5.2 – Il sermone sul monte : le beatitudini 1 (Matteo 5.3-10)
“3«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. 4Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. 5Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. 6Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. 7Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. 8Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. 9Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. 10Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli”.
BEATI I POVERI IN SPIRITO
“Poveri in spirito” o “di spirito” sono le traduzioni dall’originale “per lo spirito” ed è opinione di alcuni che la precisazione sul tipo di povertà sia stato un inserimento nel testo greco fatta da un ignoto traduttore dall’aramaico per rendere più compiuto e distinguibile il senso delle parole di Gesù. Va detto però che orientarsi sulle origini del testo di Matteo non è facile: opinione diffusa è che sia stato scritto in aramaico e poi tradotto, basandosi sulle parole di Papia vescovo di Ierapoli nel 130 che scrisse “Matteo raccolse quindi i detti nella lingua degli ebrei, traducendoli ognuno come poteva”. In base agli studi che si intraprendono e quali testi si consultano le opinioni in proposito sono differenti anche sulla data e su chi materialmente abbia compilato il suo Vangelo. Fatto sta che Luca scrive “Beati i poveri” senza specificare altro, ma se prendessimo questa a condizione a senso unico rischieremmo di rendere l’essere poveri materialmente la sola condizione possibile per poter realizzare questa beatitudine. La precisazione che troviamo in Matteo è quindi fondamentale per la tipologia delle persone cui si riferisce.
Parlando di povertà in senso letterale, oggi è suddivisa in assoluta e relativa: la prima è riferita all’estrema difficoltà della sopravvivenza, vale a dire che la vita di chi versa in tale condizione è tale da metterlo in pericolo: non ha da mangiare, non è in grado di provvedere al proprio vestiario, non ha un alloggio, non ha dove lavarsi. Questo stato esclude il poter fruire di beni e/o servizi essenziali per la sopravvivenza. La povertà relativa è invece un parametro che esprime le difficoltà economiche nelle fruizione di beni e servizi in rapporto al livello economico medio di vita dell’ambiente o della nazione.
Soffermiamoci brevemente su questa condizione: chi è povero, assoluto o relativo, sa di esserlo, conosce le difficoltà che incontra e molto spesso ne è angosciato, soprattutto se si ritrova così dopo non aver conosciuto questo tipo di preoccupazioni, quindi aveva una vita tranquilla, normale o agiata e il caso dei molti imprenditori che si sono suicidati in Italia lo conferma. La mancanza di denaro per soddisfare le esigenze elementari o a che fanno da contorno all’esistenza è vissuta da molti come un fallimento e un’umiliazione anche di fronte a se stessi.
La condizione di povertà spirituale, invece, è molto più subdola da ammettere perché si riferisce all’interiorità dell’essere umano. C’è un senso di vuoto, connesso alla “carne” che si cerca di riempire in tutti i modi andando a sopperire i deficit interni e la religione, intesa come pratica che lo riempia, può aiutare a tal punto da essere definita come “l’oppio dei popoli”. Così accade che, praticandola anche nel cristianesimo, l’uomo si senta appagato e perciò si ritenga ricco esattamente come l’angelo (e i componenti) della Chiesa di Laodicea che dice “Io sono ricco, mi sono arricchito e non ho bisogno di nulla” (Apocalisse 3.17).
Il povero materiale è distinguibile e soprattutto sa di esserlo ma il povero in spirito, se non è onesto con se stesso, può mascherarsi, è disposto inconsapevolmente a tutto pur di sentirsi ricco davanti a sé e poi pur di apparirlo di fronte agli altri. Chi è “ricco in spirito” lo è perché così si è voluto definire, ha cercato quest’autodeterminazione e gli esempi nella scrittura sono tanti, primo fra tutti quel fariseo che pregava nel Tempio, ringraziando Dio di non essere come gli altri uomini perché digiunava due volte alla settimana e pagava le decime su quanto possedeva. Il cosiddetto “ricco in spirito” non ha bisogno di nulla, basta a se stesso, è convinto di essere sano e da qui le parole di Nostro Signore “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati”. Il fariseo che abbiamo citato pregava in piedi, il pubblicano stava “a distanza”, in solitudine, è scritto che “non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo”, cioè verso quel luogo da lui incommensurabilmente così distante.
Ecco, qui abbiamo in modo perfettamente reale due atteggiamenti: uno è “ricco”, l’altro è “povero”. Uno ha rimediato coi suoi mezzi alla propria povertà, diventandolo così ancora di più, l’altro ne è conscio e sa di avere nella preghiera di perdono l’unico rimedio a disposizione: “O Dio, sii placato verso di me, peccatore”. Ecco allora che solo chi sa di essere povero di spirito, cioè di non avere mezzi per la sua sopravvivenza spirituale, è beato: dipende da Dio in tutto e per tutto, ammette di avere dentro di sé quella fame che non può soddisfarsi in altro modo se non accettandoLo accogliendoLo dentro di lui.
Il sapere nel profondo di essere dei “Poveri in spirito”, cioè il riconoscersi tali perché si sa o si è sperimentato che le alternative e gli atteggiamenti che la vita può offrire non sono sufficienti né possono garantire stabilità, è il primo passo per il “Regno dei cieli” perché questi poveri lo cercheranno e lo troveranno. Al “ricco in spirito” interessa star bene godendo delle cose effimere che ha a disposizione, al “povero” non interessa la sopravvivenza apparente, qualcosa di generico in cui credere, una ricchezza secondo il mondo o una stabilità incerta, ma sarà attento a come porre rimedio alla sua condizione: non cercherà la compagnia delle persone per sentirsi meno solo, non aderirà a correnti politiche o filosofiche perché dovrà dimostrare a se stesso e agli altri di avere bisogno di qualcosa o di qualcuno a cui credere. Se mai, questi saranno dei passaggi per sperimentare, ma non trovando ciò che realmente cerca, finirà per arrivare a Gesù Cristo perché la sua povertà cessi definitivamente.
Il vero cristiano quindi porta in sé questo dualismo, quello della povertà assoluta quando porta avanti sé stesso, quello della ricchezza quando vive in compagnia di Dio, amandolo. Una ricchezza che non possiede. La parabola dell’uomo ricco di Luca 12.16,21 ci presenta un possidente che aveva avuto un raccolto ottimale dalla sua campagna e progettava una vita esente da preoccupazioni, ma si sentì dire “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?” Notiamo il commento di Gesù: “Così è di chi accumula tesori per sé, e non arricchisce davanti a Dio”.
C’è quindi un cammino da fare, e il riconoscersi poveri nel profondo è la condizione indispensabile per arricchire dentro, come abbiamo letto, “davanti – o “in” a seconda della traduzione – a Dio”; sono due mondi diversi, opposti, per la vita che conta, quella eterna. Chi crede, nel vero senso della parola, non lo fa perché ha bisogno di una religione, ma per diventare e conoscere cose che sa essere irraggiungibile senza una grazia, una rivelazione. Cercherà le promesse per lui e sperimenterà su di sé la loro realizzazione, altrimenti la propria vita non avrebbe scopo. Ricordiamo le parole di Pietro “Signore, a chi ce ne andremmo noi? Tu solo hai parole di vita eterna”: quest’uomo aveva sperimentato la quotidianità della vita, aveva un lavoro, una moglie. Aveva ascoltato da chissà quanto tempo i rabbini nelle sinagoghe e poi Giovanni Battista che preparava il popolo alla venuta di Gesù, ma nessuna di queste cose lo aveva mai arricchito, placato la sua sete interiore, quella di spirito. Pietro sapeva che le uniche parole da ascoltare, per la prospettiva futura che gli venivano garantite, erano quelle di Colui che un giorno lo aveva chiamato con gli altri discepoli e poi lo aveva reso apostolo.
La beatitudine dei poveri in spirito è quindi la descrizione di una condizione base per essere accolti dal Padre ed equivale al senso di sete spirituale che alcuni avvertivano quando Gesù, alzandosi in piedi, gridò “Se qualcuno ha sete, venga a me e beva” (Giovanni 7.37). Non era venuto per vendere qualcosa, ma per dare gratuitamente e invitò gli apostoli a fare altrettanto con il suo “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”. Tutta la Scrittura, Antico e Nuovo patto, sono piene di passi che attestano sia l’attenzione che Dio dà ai poveri, anche quelli materiali, tenuti a cercarlo secondo Isaia 55,6,7 “mentre si trova”, a invocarlo “mentre è vicino”. Ricordiamo l’invito “venite e comprate senza denari e senza prezzo” perché la Grazia non può essere comprata avendo un valore inestimabile.
E possiamo citare anche parole di Isaia 1.18 “Su, venite e discutiamo insieme, dice il Signore. Anche se i vostri peccati fossero come lo scarlatto, diventeranno bianchi più che neve”. In questo passo rileviamo che è Dio a invitare l’uomo addirittura ponendosi sul loro stesso piano, non certo quello del peccato, ma dello Spirito che è nell’uomo, quel “soffio vitale” che inalò nelle narici di Adamo. Qui c’è un incontro tra il Santo e la creatura che certo così non è, anzi è invitata nel verso 16 a lavarsi, purificarsi, ad allontanare dai Suoi occhi il male delle loro azioni. Dio invita l’uomo a discutere assieme dando la Sua piena disponibilità al perdono con un intervento che nessun essere terreno sarebbe stato mai in grado di compiere, smacchiare lo scarlatto, cioè un rosso intenso e brillante, a tal punto da farlo diventare più bianco della neve. È l’impossibile che appartiene al Padre, alla trinità, a quel plurale che un giorno disse “Facciamo l’uomo”.
Dio, soprattutto nel tempo in cui la Grazia è aperta non convoca imperiosamente, ma invita a discutere con lui. Dichiara la propria benevolenza, ma non costringe a subirla. E, riferendoci a questi versi, non tutti cessarono di fare il male e non tutti andarono a Lui, consapevoli del valore di quell’invito, a discutere assieme. Oggi il verbo “discutere” è usato per indicare una lite, uno scontro acceso in cui ogni parte difende strenuamente le proprie posizioni, ma ciò solo perché si è perso il senso reale del termine che, al contrario, implica il trattare, esaminare un tema confrontando opinioni diverse, dialogare alla ricerca di una soluzione.
“Beati i poveri in spirito” è allora un annuncio importante, una dichiarazione in base alla quale chi appartiene alla categoria dei poveri non è lasciato solo, ma può entrare a far parte di un piano che va oltre le sue aspettative. Infatti, “di loro è il Regno dei cieli”. “Di loro” e di nessun altro. Ecco perché questa beatitudine è al primo posto: esprime quello che potremmo definire un requisito base, quello di chi non ha nulla mentre gli altri pensano di avere chi molto, chi tutto. Il ricco sta bene in questo mondo a prescindere da quale sia la ricchezza su cui fonda la propria vita, il povero certamente soffre e non sa come porvi rimedio, è costantemente in bilico tra la realtà che vorrebbe cambiare e i mezzi che non ha. Ed è beato perché si trova nella sola condizione che gli può consentire l’accettazione di Cristo come proprio Salvatore e fornitore di quella cittadinanza eterna che il ricco certamente non può avere.
Le beatitudini che seguono (gli afflitti, i miti, quelli che hanno fame e sete di giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, gli operatori di giustizia e i perseguitati per – e non “da” – essa), sono tutte riferite alla conseguenza della povertà di spirito proprio alla luce di quanto abbiamo detto all’inizio: chi in questo mondo si trova a proprio agio, parla già di sé disprezzando chi appartiene a categorie diverse dalla sua perché già umanamente beato, possedendo non la “makaria”, ma l’”òlbia”, come abbiamo visto nel capitolo precedente.
Nostro Signore sappiamo che aveva da poco guarito tutti quelli che gli si erano presentati a lui: quei miracoli erano per tutti e per tutti erano quelle parole di vita perché non potevano esservi dei sordi tra loro – se c’erano, questo era prima di incontrarlo -, ma nel momento in cui iniziò a parlare disse “Beati i”, cioè “quanti tra voi si riconoscono nella mia descrizione”. Il resto del Vangelo, la “buona notizia” rivelata agli uomini, è proprio la ricchezza in Dio che il povero in spirito trova e che arriverà al culmine con il possesso di quel “Regno dei cieli”, o “Regno di Dio” concepito fin dalla creazione dell’universo. Possiamo concludere con le parole dell’apostolo Paolo in Efesi 1.3 “Benedetto sia Dio, Padre del Signor nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti di ogni benedizione spirituale nei luoghi celesti in Cristo”.
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