costruita da mani d’uomo, eterna, nei cieli. Perciò, in questa condizione, noi gemiamo e desideriamo rivestirci della nostra abitazione celeste purché siamo trovati vestiti, non nudi. In realtà quanti siamo in questa tenda sospiriamo come sotto un peso, perché non vogliamo essere spogliati, ma rivestititi, affinché ciò che è mortale venga assorbito dalla vita. E chi ci ha fatti proprio per questo è Dio, che ci ha dato la caparra dello Spirito” (2 Corinti 5.1-5).

La Samaritana, persona concreta, stupita che un giudeo le parlasse, prese alla lettera le parole di Gesù chiedendogli di dare quell’acqua anche a lei, risparmiandole così la fatica di venire tutti i giorni al pozzo ad attingere.

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02.12 – L’AMICO DELLO SPOSO (Giovanni 3.22-36)

2.11 – L’amico dello sposo (Giovanni 3.22-36)

 

22Dopo queste cose, Gesù venne con i suoi discepoli nel territorio della Giudea, e là rimase con loro e battezzava. 23Ora anche Giovanni battezzava in Enon, vicino a Salim, perché là c’era abbondanza di acqua e la gente veniva e si faceva battezzare 24perché Giovanni non era ancora stato gettato in prigione. 25Sorse allora una discussione da parte dei discepoli di Giovanni con i Giudei attorno alla purificazione. 26Così vennero da Giovanni e gli dissero «Maestro, chi era con te al di là del Giordano, a cui hai reso testimonianza, ecco che battezza tutti quelli che vanno da lui» 27Giovanni rispose e disse: «L’uomo non può ricevere nulla, se non gli è dato dal cielo. 28Voi stessi mi siete testimoni che io ho detto «Io non sono il Cristo, ma sono stato mandato davanti a lui». 29Colui che ha la sposa è lo sposo, ma l’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta, si rallegra grandemente alla voce dello sposo; perciò la mia gioia è completa. 30Bisogna che egli cresca e che io diminuisca. 31Colui che viene dall’alto è sopra tutti; colui che viene dalla terra è della terra e parla della terra; colui che viene dal cielo è sopra tutti. 32Egli attesta ciò che ha visto e udito, ma nessuno riceve la sua testimonianza. 33Colui che ha ricevuto la sua testimonianza ha solennemente dichiarato che Dio è verace. 34Infatti colui che Dio ha mandato proferisce le parole di Dio, perché Dio non gli dà lo Spirito con misura. 35Il Padre ama il Figlio e gli ha dato in mano ogni cosa. 36Chi crede nel Figlio ha vita eterna, ma chi non ubbidisce al Figlio non vedrà la vita, ma l’ira di Dio dimora su di lui»”.

Dopo il discorso di Gesù a Nicodemo, abbiamo le parole del Battista ai suoi discepoli che mette a confronto la sua opera con quella di Gesù che, dopo quel colloquio, ritenendo di aver concluso la sua permanenza in città, fosse meglio rivolgersi alle zone di campagna circostanti. Si mise così a predicare battezzando proprio come faceva Giovanni Battista che si trovava ad Enon (o Ainon) più a Nord anche se, come leggiamo in Giovanni 4.2, “non era Gesù a battezzare, ma i suoi discepoli”. Ci fu una disputa sulla “purificazione” con un giudeo, nei testi più accreditati al singolare e non al plurale, sulla differenza tra il purificarsi secondo la tradizione e quella del battesimo predicato da Giovanni e quello dai discepoli di Gesù, allora ancora identici nella forma e nella sostanza.

Giovanni, prima dell’inizio della vita pubblica di Gesù, era l’unico accreditato ad amministrare il battesimo in quanto era colui che Dio aveva designato per essere la “Voce d’uno che grida nel deserto «Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri»”. Non era ancora venuto il tempo in cui Gesù avrebbe detto a chi guariva “La tua fede ti ha salvato” e i miracoli fatti in Gerusalemme avevano lo scopo di qualificarlo esattamente come disse Nicodemo: “Noi sappiamo che nessuno può compiere i segni che tu fai, se Dio non è con lui”.

I discepoli di Giovanni, evidentemente convinti dell’unicità della predicazione del loro Maestro, avevano preso con una certa gelosia la notizia in base alla quale Gesù predicava e battezzava al pari suo, interrogati forse sulla eventuale differenza tra i due battesimi e sul perché uno amministrasse in un luogo e l’altro in un altro. Le parole dei suoi discepoli, con quell’ “a cui hai reso testimonianza” mostrano quanto non avessero capito che era in atto un profondo mutamento nella storia della salvezza, quasi a sottintendere “Guarda, tu l’hai qualificato davanti a tutti i presenti come l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo, e lui ti ricambia in questo modo”; per questo era necessario un distinguo tra di due ruoli, tra il privilegio che aveva avuto Giovanni, “mandato davanti a lui” e la persona del Cristo, dell’inviato con un unzione non umana, profondamente diversa per compiti e origine. E Giovanni Battista si qualifica, con un termine che per i lettori del vangelo è nuovo, “l’amico dello sposo”, proponendo un tema che verrà poi sviluppato in particolare dall’apostolo Paolo. L’insegnamento del Battista potrà essere qui visto per sommi capi e verrà ripreso più avanti, quando Gesù esporrà delle importanti parabole su questo tema.

Il distinguo tra le opere del precursore del Messia e il Messia stesso è definito con vari concetti e una premessa in base alla quale “L’uomo non può ricevere nulla se non gli è dato dal cielo” là dove il ricevere implica anche, nel verbo greco originale, “prendere”. I doni di Dio vengono dispensati, ma tocca al destinatario – appunto – prenderli e usarli, come nella parabola dei talenti esposta in Luca 19.12-27 (leggere) che ci parla di un uomo che parte per un paese lontano per ricevere il titolo di re e tornare, e dei servi che prendono dalle sue mani una moneta d’oro per farle fruttare nell’attesa.

Giovanni dice ai suoi discepoli, con questa frase, che solo nel caso di un dono dall’alto vi può essere un risultato, altrimenti la sostanza, il raccolto incorruttibile, non può esistere, come testimoniato dalle vicende esposte da Gamaliele e di cui abbiamo parlato in un’altra riflessione a proposito dei tanti sorti dal nulla che pretendevano di essere il Messia o un suo inviato, che poi scomparvero sepolti dalla storia o, nella storia della Chiesa, tanti fautori di errori interpretativi penalizzanti alcuni durati pochi anni, altri esistenti ancora oggi. Ogni uomo mandato veramente da Dio ha un’opera e un campo d’azione assegnatogli a prescindere da titoli e riconoscimenti umani; nel caso di Giovanni il ruolo che aveva era quello di essere “mandato davanti a lui” sì come voce nel deserto, ma anche come “amico dello sposo”, definizione nuova che non troveremo più, nella Scrittura, per nessun altro.

L’amico dello sposo, per i matrimoni di allora, chiamato dai greci Paranymphos, era l’incaricato di tutti i preliminari del matrimonio ed aveva una funzione tecnico-giuridica: domandava la mano della sposa, stringeva il contratto di matrimonio stabilendo la sua dote, preparava e presiedeva la festa nuziale e l’onore che aveva era direttamente proporzionale al rango delle due famiglie. Si trattava di un incarico delicato che richiedeva una fiducia assoluta e un’amicizia intima tra lo sposo e il suo amico. Per usare questi termini, sicuramente alla presenza dell’apostolo Giovanni e forse anche degli altri tre (Andrea, Pietro e Giacomo), il Battista doveva avere ricevuto un insegnamento molto profondo dallo Spirito perché vide, anche se in modo diverso, ciò che descrive il suo omonimo discepolo, poi diventato apostolo, in Apocalisse quando scrive “Udii poi come una voce di una folla immensa, simile a fragore di grandi acque e a rombo di tuoni possenti, che gridavano «Alleluia! Ha preso possesso del suo regno il Signore, il nostro Dio, l’Onnipotente. Rallegriamoci ed esultiamo, rendiamo a lui gloria, perché sono giunte le nozze dell’Agnello; la sua sposa è pronta: le fu data una veste di lino puro e splendente». La veste di lino sono le opere giuste dei santi” (19.6-8).

Qualificandosi così davanti a quei discepoli, Giovanni Battista fa un paragone perfetto. Lui preparava, poneva le basi per una Chiesa di cui, pur dovendo ancora formarsi, ne vedeva le sembianze nel suo futuro immediato e lontano, mentre l’apostolo la vide in tutta la sua perfezione nella visione della Gerusalemme celeste in cui “quelli che sono scritti nel libro della vita dell’Agnello” formeranno un tutt’uno con essa (Apocalisse 21.9-27). Giovanni Battista, da uomo attento e consapevole del proprio ruolo, sa che il momento in cui dovrà farsi da parte è imminente: “Bisogna che lui cresca e che io diminuisca” (v.30) e infatti la sua funzione diminuirà in modo proporzionale a quella con cui Gesù illuminava le persone coi suoi insegnamenti indicando la via verso il cielo, cioè lui stesso: “Io sono la via, la verità e la vita”. È l’amore vero, quello che non cerca il tornaconto personale, ma l’altrui. L’apostolo Paolo, poi, si servirà della relazione tra Cristo e la Chiesa per descrivere il rapporto matrimoniale tra credenti consapevoli: “Mariti, amate le vostre mogli come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola con il lavacro dell’acqua mediante la parola, e per presentare a se stesso la Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata” (Efesi 5.25-27).

Le parole di Giovanni Battista furono capite dai suoi discepoli, segno che non si era limitato a predicare il ravvedimento, ma aveva comunicato loro anche il piano di Dio tanto per il popolo eletto quanto per tutti quelli che sarebbero venuti un giorno, spiegando loro quanto fossero fuori luogo i sentimenti tipicamente umani che provavano, gli stessi che animarono poi i discepoli di Cristo quando gli dissero “Maestro, abbiamo visto uno che scacciava i demoni nel tuo nome e volevamo impedirglielo – originale “noi glielo impedivamo” – perché non ci seguiva” (Marco 9.38). Il problema non era che i discepoli di Gesù battezzassero e la gente accorresse a lui, ma la distinzione dei ruoli: stava per arrivare il tempo in cui Giovanni avrebbe dovuto mettersi da parte e Gesù diventare sempre più importante, accentrando su di sé la predicazione sostenuta dai miracoli, ciascuno dei quali illuminanti per i significati spirituali che rivestono. “Lui deve crescere, io invece diminuire” sono parole molto importanti, un rimprovero amorevole a quei discepoli che invece avrebbero voluto vedere il loro maestro crescere di importanza stante la vita che aveva condotto e la gente che veniva ad ascoltarlo: Giovanni, con quelle parole, ricorda loro che non aveva mai nascosto di essere un semplice messaggero: “Dopo di me, viene uno che è più grande di me”. Quel “più grande di me” era arrivato e non era uno qualunque, ma uno che “viene dall’alto” ed “è al di sopra di tutti” perché “viene dal cielo”, cioè da un luogo alto, inaccessibile, è l’unico che possa avere l’autorità per parlare di cose che altrimenti sarebbero ignorate e lo fa non perché ha studiato, ma “attesta ciò che ha visto e udito”.

In pratica, senza di lui, senza la sua voce che molti udirono allora ma che noi leggiamo, proseguiremmo la nostra esistenza nelle tenebre dell’ignoranza. Ecco il perché “Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una gran luce”! Ogni essere umano cammina alla luce del giorno, se non altro per un certo numero di ore per cui non ha bisogno di una luce supplementare a meno che questa non sia per illuminare la parte nascosta di lui, quella spirituale.

L’uomo, da solo, non ha modo di conoscere la verità. Lo dimostra la ricerca millenaria di un senso della vita attraverso la filosofia e la religione che, a volte, può anche giungere a frammenti di vero perché un cuore e una mente onesta non possono non pervenire alla conclusione che ciò che abbiamo è illusorio e non può salvare, ma qui il discorso è profondamente diverso: la verità è una, non irraggiungibile anzi vicina perché c’è chi l’ha portata e spiegata; uno che viene dall’alto, è al di sopra di tutti, che attesta ciò che ha visto e udito, verbi che non lasciano scampo perché escludono il sentito dire o una libera interpretazione di cui tanti si nutrono.

Come già avvenuto nel colloquio con Nicodemo nei versi da 16 a 21, non si può escludere che in quelli da 31 a 36 che stiamo leggendo vi sia un intervento dell’evangelista, essendovi parentela di contenuti e di forma col primo capitolo, l’inno di apertura, ma poco cambia perché l’apostolo Giovanni, eventuale autore dei versi, in questo caso estende i concetti che il Battista aveva ben chiari, salvo un dubbio che lo attanagliò quando era imprigionato nella fortezza del Macheronte sotto Erode Antipa: “Sei tu quello che deve venire, o dobbiamo aspettarne un altro?

Egli attesta ciò che ha visto e udito, eppure nessuno accetta la sua testimonianza”, “nessuno” usato per contrapposizione al “chi” successivo, che “conferma che Dio è veritiero” e il confronto “nessuno – chi” lo troviamo nell’episodio dei dieci lebbrosi guariti in Luca 17.11-19: qui, leggiamo che uno solo, samaritano quindi non appartenente alla congregazione di Israele, con gli altri nove ebrei che guarivano lungo il cammino, tornò indietro prostrandosi davanti a Gesù per ringraziarlo. “Ma Gesù osservò «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio all’infuori di questo straniero?» E gli disse «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato”.

A questo punto, abbiamo una descrizione dello sposo: “Colui che Dio ha mandato dice le parole di Dio: senza misura Egli dà lo spirito. Il Signore gli ha dato in mano ogni cosa”. Chi ha parlato delle cose del cielo, che ha visto e udito, non è un ambasciatore: ricordiamo le parole “Ogni potere mi è stato dato in cielo e sulla terra” (Matteo 28.18), che l’apostolo Paolo spiegò agli Efesini con queste parole: 1…7affinché il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui; 18illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi 19e qual è la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi, che crediamo, secondo l’efficacia della sua forza e del suo vigore. 20Egli la manifestò in Cristo, quando lo risuscitò dai morti e lo fece sedere alla sua destra nei cieli 21al di sopra di ogni Principato e Potenza, al di sopra di ogni Forza e Dominazione
e di ogni nome che viene nominato non solo nel tempo presente ma anche in quello futuro.
22 Tutto infatti egli ha messo sotto i suoi piedi e lo ha dato alla Chiesa come capo su tutte le cose:
23essa è il corpo di lui, la pienezza di colui che è il perfetto compimento di tutte le cose”
(Efesini 1.20-22). “Perché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami Gesù Cristo è il Signore» a gloria di Dio Padre” (Filippesi 2.10,11). Ogni cosa il Padre ha dato il mano al Figlio, l’unico ad averlo rivelato.

E per concludere, Giovanni conclude il suo intervento con parole di netta separazione, le stesse che costituirono la prima azione di Dio alla creazione, quando con la luce divise la luce dalle tenebre: “Chi crede nel Figlio ha la vita eterna; chi non obbedisce al Figlio non vedrà la vita, ma l’ira di Dio rimane su di lui”.

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02.11 – HA TANTO AMATO IL MONDO (Giovanni 3.16-21)

02.11 – Ha tanto amato il mondo (Giovanni 3.16-21)

 

16Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. 17Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. 18Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio. 19E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. 20Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. 21Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio».”.

Attorno a questi versi esistono due possibilità “tecniche” da parte degli studiosi del Nuovo testamento: la prima tende a leggerli come un commento di Giovanni alle parole di Gesù a Nicodemo, che avrebbe finito il suo discorso mettendo a confronto il serpente di rame con la croce, e la seconda li considera come il suo naturale proseguimento. A favore della prima ipotesi, in effetti, c’è una notevole somiglianza con il modo che ha Giovanni di introdurre il suo Vangelo presentando la persona e l’opera di Gesù e la funzione del “Figlio” qui descritta. Se questo appare plausibile, il fatto che la definizione di “vita eterna” venga data a Nicodemo al verso 15 e sia ribadita al 16 con relativa spiegazione, rende valida anche la seconda, facendo parlare Gesù in terza persona. Nostro Signore dà di sé due definizioni: prima “Figlio dell’uomo”, con cui presenta la propria umanità, poi “Figlio di Dio unigenito” a sottolineare la Sua regalità ed unicità quale via per la vita. Dobbiamo poi notare il paragone col serpente di rame: se l’ebreo che veniva morso – da sottolineare mortalmente – guardava l’effigie del serpente di rame posta in alto e guariva, oggi l’uomo, incompatibile con Dio a causa del peccato, se allo stesso modo guarda con fede al Figlio, trova con Lui compatibilità, perdono e assume la dignità di figlio di Dio. Qui si aprirebbero una quantità davvero grande di applicazioni, ma per questioni di ordine atteniamoci al testo: “Dio ha tanto amato il mondo”. Quale? Quello che ha creato alle origini in cui la parola “buono” ricorre per sei volte più una, quando troviamo scritto, a commento del sesto giorno, “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona”. L’universo ed il mondo creato, però, erano stati fatti in funzione della sua creatura per eccellenza, fatta – allora – davvero a Sua immagine e somiglianza, per cui ha continuato ad amarla nonostante il peccato. E il vestito fatto ai nostri progenitori al posto delle foglie di fico lo conferma.

Anche lì l’essere umano lasciò trasparire la sua profonda inettitudine e inadeguatezza a sapersi gestire da solo e il vestito di Dio, fatto con pelli di animali, manifestava anche la Sua assistenza nonostante l’offesa data dal peccato consistente, al di là della disubbidienza all’unico comandamento ricevuto, nel voler essere come lui. Dio quindi, pur imponendo all’uomo un’esistenza che poteva essere solo quella che sarebbe stata dalla sua estromissione da Eden in poi, essendo diventato incompatibile con quell’ambiente santo, aveva un piano di riscatto che avrebbe potuto essere molto più breve se solo la sua creatura avesse voluto comprenderlo. Basti pensare al vagabondare per il deserto a causa della poca fede, ma soprattutto alla mancanza di amore nei confronti del loro Dio che aveva dato innumerevoli volte prova del Suo voler assistere in ogni modo il popolo che aveva eletto.

Dio ha amato il mondo a tal punto da dare il proprio figlio unigenito. Non è cosa da poco e non è facile da capire, ma parafrasando, visto che Gesù ebbe a dire “Io e il Padre siamo uno”, possiamo dire “A tal punto da rinunciare ad una parte di sé”. E il sacrificio attraverso la morte del Figlio, nonostante gli ebrei dicano che Dio non può morire – e infatti risorse – è vista con queste parole: “Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. A maggior ragione ora, giustificati nel suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui.” (Romani 5.7-9).

Morto per noi, per tutti quelli che sarebbero venuti dopo di lui, ma anche per quelli che avevano vissuto prima, addirittura ai tempi del diluvio perché nei tre giorni in cui fu sepolto, secondo le parole dell’apostolo Pietro, “…Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nel corpo, ma vivo nello spirito; e nello spirito andò a predicare l’annuncio anche agli spiriti che erano in carcere. Che furono ribelli, quando la pazienza di Dio aspettava ai giorni di Noè mentre si fabbricava l’arca nella quale poche persone, otto in tutto, furono salvate attraverso l’acqua” (1 Pietro 3. 18-20). “Carcere” inteso come la parola ebraica “Sheol”, cioè “soggiorno – o “regno” – dei morti”, corrispondente dell’ “Ades” pagano, luogo invisibile in cui le anime dei morti restavano, entrambi posti di cui Gesù ha le chiavi: “Ero morto, ma ora vivo per sempre, e ho le chiavi della morte e degli inferi” (Apocalisse 1.18).

Anche questo rientra nella settima e ultima frase detta da Gesù sulla croce, “Tutto è compiuto”, che ci parla di un “tutto” di perfezione, di un’opera compiuta nella sua interezza: il sacrificio dell’Agnello di Dio era avvenuto, le porte del perdono si erano aperte non solo per quelli che avrebbero creduto da lì in poi, ma anche per tutti coloro che del Vangelo non avevano potuto sentire parlare nei tempi antichi. L’apostolo Pietro scrive così, ma per non lasciare l’impressione che la predicazione dell’annuncio del Vangelo si sia rivolto solo agli spiriti vissuti al tempo di Noè, scrive sempre nella stessa lettera in 4.6 “Anche ai morti è stata annunciata la buona novella affinché siano condannati come tutti gli uomini nel corpo, ma vivano secondo Dio nello Spirito”.

Quindi l’uomo, che ha un appuntamento con la morte del proprio involucro esterno, può avere un appuntamento con la Vita conservando quella parte di lui che ha una particolarissima caratteristica: quando il Creatore rese Adamo “anima vivente”, gli soffiò nelle nari “un alito di vita”, il solo a poterlo rendere come poi è stato descritto. È questo alito che rende ciascun essere umano unico perché portatore sia di quell’alito sia della propria volontà, il proprio essere.

L’amore di Dio non parla di condanna: il Figlio è stato mandato perché “Il mondo sia salvato per mezzo di lui”. Qui c’è un particolare a favore dell’ipotesi in base alla quale le parole fossero indirizzate a Nicodemo, perché era opinione presso gli ebrei che il Messia, oltre a rendere vittorioso Israele su tutti gli altri popoli, li avesse giudicati e condannati. Questa è una visione futura che ha attinenza al ritorno di Cristo sulla terra, ma non alla sua prima venuta perché l’uomo potesse essere salvato attraverso di Lui. Non era però quello il tempo e la parola “mondo”, che compare per tre volte nei versi in esame, conferma l’universalità del messaggio dell’amore di Dio che, se nei tempi antichi aveva già provveduto a dividere quanti osservavano la Sua Legge da quanti la disprezzavano, adesso fa la stessa cosa tra quanti credono nel figlio e quanti lo respingono: rifiutando la croce, si condannano da soli. Ecco perché “Chi crede in lui non è condannato, ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’Unigenito Figlio di Dio”. “Credere” è un atto di comprensione. È la confessione della propria inferiorità, dell’appartenere al nulla senza Cristo, dell’aspirare a cose diverse da quelle che il mondo, su cui Satana ha potestà, offre. Credendo, alla fine dei conti, l’uomo pone fine al proprio orgoglio e pone in atto una profonda revisione di tutta la propria vita. Gli esempi sono davvero tanti, ma credo che più di tutti valga l’episodio dei due ladri crocifissi assieme al Signore che troviamo in Luca 23.39-43. Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!». L’altro invece lo rimproverava dicendo: «Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male». E disse: «Gesù, ricòrdati di me quando entrerai nel tuo regno». 43Gli rispose: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso». Sono due modi di intendere la propria vita: uno non ha ancora accettato la morte, accomuna Gesù alla sua categoria e vorrebbe farne un complice, l’altro invece trova nelle sofferenze il modo per confessare una vita fondata su valori errati. Entrambi, per come parlano, dimostrano di avere sentito parlare di Lui e di avere anche riflettuto, ma solo uno parla del “regno”, dimostrando di credergli. La risposta: “Amen ti dico: oggi sarai con me nel paradiso”.

Che Nostro Signore a Nicodemo, o Giovanni ai suoi lettori, si rivolge agli uomini di allora come di oggi, parla di salvezza o giudizio e, nei versi dal 19 al 21 che abbiamo letto, ne spiega il significato. “La luce è venuta nel mondo”. impossibile non vederla, non riconoscerla, esserne attratti. Se questo non avviene, significa che questa dà fastidio, essendo il contrario dell’oscurità. Non si tratta di amare la notte più del giorno come accade per le persone, ma di una scelta di metodo: “hanno amato le tenebre più che la luce, perché le loro opere erano malvagie”. “Tenebre” e ”Luce” sono due opposti, due mondi distinti in cui non esiste un punto neutro di passaggio. Un’alba o un tramonto: “Chi non è con me, è contro di me e chi non raccoglie con me, disperde” (Luca 11.23). Questo interessante passo propone una verità collegata alla divisione, all’appartenenza a due mondi, e una conseguenza vista nel “disperdere” il proprio raccogliere. Non esiste essere umano che non abbia un progetto, una meta e che non viva in funzione di quello. La mancanza di uno scopo porta – o è sintomo – di una forte depressione ma, a parte questa eccezione sulla quale bisognerebbe aprire un capitolo a parte, è il progetto che fa vivere l’uomo, la prospettiva di un raccolto. E la sua dispersione, il ritrovarsi con un nulla in mano più che al fallimento, sarà il crollo di tutte quelle sicurezze presunte conquistate a fatica, se non avranno avuto Cristo come motore.

Solo la consapevolezza acquisita del vivere nel buio può spingere la persona a cercare la luce, ma non è facile perché si tratta di un’oscurità metaforica in quanto il mondo può offrire una quantità enorme di attrattive e possibilità tangibili e reali se uno non si domanda quale effettivamente sia la destinazione a cui portano.

Tornando alle parole per Nicodemo, o di Giovanni ai suoi lettori, viene ampliato il discorso sulla differenza tra Luce, Tenebre e i loro relativi appartenenti: “chi fa cose malvagie odia la luce e non viene alla luce affinché le sue opere non vengano riprovate”, cioè si nasconde per non venire scoperto, ed ecco perché, con la confessione dei propri peccati al loro battesimo, chi andava dal Battista intendeva dare un taglio netto al proprio passato. Il lato tragico della scelta di appartenere a un mondo di tenebre è che non serve a nulla, perché “Non vi è nulla di nascosto che non sarà manifestato, né di segreto che non debba essere conosciuto e portato alla luce. Fate dunque attenzione a come ascoltate, perché a chi ha sarà dato, ma a chi non ha sarà tolto anche quello che pensa avere” (Luca 8.17,18).

Gesù poi passa a descrivere la categoria di persone opposte, “Chi fa la verità”, che viene verso la luce, o “alla” luce. Non è detto che vive nella luce, ma che va verso di essa: è un cammino, una ricerca destinata a conoscere tanto successi quanto fallimenti che ci ricordano la nostra natura di terra, il nostro corpo fragile. Ma Dio “…renderà a ciascuno secondo le sue opere: la vita eterna a coloro che cercano gloria, onore e immortalità, perseverando nelle opere buone” (Romani 2.7).

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02.10 – NICODEMO (Giovanni 3.1-21)

Nicodemo (Giovanni 3.1-21)

 

1Vi era tra i farisei un uomo di nome Nicodèmo, uno dei capi dei Giudei. 2Costui andò da Gesù, di notte, e gli disse: «Rabbì, sappiamo che sei venuto da Dio come maestro; nessuno infatti può compiere questi segni che tu compi, se Dio non è con lui». 3Gli rispose Gesù: «In verità, in verità io ti dico, se uno non nasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio». 4Gli disse Nicodèmo: «Come può nascere un uomo quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?». 5Rispose Gesù: «In verità, in verità io ti dico, se uno non nasce da acqua e Spirito, non può entrare nel regno di Dio. 6Quello che è nato dalla carne è carne, e quello che è nato dallo Spirito è spirito. 7Non meravigliarti se ti ho detto: dovete nascere dall’alto. 8Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va: così è chiunque è nato dallo Spirito». 9Gli replicò Nicodèmo: «Come può accadere questo?». 10Gli rispose Gesù: «Tu sei maestro d’Israele e non conosci queste cose? 11In verità, in verità io ti dico: noi parliamo di ciò che sappiamo e testimoniamo ciò che abbiamo veduto; ma voi non accogliete la nostra testimonianza. 12Se vi ho parlato di cose della terra e non credete, come crederete se vi parlerò di cose del cielo? 13Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo. 14E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, 15perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna.16Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. 17Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. 18Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio. 19E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. 20Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. 21Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio»”.

Prima di affrontare l’episodio è necessaria una premessa su una questione narrativa. Dalla nascita della Sacra Scrittura ai giorni nostri due sono i personaggi importanti, a parte i traduttori, che intervennero su di essa per agevolarne lo studio: Stephen Langton e Robert Estienne. Langton (1150 – 1228), arcivescovo cattolico di Canterbury, suddivise la Bibbia in capitoli. Estienne invece, (1503 – 1559), editore e grammatico francese, protestante, ripartì i capitoli in versetti. Prima di loro tutto era un corpus unico e, a meno di non avere una conoscenza pressoché perfetta del testo di un libro, o rotolo, la ricerca di passi e citazioni era molto ardua.

Immaginando ora di avere tra le mani il libro di Giovanni senza capitoli e versetti, il raccordo tra il “conosceva quello che c’era nell’uomo” di 2.24 e “Vi era tra i farisei un uomo di nome Nicodemo” è particolare perché il testo originale greco antepone un “Ma”, che alcuni traducono con “Ora”. Si tratta di un particolare da non trascurare perché quel “Ma vi era…” si contrappone fortemente alla massa delle persone a Gesù favorevoli e no. Quel “Ma” rende Nicodemo lontano “parente” di Simeone, quel personaggio particolare che prese in braccio Gesù da bambino che abbiamo incontrato nelle nostre prime riflessioni sui Vangeli. Di Simeone è detto “uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione di Israele” ma Nicodemo, a differenza dei suoi correligionari, metteva a confronto la sua conoscenza di dottore della Legge con le parole di Gesù e le voleva capire, pur con tutta la titubanza – e la cautela – del caso. Se così non fosse stato, Gesù non avrebbe accettato di parlare con lui, per quanto dal dialogo emerge tutta la distanza fra la sola conoscenza delle Scritture e la sapienza di Dio, che gli propone realtà a lui sconosciute.

Nicodemo era uno dei “capi dei giudei”, quindi un fariseo anziano che si definisce “vecchio” cresciuto nello studio della Torah, depositario non solo della conoscenza relativa agli scritti di Mosè, ma soprattutto di quella tradizione e insegnamenti sulla sua pratica e significato che tanto inorgoglivano i suoi simili. L’episodio della cacciata dei mercanti dal Tempio, oltre che i “segni” che Gesù aveva operato, lo avevano posto nella condizione di dubitare di essere nel giusto: posto di fronte a quei miracoli, che nessuno degli appartenenti alla sua corrente aveva mai operato nonostante la purezza che pretendeva di avere – “fariseo” significa “separato” –, non sapeva cosa fare perché “nessuno può compiere i segni che tu compi, se Dio non è con lui”. Nicodemo riteneva Gesù un Maestro di rango più elevato del suo, un “Dottore venuto da Dio” e lo interpella non senza timore per la propria sicurezza visto che sceglie di recarsi da lui di notte.

Apparentemente Nicodemo potrebbe rientrare nella categoria di quanti “credettero in lui”, ma di cui non si fidava; però Gesù lo ritenne degno di un insegnamento particolare, illuminandolo su una convinzione che aveva come fariseo, cioè che l’appartenenza al popolo di Israele comportasse di per sé il far parte di un popolo santo e perciò meritevole delle esclusive attenzioni del Messia. Era un concetto giusto solo in parte: certo Gesù era stato mandato “per le pecore perdute della casa di Israele”, ma ricordando la versione di Marco della cacciata dei mercanti dal Tempio, leggiamo “non permetteva che si trasportassero cose attraverso il Tempio e insegnava loro dicendo «Non sta forse scritto: La casa mia sarà chiamata casa di preghiera per tutte le nazioni?» voi invece ne avete fatto una spelonca di ladri” (Marco 11.16-17).

Se Gesù, a quel tempo, ricordò una prospettiva futura e parlò in modo tale da non farsi capire, con Nicodemo ha un tono diverso e gli insegna parlandogli di una nuova nascita. Quel fariseo, fedele alla sua tradizione e mentalità abituata alla cavillosità, gli chiede come possa una persona anziana tornare nel grembo di sua madre e rinascere, viene ammaestrato con le parole “Se uno non è nato di acqua e di spirito, non può entrare nel regno di Dio”.

Gesù qui parla di una nascita spirituale, quella che fa di chi ha creduto una nuova creatura: Paolo scriverà ai Galati “Non è l’essere circoncisi o meno, ma l’essere nuova creatura” (6.13) oppure a Tito 3.5-7 “Egli ci ha salvati non per le opere giuste da noi compiute, ma per la sua misericordia, con un’acqua che rigenera e rinnova nello Spirito Santo, che Dio ha effuso su di noi in abbondanza per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro, affinché, giustificati per la sua grazia, diventassimo, nella speranza, eredi della vita eterna”. Giacomo, fratello di Gesù, scrive “Egli ci ha generati di sua volontà mediante la parola di verità, affinché siamo in un certo modo le primizie delle sue creature” (1.18).

Senza questa possibilità, questa rivoluzione interiore in cui si cambia la propria appartenenza da un mondo estraneo all’amore e alla volontà di Dio in uno spirituale pur rimanendo nella carne, l’appartenenza ed il conseguente, futuro ingresso nel regno di Dio è impossibile.

Sulla “nascita d’acqua” i Padri della Chiesa, quella di Roma, la Luterana con le sue diramazioni oltre che la maggioranza dell’Anglicana concordano nel riferirla al battesimo cristiano che sancisce la volontà di aderire alla comunità di tutti i credenti. Penso che il battesimo però testimoni una nascita nuova già avvenuta e che qui Gesù parli piuttosto di qualcosa venutasi a creare, o a formare, attraverso una purificazione: è un’acqua che Dio solo può dare, quella di cui Gesù parlerà alla Samaritana che vedremo tra breve quando le disse “Chiunque beva di quest’acqua – quella del pozzo – avrà di nuovo sete, ma chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna” (Giovanni 4.14).

È infatti solo Dio che può lavare la persona dai peccati commessi: “Venite quindi e discutiamo assieme, dice l’Eterno: anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve. Anche se fossero rossi come porpora, diventeranno come lana” (Isaia 1.18). Il perdono di Dio implica quindi la cancellazione del peccato. Il perdono di Dio implica quindi l’ammissione alla Sua presenza vista nel far parte del Suo Popolo. Se è Dio a lavare l’uomo, ecco, nasce di spirito, ha accesso a Lui, è rinnovato, diverso, non è più quello di prima, per lui sono pronti percorsi, sentieri e strade nuove. È nato, per usare le parole di Gesù a Nicodemo, “dall’alto”. E il battesimo è l’unico modo che ha una persona per dichiarare la propria appartenenza a Cristo: facendo un parallelo con quello di Giovanni, si può dire che là c’era una persona che si immergeva nell’acqua per poi riemergerne. Questo simboleggiava l’intenzione di rifiutare la propria esistenza di peccato – che molti confessavano pubblicamente – e, usciti fuori, di accettare il Salvatore che sarebbe venuto. Il battesimo cristiano invece, svolto allo stesso modo, ne differisce perché la persona, immergendosi e uscendo dall’acqua, conferma la sua salvezza, la sua nuova nascita, esprime tanto la sua appartenenza alla Chiesa quanto la propria volontà di appartenere a Cristo, come possiamo leggere dalla bellissima esperienza dell’eunuco etiope battezzato da Filippo sulla strada di Gaza in Atti 8.26-40. Il battesimo simboleggia un contratto stipulato tra l’uomo e Dio: il primo conferma di appartenergli e volergli appartenere, il secondo garantisce che non lo abbandonerà mai, accetta di esserne il proprietario: “Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno mai perdute e nessuno le rapirà dalla mia mano. Il Padre mio che mele ha date è più grande di tutti e nessuno può rapirle dalla mia mano.” (Giovanni 10.27-30). Ecco perché pare una colossale forzatura amministrare il battesimo a un essere nato da pochi giorni, non avendo il battesimo attinenza alcuna alla circoncisione giudaica alla quale nessuno in Israele poteva sottrarsi, pena la morte. Il battesimo non rigenera nessuno, non fa “nascere di nuovo” nessuno, ma è fondamentale per chi ha creduto ed è nato di nuovo e ha fatto esperienza di questa realtà. La nuova nascita implica il battesimo, non viceversa.

La distinzione che Gesù fa a Nicodemo è eloquente: “Quello che è nato dalla carne è carne, e quello che è nato dallo Spirito è spirito”. Si nasce senza che nessuno ci chieda il permesso, si rinasce se lo si desidera, rispondendo a un invito di Dio. Di fronte alle parole di Gesù, Nicodemo rimane perplesso, nessuno gli aveva mai parlato in quel modo, nemmeno i suoi maestri o i suoi colleghi più stimati, erano parole nuove.

A quel punto Gesù inizia a parlare del vento, termine che Nicodemo non poteva non collegare o comprendere. Lo Spirito non può essere costretto, non può essere gestito, non può essere compreso: “Come tu non conosci la via del vento, né come si formino le ossa nel grembo della donna incinta, così non conosci l’opera di Dio che fa tutto” (Ecclesiaste 11.5). “Opera di Dio” che si è rivelata sulla creazione che l’uomo cerca di investigare con la propria scienza, ma che oggi si rivela con la trasformazione in “nuova creatura” talché “Interrogato dai farisei su quando arriva il regno di Dio, rispose loro e disse «Il regno di Dio viene non in modo che si possa osservare. Né diranno eccolo qui, o eccolo là: ecco, il regno di Dio è dentro di voi” (Luca 17,21

Lo Spirito è pienamente libero, non legato a nulla e da nulla o da qualcuno, non ha nulla a che vedere con l’insegnamento legale che Nicodemo e i suoi simili davano al popolo, escludendo a priori qualsiasi elemento nuovo se non un’interpretazione che fosse in linea con quelle precedenti. Nicodemo era un uomo in crisi profonda perché non capiva come Gesù potesse compiere quei segni, che riconosceva provenienti da Dio, senza essere allineato alla sua categoria. Se ciò non era, Nicodemo si trovava in errore e ciò lo intimoriva. Con la frase “Tu sei dottore in Israele e non sai queste cose?” il Maestro gli ricorda che lo Spirito che aveva parlato attraverso i profeti era lo stesso: parole di rimprovero ed esortazione al ravvedimento consistente prima di tutto da un radicale mutamento nel modo di pensare e poi nell’osservanza della Legge. Perché il profeta non è un uomo puro, ma una persona che Dio sceglie: “il vento soffia dove vuole. “Così è di chiunque è nato da Dio” si riferisce proprio all’elezione a nuova creatura, voluta in parte dall’uomo ma soprattutto da una scelta di Dio che chiama. C’è chi chiama e c’è chi risponde.

Gesù prosegue aprendo una nuova frase per la seconda volta con “In verità, in verità ti dico”, cioè con un “Amen” che certifica appunto un’affermazione come vera, rafforzandola. “Noi – io e il Padre che parla attraverso di me – parliamo di ciò che sappiamo e testimoniamo ciò che abbiamo visto, ma voi non ricevete la nostra testimonianza”. È una constatazione molto amara e Giovanni, nell’inno che fa da prologo al suo Vangelo dice “Dio nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del padre, è lui che lo ha rivelato” (1.18): rivelare significa rendere note cose sconosciute, segrete fino al momento in cui vengono dichiarate, fare emergere qualcosa in modo evidente. La constatazione “Ma voi non accogliete la nostra testimonianza” è poi una condanna. “Accogliere”, tradotto anche con “ricevere” implica una scelta: c’è qualcosa che viene porto spontaneamente, ma che qui viene respinto. Per respingere qualcosa o qualcuno bisogna avere sempre delle ragioni, ma in questo caso sono da ricercarsi in una difesa di ciò che si ha: meglio la presunzione, l’arroccarsi sulle proprie posizioni di fronte all’evidenza, la stessa che portò i giudei a dire di Gesù “Scaccia i demòni per opera del principe dei demòni” (Matteo 9.34).

Tornando all’episodio, Gesù pone davanti al suo uditore una domanda: come farà, lui e i suoi, a recepire le “cose celesti” se non è stato in grado di capire i paragoni tratti da esempi terreni come il discorso del vento ed altri che sicuramente gli avrà fatto? A questo punto Gesù parla a Nicodemo di un episodio che certamente doveva conoscere e avere studiato molte volte, quello del serpente di rame, non senza premettere di avere l’autorità per rivelare le cose di Dio. Si tratta di un episodio narrato in Numeri 21.4-9: 4Gli Israeliti si mossero dal monte Or per la via del Mar Rosso, per aggirare il territorio di Edom. Ma il popolo non sopportò il viaggio. 5Il popolo disse contro Dio e contro Mosè: «Perché ci avete fatto salire dall’Egitto per farci morire in questo deserto? Perché qui non c’è né pane né acqua e siamo nauseati di questo cibo così leggero». 6Allora il Signore mandò fra il popolo serpenti brucianti i quali mordevano la gente, e un gran numero d’Israeliti morì. 7Il popolo venne da Mosè e disse: «Abbiamo peccato, perché abbiamo parlato contro il Signore e contro di te; supplica il Signore che allontani da noi questi serpenti». Mosè pregò per il popolo. 8Il Signore disse a Mosè: «Fatti un serpente e mettilo sopra un’asta; chiunque sarà stato morso e lo guarderà, resterà in vita». 9Mosè allora fece un serpente di bronzo e lo mise sopra l’asta; quando un serpente aveva morso qualcuno, se questi guardava il serpente di bronzo, restava in vita.”

Alcuni ebrei si trovano in difficoltà su questo passo, ponendolo in contrasto con la Torah che proibiva l’idolatria. Ma riflettendo, qui non si tratta di adorazione, ma di “guardare”, che nel linguaggio biblico può significare anche “fare riferimento a”. Il serpente, di rame, materiale che è sempre figura di giudizio sui peccati dell’uomo, stava su un’asta, quindi in alto e poteva essere visto da chiunque. Gli israeliti di allora, informati su cosa fosse quel serpente, facevano riferimento a lui per salvare la propria vita, rivolgevano a lui lo sguardo. Gli effetti del morso di quei serpenti, inviati da Dio per punire un peccato, venivano così annullati guardando quell’immagine che ricordava tanto il giudizio quanto la misericordia del Signore che per questo ne annullava gli effetti. Il serpente terreno cagionava la morte, quello che li raffigurava ne annullava gli effetti.

Allo stesso modo Gesù parla di se stesso: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque creda in lui abbia vita eterna” (v.15). Il serpente di rame su un’asta, il Figlio di Dio su una croce. Il primo non ebbe più ragione di essere quando i serpenti velenosi morirono, il secondo è lì ancora oggi, nel Vangelo o come simbolo nelle chiese. Gli ebrei di allora facevano riferimento al serpente quando venivano morsi e sapevano di morire, gli uomini vissuti dalla risurrezione in poi fanno riferimento al crocifisso nel momento in cui comprendono che la loro vita, così com’è, può portare solo alla morte. E la salvano.

Ancora una volta abbiamo un aggiornamento tra antico e nuovo patto, tra cose che un tempo erano velate e che oggi non lo sono più.

Nicodemo è un uomo che cerca, ha un percorso tutto suo preciso e lungo. Non è una persona dalle reazioni immediate e spontanee, è prigioniero di una storia e un modo di pensare razionalissimo e complicato che lo penalizza nella comprensione. È un uomo di dubbi, ha bisogno di tempo per aggiornare le sue conoscenze, partendo da quelle religiose nelle quali è cresciuto, con quelle dottrinali dello Spirito. È un uomo autorevole che tuttavia non si arrocca sulle sue posizioni come tanti dei suoi simili, ma viene messo da parte con uno scopo: comparirà in questo Vangelopiù avanti, quando parlerà a una riunione dei capi farisei e sacerdoti che volevano arrestare Gesù (7.45-51) e una terza con Giuseppe d’Arimatea, che depositerà il suo corpo nella tomba (19.39-42). Teme di esporsi perché, dichiarandosi apertamente a favore di Gesù, non solo perderebbe il suo stato, ma verrebbe dichiarato estraneo alla congregazione di Israele ed esiliato. Non sappiamo cosa farà dopo perché non viene più nominato. A lui è attribuito un vangelo apocrifo.

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02.09 – I MERCANTI DEL TEMPIO (Giovanni 2.13-24)

I mercanti del tempio (Giovanni 2.13-24)

 

Giunti al primo miracolo di Gesù avvenuto in Cana, Giovanni scrive un raccordo temporale:

 

12Dopo questo fatto scese a Capernaum insieme a sua madre, ai suoi fratelli e ai suoi discepoli. Là rimasero pochi giorni”.

 

Il fatto che non sia menzionato Giuseppe ha spinto i commentatori a ritenere che a quell’epoca fosse già deceduto e infatti a Cana non è menzionato come presente. Sorge qui il problema di cosa avesse fatto a Capernaum, paese sulle rive del lago di Galilea in quei “pochi giorni”. Matteo e Marco dicono che Gesù andò ad abitare là una volta saputo dell’arresto di Giovanni Battista, cosa che non era ancora avvenuta ai tempi del miracolo in Cana; Luca, dopo aver parlato di un breve ritorno a Nazareth e citato l’episodio in cui gli abitanti del paese volevano gettarlo giù da un burrone, scrive in due versetti (4.14.15)

 

14Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito e la sua fama si diffuse in tutta la regione. 15Insegnava nelle loro sinagoghe e tutti gli rendevano lode”.

 

A questo punto pare legittimo pensare che nessun evangelista parli di cosa fece Nostro Signore a Capernaum in quei giorni. Vero è che là, sulle rive del lago, ci fu la chiamata ai quattro che già lo seguivano (Pietro, Andrea, Giovanni e Giacomo) e in quella cittadina avvennero molti episodi edificanti, ma avvennero in seguito; prima di quegli avvenimenti, vi fu il primo viaggio a Gerusalemme di Gesù da adulto che consideriamo ora.

Veniamo ora al passo in esame:

 

13Si avvicinava intanto la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. 14Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. 15Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori dal tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, 16e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!». 17I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: Lo zelo per la tua casa mi divorerà. 18Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?». 19Rispose loro Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». 20Gli dissero allora i Giudei: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?». 21Ma egli parlava del tempio del suo corpo. 22Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi <, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù. 23Mentre era a Gerusalemme per la Pasqua, durante la festa, molti, vedendo i segni che compiva, credettero nel suo nome. 24Ma lui, Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti 25e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza sull’uomo. Egli infatti conosceva quello che c’è nell’uomo.

 

L’episodio è riportato anche dai sinottici che, pur collocandolo a Gerusalemme come Giovanni, lo inseriscono alla fine della vita pubblica di Gesù. Ciò ha dato adito a due ipotesi: la prima, non trovando possibile un accordo tra le versioni, si è ritenuto trattarsi di due fatti diversi; la seconda è che si tratti di un unico avvenimento che però avvenne al principio del ministero di Gesù, poiché tra gli evangelisti è Giovanni ad essere più accurato cronologicamente. Se i Sinottici lo pongono verso la fine, è perché vi sono indotti da motivi di analogia d’argomento e soprattutto perché, nella loro esposizione molto spesso non cronologica, narrano esplicitamente di una sola permanenza di Gesù a Gerusalemme in luogo delle quattro narrate da Giovanni.

Abbiamo già sottolineato che la Pasqua fosse la festa più importante dell’ebraismo perché ricordava l’avvenuta liberazione del popolo dalla schiavitù d’Egitto. Sappiamo che a Gerusalemme, quindi al Tempio, confluivano tutti gli israeliti che provenivano dalle regioni più remote dell’impero (ecco il perché dei cambiavalute) e, nel cortile dei gentili, vi era tutta un’organizzazione studiata per ridurre al minimo le difficoltà del trovare gli animali necessari da offrire in sacrificio. I sacerdoti, o perché da quel commercio avevano una loro percentuale sulle vendite, o perché affittavano il posto ai mercanti, trovavano probabilmente una giustificazione per quella mescolanza di sacro e profano nel fatto che tutto era fatto a fin di bene: poiché i sacrifici dovevano avere luogo, le monete di chi veniva da lontano cambiate e, senza quel commercio, la gente avrebbe dovuto fare le stesse cose andandole a cercare in città o negli immediati dintorni, si riteneva giusto approfittare di quello spazio.

Esisteva però una differenza sostanziale: se il voler agevolare gli israeliti fornendo loro un servizio che risparmiava loro molte fatiche viste nel cercare il necessario per i sacrifici, quello che indignò profondamente Nostro Signore fu il fatto che in tutta quella confusione era venuto totalmente a mancare il significato del sacrificio e della Pasqua stessa. Il tutto si svolgeva nella formalità e soprattutto nella soddisfazione, da parte dei commercianti, per i guadagni enormi che questi potevano realizzare traendo vantaggio da una festa sacra. In quel cortile nulla poteva far pensare a qualcosa di diverso da un normale mercato in cui la gente vende e compra senza pensare ad altro che ai propri interessi.

Chi ancora oggi visita Roma e in particolare la zona di San Pietro, non può non rimanere profondamente colpito dalla presenza di un commercio profondamente invasivo di oggettistica di vario genere: immagini di ogni dimensione, materiale mediatico stampato in ogni lingua, personale apparentemente religioso che fa da guida a un popolo disinformato nel profondo. Tutto è rito e svuotato con cura quasi programmata da qualsiasi pietà, esempio, insegnamento, distinguo tra ciò che è effettivamente vero ed importante da ciò che non lo è, in una mescolanza totale tra “sacro” e profano o, meglio, in cui il profano è legittimato. Personalmente mi ha molto disturbato la visita al cosiddetto “tesoro di San Pietro”, di inestimabile valore, detenuto e conservato da una organizzazione che, se davvero fosse fedele agli intenti e alla professione che fa, non avrebbe alcuna difficoltà a liberarsene come fece la Chiesa primitiva in Gerusalemme dove leggiamo che 44Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; 45vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno. 46Ogni giorno erano perseveranti insieme nel tempio e, spezzando il pane nelle case, prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore, 47lodando Dio e godendo il favore di tutto il popolo. Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati” (Atti 2.44-47).

Possiamo ricordare anche le parole di Gesù quando mandò i dodici apostoli in missione: “Guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demòni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Matteo 10.8). Gli apostoli, umanamente, avrebbero potuto benissimo chiedere un contributo o un’offerta libera ai parenti di quegli afflitti, ma così facendo avrebbero snaturato totalmente la loro missione. Il “dare gratuitamente”, gesto assolutamente inconcepibile per il mondo salvo che non sia per sfruttare i deboli, rappresenta la contrapposizione tra il possibile e l’impossibile perché la liberazione di un’anima dal peccato non ha prezzo.

Torniamo all’episodio: Gesù è scritto che fa “una frusta di cordicelle”, greco originale “giunchi”, cioè quei fili lunghi e semirigidi che si utilizzano come paglia per il bestiame, e se ne serve per spingerlo fuori dal cortile. Diverso fu per i colombi, contenuti in gabbie, che non potevano scappare e per questo viene ordinato ai loro proprietari di portarle via.

La rappresentazione di Gesù che frusta adirato i presenti che fuggono spaventati quasi ad avere a che fare con un pazzo, non ha fondamento: la Sua autorità bastava e credo che la frase “Non fate la casa del Padre mio una spelonca di ladroni” abbia parlato a qualche coscienza tra i presenti, che non reagirono contro di lui nonostante vedessero svanire il loro guadagno, per non parlare degli addetti al cambio di valuta che videro il loro denaro per terra.

I discepoli che lo avevano accompagnato, non sappiamo quanti perché Giovanni non lo dice, è scritto che “Si ricordarono che sta scritto «Lo zelo per la tua casa mi divora»”, passo tratto dal Salmo 69.10, di Davide. Lo zelo divora, cioè arriva a corrodere il profondo dell’essere che rinuncia a se stesso pur di servire. I discepoli, nonostante non fossero dottori della Legge, si ricordarono spontaneamente di questo passo e lo applicarono al loro Maestro. E il verso del Salmo prosegue dicendo “gli insulti di chi ti insulta ricadono su di me”: quel mercato, allora, era un insulto a Dio così come lo è qualsiasi ritualità svuotata di contenuto. Questi furono i motivi che suscitarono le reazioni di Gesù di fronte allo scempio che si produceva nel cortile, in uno spazio ritenuto di poco conto perché dei gentili, cioè dei pagani che per Israele non contavano nulla, che potevano solo stare in un luogo in cui Dio, nonostante il recinto che lo circondava, si riteneva fosse distante e che le Sue attenzioni fossero esclusivamente per il Suo popolo.

Il passo del Salmo citato, in cui i discepoli riconobbero parlasse del loro Maestro, si raccorda con le parole dell’apostolo Paolo in Ebrei 4.12-13 che parla degli effetti della Parola di Dio sull’uomo che la lascia agire: “12Infatti la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore. 13Non vi è creatura che possa nascondersi davanti a Dio, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi di colui al quale noi dobbiamo rendere conto”.

Sono parole assolute: le sue cinque caratteristiche e azioni, – viva, efficace, più tagliente, penetra, discerne – non lasciano scampo e indicano gli elementi che producono una reazione in ciascun uomo. La Parola di Dio è viva, quindi non è qualcosa che può scadere finendo per diventare inutile come un romanzo che passa da uno scaffale a una cantina per poi venire corroso dall’umidità e mangiato dai topi. È efficace, aggettivo che viene dal latino efficere, “portare a compimento” ed infatti è l’unica che può salvare, risolvere il vero problema della destinazione finale dell’uomo. Più tagliente di ogni spada a doppio taglio, poi, è una definizione che illustra la capacità del discernimento: il bene dal male e tutto il sistema che ruota attorno ad essi. Quell’”ogni”, poi, esclude che ve ne possano essere altre in grado di compiere la sua stessa azione. Sul perché di questo abbiamo le parole successive: “Penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla” quindi svolge quell’azione che porta al discernimento e alla vagliatura di ciò che sono i sentimenti e i pensieri del cuore. È un’azione inevitabile di cui parlò Pietro quando scrisse “Siete stati rigenerati non da un seme corruttibile, ma incorruttibile, per mezzo della Parola di Dio viva e che dura in eterno” (1 Pietro 1,23). Queste parole saranno utili per comprendere ciò che Gesù dirà a Nicodemo poco tempo dopo quest’episodio quando, venuto da Lui di notte, si sentirà spiegare la nuova nascita.

Nella lettera agli Ebrei, però, Paolo parla di un finale visto nel “rendere conto” perché non vi è possibilità alcuna di nascondersi di fronte a Colui che, presto o tardi, chiederà conto a tutti, credenti compresi, di come avranno gestito loro vita. Infatti: “Anche se come l’aquila ponessi in alto il tuo nido, anche se lo collocassi sulle stelle, di lassù ti farò precipitare” (Abdeo 1.4). Per contrapposizione all’orgoglio descritto dal profeta, abbiamo la visione di Giovanni in Apocalisse 6.15-17 all’apertura (futura) del sesto sigillo: 15Allora i re della terra e i grandi, i comandanti, i ricchi e i potenti, e infine ogni uomo, schiavo o libero, si nascosero tutti nelle caverne e fra le rupi dei monti; 16e dicevano ai monti e alle rupi: «Cadete sopra di noi e nascondeteci dalla faccia di Colui che siede sul trono e dall’ira dell’Agnello, 17perché è venuto il grande giorno della loro ira, e chi può resistervi?»”, descrizione dell’inutilità della tecnologia umana.

Torniamo al nostro episodio: in tutto il trambusto conseguente all’azione di Gesù, ecco l’intervento dei Giudei, non uomini del popolo, ma dell’autorità religiosa: costoro volevano da lui delle credenziali, sapere chi fosse, quale autorità avesse per poter fare una cosa simile. Ebbero in risposta un riferimento non al Tempio come edificio, ma al Suo corpo, profetizzando così sulla Sua risurrezione senza che i presenti, compresi i discepoli, lo capissero anche se se ne ricordarono dopo, quando la loro mente fu aperta dallo Spirito Santo.

A questo punto abbiamo una grande lezione: alla domanda “Quale segno ci mostri per fare queste cose?”, che sottintendeva la richiesta di un segno di autorità, un miracolo, Gesù risponde in modo tale da non essere capito, pur esprimendo una verità. Infatti le parole “Distruggete questo tempio e in tre giorni io lo farò risorgere” non solo furono equivocate perché prese alla lettera stante il luogo in cui furono pronunciate, ma riemergeranno in modo beffardo alla croce con la stessa mancanza di comprensione: “Ehi, tu che distruggi il tempio e lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso scendendo dalla croce!” (Marco 15.29-30).

Quei “Giudei”, cioè gli autorevoli tra il popolo, non potevano certo ignorare che, secoli prima, il profeta Geremia aveva detto le stesse parole: “Forse è per voi un covo di ladri questo Tempio sul quale è invocato il mio nome?” (Geremia 7.11) ma, invece di chiedersi se le parole di Gesù fossero vere o meno, spostano il ragionamento su chi fosse per dire certe cose. Se ciò che stavano tollerando fosse cosa legittima o meno, fu una questione che non li sfiorò neppure lontanamente, così come nessun dottore della Legge si era mai sognato di intervenire per fare cessare quel commercio.

L’episodio si conclude così, ma non la permanenza di Gesù in Gerusalemme di cui Giovanni ci dà un cenno riassuntivo, che leggiamo al verso 23, a parte il colloquio avuto con Nicodemo che esamineremo nel capitolo successivo. Scrive Giovanni che il Maestro fece dei segni, dei miracoli di cui non sappiamo, ma che produssero una fede erronea. Leggiamo infatti “Ma lui non si fidava di loro”.

La perfetta conoscenza dell’essere umano che aveva Gesù gli consentiva di sapere che quel “credere in lui” era un’azione dettata dalla ragione e non dal cuore, perché a nulla serve ai fini della salvezza credere che ci sia un Essere superiore, o accettare Gesù come personaggio storico autore di miracoli, se non si è disposti a cedere se stessi, se non lo si vuole realmente trovare per venire rinnovati.

“Conosceva quello che c’è”, non quello che c’era, a conferma delle tante volte in cui i verbi sono utilizzati per esprimere un concetto che oltrepassa le regole della grammatica. Allora come oggi, Lui conosce quello che c’è nell’uomo, cioè il suo tutto, lo spirito che lo muove. Probabilmente è proprio questa fede temporanea e subito soffocata dalle spine che impedirà a Giovanni di parlare dei “segni” fatti in Gerusalemme, soffermandosi subito dopo nel dettaglio su Nicodemo, figura caratteristica di persona tormentata dai dubbi, timoroso dei suoi correligionari ma attratto dalla figura di Gesù: fariseo di alto rango, andò da Lui di notte per non farsi vedere dagli altri. Quell’uomo, a differenza dei molti che avevano creduto, era sincero, voleva sapere, capire, anche se gli ci vorrà molto tempo per compiere una scelta che lo avrebbe estromesso dalla congregazione di Israele: gli disse “Rabbi, sappiamo che sei venuto da Dio come maestro; nessuno infatti può compiere questi segni che tu fai, se Dio non è con lui” (Giovanni 3.2). Da questa frase, come vedremo, Gesù partirà per l’esposizione del concetto e della realtà che implica la nuova nascita.

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02.08 – LE NOZZE DI CANA (Giovanni 2.1-11)

Le nozze di Cana (Giovanni 2.1-11)

 

1 Il terzo giorno vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. 2Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. 3Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino». 4E Gesù le rispose: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora». 5Sua madre disse ai servitori: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela». 6Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri. 7E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le anfore»; e le riempirono fino all’orlo. 8Disse loro di nuovo: «Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto». Ed essi gliene portarono. 9Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto – il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l’acqua – chiamò lo sposo 10e gli disse: «Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora». .11Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.

 

“Il terzo giorno”, stando alla cronologia di Giovanni, è da intendersi come terzo dopo il colloquio avuto con Natanaele-Bartolomeo e Andrea ed infatti sono diverse le traduzioni che riportano “Tre giorni dopo”. Il miracolo della trasformazione dell’acqua in vino è il primo di Gesù in Galilea ed è quello che costituisce l’apertura ufficiale del Suo ministero. È anche quello che ha visto il maggior numero di interpretazioni dottrinali a seconda della provenienza tradizionale dei vari commentatori antichi e moderni. I particolari che però l’apostolo Giovanni inserisce nel racconto aiutano molto la sua comprensione e significato. Prima di esaminare l’episodio è bene dare un accenno su cosa significasse la festa di nozze per il popolo ebraico e dare qualche particolare che verrà utile per comprendere anche la parabola delle dieci vergini che Matteo racconta in 25.1-13.

A prescindere dal rango sociale degli sposi, che caratterizzavano la festa di nozze in modo proporzionale alle loro possibilità, il pranzo nuziale era il momento più solenne della vita della persona e si concludeva un anno dopo il fidanzamento che, a differenza di quello occidentale che manifesta e sottintende solo un’intenzione di sposare una persona e può vedere le parti recedere in qualunque momento, equivaleva al matrimonio per quanto il futuro marito e la futura moglie non vivessero ancora assieme. La festa di nozze poteva durare anche più giorni: la sposa attendeva lo sposo sul far della sera, con le amiche, truccata e agghindata con vari monili e una corona sul capo come lo sposo che la andava a prendere a casa sua per condurla nella loro. Si formava così un corteo che raggiungeva la nuova casa, al quale partecipava quasi tutto il paese, con gli amici degli sposi che portavano lampade con suoni e canti. Non era infrequente che le scuole rabbiniche interrompessero le lezioni per partecipare almeno al corteo che si concludeva nella nuova casa nel quale era offerto il pranzo con canti e discorsi augurali.

In quella casa si beveva e si mangiava copiosamente anche perché l’occasione di partecipare a una festa di nozze, per chi abitava in quei territori dove conduceva una vita solitamente povera e parsimoniosa, significava interrompere anche per poco, ore o giorni poco importava, un’esistenza spesso condotta negli stenti, scandita dal lavoro e dal sole. In quella festa un ruolo fondamentale lo aveva il vino non perché la gente se ne approfittava per ubriacarsi, ma perché, messo in serbo da tempo apposta per l’occasione, era molto buono. Il vino delle nozze era conservato in giare e tenuto nell’angolo più buio delle case fino a quando non arrivava il giorno della festa. Il vino era visto come una benedizione assieme al frumento e all’olio – 14io darò alla vostra terra la pioggia al suo tempo: la pioggia d’autunno e la pioggia di primavera, perché tu possa raccogliere il tuo frumento, il tuo vino e il tuo olio” (Deuteronomio 11.14) -, una bevanda che “rallegra il cuore dell’uomo” (Salmo 104.15). Ricordiamo che, in antitesi, la Scrittura lo indica come sostanza che può fare compiere azioni sconsiderate come nel caso di Noè che si ubriacò denudandosi (Genesi 9.21 e segg.) e ancora di più il caso delle figlie di Lot, che si unirono al loro padre facendolo bere al fine di avere una discendenza (Genesi 19.32 e segg.). Salomone in Proverbi 10.1 scrive che “il vino è beffardo, il liquore è tumultuoso; chiunque si perde dietro ad esso non è saggio” e in 4.17, parlando degli uomini malvagi, dice che “mangiano il pane dell’empietà e bevono il vino della violenza”, a sottintendere la sua pericolosità e non per niente il Nazireo doveva astenersi da esso.

Gesù fu invitato alle nozze a Cana, dove già si trovava sua madre, coi suoi discepoli probabilmente perché Natanaele era di quelle parti: ci volle andare perché nella Sua onniscienza sapeva che lì avrebbe potuto compiere il suo primo miracolo, denso di significati. Abbiamo letto al verso 11 “Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i discepoli credettero in lui”. “Manifestò la sua gloria” nel senso che si rivelò come Signore (anche) degli elementi mutandone radicalmente le proprietà e non col fine di risolvere un problema contingente che sua madre, conscia tanto dell’imbarazzo che aveva creato la mancanza di vino quanto che il Figlio era l’unico che avrebbe potuto intervenire, gli aveva posto. Sono da notare infatti tre frasi: la prima “non hanno più vino” in cui Maria pone al Figlio il problema che si era venuto a creare. Non chiede un miracolo, ma certamente un intervento senza sapere cosa Gesù avrebbe fatto. La sua risposta, “che vi è fra te e me, donna”, è stata sicuramente strumentalizzata nel corso del tempo dalla cristianità, cattolica romana ed evangelica in particolare: i primi vedono in Maria l’inizio della sua opera mediatoria e di intercessione presso il Figlio, i secondi pongono l’accento quel “Che vi è tra te e me” facendo osservare che la stessa espressione si trova usata nell’episodio dell’indemoniato nella sinagoga di Capernaum quando i demoni che possedevano quell’uomo dicono “Che vi è tra noi e te, Gesù Nazareno? Sei venuto a tormentarci prima del tempo?” (Marco 1.24).

La realtà è molto più semplice e credo vada oltre il parteggiare per qualcuno: Maria era la sola in quel luogo a conoscere bene il Gesù e sapeva, per tutti gli avvenimenti di cui era stata testimone, che se avesse voluto avrebbe potuto intervenire per togliere i presenti dall’imbarazzo e soprattutto la famiglia degli sposi dal disonore. La reazione immediata di Gesù è quella di mettere un confine tra quelle che sono le aspettative umane, viste nella richiesta della propria madre, e la Sua totale autonomia operativa. Quel “Che vi è tra me è te, o donna” richiama proprio due realtà, quella divina di Gesù e quella umana di sua madre, essendo strettamente collegata alle parole successive che spiegano il motivo di quella reazione, cioè “Non è ancora giunta la mia ora”, quel momento in cui sarebbe stato dato in mano agli uomini che avrebbero fatto di Lui ciò che avrebbero voluto.

La terza frase riporta il secondo intervento di Maria, non più rivolta al Figlio, ma ai servi presenti, “Qualunque cosa vi dica, fatela”, o “Fate quello che vi dice” secondo la traduzione letterale, in cui rimette al figlio ogni cosa, ogni potere decisionale e pone i servi addetti alla mescita del vino, o della distribuzione dell’acqua, in uno stato di attesa. Era un’acqua serviva alla pulizia delle mani e delle stoviglie (ecco perché Giovanni aggiunge “per la purificazione dei Giudei”).

L’acqua non era contenuta in anfore, ma in recipienti, in pietra e non in cotto perché secondo i rabbini la pietra non conteneva impurità. Notiamo le misure: “da ottanta a centoventi litri”, traduzione che evita di fare i calcoli del testo letterale, “capaci da due o tre metrete”, o “misure”, ciascuna delle quali si aggirava attorno ai 39 litri.

Gesù ordina di riempire i contenitori e i servi lo fecero fino a quando non furono colmi, il che escludeva la possibilità sia di versarvi una sostanza che potesse ingannare il palato facendo scambiare l’acqua con vino, ma che ci parla della perfetta capacità che ha lo Spirito di coinvolgere tutta la persona dell’uomo. Quanto successe dopo è ben spiegato dalle parole del direttore di mensa, un amico dello sposo, che si accorge della differenza tra il vino di prima e quello che gli viene appena portato. Dobbiamo pensare che quello che era stato distribuito dall’inizio della festa, come abbiamo visto, non era un vino ordinario, ma già pregiato e messo da parte da tempo per l’occasione: il vino di Gesù, però, era tale da fare classificare il precedente come “meno buono”. Questo ci parla del fatto che tutto ciò che Dio trasforma non può competere con nient’altro e io penso che, al di là di tutti gli innumerevoli significati che acqua e vino hanno nella Scrittura e sui quali sarebbero possibili molti studi, nel nostro caso specifico è sulla trasformazione che si devono basare le riflessioni: Dio non crea, né ha creato, né muta, ha mai mutato nulla dal nulla, ma è sempre intervenuto dagli elementi: l’universo stesso è stato costruito su materiali preesistenti. Ricordiamo le parole di apertura del libro del Principio: “La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano la faccia dell’abisso e lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque”. La terra era “informe”, non troviamo scritto che c’era solo il vuoto.

Allo stesso modo a Cana c’era dell’acqua, attinta da un pozzo, in contenitori di pietra. Il significato del miracolo risiede allora in cosa può diventare un elemento là dove Dio opera: in quel l’acqua, destinata “alla purificazione dei giudei”, diventa vino, migliore di quello servito fino ad allora, mutando radicalmente scopo e destinazione, rimanendo comunque un liquido.

Se dunque il Signore interviene nella vita dell’uomo che si affida in lui, lo trasforma radicalmente e si aprono per lui una vita e uno scopo totalmente differenti, pur mantenendo la stessa fisionomia: a Cana mutò il contenuto, non i contenitori, che rimasero gli stessi. Quindi il miracolo ci parla, anche, di una vita nuova. Scrivendo ai Corinzi Paolo scrive “Se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove” (2 Corinzi 5.17), di modo che: “Se” – la condizione, perché uno può pensare di essere quello che non è – “uno è in Cristo” – cioè ha posto la sua fede con una vita in Lui e in Lui vuole viverla – “è una nuova creatura”. Nuova nel senso di diversa perché “le cose vecchie sono passate” cioè tutto quello che è stato non gli appartiene più, non lo interessa a prescindere, non ha senso che si guardi indietro come fece la moglie di Lot che, rimpiangendo il suo passato, si voltò a guardare Sodoma per l’ultima volta.

Nelle “cose vecchie” che sono passate Paolo include tutto: non solo qualunque peccato commesso, ma l’essenza profonda di un essere incompatibile con Dio, ora trasformato e in grado di esserGli accetto. Resta il problema del contenitore, che rimane lo stesso: questo ci parla della responsabilità che ogni credente – ricordiamo “Se uno è in Cristo” – ha e con la quale si ritrova a fare i conti quotidianamente. Molti credono, secondo la filosofia di numerosi appartenenti alla Chiesa di Corinto, che, se sono stati liberati dal peccato, non abbiano senso degli sforzi per liberarsene ancora, ma l’essere delle creature nuove comporta il ritrovarsi a vivere in un mondo che non solo non ci appartiene più, ma che soprattutto non cambia, non è nuovo, è incapace a rinnovarsi salvo nella tecnologia o esasperando sempre di più i suoi contrassegni negativi.

La vita cristiana è basata anche su questo continuo fare i conti con una duplice realtà tra la natura umana e quella spirituale, con un involucro esterno suscettibile a sofferenze morali, spirituali e fisiche perché non siamo, per la nuova nascita e lo stato di “nuova creatura” acquisita, trasportati automaticamente in un Eden in cui possiamo vivere liberi dal dolore e dipendenti, per mantenere quello stato, da un solo comandamento. L’essere “Nuove creature”, implica l’essere detentori di una promessa, di un futuro che chi non ha il nostro stato non può avere, ma anche di sofferenze e scelte che gli altri non hanno. Non si deve sottovalutare l’acqua, figura di qualcosa di presente, né il vino, figura della trasformazione che Cristo opera in ciascuno che lo ha cercato e trovato, né il contenitore, figura di ciò che non cambia, il nostro corpo che, in quanto di carne e non di pietra, tenderà a volere il sopravvento sfruttando quei sentimenti e reazioni che, di base e per natura, non possiamo non avere. In questo, nell’uomo naturale, siamo come tutti gli altri e commette un grave errore chi sottovaluta questo dato ritenendo che, una volta salvato e nuova creatura, non debba fare altro.

Gesù, il solo a poterlo fare, tramutò l’acqua in vino e “i suoi discepoli credettero in lui”, frase che indica un primo rafforzamento nella fede in lui ed è che troveremo altre volte. L’uomo che oggi crede in Lui può farlo perché ha accettato il contenuto della Scrittura, ma personalmente ritengo che le ragioni della fede risiedano nel fatto che, una volta conosciuta la nostra natura e inferiorità davanti a Dio, non si abbia un’alternativa: siamo acqua in un recipiente di pietra. Acqua non da bere, ma per un uso secondario.

Il vino di Gesù è stato ritenuto dal direttore del banchetto, che si occupava della direzione dei servi alla mensa e di tutto quanto la concerneva, come “buono” a tal punto da mettere quello precedente in subordine. Il direttore di mensa era una persona autorevole e il fatto che fossero presenti molti servi lascia intendere che l’ambiente fosse composto da persone altolocate nella società di allora. Era però necessario il suo giudizio, un’autenticazione ufficiale, e questo fu il motivo per cui Gesù disse di portarlo a lui per primo e non di servirlo come se niente fosse: la Sua opera andava certificata, quel vino andava classificato come migliore di qualunque altro e il mastro non sapeva del miracolo che, come leggiamo, fu abbondante, andando oltre le aspettative, di qualità eccellente e gratuito.

Ultima osservazione può essere fatta col numero delle “anfore”, sei, figura dell’imperfezione e dell’incompletezza sulla quale Gesù intervenne ordinando prima di riempirle fino all’orlo e poi mutandone il contenuto. Il Maestro, quindi, ha guardato in basso, all’imperfezione. “Ha guardato alla bassezza della sua serva”, come disse Maria nel suo cantico e guarda ad ogni essere umano che lo cerca, trasformandone aspettative, scopo ed esistenza.

C’è chi ha fatto osservare che, per far scaturire il vino della gioia, bisogna riempire abbondantemente il vuoto che si sente e si vive, con l’acqua della vita: è la vita del cristiano che va riempita con la luce e i progetti di Dio. Altri hanno notato che il primo miracolo di Mosè fu quello di cambiare l’acqua in sangue: esso portava giudizio e distruzione. Il primo miracolo di Gesù fu cambiare l’acqua in vino, figura di conforto e consolazione.

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02.07 – I PRIMI DISCEPOLI II/II (Giovanni 1.45-31)

I primi discepoli II/II (Giovanni 1.43-51)

 

43Il giorno dopo Gesù volle partire per la Galilea; trovò Filippo e gli disse: «Seguimi!». 44Filippo era di Betsàida, la città di Andrea e di Pietro. 45Filippo trovò Natanaele e gli disse: «Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè, nella Legge, e i Profeti: Gesù, il figlio di Giuseppe, di Nàzaret». 46Natanaele gli disse: «Da Nàzaret può venire qualcosa di buono?». Filippo gli rispose: «Vieni e vedi». 47Gesù intanto, visto Natanaele che gli veniva incontro, disse di lui: «Ecco davvero un Israelita in cui non c’è falsità». 48Natanaele gli domandò: «Come mi conosci?». Gli rispose Gesù: «Prima che Filippo ti chiamasse, io ti ho visto quando eri sotto l’albero di fichi». 49Gli replicò Natanaele: «Rabbì, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d’Israele!». 50Gli rispose Gesù: «Perché ti ho detto che ti avevo visto sotto l’albero di fichi, tu credi? Vedrai cose più grandi di queste!». 51Poi gli disse: «In verità, in verità io vi dico: vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sopra il Figlio dell’uomo».

 

Giunti al quarto giorno dopo la fine della tentazione di Nostro Signore nel deserto, va fatta una precisazione importante: dopo l’episodio dei quaranta giorni nel deserto, i sinottici scrivono che Gesù, una volta saputo che il Battista era stato arrestato da Erode, si ritirò nella Galilea, lasciò Nazareth e andò ad abitare a Cafarnao (Matteo 4.12,13) e che la sua fama si diffuse in tutta la regione, insegnava nelle sinagoghe tutti gli rendevano lode (Luca 4.14-15). A questo episodio Matteo e Marco fanno seguire la chiamata dei discepoli, Simon Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni mentre erano sulla riva del Mare di Galilea. Bisogna sapere che Matteo, Marco e Luca parlano del secondo viaggio in quella regione, mentre Giovanni del primo, che gli altri tre non raccontano, cioè quando il Battista stava ancora predicando.

Per inquadrare ciò che avvenne nel quarto giorno occorre tenere presente quanto avvenne in precedenza, quando Andrea, Giovanni e Simone fecero il loro primo incontro con Gesù: tutti e tre abitavano a Betsaida, erano discepoli di Giovanni Battista – probabilmente anche Pietro, anche se non è espressamente citato come tale – ed è naturale che Andrea e Giovanni parlassero di Lui, prima che ad estranei, a quelli che o erano della cerchia del loro maestro. Possiamo dire che, fino ad allora, la predicazione del Battista aveva prodotto tre risultati: prima venero i suoi discepoli, che erano stati convinti dalla sua predicazione, si erano battezzati e lo assistevano. Poi ci furono quelli che ne condivisero il messaggio, capendo che il regno di Dio era effettivamente vicino, convinti della necessità che il Messia che stava per arrivare andava accolto previo un cambiamento interiore visto in una revisione della loro vita e in un cambiamento di mentalità e azioni, e infine quelli che provavano sentimenti ostili perché sapevano che il sistema religioso sul quale avevano basato la loro esistenza e falsa rispettabilità poteva essere sconvolto.

Certo che Andrea e Giovanni, che avevano incontrato Gesù, (“venite e vedete”) ed aveva parlato loro brevemente tanto quanto bastava per convincerli e suscitare in loro la gioia vista nella frase “Noi abbiamo trovato il Messia”, non potevano fare altro che informare quanti avevano condiviso con loro i momenti del discepolato con Giovanni Battista. Fu così che Gesù, volendo partire per la Galilea perché si era compiuto l’incontro con il suo precursore e intendeva recarsi a Nazareth, oppure perché sapeva di doversi recare a Cana dove ci era stato invitato alle nozze, incontrò una persona, Filippo, cui gli disse “Seguimi”. È la prima chiamata diretta di Gesù a un uomo a cui non si rivolse a caso, ma sapendo che uno dei tre, o tutti, lo avevano informato.

Quel “Seguimi” da parte di Gesù indica la conoscenza che aveva non solo di Filippo, ma dell’uomo in genere: così come sapeva delle domande e delle aspettative di Filippo, conosce ciò che anima tutto l’essere di ciascuno anche oggi e interviene nel momento esatto in cui una persona lo cerca. Va rifiutata l’idea che vorrebbe i futuri apostoli seguire Cristo in base a una forza misteriosa che li spinse a farlo: questo può emergere se si legge superficialmente la cronaca dei sinottici, che ci parlano di un immediato abbandono delle “proprie reti” e del seguirlo immediatamente; Pietro e gli altri, in realtà, lo seguirono per delle ragioni che trovavano la loro radice nell’aver compreso che Lui era quello di cui parlavano la Legge e i profeti, dopo averlo ascoltato in privato e avere visto i miracoli che faceva: avevano individualmente sperimentato quel “Preparate le sue vie, raddrizzate i suoi sentieri” di cui abbiamo letto.

Così Filippo, che rientrerà nel numero dei dodici, seguì Gesù al suo solo invito, fondandosi sulla testimonianza che gli era stata riferita, riversando su di Lui la certezza che Lui solo era quello che era stato annunziato e che ora gli si rivelava. Andrea, Pietro e Giovanni dovettero aver parlato a Filippo con termini illuminanti, senza dubbi sul suo ruolo; dubbi che, se presenti, erano stati dissipati sia attraverso la visione dello Spirito sceso sotto forma di colomba, ma anche dai dialoghi che avevano avuto nel luogo in cui Gesù abitava temporaneamente. Eppure, nonostante tutto il loro impegno e fervore nel descrivere ciò che da Lui avevano sentito, a niente sarebbero approdate le loro parole se anche Filippo non fosse stato nelle loro condizioni, quelle di riconoscersi nell’attesa e di credere che questa stava per finire perché i tempi erano giunti.

Il testo evangelico ci propone due verbi con tempi diversi, “seguimi” e “Filippo trovò Natanaele”, il che ci parla di un intervallo di tempo: “Seguimi” allora si riferisce a un invito con uno scopo preciso, perché Gesù chiede a Filippo di condividere parte della sua vita terrena con uno scopo che dichiarerà più avanti proprio sulle rive del Mare di Galilea, “Vi farò pescatori di uomini”, intendendo un guadagno spirituale e non economico.

Giovanni, tornando all’incontro con Filippo, non riferisce il dialogo tra i due, ma ne riassume il senso: lo invita a seguirlo, ma gli lascia del tempo per riflettere; altrimenti quell’uomo non avrebbe mai potuto cercare e trovare Natanaele, o incontrarlo non per caso, e portarlo da lui.

C’è dunque un tempo che Dio dà all’uomo per considerare le sue proposte. Un tempo costruttivo in cui la mente ragiona, valuta le Sue proposte e decide di conseguenza. Così, a prescindere di quello che Gesù e Filippo si siano detti, l’importante è il risultato: Filippo dopo quell’incontro trovò – quindi lo andò a cercare – Natanaele e gli disse «Noi abbiamo trovato colui del quale Mosè nella Legge, e i profeti, hanno scritto: Gesù, figlio di Giuseppe, che è da Nazareth»”. Sono parole identiche, nel loro entusiasmo, a quelle che aveva detto Andrea a suo fratello Simone, ma più dettagliate, che rivelano il desiderio di Filippo di essere esauriente con l’amico. Sono parole che indicano anche una liberazione dall’attesa e al tempo stesso la gioia dell’aver trovato senza sapere cosa questo avrebbe implicato nel tempo. Non importava il futuro non perché poteva essere affrontato a caso sperando in qualcosa, ma l’aver trovato.

A questo punto emerge la persona di Natanaele, chiamato nell’elenco dei dodici Bartolomeo, cioè “Figlio di Tolomeo” che nell’elenco apostolico è nominato sempre accanto a Filippo. Bartolomeo-Natanaele era nato e vissuto a Cana di Galilea, lo stesso paese in cui Gesù andrà alle nozze che verranno celebrate da lì a tre giorni e in cui farà il suo primo miracolo. Cana era vicina a Nazareth e Natanaele conosceva bene il carattere primitivo e rozzo degli abitanti di Nazareth a tal punto da replicare “Da Nazareth può venire qualcosa di buono?”. Tradotto letteralmente si legge “Da Nazareth può esservi qualcosa di buono?”. Forse Natanaele, uomo istruito, alludeva anche al fatto che nessuna profezia menzionava mai quel paese, anche se sappiamo la sua etimologia, Nezer, “Germoglio”, riferito a Gesù, che sarebbe stato chiamato Nazareno.

La risposta di Filippo, “Vieni e vedi” è illuminante perché, di fronte all’amico che partiva già prevenuto a quell’annuncio, non cerca di convincerlo facendo di lui un proselito, ma gli lascia la libertà di restare nella sua convinzione o di modificarla.

Come Gesù aveva dimostrato ore prima di conoscere profondamente Simone a tal punto da dirgli come sarebbe stato chiamato alludendo alla posizione che avrebbe occupato, parla a Natanaele prima al presente e poi al passato; infatti “Ecco un israelita in cui non vi è inganno” (termine preferibile al tradotto “falsità”) è l’analisi del suo carattere di base e la frase “Prima che Filippo ti chiamasse, ti ho visto quando eri sotto il fico” ci parla dei suoi pensieri ed è quella che lo convinse.

Riflettendo sui due periodi che abbiamo letto, possiamo dire che il primo avrebbe potuto essere letto anche come una specie di saluto o il tentativo di un imbonitore di far presa su uno sprovveduto perché a tutti, anche a quelli che onesti non sono, fa piacere ricevere un complimento, per quanto immeritato. Ma se Gesù fosse appartenuto alla categoria degli impostori, non avrebbe mai potuto rispondere al “Come mi conosci?” di Natanaele rispondendogli di averlo visto, ancora prima di quell’incontro, quando era sotto il fico.

Cosa voleva dire? In questa frase di Gesù c’è la descrizione di due luoghi, uno fisico e uno spirituale. Non erano pochi gli ebrei che, per riposare, meditare o pregare, si recavano sotto un albero di fico, pianta che si trovava molto frequentemente da quelle parti o che avevano nel recinto che circondava la loro casa. Sotto il fico spesso si pregava anche ed è a questa azione che Gesù fa riferimento parlando con Natanaele, dimostrandogli di conoscere il contenuto delle preghiere che rivolgeva a Dio e che contemplavano soprattutto, alla luce della predicazione di Giovanni Battista, la rivelazione al popolo di Colui che sarebbe venuto dopo Giovanni. Credo che sia stato quell’ “Io ti ho visto” a colpire Natanaele: “visto” non perché di passaggio, ma perché era lì, presente in spirito. E qui il vedere di Gesù implica l’ascoltare. Se Natanaele sotto il fico non avesse pregato specificamente per la venuta del Cristo, non sarebbe stato così colpito dalle parole di Gesù.

Allo stesso modo Nostro Signore vede quelli che pregano oggi, allo stesso modo è presente, secondo la Sua promessa, nella Chiesa: “Dove due o tre sono radunati nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Matteo 18.20). Vedere implica quindi l’ascolto e soprattutto, come nel caso di Natanaele, la conoscenza perfetta che Gesù ha dell’essere umano, la stessa che incontreremo nell’episodio in cui, trovandosi a Gerusalemme, leggeremo che “Molti, vedendo i segni che compiva, credettero nel suo nome. Ma lui, Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che alcuno delle testimonianza sull’uomo. Egli infatti conosceva quello che c’è nell’uomo” (Giovanni 2.23-25). Notiamo i verbi, che potrebbero sembrare grammaticamente scorretti, ma che in realtà sono riportati in un’ottica spirituale: “conosceva quello che c’è – non “c’era” –: allora come oggi, niente è cambiato. Per questa Sua conoscenza, anche quindi anche di Natanaele e di tutti, sappiamo che è impossibile che non ci sia un piano per tutti coloro che sono chiamati da Dio.

Natanaele capì di essere conosciuto e gli rispose “Maestro, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il Re di Israele”, riconoscendogli in tal modo tanto la dignità personale – Figlio di Dio –, quanto quella ufficiale – Re di Israele – per la quale era atteso e per la quale non fu creduto dalla maggioranza del popolo, autorità religiose in primis.

A questo punto, negli ultimi due versetti, Gesù rispose al nuovo discepolo che avrebbe visto cose ben maggiori e, rivolto anche a Filippo, una frase che ha riferimento al sogno di Giacobbe che troviamo descritto in Genesi 28.12: “Una scala poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo ed ecco, gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa”. Quello, assieme ad altri che ebbero a tanti uomini nell’Antico Testamento, fu un sogno profetico contemporaneo e futuro al tempo stesso: gli angeli, fedeli messaggeri di Dio, vengono descritti come portatori di messaggi dalla terra al cielo e viceversa. La storia letta nel libro della Genesi fino a quel punto, aveva mostrato episodi di quel tipo: pensiamo agli interventi su Agar, schiava di Sarai quando le predisse la nascita di Ismaele (Genesi 16), alla distruzione di Sodoma e Gomorra (19) o all’angelo che fermò Abrahamo poco prima che sacrificasse Isacco (22).

Nel sogno di Giacobbe gli angeli salivano e scendevano dal cielo, figura di un luogo inaccessibile all’uomo, mentre qui “D’ora innanzi vedrete il cielo aperto”, cioè la benevolenza di Dio rivelata, se non addirittura la rivelazione di Dio stesso. Presi in disparte i Suoi, disse loro “Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete. Io vi dico che molti profeti e re hanno voluto vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono” (Luca 10.24). Andrea e Filippo, certo con tutti gli altri e tutti gli uomini, peccatori salvati, avrebbero visto, letteralmente o figurativamente, il cielo aperto perché l’identità di Dio non sarebbe più stata vista attraverso un velo, ma per testimonianza diretta del Figlio di Dio, “Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, ma la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato” (Giovanni 1.17,18). Legge da una parte, Grazia e Verità dall’altra. Legge come figura del cielo chiuso, Grazia e Verità come figura del cielo aperto.

Dalle parole di Gesù, i discepoli avrebbero visto gli angeli di Dio salire e scendere sopra il Figlio dell’uomo: pensiamo all’episodio della tentazione nel deserto o all’angelo venuto per confortarlo al Getsemani (Luca 22.42), e quel “sopra” indica l’oggetto delle loro attenzioni: Lui, annunciato a Maria e ai pastori. Ci sono anche le parole di Gesù che, testimoniando davanti ai farisei, dirà “…allora conoscerete che Io Sono e che non faccio nulla da me stesso, ma parlo come il Padre mi ha insegnato. Colui che mi ha mandato non mi ha lasciato solo, perché faccio sempre le cose che gli sono gradite” (Giovanni 8.28,299.

Ecco il cielo aperto: il profeta dell’Antico Patto aveva il compito, più che predire il futuro secondo la nostra parziale concezione occidentale, di trasmettere quanto Dio voleva rivelare: rimproveri, eventi, giudizi e soprattutto la venuta del Cristo; ora che questi era giunto, altro non restava che rivelare il piano individuale che Dio aveva ed ha per ciascun essere che il Lui crede. La via del cielo, della dimensione nuova ed eterna, non è più chiusa: “Nessuno può venire al Padre se non per mezzo di me”.

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2.06 – I PRIMI DISCEPOLI I/II (Giovanni 1.35-42)

2.06 – I primi discepoli  I/II (Giovanni 1.35-42)

 

35Il giorno dopo Giovanni stava ancora là con due dei suoi discepoli 36e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: «Ecco l’agnello di Dio!». 37E i suoi due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù. 38Gesù allora si voltò e, osservando che essi lo seguivano, disse loro: «Che cosa cercate?». Gli risposero: «Rabbì – che, tradotto, significa Maestro -, dove dimori?». 39Disse loro: «Venite e vedrete». Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui; erano circa le quattro del pomeriggio. 40Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito, era Andrea, fratello di Simon Pietro. 41Egli incontrò per primo suo fratello Simone e gli disse: «Abbiamo trovato il Messia» – che si traduce Cristo – 42e lo condusse da Gesù. Fissando lo sguardo su di lui, Gesù disse: «Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; sarai chiamato Cefa» – che significa Pietro.

 

Dopo la tentazione nel deserto vista nel capitolo scorso, riannodare le file della cronologia non è facile. Un punto fermo è che solo superando le tentazioni nel deserto Gesù avrebbe potuto iniziare ad organizzarsi chiamando attorno a sé dei discepoli. Poiché a Matteo premono i contenuti, presenta un racconto essenziale collocando la chiamata dei primi discepoli dopo l’arresto di Giovanni, il suo abbandono di Nazareth con relativo trasferimento a Capernaum. Quasi lo stesso fa Marco, Luca parla del suo ritorno in Galilea e del fatto che insegnava nelle sinagoghe. L’apostolo Giovanni però era presente fin dall’inizio, essendo già discepolo del Battista e ci scrive dati più particolari senza però riferire il momento preciso in cui avvenne il battesimo di Gesù. In compenso è molto attento a contare i giorni. Leggiamo il racconto, su cui ci siamo già soffermati, delle sue risposte ai sacerdoti e ai leviti, poi quelle che diede ai farisei fino a quando non scrive “Il giorno dopo”: al capitolo 1 leggiamo “29Il giorno dopo, vedendo Gesù venire verso di lui, disse: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo! 30Egli è colui del quale ho detto: «Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me». 31Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare nell’acqua, perché egli fosse manifestato a Israele». 32Giovanni testimoniò dicendo: «Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui. 33Io non lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: «Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo». 34E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio»”. Viene quindi da pensare che Giovanni inizi a parlare del Battista dopo il battesimo di Gesù e che il racconto delle sue risposte alle domande prima agli inviati dei sacerdoti e loro associati e poi a loro stessi, sia stato scritto per dare una sorta di contemporaneità al racconto della tentazione nel deserto di Gesù. In 1.19 Giovanni scrive “Questa è la testimonianza di Giovanni, quando i Giudei gli inviarono da Gerusalemme sacerdoti e leviti a interrogarlo”, poi abbiamo una delegazione non più di inviati, ma di farisei che gli chiedevano ragione del suo battezzare, segno che tra un incontro e l’altro dovette passare del tempo: tempo per gli inviati di tornare a Gerusalemme, tempo per i farisei e loro simili di riflettere, decidere di recarsi là di persona, tempo per recarsi sulle rive del giordano: uno spazio che può essere ragionevolmente compreso nei quaranta giorni delle tentazioni. Gesù allora ritorna da Giovanni, o meglio passa nei pressi dove stava con due dei suoi discepoli, “il giorno dopo” che il Battista aveva risposto alle domande che gli furono rivolti dalle autorità religiose di allora.

Iniziano qui i primi incontri con quegli uomini, ma nel corso della vita terrena di Gesù anche donne, determinanti nella storia della salvezza in base alle loro caratteristiche interiori. I primi, futuri discepoli di Gesù lo erano di Giovanni Battista, segno che avevano creduto al suo messaggio, avevano ricevuto il segno esteriore del ravvedimento, del volersi predisporre a ricevere il Cristo che sarebbe venuto di lì a poco, quindi che aspettavano la sua manifestazione. Erano Andrea, fratello di Pietro, e Giovanni autore del Vangelo che, secondo la sua abitudine, preferisce parlare di sé in terza persona, senza nominarsi direttamente. A questi, ebrei osservanti che ben sapevano la funzione dell’agnello come animale sacrificale, il Battista indicò Gesù che passava: “Ecco l’Agnello di Dio”, che loro potevano intravedere come Colui che li avrebbe liberati dal peccato e che per noi è immagine della trasformazione secondo 1 Pietro 1.18,19: “Voi sapete che non a prezzo di cose effimere, come argento e oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta ereditata dai padri, ma con il sangue prezioso di Cristo, agnello senza difetti e senza macchia. Egli fu predestinato prima della fondazione del mondo, ma negli ultimi tempi si è manifestato per voi”.

Ecco un nuovo elemento che in quel momento Andrea e Giovanni non potevano sapere: Gesù venne nel tempo opportuno, ma prima che l’universo fosse creato aveva già accettato il suo compito, in previsione della rovina portata da Satana in Eden. “Negli ultimi tempi”, cioè in quello spazio breve della storia in rapporto all’eternità, si è manifestato per noi, cioè per ogni individuo che crede. E vengono in mente le parole di Maria, “Ha guardato alla bassezza della sua serva”.

 

Preso atto delle parole del Battista, ad Andrea e Giovanni non rimaneva altro che cercare di capire chi fosse quell’uomo che stava passando nei pressi: va bene, era l’Agnello di Dio, ma cosa pensava, dove viveva, cosa avrebbe fatto? Per loro nulla era più importante dell’attesa di qualcosa che non conoscevano nei dettagli, ma che prima o poi si sarebbe verificata. “Lo seguirono” indica una reazione immediata, dettata dall’interesse, di conoscere. Gesù, voltandosi, li vede e si rivolge a loro con una semplice domanda, non “chi”, ma “Cosa cercate”, un distinguo fondamentale: è molto facile sapere chi si cerca. Quando cerchiamo una persona, c’è sempre un motivo. Ma la domanda “cosa cerchi”, a meno che non si tratti di un oggetto, un utensile, richiede una risposta molto più impegnativa, obbliga a guardarsi dentro. Se uno chiede al suo prossimo cosa cerca, lo mette solitamente in imbarazzo perché lo obbliga a rivelare i suoi pensieri, ammesso che intenda rispondere. Forse, cosa cerca non lo sa nemmeno. Allora, se la risposta giunge, il risultato è sempre riferito al benessere della persona: sto male e vorrei stare bene, sto bene ma vorrei stare meglio; pochi sono coloro che si accontentano del proprio stato, quando non intervengono patologie gravi che portano l’essere umano ad una smodata ricerca di denaro, averi e potere.

Andrea e Giovanni gli chiedono dove abitasse. Non fu una risposta dettata dall’imbarazzo o perché, colti alla sprovvista, gli chiesero la prima cosa che venne loro in mente: lo avevano appena chiamato “Rabbi”, cioè Maestro, e il chiedergli dove abitasse implicava che lo volevano ascoltare così come la risposta che ebbero, “Venite e vedete”, era spesso data dai rabbini ai loro discepoli quando dovevano affrontare delle importanti questioni dottrinali. “Venite e vedete” nel senso di considerare, di ascoltare e fare le relative, autonome valutazioni. Gesù non impone loro nulla, non li chiama per primo, ma sono Andrea e Giovanni a farsi notare seguendolo e da lì poi si instaurerà una profonda relazione, dopo che saranno andati e lo avranno ascoltato.

Andarono dunque e videro dove egli dimorava”, non in una casa perché non si era ancora trasferito, ma era solo giunto lì per farsi battezzare. È molto probabile che Gesù abitasse in una specie di capanna, di quelle usate allora dai guardiani dei campi. Era quello un periodo particolare: abitava a Nazareth, ma aveva trascorso i quaranta giorni nel deserto, si sarebbe trasferito dalla sua città a Capernaum, Giovanni Battista stava per essere arrestato da Erode Antipa e c’era l’imminente viaggio a Cana con sua madre e i parenti, per cui un’abitazione nel senso vero e proprio del termine non sarebbe servita a nulla.

C’è però un particolare che Giovanni inserisce nel suo racconto ed è, oltre che “quel giorno rimasero con lui”, l’orario, che la nostra traduzione italiana riporta ne “le quattro del pomeriggio” dall’originale “era intorno le dieci ore”; si tratta dei diverso modo di contare le ore del giorno secondo i romani, che come ancora oggi si calcolano dalla mezzanotte, e gli ebrei, che iniziano a partire dalle nostre sei del mattino.

Ritengo che Giovanni annota l’orario per un motivo preciso, far sapere che lui e Andrea si intrattennero con Gesù per circa due ore poiché alle sei del pomeriggio si chiudeva la giornata secondo il giudaismo. Tale chiusura non va intesa come se da quell’ora esistesse un coprifuoco e nessuno potesse uscire di casa per cui l’ipotesi che si può fare è che, prima che arrivasse un nuovo giorno, Andrea e Giovanni restassero con Gesù a parlare, Andrea trovasse Pietro e lo conducesse al suo nuovo Maestro.

Giovanni, che allora doveva avere tra i 19 e i 20 anni, che sarà il più giovane dei gruppo dei dodici, non scrive il contenuto dei dialoghi intercorsi quel giorno, ma furono intensi ed esaustivi a tal punto da riferire di Andrea che, non appena incontrato Simone, gli disse entusiasta “Noi abbiamo incontrato il Messia”: non un Rabbi qualunque, ma quello che tutto Israele attendeva da tempo. La presentazione che Andrea fece a Simone, forse anche lui discepolo del Battista, fu presa sul serio visto che entrambi sapevano molto bene che Giovanni Battista annunciava l’arrivo di qualcuno molto più grande di lui, uno a cui lui non era degno di sciogliere il laccio dei sandali e neppure di portarli.

A differenza di quanto avvenuto precedentemente, Giovanni riporta un particolare dell’incontro di Gesù con Pietro: lo guarda in volto e gli dice “Tu sei Simone, figlio di Giona; tu sarai chiamato Cefa (che vuol dire Pietra)”. Qui possiamo fare qualche osservazione, la prima tecnica: come abbiamo avuto modo di leggere precedentemente, Giovanni inserisce delle brevi note: spiega che Cefa vuol dire Pietra – alcuni traducono “Pietro” –, prima informa i lettori che il termine Messia “interpretato vuol dire il Cristo”, prima ancora che Rabbi “tradotto, significa Maestro”, segno che scrive per lettori non ebrei. Cefa, per inciso, può essere tradotto anche con “roccia”.

La seconda osservazione è che lo chiama per nome e gli ricorda il padre, come farà spesso nelle occasioni importanti, come ad esempio dopo l’averlo riconosciuto come “il Cristo, il Figlio dell’Iddio vivente”: “Tu sei beato Simone, figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli” (Matteo 16.17); ancora ritroviamo questo ricordo nelle tre domande dopo la resurrezione, per riabilitarlo dei suoi tre rinnegamenti: “Simone, figlio di Giona, mi ami tu?” (Giovanni 21.15,16,17). Simone era il primogenito e non possiamo escludere che avesse ereditato il carattere del padre o che comunque fosse per lui importante per ragioni a noi ignote. Può anche essere più semplicemente che, chiamandolo “figlio di Giona”, Gesù volesse ulteriormente personalizzare il suo messaggio alludendo al fatto che, se di “Simone” potevano essercene tanti, solo lui era “figlio di Giona”.

Simone, figlio di Giona, sarebbe stato chiamato Cefa, così come Saulo di Tarso sarebbe stato chiamato Paolo. Cefa è una parola aramaica che significa pietra, o roccia e che ha connessione al carattere di quest’uomo che, da impulsivo, sanguigno, tendente a fare affermazioni avventate o a contare troppo sulle sue forze salvo poi pentirsene, fu trasformato dalla Grazia in un personaggio determinante e dominante nel libro degli Atti. Primo a riconoscere Gesù come Figlio di Dio, ma anche unico a rinnegarlo perché terrorizzato; pronto a difendere il suo maestro anche con le armi, diventerà un Suo potente testimone e il personaggio più importante della Chiesa di Gerusalemme.

Cefa fu così indicato dal suo futuro Maestro e sarà oggetto di numerosi suoi interventi che gli anticiperanno il suo destino: sulla sua affermazione che vede in lui “il figlio dell’Iddio vivente” edificherà la Sua Chiesa (Matteo 16.18), di fronte alla dichiarazione in base alla quale si credeva pronto a seguire Gesù fino alla morte, gli viene ricordato che lo avrebbe rinnegato tre volte prima del canto di un gallo. Poi abbiamo la frase che allude al martirio che avrebbe subìto: “In verità, in verità io ti dico che quando tu eri giovane, ti cingevi e andavi dove volevi, ma quando sarai vecchio stenderai le tue mani e un altro ti cingerà e ti condurrà là dove tu non vorrai” (Giovanni 21.18). Secondo la tradizione il martirio di Pietro avvenne a Roma sotto Nerone tramite crocifissione, a testa in giù per richiesta di Pietro. Così tramandano Girolamo, Tertulliano, Eusebio e Origene vissuti attorno all’anno 200. Di certo c’è una lettera di Clemente di Roma, datata tra il 95 e il 97 in cui si legge “Per invidia e per gelosia i più validi e i più importanti pilastri della Chiesa hanno sofferto la persecuzione e sono stati sfidati fino alla morte. Volgiamo il nostro sguardo ai santi Apostoli. San Pietro, che a causa di un‘ingiusta invidia, soffrì non una o due, ma numerose sofferenze, e, dopo aver testimoniato con il martirio, assunse alla gloria che aveva meritato”.

Si conclude così quello che per Giovanni è il terzo giorno. Nel primo abbiamo avuto le risposte del battista agli Scribi, Farisei e Sadducei. Il secondo ha visto la testimonianza che indicò in Gesù “L’Agnello di Dio, che toglie i peccati del mondo”. Quella fu l’occasione per testimoniare di ciò che aveva visto quando lo aveva battezzato, quaranta giorni prima. Nel terzo abbiamo avuto i colloqui che abbiamo esaminato e nel quarto, che vedremo, ci saranno altri due incontri, con dinamiche simili eppur diverse, con Filippo e Natanaele, chiamato anche Bartolomeo.

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02.05 – LA TENTAZIONE NEL DESERTO II/II (Matteo 4.1-11)

La tentazione nel deserto II/II (Matteo 4.1-11)

1 Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. 2Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. 3Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane». 4Ma egli rispose: «Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio». 5Allora il diavolo lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio 6e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù; sta scritto infatti: Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra». 7Gesù gli rispose: «Sta scritto anche: Non metterai alla prova il Signore Dio tuo». 8Di nuovo il diavolo lo portò sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria 9e gli disse: «Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai». 10Allora Gesù gli rispose: «Vattene, Satana! Sta scritto infatti: Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto». 11Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco, degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano.

 

Matteo scrive per gli ebrei ed è forse per questo che pone le altre due tentazioni in modo diverso da Luca. Entrambi non spiegano come avvenne lo spostamento dal deserto alla città santa, se corporalmente o in spirito. Matteo, in una traduzione più corretta, collega il secondo episodio con l’avverbio “allora”: “Allora il diavolo lo portò con sé nella santa città e lo pose sul pinnacolo del tempio”; “Allora” che sta a indicare una conseguenza, “a quel punto”, “stando così le cose”.

Il pinnacolo del tempio era un punto particolare: il “portico di Salomone” si congiungeva al “portico regio” di Erode: lì c’era una grande torre che si innalzava di circa 213 metri sulla valle del torrente Kedron più in basso. Giuseppe Flavio narra nelle sue Antichità Giudaiche che era impossibile affacciarsi da essa senza provare un violento senso di vertigine.

Ancora una volta abbiamo il “Se tu sei Figlio di Dio” questa volta accompagnato da una citazione scritturale dal Salmo 91: “1Chi dimora nel riparo dell’Altissimo, riposa all’ombra dell’Onnipotente. 2Io dico all’Eterno: «Tu sei il mio rifugio e la mia fortezza, il mio Dio, in cui confido». 3Certo egli ti libererà dal laccio dell’uccellatore e dalla peste mortifera. 4Egli ti coprirà con le sue penne e sotto le sue ali troverai rifugio; la sua fedeltà ti sarà scudo e corazza. 5Tu non temerai lo spavento notturno, né la freccia che vola di giorno, 6né la peste che vaga nelle tenebre, né lo sterminio che imperversa a mezzodì. 7Mille cadranno al tuo fianco e diecimila alla tua destra, ma a te non si accosterà. 8Basta che tu osservi con gli occhi e vedrai la retribuzione degli empi. 9Poiché tu hai detto: «O Eterno, tu sei il mio rifugio», e hai fatto dell’Altissimo il tuo riparo, 10non ti accadrà alcun male, né piaga alcuna si accosterà alla tua tenda. 11Poiché egli comanderà ai suoi Angeli di custodirti in tutte le tue vie. 12Essi ti porteranno nelle loro mani, perché il tuo piede non inciampi in alcuna pietra. 13Tu camminerai sul leone e sull’aspide, calpesterai il leoncello e il dragone. 14Poiché egli ha riposto in me il suo amore, io lo libererò e lo leverò in alto al sicuro, perché conosce il mio nome. 15Egli mi invocherà e io gli risponderò; sarò con lui nell’avversità; lo libererò e lo glorificherò. 16Lo sazierò di lunga vita e gli farò vedere la mia salvezza”.

Qui Satana, che conosce quindi la Scrittura e la distorce a suo favore. cambia strategia: non più una tentazione diretta, ma un discorso scritturale: alla luce del testo che abbiamo letto, Gesù viene invitato a gettarsi da quella torre solo apparentemente perché tanto la custodia garantita dagli Angeli ne avrebbe impedito la morte; in realtà con quelle parole invita il Salvatore a compiere un miracolo eclatante perché il popolo potesse credere in lui. Il testo non dice se la tentazione sia avvenuta di notte o di giorno, ma siccome Satana non aveva bisogno di credere in Gesù perché già lo conosceva, mette in opera una strategia volta a fare sì che il suo bersaglio, indebolito dalla fame e quindi nella mente, scegliesse un’alternativa più comoda al dover predicare, guarire individualmente infermi e indemoniati: buttarsi giù dal pinnacolo e atterrare senza danno. Tutto questo anche perché la tradizione religiosa ebraica sosteneva che il Messia si sarebbe manifestato proprio sul pinnacolo. Qui, allora, la tentazione è quella di mettere Gesù nelle condizioni di compiere un miracolo che non convertisse nessuno, ma fosse spettacolare, grandioso, che mettesse il popolo nelle condizioni di credere a quel condottiero vittorioso e invincibile che aspettavano.

Tutti i miracoli compiuti da Gesù, invece, avvennero sempre e solo perché l’uomo capisse e lo riconoscesse. Anche quello della moltiplicazione dei pani e dei pesci, fatto per sfamare 5.000 persone (Matteo 15.32-39), fu la dimostrazione tanto della Sua compassione quanto della totalità dell’amore di Dio che non abbandona alla fame né terrena, né spirituale, la propria creatura.

Proprio riguardando ai miracoli compiuti va osservato che, se Gesù non ne fece mai uno per sé, non ne fece mai neppure per dimostrare con manifestazioni inutili di essere quello che era. L’essenzialità di Dio è tale per cui va creduto per quello che è e soprattutto per tutto quello che ha fatto più che per miracoli che può sempre fare ancora. Del resto, un miracolo come la creazione di qualsiasi forma di vita e l’equilibrio del sistema è già di per sé molto eloquente. Infatti l’apostolo Paolo scrive che “le sue perfezioni invisibili, ossia la sua eterna potenza e divinità, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo attraverso le opere da Lui compiute” (Romani 1.20).

Un miracolo deve avere un perché, un’origine e un fine spirituale e non è, né può essere, una manifestazione di forza o potenza fine a se stessa. Ricordiamo le parole conclusive della parabola del ricco e Lazzaro in Luca 16.19-31: alla richiesta di una manifestazione miracolosa ai suoi fratelli ancora in vita “affinché non vengano in questo luogo di tormenti”, Abramo risponde “Hanno Mosè e i profeti, ascoltino quelli”.

Ecco perché la richiesta di Satana era assurda e soprattutto fuorviante ed ottenne la risposta “Non tentare il Signore Iddio tuo”, oppure come nella nostra traduzione “Non metterai alla prova”, cioè non chiedergli di agire senza un motivo valido, che poi è il “pregherò con intelligenza” dell’apostolo Paolo, visto che Dio non tenta, né può essere tentato da alcuno. Tentare nel senso di provocarlo, come in questo caso, sì. Man mano che si procede nella lettura dei vangeli, come stiamo facendo, scopro tutta la mia ignoranza e impotenza perché i temi che si possono affrontare e studiare sono innumerevoli: si tenta il Signore parlando di lui senza riflettere ed esaminare noi stessi per primi come fecero ad esempio gli amici di Giobbe. Si tenta il Signore riducendolo a persona che ci debba ascoltare a tutti i costi. Si tenta il Signore non procedendo nelle vie della carità pur nominandolo e confessandolo davanti agli altri percorrendo così la stessa via di Israele che, convinto di camminare sui sentieri di giustizia si sentì dire “Voglio misericordia e non sacrificio” perché credevano, coi loro sacrifici formali per i peccati commessi, di poter regolare i debiti che avevano con Lui.

 

L’ultima tentazione è interessante perché pone un dubbio: a che scopo mostrare tutti i regni della terra ad uno che re lo era già? Lo era, ma “non di questo mondo”. Gesù era prima di tutto un uomo stremato. La forza della terza tentazione, seconda secondo Luca, stava tutta nell’apparenza perché Satana gli mostra dei regni umani, temporanei, pieni di una gloria e una ricchezza che non avevano nulla a che vedere con quella che aveva e avrebbe avuto dopo la Sua resurrezione. Sono indicative le parole dell’Avversario che riferisce Luca in proposito: “Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio. Perciò, se ti prostrerai davanti a me, tutto sarà tuo” (4,6).

A Satana è stato dato tutto il potere e la gloria dei regni della terra. Inutile aspettarsi giustizia da loro, solidarietà, comprensione, leggi che difendano i deboli. Sono regni che raggiungeranno il loro apice con quella “Babilonia la grande” che cadrà inevitabilmente, ma che produrrà ogni sofferenza ed empietà a danno di coloro che vorranno salvarsi da essa. Babilonia sarà il trionfo temporaneo di Satana, che la dominerà utilizzando dei suoi ministri come ha fatto da sempre. Fin’ora nella nostra lettura cronologica abbiamo incontrato Erode il Grande, prima di lui nell’Antico Testamento ve ne furono tanti altri e altri ancora ne verranno tanto nell’epoca della Scrittura quanto in quelli successivi. Satana, definito “Il principe” o “L’Iddio di questo mondo”, con questa tentazione, vorrebbe fare di Gesù un suo collaboratore.

Dio di questo mondo” è un’espressione terribile perché rivela che gli uomini che non appartengono al Dio Vero ed Eterno appartengono di fatto all’altro che li porta alla rovina. Rare sono le persone che si dichiarano satanisti, ricorrendo a rituali specifici di adorazione a lui, ma molti sono quelli che si comportano come se il Dio vero non esistesse, convinti di essere liberi pensatori e padroni del loro arbitrio e destino, ma che in realtà appartengono al “Dio di questo mondo” e, comportandosi così, lo servono. Servono e inconsapevolmente omaggiano un dio illusionista che fa loro credere che la vita che vivono sulla terra sia l’unica e che li illude su una morte che si sa esista, ma si crede che venga il più tardi possibile: c’è tempo.

Mentre il Dio Creatore si rivela e si vuol rivelare, quello di questo mondo spesso si mimetizza. Mentre il Dio Creatore offre a chi crede in lui la vita eterna, quello di questo mondo propone miraggi visti in attese che, si realizzino o meno, sono destinate a frantumarsi per poi sfociare nella distruzione dell’anima vista nell’espressione “pianto e stridore di denti” usata spesso da Nostro Signore. Un caro fratello diceva che chi vuol vivere la propria vita come se Dio non esistesse, in realtà la imposta sul modello di una favola.

La lettura del Salmo 2, allo stesso tempo profetico e attuale, può aiutare a riassumere quanto detto:

 

1Perché le genti sono in tumulto e i popoli cospirano invano 2 Insorgono i re della terra e i prìncipi congiurano insieme contro il Signore e il suo consacrato: 3 »Spezziamo le loro catene, gettiamo via da noi il loro giogo!».4 Ride colui che sta nei cieli, il Signore si fa beffe di loro. 5 Egli parla nella sua ira, li spaventa con la sua collera: 6 »Io stesso ho stabilito il mio sovrano sul Sion, mia santa montagna». 7 Voglio annunciare il decreto del Signore. Egli mi ha detto: «Tu sei mio figlio,
io oggi ti ho generato. 8 Chiedimi e ti darò in eredità le genti e in tuo dominio le terre più lontane. 9 Le spezzerai con scettro di ferro, come vaso di argilla le frantumerai». 10 E ora siate saggi, o sovrani; lasciatevi correggere, o giudici della terra; 11 servite il Signore con timore e rallegratevi con tremore. 12 Imparate la disciplina, perché non si adiri e voi perdiate la via: in un attimo divampa la sua ira. Beato chi in lui si rifugia”.

 

            Satana chiede a Gesù un segno esteriore di adorazione, il prostrarsi: un modo per dichiararsi vinto, inferiore. Possiamo pensare che questa sia l’ultima delle tre tentazioni perché è solo in questa che l’avversario si rivela pienamente come antagonista di Dio senza dire “Se tu sei il Figlio di Dio”. Chiede di essere adorato con la prostrazione, atto mediante il quale la persona esprime tutta la propria inferiorità ponendosi in una posizione di assoluta subordinazione.

La risposta fu “Vattene, Satana. Sta scritto infatti «Adora il Signore Iddio tuo, e a Lui solo rendi il culto»”. Fu a quel punto che il diavolo lo lasciò. Fu questo episodio che mise Gesù nella condizione di dire un giorno, a ragion veduta, “Fuggite il diavolo, ed egli fuggirà da voi”.

Giuseppe Ricciotti fa un’interessante osservazione sulle tre tentazioni scrivendo che tutte mostrano una chiara relazione con l’ufficio messianico di Gesù, al quale contrastano. La prima lo vorrebbe indurre ad un messianismo comodo ed agiato; la seconda, ad un messianismo raccomandato a vuote esibizioni taumaturgiche; la terza, ad un messianismo che si esaurisca nella gloria politica. Se ci pensiamo, sono le stesse richieste di quella parte del popolo ebraico che si pose in contrasto con Lui.

All’allontanamento dell’Avversario fa immediato seguito “Ed ecco, degli angeli vennero a lui e lo servivano”, cioè gli portarono del nutrimento, lo stesso verbo usato in Marco 1.31 quando parla della suocera di Pietro che Gesù guarì dalla febbre.

Con l’episodio della tentazione fu fatto un grande passo in avanti nel cammino verso la salvezza dell’uomo: Gesù aveva vinto sul peccato e poteva iniziare da lì a pochissimo tempo il Suo Ministero. Lo farà andando ad abitare in Capernaum, o Cafarnao, e scegliendo i primi discepoli. E Marco? Abbiamo letto che riporta un dato singolare cioè, oltre che parlare degli angeli che lo servivano, “stava con le bestie selvatiche”, sintomo dell’assenza di Satana e figura di quel periodo in cui sarà legato per mille anni e sulla terra non ci sarà nessuna forma di violenza neppure nel regno animale, quello in cui, in Isaia 11, viene detto 6Il lupo dimorerà insieme con l’agnello; il leopardo si sdraierà accanto al capretto; il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un piccolo fanciullo li guiderà. 7La mucca e l’orsa pascoleranno insieme; i loro piccoli si sdraieranno insieme. Il leone si ciberà di paglia, come il bue. 8Il lattante si trastullerà sulla buca della vipera; il bambino metterà la mano nel covo del serpente velenoso. 9Non agiranno più iniquamente né saccheggeranno in tutto il mio santo monte, perché la conoscenza del Signore riempirà la terra come le acque ricoprono il mare.”

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02.04 – LA TENTAZIONE NEL DESERTO I/II (Matteo 4.1-11)

La tentazione nel deserto I/II (Matteo 4.1-11)

1 Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. 2Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. 3Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane». 4Ma egli rispose: «Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio». 5Allora il diavolo lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio 6e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù; sta scritto infatti: Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra». 7Gesù gli rispose: «Sta scritto anche: Non metterai alla prova il Signore Dio tuo». 8Di nuovo il diavolo lo portò sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria 9e gli disse: «Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai». 10Allora Gesù gli rispose: «Vattene, Satana! Sta scritto infatti: Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto». 11Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco, degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano.

 

Questo episodio è narrato dai soli sinottici. Giovanni, dopo il battesimo di Gesù, passa a raccontare l’incontro con Filippo, fratello di Andrea, che diventerà suo discepolo. Marco accenna solamente a quanto abbiamo letto usando le parole “E subito lo Spirito lo sospinse nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana. Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano” (1.12.13. Luca, salvo un piccolo ma non trascurabile particolare che vedremo alla fine, è simile al racconto che abbiamo letto.

Riflessione preliminare: Satana è un nome a lui attribuito che ne designa la qualifica, il compito, e significa “l’avversario”. Di lui parlano il profeta Ezechiele (che ci racconta le sue origini e del ruolo che rivestiva fino a quando non si ribellò a Dio) e il libro di Giobbe nei cui primi due capitoli di Giobbe sono narrati i dialoghi tra Dio e il Tentatore tesi a provare questa persona che, per giustizia e riguardo al suo Creatore, aveva un comportamento irreprensibile. Dio disse di lui all’Avversario “Hai posto attenzione al mio servo Giobbe? Nessuno è come lui sulla terra, timorato di Dio e lontano dal male” (1.8).

Giobbe, per quei tempi e a differenza di Gesù, testimoniava con la sua ricchezza che le benedizioni di Dio erano sopra di lui stante il modo con cui si comportava rendendo grazie per ogni cosa, pregando continuamente per i suoi figli perché forse con il loro comportamento potevano avere fatto qualcosa di sgradito a Dio ed usava pietà verso il suo prossimo. Gesù, figlio di Dio e Dio stesso, venuto con una missione precisa, aveva fino ad allora esercitato la propria sottomissione alla Legge, fatto il suo primo atto pubblico ricevendo il battesimo di Giovanni ed era stato annunciato agli uomini con la discesa dello Spirito Santo sotto forma di colomba. Era figlio di Dio, ma anche uomo. E per questo Satana aveva chiesto che fosse provato (più avanti Gesù dirà ai suoi discepoli “Satana ha chiesto di vagliarvi come si vaglia il grano”).

L’avversario, dal latino adversus, è colui che si oppone a qualcuno o a un progetto, e fa tutto ciò che è in suo potere per conseguire una vittoria su di lei. In questo caso Gesù si trovò di fronte alla stessa persona che, profondo conoscitore dell’animo umano e delle sue debolezze, fu in grado di porre le strategie più opportune per rovinare irrimediabilmente, anche se fino a un tempo stabilito, il progetto che Dio aveva in origine per l’umanità di cui Adamo ed Eva erano i capostipiti. Così farà anche dopo, contrapponendo costantemente all’uomo desideroso di percorrere i sentieri del Bene, persone intente a seguire quelli del Male o comunque alternativi a quelli di Dio, come da Caino in poi. Nel nostro caso si tratta di un personaggio, l’Avversario, che aveva tutto l’interesse al fatto che anche solo una delle tentazioni da lui ordite avesse successo perché, in qual caso, la “progenie della donna” non gli avrebbe potuto schiacciare il capo. In pratica, se una sola delle tentazioni fosse andata in porto, Gesù non avrebbe più potuto essere l’Agnello di Dio, perché non innocente e senza difetto né macchia, e neppure avrebbe potuto togliere il peccato del mondo perché avrebbe perso, esattamente come il capostipite della razza umana, l’innocenza. E non a caso Gesù è definito “l’ultimo Adamo”. Infatti: “45il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l’ultimo Adamo divenne spirito datore di vita. 46Non vi fu prima il corpo spirituale, ma quello animale, e poi lo spirituale. 47Il primo uomo, tratto dalla terra, è fatto di terra; il secondo uomo viene dal cielo. 48Come è l’uomo terreno, così sono quelli di terra; e come è l’uomo celeste, così anche i celesti. 49E come eravamo simili all’uomo terreno, così saremo simili all’uomo celeste. 50Vi dico questo, o fratelli: carne e sangue non possono ereditare il regno di Dio, né ciò che si corrompe può ereditare l’incorruttibilità” (1 Corinti 15.45-50). La traduzione corretta del verso 1 è “Allora Gesù fu condotto nel deserto dallo Spirito per essere tentato dal diavolo (lett. Avversario/ingannatore)”, che pone l’accento su uno scopo preciso: venire provato prima di iniziare il suo ministero. Il tempo che Gesù passò nel deserto viene contato in quaranta giorni, numero che indica un periodo e non necessariamente una quantità precisa: ricordiamo il diluvio, in cui piovve per 40 giorni e altrettante notti (Genesi 7.4), Noè che aprì la finestra dell’arca dopo 40 giorni (Genesi 8.6), i giorni in cui Mosè rimase sul monte (Esodo 24.18), Elia, che camminò per lo stesso tempo (1 Re 19.8), i 40anni nel deserto del popolo di Israele, condannato a non trovare la strada per l’idolatria commessa e la fede, praticamente nulla, dimostrata.

Il tempo di Gesù nel deserto non fu facile, tormentato dalla compagnia del tentatore che, se leggiamo i particolari del testo, non rimase lì ad aspettare che il suo bersaglio avesse fame: ci fu tutta una serie ininterrotta di tentazioni di cui sono citate solo le più rappresentative; il numero tre sta ad indicare “tutto il possibile” e solo alla fine Luca scrive “Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato”. Dopo aver esaurito ogni tentazione, cioè dopo avere fatto tutto ciò che era in suo potere per farlo cadere. E “Fino al momento fissato”, cioè alla croce, quando potrà ferire la progenie della donna al calcagno con la morte.

Il racconto di Matteo differisce da quello di Luca per la cronologia delle tentazioni, che sono però le stesse: Matteo mette nell’ordine (1) le pietre che avrebbero potuto diventare del pani, (2) il gettarsi giù dal pinnacolo del tempio e (3) i regni della terra, Luca inverte la 2 e la 3, ma ciò non cambia il senso delle iniziative portate avanti da Satana che, conoscendo l’umanità di Gesù, lo tenta nel modo più naturale, cioè lo prende per fame. C’è un particolare molto interessante visto nel modo con cui inizia il suo discorso: “Se tu sei Figlio di Dio”, cioè lo definisce allo stesso modo con cui il Padre lo presentò al battesimo di Giovanni, “Questi è il mio Figlio, l’amato, in lui ho posto il mio compiacimento” (Matteo 3.17), segno che, tra i tanti presenti, c’era anche lui. Ricordiamo ancora una volta il libro di Giobbe quando, alla domanda “Da dove vieni?”, Satana rispose “Da un giro sulla terra che ho percorso”. La terra, corrotta dal peccato, non può che essere il luogo ideale per questo essere che sta scritto “Si aggira come un leone che ruggisce cercando chi poter divorare”.

La prima tentazione fu quella per fame, cioè quella che coinvolgeva l’immediatezza umana di Gesù: fisiologicamente non gli era possibile sottrarsi alla necessità di mangiare e non aveva modo di soddisfarla. Dopo un lungo periodo senza alimentazione, la sensazione di fame si trasforma in uno stato progressivamente più grave, fino a diventare acutamente dolorosa. Satana non gli andò incontro, non comparve davanti a lui all’improvviso, ma gli si accostò, cioè gli andò vicino gradualmente quasi a non volerlo apparentemente disturbare per porsi nel modo più naturale possibile: “Se tu sei Figlio di Dio, dì che queste pietre diventino pani”, cioè in altri termini: “Visto che sei stato presentato come l’amato Figlio, puoi benissimo saziarti compiendo un miracolo”.

L’Avversario sapeva benissimo chi era Gesù e non chiede un miracolo per credere in Lui, ma cerca di sfruttare la Sua fame per indurlo a volgere a suo vantaggio il Suo essere Figlio di Dio compiendo un miracolo per sé, cosa che non fece mai. Vero è che nel testo evangelico leggiamo episodi apparentemente inspiegabili, come ad esempio quando a Gerusalemme volevano prenderlo per lapidarlo in cui è scritto “…ma egli sfuggì dalle loro mani” (Giovanni 10.39) oppure quando, prima di catturarlo, “indietreggiarono e caddero a terra” (Giovanni 18.16), ma questo è da attribuire al fatto che era stabilito un solo momento perché fosse dato “in mano agli uomini” e non altri.

Se Gesù avesse compiuto il miracolo del mutare le pietre in pani, avrebbe perso la sua identificazione con l’uomo che certamente non avrebbe potuto fare una cosa simile. Sappiamo infatti che Nostro Signore non fece mai un miracolo per sé stesso, come vediamo dalle parole di quelli che, di passaggio, lo insultavano quando era già sulla croce: “Tu che distruggi il tempio e in tre giorni lo ricostruisci, se sei Figlio di Dio, scendi dalla croce”; ricordiamo le parole degli scribi, degli anziani e dei capi sacerdoti: “Ha salvato gli altri e non può salvare se stesso. È il re d’Israele, scenda dalla croce, e crederemo in lui” (Matteo 27.39-42).

Tornando alla prima tentazione, Gesù risponde citando Deuteronomio 8.3: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”. C’è nutrimento e nutrimento, per la vita dell’uomo: quella materiale ha bisogno del pane, ma per vivere degnamente e in prospettiva, per ricuperare il proprio essere, l’uomo non può fare a meno della Parola di Dio, anzi, di “ogni parola”. L’uomo che vive di solo pane basa la propria vita su una realtà che crede sia l’unica, non avendo il coraggio di ammettere che questa è temporanea, illusoria, la stessa che videro i nostri progenitori provandone un’immensa vergogna.

Ecco allora che aggrapparsi a quell’”Ogni parola che esce dalla bocca di Dio” equivale a riappropriarsi di quell’eredità perduta che in realtà abbiamo parzialmente recuperato quando siamo divenuti figli di Dio avendo accolto Gesù nella nostra vita, ciascuno secondo le capacità e i talenti ricevuti. Spesso si pensa che, per ottenere la vita eterna, si debbano fare chissà quali opere perfette e grandi e ci si dimentica che il miracolo primario è già avvenuto: da peccatori, siamo stati fatti figli di Dio e siamo chiamati a gestire la vita terrena prendendola come un cammino illuminato dalla Parola che deve avere la precedenza sul quotidiano.

Andiamo ad esaminare il contesto del verso citato da Gesù leggendo Deuteronomio 8,1-5: 1 Abbiate cura di mettere in pratica tutti i comandi che oggi vi do, perché viviate, diveniate numerosi ed entriate in possesso della terra che il Signore ha giurato di dare ai vostri padri. 2Ricòrdati di tutto il cammino che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore, se tu avresti osservato o no i suoi comandi. 3Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore. 4Il tuo mantello non ti si è logorato addosso e il tuo piede non si è gonfiato durante questi quarant’anni. 5Riconosci dunque in cuor tuo che, come un uomo corregge il figlio, così il Signore, tuo Dio, corregge te.” Per approfondire il discorso sulla manna, Esodo 16

La citazione del verso che Gesù cita a Satana, allora, a parte le osservazioni fatte, aveva un significato ancora più chiaro: sfamandosi con quel pane che gli veniva suggerito di procurarsi trasformando le pietre, Gesù avrebbe commesso un’azione autonoma, slegata dal Padre, il solo che avrebbe potuto provvedere a Lui: se ci fosse stata la trasformazione delle pietre in pani, Satana avrebbe vinto.

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02.03 – IL BATTESIMO DI GESÙ (Matteo 3.13-17)

Il battesimo di Gesù (Matteo 3.13-17)

13Allora Gesù dalla Galilea venne al Giordano da Giovanni, per farsi battezzare da lui. 14Giovanni però voleva impedirglielo, dicendo: «Sono io che ho bisogno di essere battezzato da te, e tu vieni da me?». 15Ma Gesù gli rispose: «Lascia fare per ora, perché conviene che adempiamo ogni giustizia». Allora egli lo lasciò fare. 16Appena battezzato, Gesù uscì dall’acqua: ed ecco, si aprirono per lui i cieli ed egli vide lo Spirito di Dio discendere come una colomba e venire sopra di lui. 17Ed ecco una voce dal cielo che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento».

Tutti i Vangeli sottolineano che la predicazione del Battista aveva raggiunto il suo punto culminante e per questo Gesù, “dalla Galilea” e quindi da Nazareth, venne in Betania, quella al di là del Giordano. Del suo battesimo ne parlano tutti e quattro gli Evangelisti, ciascuno con un particolare proprio, utile a contestualizzarlo anche se cronologizzare gli avvenimenti di quel giorno non è così immediato.

Giovanni Battista e Gesù erano parenti e, se non sappiano se si conoscessero di persona come avviene per gli esseri umani, indubbiamente la conoscenza spirituale era molto forte. Di certo, ricordando l’episodio in cui, concepito da sei mesi, ebbe un sobbalzo nel ventre di sua madre quando Maria andò in visita da lei, lo riconobbe. Giovanni sapeva che Gesù non aveva certo bisogno di pentimento, di confessare dei peccati e del battesimo e per questo non si riteneva degno di amministrarglielo: “Sono io che ho bisogno di essere battezzato da te, e tu vieni a me?”. La risposta è illuminante: “Lascia fare per ora, perché conviene che adempiamo ogni giustizia” ed è proprio quell’ “ogni”, che si riferisce al non trascurare nulla, che ci spiega il perché Gesù voleva e doveva farsi battezzare pur non attendendo nessun salvatore essendolo lui stesso, pur non avendo peccati da confessare né essendo peccatore come tutti gli altri uomini, tali per natura a causa dell’eredità in Adamo a prescindere dai peccati specifici commessi.

Essere dei “peccatori” non indica un gruppo di persone dedite a crimini particolari contemplati da un codice penale, ma tutti coloro che, nati di donna, conducono o hanno condotto la propria vita senza avere beneficiato del perdono di Dio tramite la fede in Gesù Cristo. Il periodo in cui avvenne il battesimo di Gesù e intermedio, a cavallo tra la Dispensazione della Legge e quella della Grazia, “Legge” di cui dà un accenno Paolo in Romani 3.20-26: “20…in base alle opere della Legge nessun vivente sarà giustificato davanti a Dio, perché per mezzo della Legge si ha conoscenza del peccato. 21Ora invece, indipendentemente dalla Legge, si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla Legge e dai Profeti: 22giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono. Infatti non c’è differenza, 23perché tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, 24ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù. 25È lui che Dio ha stabilito apertamente come strumento di espiazione, per mezzo della fede, nel suo sangue, a manifestazione della sua giustizia per la remissione dei peccati passati 26mediante la clemenza di Dio, al fine di manifestare la sua giustizia nel tempo presente, così da risultare lui giusto e rendere giusto colui che si basa sulla fede in Gesù”.       Abbiamo letto “remissione dei peccati passati”: per quelli che il credente, come essere umano, può sempre commettere, c’è la confessione e il loro abbandono.

Torniamo al battesimo di Gesù: quando disse a Giovanni Battista “Lascia fare per ora, perché conviene che adempiamo ogni giustizia”, è scritto che “lo lasciò fare”, segno che comprese che il Cristo doveva condividere in tutto e per tutto la vita dell’uomo: fino ad ora sappiamo che fu circonciso, lui che non aveva bisogno di avere un segno esteriore della propria appartenenza al popolo di Dio. Sappiamo che fu osservante in tutto, restando sottomesso ai genitori per non incorrere neppure per un attimo nell’identificazione col “figlio ribelle” riportata in Deuteronomio 21.18 e segg., che la sua fu una crescita in sapienza e in grazia presso Dio e gli uomini: ricevendo il battesimo da Giovanni, iniziava il suo primo distinguersi tra coloro che, sensibili all’insegnamento ricevuto dalla Legge e dai Profeti, confessavano di avere bisogno del Messia promesso e accettavano di convertirsi, e coloro che lo rifiutavano. Battezzandosi, Gesù volle unirsi a quello che poi sarebbe diventato il Suo popolo, coloro che avrebbero creduto in lui riconoscendolo per le parole che avrebbe detto e i miracoli che avrebbe compiuto.

Chi infatti si estraniava dal battesimo di Giovanni, interrogandolo senza capire e restando in quella categorie di persone che lui stesso aveva definito “Razza – inteso come appartenenza ad esse, o “progenie” come altri traducono – di vipere”, ne rigetterà tanto gli insegnamenti che i miracoli, trovando ogni giustificazione e pretesa pur di negarli.

Gesù fu così battezzato pubblicamente. Quello che avvenne dopo lo riportano anche gli altri tre Vangeli, ma con piccole differenze: per Marco “Subito, uscendo dall’acqua, vide squarciarsi i cieli e lo Spirito discendere verso di lui come una colomba” (1.10), l’apostolo Giovanni fa dire al Battista, anche se in un momento successivo, “Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui” (1.12); Luca invece, in 3.21-22 21Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì 22e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento»”.

Gesù dunque, ricevuto il battesimo, si mise a pregare, ponendosi poco distante. Non ci è detto quanto, ma di certo era ben consapevole che da quel momento sarebbe iniziato per lui quel cammino di sofferenza e rinuncia che non aveva fatto prima: in Nazareth era cresciuto, spostandosi per i pellegrinaggi a Gerusalemme, aveva condiviso la vita di famiglia con i suoi fratelli e le sue sorelle, si era caratterizzato come una persona diversa crescendo come sappiamo, ma dal battesimo in poi sarebbe diventato un personaggio pubblico, avrebbe avuto davanti un’esistenza fatta di predicazione, miracoli e guarigioni, spostamenti da una città ad un’altra, si sarebbe scontrato con l’ottusità delle persone, avrebbe subìto una morte considerata ignominiosa e tutto questo lo sapeva. Così come sapeva la quantità enorme di anime che avrebbe salvato col suo sacrificio.

La preghiera al Padre era inevitabile e necessaria perché da Lui poteva ottenere la sola assistenza e approvazione di cui aveva bisogno. La risposta del Padre fu duplice: scese lo Spirito Santo su di lui sotto forma di colomba dopo che i cieli furono aperti. Giovanni Battista dirà “Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui” (Giovanni 1.32). Colomba, non le “lingue di fuoco” con cui si manifestò sui credenti della Chiesa di Gerusalemme: la colomba, lo stesso animale che Noè aveva mandato fuori dall’arca e che era tornata con un ramoscello di ulivo. La colomba che è collegata all’oppresso e all’indifeso: “Timore e spavento mi invadono e lo sgomento mi opprime. Chi mi darà ali come di colomba per volare e trovare riposo?” (Salmo 55.6-7). Colomba che si collega al ritorno degli esuli: “Accorreranno come uccelli dall’Egitto, come colombe dell’Assiria e li farò abitare nelle loro case” (Osea 7.11). Soprattutto, qui la colomba ha riferimento all’episodio di Noè: l’ulivo che gli portò era il segno ufficiale che l’ira di Dio, che aveva risparmiato lui e la sua famiglia ma aveva inesorabilmente condannato gli altri uomini che popolavano la terra, era finita ed era imminente la sua uscita dall’arca.

Allo stesso modo lo Spirito Santo, sceso “in forma di colomba” dal cielo e non da altre direzioni, stava a significare la benevolenza di Dio sull’uomo e che di lì a poco sarebbe giunta la salvezza per tutti coloro che l’avrebbero accolta: “…e a tutti coloro che l’hanno accolto, ha dato il potere di diventare figli di Dio”.

Giunse una voce dal cielo: chi l’avrà sentita? I presenti o solo Giovanni? Non ci è detto, manca la frase “E tutti si meravigliarono” alla quale chi ha letto i Vangeli fin qui è abituato, ma è probabile che, a un atto pubblico e ufficiale di Gesù, abbia fatto seguito un’altrettanto pubblica e ufficiale manifestazione del Padre e dello Spirito Santo.

Un particolare essenziale, a questo punto, lo riporta l’apostolo Giovanni in 1.29-34:

29Il giorno dopo, vedendo Gesù venire verso di lui, disse: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo! 30Egli è colui del quale ho detto: «Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me». 31Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare nell’acqua, perché egli fosse manifestato a Israele». 32Giovanni testimoniò dicendo: «Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui. 33Io non lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: «Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo». 34E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio».

 

L’agnello di Dio. Così diverso da quello che veniva sacrificato per la Pasqua. Un uomo innocente a tal punto da essere paragonato a un agnello che, a differenza degli altri, toglie il peccato del – e non “dal” – mondo. Sono parole che ogni israelita avrebbe dovuto comprendere, poiché non solo avevano riferimento all’agnello che si sacrificava per la Pasqua, ma a quello che ogni sabato veniva offerto nel Santuario alla mattina e alla sera come sacrificio per il peccato (Esodo 29.38; Numeri 28.3-10). Se andiamo poi a prendere il verbo usato per “togliere”, vediamo che ha come significato anche quello di “prendere su di sé” e di “portare”. Pietro scrive nella sua seconda lettera “Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia; dalle sue piaghe siete stati guariti. Eravate erranti come pecore, ma ora siete stati ricondotti al pastore e custode delle vostre anime” (2.24,25). Sempre Giovanni nella sua prima lettera dice “Voi sapete che egli si manifestò per togliere i peccati e che in lui non vi è peccato” (3.5).

Nella lettera ai Galati 1.3 Paolo scrive “Grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo, che ha dato se stesso per i nostri peccati al fine di strapparci da questo mondo malvagio”, bellissimo ritratto che racchiude lo scopo del sacrificio dell’Agnello di Dio: per strapparci, cioè togliere, portare via con un movimento violento e rapido. Lo strappo si rende necessario quando occorre togliere in fretta qualcosa di ancorato ad una struttura. Chi quindi crede è strappato dal mondo, da tutte quelle cose alle quali dava un valore e che lo condizionavano. Strappato da una falsa morale, rispettabilità, tendenze, trapiantato in realtà nuove. Strappato al campo del mondo dominato da Satana, per essere impiantato nel campo di Dio. Nato di nuovo, d’acqua e di spirito.

Ma ancora di più, lo strappo si riferisce al destino che ha “questo mondo malvagio”, destinato a perire e ad essere distrutto assieme a tutti coloro che, a quell’Agnello di Dio, non avranno voluto guardare.

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02.01 – INTRODUZIONE A GIOVANNI BATTISTA (Marco 1.1-8)

Introduzione a Giovanni Battista (Marco 1.1-8)

Della persona e opera di Giovanni Battista parlano tutti e quattro gli Evangelisti che, in base base al loro carattere e agli scopi che si prefiggono, forniscono un quadro esauriente del profeta che segna lo spartiacque tra l’Antico e il Nuovo Testamento. Gesù infatti disse, in Matteo 11.13, “…tutti i profeti e la legge hanno profetizzato fino a Giovanni, e se lo volete accettare, egli è l’Elia che doveva venire”. Si trattava di quell’Elia che gli israeliti attendevano quale profeta che avrebbe preceduto il Messia secondo Malachia 4.5: “Ecco, io vi mando Elia il profeta prima che venga il giorno dell’Eterno, giorno grande e spaventevole”; si tratta di un verso che riassume quel periodo iniziato con la venuta del Cristo e terminerà con il giudizio di Dio sul mondo. I riferimenti a Giovanni Battista, che secondo l’annuncio angelico avrebbe camminato “davanti a lui con lo spirito e la potenza di Elia” sono tanti; il significato del suo messaggio è semplice, ma al tempo stesso ha molte sfaccettature, difficili da affrontare esaurientemente anche in più incontri. Per presentarlo, è possibile iniziare dal racconto di Marco 1.1-8.

1 Inizio del vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio. 2Come sta scritto nel profeta Isaia:Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero: egli preparerà la tua via. 3Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri.4Vi fu Giovanni, che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati. 5Accorrevano a lui tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme. E si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati. 6Giovanni era vestito di peli di cammello, con una cintura di pelle attorno ai fianchi, e mangiava cavallette e miele selvatico. 7E proclamava: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. 8Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo».

Marco è una persona che ebbe un’esperienza particolare: come Luca, non faceva parte dei 12 apostoli anche se, rispetto a lui, abbiamo più dati biografici. Non sappiamo se conobbe Gesù direttamente quando predicava, ma sicuramente era presente nell’orto degli ulivi quando fu arrestato ed è opinione consolidata che lui stesso si citi in un episodio che gli altri evangelisti omettono quando, 14.50-51, scrive “Allora tutti lo abbandonarono e fuggirono. Lo seguiva però un ragazzo, che aveva addosso soltanto un lenzuolo, e lo afferrarono. Ma egli, lasciato cadere il lenzuolo, fuggì via nudo”. Secondo l’uso degli ebrei che erano in contatto con romani e greci, è quel “Giovanni detto Marco” che Barnaba voleva prendere con sé prima di partire con Paolo verso la Macedonia (Atti 15.37). Sua madre Maria ospitava la Chiesa di Gerusalemme che aveva in Pietro uno degli uomini più autorevoli (leggere Atti 12.1-18).

Marco aveva già allora un rapporto molto diretto con Pietro, che lo definisce “figlio mio”, a tal punto da seguirlo a Roma, indicata dall’apostolo come “Babilonia” nella sua prima lettera in 5.13: “Vi saluta la comunità che vive in Babilonia e anche Marco, figlio mio”. Pietro, quindi, stante il rapporto con questo giovane, gli raccontò gli episodi di cui fu testimone spiegandogli i loro significati dottrinali, mettendolo in condizione di scrivere un Vangelo molto spontaneo e colorito che è il più breve dei quattro. San Girolamo, vissuto nella seconda metà del 300, padre e dottore della Chiesa che tradusse per primo la Bibbia in latino, scrive in proposito “Evangelium, Petro narrante et illo scribente, compositum est”.

Papia, vissuto tra il 70 e il 130, così scrive di Marco: “Marco, divenuto interprete di Pietro, scrisse accuratamente, ma non in ordine, tutto ciò che ricordava delle cose dette o fatte dal Signore. Non era lui, infatti, che Marco aveva visto o seguito, ma come ho già detto fu Pietro. E quest’ultimo impartiva i suoi insegnamenti secondo le necessità del momento, senza dare una raccolta ordinata dei detti del Signore, di modo che non fu Marco a sbagliare scrivendone alcuni così come li ricordava. Di una sola cosa infatti si dava pensiero nei suoi scritti: non tralasciare niente di ciò che aveva udito e non dire niente di falso”.

Marco scrive per far conoscere il Vangelo ai pagani: pochi i riferimenti profetici, poche le parabole e i discorsi, ma fatti circostanziati spesso non in ordine cronologico, con ritratti e particolari vivaci dei personaggi e degli avvenimenti in modo tale che possano essere ricordati facilmente. Marco è anche quello che più di tutti usa il termine “subito” o “prontamente” per descrivere le reazioni della gente che ebbe a che fare con Gesù. L’essenzialità dei suoi racconti, allora, appare adatta per presentare anche Giovanni Battista, introdotta con un verso che è sia di Malachia (3.1) che di Isaia (40.8).

“Ecco, dinnanzi a te mando il mio messaggero: egli preparerà la tua via” è un verso che si richiama all’uso orientale di inviare dei messaggeri: quando una persona importante stava per mettersi in viaggio, li inviava ad avvisare i villaggi del suo passaggio per provvedere agli approvvigionamenti della scorta e per allestire la tenda per la sosta. La seconda parte, di Isaia, indica il luogo in cui la voce si sarebbe fatta sentire: il deserto, luogo in cui ci vuole un motivo per recarvisi e ancor più per viverci, come aveva fatto Giovanni Battista. “Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri”, è invece più particolare: lo abbiamo già incontrato tempo fa e allora lo avevamo messo in connessione col cammino del popolo che, di ritorno dall’esilio, aveva bisogno di chi spianasse la strada per rientrare nella propria terra, ma qui, per le parole di Giovanni che esamineremo, ha riferimento a un percorso interiore che ciascun uditore era chiamato a fare per ricevere Colui che stava per arrivare.

Quando si muoveva una personalità eminente, l’arrivo del messaggero in un villaggio provocava sempre scompiglio, turbava la sua quiete fatta di tutta una serie di eventi abituali: occorreva allora fare dei preparativi, cercare materiali, allestire cose. Allo stesso modo “Giovanni, che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati”, provocava inevitabilmente una profonda riflessione e sconvolgimento in coloro che lo ascoltavano e sceglievano volontariamente di farsi battezzare: confessavano i loro peccati non privatamente, ma pubblicamente.

Prima di esaminare il battesimo praticato da Giovanni, bisogna analizzare alcuni elementi suoi caratteristici. Sul vestito avevamo già accennato in precedenza; in particolare va rilevato che Elia vestiva allo stesso modo: “…domandò loro: «Qual era l’aspetto dell’uomo che è salito incontro a voi e vi ha detto simili parole?» Risposero: «Era un uomo ricoperto di peli; una cintura di cuoio gli cingeva i fianchi». Egli disse «Quello è Elia, il Tisbita»” (2 Re 1.7,8).

Ricordiamo che Elia non morì come tutti gli altri uomini, ma scomparve dalla vista del profeta Eliseo nel corso di un avvenimento che troviamo in 2 Re 2.11: “Mentre continuavano a camminare conversando, ecco un carro di fuoco e cavalli di fuoco si interposero tra loro due. Elia salì nel turbine verso il cielo” (2.11). Basandosi sulla profezia di Malachia era così opinione diffusa che quel profeta, assunto in cielo, sarebbe ritornato poco prima di quel giorno “grande e spaventevole” profetizzato. In realtà, quel giorno deve ancora venire e i suoi tempi sono descritti nel libro dell’Apocalisse 11.1-13. Ecco perché Giovanni, a quanti lo interrogavano chiedendogli se fosse Elia, rispose negativamente.

Giovanni vestiva in un modo che lo qualificava quanto ad abbigliamento, ma questo non dava teoricamente alcuna garanzia che fosse un profeta, poiché prima di lui erano giunti diversi personaggi che avevano preteso di essere Elia, se non addirittura il Messia. Testimonianza di ciò la dà lo stesso Gamaliele, maestro di Paolo, quando prese la parola davanti al Sinedrio di Gerusalemme che voleva processare gli apostoli:Tempo fa sorse Tèuda, infatti, che pretendeva di essere qualcuno, e a lui si aggregarono circa quattrocento uomini. Ma fu ucciso, e quelli che si erano lasciati persuadere da lui furono dissolti e finirono nel nulla. Dopo di lui sorse Giuda il Galileo, al tempo del censimento, e indusse molta gente a seguirlo, ma anche lui finì male, e quelli che si erano lasciati persuadere da lui si dispersero. Ora perciò io vi dico: non occupatevi di questi uomini e lasciateli andare. Se infatti questo piano o quest’opera fosse di origine umana, verrebbe distrutta; ma, se viene da Dio, non riuscirete a distruggerli. Non vi accada di trovarvi addirittura a combattere contro Dio!” (Atti 5.36,39).

Gamaliele in quell’occasione riassunse personaggi noti perché già falsi predicatori messianici erano sorti, sfruttando le attese del popolo per ottenerne vantaggi personali o fomentare ribellioni di cui a pagare non fossero loro, ma quelli che li seguivano. I predicatori messianici parlavano partendo dal presupposto che gli ebrei erano il primo popolo della terra, che avrebbero ottenuto la vittoria contro i romani e, raccolta gente attorno a loro, saccheggiavano quando potevano depositi di armi, si proclamavano re, si davano ai saccheggi, pretendevano di aver fatto miracoli o li promettevano, cercavano in tutti i modi di fare proseliti e tutto, presto o tardi, veniva represso nel sangue o si estingueva quando i loro seguaci capivano di trovarsi di fronte a battaglie perse in partenza.

C’è però un dato da considerare: nonostante tutti quei precedenti Elia era aspettato da tempo in Israele e, quando Giovanni iniziò a predicare, il popolo non rimase indifferente alla notizia, ma accorreva per vedere e sentire da vicino le sue parole, sperando che non fosse uno dei tanti impostori che lo avevano preceduto. Giovanni era cresciuto nel deserto rinunciando alla vita sociale, a un lavoro e quindi alla possibilità di mangiare in modo umanamente decente anziché le locuste e il miele selvatico che riusciva a recuperare, quello che le api producevano nelle cavità degli alberi o delle rocce. Era il suo uno stile di vita che manifestava l’intenzione di vivere alla completa dipendenza da Dio senza preoccuparsi di ciò che avrebbe portato il domani avendo la certezza che Lui avrebbe provveduto; atteggiamento ben diverso da quello del popolo ebraico antico che, liberato dalla schiavitù dell’Egitto, proprio nel deserto mormorava continuamente perché non riusciva a capire come avrebbe potuto trovare acqua e cibo, per non parlare di tutte le volte in cui rimpianse la vita che conduceva in quel Paese.

Giovanni inizia a predicare. Cosa? Vi è un annuncio base visto nelle parole “Ravvedetevi, perché il regno dei cieli è vicino” (Matteo 3.2) e leggiamo da Matteo “Allora Gerusalemme, tutta la Giudea e tutta la zona lungo il Giordano accorrevano a lui e si facevano battezzare nel fiume Giordano, confessando i loro peccati” (3.5). L’imperativo è “metanoièite”, cioè un invito a considerare non solo il proprio stile di vita, ma il pensiero e i sentimenti presenti nella persona di ciascuno per cambiarli. Tra i significati possiamo includere anche il “cambiare modo di pensare”. Il corrispettivo ebraico allude anche al ritornare indietro da una falsa strada per rimettersi su quella buona. La necessità del ravvedimento predicata dal Battista trovava il suo perché nella vicinanza del “regno dei cieli”, termine che usa solo Matteo (gli altri scrivono “regno di Dio”). “Regno” sta ad indicare un territorio, un insieme di cittadini che vivono tutti sotto una precisa autorità.

Giovanni Battista quindi, rinunciando a qualsiasi egocentrismo nel quale si erano crogiolati i suoi predecessori che agivano spinti dai loro interessi, predica la necessità del ravvedimento non come atteggiamento religioso, ma come esame profondo della propria vita e delle proprie opere per essere pronti, quando sarebbe venuto, ad accogliere quel “Re dei giudei che è nato” che i magi d’oriente erano venuti ad adorare. Chi fra quelli che andavano a lui erano disposti ad operare questo severo inventario della loro vita, lo facevano e “si facevano battezzare da lui nel Giordano, confessando i loro peccati” (Marco 1.5), cioè: la fede nelle parole di Giovanni, la certezza acquisita che il regno dei cieli fosse prossimo, li spingevano a dichiarare il proprio stato di peccatori attraverso una confessione pubblica e questo significava spesso rinunciare a quell’alone di rispettabilità che molti avevano costruito attorno a sé per essere considerati dal loro prossimo. I rispettabili tra il popolo, vale a dire scribi, farisei, sadducei e dottori della Legge, salvo eccezioni che non possiamo escludere, non andavano da lui, ma inviavano delle loro spie nei luoghi in cui predicava.

Alla confessione seguiva il battesimo, l’immersione nelle acque che stava a significare la purificazione del cuore, dichiarava la volontà di cambiare, di acquisire la cittadinanza di quel regno di Dio che stava per arrivare ed era così distante da quello degli uomini peccatori che appartenevano ad un regno diverso, un regno che non fa altro che opprimere e umiliare la persona da un lato e glorificare il monarca, un uomo peccatore al pari dei suoi sudditi.

“Regno dei cieli”, “Regno di Dio” in opposizione soprattutto a quello di Satana, che nel mondo domina e ha tutto l’interesse a che l’uomo si perda, illuso da quella realtà tangibile ai suoi sensi e che gli fa credere di essere immortale o comunque possessore di qualcosa. L’uomo illuso da Satana si rifugia in se stesso, nei suoi averi, nella sua “fede”, nel suo quotidiano convinto di poter disporre liberamente del proprio tempo escludendo la presenza di Dio nella sua vita né più né meno di quel ricco della parabola che Gesù espose in Luca 12.13-21.

In questa parabola, al di là di tutte le riflessioni sull’io di quell’uomo, colpisce il fatto che Dio pone chi si ritiene padrone di sé e delle sue cose di fronte a un termine: “Questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita”, il cui testo letterale dice “richiedono da te la tua anima”, temine che sta ad indicare tutto il suo essere, le sue intenzioni, i suoi progetti perché siano pesati, misurati, vagliati. Chi spiegherà molto bene con figure questo principio sarà più avanti l’apostolo Paolo in 1 Corinti 3.11-15: “Infatti nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo. E se, sopra questo fondamento, si costruisce con oro, argento, pietre preziose, legno, fieno, paglia, l’opera di ciascuno sarà ben visibile: infatti quel giorno la farà conoscere, perché con il fuoco si manifesterà, e il fuoco proverà la qualità dell’opera di ciascuno. Se l’opera, che uno costruì sul fondamento, resisterà, costui ne riceverà una ricompensa. Ma se l’opera di qualcuno finirà bruciata, quello sarà punito; tuttavia egli si salverà, però quasi passando attraverso il fuoco”. Viviamo in un periodo storico in cui, purtroppo, il cristianesimo predica un Dio amorevole, ma spesso omette di dire le Sue esigenze.

Altra parabola importante è quella della casa costruita sulla roccia (Matteo 7.24-29): tanto in questa che nella precedente è utilizzato il termine “stolto”, che indica chi ha poca intelligenza e si comporta in modo insensato.

Giovanni, con la sua predicazione, preparava il terreno con lo scopo di mettere in grado quanti lo ascoltavano di recepire il messaggio che sarebbe stato rivolto a loro da Gesù e di riconoscerlo.

Per ora abbiamo visto solo il senso generale del significato di quel “ravvedetevi”, che Marco ci ha riportato quale base di tutto un messaggio più profondo, rivolto a diverse categorie di persone, che esamineremo nel prossimo capitolo.

“Ravvedetevi perché il Regno dei cieli è vicino” va bene, ma c’è anche l’annuncio dell’imminente arrivo di una persona ben precisa:“Viene dopo di me Colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzato con acqua, ma Egli vi battezzerà con lo Spirito Santo” (v.8). È un verso che si divide in due periodi ben distinti e il primo riguarda il sciogliere e lacci dei sandali: si tratta di un’usanza molto antica che veniva praticata in pubblico quando una persona rinunciava a un proprio diritto per darlo ad un altro. È probabile che Giovanni si riferisse all’opera di Gesù, che consegnò con il suo sacrificio un popolo nuovo al Padre. Con questa espressione Giovanni spiega ai presenti che non era lui il Messia atteso, ma solo un suo messaggero, quello che l’autorità inviava nei paesi per avvisare del suo transito. Addirittura Giovanni, con l’immagine del sciogliere i lacci dei sandali, arriva quasi ad estraniarsi, annullarsi di fronte alla santità di chi sarebbe venuto dopo di lui, evidenziando la differenza dei ruoli: “Io vi ho battezzato con acqua, ma Egli vi battezzerà con lo Spirito Santo”, parole che si compirono nel giorno della Pentecoste quando lo Spirito Santo scenderà sui membri della primitiva Chiesa di Gerusalemme in Atti 2.1-13.

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01.20 – GESÙ A DODICI ANNI (Luca 2.41.52)

01.20 – Gesù a dodici anni (Luca 2.41-52)

 

41I suoi genitori si recavano ogni anno a Gerusalemme per la festa di Pasqua. 42Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono secondo la consuetudine della festa. 43Ma, trascorsi i giorni, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero. 44Credendo che egli fosse nella comitiva, fecero una giornata di viaggio e poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti; 45non avendolo trovato, tornarono in cerca di lui a Gerusalemme. 46Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li interrogava. 47E tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte. 48Al vederlo restarono stupiti, e sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo». 49Ed egli rispose loro: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». 50Ma essi non compresero ciò che aveva detto loro. 51Scese dunque con loro e venne a Nàzaret e stava loro sottomesso. Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore. 52E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini.”.

 

Torniamo da Luca, che omette gli episodi visti in precedenza, riassume il periodo di silenzio dei Vangeli sull’infanzia di Gesù con il verso 40: “Intanto il bambino cresceva e si fortificava nello Spirito, essendo ripieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui”. Il silenzio su ciò che fece Nostro Signore dal ritorno dall’Egitto a quando iniziò il Suo Ministero pubblico è interrotto solo da questo evangelista.

Cerchiamo ora di collocare l’episodio dal punto di vista delle usanze del popolo di Israele: la Pasqua che troviamo citata al verso 41 era la prima delle cosiddette “feste del pellegrinaggio”, cui seguivano quella della Pentecoste e dei Tabernacoli. Erano chiamate “del pellegrinaggio” perché, in occasione di quelle, ogni maschio era obbligato a recarsi al Gerusalemme al Tempio. In occasione della Pasqua l’affluenza era tale che, per evitare un ammasso incontrollato di persone in quel luogo, si stabilivano tre turni a partire dalle ore 14 e, tra l’uno e l’altro, si chiudevano le porte.

Arrivare alla Città Santa per la Pasqua, per chi veniva da lontano come Giuseppe, Maria e Gesù (120 km circa partendo da Nazareth), significava aggregarsi a una carovana che non aveva una disciplina rigida nel senso che poteva benissimo essere composta da numerosi gruppi indipendenti l’uno dall’altro che si ritrovavano poi assieme la sera per il pernottamento. L’età di Gesù è poi importante perché raggiunti i 12 anni era considerato maggiorenne: i bambini maschi iniziavano ad essere istruiti nella Legge dall’età di cinque, a 10 studiavano la Mishnà (ripetizione, insegnamento), la Torah orale e, una volta raggiunti i 12, si raggiungeva l’età in base alla quale dopo un altro anno il ragazzo veniva dichiarato “Bar Atorah”, cioè “Figlio della Legge”, o “Bar Mitzwah”, “Figlio del comandamento”. Si trattava di una cerimonia in cui il padre del giovane dichiarava pubblicamente che suo figlio aveva piena conoscenza della Legge e quindi, da quel momento, sarebbe divenuto responsabile dei suoi peccati. Da quel momento, inoltre, il giovane avrebbe iniziato ad apprendere un mestiere, solitamente quello del padre. I dodici anni, allora, sono da intendersi come il compimento, la presenza di basi solide su cui costruire la persona dell’israelita che avrebbe conosciuto al compimento del tredicesimo anno la sua piena personalità di essere responsabile davanti a Dio e agli uomini.

Gesù quindi, tornando a quanto scritto sulla carovana, al pari di un adulto poteva aggregarsi all’uno o all’altro gruppo senza problemi. Ecco perché i suoi genitori non si preoccuparono subito del fatto che non fosse con loro.

Era anche consuetudine che ragazzi della sua età fossero guardati con attenzione dai dottori della Legge, dai rabbini e in qualche caso dai sommi sacerdoti che conversavano con loro per valutarli; dove esistevano le scuole, erano proprio i Maestri a scegliere i bambini che avrebbero studiato con loro dall’età di sei anni. La scuola antica, così diversa dalle nostre, prevedeva discussioni e insegnamenti col metodo maieutico oltre che approfondimenti sui testi delle Scritture (la Legge e i Profeti). Gesù stava là, in mezzo a loro, e siccome la dinamica della scuola si manifestava non attraverso banali interrogazioni, ma piuttosto sull’esposizione di pensieri e domande che maestri e discepoli si ponevano vicendevolmente, ecco emergere la conoscenza di Nostro Signore che parlava, discuteva in modo tale da meravigliare coloro che lo ascoltavano: quelli che Gesù stupiva “per la sua intelligenza e le sue risposte” non erano persone ordinarie, ma dottori della Legge che sedevano su sgabelli mentre i discepoli sedevano a terra (ecco perché l’espressione “seduto ai piedi di” per indicare l’appartenenza a una determinata scuola).

I verbi usati dalla traduzione italiana del verso 46, “ascoltare” e “interrogare”, sottintendono un chiedere rispettosamente e seriamente spiegazioni, cosa che esclude la docenza: in pratica Gesù, per il quale non era ancora giunto il momento in cui avrebbe dovuto manifestarsi al mondo, si distingueva dagli altri ragazzi della sua età confermando le parole che già abbiamo letto nel Vangelo di Luca quando descrive i Suoi anni giovanili: “si fortificava in Spirito, essendo ripieno di sapienza, e la grazia di Dio era sopra di lui”. Sicuramente questa era la Sua priorità espressa con la replica al rimprovero di sua madre: “Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”.

Ecco, Luca ci riporta questa frase che, stante il suo metodo di ricerca, fu Maria stessa a riferirgli, che sottintende il verso di Davide in Salmo 40.8,9 “Dio mio, io prendo piacere nel fare la tua volontà, e la tua legge è dentro il mio cuore – quindi non una formalità da adempiere per essere in pace con la propria coscienza –. Ho proclamato la tua giustizia nella grande assemblea: ecco, io non tengo chiuse le mie labbra. O Eterno, tu lo sai”.

Gesù dodicenne disse “devo occuparmi delle cose del Padre mio”, parole che tradotte letteralmente suonano “essere nelle cose di mio Padre”, quindi uniscono in una cosa sola la Sua vita terrena e tutto il Suo esistere, la Sua missione. Mentre Giovanni Battista cresceva e si fortificava, preparandosi ad affrontare il deserto per poter ascoltare un’unica voce, Gesù cresceva in mezzo agli uomini rimanendo nelle cose di Suo Padre, cioè senza distaccarsene mai. Un esempio per noi, per i cristiani tenuti non tanto ad “occuparsi” del Vangelo, ma di “essere”, di “vivere” in Lui.

Al verso 49 troviamo due domande: la prima (“Perché mi cercate?”) esprime solo apparentemente stupore. In realtà Gesù vuol far riflettere sua madre sul fatto che, se avesse davvero assimilato le parole dell’Angelo sulla Sua missione, non avrebbe dovuto preoccuparsi di lui trattandolo come un figlio qualunque. Come scrive Robert Stewart, “Se si fosse rammentata delle parole di Gabriele, di Simeone e di Anna, Maria avrebbe subito capito che il Tempio era il luogo che maggiormente si addiceva a lui”. Al rimprovero “Tuo padre ed io ti cercavamo”, Gesù fa notare alla madre che il Suo vero Padre era un altro e che il fatto che vivesse ancora con loro non poteva intralciare l’opera che avrebbe dovuto compiere un giorno e che lì si poteva intravedere per la prima volta, per lo meno per quanto Luca ci racconta.

Le Sue sono parole importanti, dividono il ragionare umano da quello spirituale e vengono pronunciate in un momento rappresentativo della Sua vita: se possiamo ragionevolmente supporre che Gesù per la Pasqua fosse andato al Tempio anche l’anno prima e il successivo, quei suoi dodici anni erano importanti quale spartiacque tra l’età dell’innocenza e quella responsabile senza contare che solo a Gerusalemme il dodicenne ebreo si sarebbe potuto confrontare coi dottori della Legge, le maggiori autorità religiose del tempo. Lì c’era il centro della scienza religiosa, le scuole migliori, i Rabbi più conosciuti.

Il rimanere là nel Tempio ad ascoltare e porre domande non fu quindi una “disubbidienza” di Gesù ai suoi genitori e il fatto che troviamo scritto che tornato a Nazareth, “stava loro sottomesso” non va inteso come una sorta di pentimento di fronte ad uno sbaglio e di un modo per farsi perdonare, ma ha attinenza con lo scopo della sua venuta in quanto fu con noi non per abolire, ma per adempiere. Gesù si identificò sempre con l’uomo, mai con il peccato. La Sua doveva essere una vita che trascorresse in perfetta santità e l’unico modo che aveva per essere veramente “l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo”, come lo presentò Giovanni Battista, era venire sacrificato innocente al momento stabilito. Un’innocenza che non ebbe mai bisogno di rinnovarsi con pentimentoe/o la confessione perché altrimenti non avrebbe potuto essere quel “Cristo nostra Pasqua che è stato immolato” (1 Corinti 5.7).

Il comportamento di Gesù che “stava loro sottomesso” è poi l’antitesi di Deuteronomio 21.18-21: “Se uno avrà un figlio testardo e ribelle che non obbedisce alla voce né di suo padre, né di sua madre, e benché l’abbiano castigato non darà loro retta, suo padre e sua madre lo prenderanno e lo condurranno dagli anziani della città, alla porta del luogo dove abita e diranno agli anziani della città «Questo nostro figlio è testardo e ribelle, non vuole ubbidire alla nostra voce, è uno sfrenato e un bevitore». Allora tutti gli uomini della sua città lo lapideranno ed egli morirà, così estirperai da te il male e tutto Israele lo saprà e avrà timore”.

La Pasqua in Gerusalemme, tornando all’episodio, era terminata da pochissimo. Penso alla quantità enorme di agnelli offerti in occasione di quella festa il cui numero, nell’anno 65 stando a un calcolo fatto per Nerone, furono 255.600, come scrive Giuseppe Flavio. La vita di Gesù, che come sappiamo ebbe una durata di circa 33 anni, fu una testimonianza continua fatta di scelte sempre e solo indirizzate al compiacere il Padre, cosa che nessun uomo era mai riuscito a fare: “Non sapete voi che devo essere nelle cose del Padre mio?”.

Essere, risiedere, crescere nella grazia, conoscenza e autorità: se non fosse stato perché occorreva salvare l’uomo, certo non ne aveva alcun bisogno, Lui presente alla creazione, Lui che era là, che come “Parola” diede il primo ordine, “Sia la luce”, perché la creazione avesse inizio: “Prima che Abramo fosse, io sono” (Giovanni 8.58).

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01.19 – LA FUGA IN EGITTO (Matteo 2.13-15)

01.19 – La fuga in Egitto (Matteo 2.13-15)

 

13Essi erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: «Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo».14Egli si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto, 15dove rimase fino alla morte di Erode, perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: Dall’Egitto ho chiamato mio figlio. 16Quando Erode si accorse che i Magi si erano presi gioco di lui, si infuriò e mandò a uccidere tutti i bambini che stavano a Betlemme e in tutto il suo territorio e che avevano da due anni in giù, secondo il tempo che aveva appreso con esattezza dai Magi. 17Allora si compì ciò che era stato detto per mezzo del profeta Geremia: 18Un grido è stato udito in Rama, un pianto e un lamento grande: Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata, perché non sono più.”.

 

I Magi, dopo la loro adorazione e aver lasciato i doni che consentiranno a Gesù e alla sua famiglia una vita dignitosa oltre al loro sostentamento nel periodo in Egitto, non verranno più nominati. Con la loro venuta e partenza da Betlehem si apre e si chiude una finestra su quella moltitudine di popoli che sarebbero stati chiamati e salvati in seguito. L’omaggio dei Magi, di cui non ci viene detto il nome né quanti fossero, è quello delle anime che aspettano l’adempimento del regno di Dio, di chi è conscio di un mistero che verrà rivelato un giorno. I Magi si basavano su pochi elementi, ma li seppero conservare con certezza aspettando quella stella ogni notte, in un buio solo apparente, amico. Metto sempre a confronto il mettersi in viaggio di quelle persone, che si fidarono solo della loro tradizione e fede, e il comportamento dei sapienti interpellati da Erode che, per nulla interessati dal racconto di quegli stranieri, risposero freddamente che il Messia sarebbe nato a Betlehem per poi tornarsene alle loro occupazioni, ai loro riti, alla gestione della propria ignoranza interiore, all’incapacità di distinguere, in quei testi davvero sacri orgogliosamente studiati, che era giunto il tempo in cui il regno di Dio sarebbe giunto a loro.

Il sogno dei Magi fu una rivelazione che dovette confortarli molto: tutti loro ricevettero lo stesso messaggio, ebbero la medesima visione, cosa umanamente impossibile; così, all’aver trovato la stella, al Re dei Giudei individuato e omaggiato, si aggiunse un ordine di Dio in sogno che osservarono. Considerata la continuità del triplice messaggio ricevuto – stella, Re e sogno -, alla parola data ad un re umano preferirono rispettare quella che il Re divino aveva rivolto a loro.

Subito dopo la partenza dei Magi abbiamo la quinta rivelazione dell’angelo, termine che non si riferisce ad un essere con ali e aureola, ma a un personaggio identificabile come un “messaggero”. Nessun profeta, tranne che nelle sue visioni riguardanti realtà soprannaturali che si svolgono in ambienti non umanamente raggiungibili, ha mai dato sugli angeli in terra descrizioni diverse da quelle di “uomini” talché l’autore della lettera agli Ebrei in 13.2 scrive “Non dimenticate l’ospitalità: alcuni, praticandola, hanno ospitato senza saperlo degli angeli”.

Rivelazioni angeliche precedenti al sogno di Giuseppe furono l’annunzio a Zaccaria, quello a Maria, a Giuseppe invitato a non lasciare la sua promessa sposa, quello ai pastori, e infine questo, che costituisce anche il secondo sogno di Giuseppe, che ebbe rivelata la volontà di Dio sempre in questo modo.

Va rilevato che la traduzione “sta cercando il bambino per ucciderlo” non è corretta ed è preferibile quella che recita “si accinge a cercare il bambino per eliminarlo” o, come traduce Diodati, “cercherà il bambino per farlo morire”. Anche Ricciotti scrive “sta per cercare il bambino”. La versione che ho scelto per il suo italiano più scorrevole, fa istintivamente pensare che Erode decise la “strage degli innocenti” a seguito di un attacco d’ira perché gabbato dai Magi. Dio invece, perfetto conoscitore degli eventi anche futuri, preavvisa il “padre” di Gesù quando ancora Erode progettava di eliminare il bambino e aspettava il rientro a palazzo della delegazione dei Magi.

La reazione di Giuseppe, uomo d’azione, è un esempio di fedeltà: destatosi, comprende la vitale importanza del sogno, sveglia la moglie, entrambi prendono le loro cose e partono in breve tempo affrontando una settimana circa di viaggio con un bimbo di pochi mesi raggiungendo a un certo punto l’antica strada carovaniera che costeggiava il Mediterraneo per poi raggiungere la Palestina e finalmente l’Egitto. Un viaggio duro ed estenuante caratterizzato dal caldo del deserto. È utile ricordare che lo stesso percorso, relativamente alla carovaniera, è citato da Plutarco che afferma che i soldati romani di Gabinio, una delle personalità più importanti del periodo che precedette la guerra civile tra Cesare e Pompeo, temevano quella traversata più della guerra che li aspettava in Egitto.

Giunti là, penso che la famiglia si sia stabilita vivendo dignitosamente perché aveva con sé l’oro portato in dono dai Magi venuti da oriente. Giuseppe, Maria e Gesù sarebbero rimasti in Egitto fino a quando il messaggero non fosse tornato, vale a dire alla morte di Erode il Grande, avvenuta pare per cancrena di Fournier. Scrive Giuseppe Flavio (Guerre Giudaiche 1,656) “…tutto il suo corpo fu preda della malattia, diviso tra varie forme di mali; aveva una febbre non violenta, un prurito insopportabile su tutta la pelle e continui dolori intestinali, gonfiori ai piedi come per idropisia, infiammazione all’addome e cancrena dei genitali con formazione di vermi, e inoltre difficoltà a respirare se non in posizione eretta, e spasmi di tutte le membra”.

Torniamo alla cronologia: Maria e Giuseppe erano partiti come i Magi prima di loro ed Erode attendeva, sempre più spazientito, fino a quando non comprese, di suo o perché informato dai suoi agenti sparsi ovunque – tra i quali c’erano anche persone “normali” che gli riferivano fatti e comportamenti dietro compenso – di essere stato ignorato. Credo che nulla possa fare infuriare di più un despota del non essere preso in considerazione. Credo che nulla possa preoccupare di più un simile personaggio del sapere della nascita di un rivale, a parte le considerazioni che abbiamo fatto nel precedente studio: la domanda che gli fu rivolta, “Dov’è il re dei giudei che è nato”, era un presagio nefasto che lo preoccupava e che vedeva abbattersi non solo su di sé, ma anche sulla sua discendenza, su tutto ciò che aveva fatto e costruito.

Erode, che allora non era ancora malato, è scritto che si infuriò e prese l’unica decisione per lui possibile, cioè uccidere tutti i bambini di Bethlehem dai due anni in giù e, non volendo sbagliare, abbondò nei calcoli possibili basandosi sui dati che i Magi gli avevano fornito sulla durata del loro viaggio e da quando avevano visto la stella. Ebbe così luogo quella conosciuta come “strage degli innocenti”, che è stato calcolato, in base agli abitanti di Bethlehem (un migliaio) e ai bambini maschi che potevano esservi, potesse avere fatto una ventina di vittime. Fu episodio che, per la scarsa rilevanza per la mentalità di allora e per le altre nefandezze di Erode, non fu riportato da nessuno storico, neppure da Giuseppe Flavio, nonostante gli fosse ostile.

Sicuramente possiamo dire che questa strage può costituire un primo segno di contraddizione, il primo “sasso su cui inciampare” di cui parlò Simeone: ci si può chiedere perché, se

Dio è tanto misericordioso, abbia permesso la morte di bambini innocenti trucidati, presumiamo, con la spada, causando tanto dolore in chi restava, le madri per prime. La domanda è simile a quella che molti si pongono ogni qualvolta avvengono fatti di cronaca che turbano la sensibilità e l’opinione pubblica, come i terremoti, le inondazioni, gli attentati in cui “pagano” persone innocenti. Ci si dimentica che il mondo, la vita che viviamo, da quando i nostri progenitori furono esclusi da Eden, non offre alcuna garanzia di sopravvivenza e che siamo soggetti a termine. Non abbiamo firmato, né noi, né chi per noi, un contratto che ci dice che la nostra vita sarà longeva e avrà una scadenza lontana nel tempo, che si concluderà quando saremo soddisfatti perché vedremo ogni nostro progetto realizzato, che ce ne andremo come Abrahamo, che morì “in felice canizie, vecchio e sazio di giorni” (Genesi 25.8). Al contrario, scrive Paolo ai romani, “Noi sappiamo che fino ad ora tutto il mondo creato geme insieme ed è in travaglio” (8.24). La vita che ogni essere umano vive non è esente da nessuna sofferenza: malattie più o meno gravi, progetti e intenti che naufragano, attitudini che raramente riescono ad esprimersi come vorremmo. La morte dell’innocente, che una volta ho sentito definire come “un mistero”, rientra purtroppo nei casi dell’esistenza di cui l’agente che la causa porterà la responsabilità, come in questo caso. Rientra nelle conseguenze del peccato, in quelle “spine e triboli” che avrebbe prodotto la terra ad Adamo, là dove per “terra” non si deve intendere solo il suolo, ma la vita sul pianeta in quanto tale che, dal momento in cui inizia, non può che finire. Solo in Eden, territorio che ricordiamo fu posto da Dio sulla terra e da lui stesso circondato con quattro fiumi, non vi era sofferenza né morte, così come non vi sarà nel Regno di Dio, nei “Nuovi cieli e nuova terra ove dimora stabile la giustizia”.

Quando leggo questo episodio mi viene solo in mente la speranza che chi abbia ucciso quei bambini sapesse come e dove colpire, anche se le guerre combattute da sempre conoscono orrori anche maggiori e penso che il peccato non può che produrre la morte. La morte, che non è detto sia rapida, può arrivare in qualunque momento e ad ogni età; è un aspetto di quel “giorno del Signore che arriva come un ladro di notte”: coglie di sorpresa. Così sarà il suo ritorno, così accade sempre per la sua chiamata attraverso il decesso: pochissimi sono quelli che si trovano preparati a riceverlo. Per noi quanto avvenuto in Betlehem è un fatto orribile, ma non per gli storici antichi i quali, rispetto alle nefandezze di cui si macchiò Erode, non lo riportarono neppure. C’è chi sostiene che l’episodio non sia avvenuto e che Matteo abbia voluto colorire il suo Vangelo con un racconto teso a dimostrare due profezie adducendo il pretesto che il re non avrebbe potuto emettere una condanna a morte senza l’approvazione del Sinedrio: di fatto, Giuseppe Flavio riferisce che, pochi istanti prima di morire, Erode fece uccidere molti insigni giudei nell’ippodromo di Gerico perché ci fosse chi piangesse nell’occasione della sua dipartita. E non chiese il permesso a nessuno.

La strage degli innocenti, a conferma della prudenza che il re ebbe nell’ordinarla, non avvenne solo a Betlemme, ma nel territorio circostante e Rama era nei pressi. Ecco perché il pianto di Rachele, moglie di Giacobbe e madre di Giuseppe e Beniamino che morì di parto e venne sepolta là, “sulla via di Efrata, cioè di Betlemme” (Genesi 35.19) è accomunato a quello delle madri degli innocenti; Rachele non era una donna comune, soffrì perché era sterile e non riusciva a dare una discendenza al marito, al contrario dell’altra di lui moglie Lea.

La permanenza in Egitto durò circa due anni, ed ecco il terzo sogno di Giuseppe col messaggero: aspettava l’angelo che gli aveva detto di restare in Egitto, dove c’erano comunque ebrei e sinagoghe, e che lo avrebbe avvertito di tornare. Ciò avvenne alla morte di Erode il Grande, avvenimento che adempie quel proverbio di Salomone che recita “L’empio è travolto dalla sua stessa malvagità, ma il giusto ha speranza nella sua stessa morte” (Prov. 14.32).

Ho chiamato mio figlio fuori dall’Egitto” è la profezia che Matteo ci ricorda e la troviamo in Osea 11.1, “Quando Israele era fanciullo, io l’amai e dall’Egitto chiamai mio figlio”: è un aggiornamento storico che ci offre il passaggio da quando il popolo si mosse da quel Paese avendo Mosè come conduttore, a quello attuale, il Cristo. Ricordiamo che Mosé si troverà a parlare con Gesù ed con Elia alla trasfigurazione (Matteo 17.1-13).

A questo punto leggiamo che Giuseppe, di cui non abbiamo tramandato nessuna parola, esecutore obbediente alle istruzioni ricevute da Dio, fu preso da timore quando seppe che, morto Erode, gli era succeduto Archelao, crudele come suo padre. Il regno di Erode, in forza del suo testamento poi ratificato e modificato da Augusto che non voleva che il titolo di re competesse ad alcuno dei suoi figli, fu diviso tra loro: ad Archelao toccarono Giudea, Idumea e Samaria; Antipa ebbe la quarta parte del regno con la Galilea e la Perea e a Filippo toccò la Batanea con l’Auranitide, la Traconide e una parte dell’Iturea. Un altro figlio di Erode, Filippo omonimo del precedente, non ebbe alcun governo ma visse a Roma da privato cittadino. Mentre Antipa e Filippo governarono il loro territorio per tutto il tempo della vita di Gesù ed oltre, Archelao fu accusato di tirannia presso Augusto che lo destituì esiliandolo a Vienna nelle Gallie.

Ecco, qui abbiamo il raccordo con Luca, che inserisce un versetto che fa da ponte tra le benedizioni di Simeone ed Anna e l’episodio che lo vede dodicenne tra i dottori della Legge: “Ora quando ebbero compiuto tutto quello che riguardava l’osservanza della legge del Signore, ritornarono in Galilea, nella loro città di Nazareth” (2.39). Interessante l’aggiunta che fa al verso successivo: “intanto il bambino cresceva e si fortificava nello spirito, essendo ripieno di sapienza, e la grazia di Dio era sopra di lui”.

Ecco, Matteo spiega come mai Maria e Giuseppe tornarono a Nazareth, un perché spirituale e non solo: Gesù sarebbe stato chiamato “Nazareno” sia perché proveniente da quel paese, sia perché la parola ebraica da cui deriva il nome, “netzer” (“germoglio, ramo”) ricorda Isaia 11.1 “Poi un ramoscello uscirà dal tronco d’Isai – padre di Davide – e un germoglio spunterà dalle sue radici. Lo Spirito dell’Eterno riposerà su di lui: spirito di sapienza e di intelligenza, spirito di consiglio e di potenza, spirito di conoscenza e di timor dell’Eterno”. Tutto iniziò da Nazareth, che ricordiamo come prima località visitata dall’angelo Gabriele quando annunciò a Maria che avrebbe avuto un figlio.

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01.18 – DINAMICHE (Matteo 2-7-12)

01.18 – Dinamiche (Matteo 2.7-12)

 

7Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire da loro con esattezza il tempo in cui era apparsa la stella 8e li inviò a Betlemme dicendo: «Andate e informatevi accuratamente sul bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo».
9Udito il re, essi partirono. Ed ecco, la stella, che avevano visto spuntare, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. 10Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima. 11Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. 12Avvertiti in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese.
”.

 

Satana, il calcolatore, il tecnico, lo psicologo per eccellenza che si prefigge come unico scopo quello di agire contro i progetti di Dio nei riguardi dell’uomo al fine di perderlo, doveva fare tutto ciò che era in suo potere pur di avere ragione su Colui che lo avrebbe sconfitto. Perché là dove c’è un piano di salvezza, ce n’è anche uno di perdizione ordito dal “principe di questo mondo”. Lo fa da sempre. Questo piano iniziò una volta constatata la libertà, gratuità e ricchezza di relazione che l’uomo aveva in Eden e proseguì di pari passo con le varie epoche: pensiamo alla dispensazione della coscienza quando suscitò il pensiero omicida in Caino, al rifiuto all’obbedienza in quella della Legge, a Erode quando nacque Gesù e poi via, attraverso tutti i persecutori della vera Chiesa; solo il giudizio definitivo su di lui e relativi angeli potrà fermarlo una volta per sempre.

Ora, a proposito di Erode, riflettiamo un attimo su quanto sappiamo sulla biografia di re, imperatori o dittatori piccoli e grandi indipendentemente dall’epoca in cui sono vissuti: tutti loro hanno sempre teso ad esaltare la loro immagine perché dotati di un ego smisurato, adoratori in primis di loro stessi e disposti a tutto pur di garantirsi la sopravvivenza, oltre che propria, di quanto hanno costruito. Nella lettura dei testi storici abbiamo incontrati tanti, eroi negativi tanto nella Bibbia quanto al di fuori. La tecnica di questo piccolo despota è stata la seguente: trovandosi di fronte una delegazione di persone autorevoli che non lo avevano cercato dando molta più importanza a quel re che sarebbe stato davvero vittorioso e liberatore, Erode ritenne di non allarmarli facendoli scortare dai suoi uomini fino a Betlehem, e li chiamo “segretamente” – il fare di nascosto le cose è già indice di cospirazione contro qualcuno – informandosi nei dettagli sul motivo della loro visita, su come avevano fatto a sapere di quella nascita, sul loro viaggio e soprattutto da quanto tempo era apparsa la stella. Erode aveva quindi un piano di riserva, come dimostrò successivamente, per uccidere il bambino. Il re voleva usare i magi come informatori inconsapevoli, ma soprattutto il reale disegno (satanico) prevedeva che il bambino Gesù fosse ucciso dagli uomini di Erode proprio grazie ai dati forniti da chi che era venuto da lontano a rendergli omaggio. Era questa una beffa che, per l’Avversario, avrebbe rappresentato una grande sottolineatura alla sua eventuale vittoria contro progetto di Dio.

Il verso della stella che “giunse e si fermò sul luogo dove si trovava il bambino” si potrebbe raccordare a quanto è riportato in Giosuè 10.12-15 che narra l’episodio in cui Israele sconfisse gli Amorrei che, come è noto, fu interpretato letteralmente dalla Chiesa del 1600 quando, tramite il Sant’Uffizio, condannò Galileo per eresia: “«Fermati, sole, su Gabaon, luna, sulla valle di Aialon». Si fermò il sole e la luna rimase immobile finché il popolo non si vendicò dei nemici. Non è forse scritto nel libro del Giusto? Stette fermo il sole nel mezzo del cielo, non corse al tramonto un giorno intero. Né prima, né poi vi fu un giorno come quello, in cui il Signore ascoltò la voce di un uomo, perché il Signore combatteva per Israele” (12-15). Se quindi in via teorica il Creatore non avrebbe avuto difficoltà a “fermare una stella”, in realtà non fece nulla del genere, ma semplicemente raccordò la dinamica del viaggio dei magi e del luogo in cui suo Figlio si trovava a quella della congiunzione dei pianeti, vista la volta scorsa, in cui termina il moto diretto “da – a” per iniziare quello retrogrado: in quel momento sembra, a chi lo osserva, che “la stella” si fermi. Sono perfettamente consapevole di usare termini primitivi, rudimentali; tuttavia chi volesse approfondire in merito esistono studi molto interessanti, reperibili in Rete, editi dall’Osservatorio Astronomico di Genova a cura di Giuseppe Veneziano e Marco Codebò sia riguardo alla “stella dei Magi”, ma ancor di più sull’astronomia nei testi biblici.

Giunti a quel punto e constatato il fenomeno, i Magi capirono di essere arrivati a destinazione: per loro era il coronamento non solo di un lungo viaggio (800 km), ma di attese secolari che si erano tramandati da generazioni e l’idea che avessero di un salvatore dell’umanità che sarebbe nato ci conferma quanto fosse andato in profondità nel cuore e nella mente di queste persone l’insegnamento di Daniele, tramandato nei secoli e che si raccordava ai profeti venuti prima di lui.

Non sappiamo dove “la stella si fermò”: c’è chi traduce con “casa”, chi con “luogo”, ma è evidente che i Magi arrivarono quando Maria non era più impura secondo la Legge e che quindi avesse potuto trovare ospitalità presso dei parenti, probabilmente gli stessi che non avevano potuto accoglierla quando stava per partorire. Giuseppe non era presente e i Magi si prostrarono – come davanti al re che attendevano – e lo adorarono – lui, non sua madre – vale adire esternarono tutto il loro sentimento reverenziale, riconoscendo in lui chi avrebbe esteso il suo dominio spirituale su tutti i popoli. La loro conoscenza era quella che si tramandavano da generazioni basata su forse poche, ma per loro certe profezie e sono certo che vadano riconosciuti anche nel Salmo 72.9-12 di Salomone: “A lui si pieghino le tribù del deserto, mordano la polvere i suoi nemici. I re di Tarsis e delle isole portino tributi, i re di Saba e di Seba portino doni. Tutti i re si prostrino a lui, lo servano tutte le genti, perché egli libererà il misero che lo invoca e il povero che non trova aiuto”. Adorare presuppone il fatto che si riconosca a chi riceve quel gesto una dignità e un potere unico, riconoscendo l’inferiorità assoluta di chi la porge. Al prostrarsi dei magi si accompagnava un profondo sentimento interiore e non escludo che, per le modalità con cui si manifestò loro “la stella”, riconoscessero in Lui anche il re del creato.

Mi sorge spontaneo paragonare i due sentimenti descritti al verso 3 (“All’udire questo Erode fu turbato e con lui tutta Gerusalemme”) e il 10 (“Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima”), due opposti. Citando le parole di un fratello, “Il turbamento cui il testo si riferisce non caratterizzò solo Erode, ma soprattutto le autorità religiose del popolo d’Israele che dimostrarono, con il loro stile di vita, di non aspettare affatto il promesso Messia e di avere una profonda ignoranza delle scritture profetiche malgrado la lettura continua nel Tempio e nelle Sinagoghe. Ancora oggi molti celebrano il Natale di Cristo, ma non fanno mai proprio il Suo Vangelo e la dottrina degli Apostoli. Natale dunque non è espressamente la giornata nella quale dimostrare di essere necessariamente buoni, dove le strette di mano accompagnate da frasi di circostanza trovano fondamento solo in tradizioni pagane: quelle stesse mani che si stringono diventano poi da calde a tiepide e quindi fredde, dure, violente”. I Magi furono annunciatori della nascita di Gesù a un popolo che a parole attendeva un Messia che avrebbe dovuto portarlo a una vittoria materiale, non certo spirituale.

Dopo l’adorazione, ecco i doni che non ebbero un significato umano, ma profetico, premesso che secondo l’uso del tempo i re non ricevevano delegazioni che non portassero con sé degli omaggi.

 

  1. 1. ORO

era probabilmente quello di Ofir, estratto nella regione di Avila, che aveva 24 carati. Il suo significato, come per gli altri doni, è fondamentale: l’Avila era bagnata dal fiume Pison, primo dei quattro che prendevano origine dall’unico fiume che usciva dal giardino di Eden e che significa “Primogenito”; il Pison anticipa e presenta la persona e la nascita di Cristo, definito anche “Il primogenito di ogni creatura”. L’oro poi aveva connessione “pratica” con lo stato regale del bambino che gli attribuivano i Magi riconoscendo in Lui la Sua presenza nel tempo: re era e sarebbe stato sempre e per sempre, come del resto l’oro, che è inattaccabile dagli agenti chimici. L’oro, nella Scrittura, ha sempre connessione con l’essere di Dio, mentre l’argento con quella dell’uomo.

 

  1. 2. INCENSO

il riferimento è alla divinità di Cristo e al tempo stesso è figura della preghiera che sale verso l’alto. Ricordiamo che Gesù, nella Sua vita terrena, rimase sempre in contatto col Padre anche per mezzo di lei. Non sappiamo la composizione dell’incenso che gli portarono i magi, ma quella che i sacerdoti bruciavano sull’altare a lui dedicato, quello detto anche dei profumi, era costituito da quattro componenti in parti uguali, che si bruciavano al mattino e alla sera. “Sarà da voi ritenuta cosa santissima, Non farete per vostro uso alcun profumo di composizione simile a quello che devi fare: lo riterrai una cosa santa in onore del Signore. Chi ne farà di simile, per sentirne il profumo, sia eliminato dal suo popolo. (Esodo 30.34). Non è azzardato, per estensione, paragonare ai componenti dell’incenso ai quattro Vangeli che solo amalgamati, connessi e armonizzati tra loro possono dare un quadro esaustivo del messaggio di Dio per l’uomo. È in questo incenso che risiede la verità come in Cristo ne abita tutta la pienezza. Essendo l’incenso un profumo, viene spontaneo paragonarlo al Suo sacrificio.

 

  1. 3. MIRRA

proveniente da Avila come i primi due doni, ha un significato diverso, ci parla di morte e di sofferenza. La mirra è una resina che esce dalla pianta spontaneamente o per incisione praticata sulla corteccia, per poi raccoglierla una volta essicata. Gli egiziani la usavano nella mummificazione, era uno dei componenti dell’olio per l’unzione sacra non solo dei componenti per il culto ebraico, (candelabro, tenda del convegno ed altri), ma anche dei sacerdoti. La mirra, oltre che profumo, è un disinfettante e un analgesico (vedi il vino mescolato alla mirra che i soldati romani offrirono a Gesù sulla croce); inoltre, sarà portata da Nicodemo per seppellire Gesù: “Vi andò anche Nicodèmo, quello che in precedenza era andato da lui di notte, e portò una mistura di mirra e di aloe di circa cento libbre. Essi presero allora il corpo di Gesù, e lo avvolsero in bende insieme con oli aromatici, com’è usanza seppellire per i Giudei.” (Giovanni 19: 39-40). Con quei doni, quindi, i magi resero al bambino anche un onore profetico.

 

Fu un sogno ad avvertire i magi di non passare da Erode, avvenimento che ci parla dell’universalità del messaggio che, da lì a trent’anni circa, sarebbe stato dato all’umanità: quei sapienti, che per manifestare i loro sentimenti di adorazione avevano percorso su carovana migliaia di chilometri, scelsero una strada diversa per tornarsene al loro paese, probabilmente costeggiando il Mar Morto.

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01.17 – DUE PROFEZIE (Matteo 2.4-6)

01.17 – Due profezie (Matteo 2.4-6)

 

4Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo. 5Gli risposero:«A Betlehem di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta: 6E tu, Betlehem, terra di giuda, non sei davvero l’ultima città delle principali di Giuda: da te infatti uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele».”.

 

La nascita di Gesù, sommariamente trattata negli episodi precedenti, segna una tappa fondamentale nella storia di quell’umanità che ha scelto di porsi dalla parte di Dio. Sappiamo che ciò avvenne da Abele in poi, ma che ufficialmente fu da Enos, figlio di Set citato come terzogenito di Adamo, che si iniziò a designare uomini che si dedicassero alla preghiera e alle relazioni con YHWH (Genesi 4.26). A seconda delle traduzioni leggiamo “A quel tempo si cominciò ad invocare il nome del Signore” oppure “Allora si cominciò a nominare alcuni nel nome del Signore”. Un esempio di scelta lo troviamo poi in Giosuè che, parlando al popolo, disse “Ora dunque, temete il Signore e servitelo con integrità e fedeltà. Eliminate gli dèi che i vostri padri hanno servito oltre il Fiume e in Egitto, e servite il Signore. Se sembra male ai vostri occhi servire il Signore, sceglietevi oggi chi servire: se gli dèi che i vostri padri hanno servito oltre il Fiume oppure gli dèi degli Amorrei, nel cui territorio abitate. Quanto me e alla mia casa, serviremo il Signore” (Giosuè 24.14-15). Qui abbiamo una libertà di scelta che solo apparentemente è ideologica, poiché in realtà implica il destino di ciascuno nell’eternità.

Il verso di Giosuè ci parla di scelta tra ciò che è vivo e vero, o quanto che è costruito, inventato, adatto agli usi, credenze e ideali umani per poter trovare una giustificazione alle proprie azioni ed esistenza. Scegliere oggi a chi appartenere, scegliere il terreno su cui edificare come nella parabola della casa costruita sulla roccia o sulla sabbia.

Ebbene l’apostolo Paolo, scrivendo ai Galati, usa un’espressione particolare per indicare la venuta di Gesù sulla terra, data che non ci è stata tramandata nonostante fosse conosciuta dagli evangelisti: “Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò suo Figlio, nato di donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli” (4.4,5). E “la pienezza del tempo” è proprio quel periodo tra le 69ma e la 70ma settimana di Daniele cui abbiamo accennato nella scorsa riflessione.

Con questo nuovo studio non vorrei tanto esaminare quanto narrato da Matteo, ma dare un cenno anche ad altre profezie che i “capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo”, pur conoscendole, non affrontarono stante la richiesta impellente di Erode; leggiamo che li riunì facendo loro una richiesta precisa: dove sarebbe nato il Cristo secondo le loro scritture? Ecco, qui abbiamo un primo tratto del carattere del re, che riunisce il sommo sacerdote, il suo supplente, i capi delle 24 classi e gli scribi, quindi le persone più autorevoli, perché voleva sapere ciò che i Magi ignoravano. Erode quindi credette, o ritenne possibile, non escluse la possibilità che potesse davvero essere nato non un re nel senso terreno del termine, ma il Cristo, cioè l’Unto del Signore, il Messia che avrebbe liberato Israele, al contrario di lui che lo teneva soggiogato rispondendo comunque all’autorità di Roma. Ecco allora che non può essere accettata, stante il verso preciso di Matteo, la teoria in base alla quale Erode fosse geloso della nascita di un re che un giorno avrebbe minato il suo trono, ma piuttosto non poteva sopportare, tollerare la nascita del Cristo e credesse di poterlo contrastare, eliminare, uccidere. Erode allora fu uno strumento nelle mani non di quel Satana tanto sfruttato nella cinematografia e in un certo tipo di letteratura, ma del vero Avversario che, “micidiale fin dal principio” sapeva che con la nascita del Cristo sarebbe anche arrivato Colui che lo avrebbe annientato secondo il piano stabilito da Dio dalla Sua eternità.

E qui, tornando al nostro episodio, avviene un fatto davvero notevole, una testimonianza involontaria da parte dell’autorità religiosa, già da allora in combutta col potere politico: “In Betlemme di Giuda – per distinguerla dall’altra, quella di Zabulon – perché così è scritto per mezzo del profeta” (Michea). E gli lessero il testo: sarebbe nato “un capo”, quello che non vorranno riconoscere e al quale non daranno ascolto nonostante i miracoli, le implicazioni dottrinali che questi comportavano e i riferimenti all’Antico Patto che proprio loro studiavano e conoscevano.

Già dalle dinamiche di quel tempo possiamo trarre un principio fondamentale: non può esservi alcuna connessione tra potere politico e fede; se ciò accade abbiamo due elementi che, qualora si accordino, non possono che generare un sistema perverso perché la Chiesa non può avere interessi economici o di altra natura fuorché il servizio. Ricordiamo le parole “Non abbiate tra voi altro debito se non quello di amarvi gli uni gli altri” (Romani 13.8-10). La Chiesa è la comunità degli ekkletòi, dei “chiamati fuori” che, in quanto tali, con le dinamiche del mondo hanno ben poco a cui spartire.

Leggiamo la profezia di riferimento per gli interrogati da Erode in Michea 5.1-3: “E tu, Betlehem di Efrata, così piccola per essere tra i villaggi di Giuda, da te uscirà per me colui che dev’essere il dominatore in Israele; le sue origini sono dall’antichità, dai giorni più remoti. Perciò Dio li metterà in potere altrui fino a quando partorirà colei che deve partorire, e il resto dei tuoi fratelli ritornerà ai figli di Israele. Egli si leverà e pascerà con la forza del Signore, con la maestà del nome del Signore, suo Dio. Abiteranno sicuri, perché egli sarà grande, fino agli estremi confini della terra”. Avranno spiegato ad Erode i suoi sapienti qualcos’altro a parte fornirgli un’indicazione geografica? Matteo non lo dice, ma certo è che ben difficilmente il re si accontentò di questa e volle sapere chi sarebbe stato quel “re dei giudei” che era nato e cos’avrebbe fatto.

Ecco allora che da Betlehem sarebbe uscito “per me”, quindi per l’Iddio creatore, “colui”, cioè una persona precisa e unica dalle origini antiche che, con l’espressione “dai giorni più remoti”, alludono all’eternità, all’atto creativo di Dio col quale nacque anche il tempo. La seconda parte della profezia di Michea, poi, dà uno sguardo generale ad eventi che devono ancora verificarsi, ma illustra il risultato finale del piano eterno: “Abiteranno sicuri perché egli sarà grande, fino agli estremi confini della terra”, frase in cui possiamo intravedere la connessione intima anche a livello “pratico” tra il popolo di Dio e il loro Salvatore. Michea poi indica “gli estremi confini della terra” per rappresentare prima l’universalità del messaggio e della grazia, poi la vastità dei “Nuovi cieli e nuova terra” che verranno creati e che non contempleranno la presenza di nulla di impuro.

Di tutte queste parole che i sapienti di Erode gli lessero, due furono gli elementi che gli suonarono come un allarme: il potere che avrebbe avuto il Cristo, e il verso “Dio li metterà in potere altrui fino a quando partorirà colei che deve partorire”. Era quindi avvenuto il parto e il “potere altrui” in cui Erode il Grande si riconobbe, stava per finire. Temette per la fine del suo regno senza pensare a quella della propria anima.

Sono molti i passi dei profeti che parlano del Cristo; particolarmente interessante è quella di Isaia 52.13-15: “Ecco, il mio servo avrà successo, sarà onorato, esaltato e innalzato grandemente. Come molti si stupirono di lui – tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo –, così si meraviglieranno di lui molte nazioni; i re davanti a lui si chiuderanno la bocca, perché vedranno un fatto mai ad essi raccontato e comprenderanno ciò che mai avevano udito”. Qui Isaia ci dà un particolare: il servo del Signore “avrà successo”; siamo quindi autorizzati a pensare che prima di lui ci sia stato qualcun altro che ha fallito, quindi Adamo, che non fu in grado di adempiere nel tempo all’unico comandamento ricevuto.

Il “successo” di cui parla Isaia non allude tanto alla riuscita di una missione, a una vittoria sui nemici, ma al riscatto della vita umana: “Se per mezzo di un uomo – Adamo – venne la morte, per mezzo di un uomo – il servo vittorioso – verrà anche la resurrezione dei morti. Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita” (1 Corinti 15.21.22). Cristo, risorgendo, eliminò la morte come fine di tutto per trasformarla in passaggio da vita a vita per quelli che avrebbero creduto in lui. In questo stesso capitolo l’apostolo Paolo illustra la differenza tra le due esistenze dell’essere umano, la terrena e la futura, per poi passare a riconsiderare l’Adamo trasgressore e il Nuovo e Ultimo, Gesù: “…così anche la resurrezione dei morti: è seminato nella corruzione – il corpo – risorge nell’incorruttibilità; è seminato nella miseria, risorge nella gloria; è seminato nella debolezza, risorge nella potenza; è seminato corpo animale, risorge corpo spirituale. Se c’è un corpo animale, vi è anche un corpo spirituale. Sta scritto infatti che il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l’ultimo Adamo divenne spirito datore di vita” (Ibid. 42-45).

Ora il confronto tra i due “Adamo” e il “successo” che avrebbe avuto il Servo del Signore lo possiamo vedere mettendo a confronto i termini che contraddistinguono il nostro corpo e la nostra esistenza terrena con quello che avremo: per la prima condizione le parole sono “corruzione – miseria – debolezza – corpo animale”, per la seconda “incorruttibilità – gloria – potenza – corpo spirituale”, quattro qualità per ciascuna esistenza. C’è purtroppo un controsenso che ha sempre contraddistinto tutte le epoche attraverso le quali è vissuto l’uomo e a metterlo in risalto è la frase “Se c’è un corpo animale, c’è anche un corpo spirituale”: tutti ammettono l’esistenza del primo corpo che vede, sente, ascolta, parla e si muove, ma pochi riconoscono quella del corpo spirituale che esattamente allo stesso modo sente, ascolta, parla e si muove ma, negando l’esistenza di Dio e rifiutando di accogliere Gesù Cristo nella loro vita, lo oltraggiano e gli impediscono di agire. In questo modo il “corpo spirituale” resta ancorato a quello animale e non si distacca, non si innalza, non si salva. Resta immobile, paralizzato. E Cristo guarì i paralitici.

L’avere “successo” del Servo nato in Betlehem è sì personale e la resurrezione lo conferma, ma la sua grandiosità e mistero d’amore risiede proprio nel fatto che ha dato agli altri di seguire il suo stesso percorso glorioso nonostante la nostra caratteristica di peccatori. Chi rifiuta tutto questo rimane nei quattro ambiti che caratterizzano la condizione umana senza Cristo: corruzione – miseria – debolezza – corpo animale.

L’apostolo Giovanni, come sappiamo, scrive “A tutti quanti lo hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio”, quindi la corruzione – miseria – debolezza – corpo animale sono ciò che siamo ma in cui non possiamo vivere come condizione spirituale perché ciò che ci attende è qualcosa di esattamente opposto: incorruttibilità – gloria – potenza – corpo spirituale. Il vero cristiano è un essere in trasformazione, in cammino, tende alla perfezione nonostante sia imperfetto per sua natura.

Ma “Il primo uomo, tratto dalla terra, è fatto di terra; il secondo uomo viene dal cielo. Come è l’uomo terreno, così sono quelli di terra; e come è l’uomo celeste, così anche i celesti. E come eravamo simili all’uomo terreno, così saremo simili all’uomo celeste. Vi dico questo, fratelli: carne e sangue non possono ereditare il regno di Dio, né ciò che si corrompe può ereditare l’incorruttibilità” (1 Corinti 15.47-50).

E anche qui il richiamo a Giovanni è molto forte: “…a quelli che credono nel Suo Nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati” (1.12,13) perché “Quello che è nato dalla carne è carne e quello che è nato dallo spirito è spirito” (3.6). Amen.

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01.16 – ASTRONOMI (Matteo 2.1-3)

01.16 – ASTRONOMI (Matteo 2.1-3)

 

1Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme 2e dicevano: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo.3All’udire questo, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme».”.

 

Dopo l’episodio di Simeone ed Anna, Luca scrive che “Quando ebbero tutto compiuto secondo la legge di Mosè, fecero ritorno alla loro città di Nazaret” (2.39). In realtà il loro ritorno a Nazareth avvenne dopo molto tempo perché Luca non riporta la visita dei Magi e il viaggio in Egitto intrapreso per sfuggire ai piani omicidi di Erode il Grande che ci racconta Matteo. Ecco allora che Luca vuole dirci che la Nazareth fu raggiunta dai tre non dopo il rito della circoncisione di Gesù, ma piuttosto che ci furono altri avvenimenti omessi, riassunti nel verso “Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era sopra di lui” (Luca 2.40). Mentre Matteo ci parla dei Magi e della fuga in Egitto, Luca pone tre tappe, circoncisione – Nazareth – Gesù che cresce, e quel “la grazia di Dio era sopra di lui” contempla la protezione a lui accordata nei due periodi di cui parla Matteo.

Venendo al testo in esame, possiamo dire che è più impegnativo di quanto possa sembrare e ci rimanda agli scritti e alla persona del profeta Daniele perché tra lui e i Magi c’è un rapporto di continuità: i Magi provenivano “da Oriente”, una zona molto vasta che comprendeva la Mesopotamia, la Persia e il deserto siro-arabico. I Magi costituivano la classe sociale più elevata dopo re e prìncipi ed erano sacerdoti dello zoroastrismo, versati nelle scienze di allora con particolare riguardo per l’astronomia che studiavano da secoli ogni notte suddivisi in turni. Nelle loro terre erano considerati i rappresentanti di un sapere superiore e ritenevano il cielo notturno una sorta di grande finestra attraverso la quale leggere il volere degli dèi. È stato detto che fossero astrologi, definizione che però non può raccordarsi ai nostri odierni, così esperti nel redigere prognostici assolutamente generici, quindi adattabili alla realtà di quelli che li consultan. I Magi di allora erano convinti che per ogni persona che nascesse vi fosse una stella – ricordiamo le parole “Abbiamo visto spuntare la sua stella” – che in qualche modo la guidava o proteggeva, ma la loro conoscenza di quell’astro così specifico che attendevano poggiava le sue basi proprio sulle profezie e gli insegnamenti di Daniele, attivo a Babilonia circa 600 anni prima di loro.

Il fatto che abbiano detto “La sua stella” testimonia che quei sapienti fossero assolutamente certi che il fenomeno che avevano osservato dovesse ricondursi alla nascita del Saošyant, il salvatore del mondo che aspettavano e sapevano doveva arrivare.

Credo che per capire il loro pensiero vada dato uno sguardo alle loro credenze: la religione che professavano era monoteista ed era stata fondata da Zarathustra prima del VI sec. a.C. (ma c’è chi la fa risalire al XVIII). Era riconosciuto un unico creatore, “Signore dell’esistenza e della vita attraverso il Suo operare” (Avesta Iasna 31.8) e si sosteneva un continuo confronto fra Bene e Male prevedendo la “Vita” e la “Migliore Esistenza” per chi avesse seguito il primo, o la “Non-Vita” e la “Peggiore Esistenza” (Ibid. 30.3,4) per chi avesse fatto la scelta opposta. Soprattutto Zarathustra, loro profeta, sosteneva che alla fine dei tempi sarebbe giunta una figura messianica che avrebbe guidato le forze del bene alla vittoria e alla redenzione del cosmo. I Magi quindi aspettavano, secondo i loro testi sacri, un redentore, un salvatore. Resta il perché cercassero proprio “il re dei giudei che è nato”, domanda rivolta agli abitanti di Gerusalemme con assoluta certezza. E qui entra il profeta Daniele.

Daniele, il profeta, il cui nome significa “Dio giudica”, o “Dio è mio giudice”: fu deportato a Babilonia da Nabucodonosor dopo la distruzione di Gerusalemme del 586 a.C. unitamente ai nobili della città e ai migliori giovani del regno di Giuda perché fossero al suo servizio. Daniele e altri giovani (Anania, Misael e Azaria che in seguito furono chiamati con nomi babilonesi) furono istruiti alla corte del re per tre anni, periodo che la Scrittura descrive così: “Dio concesse a questi quattro giovani – cioè i tre più Daniele – di conoscere e comprendere ogni scrittura e ogni sapienza, e rese Daniele interprete di visioni e sogni. (…) Su qualunque argomento in fatto di sapienza e di intelligenza il re li interrogasse, li trovava dieci volte superiori a tutti i maghi e indovini che c’erano in tutto il suo regno” (Daniele 1.17,20).

Percorrendo brevemente il libro di questo profeta, ci rendiamo conto che molti furono gli episodi tramandati dalla storia di corte e che interessarono i sapienti della sua epoca, i Magi di allora: pensiamo all’interpretazione dei sogni del re sul futuro del suo regno, l’episodio in cui i tre amici di Daniele furono gettati nella fornace senza subire alcun danno (3.46-50) oltre alle sue profezie che i Magi di allora tramandarono a quelli che poi si recheranno a Gerusalemme alla ricerca del “Re dei giudei che è nato”.

La prima profezia si trova in 7.13-14: “Guardando ancora nelle visioni notturne, ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d’uomo; giunse al vegliardo e fu presentato a lui. Gli furono dati potere, gloria e regno, tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano: il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai, e il suo regno non sarà mai distrutto”. La seconda è la profezia delle settanta settimane di anni che molti, Newton compreso, hanno cercato di comprendere; si tratta di pochi versi che riassumono tutta la storia umana dal tempo di Daniele fino alla fine del mondo che conosciamo e vanno letti a volte in termini matematici, in altre per simboli o per quadri.

Le “settanta settimane” vanno divise in varie sezioni, la prima delle quali è introduttiva: “Settanta settimane sono fissate per il tuo popolo e per la tua santa città per mettere fine all’empietà, mettere i sigilli ai peccati, espiare l’iniquità, stabilire una giustizia eterna, suggellare visione e profezia e ungere il Santo dei Santi” (9.24). Qui abbiamo l’annuncio del tempo che Dio ha stabilito sull’umanità prima che la totalità del Suo piano si compia. Si tratta di un tempo suddiviso in quattro periodi storici precisi: il primo, della durata di sette settimane, è descritto così dall’angelo Gabriele: “Sappi e intendi bene: da quando uscì la parola sul ritorno e la ricostruzione di Gerusalemme fino a un principe consacrato, vi saranno sette settimane” (v.25). Si tratta di un preciso riferimento all’editto di Artaserse II che, nel 445 a.C., autorizzò la ricostruzione della città santa e la ricostruzione delle sue mura. Il “principe consacrato” è poi identificabile in Esdra, sacerdote e scriba considerato dagli israeliti come il personaggio più importante dopo Mosè perché Esdra tornò a Gerusalemme con altri capi del popolo e costituì il nuovo stato ebraico.

Il secondo periodo storico è rappresentato da 62 settimane così descritte: “Durante sessantadue settimane saranno restaurati, riedificati piazze e fossati, e ciò in tempi angosciosi”; questo si riferisce a tutti gli avvenimenti che caratterizzarono lo sviluppo spirituale della città, non tanto quello materiale per il quale 434 anni (62×7) appaiono decisamente troppi.

Le 62 settimane, quindi 69 calcolando le 7 precedenti, terminano con la crocifissione di Gesù quando leggiamo “Dopo sessantadue settimane, un consacrato sarà soppresso senza colpa in lui; il popolo di un principe che verrà distruggerà la città e il santuario; la sua fine sarà un’inondazione e, fino alla fine, guerra e desolazioni decretate” (v.26). In questo verso viene citata anche la distruzione di Gerusalemme dalle truppe romane di Tito avvenuta nel 70 d.C.. Ora occorre fare una sottolineatura fondamentale, e cioè: mentre il testo ha una precisione pressoché chirurgica nel dividere le prime sette settimane dalle altre 62, così non avviene tra la 69ma e la 70ma. In questo “cuscinetto”, in questo spazio, si inserisce la dispensazione della grazia che è, come mi diceva un amico, “quel periodo in cui il peccatore ha il diritto, convinto dallo Spirito Santo di peccato, giustizia e giudizio, di essere salvato indipendentemente dal suo stato sociale, etnico o geografico”.

Notiamo la fine di Gerusalemme che avverrà, come altri traducono, “con un’inondazione” o “come per inondazione” a sottolineare la violenza e la moltitudine che si scatenerà su di essa. Leggendo il verso, poi, vediamo che c’è un’altra “fine” vista nell’espressione “fino alla fine, guerra e desolazioni decretate” che a mio parere sono il riassunto, in prospettiva, di tutte le sofferenze e vicissitudini che il popolo ebraico subirà nella storia.

L’ultima settimana, la 70ma, non è citata chiaramente, ma la si distingue con facilità perché caratterizzata da due periodi di uguale durata: “Egli stringerà una forte alleanza con molti per una settimana e, nello spazio di metà settimana, farà cessare il sacrificio e l’offerta; sull’ala del tempio porrà l’abominio della desolazione e ciò sarà fino alla fine, fino al termine segnato sul devastatore” (v.27). Trovo qui un accenno a quell’epoca di falsa pace mondiale proclamata dal “Figlio della perdizione” (tre anni e mezzo, la metà settimana) e all’altra, a lui seguente e opposto, di pari durata in cui avverranno i gravi giudizi che Dio manifesterà su tutta la terra che troviamo descritti nei capitoli da 6 a 18 dell’Apocalisse.

Mi rendo conto di aver aperto una finestra verso una trattazione dagli sviluppi enormi che qui non è possibile affrontare; parlare della profezia di Daniele ha qui senso perché questo profeta, citato molte volte anche nella letteratura ugaritica, quindi della Mesopotamia e per estensione d’Oriente, non parlava solo con il re, ma anche con gli alti membri della corte essendo lui stesso uno di loro. Con queste persone il profeta aveva un rapporto quotidiano e certo disse ben di più di quello che troviamo scritto nel suo libro. Ad esempio, non sappiamo quali furono le domande che il re rivolse a quei giovani per trovarli dieci volte più sapienti degli uomini validi di cui si era circondato.

Daniele era l’uomo della rivelazione, una persona in cui la sapienza divina non era disgiunta da quella umana e, a contatto con la cultura della corte, la estese e la ampliò, certamente estendendo la profezia di Balaam sul salvatore quando disse “Io lo vedo, ma non ora; io lo contemplo, ma non da vicino: una stella spunta da Giacobbe, uno scettro sorge da Israele” (Numeri 24.17). Teniamo presente che Daniele non svolse il suo ministero per poco tempo, ma rimase anche nelle corti di Baldassar, figlio di Nabucodonosor, e in quella di Dario il Medo, per cui i suoi insegnamenti orali furono certamente molti e vennero tramandati proprio dai sacerdoti e dai sapienti locali, i Magi appunto, che a loro si dedicarono cercando di trattenerli e comprenderli per quanto potessero. Sapevano che dovevano attendere la stella che sarebbe “spuntata da Giacobbe”.

I Magi che arrivarono a Gerusalemme avevano nel loro bagaglio culturale la nozione, presente nella cultura dell’epoca, di un radicale cambiamento politico e sociale derivato dalla nascita di un re che, secondo le profezie in loro possesso, doveva appartenere al popolo di Israele. Ecco quella che potremmo definire “L’eredità di Daniele”! Per questo osservavano il cielo ogni notte, sfruttando le loro conoscenze plurisecolari: erano persiani, forti delle tradizioni astronomiche babilonesi che per prime divisero in dodici – notare il numero – settori uguali le costellazioni attraversate dal sole e dal pianeti (lo zodiaco). Già nel I millennio a.C. i babilonesi avevano rappresentato graficamente la precessione degli equinozi, cioè lo spostamento dell’asse attorno al quale la terra compie la sua rotazione giornaliera.

Chi era profondamente interessato a questi fenomeni, non poteva essere un astrologo. Chi osservava le stelle come loro, sapeva vedere e soprattutto cercare in quel cielo notturno così diverso dal nostro, oggi inquinato tanto da sostanze quanto dalla luce artificiale. Sappiamo che i Magi videro “la sua stella” e qui si scatenarono molte ipotesi prima tra le quali una cometa, la cui idea comparve per la prima volta con Giotto, che vide quella di Halley nel 1301 e la dipinse nella cappella degli Scrovegni a Padova proprio nell’episodio dell’adorazione dei magi. Johannes Keplero nel 1604, per spiegare la stella, propose l’idea dell’esplosione di una nova e di una supernova perché ne vide una in quell’anno, ma per capire correttamente la “stella” vista dai Magi occorre considerare il fenomeno luminoso che si manifestò a seguito alla triplice congiunzione Giove – Saturno nella costellazione dei pesci che avvenne attorno al 7 a.C.: troppo presto? Troppo tardi? La data non deve turbare più di tanto perché Dionigi il Piccolo, cercando di stabilire l’anno 1 coincidente con la nascita di Cristo, fece un errore di calcolo sbagliando di qualche anno e non possiamo sapere quando Nostro Signore effettivamente nacque.

Una triplice congiunzione si ha quando un incrocio di pianeti si verifica per tre volte: nel cielo uno supera l’altro, poi torna indietro per il moto apparente della terra per poi superarlo nuovamente. Due astronomi dell’Università di Genova, Giuseppe Veneziano e Mario Codebò, hanno ricostruito al calcolatore il cielo che dovettero osservare i Magi a partire dal 4 giugno del 7 a.C.: appare chiaramente il moto retrogrado dei pianeti da Est verso Ovest e altrettanto chiaro è il fatto che, se quei sapienti si fossero mossi per seguirlo, sarebbero giunti in Palestina. Una cometa non avrebbe mai potuto “fermarsi”, mentre la congiunzione sì, nel caso in cui avesse terminato il suo moto retrogrado per riprendere quello diretto.

I Magi fecero un tragitto impegnativo e faticoso di circa 800 km dalla Persia a Gerusalemme, percorrendo la via della seta presumibilmente ad un ritmo di 30-35 km al giorno, portando doni che dimostrarono la comprensione del fatto che quel “potere, gloria e regno” che avrebbe avuto il “Re dei Giudei che è nato” era di natura spirituale e non politica.

C’è poi un secondo personaggio che già abbiamo incontrato, Erode il Grande. La carovana dei Magi era giunta a Gerusalemme e all’inizio non dovette avere fatto molto scalpore perché in città era frequente assistere all’arrivo di carovane e pellegrini in occasione delle feste comandate; c’era però quella domanda su dove fosse il re del giudei che era nato e soprattutto lo scopo dichiarato di quella ricerca: “abbiamo visto la sua stella e siamo venuti ad adorarlo”. Nessuno condivise il loro entusiasmo. Al contrario abbiamo letto che quel loro informarsi con insistenza generò turbamento tanto in Erode quanto negli abitanti della città, che più che far caso al ricercare dei Magi iniziarono a temere le conseguenze delle loro domande, gli effetti che quelle avrebbero avuto sul tiranno che, sentendosi minacciato nel suo potere, chissà quali rappresaglie o crudeli iniziative avrebbe potuto mettere in atto. Il verso successivo di Matteo infatti ci dice che Erode, saputo il motivo dell’arrivo dei Magi in città, riuniti “tutti – nessuno escluso – i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo”. Poi, facendo in modo di non allarmarli, li convocò in segreto per approfondire ulteriormente con lo scopo di perfezionare il proprio piano per uccidere Gesù. Erode non s’interessò di quella nascita. Non lui, non gli abitanti di Gerusalemme. Ma degli estranei, rappresentanti di un sapere antico e lontano, figura dei popoli che Dio riunirà, sì.

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01.15 – ANNA (Luca 2.36-38)

01.15 – Anna (Luca 2.36-38)

 

36C’era anche una profetessa, Anna, figliola di Fanuele, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto col marito sette anni dal tempo in cui era ragazza, 37era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal Tempio, servendo dio notte e giorno con digiuni e preghiere. 38Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme”.

 

Se Simeone si distaccava profondamente dagli altri uomini suoi contemporanei, Anna è il suo corrispettivo femminile, è fondamentalmente una persona che ha fatto una scelta, un personaggio i cui dati biografici sono più dettagliati dei suoi discorsi perché è importante accreditarla di fronte ai lettori del Vangelo e al tempo stessa dare un peso rilevante al significato delle sue parole ai suoi contemporanei. Cosa disse Simeone? Benedì Maria e Giuseppe, fece una profezia su cosa avrebbe rappresentato il loro figlio, ma fu comunque un avvenimento privato, mentre questa profetessa, conosciuta a Gerusalemme, che stava stabilmente nel tempio negli spazi che poteva occupare come donna, il cortile dei gentili e quello riservato alle donne, parlò di Gesù pubblicamente “a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme”.

L’importanza di Anna, il cui nome significa “colei che beneficia della grazia di Dio”, è data anche dal fatto che è si colloca all’ottavo posto con nome proprio dopo le sette che contano i rabbini nell’Antico Patto. Di lei conosciamo il nome di suo padre, Fanuele (“volto di Dio”) e che apparteneva alla tribù di Aser, figlio di Giacobbe avuto da Zilpa schiava di Lea, che prima aveva partorito Gad. Ottavo figlio di Giacobbe, ricevette da lui una benedizione particolare: “Da Aser verrà il pane saporito, egli fornirà delizie da re” (Genesi 49.20). Entrato in Egitto assieme ai suoi fratelli grazie a Giuseppe, fu il capostipite della tribù omonima e Mosè lo benedisse con queste parole “Benedetto tra i figli è Aser, sia favorito tra i suoi fratelli e intinga il suo piede nell’olio. Di ferro e di rame siano i tuoi catenacci e quanto i tuoi giorni duri il tuo vigore” (Deuteronomio 33.24,25).

La tribù di Aser occupò una regione molto fertile dal Mediterraneo alle falde del Libano e si stabilì in mezzo ai cananei senza combatterli come avevano fatto altre tribù, quindi non respinse le tradizioni e i costumi delle popolazioni pagane, né partecipò a guerre anche se rispose all’appello di Gedeone contro i madianiti che avevano corrotto i costumi del popolo di Israele. Quando però si trattò di andare a Gerusalemme per celebrare la Pasqua secondo l’editto di Ezechia è detto che “Solo alcuni di Aser, Manasse e Zabulon si umiliarono e vennero in Gerusalemme” (v. 11).

Aser quindi sta a indicare un comportamento privo di una linea particolarmente coerente, che a volte fa compromessi con un mondo estraneo ai princìpi di Dio indebolendosi, che a volte ritorna per poi ancora spegnersi. Però, come sappiamo, gli “alcuni”, i “superstiti”, i pochi “giusti”, ci sono sempre e sono di benedizione per gli altri. Probabilmente è proprio per questo che Luca specifica a quale tribù appartenesse Anna, a ricordare che Dio aveva stabilito un patto anche con Aser e i suoi discendenti e che avrebbe conservato un rimanente fedele, come ha fatto a partire da Enos di cui in Genesi 4.26 è detto “E a Set – figlio di Adamo in sostituzione di Abele – ancora nacque un figlio ed egli gli pose il nome di Enos. Allora si cominciò a nominare una parte degli uomini nel Nome del Signore”. Da allora in poi il “rimanente fedele” non è mai venuto meno e così sarà fino ai tempi futuri descritti in Apocalisse 12.17 in cui si parla del drago, Satana, che se ne va a “far guerra contro il resto della sua discendenza – della donna –, contro quelli che custodiscono i comandamenti di Dio e sono in possesso della testimonianza di Gesù”.

Anna ha una storia tutta particolare: si era sposata, come tutte le donne di allora ad un’età che poteva essere compresa tra i 13 e i 15 anni, ma era rimasta vedova dopo sette, quindi si era trovata sola tra i 20 e i 22, in giovane età, in una condizione che potremmo definire umanamente molto triste perché si era trovata priva del sostegno necessario proveniente dal marito. E qui abbiamo la prima scelta di questa donna: avrebbe potuto sposarsi nuovamente, liberandosi per lo meno dalle preoccupazioni economiche, ma non lo fece, preferendo fondare la sua esistenza sulle promesse che Dio aveva riservato alle donne nelle sue condizioni. Umanamente, razionalmente parlando, si trattava di lasciare una prospettiva di sicurezza che un secondo matrimonio poteva dare, per l’incerto. “Circoncidete dunque il vostro cuore ostinato – cosa ben più difficile della circoncisione ordinaria – e non indurite più la vostra cervice; perché il signore, vostro Dio, è il Dio degli dèi, il Signore dei signori, il Dio grande, forte e terribile, che non usa parzialità e non accetta i regali, rende giustizia all’orfano e alla vedova, ama il forestiero e gli dà pane e vestito” (Deuteronomio 10.16-18). Salmo 146.9,10 recita “il Signore ridona la vista ai ciechi, il Signore rialza chi è caduto, il Signore ama i giusti, il Signore protegge i forestieri, egli sostiene l’orfano e la vedova, ma sconvolge le vie dei malvagi”, senza contare la condanna per coloro che opprimevano questa categoria di persone.

Anna fece di più che affidarsi a una promessa di Dio, ma pose in atto, con fede inconcepibile per la mentalità per lo meno del mondo in cui viviamo oggi, un metodo di vita in cui perseverava da 84 anni, quindi ne aveva più di cento: stava là, nel tempio, senza lasciarlo mai, profondamente conscia del fatto che era lì, o meglio nel luogo santissimo, che Dio aveva la sua dimora per gli uomini. E lei era un essere umano. Dio abitava lì, era lì per lei.

Il Tempio aveva un spazio per i gentili, cioè i pagani, figura della loro futura ammissione al popolo di Dio, poi uno spazio per le donne, quindi per gli uomini, poi per i Sacerdoti, e infine per Lui stesso, in un perimetro in cui nessuno poteva entrare salvo il Sommo Sacerdote una volta all’anno.

Lei, definita “molto attempata” perché aveva superato i 100 anni, era praticamente risiedente

nello spazio dedicato alle donne e sicuramente col tempo si era guadagnata la stima e l’ammirazione di quanti lo frequentavano: da lì abbiamo letto che non si allontanava mai, avverbio che ci parla di una continuità assoluta, di pensieri ininterrotti e a lei, e a quelle come lei, pensava l’apostolo Paolo che, rivolto al suo discepolo Timoteo nella sua prima lettera, gli scrive “Colei che è veramente vedova ed è rimasta sola, ha messo la speranza in Dio e si consacra all’orazione e alla preghiera giorno e notte; al contrario, quella che si abbandona ai piaceri, anche se vive, è già morta. Raccomanda queste cose, perché siano irreprensibili. Se poi qualcuno non si prende cura dei suoi cari, soprattutto di quelli della sua famiglia, costui ha rinnegato la fede ed è peggiore di un infedele. Una vedova sia iscritta nel catalogo delle vedove quando abbia non meno di sessant’anni, sia moglie di un solo uomo, 1sia conosciuta per le sue opere buone: abbia cioè allevato figli, praticato l’ospitalità, lavato i piedi ai santi, sia venuta in soccorso agli afflitti, abbia esercitato ogni opera di bene. Le vedove più giovani non accettarle, perché, quando vogliono sposarsi di nuovo, abbandonano Cristo e si attirano così un giudizio di condanna, perché infedeli al loro primo impegno. Inoltre, non avendo nulla da fare, si abituano a girare qua e là per le case e sono non soltanto oziose, ma pettegole e curiose, parlando di ciò che non conviene. Desidero quindi che le più giovani si risposino, abbiano figli, governino la loro casa, per non dare ai vostri avversari alcun motivo di biasimo. Alcune infatti si sono già perse dietro a Satana. Se qualche donna credente ha con sé delle vedove, provveda lei a loro, e il peso non ricada sulla Chiesa, perché questa possa venire incontro a quelle che sono veramente vedove” (5.5-16).

Anna aveva scelto un compito difficile: “servire Dio notte e giorno in digiuno e preghiere”, identificandosi in quelli che stavano “nella casa del Signore durante la notte” (Salmo 134.1) pregando e digiunando, termine che indica una profonda rinuncia poiché è esteso non solo al cibo, ma da quanto può distrarre l’essere umano dal suo rapporto con Dio. Si può praticare il digiuno in senso stretto rinunciando all’alimentazione, ma a nulla serve se non è preceduto dalla rinuncia, dall’astensione progressiva di quanto impedisce una comunione con Dio. Si può dire che ogni volta che scegliamo di dedicare del tempo a Dio per la nostra crescita spirituale, digiuniamo. Infatti c’è una via dei giusti e una via dei peccatori, una via di Dio perfetta che Davide chiedeva di conoscere (“Mostrami Signore la tua via, guidami sul retto cammino”, Salmo 27.11) e che Gesù esortò a percorrere quanti lo ascoltavano con un invito preciso: “Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa è la via che conduce alla perdizione, e molti sono coloro che vi entrano” (Matteo 7.11).

Tornando al testo, Anna arrivò probabilmente mentre Simeone parlava a Maria e Giuseppe: il verbo usato, epistràsa cioè “stando vicina”, “avvicinandosi” è indice quasi di contemporaneità, iniziò a lodare Dio parlando di quel bambino non a chiunque, ma a quel rimanente di Gerusalemme

che, animati dagli stessi intenti suoi e di Simeone, aspettavano la redenzione. Questi due personaggi non erano quindi soli, ma piuttosto erano i rappresentanti, coloro che meglio di altri attendevano e si dedicavano alla preghiera e alla pratica di vita scritturale. L’importanza di questo principio risiede qui: Dio tramite Anna non rivolse il Suo annuncio a delle persone – se può passare il termine – “perfette” come lei o Simeone, ma a uomini e donne di fede, che avevano fatto proprie le profezie dell’Antico Testamento, che sapevano e aspettavano. Uomini e donne che sapevano, non speravano soltanto. E alcuni hanno interpretato il verso conclusivo, “parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di – o più propriamente “in” – Gerusalemme” come un andarli a cercare nelle loro case. Di certo Anna era in relazione con loro, così come ancora oggi capita che i credenti si riconoscano l’un l’altro senza essersi mai visti. Possiamo ricordare le parole di Malachia 3.16-18: “Allora parlarono tra loro i timorati di Dio. Il Signore porse l’orecchio e li ascoltò: un libro di memorie fu scritto davanti a lui per coloro che lo temono e che onorano il suo nome. Essi diverranno – dice il Signore degli eserciti –un tesoro riposto nel giorno che io preparo. Avrò cura di loro come il padre ha cura del figlio che lo serve. Voi allora di nuovo vedrete la differenza fra il giusto e il malvagio, fra chi serve Dio e chi non lo serve”.

            Dopo questo suo parlare, Anna non è più nominata, come Simeone. Entrambi, come altri personaggi, sono un ponte tra l’Antico che stava per concludersi e il Nuovo che stava per arrivare. E resto sempre affascinato quando l’orologio di Dio, così incommensurabilmente distante, si china per scandire all’unisono con quello degli uomini, sue creature che ha voluto salvare, risparmiare dal loro altrimenti inevitabile destino di morte.

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01.14 – SIMEONE (Luca 2.25-35)

01.14 – Simeone (Luca 2.25-35)

 

25Ora a Gerusalemme c’era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d’Israele, e lo Spirito Santo era su di lui. 26Lo Spirito Santo gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore. 27Mosso dallo Spirito, si recò al tempio e, mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per fare ciò che la Legge prescriveva a suo riguardo, 28anch’egli lo accolse tra le braccia e benedisse Dio, dicendo:29«Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, 30perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, 31preparata da te davanti a tutti i popoli: 32luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele». 33Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. 34Simeone li benedisse e a Maria, sua madre, disse: «Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione 35– e anche a te una spada trafiggerà l’anima -, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori»”.

 

Luca ci presenta qui un personaggio singolare nel vero senso del termine: a Gerusalemme, città che all’epoca si calcola avesse circa 100mila abitanti, viveva “un uomo” la cui posizione ha suscitato in me diversi interrogativi, primo dei quali se Luca, scrivendo appunto “un uomo” intendesse dare un riferimento numerico nel senso che il rapporto uomo giusto – abitanti di Gerusalemme fosse di 1:100.000 oppure no. Per rispondere occorre tener presente diversi aspetti che caratterizzano il personaggio. L’unicità di Simeone, il cui nome significa “Dio ha ascoltato”, è data da tre caratteristiche, tutte in stretta relazione tra loro: era “giusto”, aggettivo già utilizzato finora da Luca per indicare Zaccaria, Elisabetta e Giuseppe. La loro “giustizia” è da intendersi come caratteristica interiore, quella che viene dalla fede che governa tutto l’agire dell’essere umano che, nel loro caso visto il tempo in cui vivevano, si manifestava attraverso l’attenzione alla legge morale originata dal timor di Dio. Sbaglieremmo se volessimo vedere in questi personaggi delle “brave persone” che credevano nelle promesse ricevute tramite la Legge e i Profeti e cercavano di osservare i comandamenti: la loro era una disposizione di cuore, un attaccamento, l’aver realizzato che in nessun altro potevano trovare la loro consolazione spirituale, la loro dignità di esseri umani. Questo atteggiamento era il risultato di una lunga assimilazione, di una pratica che aveva finito per permeare tutta la loto vita, quella che fa dire al salmista “Cerca la gioia nel Signore – l’unico che può dare quella stabile –: esaudirà i desideri del tuo cuore. Affida al Signore la tua via, confida in lui ed Egli agirà: farà brillare come luce la tua giustizia, il tuo diritto come il mezzogiorno. Sta’ in silenzio davanti al Signore – perché è lui e non tu che deve parlare – e spera in lui; non irritarti per l’uomo che ha successo, per l’uomo che trama insidie. Desisti dall’ira e deponi lo sdegno, non irritarti, non ne verrebbe che male. Perché i malvagi saranno eliminati, ma chi spera nel Signore avrà in eredità la terra”.

La giustizia di Simeone, pari a quella di Abramo perché poggiata sulla fede, si basava sulla certezza dell’ereditare la terra, quella nuova che sarà creata in sostituzione dell’attuale corrotta, che sarà popolata dai giusti, cioè da coloro che Lo cercarono, trovandolo. Simeone era un uomo paziente e soprattutto attento ai segni del suo tempo a tal punto che lo Spirito Santo gli aveva rivelato che non sarebbe morto senza aver visto il Cristo. Fu un premio analogo a quello che fu concesso ad Abrahamo, citato da Gesù con queste parole: “Abrahamo, vostro Padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e fu pieno di gioia” (Giovanni 8.56).

La seconda caratteristica di Simeone è “timorato di Dio”, termine che non ha a che fare con la paura, ma piuttosto con il rispetto e il sapere che ogni azione contraria alle Sue aspettative produce una conseguenza. L’assenza del timore di Dio rende l’uomo presuntuosamente autonomo e tutto ciò porta con sé, come sappiamo dalla disubbidienza di Adamo e sua moglie, conseguenze terribili viste nella morte con tutte le sue applicazioni. Al contrario l’esperienza degli uomini “giusti” che ci hanno preceduto li ha spinti a lasciare parole importanti per il nostro orientamento: “Principio della sapienza è il timore del Signore e conoscere il Santo è intelligenza. Per mezzo mio – è la sapienza che parla – si moltiplicheranno i tuoi giorni, ti saranno aumentati gli anni di vita. Se sei sapiente, lo sei a tuo vantaggio; se sei spavaldo, tu solo ne porterai la pena” (Proverbi 9.10-12). Ancora: “Nel timore del Signore sta la fiducia del forte; anche per i suoi figli egli sarà un rifugio. Il timore del Signore è fonte di vita per sfuggire ai lacci della morte” (Ibid. 14.26-27).

Questi versi, appartenenti all’Antico Patto ma validi ancora oggi fatte le dovute estensioni dateci dalla Grazia, credo che illustrino molto bene l’atteggiamento e la ricerca di Simeone: la sua condotta si basava su una profonda acquisizione del suo essere in rapporto con quel Dio che aveva promesso “la consolazione di Israele”, uno degli attributi coi quali veniva indicato il Messia e che i rabbini sostengono sia stato l’argomento di cui parlarono Elia ed Eliseo poco prima che il profeta venisse rapito: in 2 Re 2.11 leggiamo “Mentre continuavano a camminare conversando, ecco un carro di fuoco e cavalli di fuoco si interposero fra loro due. Elia salì nel turbine verso il cielo”.

La “consolazione di Israele” la possiamo vedere in diversi passi della Scrittura, ad esempio Isaia: “Giubilate, o cieli, rallegrati, o terra, gridate di gioia, o monti, perché il Signore consola il suo popolo e ha misericordia dei suoi poveri. Sion ha detto «Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato»: si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere?” (Isaia 49.13-15). Ancora, “Come una madre consola il figlio, così io vi consolerò. A Gerusalemme sarete consolati” (66.13).

Simeone, a differenza di molti, non aspettava un liberatore terreno e temporale dal dominio di Roma pagana, ma “la consolazione di Israele”, temine unico, preciso, riferito non a un uomo buono e compassionevole, ma a quell’unica persona deputata da Dio ad essere l’Emanuele, il liberatore dal peccato. Al Re potente e glorioso che il popolo attendeva, Simeone preferiva quello di un consolatore individuale e collettivo al tempo stesso.

Leggiamo una quarta caratteristica di quest’uomo, conseguente alle altre: “Lo Spirito Santo era sopra di lui”. Non era cosa da poco, considerati i tempi di allora in cui regnava una notevole confusione religiosa, con l’esercizio dell’apparenza a scapito di quello della pietà, come troviamo riferito nella cosiddetta parabola del buon samaritano (Luca 10.25-37) e in quella del Fariseo e del pubblicano (Luca 18.9-14). Conseguenza dell’allontanamento del popolo dalla giustizia e dal timor di Dio era la presenza, oltre che dei romani dominatori, di molte malattie e indemoniati che verranno guariti da Nostro Signore.

Ebbene quello Spirito di Dio aveva rivelato a Simeone – non è detto in che modo – che non sarebbe morto senza aver visto il Cristo, l’Unto del Signore: si trattò di un premio di fronte alla sua costanza fatta di riflessioni, preghiere ed opere. E probabilmente quest’uomo era un Rabbi. Uno su centomila aspettava in modo corretto, non religioso, ma vivo, spontaneo. A uno su centomila fu rivelato qualcosa di assolutamente particolare, come se fosse un profeta muto perché gli eventi avrebbero parlato per lui. Simeone faceva parte di quei superstiti di cui parla Isaia nel suo capitolo primo descrivendo (anche) la posizione spirituale dell’Israele del tempo: “«Ho allevato e fatto crescere figli, ma essi si sono ribellati contro di me. Il bue conosce il suo proprietario e l’asino la greppia del suo padrone, ma Israele non conosce, il mio popolo non comprende». Guai, gente peccatrice, popolo carico d’iniquità! Razza di scellerati – vedi Giovanni battista, che disse “razza di vipere” –, figli corrotti! Hanno abbandonato il Signore, hanno disprezzato il Santo d’Israele, si sono voltati indietro. Perché volete ancora essere colpiti, accumulando ribellioni? Tutta la testa è malata, tutto il cuore langue. Dalla pianta dei piedi alla testa non c’è nulla di sano, ma ferite e lividure e piaghe aperte, che non sono state ripulite né fasciate né curate con olio. La vostra terra è un deserto, le vostre città arse dal fuoco. La vostra campagna, sotto i vostri occhi, la divorano gli stranieri; è un deserto come la devastazione di Sòdoma. È rimasta sola la figlia di Sion, come una capanna in una vigna, come una tenda in un campo di cetrioli, come una città assediata. Se il Signore degli eserciti non ci avesse lasciato qualche superstite, già saremmo come Sòdoma, assomiglieremmo a Gomorra”.(Isaia 1. 3-9)

Il “superstite”, oltre alla citazione di Sodoma, ci ricorda Abramo quando, parlando con Dio, fece intercessione per i giusti che eventualmente la abitavano, perché non perissero nella sua distruzione (Genesi 18) e che si riassume con la frase “Davvero tu sterminerai il giusto con l’empio?”. A Sodoma come sappiamo abitava Lot che, come scrive Pietro nella sua prima lettera, era “angustiato dal comportamento immorale di quegli scellerati. Quel giusto infatti, per quello che vedeva e udiva mentre abitava in mezzo a loro, si tormentava ogni giorno nella sua anima giusta per tali ignominie”

(1 Pietro 2.8,9).

Ci sono però altre considerazioni. Quando un essere umano si annulla e si fa docile, pronto a ricevere continuamente l’amore di Dio che ricambia, gli consente di agire e diventa un tutt’uno con lui, fatti salvi i confini penalizzanti del corpo e le sue limitazioni: mosso dallo Spirito, Simeone va al Tempio proprio quando Maria e Giuseppe stavano portandovi il bambino. Simeone non va là per fare un giro o senza sapere perché, ma “mosso dallo Spirito” proprio quando Maria e Giuseppe portavano il loro primogenito al Tempio per la sua consacrazione. Si adempì così la profezia di Malachia 3.1 “L’angelo del patto, che voi desiderate, verrà nel suo tempio”. A uno su centomila fu rivelato questo.

Simeone riconobbe il bambino, non sappiamo fra quanti, leggiamo che lo accolse tra le braccia – i rabbini prendevano in braccio i bambini per benedirli – e fece una solenne dichiarazione perché si trovò di fronte il compimento della rivelazione fattagli dallo Spirito Santo: quell’ “ora lascia che il tuo servo vada in pace” non lascia alcun dubbio sul fatto che non desiderasse altro dalla vita terrena che riteneva conclusa nel modo migliore.

È importante il termine greco usato per indicare “Signore”, piuttosto raro nel Nuovo Testamento, che allude a un padrone assoluto, proprietario delle persone o delle cose; lo troviamo in

Atti 4.24 (“Signore, tu che hai creato il cielo, la terra, il mare e tutto ciò che è in essi”) e in 2 Timoteo 2.21

(“Chi si manterrà puro astenendosi da tali cose, sarà un vaso nobile, santificato, utile al padrone, pronto per ogni opera buona”). Simeone allora qui si fa esempio. Per lui il “Signore” non è un essere superiore da chiamare con un titolo onorifico, ma Colui che con la sua autorità e santità dispone di tutto ed è il padrone di ogni cosa, quindi anche della vita dell’uomo. Oggi come ieri sono purtroppo in tanti a qualificare Dio come “Signore”, ma poi dimostrano coi loro atti che in realtà Lui è qualcosa di estraneo per loro, buono tutt’al più per preghiere che non portano a nessun esaudimento.

C’è poi un particolare, una precisazione molto interessante nelle parole di quest’uomo, cioè che la salvezza non sarebbe stata monopolio di un solo popolo, ma sarebbe diventata patrimonio di tutti, anche dei pagani, degli stranieri che avrebbero creduto in Lui. Se quindi Zaccaria aveva pronunciato il suo cantico da sacerdote che pensava alla promessa specifica del Messia e sapeva il ruolo che avrebbe avuto il figlio Giovanni, Simeone va oltre, allarga la prospettiva riferendosi, con il termine “Luce per illuminare le genti” a Isaia 42.6,7: “«Io, il Signore, ti ho chiamato per la giustizia e ti ho preso per mano; ti ho formato e ti ho stabilito come alleanza del popolo e luce delle nazioni, perché tu apra gli occhi ai ciechi e faccia uscire dal carcere i prigionieri, dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre. Io sono il Signore: questo è il mio nome; non cederò la mia gloria ad altri, né il mio onore agli idoli. I primi fatti, ecco, sono avvenuti e i nuovi io preannuncio; prima che spuntino, ve li faccio sentire»”.

Guardando agli avvenimenti passati e futuri in relazione alle parole di Simeone e ad Isaia 60.3 che scrive “Cammineranno le genti alla tua luce”, sono certamente da leggere le parole dell’apostolo Paolo nella Sinagoga di Antiochia: “«Era necessario che fosse proclamata prima di tutto a voi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco: noi ci rivolgiamo ai pagani. 47Così infatti ci ha ordinato il Signore: Io ti ho posto per essere luce delle genti, perché tu porti la salvezza sino all’estremità della terra». 48Nell’udire ciò, i pagani si rallegravano e glorificavano la parola del Signore, e tutti quelli che erano destinati alla vita eterna credettero. 49La parola del Signore si diffondeva per tutta la regione”. (Atti 13.46,49).

Leggiamo poi che Giuseppe e Maria si meravigliarono di quelle parole: non era un sentimento di scetticismo o di incomprensione, ma piuttosto di meraviglia raccordando tutti gli avvenimenti di cui erano stati testimoni. Maria aveva avuto l’annuncio dell’angelo, Giuseppe aveva ricevuto l’invito a non abbandonarla in sogno, poi avevano avuto la visita dei pastori: raccordando tutte queste cose, lo stupore di fronte alla perfetta coincidenza tra l’esperienza spirituale avuta e ciò che sperimentavano “toccando con mano”, è pienamente comprensibile. Ma Simeone ebbe anche delle parole per loro: “li benedisse e parlò a Maria, sua madre: «Egli è qui per la rovina e il sollevamento di molti in Israele, segno di contraddizione, perché siano svelati i pensieri di molti cuori. E anche a te una spada trafiggerà l’anima”.

Rovina” e “sollevamento di molti”: due destini contrari. Qui c’è una conferma personale e diretta di Isaia 8.14,15: “Egli sarà insidia e pietra di ostacolo e scoglio d’inciampo per le due case di Israele – tutti gli ebrei –, laccio e trabocchetto per gli abitanti di Gerusalemme. Tra di loro molti inciamperanno, cadranno e si sfracelleranno, saranno presi e catturati”.

“Rovina” e “sollevamento” intesa in senso spirituale che sarà la divisione tra quanti crederanno in Lui oppure Lo rifiuteranno. Infatti Gesù disse: “Se non fossi venuto e non avessi parlato loro, non avrebbero alcun peccato, ma ora non hanno scusa per il loro peccato. Chi odia me, odia il Padre mio. Se non avessi fatto in mezzo a loro opere che nessuno ha mai fatto, non avrebbero alcun peccato; ora invece hanno visto e hanno odiato me e il Padre mio, questo perché si adempisse la parola scritta nella loro legge «Mi hanno odiato senza ragione»” (Giovanni 15.22-25). Il “sollevamento”, poi, è usato da Luca in altri passi per indicare la resurrezione.

Gesù sarà un segno di contraddizione sotto questo aspetto, perché siano svelati i pensieri di molti cuori: la lettura dei Vangeli dimostra questa profezia con le reazioni di tutti coloro che ebbero a che fare con lui in giudizio – e penso all’entusiasmo del giovane ricco, convinto di essere un buon osservante, ma che si allontanò contristato quando gli fu chiesto di abbandonare tutto e di unirsi ai discepoli – o in salvezza. È la reazione all’annuncio o alla proposta della Parola che rivela i pensieri dei cuori, cioè ciò che abita realmente la persona. Qui si aprirebbe un capitolo sterminato.

L’ultima frase, è per Maria. La presenza della spada qui denota dolore e angoscia, l’anima come riferimento a tutto l’essere della persona e credo abbia connessione col dolore che proverà questa donna da lì a 33 anni ai piedi della croce quale punto culminante dopo tutte le sofferenze che infliggeranno i romani, dietro istigazione degli abitanti di Gerusalemme, al figlio. La strada della salvezza è lastricata di dolore, speranza, resistenza, certezza, dell’essere e farsi strumento nelle mani di Dio. Amen.

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01.13 – CIRCONCISIONE E PRESENTAZIONE (Luca 2.21-24)

01.13 – Circoncisione e presentazione (Luca 2.21-24)

 

21Quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima che fosse concepito nel grembo. 22Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore – 23come è scritto nella legge del Signore: Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore – 24e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o due giovani colombi, come prescrive la legge del Signore”.

 

Il giorno della circoncisione, occasione di festa per gli ebrei perché da quel momento in poi il bambino avrebbe portato nel proprio corpo il segno dell’appartenenza al popolo di Israele, non è descritto da Luca come quello di Giovanni Battista, cioè accompagnato dalle congratulazioni di parenti ed amici ai genitori. Forse a Betlemme Giuseppe e Maria non avevano più famigliari oppure, cosa più probabile, a Luca preme porre l’accento su quell’intervento prescritto già dai tempi di Abramo anche se la Legge non era stata ancora rivelata pienamente come a Mosè. Ricordiamo il patto di Dio: “Quindi ti farò divenire nazioni e da te usciranno dei re. E stabilirò il mio patto fra me e te, e i tuoi discendenti dopo di te, di generazione in generazione sarà un patto eterno, impegnandomi ad essere il Dio tuo e della tua discendenza dopo di te” (Genesi 17.7). Si può dire che questa rivelazione, questa nuova iniziativa, questo patto, richiedeva una firma, un benestare da parte dell’uomo che riconosceva nella circoncisione il segno esteriore dell’appartenenza al popolo eletto: “Questo è il patto che voi osserverete, tra me e voi e la tua discendenza dopo di te: ogni maschio fra voi sarà circonciso. E sarete circoncisi nella carne del vostro prepuzio, e questo sarà un segno del mio patto fra me e voi. All’età di otto giorni, ogni maschio tra voi sarà circonciso. Di generazione in generazione, tanto quello nato in casa, come quello comprato con denaro da qualunque straniero che non sia della tua discendenza. Sì, tanto chi è nato in casa tua come chi è comprato con denaro dovrà essere circonciso; e il mio patto nella vostra carne sarà un patto eterno. E il maschio incirconciso, che non è stato circonciso nella carne del suo prepuzio, sarà tagliato fuori dal suo popolo, perché ha violato il mio patto” (Genesi 17.10-14).

Per quanto praticata anche da altri popoli, la circoncisione non aveva lo stesso significato per Israele in cui si aveva un segno indelebile, esteriore, nella carne che ricordava non solo l’appartenenza al popolo eletto, ma soprattutto l’immedesimazione nelle promesse ricevute, il volerne far parte, l’essere un tutt’uno con esse. C’era, nelle parole che abbiamo letto, una profezia di riscatto: era vista nell’espressione “da te usciranno dei re” che racchiudeva tutto un lungo panorama storico che avrebbe avuto la suo punto culminante con la venuta del Re per eccellenza, quel Messia il cui ruolo e funzione si sarebbe sempre più delineato nel corso dei secoli fino alla Sua venuta.

C’è anche un raccordo possibile tra il tempo in cui l’adempimento delle promesse era ancora lontano e il nostro: doveva essere circonciso non solo il “nato in casa tua”, quindi l’israelita, ma anche ogni maschio che per qualsiasi ragione fosse inserito nella società ebraica, quindi lo straniero che rinunciava alle sue credenze per aderire al popolo di Dio: questa è una figura, un’anticipazione del fatto che l’appartenere al popolo santo non sarebbe stata un giorno prerogativa degli ebrei. Il fatto che potesse venire inserito nel suo àmbito anche lo straniero, poi, ci testimonia di come ci fosse un piano futuro anche per gli altri popoli.

Molte volte avremo a sottolineare che la Legge è, come dice la Scrittura, “ombra dei futuri beni”: guardando il verso che conclude il patto della circoncisione, vediamo che se il rifiuto di far circoncidere il proprio figlio, all’età di otto giorni perché lì il sangue possiede il suo maggiore potere coagulante, equivaleva a rifiutare il patto stipulato da Dio con Abramo. Come doveva essere “reciso dal popolo” chi rifiutava la circoncisione, così saranno tagliati fuori dal nuovo popolo di Dio coloro che non avranno creduto, condividendo quel “pianto e stridore di denti” e lo stagno ardente di fuoco e zolfo dove verranno gettati Satana e i suoi angeli.

Se possiamo avere le idee chiare sul significato della circoncisione è grazie all’opera dell’apostolo Paolo, in cui tratta l’argomento. Dando qualche accenno, al capitolo quarto della lettera ai Romani, si parla della giustificazione per fede di Abramo; dopo avere chiarito che fu considerato giusto per fede e non per opere, Paolo scrive: “Davide stesso proclama la beatitudine dell’uomo a cui Dio imputa la giustizia senza opere dicendo «Beati coloro le cui iniquità sono perdonate e i peccati coperti. Beato l’uomo a cui il Signore non imputa il peccato». Ora dunque questa beatitudine vale solo per i circoncisi, o anche per coloro che non sono circoncisi? Perché noi diciamo che la fede fu imputata ad Abramo come giustizia. In che modo dunque gli fu imputata, mentre era circonciso, o quando non lo era? Quando non lo era. Poi ricevette il segno della circoncisione come sigillo della giustizia della fede che aveva avuto mentre non era ancora circonciso, affinché fosse il padre di tutti quelli che credono, anche se non circoncisi, affinché anche a loro la giustizia sia imputata” (Romani 4.6-12). Più avanti scriverà “Come sta scritto, «Io ti costituirò padre di molte nazioni», è padre di tutti noi davanti a Dio a cui egli credette” (v. 17).

La Chiesa di Roma ha voluto collegare la circoncisione dell’Antico Patto al battesimo dei bambini, ma in questo modo ne ha stravolto il significato perché il battesimo, a differenza della circoncisione che veniva imposta, è evidentemente un atto che va adempiuto da chi è capace di intendere e di volere. Pietro dice nella sua prima lettera che il battesimo, praticato per immersione in acqua, non è “la rimozione della sporcizia della carne – quindi un bagno – ma la richiesta di una buona coscienza presso Dio” (3.21). Si tratta della richiesta che una persona che si scopre salvata, redenta dal sangue di Cristo, chiede a Dio di essere sua, di appartenergli ottemperando al Suo comandamento.

La circoncisione di Gesù è un fatto molto importante perché, per quanto non dipendente da lui, fu il suo primo atto di sottomissione a quella Legge che era venuto “Non per abolire, ma per adempiere” per, come spiegherà più avanti Paolo ai Galati, “…riscattare coloro che erano sotto la Legge” (4.4-5). Possiamo definire la dispensazione che ci ha preceduti, quella della Legge, come un periodo dato all’uomo per prendere conoscenza del peccato e delle esigenze di Dio, ma “se fosse stata data una legge capace di dare la vita, allora veramente la giustizia sarebbe venuta dalla legge. Ma la Scrittura ha rinchiuso ogni cosa sotto il peccato, affinché fosse data ai credenti la promessa mediante la fede in Gesù Cristo. Ora, prima che venisse la fede, noi eravamo custoditi sotto la legge, come rinchiusi, in attesa della fede che doveva essere rivelata. Così le legge è stata nostro precettore per portarci a Cristo, affinché fossimo giustificati per mezzo della fede. Ma, venuta la fede, non siamo più sotto un precettore, perché voi tutti siete figli di Dio per mezzo della fede in Cristo Gesù” (Galati 3.21-26). Qui Paolo spiega la rivoluzione degli ultimi tempi che viviamo: la Legge non dava la vita, non era in grado perché si rapportava all’uomo per condannarlo e umiliarlo. Tutto il “peccato” di cui viene data conoscenza, non esiste più per il cristiano veramente rinnovato nella propria mente e nel proprio spirito perché non è più creatura, ma figlio, o figlia. Certo che la Legge rimane come misura del bene e del male come ad esempio nel Decalogo cui è nostra responsabilità attenerci.

La circoncisione di Gesù fu quindi il primo passo che fece da uomo inserito nel popolo di Israele, lui che di subire quell’intervento non ne aveva alcun bisogno: era la Parola per mezzo della quale tutto era stato creato. Gli fu posto il nome Gesù in ubbidienza all’ordine dell’angelo e Gesù è la sesta persona in tutta la Scrittura, antica e nuova, che viene chiamata con un nome a seguito di un ordine superiore: abbiamo infatti Isacco, Ismaele, Giosia, Ciro, Giovanni (Battista) e infine Lui, per non parlare di quelli che verranno dopo e tutte quelle persone che ebbero il loro nome modificato, ad esempio Abramo (padre grande) in Abrahamo (padre di una moltitudine).

Venendo alla purificazione di Maria, dopo il parto la donna era considerata impura e stava separata dalla congregazione di Israele per un periodo di 40 giorni se aveva partorito un maschio, 80 una femmina dopo di che, per essere riammessa, doveva presentarsi al sacerdote portando, come abbiamo letto, quattro animali da sacrificare. Apriamo una parentesi per leggere il testo della Legge in Levitico 12.6-8 relativo a questo caso: “Quando i giorni della sua purificazione sono compiuti, sia che si tratti di un figlio o di una figlia, porterà al sacerdote (…) un agnello di un anno come olocausto e un giovane piccione o una tortora, come sacrificio per il peccato – per la sua condizione, non perché avere il figlio costituisse una colpa-; poi il sacerdote li offrirà davanti all’Eterno e farà l’espiazione per lei, ed ella sarà purificata dal flusso del suo sangue. Questa è la legge relativa alla donna che partorisce un maschio o una femmina. E se non ha mezzi per offrire un agnello, prenderà due tortore o due giovani piccioni, uno come olocausto e l’altro come sacrificio per il peccato. Il sacerdote farà l’espiazione per lei ed ella sarà pura”. Questo significa che Giuseppe e Maria, a quel tempo, erano poveri, non avendo mezzi per offrire un agnello.

Altro punto adempiuto dopo la circoncisione e il sacrificio che abbiamo letto è la presentazione: Iddio esigeva nella Legge che ogni primogenito, di uomini o di animali, gli fosse consacrato in tutto il Paese di Israele. Questo era per commemorare l’episodio in cui i primogeniti degli ebrei furono risparmiati, al tempo della piaga sui primogeniti in Egitto, dall’angelo così come narrato nel capitolo 12 del libro dell’Esodo.

Possiamo fare però anche una riflessione: Gesù sarebbe stato il primogenito di Maria, era l’unigenito Figlio di Dio, ma sarebbe diventato anche, in virtù del Suo sacrificio e resurrezione, il “Primogenito fra molti fratelli”, definizione che troviamo nella lettera ai Romani in 8.29 e che allude alla dimensione spirituale nuova e stabile in cui dimorano tutti coloro che hanno creduto. Infatti: “Non sapete voi che gli ingiusti non erediteranno il regno di Dio? Non v’ingannate: né i fornicatori, né gli idolatri, né gli adulteri, né gli effeminati, né gli omosessuali, né i ladri, né gli avari, né gli ubriaconi, né gli oltraggiatori, né i rapinatori erediteranno il regno di Dio. Or tali eravate già alcuni di voi; ma siete stati lavati, ma siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù e mediante lo Spirito di Dio” (1 Corinti 6.9-11).

Questo è l’esaudimento della preghiera che lui stesso rivolgerà al Padre: “Io voglio che dove sono io siano con me anche coloro che tu mi hai dato, affinché vedano la mia gloria che tu mi hai dato, perché tu mi hai amato prima della fondazione del mondo” (Giovanni 17.24).

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01.12 – L’ANNUNCIO AI PASTORI (Luca 2.8-20)

01.12 – L’annuncio ai pastori (Luca 2.1-7)

 

8C’erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all’aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge. 9Un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande timore, 10ma l’angelo disse loro: «Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: 11oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. 12Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia». 13E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che lodava Dio e diceva: 14«Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama». 15Appena gli angeli si furono allontanati da loro, verso il cielo, i pastori dicevano l’un l’altro: «Andiamo dunque fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere». 16Andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia. 17E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. 18Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori. 19Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore. 20I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro”.

 

Abbiamo qui il quarto annuncio angelico del Nuovo testamento. Il primo fu dato a Zaccaria, il secondo a Maria e il terzo a Giuseppe quando aveva in animo di ripudiarla. Il quarto annuncio non anticipa la nascita di Gesù, ma la rende pubblica a dei pastori che “vegliavano di notte facendo la guardia al loro gregge” segno che Nostro Signore nacque in un mese non freddo, che da calcoli fatti da alcuni pare sia stato settembre. Il Salvatore era nato, ma la notizia non viene data a degli studiosi, a dei tecnici eruditi come ve ne erano molti in Israele, ma a gente posta a un livello sociale molto basso, a persone umili e malviste dalla maggioranza: le greggi creavano problemi agli agricoltori brucando ovunque, i pastori non avevano fissa dimora per diversi mesi all’anno, non praticavano la religione e avevano ben poca conoscenza della Legge o dei Profeti e, nei racconti rabbinici, venivano messi sullo stesso piano dei briganti e dei malfattori. Non solo, ma nei tribunali il Talmud afferma che la loro testimonianza non era accettata, al pari dei ladri e deli estorsori.

Ecco allora che Dio Padre manda un Suo angelo ad annunciare la nascita del figlio a degli ultimi del tutto estranei a qualsiasi forma di religiosità, che certo non si aspettavano una manifestazione divina né tantomeno di venire coinvolti in un piano di salvezza. Erano lì, a fare il loro lavoro in una delle tante notti alle quali erano abituati chissà da quanto tempo.

Eppure, all’improvviso, qualcosa fa prepotentemente irruzione nelle loro vite: si presenta un angelo e contemporaneamente ad esso una traduzione dice “La gloria del Signore risplendé d’intorno a loro ed essi temettero di gran timore”. “La gloria del Signore”, termine col quale viene indicato uno degli aspetti della presenza di Dio che troviamo in altri passi della Scrittura.

Ricordiamo, nel Nuovo Testamento, l’episodio in cui Saulo da Tarso, accanito persecutore degli ebrei che si convertivano al cristianesimo, raccontando di sé al re Aggrippa, disse “…vidi sulla strada, o re, una luce dal cielo più splendente del sole, che avvolse me e i miei compagni di viaggio” (Atti 26.13): non è quindi la luce naturale che denota la presenza di Dio – al limite essa è una Sua opera –, ma quella che si manifesta come chiaramente riconducibile a Lui. Paolo abbiamo letto che la definisce “più splendente del sole” – e infatti ebbe gli occhi lesionati – e Luca, che non la descrive come lui, dice che i pastori sentendosene avvolti, ebbero molta paura, emozione irrazionale dominata dall’istinto che ha come obiettivo la sopravvivenza del soggetto che ne viene colto.

Quei pastori temettero per la loro vita. Un’altra traduzione parla di “spavento”, termine che si riferisce a un turbamento psichico forte e improvviso che si verifica nel momento in cui si avverte un pericolo, una minaccia o un danno incombente che può provocare reazioni incontrollate.

L’espressione usata dall’angelo, “Non temete” in tutta la Bibbia si trova per 365 volte, tante quanti sono i giorni dell’anno, indirizzata ad ogni credente. È qui, come altrove, un “Non temere” autorevole, pronunciata da un essere che potremmo definire “soprannaturale”, un “non temere” che interviene puntualmente ogni giorno che, come sappiamo, porta sempre una pena diversa, per quanto di peso differente. Un “non temere” che segna lo spartiacque tra ciò che controlliamo e ciò che invece non possiamo prevedere né è in nostro potere cambiare. L’annuncio dell’angelo era di “una grande gioia che sarà di tutto il popolo” e quel “vi è nato” rivelava tutta l’universalità di quella nascita: Gesù era nato per loro e per tutti gli altri che avrebbero creduto. L’angelo propone loro questo messaggio e possiamo affermare che, se si fosse rivolto a persone importanti, queste avrebbero potuto credere ad un’esclusiva; partendo dallo strato più basso della società, però, allora sì che quella nascita avrebbe veramente coinvolto tutti, nessuno escluso.

La definizione “città di Davide” era molto specifica e tendeva a far emergere quei ricordi che, forse, i pastori potevano avere di quel Re che sarebbe nato secondo le antiche profezie che magari avevano ascoltato, anche solo distrattamente. Eppure questi, una volta trovato quanto l’angelo aveva detto loro, è scritto al verso 30 che glorificarono e lodarono Dio, come Maria raccontò a Luca.

Abbiamo letto nei versi da 12 a 14 Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia. E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che lodava Dio e diceva “Gloria a Dio nel più alto dei cieli, e pace in terra a tutti gli uomini che Egli ama”: l’angelo non fa un annuncio generico, ma dà ai pastori un elemento concreto, un “segno”, che per il linguaggio tanto dell’Antico che del Nuovo Testamento equivaleva a una sorta di firma; pensiamo solo all’arcobaleno, al sangue sulla porta delle case che avrebbe risparmiato i primogeniti degli israeliti nella decima piaga d’Egitto, al sabato o alla circoncisione, solo per citarne alcuni.

Il segno qualificava il mittente del messaggio ed attestava un fatto: quei pastori avrebbero trovato un bambino – il Salvatore che “oggi” era nato per loro – avvolto in fasce, che giaceva in una mangiatoia. Lo stesso “Re dei Giudei che è nato” che avrebbero trovato tempo dopo i Magi, non più in un luogo precario come avrebbe potuto essere un portico o una delle grotte nei dintorni di Beltlehem che fungevano da ricovero per animali o viaggiatori, ma in una casa.

Il verso 12 contiene un dettaglio che molto spesso una lettura veloce tende a trascurare: i pastori avrebbero trovato non “il”, come alcuni traducono, ma “un” bambino, cioè un individuo comune a tanti che si sarebbe rivelato al suo popolo, e poi al mondo, a tempo debito. L’indeterminativo “un”, inoltre, racchiude gli intenti del Figlio di Dio che, come scrive l’apostolo Paolo in Filippesi 2.6-11 “…pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso assumendo la forma di servo e divenendo simile agli uomini. Apparso in forma umana, umiliò se stesso, facendosi ubbidiente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio lo ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre”.

In realtà, come leggiamo al verso 13, ci fu un secondo segno, che non generò più timore nei pastori, ma piuttosto contemplazione, quello della “moltitudine dell’esercito celeste”, di questi esseri che, da una dimensione differente che comunque uomini e profeti dell’Antico e del Nuovo Testamento videro (pensiamo a Stefano primo martire, Paolo e Giovanni), entrano in quella terrena

pronunciando una dossologia che separa l’ambito di Dio, cui compete e spetta la “gloria”, da quello umano – attenzione – specifico: la “pace in terra a tutti gli uomini che Egli ama”, non a tutte le creature indistintamente. E qui entriamo nel progetto che Dio ha per ogni uomo che ama e che, fino a quando non ha un incontro con lui, non sa di esserlo, intento e preso com’è nelle sue attività quotidiane, preoccupazioni, doveri da svolgere e interessi personali. La loro notte di veglia non aveva nulla di diverso dalle altre fino a quando l’angelo non furono avvolti di luce.

Nel più alto dei cieli” e “in terra” sono due luoghi la cui distanza è, per ora, immensa. Sappiamo però il destino che accomuna tutti quelli che hanno creduto: “…perché il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi, i vivi, i superstiti, saremo rapiti insieme con loro tra le nuvole, per andare incontro al Signore nell’aria. E così saremo per sempre col Signore” (1 Tessalonicesi 4.15-17). Questo è quello che ci attende. Se tra i due luoghi, “nel più alto dei cieli” e “in terra” esiste una distanza enorme, la proclamazione della “pace in terra agli uomini che Egli ama” la accorcia: infatti “Giustificati dunque per fede, abbiamo pace presso Dio per Cristo, Nostro Signore” (Romani 5.1). La distanza incolmabile fra il peccatore e la santità di Dio si annulla con la “pace” e con essa diventeremo parte integrante con Lui. I pastori non videro una luce più o meno distante che li abbagliò, ma ne furono avvolti a conferma del fatto che Dio non è lontano, ma coinvolge e rende l’uomo parte di sé.

Gli angeli, dopo la lode, si allontanano. Questa presenza, secondo segno di quella notte in cui comparve l’angelo dell’annuncio, gli altri e quindi il bambino nella mangiatoia, per un lettore che proviene dall’Antico Testamento è molto importante perché dispone di riferimenti per poterla comprendere: gli angeli erano presenti alla creazione. Ricordiamo ad esempio Giobbe 38.4-7: “Dov’eri tu quando io gettavo le fondamenta della terra? Dillo, se hai tanta intelligenza. Chi ha stabilito le sue dimensioni, se lo sai, o chi tracciò su di essa la corda per misurarla? Dove sono fissate le sue fondamenta, o chi pose la sua pietra angolare, quando le stelle del mattino cantavano tutte insieme e tutti i figli di Dio mandavano grida di gioia?”, Atti 7.53 che fa riferimento alla promulgazione della legge sul Sinai. “Voi avete ricevuto la legge per mano degli angeli e non l’avete osservata” e il giudizio finale in cui, in Matteo 13.53, è scritto “Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti”.

La presenza corale angelica, quindi, sottolinea la solennità unica di quel momento, certamente non inferiore ai precedenti: la creazione fu l’inizio della storia in cui iniziò ad esistere il tempo, staccandosi dall’eternità, la legge fu il patto precedente a quello della grazia. Ciò che i pastori avevano visto e udito non poteva non generare una reazione che non a caso fu immediata: è scritto che andarono a Betlemme “senza indugio”, cioè non pensarono al loro bestiame che, di colpo, aveva perso il suo valore. Era l’unica cosa che possedevano. “Vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere”, parole che denotano quanto siano inutili e dannosi i preconcetti umani, quella suddivisione in categorie che fa il mondo, che tende a ossequiare e riverire gli appartenenti alle classi sociali elevate e a rifiutare e disprezzare quelle meno abbienti, dimenticandosi che ciò che conta è la disposizione del cuore, l’anima e lo spirito della persona.

I versi da 17 a 19 ci danno un quadro particolare: i pastori parlano dopo avere constatato la presenza del “segno” di cui l’angelo aveva loro parlato. Si diventa sempre credenti perché si è constatato; io non credo in un’entità superiore perché questo dà un senso alla mia vita e la mia psiche è gratificata con pratiche religiose e mi sento “buono”, ma credo in quel Dio che mi ha amato per primo, in Gesù Cristo che, come dice l’apostolo Paolo, “mi ha amato e ha dato sé stesso per me” (Galati 2.20). Dio, lo abbiamo appena scritto, ama per primo, prende l’iniziativa nonostante noi siamo distanti, come i pastori intenti nelle loro occupazioni senza pensare che ci fosse in atto un piano per loro.

I pastori furono i primi testimoni al di fuori della ristretta cerchia composta da Zaccaria – Elisabetta e Giuseppe – Maria: loro soli videro l’angelo e la moltitudine e furono consci dell’unicità della rivelazione a loro fatta. Anche qui, per il loro glorificare e benedire Dio c’è una ragione, non certo dettata da un misticismo immaginario: lo fecero per tutto quello che avevano udito e visto (udito e vista, due sensi importanti nella vita di ogni creatura superiore), com’era stato detto loro.

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01.11 – LA NASCITA DI GESÙ (Luca 2.1-7)

01.11 – La nascita di Gesù (Luca 2.1-7)

 

1In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. 2Questo primo censimento fu fatto quando Quirinio era governatore della Siria. 3Tutti andavano a farsi censire, ciascuno nella propria città. 4Anche Giuseppe, dalla Galilea, dalla città di Nàzaret, salì in Giudea alla città di Davide chiamata Betlemme: egli apparteneva infatti alla casa e alla famiglia di Davide. 5Doveva farsi censire insieme a Maria, sua sposa, che era incinta. 6Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. 7Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio”.

 

Solo Matteo e Luca parlano della nascita di Gesù, per quanto mettendo l’accento su avvenimenti diversi, ed alcuni commentatori sostengono che i due racconti siano stati scritti anche per confutare l’eresia dei doceti che sostenevano l’umanità di Cristo essere solo una parvenza (dal verbo greco dokéo “sembrare, apparire”), negando così la Sua natura umana e quindi le sofferenze che ebbe nel corpo.

Matteo e Luca ci parlano quindi del “Natale”, argomento indispensabile per conoscere le origini di Nostro Signore, omettendo volutamente la sua data di nascita nonostante fosse da loro conosciuta perché per gli ebrei, e così dovrebbe essere per coloro che aderiscono o hanno aderito al cristianesimo, festeggiare il compleanno era ritenuta cosa da evitare, essendo i pagani a celebrarla. Leggiamo che in Genesi 40.20 che “…il terzo giorno, il giorno del compleanno del faraone, avvenne che egli fece un banchetto per tutti i suoi servi”. In Marco 6.21, poi, “Erode per il suo compleanno offrì un banchetto ai suoi grandi, ai comandanti e ai notabili della Galilea”. Entrambi erano pagani, uno egiziano e l’altro idumeo.

Nel quarto secolo d.C., però, la Chiesa di Roma istituì, per ragioni politiche e con l’intento di cristianizzare a lunga scadenza le popolazioni pagane, il 25 dicembre per festeggiare la nascita di Gesù, inserendola nel suo calendario liturgico. Tale data corrispondeva alla festa in onore del dio Sole e, per giustificare il raccordo a tale ricorrenza, furono utilizzati i versi in cui Gesù, nelle profezie che conosciamo, è definito “Sole di Giustizia” e “Luce da illuminare le genti”.

Luca è il solo a parlare delle circostanze che si verificarono prima e subito dopo il parto collocandolo sotto l’impero di Caio Ottaviano, pronipote di Giulio Cesare, primo dei cinque imperatori di Roma cui seguiranno Tiberio, Caligola, Claudio e Nerone, sotto cui si svolgeranno gli avvenimenti riportati dal Nuovo Testamento, Atti ed epistole comprese. L’opera di Dio con la nascita di Gesù fa quindi il suo ingresso ancora una volta nella storia umana, dopo le Sue promesse e gli innumerevoli interventi per il Suo popolo, ma con significati completamente diversi che sono sintetizzati dall’apostolo Paolo con l’espressione “Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo figlio nato di donna” (4.4). La “pienezza del tempo” si riferisce sì ad un momento storico preciso in cui la situazione politica poteva essere favorevole alla diffusione del messaggio cristiano (pensiamo solo ai trasporti, all’impero romano e alle vie di comunicazione) e in cui in tutto il mondo orientale si attendeva l’arrivo di un salvatore. Soprattutto ci sarebbe stato un momento ben definito in cui si sarebbe aperta la parentesi della dispensazione della grazia: questo sarebbe avvenuto tra la 69ma e la 70ma settimana profetizzata da Daniele (9.20-27) che, in modo criptico per molti, prevede un tempo per la sopportazione del peccato da parte di Dio prima che venga il suo giudizio definitivo su quella parte di umanità che non avrà voluto accogliere il suo messaggio.

La “pienezza del tempo” è una definizione che si collega strettamente a tutti quei casi in cui gli uomini vengono esortati al ravvedimento perché “il regno di Dio è vicino” o addirittura “è giunto fino a voi”, avvenimenti scritti nella grande agenda di Dio; così l’era della grazia in cui viviamo ha una scadenza che sfocia nella 70ma settimana, l’ultima, che sarà divisa in due periodi di tre anni e mezzo ciascuno, il primo caratterizzato da una falsa pace mondiale proclamata dal “Figlio della perdizione” e il secondo contrassegnato dai grandi giudizi che Dio manifesterà su tutta la terra e che sono descritti nei capitoli da 6 a 18 del libro dell’Apocalisse.

Abbiamo letto di un censimento: questo era teso a registrare non solo le persone, ma anche i nuclei famigliari con relativa composizione e i loro averi in vista di una tassazione, terzo significato del verbo greco apograféo che veniva impiegato per indicare il fare una copia, il registrare uomini e cose, oppure fare un inventario per fissare un’imposta. Questo censimento doveva essere fatto per tutto l’impero e quindi anche la Giudea, che era una provincia imperiale. La citazione di Quirinio è importante per collocare con più precisione il periodo perché fu governatore per due volte: una prima dal 4 all’1 a.C. e una seconda dal 6 all’11 d.C. e la riscossione delle imposte pare avvenne in questo secondo periodo. Il censimento ebbe le procedure secondo l’uso ebraico che registrava persone e cose nella loro città di nascita a differenza di quello romano che lo faceva nel luogo ufficiale di residenza: stando così le cose, Giuseppe e Maria dovettero recarsi al loro paese di origine, lasciando Nazareth affrontando un viaggio di diversi giorni; se i due paesi distavano fra loro tre giorni di percorso a cavallo, con Maria prossima al parto è molto probabile che ce ne volessero almeno il doppio.

Maria e il marito arrivano così a Betlemme, che significa “casa del pane”, l’antica Efrata (è chiamata anche “Bethlehem di Efrata”) dove Giacobbe aveva sepolto Rachele (Genesi 35.19) e lì arrivò il momento del parto, delicato non solo come avvenimento per ogni donna, ma anche per noi che ci troviamo a dover risolvere un problema importante visto nella pericope “lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c’era posto per loro nell’albergo” (v.7).

Immaginiamoci la situazione nei giorni poco prima dell’evento: Giuseppe e Maria, giunti a Betlemme, villaggio di non molte case, la trovarono ovviamente piena di persone giunte là, come loro, per ottemperare agli obblighi imposti dall’editto: il problema del dove alloggiare non era di poco conto sia perché Betlemme era piccola, sia perché la moltitudine di gente giunta prima di loro si era accaparrata i posti migliori disponibili. In realtà però, leggendo bene il testo, Luca non ci dice che Giuseppe e Maria non riuscirono a trovare un posto perché Betlehem era piena di gente, ma che “non c’era posto per loro” perché Maria, prossima a partorire, avrebbe secondo la Legge contaminato il luogo dove avrebbe partorito così come le persone. Non avrebbero quindi potuto alloggiare presso le abitazioni come ospiti, ma poteva essere disponibile la stalla dove i viaggiatori ricoveravano i propri animali accanto magari a quelli dei proprietari.

Allora Giuseppe trovò un riparo per Maria cercando sicuramente di sistemarlo e pulendolo come meglio poteva, tenendo lontani gli animali che potevano costituire un pericolo per il bambino. Maria poi è probabile che partorì da sola, senza essere assistita da nessuno perché fu lei stessa ad avvolgere il figlio nelle fasce e a deporlo nella mangiatoia, quindi alzandosi subito dopo averlo partorito. Provvide così a lavarlo, a recidere il cordone ombelicale oltre che sbarazzarsi della placenta e a pulire se stessa. Le fasce furono così il primo vestito che Gesù indossò come essere umano, preludio di quelle altre che Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo utilizzarono per avvolgere il suo corpo con gli aromi alla sepoltura.

C’è poi la mangiatoia, che assieme alle fasce e alla paglia proteggevano il piccolo dal freddo, ma non mi sento di avallare la teoria del presepe che vede un bimbo quasi nudo riscaldato dall’alito di un asino e di un bue che, animali e in quanto tali comunque imprevedibili, saranno stati accuratamente tenuti lontano. Come osservò un fratello, “Sull’iconografia tramandataci da Francesco d’Assisi, giocò fortemente l’emotività e non la realtà dell’avvenimento”.

Ultimo dettaglio, ma certo non trascurabile stante le interpretazioni opposte in merito, lo troviamo nelle parole “diede alla luce il suo figlio primogenito”, sul quale sono corsi letteralmente fiumi di inchiostro. Il termine “primogenito” veniva usato ordinariamente per indicare colui che nasceva per primo indipendentemente dal fatto che restasse o meno figlio unico anche se Matteo 13.55,56 lascia intendere che la famiglia di Maria e Giuseppe fosse numerosa: grazie ai doni ricevuti dai Magi, che arrivarono tempo dopo, i genitori di Gesù erano diventati benestanti e potevano permettersi un decoroso mantenimento di figli. Così si espressero gli abitanti di Nazareth: “Da dove mai viene a costui questa sapienza e questi miracoli? Non è forse egli il figlio del carpentiere? Sua madre non si chiama Maria e i suoi fratelli Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle non sono tutte fra noi? Da dove gli vengono dunque tutte queste cose?”. Si creano delle condizioni di scandalo attorno a questioni trascurabili: Maria era una donna, in quanto tale rimase impura secondo la legge per 40 giorni dopo aver partorito. Vergine all’atto del parto perché suo figlio era stato concepito in modo non umano, fu madre e moglie di Giuseppe vivendo la propria unione esattamente come tutte le altre donne sposate del mondo. Non ho mai capito quale senso potesse avere non solo la sua supposta verginità post parto e il fatto che si sia astenuta dall’avere rapporti col proprio marito anche alla luce del fatto che il matrimonio in Israele aveva nel far figli il suo scopo portante.

Dai versi visti finora, al di là delle considerazioni “tecniche” che abbiamo fatto, se ne possono fare altre, la prima della quale è: Dio governa il mondo e, come in tanti episodi storici dell’Antico Testamento, prepara e organizza i presupposti affinché certi eventi si possano verificare senza che molti li possano capire. Gesù doveva nascere in Betlemme e in nessun’altra città. Il profeta Michea scrisse “E tu, Betlemme di Efrata, così piccola per essere tra i capoluoghi di Giuda, da te mi uscirà colui che dev’essere il dominatore in Israele. Le sue origini sono dall’antichità, dai giorni più remoti” (Michea 5.1), espressione per indicare l’eternità di cui Gesù stesso farà cenno quando dirà “Prima che il mondo fosse, io sono”.

Caio Ottaviano, alias Cesare Augusto, convinto di essere quasi onnipotente, temuto e riverito dai suoi simili, non pensava certo, ordinando quel censimento, di essere un mero strumento nelle mani di Dio o comunque di contribuire a un Suo progetto; neppure Quirino, sottoposto ad Ottaviano, poteva pensare cosa si celasse dietro quello che per lui era un’operazione che garantiva la riscossione dei tributi e quindi ricchezza (anche) per la sua persona. Negli avvenimenti del mondo estraneo alla Chiesa, ai “chiamati fuori” da un mondo che ha solo disprezzo per la Parola di Dio, esiste quindi un perché, una lettura che come credenti possiamo dare. Dobbiamo sapere che nulla è lasciato al caso, ma ogni cosa scorre secondo i tempi voluti e preparati da chi ha progettato ogni cosa per loro: siamo nati come tutti, ma diversamente dai “tutti” chi è diventato “concittadino dei santi e membro della famiglia di Dio” ha uno scopo e un futuro di eternità preparato per lui, come disse Gesù in Matteo 25.34 “Allora il Re dirà a coloro che saranno alla sua destra, Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno che vi è stato preparato sin dalla fondazione del mondo”.

Possiamo concludere con Genesi 49.10 quando Giacobbe morente, benedicendo i figli, disse di Giuda, che originerà una tribù alla quale apparterrà la casa di Davide, “Lo scettro non sarà rimosso da Giuda, né il bastone del comando tra i suoi piedi, finché venga Colui che darà il riposo, e al quale ubbidiranno i popoli”. Era finalmente nato Colui che gli uomini di Dio aspettavano fin dai tempi antichi, di cui l’angelo Gabriele aveva annunciato, un Re che verrà adorato dai magi venuti da Oriente, dalla Persia, uno che dichiarerà e dimostrerà di essere l’inascoltato Figlio di Dio. Gesù avrebbe potuto nascere nelle migliori corti del tempo e con tutte le comodità umane, ma venne al mondo identificandosi subito con la precarietà della condizione umana mettendo in opposizione fino da allora il ragionare umano e quello di Dio. Allo stesso modo i suoi genitori, lungi dall’essere trattati con riguardo, furono costretti ad un viaggio faticoso, aggravato dalla condizioni di Maria, perché fossero adempiute le profezie sulla nascita del bambino a Betlemme: bastava loro di essere degli strumenti nelle mani di Dio e non pretesero mai nulla in cambio, lontani da quella mentalità distorta di chi pretende che le proprie aspettative coincidano con quelle di Dio, mentalità che molti hanno.

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01.10 – BENEDICTUS II/II (Luca 1.67-80)

01.10 – Benedictus II/II (Luca 1.67-80)

 

67Zaccaria, suo padre, fu colmato di Spirito Santo e profetò dicendo:68«Benedetto il Signore, Dio d’Israele, perché ha visitato e redento il suo popolo,69e ha suscitato per noi un Salvatore potente
nella casa di Davide, suo servo, 70come aveva detto per bocca dei suoi santi profeti d’un tempo:
71salvezza dai nostri nemici, e dalle mani di quanti ci odiano. 72Così egli ha concesso misericordia ai nostri padri e si è ricordato della sua santa alleanza, 73del giuramento fatto ad Abramo, nostro padre, di concederci, 74liberati dalle mani dei nemici, di servirlo senza timore, 75in santità e giustizia al suo cospetto, per tutti i nostri giorni. 76E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo perché andrai innanzi al Signore a preparargli le strade, 77per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza nella remissione dei suoi peccati. 78Grazie alla tenerezza e misericordia del nostro Dio, ci visiterà un sole che sorge dall’alto, 79per risplendere su quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra di morte, e dirigere i nostri passi sulla via della pace». 80Il bambino cresceva e si fortificava nello spirito. Visse in regioni deserte fino al giorno della sua manifestazione a Israele”.

Se la prima parte del cantico di Zaccaria è incentrata sulla realizzazione delle promesse di Dio rivolte al popolo tramite i profeti, la seconda si basa interamente sul ruolo di Giovanni Battista, precursore del Messia. Le parole profetiche di Zaccaria esaminate brevemente la volta scorsa avevano riguardato l’inizio del nuovo cammino che il popolo di Dio avrebbe dovuto compiere, ma quelle su Giovanni riguardano l’immediato futuro e il suo ruolo così importante per il popolo di Israele. Il padre usa nei confronti del proprio figlio parole quasi di rispettoso distacco: mancano espressioni del tipo “figlio mio” o quant’altro indichi una rivendicazione di appartenenza, ma semplicemente “o piccolo bambino”, a sottolineare la distanza fra ciò che Giovanni era e ciò che diventerà al di là della relazione filiale, molto meno importante rispetto al ruolo che avrebbe avuto, cioè riprendere il servizio profetico, interrotto da 400 anni, e di preparazione alle vie del Cristo. Non che gli altri profeti non l’avessero fatto, ma la loro opera era tesa sia a testimoniare che l’assistenza di Dio non veniva meno nei secoli, sia a descrivere sempre più nei dettagli ciò che sarebbe avvenuto man mano che il piano di salvezza per l’uomo andava avanti. Giovanni avrebbe preparato le strade davanti al Signore con uno stile di vita particolare tipico del Nazireo e una predicazione che Matteo sintetizza con le parole “Ravvedetevi, perché il regno dei cieli è vicino” (3.2). Sono le stesse con le quali anche Gesù inizierà a predicare (4.17) con miracoli nelle sinagoghe.

Ravvedetevi”, imperativo greco (metanoèite), che indica un cambiamento di pensiero e di sentimento relativamente al peccato e a un modo di vita non consono agli ideali di Dio. Il ravvedimento porta non solo a deplorarle, ma anche ad abbandonarle interamente perché non ci appartengono più. Giovanni, per “preparare le vie” del Signore, avrebbe svolto un’opera di invito ad una valutazione della propria vita e del proprio modo di pensare visto, per coloro che conoscevano la legge e la scrittura, nella capacità di avvertire i propri errori non come una semplice colpa, un peso che Dio avrebbe potuto perdonare dietro l’osservanza di un cerimoniale, ma come qualcosa di ostacolante la relazione con Lui e che solo Lui avrebbe potuto rimuovere.

La necessità del ravvedimento urgeva in vista del “Regno dei cieli” che era vicino. Non è una frase fatta, ma l’annuncio di qualcosa atteso da tempo da tutte le anime sensibili di allora e di oggi. Se viene detto che quel regno ora è vicino, significa che prima era lontano. “Regno dei cieli” è un’espressione che usa solo Matteo e corrisponde, negli altri Vangeli, al “Regno di Dio” ed entrambe alludono a diverse cose: prima di tutto la nuova era della Grazia che stava per cominciare, ma anche la liberazione del peccato, la santificazione, la vita sotto una nuova prospettiva.

L’ “andrai innanzi” indica il precedere il Cristo non in ordine di importanza, ma come una sorta di araldo che avrebbe informato che stava per arrivare Colui del quale avevano parlato la legge e i profeti. Il “preparargli le strade” è un’espressione che infatti richiama le parole di Isaia, che scrisse nel 750 a.C. : “Una voce grida: Nel deserto preparate la via al Signore, spianate nella steppa la strada per il nostro Dio. Ogni valle sia innalzata. Ogni monte e ogni colle siano abbassati; il terreno accidentato si trasformi in piano e quello scosceso in vallata” (40.3-4); questo testo allude al rientro in patria da Babilonia a Gerusalemme che fecero gli esuli ebrei quando Ciro, re di Persia, nel 538 a.C., li autorizzò a tornare in patria. Guardando così a quella storia per loro non troppo lontana, gli ebrei del tempo di Giovanni avevano bene in mente che nel 586 a.C. Gerusalemme era stata distrutta col suo Tempio, che il popolo fu deportato e poté tornare dopo circa 50anni. Ecco allora che Giovanni Battista sarebbe stato l’ultimo profeta dell’Antico Testamento e avrebbe fatto da ponte tra quello e il Nuovo: le strade di Dio si sarebbero incrociate con quelle degli uomini che, riconosciutele, le avrebbero intraprese.

E lo scopo delle vie di Dio le dichiara lo stesso Zaccaria: “Per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza nella remissione dei suoi peccati”. Non è detto che Giovanni sarebbe diventato il precursore di un condottiero potente, ma di uno che avrebbe fatto conoscere “al suo popolo”, Israele nell’immediato, ma poi a tutti gli altri, la “conoscenza della salvezza”: riflettendo sul termine, se nella nostra mentalità “conoscenza” è sinonimo di sapere, ottenere dei dati attraverso uno studio, per gli ebrei era sinonimo di provare qualcosa su di sé, sperimentare, vivere. Ciò equivaleva allora all’invito, alla certezza di trovare un rifugio e un riparo sicuro presso Dio, alla certezza di appartenergli in virtù della “remissione dei peccati”. Ricordiamo le parole di Gesù in Luca 13.34,35 che rivela le intenzioni di Dio contrapposte al rifiuto della maggioranza: “Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi coloro che ti sono mandati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli come una gallina la sua covata sotto le ali e voi non avete voluto! Ecco, la vostra casa è lasciata deserta! Vi dico infatti che non mi vedrete più fino al tempo in cui direte «Benedetto colui che viene nel nome del Signore!»”.

Se nel Salmo 32.1 leggiamo “Beato l’uomo a cui è tolta la colpa e coperto il peccato”, in Efesi 1.19 abbiamo la grande apertura che ogni uomo o donna può vivere oggi qualora accetti Gesù come suo personale salvatore, riconoscendosi peccatore e lontano da Dio: “Voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e famigliari di Dio”.

Zaccaria prosegue così: “Grazie alle tenerezza e alla misericordia del nostro Dio, ci visiterà un sole che sorge dall’alto, per risplendere su quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra di morte, e dirigere i nostri passi sulla via della pace”: compare in questo cantico il verbo “visitare” per la seconda volta: nel primo caso, che abbiamo cercato di sviluppare nella scorsa riflessione, Dio ha “visitato il suo popolo”, realtà che ci parla di un’azione valutativa sotto la spinta della Sua “tenerezza e misericordia”, ma nel secondo abbiamo la conseguenza di tutto questo, cioè l’arrivo di un “sole che sorge”. Di “Un” e non “del”: un’altra luce, un altro progetto, un altro scopo, un altro genere di illuminazione e riscaldamento. L’apostolo Giovanni scrive “Egli – Giovanni Battista – non era la luce, ma doveva rendere testimonianza della luce. Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo” (1.8-9). Possiamo fare ancora una citazione da Malachia 4.2 “Per voi, che avete timore del mio nome, sorgerà con raggi benefici il sole di Giustizia” e da Isaia che dice al popolo “Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla su di te” (60.1).

Simeone, dopo che prese in braccio Gesù quando aveva 8 giorni e fu presentato al tempio come primogenito, disse : “Ora lascia, Signore, che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli, luce per illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele” (Luca 2.29,32). “Illuminare le genti” nel senso di proiettarle in una vita nuova che si sarebbe svolta non più nelle tenebre. Paolo scrisse ai credenti della Chiesa di Efeso “Ricordatevi che voi in quel tempo – cioè prima di conoscere il piano di Dio ed averlo accolto – eravate senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza di Israele, estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio in questo mondo” (2.12). Lo stare “nelle tenebre e nell’ombra della morte” è la condizione di ogni essere umano che vive senza la luce che solo il “Sole di giustizia”, quello che “sorge” può dare: lo stare nelle tenebre implica spiritualmente il non vedere, quindi incapacità di valutare, percepire, dirigersi, orientarsi. La permanenza nell’ombra della morte invece si riferisce non solo alla prospettiva certa che tutti hanno, ma ad uno stato di non illuminazione che trova nella morte l’unica prospettiva possibile. Ora se la morte, per chi vive nelle tenebre, rappresenta la fine di tutto (quindi progetti, desideri, l’essere se stessi con i propri averi), per chi è illuminato dal “Sole di giustizia” non esiste più alcuna ombra di morte, ma il passaggio dalla questa alla vita: “In verità, in verità vi dico: chi ascolta la mia parola e crede in colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita” (Giovanni 5.24).

Da notare inoltre che il sole che sorge dall’alto di cui parla Zaccaria è detto che risplende, non si limita a mandare una luce generica, non ci sono nubi a coprirlo. È una luce forte e vivida quella che investe chi ne è illuminato, per cui questi si viene a trovare in una condizione diametralmente opposta alla prima.

Non solo, ma questo sole dirige i passi su una vita particolare, quella della pace. Non c’è altra pace al di fuori di quella che solo Gesù Cristo può dare, che disse “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Io non la do come la dà il mondo” (Giovanni 14.21). La “via della pace” non è quella della tranquillità, di uno stato mentale raggiungibile attraverso una generica meditazione o ad imitazione del Budda, che pure aveva capito molte dinamiche della psicologia umana, non implica un percorso libero né da turbamenti né da errori, ma è quella conseguente alla rappacificazione con Dio, che fa scendere sulla creatura una pace particolare, diversa: il pieno confidare in Lui e la conoscenza, la certezza di essere nelle sue mani.

A questo punto Zaccaria conclude il suo intervento e Luca inserisce questa nota: “Il bambino cresceva a si fortificava nello spirito. Visse in regioni deserte fino al giorno della sua manifestazione a Israele”. C’è qui descritto un periodo di trent’anni circa salvo altri, pochi dettagli sul come si vestiva e come si nutriva. Giovanni non frequentava le scuole rabbiniche del tempo, ma visse i silenzi del deserto e crebbe illuminato dallo Spirito Santo che lo preparò alla predicazione, fortificandosi nello spirito, quindi nella parte più profonda della sua persona, e pare molto improbabile che, come alcuni hanno supposto, fosse stato affidato alla comunità di Qumran.

Nel deserto non esistono rumori al di fuori di quello del vento, se presente. Giovanni visse così “fino al giorno della sua manifestazione a Israele”, quindi attese che Dio stesso gli rivelasse il momento di agire predicando con modalità e parole riferite in parte dai Vangeli, ma che troveremo nei profeti dell’Antico Testamento.

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01.09 – BENEDICTUS I/II (Luca 1.67-80)

01.09 – Benedictus I/II (Luca 1.67-80)

 

67Zaccaria, suo padre, fu colmato di Spirito Santo e profetò dicendo:68«Benedetto il Signore, Dio d’Israele, perché ha visitato e redento il suo popolo,69e ha suscitato per noi un Salvatore potente
nella casa di Davide, suo servo, 70come aveva detto per bocca dei suoi santi profeti d’un tempo:
71salvezza dai nostri nemici, e dalle mani di quanti ci odiano. 72Così egli ha concesso misericordia ai nostri padri e si è ricordato della sua santa alleanza, 73del giuramento fatto ad Abramo, nostro padre, di concederci, 74liberati dalle mani dei nemici, di servirlo senza timore, 75in santità e giustizia al suo cospetto, per tutti i nostri giorni. 76E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo perché andrai innanzi al Signore a preparargli le strade, 77per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza nella remissione dei suoi peccati. 78Grazie alla tenerezza e misericordia del nostro Dio, ci visiterà un sole che sorge dall’alto, 79per risplendere su quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra di morte, e dirigere i nostri passi sulla via della pace». 80Il bambino cresceva e si fortificava nello spirito. Visse in regioni deserte fino al giorno della sua manifestazione a Israele”.

Sicuramente colpisce la precisazione di Luca su quest’uomo che, dopo aver ritrovato parola e udito, si espresse solo in termini atti a glorificare Dio: “fu colmato di Spirito Santo e profetizzò”. Zaccaria era un sacerdote, quindi una persona qualificata a quel tempo (anche) come mediatore tra JHWH e l’uomo che commetteva un peccato. Sappiamo che sia lui che sua moglie erano, come detto da Luca, “ambedue giusti davanti a Dio, camminando in tutti i comandamenti e leggi del Signore, senza biasimo”, ma senza l’intervento dello Spirito le sue sarebbero solo rimaste delle parole ammirevoli e sagge, buone tutt’al più come quelle utilizzate dagli “amici” venuti per consolare Giobbe dalle sue disgrazie. Invece la condizione di Zaccaria fu duplice: “ripieno di Spirito Santo” – la condizione – e “profetizzò”, che non significa predire il futuro come molti credono, ma parlare correttamente di Dio sospinti dallo Spirito, il solo che può orientare la persona e farle comprendere le verità e i piani del Signore per sé e per altri.

Per il credente sincero, nonostante gli sbagli che commette nella propria vita per la sua stessa debolezza, lo Spirito Santo è colui che può orientarlo e illuminarlo, come disse Nostro Signore ai suoi discepoli in Giovanni 14.15-17: “Se mi amate, osservate i miei comandamenti. Ed io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore, che rimarrà con voi per sempre, lo Spirito della verità che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce, ma voi lo conoscerete, perché dimora con voi e sarà in voi”.

Il cantico che segue dopo questa brevissima premessa inizia con un’espressione molto antica,

ma tutto il resto delle sue parole sono, per l’epoca e non solo, assolutamente nuove perché capiamo che, di lì a poco, Dio avrebbe adempiuto le promesse fatte agli antichi e di cui avevano parlato i profeti. La critica neotestamentaria ha visto nelle parole di Zaccaria numerosi riferimenti agli scritti dell’Antico Patto e non vede in esse nulla di eccezionale e questo può essere vero se non si considera il tempo in cui queste furono pronunciate. Il padre di Giovanni Battista è conscio che quello e non altri erano i momenti in cui il Dio di Israele stava visitando e compiendo la redenzione del suo popolo, nelle sue parole non c’è nulla pronunciato per una ritualità o convenzione, ma il visitare è per redimere o, meglio ancora secondo un’altra traduzione, “ha visitato e riscattato il suo popolo”. Il “riscattare”, per la legge di Mosè, era un’azione prevista per riavere una cosa altrimenti perduta, ma soprattutto per liberare una persona tenuta in schiavitù; ad esempio in Deuteronomio 7.8 leggiamo “…perché l’Eterno vi ama e ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri, l’Eterno vi ha fatto uscire con mano potente e vi ha riscattati dalla casa di schiavitù, dalla mano del Faraone, re d’Egitto”.

Ancora, sempre in proposito, si parla in Deuteronomio 13.5 “…vi ha redenti dalla casa di schiavitù per trascinarvi fuori dalla via nella quale l’Eterno, il tuo Dio, ti ha ordinato di camminare”. Ogni uomo di Dio ha sperimentato un Esodo nella propria vita: dai propri parenti, dal proprio mondo, dalla schiavitù di se stesso. Le azioni storiche che Zaccaria ha ben presente, fatte nella prospettiva del piano di Dio che contemplava la progenie della donna schiacciare il capo al serpente, le vede compiute sotto una prospettiva spirituale nonostante Giovanni fosse nato da otto giorni e Gesù non ancora. Zaccaria, che conosceva la storia del suo popolo, vede il visitare di Dio come un atto di pietà e non di giudizio come, ad esempio, avvenne la prima volta che “scese” per vedere la costruzione della torre in Babele: Egli, che non può mai essere neutrale, è ora venuto per redimere, cioè liberare dal peccato e dalle sue conseguenze che potevano essere constatate, allora come oggi, dalla presenza di malattie, indemoniati, dal giogo di un dominatore straniero che solo apparentemente erano i romani, ma che nella realtà spirituale simboleggiava il peccato che impediva una serena relazione con Dio. Ogni uomo, prima di conoscere Cristo, ha e avrà sempre un suo dominatore straniero, spirituale o fisico che sia.

Proseguendo nel cantico, Zaccaria riconosce che la salvezza proveniva dalla “casa di Davide suo servo, come Egli aveva dichiarato per bocca dei suoi santi profeti fin dai tempi antichi, perché fossimo salvati dai nostri nemici e da tutti coloro che ci odiano”. La traduzione letterale delle prime parole del verso non è di facile comprensione perché dice “destò un corno di salvezza per noi nella casa di Davide suo servo” per cui il suscitare una potente salvezza, per quanto rispondente a verità, oscura leggermente la comprensione di un simbolo che si trova molte volte nell’Antico Testamento, soprattutto nel linguaggio profetico. Il corno, per l’animale che lo possiede, è al tempo stesso arma offensiva e difensiva ed è espressione di potenza (da ricordare per la lettura dell’Apocalisse), per cui: “Dio ha destato – dichiarazione di avvenimento anche se i suoi effetti non si manifesteranno ancora – un corno di salvezza”,- quindi una salvezza potente e soprattutto duratura, stabile: non è un “corno” animale, naturale, ma qualcosa che proviene direttamente da Dio e che nessuno potrà mai sconfiggere.

Tornando quindi alla traduzione più comprensibile: questa salvezza, impossibile a togliersi, viene dalla casa di Davide (Maria e Giuseppe), la sola a poter garantire che quel “germoglio”, quella “progenie della donna” che avrebbe schiacciato il capo al serpente, fosse veramente Gesù Cristo. Non a caso, se la genealogia di Matteo si riferisce a Giuseppe e parte da Abrahamo, quella di Luca, riferita a Maria, risale fino ad Adamo: è il ricordo di quella promessa e del giudizio sull’Avversario. È bello vedere che Dio non si limitò a pronunciare quelle parole una volta, ma le aggiornò nel corso del tempo, ripetendole agli uomini da lui preposti a guidare il popolo con l’autorità del condottiero o del re, o a consolarlo o riprenderlo per bocca dei profeti.

Zaccaria poi considera lo scopo di tutto questo: “perché fossimo salvati dai nostri nemici e da tutti coloro che ci odiano”: qui c’è un riferimento alle promesse dell’Antico Patto che sono contemporaneamente presenti e future a prescindere dal tempo in cui vengono pronunciate. Prendiamo l’ultimo profeta, Malachia, che abbiamo citato spesso a motivo dell’ultima parola con cui si chiude l’Antico Testamento: scrisse “Poiché ecco, il giorno viene, ardente come una fornace, e tutti quelli che operano empiamente saranno come stoppia; il giorno che viene li brucerà in modo da non lasciar loro né radice né ramo. Ma per voi che temete il mio nome – solo per questi, quindi – sorgerà il sole della giustizia con la guarigione nelle sue ali e voi uscirete e salterete come vitelli di stalla. Calpesterete gli empi perché saranno cenere sotto la pianta dei vostri piedi nel giorno che io preparo, dice il Signore degli eserciti” (4.1-3).

Zaccaria, riportando le promesse degli antichi, allude alla liberazione totale dal giogo penalizzante del peccato per tutti gli uomini che l’avrebbero accolta, ma non solo: esprimendo un concetto che esporrà l’apostolo Paolo, sostiene la sconfitta del nemico per eccellenza, Satana, e da qualsiasi altra forza oscura: “Infatti io sono persuaso che né morte, né vita, né angeli, né principati, né potenze, né cose presenti, né cose future, né altezze, né profondità, né alcun’altra creatura potrà separarci dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù, nostro Signore” (Romani 8.38).

Riflettendo sul paragone tra le due frasi possiamo dire che Zaccaria, uomo del suo tempo, proclama giunto il tempo in cui Dio ha provveduto alla “potente salvezza dalla casa di Davide suo servo” mentre il secondo, che proveniva dallo studio della Legge, fariseo zelante e profondo conoscitore della tradizione rabbinica, ci dà un aggiornamento reale e adatto alla nostra realtà di uomini che vivono in un nuovo tempo, quello della Grazia. Non solo: “A me, il minimo di tutti i santi, è stata data questa grazia di annunciare fra i gentili – quindi a noi – le imperscrutabili ricchezze di Cristo e di manifestare a tutti la partecipazione del mistero che dalle età più antiche è stato nascosto in Dio, il quale ha creato tutte le cose per mezzo di Gesù Cristo” (Efesi 3.8-10).

Un’ultima riflessione su cosa abbia voluto dire Zaccaria, che parla a un uditorio di ebrei e fonda le sue parole sulle rivelazioni profetiche giunte fino a lui, è ancora Paolo a fornirla: “Siccome per mezzo di un uomo – Adamo – è venuta la morte, così anche per mezzo di un uomo – Gesù – è venuta la resurrezione dai morti. Perché, come tutti muoiono in Adamo – perché così come concluse la sua vita noi concluderemo la nostra – così tutti saranno vivificati in Cristo. (…). Poi verrà la fine, quando rimetterà il regno nelle mani di Dio Padre, dopo avere annientato ogni dominio, ogni potestà e potenza. Bisogna infatti che egli regni finché non abbia messo tutti i nemici sotto i suoi piedi e l’ultimo nemico che sarà distrutto sarà la morte” (1 Corinti 21.26).

Arriviamo così alle parole che concludono la prima parte del cantico, “Per usare misericordia verso i nostri padri e ricordarsi del suo santo patto, il giuramento fatto ad Abrahamo nostro padre, per concederci che, liberati dalle mani dei nostri nemici, lo potessimo servire senza paura, in santità e giustizia, tutti i giorni della nostra vita”: la liberazione dalle mani dei nemici, come visto poco prima, non può essere intesa come storica poiché le vicende antiche da noi conosciute nella Bibbia, vale a dire quelle che hanno visto il popolo di Dio liberato dalla dominazione straniera, hanno sempre avuto un significato, uno stato, una conseguenza, un effetto spirituale: Israele oppresso in Egitto e liberato da Dio al mar Rosso era ed è figura dell’uomo che vive oggi in una condizione di peccato, incapace di provare sentimenti e comprensioni spirituali nel vero senso del termine. Perché noi sappiamo bene che “L’uomo naturale non riceve le cose dello Spirito di Dio perché sono follia per lui e non le può conoscere, poiché si giudicano spiritualmente” (1 Corinti 2.14). Ecco, chi vive la propria vita di tutti i giorni, perso nei propri interessi, legato al contingente perché ha inserito nel proprio animo dei valori che ritiene prioritari, “non riceve le cose dello Spirito di Dio”; può riceverne altre, tutte quelle che con Lui non hanno nulla a che fare. Non le riceve perché, alla luce dei propri valori e convinzioni scontate ed errate, “sono follia per lui”. La conseguenza è che “non le può conoscere, perché si giudicano spiritualmente”.

Ecco, quando a un uomo, o donna, è stata data l’autorità di diventare figlio di Dio, gli viene conferita un’abilitazione alla possibilità, capacità di rivedere le cose spirituali in base alla grazia che gli viene data. Da lì in poi è chiamato a servire senza paura, in santità e giustizia, tutti i giorni della propria vita oppure, secondo una traduzione dalle versioni più antiche, “tutti i nostri giorni”. Si tratta di un servizio in “santità e giustizia”, non più secondo i desideri dell’uomo vecchio, ma di quello nuovo che vede le cose secondo una prospettiva di realizzazione eterna e non umana.

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01.08 LA NASCITA DI GIOVANNI BATTISTA (Luca 1-57-66)

01.08 – Nascita di Giovanni Battista (Luca 1.57-66)

 

57Per Elisabetta intanto si compì il tempo del parto e diede alla luce un figlio. 58I vicini e i parenti udirono che il Signore aveva manifestato in lei la sua grande misericordia, e si rallegravano con lei.
59Otto giorni dopo vennero per circoncidere il bambino e volevano chiamarlo con il nome di suo padre, Zaccaria. 60Ma sua madre intervenne: «No, si chiamerà Giovanni». 61Le dissero: «Non c’è nessuno della tua parentela che si chiami con questo nome». 62Allora domandavano con cenni a suo padre come voleva che si chiamasse. 63Egli chiese una tavoletta e scrisse: «Giovanni è il suo nome». Tutti furono meravigliati. 64All’istante gli si aprì la bocca e gli si sciolse la lingua, e parlava benedicendo Dio. 65Tutti i loro vicini furono presi da timore, e per tutta la regione montuosa della Giudea si discorreva di tutte queste cose. 66Tutti coloro che le udivano, le custodivano in cuor loro, dicendo: «Che sarà mai questo bambino?». E davvero la mano del Signore era con lui.”.

La nascita di un bambino è un evento naturale, non certo qualcosa di speciale o eccezionale salvo che per i genitori che lo attendono e i loro parenti. L’episodio appena letto riporta però un’altra tappa importante verso quella che possiamo definire una “nuova creazione spirituale” di Dio in cui Lui stesso pose le fondamenta per l’apertura della nuova dispensazione della Grazia. Personalmente, a partire dall’annuncio a Zaccaria, vedo sempre tante tappe, dei passi in avanti verso questa nuova era e mi piace accostare idealmente l’immagine di Dio Padre intento a costruire con cura estrema ogni passaggio del Suo progetto esattamente come quando, creando Adamo, ideò e formò ogni suo organo, ogni osso, muscolo, tendine. Anche per la creazione stessa abbiamo delle immagini poetiche che integrano il racconto della Genesi, dalle quali traspare una cura assoluta per la realizzazione del mondo in cui l’uomo avrebbe dovuto vivere: “Quando ponevo le fondamenta della terra, tu dov’eri? Dimmelo, se sei tanto intelligente! Chi ha fissato le sue dimensioni, se lo sai, o chi ha teso su di essa la corda per misurare? Dove sono fissate le sue basi o chi ha posto la sua pietra angolare, mentre gioivano in coro le stelle del mattino e acclamavano tutti i figli di Dio?” (Giobbe 38.4-7).

Ecco, nel rispetto dei tempi naturali, Elisabetta arriva al nono mese e partorisce il bambino; per la sua nascita non vi furono né segni in cielo o in terra, ma un messaggio chiaro di speranza, dei segni intimi che pochi notarono ma, come abbiamo letto, li conservarono nel cuore. C’è una grandezza tutta particolare nel fatto che “i vicini e i parenti (…) si rallegrarono” con Elisabetta perché da come si svolgeranno i fatti vediamo che, nonostante le manifestazioni di congratulazioni e i modi che quella gente aveva per manifestarle la loro vicinanza, la presenza dei vicini di casa e dei parenti era importante perché avrebbe costituito una testimonianza degli eventi che si sarebbero verificati in quella casa.

Molto spesso nella vita di una persona capita che, per giungere a una convinzione o per avere un’illuminazione, sia necessario mettere insieme e collegare più dati; questo era ciò che il Creatore desiderava avvenisse, perché chi avesse voluto indagare criticamente su Giovanni Battista per avere un quadro chiaro su di lui e su tutti gli altri avvenimenti collegati alla sua persona, avrebbe dovuto considerare la sua storia fin dall’inizio a partire dai molti che avevano assistito, nove mesi prima della sua nascita, all’uscita di suo padre dal luogo santo: a quel tempo “Zaccaria non poteva parlare loro, allora compresero che aveva avuto una visione nel tempio” (Luca 1.22). Teniamo presente che un simile evento è impossibile che non sia stato divulgato per tutta Gerusalemme, stante la sua eccezionalità. Poi abbiamo la stirpe sacerdotale di entrambi, la gravidanza andata a buon fine nonostante la sterilità e l’età avanzata di Elisabetta; tutti eventi che, assieme ad altri che vedremo, porranno le persone in grado di collegarli e riconoscere in Giovanni un profeta diverso dai suoi predecessori non solo per il suo modo di vestire e per le parole di verità che pronunciava, ma per il suo curriculum costituito da tutte queste manifestazioni. Dio non manda mai un profeta senza credenziali.

Usanza dettata dalla tradizione voleva che un bambino venisse chiamato preferibilmente col nome del nonno, o del padre, o comunque di un parente stretto e i “vicini e parenti” che erano andati a trovare Elisabetta dopo il parto, si ripresentarono per la circoncisione del bambino, “segno” esterno dell’appartenenza al popolo eletto di Dio. In Genesi 17.12 leggiamo: “All’età di otto giorni ogni maschio tra voi sarà circonciso, di generazione in generazione tanto quello nato in casa, come quello comprato con denaro da qualunque straniero che non sia della tua discendenza”. La circoncisione quindi era il segno esteriore di appartenenza al popolo ebraico oltre che di igiene, e venne ribadito anche nella dispensazione successiva, quella della Legge: “L’ottavo giorno si circonciderà la carne del prepuzio del bambino” (Levitico 12.3).

Elisabetta però, confermando di aver compreso il piano di Dio per suo figlio e di averlo pienamente accettato, prese a dire tra lo stupore dei presenti “No, anzi, sarà chiamato Giovanni”: quando sta per iniziare un periodo nuovo, anche nella banale storia umana, lo vediamo da tanti particolari, anche dai piccoli. E ogni volta che Dio o la Sua volontà fanno irruzione nella vita dei singoli come dei tanti, succedono sempre degli avvenimenti che stravolgono la norma, l’omeostasi, la tradizione, l’abitudine. Fin dall’età di otto giorni, per bocca di sua madre prima e di suo padre poi, l’esistenza di Giovanni irrompe nel ragionare umano e spezza una consuetudine: nonostante la singolarità delle circostanze che avevano caratterizzato quella nascita, per i presenti era inconcepibile che il bambino non avesse il nome del padre o di un congiunto e infatti, convinti che Zaccaria avrebbe dato loro ragione e disprezzando evidentemente sua moglie, “con cenni domandarono al padre come voleva che egli fosse chiamato. E lui, chiesta una tavoletta, scrisse in questa maniera: «il suo nome è Giovanni»”. La “tavoletta” chiesta da Zaccaria era fatta di legno di pino sottile, ma poteva essere anche di piombo, rame o avorio a seconda di chi la usava, sopra il quale era versato uno strato di cera che poi si incideva con uno stilo di ferro.

È quindi possibile affermare che la prima parola scritta del Nuovo Testamento sia stata Giovanni, cioè “Dio è grazia”, o “Dio è benevolenza”, quando l’ultima scritta dell’Antico è “sterminio”, parola con la quale si conclude il libro di Malachia. Anche con quelle parole Zaccaria e sua moglie, come faranno Maria e Giuseppe, apporranno il loro definitivo, ufficiale benestare alla volontà del Signore che li aveva scelti come genitori del precursore di Gesù. Dio si presenta quindi, nel Nuovo Patto, con queste parole. Possiamo anche ricordare quelle con cui inizia il Vangelo di Giovanni, “Nel principio era il verbo”, presenza rilevabile in quel “facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza” (Genesi 1.26) in cui la Parola era destinata a rivelarsi nella dispensazione della grazia.

Nel momento in cui Zaccaria rivelò il nome del figlio, “la sua bocca fu aperta e la sua lingua sciolta”, e usò parole di benedizione nei confronti di Dio, ben sapendo non solo di essere stato perdonato, ma constatando anche la veridicità delle promesse alle quali non aveva creduto. Ritengo che la gioia di Zaccaria sia stata difficilmente contenibile e avrebbe potuto trovare uno sfogo umano e spirituale solo attraverso il cantico che esamineremo nel capitolo successivo. È importante sottolineare che la gioia di Zaccaria si espresse attraverso parole di profonda verità, dettate dallo Spirito Santo che lo aveva illuminato. Quell’uomo, abituato al servizio sacerdotale, a parlare e a gestire la propria vita senza particolari problemi fino al giudizio dell’angelo, era rimasto sordo e muto per circa nove mesi, pensando a quanto gli era stato detto e a chiedersene il significato; aveva senz’altro meditato sia sulla sua incredulità, sia su chi sarebbe diventato un giorno suo figlio. Quello che dirà, sarà il risultato delle sue considerazioni alla luce di quanto Dio gli aveva fatto comprendere.

Riflettendo su quanto accaduto, possiamo concludere che è solo quando un uomo sperimenta su di sé l’amore di Dio che può essere in grado di parlare di Lui, di esserne testimone: Zaccaria, e con lui chiunque ha provato su di sé gli effetti di una grazia procedente dall’Alto, poteva parlare, dire, raccontare.

Luca conclude l’episodio accennando al timore dei vicini una volta che Zaccaria concluderà il cantico; la traduzione letterale di questi due versi è: “E ci fu timore su tutti i loro vicini di casa e in tutta la regione montuosa della Giudea: tutte queste parole erano oggetto di commenti. E tutti coloro che ascoltarono se le posero nei loro cuori dicendo «Che cosa sarà dunque questo bambino?» E infatti la mano del Signore era con lui”. Qui il testo pone deliberatamente l’accento sull’attesa. Mi piace pensare questi uomini e donne che, senza una rivelazione di Dio, non capiscono quello che sta succedendo, ma s’interrogano “ponendosi nel cuore” le parole udite che “furono oggetto di commenti”: ciascuno diceva la sua, ma nessuno riusciva a trovare una spiegazione soddisfacente.

Il cuore era il posto migliore in cui custodire tanto le parole quanto la notizia dell’accaduto: quando si custodisce qualcosa lì, significa che si vuole ricordare, mettere da parte qualcosa temporaneamente in attesa che giunga il momento della rivelazione, l’occasione per capire. E il racconto di ciò che avvenne in casa di Zaccaria ed Elisabetta fu tramandato perché un giorno, se qualcuno avesse voluto indagare su Giovanni Battista, non avrebbe potuto trovare un solo punto che non lo collegasse a una missione divina.

Quel bambino, una volta divenuto adulto, non sarebbe stato un profeta come gli altri, ma colui che avrebbe dovuto indicare in Gesù “L’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo”, una definizione che avrebbe avuto bisogno di un personaggio autorevole per essere quanto meno presa in considerazione. Quando un profeta parla, per prima cosa chi lo ascolta si chiede chi sia e da dove venga, e poi con quale autorità si ponga innanzi a lui. Ebbene, di nessun profeta dell’Antico Patto è detto “Venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui” (Giovanni 1.8) e Nostro Signore parlò del Battista definendolo “Più che un profeta” qualificando il suo ruolo con: “Io vi dico in verità che fra i nati di donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni Battista, ma il più piccolo del regno dei cieli è più grande di lui” (Matteo 11.11).

Gesù disse questo per far capire la differenza tra Legge e Grazia in cui chi opera non è più un servo, ma un figlio e alla domanda “Che sarà mai questo bambino?” risponde il profeta Malachia con parole sulle quali torneremo: “Ecco, io mando il mio messaggero a preparare la via davanti a me. E subito il Signore che voi cercate entrerà nel suo tempio. L’angelo del patto in cui prendete piacere, ecco, verrà” (3.1). Ogni cosa sarebbe accaduta nel momento opportuno e, per l’episodio che abbiamo visto brevemente, quel “messaggero” era nato e avrebbe preparato “la via”, cioè preannunciato l’arrivo del Salvatore, allora in gestazione di tre mesi, in Maria.

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01.07 – GIUSEPPE (Matteo 1.18-25)

18Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. 19Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto. 20Mentre però stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; 21ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati». 22Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: 23Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele, che significa Dio con noi. 24Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa; 25senza che egli la conoscesse, ella diede alla luce un figlio ed egli lo chiamò Gesù”.

Matteo ci parla di Giuseppe, figura molto particolare dei Vangeli: non parla mai, ma fa tutto quello che gli viene ordinato operando un silenzioso servizio. Quel poco che sappiamo di lui è frutto, quando non chiaramente raccontato, di deduzioni, per quanto fondate. E chi farà da padre putativo a Gesù compare così, all’improvviso, quale promesso sposo di Maria. È importante tenere presente il primo verso di questo Vangelo: “Genealogia di Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abramo” perché Matteo, nel diciassette versi precedenti, ci ha tracciato una genealogia a partire da Abrahamo che, dopo essere stato vagliato con il sacrificio di Isacco, ricevette la promessa “Tutte le nazioni della terra saranno benedette nella tua discendenza, perché tu hai ubbidito alla mia voce” (Genesi 22.18). Anche a Davide, secondo personaggio menzionato, furono rivolte parole di conferma: “Stabilirò la tua progenie in eterno ed edificherò il tuo trono per ogni età” (Salmo 89.3,4). Così, la casata reale si era ridotta all’umile persona di un falegname.

Giuseppe è anche questo, un protagonista nella storia della salvezza che qui incontriamo per la prima volta, turbato, fortemente contrariato e amareggiato perché Maria gli aveva da poco dichiarato di essere gravida. Abbiamo letto “Prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo”, parole con le quali Matteo riassume ciò che Luca ha esposto nei dettagli e che ci consentono di dare uno sguardo al fidanzamento di allora, una promessa di matrimonio che veniva contratta quasi sempre tra i genitori degli sposi, soprattutto dal padre di lui, quando entrambi i giovani erano in età di circa 18 anni (per l’uomo) e dai 12 e mezzo in avanti per le donne. La durata del fidanzamento era di circa un anno, tempo durante il quale il futuro sposo doveva preparare la casa in cui sarebbero andati ad abitare, ma i fidanzati erano considerati marito e moglie a tutti gli effetti per cui, per interrompere la relazione, era richiesta la stessa procedura per il divorzio, vale a dire la lettera di ripudio e, nel caso il motivo del divorzio fosse stato l’infedeltà, la donna veniva lapidata secondo la legge di Mosè.

La frase “si trovò gravida”, ci lascia intuire una circostanza sicuramente drammatica per Giuseppe che ben difficilmente avrebbe potuto credere a Maria qualora gli avesse parlato dell’annuncio angelico: una gravidanza, da sempre, non poteva essere che la conseguenza di un rapporto carnale, consenziente o meno.

Di Giuseppe, come accennato, i Vangeli parlano poco, anzi, si può dire che il fatto che fosse un “uomo giusto” è l’unico che abbiamo: l’unico dato ufficiale sul suo carattere ce lo dà proprio quell’aggettivo che allude non tanto all’osservanza minuziosa della legge e dei suoi corollari, ma alla pietà che aveva e alla gestione della sua persona in sintonia con la fede che professava. Ricordiamo sempre che Abramo fu considerato “giusto” da Dio per aver creduto in Lui e nella sua promessa.

Giuseppe, come dimostra il comportamento che voleva tenere nei confronti di Maria, era un uomo compassionevole, non orgoglioso né desideroso di rivalersi su di lei con un gratuito spirito di vendetta: leggiamo che “non voleva accusarla pubblicamente”, cioè non voleva si scatenasse quanto previsto dalla Legge al riguardo cioè “Quando una fanciulla vergine è fidanzata e un uomo la trova in città e si corica con lei, li condurrete ambedue alla porta di quella città e li lapiderete con pietre, ed essi moriranno: la fanciulla perché, pur essendo in città, non ha gridato, e l’uomo perché ha disonorato la moglie del suo prossimo. Così estirperai il male di mezzo a te. Ma se l’uomo trova una fanciulla fidanzata in campagna, e le fa violenza e si corica con lei, allora morirà solamente l’uomo che si è coricato con lei; ma non farai niente alla fanciulla, non c’è alcun peccato che merita la morte, perché questo caso è come quando un uomo si leva contro il suo prossimo e l’uccide; egli infatti l’ha trovata in campagna; la fanciulla fidanzata ha gridato, ma non c’era nessuno che la potesse salvare” (Deuteronomio 22.23-27).

Giuseppe aveva quindi, in mancanza dell’uomo ipotetico che si era congiunto con la sua fidanzata, due possibilità per procedere contro Maria: accusarla pubblicamente davanti ai magistrati che l’avrebbero condannata alla lapidazione, oppure regolare la cosa privatamente consegnandole una lettera di divorzio in presenza di due o tre testimoni, lasciando a lei la possibilità di regolarsi come meglio potesse. Infatti: “Quando uno prende una donna e la sposa, se poi avviene che essa non gli è più gradita perché ha trovato per lei qualcosa di vergognoso, scriva per lei una lettera di ripudio, gliela dia in mano e la mandi via da casa sua” (Deuteronomio 24.1).

Abbiamo letto che un angelo del Signore gli apparve in sogno “mentre considerava tutte queste cose”, segno che Giuseppe era una persona che non agiva d’impulso, ma era pacato e riservato: l’amore per Maria implicava il rispetto per la sua persona nonostante il supposto tradimento ed escludeva il sentimento di una rivalsa, per quanto legale.

Abbiamo poi il terzo intervento angelico in cui viene usato un appellativo specifico, “Figlio di Davide”, a ricordare a Giuseppe non solo la sua discendenza, ma soprattutto l’adempimento della promessa secondo la quale il Messia sarebbe arrivato dalla discendenza di quel re e non da altre. Anche qui troviamo un “non temere”, ma diverso dai precedenti incontrati, tesi a rassicurare che la presenza angelica non avrebbe comportato un giudizio sulla persona: dicendo “Non temere di prendere con te Maria tua sposa”, l’angelo dichiarava a Giuseppe che tanto Maria quanto il figlio che aspettava, a prescindere dalle traversie che avrebbero incontrato, sarebbero sempre stati assistiti da Dio. Ciò che era accaduto in Maria era la conseguenza dell’opera Spirito Santo inteso come forza creatrice, cioè lo stesso “Spirito di Dio” che “aleggiava sulle acque” che troviamo in Genesi 1, tradotto anche con “si muoveva” da un verbo riferentesi all’atto del covare degli uccelli.

Ed ella partorirà un figlio e tu gli porrai nome Gesù”, nome che ha lo stesso significato di Giosuè, “Salvatore”, colui che introdusse il popolo nella terra di Canaan, la terra promessa. Il figlio di Maria sarebbe stato chiamato così “Perché è lui che salverà il suo popolo dai loro peccati”. Se il nome di un essere umano influenza la sua vita e lo caratterizza, quello del “figlio di Maria e Giuseppe” ha la sua ragione di essere non per la personalità, ma per scopo e ruolo: è lui – e nessun altro – che salverà il suo popolo che, come ci dice Giovanni, poi non lo accolse come avrebbe dovuto; “Egli è venuto in casa sua e i suoi non lo hanno ricevuto, ma a tutti coloro che l’hanno ricevuto ha dato l’autorità di diventare figli di Dio, a quelli che credono nel suo nome” (1.11,12). Come disse Pietro davanti al Sinedrio, l’organo ufficiale per l’emanazione delle leggi e dell’amministrazione della giustizia, “In nessun altro vi è la salvezza, poiché non c’è altro nome sotto il cielo che sia dato agli uomini per essere salvati” (Atti 4.12).

Gesù sarà il solo che, adempiendo interamente la legge, permetterà a tutti gli uomini e donne che avranno creduto in lui di essere idonei a presentarsi senza timore alla presenza di Dio: come già letto in Giovanni, Gesù è Colui che ha dato a tutti coloro che l’hanno accolto “l’autorità – o poteredi diventare figli di Dio”, quindi passare dallo stato di creatura, comune a tutti nel mondo, a quello di figli come scriverà poi l’apostolo Paolo nella sua lettera ai Romani, “Se siamo figli, siamo anche eredi, eredi di Dio e coeredi di Cristo, se pure soffriamo con lui per essere anche con lui glorificati” (8.17).

Il salvare dai peccati significa liberare l’uomo dal giogo della legge, aprire un canale di comunicazione con Dio Padre prima impensabile. È una questione di condizione, di prospettive, di comprensione e possiamo ricordare, a proposito della dispensazione della Legge, l’amara riflessione di Salomone nell’Ecclesiaste: “…tutto ciò che succede ai figli degli uomini succede alle bestie, a entrambi succede la stessa cosa: come muore l’uno, così muore l’altra. Sì, hanno tutti uno stesso soffio e l’uomo non ha alcuna superiorità rispetto alla bestia, perché tutto è vanità. Tutti vanno nello stesso luogo: tutti vengono dalla polvere e tutti ritornano alla polvere” (3.19,20).

È lui che salverà il suo popolo dai loro peccati”: l’apostolo Pietro dirà “Dio lo ha esaltato con la sua destra e lo ha fatto principe e salvatore per dare a Israele ravvedimento e perdono dei peccati” (Atti 5.31), senza considerare il discorso illuminante il di Paolo nella Sinagoga di Antiochia in Atti 14.13-23.

A conclusione del racconto dell’annuncio in sogno a Giuseppe, Matteo come sua consuetudine fa un raccordo con le parole dei profeti dell’Antico Testamento, in questo caso Isaia 7.14 che già allora dava le “istruzioni” per individuare l’Eletto in un bambino partorito da una vergine. Matteo nel suo citare Isaia va direttamente al nocciolo, senza trascrivere le prime parole di del verso che gli ebrei conoscevano molto bene: “Ecco, il Signore vi darà un segno”. Un segno certo inequivocabile vista l’impossibilità che una vergine possa dare alla luce un figlio.

Leggiamo che “Giuseppe, destatosi dal sonno, fece come l’angelo del Signore gli aveva ordinato, e ricevette la sua moglie”. La “giustizia” di Giuseppe si rivela anche in questo atto di obbedienza: sarebbe stato padre di un figlio non suo, ma certo non di un altro uomo.

Ma egli non la conobbe fino a quando ella non ebbe partorito il suo figlio primogenito, al quale pose nome Gesù” è il verso che ha generato più confusione in assoluto, ma solo a quanti hanno voluto sostenere il ruolo di Maria come solo madre e non anche moglie. L’originale greco, come la traduzione latina di San Girolamo, riportano “donec”, cioè “fino a quando”. Controversie ci sono anche sul “primogenito”, che alcuni manoscritti non riportano. Quello che è certo è che Giuseppe si astenne dai rapporti coniugali fino al parto di Maria attendendo i giorni prescritti dalla legge (40 secondo Levitico 12.2-4) prima di avere rapporti carnali con lei.

Ponendo il nome Gesù al bambino, sia lui che Maria accettarono ufficialmente il ruolo cui Dio li aveva destinati. Fu quella la loro “firma” al contratto di ubbidienza alla volontà di JHWH.

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01.06 – MAGNIFICAT (Luca 1.46-56)

01.06 – Magnificat (Luca 1. 46-56)

 

46Allora Maria disse: «L’anima mia magnifica il Signore 47e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore, 48perché ha guardato l’umiltà della sua serva. D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata. 49Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente e Santo è il suo nome; 50di generazione in generazione la sua misericordia per quelli che lo temono. 51Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; 52ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; 53ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote. 54Ha soccorso Israele, suo servo, ricordandosi della sua misericordia, 55come aveva detto ai nostri padri,
per Abramo e la sua discendenza, per sempre». 56Maria rimase con lei circa tre mesi, poi tornò a casa sua.
”.

 

            Gli scritti del Nuovo Patto si aprono con un inno, quello che Giovanni utilizza per l’apertura del suo Vangelo, e con il cantico di una donna, Maria. Si tratta di un avvenimento, più che di rottura con la tradizione, di completamento e di conferma del fatto che uomo e donna hanno pari dignità davanti a Dio pur se con ruoli e responsabilità diverse. Luca, che fece “ricerche accurate su ogni circostanza” (1.3) scrive questi episodi dopo averli appresi direttamente dalla madre di Gesù che, all’epoca in cui avvennero, doveva avere tra i 14 e i 17 anni. Il “Magnificat” è un canto di gioia e liberazione scaturito a seguito delle parole di Elisabetta “…e beata colei che credette che vi sarà compimento per le cose dettele dal Signore” che costituirono anche un rimprovero, neppure tanto velato, al marito che si era comportato diversamente. Per dovere di cronaca va detto che alcuni manoscritti attribuiscono il cantico ad Elisabetta, ma i contenuti veterotestamentari di cui esso è pieno indicano, a mio parere, un sentimento di liberazione e una comprensione degli eventi che poteva avere più Maria che la cugina.

Notiamo al verso 46 che si parla di “anima” che magnifica il Signore e di “spirito” che esulta, andando direttamente alla persona come essenza, al di là del corpo. Anima come ciò che è forza vitale, ma terrena, e spirito come ciò che è superiore, la vera identità dell’essere umano, ciò che va oltre ed è difficilmente comprensibile. L’anima che “magnifica il Signore” (verbo “megalùno”) implica un’idea di rafforzamento in Lui e che pertanto Lo glorifica una volta compresa una parte del mistero della sua elezione; lo spirito poi esulta “in Dio”, letteralmente “a motivo di”, escludendo un sentimento momentaneo di gioia stante la qualifica di “Salvatore” che Gli viene attribuito. Isaia in 12.2 scrive “Ecco, Dio è la mia salvezza, io avrò fiducia e non avrò paura perché l’Eterno, sì, l’Eterno è la mia forza e il mio cantico ed è stato la mia salvezza”: personalmente credo che lì i timori di Maria relativi al suo destino come donna, che abbiamo visto rischiava la lapidazione come adultera nel caso in cui Giuseppe l’avesse denunciata, cessarono. “Salvatore” perché la futura madre di Gesù si sentì, come tutti quelli prima e dopo di lei, posta al riparo, appartata per un progetto di eternità, ma anche salvata dalla condizione di essere umano peccatore: se fosse stata santa di per sé, “concepita senza peccato” come si vuole sostenere o avesse avuto dei meriti particolari salvo l’elezione di Dio, non avrebbe usato quest’espressione e Lo avrebbe qualificato in un altro modo; ricordiamo che mai una creatura spirituale pura (pensiamo agli angeli con le loro gerarchie) si è mai rivolta a YHWH chiamandolo “Salvatore”.

Maria poi si qualifica come essere umano senza far caso alla propria stirpe reale, discendendo anch’essa da Davide: sotto l’aspetto genealogico la sua condizione “umile” non lo era, ma in base alla sua umanità certamente sì. La “umile condizione” era quella in cui versano tutti gli uomini, lontani dalla Grazia e quindi dalla salvezza a meno che Lui stesso non guardi a loro avendone pietà. Altri traducono “ha riguardato alla bassezza della sua serva”, espressione che ricorda l’essenza dell’essere umano, appunto peccatore per natura e per questo incompatibile con Dio che, a Suo giudizio insondabile e insindacabile, guarda alla condizione di ciascuno e a ciascuno si propone per salvarlo.

Ecco, qui bisognerebbe sostare un attimo: la Bibbia è piena di episodi in cui Dio si rivela e spiega il Suo piano per ogni essere umano, sia questo singolo o popolo; lo ha sempre fatto a partire da quando ha creato Adamo. A volte parlò personalmente, in altre mandò degli angeli, dei messaggeri, in altre ancora utilizzò altri uomini, dei profeti. Ebbene la stessa cosa sono profondamente convinto la faccia anche oggi, anche se con modi diversi, perché viene un punto nella vita in cui l’essere si pone delle domande circa la propria origine e fine ed è lì che si pone il bivio, la libera scelta tra l’iniziare un percorso di ricerca spirituale oppure no. L’uomo di oggi non può affidarsi ad apparizioni o a rivelazioni particolari di “entità superiori” perché queste sono escluse come provenienti da Dio, come possiamo capire dalla risposta che diede Abrahamo al ricco che lo pregava di inviare Lazzaro ai suoi fratelli ad ammonirli perché non finissero anch’essi fra i tormenti: “Hanno Mosè e i profeti, ascoltino loro” (Luca 16.29).

Riguardo alla necessità di risolvere la difficile domanda del perché della nostra esistenza e soprattutto dell’oltre la morte ci sono due reazioni possibili: alcuni l’avvertono in modo talmente forte da arrivare a risolverlo, certo non da soli, altri lo soffocano e lo rimandano ancorandosi alle piccole cose che li fanno sentire importanti come il lavoro, i propri interessi, lo studio, un ruolo eventualmente “importante” nella società umana, il denaro che accumulano e che mai utilizzano a favore degli altri. Tuttavia aderire a una religione, per quanto forse appagante, non risolve la loro condizione, ma sapere che Dio può salvare e l’entrare nel Suo progetto, rivelato attraverso i secoli e le dispensazioni, certamente sì. Maria, per esempio, avrebbe potuto rispondere a Gabriele che preferiva continuare la sua vita semplice di sempre seguendo il progetto che certamente come tutti aveva per sé, ma scelse il ruolo di madre (del corpo) di Gesù: amore materno, comune a quello di tante altre donne per il periodo dell’infanzia, riflessione profonda e pressoché continua durante il Suo ministero pubblico, di profonda sofferenza alla croce e infine premio con la vita eterna.

C’è poi la sintesi “Santo è il suo nome e la sua misericordia si estende per generazioni e generazioni per coloro che lo temono”, che parte dall’essenza di Dio (la santità) e circoscrive la Sua misericordia a quanti lo temono, cioè chi ha ben presente l’impegno visto nell’imperativo “Siate santi, perché io sono santo” (Levitico 11.45). Per il cristiano questo significa meditare e mettere in pratica le parole dell’apostolo Pietro: “Come figli ubbidienti, non conformatevi alle concupiscenze del tempo passato, quando eravate nell’ignoranza, ma come colui che vi ha chiamati è santo, voi tutti siate santi in tutta la vostra condotta. Poiché sta scritto «Siate santi, perché io sono santo»” (1 Pietro 1.14-16).

Parlando della misericordia di Dio che “si estende per generazioni e generazioni per coloro che lo temono”, Maria fa riferimento alla protezione e al riguardo che Lui ha avuto nel corso del tempo che ha caratterizzato le 42 generazioni da Abrahamo fino a Cristo (Matteo 1.17).

Egli ha operato potentemente con il suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore, ha rovesciato i potenti dai loro troni ed ha innalzato gli umili. Ha ricolmato di beni gli affamati e ha rimandato i ricchi a mani vuote”: questo è un riconoscimento del lavoro di Dio nella storia da lei conosciuta: la “potenza del braccio” è un termine che si riferisce agli avvenimenti di cui fu testimone Mosè e tutto il popolo di Israele in Egitto, alla distruzione dell’esercito di quel Paese sulle rive del mar Rosso, così come la frase relativa al “rovesciamento dei potenti e all’innalzamento degli umili” può lasciar pensare alle vicende non solo dello stesso Mosè, ma anche degli altri uomini come Davide, Giuseppe figlio di Giacobbe, Daniele e lei stessa.

La dispersione dei superbi “nei pensieri del loro cuore” è interessante sia per il verbo usato che per le estensioni possibili della parola “cuore”. Il verbo greco impiegato per “disperdere” ha riferimento allo sparpagliare il grano come atto di seminare, ma anche al vagliarlo, mentre il cuore non ci parla solo dell’organo considerato la sede dei sentimenti e degli affetti, ma soprattutto di ciò che abbiamo di più caro: “Dove sarà il tuo tesoro, qui sarò anche il tuo cuore” (Matteo 6.21) e “la bocca parla di ciò che sovrabbonda nel cuore” (Luca 6.45). C’è quindi una frantumazione che attende il superbo, cioè colui che è assolutamente convinto della propria superiorità sugli altri che tratta con arroganza e disprezzo. Chi è affetto da questa patologia vede solo se stesso e i suoi interessi, quindi pensa che il mondo e il suo prossimo debbano essere al suo servizio. C’è connessione tra l’essere superbi e l’essere ricchi perché chi è ricco, salvo eccezioni, fa affidamento sulle sue sostanze che usa a proprio piacimento per soddisfarsi e le considera – come effettivamente sono per la nostra società umana – le basi su cui costruire la propria persona: la ricchezza è fondamentalmente un metodo di azioni, di sussistere; senza di essa il ricco non è nulla, tutte le sue aspettative fanno riferimento a lei. In lei e con lei si sente al sicuro e molto difficilmente attribuisce valore ad altro. “Ha rimandato i ricchi a mani vuote” implica la nullità del valore delle loro sostanze sotto la prospettiva dell’eternità: “Guai a voi, ricchi, perché già avete ricevuto la vostra consolazione” (Luca 6.24).

Maria conclude poi il proprio cantico in modo perfetto dichiarando apertamente, sotto la rivelazione dello Spirito Santo, che quello e non altri era il tempo in cui si stava per adempiere la promessa fatta “ad Abrahamo e a tutta la sua progenie per sempre”, ricordandosi delle parole che Gabriele le aveva detto in casa sua: “…e regnerà sulla casa di Giacobbe nei secoli e non ci sarà fine nel suo regno” (v.33).

A questo punto Luca annota “E Maria rimase con Elisabetta circa tre mesi, poi se ne tornò a casa sua”. Ecco, questo particolare è interessante: Maria rimane con Elisabetta, suppongo, fino a poco tempo prima che sua cugina partorisse se non addirittura fino alla nascita di Giovanni Battista (ma Luca non lo dice), cioè fino a quando la gravidanza di Maria, circa al terzo mese, stava per essere fisicamente visibile. Nulla sappiamo su come abbia trascorso questo tempo. Si può supporre che molti siano stati i dialoghi su quanto avvenuto tra lei e la cugina che era andata a trovare proprio per avere delle risposte o conferme, non senza che Zaccaria intervenisse a gesti o scrivendo su una tavoletta. E purtroppo non abbiamo, come per Beethoven, i “Konversationshefte” con gli amici che usava quando era ormai quasi completamente sordo. Mi riesce difficile pensare che la madre di Gesù si sia allontanata proprio pochi giorni prima che la cugina partorisse, senza attendere con lei quell’evento così importante. Lascio la questione aperta; certo è che tornandosene a casa sua a Nazareth Maria sapeva che avrebbe dovuto annunciare la propria gravidanza a Giuseppe, suo futuro marito. Poteva fare questo solo affidandosi alle promesse di Dio: “Non temere”. Non era un’esortazione umana come molti fanno al loro prossimo, solitamente affidandosi genericamente a un futuro che non conosono nella speranza di sollevare un animo turbato o timoroso di qualcosa: nel nostro caso e in tutti gli altri che troviamo nella Bibbia, il “Non temere” – o il “Non temiate” – proviene direttamente da Dio, presente e Signore della vita dell’uomo. Di raccontare quanto avverrà tra Maria e Giuseppe due sarà l’apostolo ed evangelista Matteo.

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01.05 – LA VISITAZIONE (Luca 1-39-45)

01.05 – La visitazione (Luca 1. 39-45)

 

39In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda. 40Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta. 41Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo 42ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! 43A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? 44Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. 45E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto».”.

 

            Luca, medico siriano e unico autore non ebreo degli scritti del Nuovo Patto, ci dà tratti interessanti sul carattere di Maria avvalendosi di piccoli particolari come quelli citati nel verso 39, “in quei giorni” e “in tutta fretta”. Nelle scorse riflessioni abbiamo visto che questa giovane non si spaventò quando vide l’Angelo, ma fu turbata dal suo saluto inusuale “Rallegrati, o favorita dalla grazia, il Signore è con te” (v. 28) “chiedendosi che senso avesse un saluto come questo” (v. 29). Gabriele la lasciò quando lei disse “Ecco la serva del Signore, avvenga per me secondo la tua parola”: non fu una frase da poco, perché Maria sapeva benissimo che, dichiarandosi “serva” del Signore e accettando il ruolo che le era stato proposto, avrebbe potuto morire per lapidazione come adultera qualora Giuseppe suo futuro marito l’avesse denunciata al tribunale rabbinico. Luca non dice che Maria che andò dalla cugina Elisabetta il giorno dopo, ma “in quei giorni”, cioè dopo aver pensato e ripensato a quanto le era stato detto; penso all’accenno a quel “trono di Davide” che sarebbe stato dato al figlio, “santo” e “chiamato Figlio di Dio”. Si trattava di definizioni e posizioni che non riusciva a capire e che la preoccupavano a tal punto che quell’ “andò in fretta”, rivelatore del suo stato d’animo, viene anche tradotto “assai pensierosamente”. Viaggiare da sola era cosa disdicevole per una donna nubile o fidanzata ed è molto probabile che Maria si recò da Elisabetta dietro consenso di Giuseppe al quale non parlò dell’annuncio dell’angelo.

Il viaggio di Maria non fu facile e dovette durare dai tre ai quattro giorni ed è giustificabile, a mio parere, solo con la sua volontà di capire concretamente il messaggio ricevuto ed Elisabetta era l’unico riferimento che aveva avuto da Gabriele. Era una caratteristica della futura madre di Gesù il memorizzare quanto le accadeva o non capiva per poi riesaminarlo una volta avuti più elementi: è un esempio anche per noi. Molte volte troviamo scritto che “Maria custodiva tutte queste cose nel suo cuore” e, recandosi da Elisabetta sua parente, sperava di avere dei ragguagli in più: aveva ricevuto anche lei un annuncio angelico? E se sì, cosa le era stato detto? Chi era la creatura che attendeva? In ogni caso era sua cugina l’unica persona con la quale potersi confrontare: cosa avrebbe potuto dirle, ad esempio, un dottore della Legge o un rabbi, o lo stesso Giuseppe? Il messaggio dell’Angelo era stato rivolto a lei e il suo promesso sposo aveva una parte limitata in quel Piano che le era stato annunciato: avrebbe fatto da padre al figlio che portava senza avere parte alcuna al concepimento. Esiste una profonda differenza tra Zaccaria e Giuseppe perché mentre il primo ebbe per figlio naturale un profeta, il secondo accettò il ruolo più di marito di Maria che di padre. Ricordiamo le parole dell’angelo: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati. (…) Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa; senza che egli la conoscesse, ella diede alla luce un figlio ed egli lo chiamò Gesù” (Matteo 1. 20-25). Sono versi sui quali torneremo, ma la traduzione corretta dell’ultimo verso è “…e non la conobbe fino a quando partorì un figlio e chiamò il suo nome Gesù” (letterale) ed alcuni manoscritti arrivano a specificare “il suo figlio primogenito”.

Torniamo al nostro episodio: Maria entra in casa di Elisabetta; non esisteva un servizio postale che potesse essere usato per annunciare questa visita. Leggiamo che “appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il fanciullino le sussultò nel grembo”: non si trattava dei tanti movimenti che ogni madre conosce, fatti dal feto nell’utero che vengono descritti con l’espressione “tira i calci”, ma piuttosto di una manifestazione anomala che stupì Elisabetta a un punto tale che, prima ancora di chiedersi cosa stesse avvenendo, “fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce…”.

Pensiamo: stava avvenendo l’incontro tra le due madri dal ruolo più particolare nella storia della salvezza, quella del precursore del Messia e del Messia stesso; il sussulto che ebbe il futuro Giovanni Battista all’udire il saluto di Maria era già di per se stesso un segno. Teniamo presente le parole di Gabriele a Zaccaria, “sarà colmato di Spirito Santo fin dal seno di sua madre” (v.16): ciò non significava che il nascituro avrebbe avuto chissà quali poteri, ma sta ad indicare tutta l’attenzione che Dio avrebbe avuto nel separare ciò che di esclusivamente umano si stava formando da ciò che era invece santo, spirituale, salvifico in vista dell’opera che Giovanni avrebbe dovuto svolgere. È da questo principio che ebbe origine quel “sussulto” che mai prima di allora si era verificato. Certo Zaccaria era muto e sordo, ma questo non gli impediva di comunicare soprattutto a sua moglie che era stata informata, tramite la scrittura su coccio cerato o tavoletta di altro materiale, di tutto quanto riguardava lei e il figlio che portava.

Elisabetta parla con tono inusuale, “a gran voce”, a significare l’entusiasmo e la gioia spirituale che la pervasero e le impedirono di rispondere al saluto di rito “La pace sia con te”. Il parlare “con gran voce” ha connessione con le parole di Salmo 66.1 “Mandate grida di gioia a Dio, voi tutti abitanti della terra” e con Isaia 40.9 “Alza la voce, non temere, di’ alle città di Giuda «Ecco il vostro Dio”. Parlare con una forte intensità è una delle caratteristiche della gioia per cui, al di là dei contenuti espressi, è un particolare che dice molto sullo stato interiore della madre di Giovanni.

Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo” sono parole che nessuna donna avrebbe mai proferito ad un’altra, anche perché lo stato di Maria non poteva essere noto ad alcuno, forse neppure a lei stessa visto l’esiguo tempo trascorso tra l’annuncio angelico e l’inizio del suo viaggio verso Jutta, paese in cui pare abitassero i genitori di Giovanni Battista. Maria sapeva che un giorno si sarebbe ritrovata gravida, ma non quando. La voce greca “eulogheméne” ha un doppio significato, cioè “benedetta dall’alto” e “lodata fra tutte le donne” e inoltre, se facciamo riferimento all’ebraico, è la stessa espressione che troviamo nel cantico di Debora e Barak che recita “Benedetta sia tra le donne Jael, moglie di Heber, il Keneo! Sia benedetta fra le donne che abitano nelle tende” (Giudici 5.24). Ecco, qui abbiamo un riferimento – parlando di Maria – tanto all’elezione di Dio quanto alla risposta che diede al Suo Messaggero: si pose davanti a Lui come sua “serva”.

Istintivamente saremmo tentati di considerare quel “benedetto sia il frutto del tuo ventre” come un augurio, ma sbaglieremmo: piuttosto questa frase allude a una realtà che ricorda le parole di Dio ad Abrahamo dall’angelo dopo la prova del sacrificio di Isacco: “Tutte le nazioni della terra saranno benedette nella tua discendenza, perché hai ubbidito alla mia voce” (Genesi 22.18): Maria era quindi non “uno”, ma “lo” strumento nelle mani di Dio in cui, con le sue poche e semplici forze come altri prima di lei, aveva creduto.

Elisabetta chiede “A cosa devo che la madre del mio Signore venga a me?”: sono parole che per la futura madre di Gesù dovettero avere un significato molto importante perché, dopo di queste, avremo il Magnificat. Elisabetta, tramite lo Spirito Santo, le conferma il ruolo fondamentale che avrebbe avuto, “la madre del mio Signore”, altra espressione che nessuna donna avrebbe mai usato nei confronti del figlio di una sua simile. Si può dire quindi che, con quelle parole, ci fu una profezia di lode per quel “Signore” che già Elisabetta sapeva esistere. Quel “mio signore” è molto indicativo e sta a sottolineare, come in tutti gli altri casi in cui fu usato – mi viene in mente Maria Maddalena e lo stesso Tommaso – un rapporto personale e al tempo stesso collettivo: Gesù è il Signore di ciascuno di noi, “mio” per l’unicità con cui mi parla, e di tutti coloro che hanno creduto, credono e crederanno in Lui. “Mio” e loro perché di certo le Sue parole vengono rivolte a me soltanto, ma a ciascuno secondo la Sua grazia e al modo col quale ciascun cristiano si pone di fronte a Lui. Solo nel momento il Signore è “mio” mi parla, e lo stesso fa con chiunque lo riconosce come tale. Salva e ama ciascuno individualmente.

Segue poi la prima beatitudine espressa nei Vangeli, “Beata è colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto” (v.45), che in un’altra traduzione leggiamo “…perché le cose dettele da parte del Signore avranno compimento”: le promesse di Dio infatti si possono dividere in due blocchi, quelle che necessitano del benestare dell’essere umano al quale vengono rivolte e quelle che si adempiono indipendentemente dalla sua volontà; pensiamo alla salvezza, possibile solo se la persona l’accetta credendo nel Figlio, e alle scadenze viste nel giudizio, nei grandi e terribili eventi che attendono l’umanità nel tempo della fine. Ebbene, Maria aveva creduto nell’annuncio dell’angelo Gabriele nonostante la sua titubanza e i suoi interrogativi sapendo che, come “favorita dalla Grazia”, sarebbe stata anche protetta da essa. Ricordiamo ancora cosa rispose: “Ecco la serva del Signore – giunge addirittura a parlare in terza persona – accada a me secondo la tua parola”. In tal modo Maria riconobbe tanto il messaggero quanto chi l’aveva inviato, la sua fu un’adesione piena e incondizionata e le parole della cugina bastarono a toglierle quel timore umanamente comprensibile che l’aveva spinta a compiere quel viaggio.

Se Elisabetta, spinta dallo Spirito Santo, pronunciò quelle parole, Maria aprì il suo cuore in un cantico conosciuto come il “magnificat” che esamineremo nella prossima riflessione.

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