05.52 – LA CASA SULLA ROCCIA (Matteo 7.24-28)

05.52 – La casa sulla roccia (Matteo 7.24-28)

4Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, sarà simile a un uomo saggio, che ha costruito la sua casa sulla roccia. 25Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ma essa non cadde, perché era fondata sulla roccia. 26Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, sarà simile a un uomo stolto, che ha costruito la sua casa sulla sabbia. 27Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa cadde e la sua rovina fu grande». 28Quando Gesù ebbe terminato questi discorsi, le folle erano stupite del suo insegnamento: 29egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come i loro scribi.”.

Con questa parabola si conclude la redazione di Matteo sul discorso della montagna. Sono le ultime parole di Gesù alla folla con cui conclude la serie di insegnamenti che abbiamo visto finora per quanto rimanga da analizzare la versione di Luca che presenta particolari molto interessanti. Nostro Signore, con “chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica”, si riferisce quindi a tutto quello che ha detto nel suo discorso, fatto con un’autorità diversa da quella dei molti predicatori che i presenti avevano già ascoltato (v.29).

Matteo e Luca così si integrano perfettamente tra loro, riportando le realtà meteorologiche dei territori dai quali provenivano; scrive Luca (6.47-50 “Chiunque viene a me e ascolta le mie parole e le mette in pratica, vi mostrerò a chi è simile: è simile a un uomo che, costruendo una casa, ha scavato molto profondo e ha posto le fondamenta sulla roccia. Venuta la piena, il fiume investì quella casa, ma non riuscì a smuoverla perché era costruita bene. Chi invece ascolta, ma non mette in pratica, è simile a un uomo che ha costruito una casa sulla terra, senza fondamenta. Il fiume la investì e subito crollò; e la distruzione di quella casa fu grande” (Luca 6.47-50). Matteo conosce le piogge invernali in Palestina che formano improvvise correnti di acqua erodendo anche i fianchi delle colline. Il suolo viene spazzato via e con lui case che non sono state costruite sul terreno solido. Luca, invece, conosce di più la tecnica di costruzione greca negli stessi territori, che si realizzava con scavi profondi prima di passare alla realizzazione degli edifici.

Ancora una volta Gesù parla ai suoi uditori usando un termine che conoscevano molto bene, la “roccia”, che al di là di essere eloquente per la parabola, ha riferimento a Deuteronomio 32.4: “Egli è la roccia: perfette le sue opere, giustizia tutte le sue vie; è un Dio fedele e senza malizia, Egli è giusto e retto”. Lo stesso termine lo troviamo nelle parole pronunciate da Davide quando fu liberato da Saul e dai suoi nemici in 2 Samuele 22.2,3. In questo passo rileviamo, oltre alla “roccia”, altre caratteristiche che Davide aveva avuto modo di riconoscere in Dio: “Signore, mia roccia, mia fortezza, mio liberatore, mio Dio, mia rupe in cui mi rifugio; mio scudo, mia potente salvezza e mio baluardo, mio nascondiglio che mi salva”. Da notare il fatto che la vittoria riportata è attribuita all’assistenza che YHWH gli aveva accordato e non al suo eroismo e invincibilità, come troveremmo in un poema profano di un altro popolo. Davide è un servitore, altri ne avrebbero fatto un superuomo, un eroe.

Quindi, per gli uditori di Gesù, fu subito chiaro che costruire “la casa sulla roccia” chiamava direttamente in causa il Creatore, Colui che veniva definito “Il Santo, che benedetto sia”. Matteo parla di “casa” e di “roccia”: ebreo, scrive per gli ebrei a cui bastano i due termini per capire molto di più rispetto ai lettori di Luca, che sceglie di scrivere indipendentemente dalla nazione di appartenenza dei suoi lettori.

Dobbiamo però andare alla base di tutto il discorso, e cioè la casa, che non è qualcosa che si sceglie di costruire, ma che si edifica inevitabilmente: “casa” come luogo in cui abitare, vivere, “casa” come figura di noi stessi, della nostra persona e quindi anima. Ricordiamo l’esempio, sempre fornito da Nostro Signore, sul demonio scacciato senza che la persona da lui abitata abbia provveduto a ravvedersi: “Quando lo spirito immondo esce dall’uomo, si aggira per luoghi aridi in cerca di riposo e, non trovandone, dice «Ritornerò nella mia casa da cui sono uscito». Venuto, la trova spazzata e adorna. Allora va, prende con sé altri sette spiriti peggiori di lui ed essi entrano e vi alloggiano e la condizione finale di quell’uomo diventa peggiore della prima” (Luca 11.24,25).

Ecco allora che Gesù, parlando di “casa”, intende la costruzione del nostro essere, della nostra persona(lità), di tutta la struttura che comprende anima e spirito, che può essere diversa, una volta incontratolo, da quella che avevamo prima. C’è chi, dopo questo incontro, la lascia invariata, chi la rinforza e chi addirittura ne costruisce un’altra ex novo tale sarebbe il dispendio di energie per ristrutturarla. E così ricomincia da capo, dopo aver fatto tabula rasa sulle nostre aspettative, relazioni sociali, interessi.

Riflettiamo un attimo sulla condizione in cui versa l’uomo naturale: dominato dalla carne, incapace di pensieri davvero spirituali, imposta la propria vita sulla base delle necessità che persegue, solitamente, con fermezza e volontà. Se però quest’uomo incontra a un certo punto della sua vita Gesù Cristo e ascolta, tramite la lettura del Vangelo o l’esposizione di una persona preparata e di esperienza, il Suo messaggio, scopre, attraverso i versi di Matteo e Luca che abbiamo letto, che le esigenze di Dio sono altre e che tutto quanto ha fatto finora è completamente inutile per la sua realizzazione di persona spirituale, non gli garantisce alcuna possibilità di sopravvivenza una volta abbandonata la vita che conosce. Scopre finalmente di essere incompatibile con Lui ed è costretto a cambiare, abbandonare, se non tutto, gran parte di ciò che possedeva, che gli apparteneva come essere unicamente carnale. E qui parlo del mondo interiore.

La “casa”, allora, va ricostruita o rivista radicalmente e qui si compie il miracolo in quell’uomo “saggio”: sceglie di costruire non più dove capita ma, trovata la roccia, edifica su di lei – specifica Luca – scavando “molto profondo”, cioè con fatica, ma anche col desiderio di apprendere ciò che fino ad allora gli era ignoto. Nella Scrittura infatti il termine “profondità” è sempre usato per indicare ciò che non può essere conosciuto, raggiunto dall’uomo carnale. Ricordiamo Paolo in Romani 11.33 “O profondità della ricchezza, della sapienza e della conoscenza di Dio! Quanto insondabili sono i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!”. Ricordiamo la benedizione – beatitudine espressa in Efesi 3.18: “…perché siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e di conoscere l’amore di Cristo che supera ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio”.

Ancora, nello scavo in profondità dobbiamo individuare la verifica puntuale, anche sulla nostra persona perché tutto parte da lì in quanto il peggior nemico lo troviamo proprio in noi stessi, nella nostra carne che vuole prevalere sempre sullo spirito. Ricordo le parole, più volte citate in queste riflessioni, che Dio disse a Caino sul peccato accovacciato alla porta e la necessità di dominarlo. A fine giornata, dovremmo sempre fare un inventario delle nostre azioni e scelte per verificare dove abbiamo sbagliato e farne tesoro per correggerle in futuro. Abbiamo gestito correttamente il rapporto col nostro prossimo? Quanto abbiamo dato del nostro tempo al Signore e abbiamo cercato la comunione con Lui? Abbiamo portato avanti Lui o noi stessi? Quanto ha pesato il nostro egoismo sulle nostre azioni? Lo abbiamo cercato? Il mattone, o la pietra che abbiamo posto per la nostra costruzione, è stato spirituale? Abbiamo difeso la sostanza, o l’apparenza? Dove siamo stati deboli e dove forti? Cosa abbiamo dato di noi?

Chi quindi costruisce saggiamente, sceglie la roccia come punto per ancorarvi le fondamenta e poi scava consapevole della loro importanza, perché senza di loro qualsiasi opera edile importante è impossibile. Le fondamenta hanno il compito di assorbire i carichi delle strutture in elevazione, trasmettere i carichi da loro al terreno e ancorare l’edificio al suolo: va da sé che una procedura costruttiva che rispetti questi criteri è destinata a durare nel tempo e a resistere alle forze ostili. Ricordiamo una frase dell’apostolo Paolo ai credenti di Corinto: “Nessuno può porre altro fondamento che quello già posto, cioè Cristo Gesù” (1 Corinti 3.11). Inevitabilmente si parte da lì, se si vuole che la nostra costruzione regga. E va da sé che, se uno edifica su Cristo come roccia e fondamento, non userà fieno o paglia per materiale.

A questo punto Luca parla di una piena che arriva, ma non riesce a smuovere la casa, Matteo di pioggia, fiumi e venti che si abbatterono su di lei: molti tendono a vedere in questi elementi le avversità della vita ma personalmente, pur condividendo l’interpretazione, aggiungerei l’ultima prova che il cristiano si troverà ad affrontare, cioè la verifica che Dio farà sul suo operato. Ricordiamo che la casa costruita rappresenta di tutto il nostro essere: nelle fondamenta vedo quello in cui crediamo, i nostri valori; nella sua struttura ciò che abbiamo realizzato, i nostri progetti, le nostre azioni e la testimonianza che avremo reso, più che a parole, con i fatti che poi, alla fine, saranno i soli a parlare per noi. Così come leggiamo che “il fuoco farà la prova delle opere di ciascuno”, qui abbiamo la forza dell’acqua e dei venti che si abbatte sulla casa senza riuscire a smuoverla.

Le stesse forze si riversano sulla costruzione dell’uomo stolto, che ha edificato sulla sabbia (Matteo) o sulla terra senza fondamenta (Luca), ma con risultati diametralmente opposti. Da notare che entrambe sono case, apparentemente simili tra loro. Il nostro “bagaglio storico” è diverso, eppure ci accomuna. Il luogo in cui una persona dimora dice molto di lui, della sua personalità: all’interno pone ciò che lo interessa, la sua storia, i ricordi, si tende a realizzarla in un certo senso a nostra immagine. Può essere funzionale, essenziale, minimale, ordinata, disordinata, ma anche piena di soprammobili, alla moda, sfarzosa, studiata per impressionare chi vi entra, dare un’immagine. Una casa rivela noi stessi e i nostri scopi, la visione che abbiamo della vita.

Ebbene, la descrizione che dà Nostro Signore del destino delle due case è essenziale, privo di orpelli: “non riuscì a smuoverla” per la prima, “la sua rovina fu grande” per la seconda. Sono due dati di fatto, impossibile interpretarli diversamente. In un caso l’occupante continua a viverci dentro, nell’altro rimane senza un luogo, all’aperto, al freddo e non è più la casa ad essere esposta agli elementi naturali, ma lui stesso che tra l’altro non potrà incolpare nessuno della propria rovina. Si sarà fatto del male da solo. Tra l’altro, entrambi i proprietari occupano l’interno fino a un momento preciso, quello della prova finale rappresentata dagli elementi che si abbattono sulla loro dimora. Ed entrambi, fino a quel momento, si sentono al sicuro. Quando c’è un crollo, c’è sempre una ragione.

Chi ascolta le mie parole e le mette in pratica” è una frase che possiamo dire fu spiegata da Giacomo diversi anni dopo quando scrisse “Siate di quelli che mettono in pratica la parola, e non ascoltatori soltanto, illudendo voi stessi” (1.22): la stessa illusione di chi, costruendo sulla terra o sulla sabbia, era convinto di vivere tranquillo all’interno della propria dimora. L’illusione è quella condizione che ha caratterizzato la vita dell’uomo stolto ed è al tempo stesso il pericolo più grande in cui l’uomo può incappare; ricordiamo che Satana illuse Eva che, prendendo il frutto, sarebbe diventata come Dio ed in cambio ottenne la morte e la fine della sua dignità di essere spirituale. Anche lì la sua rovina fu grande.

Ma per noi, che viviamo la dispensazione della Grazia e non della Coscienza, l’illusione maggiore è quella di pensare che Dio sia tanto buono che alla fine perdonerà tutti perché l’inferno si trova su questa terra: “Non sapete che gli ingiusti non erediteranno il regno di Dio?” (1 Corinti 6.9). A seguire, il verso prosegue con un elenco di persone nelle quali si individuano tutti coloro che avranno portato avanti esclusivamente loro stessi a danno di altri: immorali, idolatri, adùlteri, depravati, sodomiti, ladri, avari, ubriaconi, calunniatori, rapinatori.

Ecco perché, per evitare la “grande rovina”, Gesù invita i suoi uditori ad ascoltare e mettere in pratica le sue parole.

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05.51 – FALSI DISCEPOLI (Matteo 7.15-23)

05.51 – Falsi discepoli (Matteo 7.15,23)

 

15Guardatevi dai falsi profeti, che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci! 16Dai loro frutti li riconoscerete. Si raccoglie forse uva dagli spini, o fichi dai rovi? 17Così ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi; 18un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produrre frutti buoni. 19Ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco. 20Dai loro frutti dunque li riconoscerete.
21Non chiunque mi dice: «Signore, Signore», entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli. 22In quel giorno molti mi diranno: «Signore, Signore, non abbiamo forse profetato nel tuo nome? E nel tuo nome non abbiamo forse scacciato demòni? E nel tuo nome non abbiamo forse compiuto molti prodigi?». 23Ma allora io dichiarerò loro: «Non vi ho mai conosciuti. Allontanatevi da me, voi che operate l’iniquità!».
”.

 

Leggevo un commento a 2 Timoteo 2.17, che abbiamo citato la volta scorsa, a proposito di Imeneo e Fileto e sull’insegnamento del falso profeta paragonato, per come si diffonde, a una cancrena. Scrive William MacDonald: “Pensando a Imeneo, a Fileto e ai loro falsi insegnamenti, ancora una volta Paolo si rende conto che per la Chiesa sono in arrivo giorni bui. La chiesa locale ha raccolto degli increduli fra i suoi membri. La cristianità è una massa eterogenea e la confusione che ne risulta è devastante”. Credo che le parole dell’ultima frase siano molto adatte ai nostri tempi più che a quelli di allora anche se i “giorni complicati” sono iniziati proprio con la prima Chiesa e l’avvento delle prime eresie in cui, fondamentalmente, il metodo filosofico antropocentrico ha iniziato a confondersi con il messaggio cristiano puro (e semplice). Giuda al verso quarto della sua lettera scriveva “Si sono infiltrati in mezzo a voi alcuni individui, per i quali già da tempo sta scritta questa condanna, perché empi, che stravolgono la grazia del nostro Dio in dissolutezze e rinnegano il nostro unico padrone e signore Gesù Cristo”.

Personalmente nelle Chiese mi capita di vedere disinformazione e errore che originano da un non voler vedere la luce per appropriarsene sul serio. Si confonde l’invito di appartenere a Cristo per essere salvati con quello di far parte di una comunità a prescindere perché bisogna “stare insieme”, fare gruppo, possibilmente manifestando agli altri un modo di vivere particolare finendo per lasciare Gesù fuori dalla porta perché c’è altro da portare avanti. Allora si ricorre a manifestazioni esteriori, pubblicitarie, si propaganda il proprio gruppo facendo leva su di esso e non su Cristo, di cui comunque oggi tutti hanno sentito parlare, ma che ben pochi cercano. E la possibilità di cadere in errore sarebbe inevitabile se non ci fosse quest’informativa di Gesù: il falso profeta, se da un lato viene a noi in veste di pecora ma dentro è lupo rapace, dall’altro si riconosce dai suoi frutti che sono l’opposto di quelli portati da quello vero: “Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli” (Giovanni 15.8). Per collocare il profeta sotto la giusta ottica, poi, occorre distaccarsi dalla visione mondana che lo vede dichiarare ciò che avverrà in futuro, poiché il profeta nella Scrittura è colui che parla correttamente di Dio e, se gli viene ordinato o ha un’illuminazione, ne rivela i piani, le prospettive, l’essenza.

Esiste una differenza tra il significato del termine che troviamo in un dizionario (persona che, per ispirazione divina, predice il futuro o rivela fatti ignoti alla mente umana, o è dotata di capacità divinatorie) e quello originale greco composto dal prefisso “pro” (davanti, prima) e “femì” (parlare, dire); il profeta è quindi colui che, nell’esercizio delle sue funzioni, “parla davanti” a un’assemblea, una o più persone, e contemporaneamente a Dio portandone la responsabilità. Impossibile farlo correttamente senza lo Spirito. Essere dei profeti veri corrisponde al portare, come abbiamo letto, “molto frutto” e lo si può fare anche attraverso una condotta onesta e irreprensibile; essere dei profeti falsi significa agire per scopi non riferibili a quelli della parola di Dio.

Il falso profeta è un “lupo rapace” perché trasmette elementi dottrinali non corretti a chi non ha sufficienti riferimenti per orientare la propria vita spirituale e lo conduce in errore. A volte si tratta di contenuti che si infrangono palesemente con il buon senso del messaggio cristiano, altre volte sono subdoli e potrebbero apparire apparentemente logici, come quel miscuglio tra Legge e Grazia che alcuni giudei portavano avanti nelle prime Chiese costringendo i pagani a circoncidersi ritenendolo un adempimento che condizionasse la salvezza. E rimango negli scritti del Nuovo Patto per non allargare troppo il campo. Possiamo però ricordare Geremia 23.16 “Non ascoltate le parole dei profeti che profetizzano per voi; essi vi fanno vaneggiare, vi annunciano fantasie del loro cuore– impuro -, non quanto viene dalla bocca del Signore”.

Per i frutti, poi, possiamo andare alla lettera ai Galati in passi più volte ricordati quando l’apostolo Paolo sottolinea la differenza tra quelli della carne e quelli dello spirito (5.18-12). Le “opere” (quindi i frutti) della carne sono da Paolo individuati nella “fornicazione” (l’assenza di fedeltà che può essere verso la propria moglie o il proprio marito, ma anche il politeismo come pluralità di servitù), “impurità” (la presenza come scelta di elementi del mondo che si rimpiangono e praticano accanto a una condotta apparentemente cristiana), “dissolutezza” (eccessi provocati dalla libidine e dal vizio, che contempla non solo quello sessuale), “idolatria” (ammirazione, devozione o dedizione gelosa e fanatica), “stregonerie” (l’appoggiarsi a pratiche estranee alla preghiera e allo spirito), “inimicizie” (rancori portati verso gli altri perché osano porsi in contrasto al nostro volere della carne), “discordia” (diversità di intenti tale da alimentare rivalità o provocare frequenti contese), “gelosia” (sentimento tormentoso spesso patologico provocato dal timore, dal sospetto o dalla certezza di perdere qualcosa o una persona che amiamo per opera di altri), “dissensi” (porsi contro un’idea a prescindere portando avanti unicamente se stessi), “divisioni” (i cosiddetti “partiti” nelle Chiese in cui si creano gruppi che parteggiano per uno e ostacolano le iniziative dell’altro), “fazioni” (la formazione di gruppi in cui i membri sono coesi in acceso contrasto con altri gruppi), “invidie” (il non sopportare che l’altro prosperi o consegua dei risultati positivi, che poi è il sentimento di Caino), “ubriachezze” (il volersi saziare a tutti i costi con un surrogato dello Spirito, alternative portate avanti volendole legittimare a tutti i costi) “orge e cose del genere” (feste sfrenate a sfondo sessuale).

Dal verso 16 al 20 del nostro testo, Gesù paragona gli uomini ad alberi e, come sappiamo, propone ai suoi uditori un tema conosciuto: la volta scorsa abbiamo avuto l’esempio del giusto che “fiorirà come la palma” (Salmo 92) e, in opposizione, del “tamerisco nella steppa”. Il giusto che medita la Legge del Signore è poi paragonato a “…un albero piantato lungo corsi d’acqua, che dà frutto a suo tempo: le sue foglie non appassiscono e tutto quello che fa, riesce bene” (Salmo 1.3). Se quindi il falso profeta può mentire e irretire con discorsi pseudo-spirituali difficili da individuare, non può fare altrettanto coi suoi frutti. E abbiamo letto che “ogni albero che non dà buon frutto è tagliato e gettato nel fuoco”: è la fine della pula, della zizzania, del tralcio che non rimane attaccato alla vite, di quella terra che, irrigata, produce rovi e spine.

Il verso 19, sulla fine che fanno gli alberi che non danno frutti buoni, è usato da Gesù come “ponte” verso un’altra categoria di persone, quelle che frutto non ne portano nonostante siano a dimora nel terreno di Dio, come ci insegna la parabola del fico sterile in Luca 13.6-9: “Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: «Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Taglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?». Ma quello gli rispose: “«Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai»”.

E qui entriamo in un ambito purtroppo amaro e difficile, che Gesù ricorda molte volte in discorsi e parabole e che nel sermone sul monte annuncia per la prima volta: si può appartenere alla Chiesa nominalmente, per scopi personali, ci si può travestire, occupare indegnamente un posto. Quel “Signore, Signore” al verso 21, riferito probabilmente alla preghiera pubblica e a tutte le volte in cui il nome di Dio viene pronunciato dai falsi discepoli, denota un’assenza, un vuoto, una mancanza di partecipazione: “Non quelli che ascoltano la Legge sono giusti davanti a Dio, ma quelli che la mettono in pratica saranno giustificati” (Romani 2.13), frase da un discorso di Paolo sulla sensibilità dei cuori. In realtà, la “Legge” di cui parla l’apostolo è la Parola, come poi Giacomo avrà modo di precisare in 1.22,23: “Siate di quelli che mettono in pratica la Parola, e non ascoltatori soltanto, illudendo voi stessi; perché se uno ascolta la Parola e non la mette in pratica, costui somiglia a un uomo che guarda il proprio volto allo specchio: appena si è guardato, se ne va, e subito dimentica com’era. Chi invece fissa il suo sguardo sulla legge perfetta, la legge della libertà, e le resta fedele, non come ascoltatore smemorato ma come uno che la mette in pratica, questi troverà la sua felicità nel praticarla”.

Ecco, “fare la volontà del Padre” implica aderire a quel percorso che inizia dal credere “in Colui che mi ha mandato” e poi prosegue con una crescita proporzionale ai doni ricevuti, al posto nel “Corpo di Cristo che è la Chiesa” dove chi è grano rimane tale e non può essere zizzania, dove chi è albero può anche temporaneamente non portare frutto, ma lo darà opportunamente concimato dal perfetto operaio della vigna. “Vedremo se porterà frutti per l’avvenire, se no lo taglierai” sono parole che mettono l’accento, più sul tagliare, sull’amore e la pazienza di Dio che desidera un albero fruttifero e non legna da ardere di cui mi viene da pensare – se mi si passa il termine – ne abbia fin troppa. Notiamo poi che il frutto è qualcosa di tangibile e non può trovarsi nelle parole “Signore, Signore” che chiunque è in grado di pronunciare.

C’è poi un giorno, la cui data è nascosta a tutti ma che “solo il Padre conosce”, in cui tutti gli uomini incontreranno Cristo in salvezza o in giudizio: “molti mi diranno in quel giorno” parole tese a giustificarsi o a implorare che sia loro aperta la porta della Grazia che hanno rifiutato in vita. In questo caso, però, sono quelli che vogliono ricordare al Signore un operato preciso. Leggiamo che i falsi discepoli e profeti avranno parlato di Lui usando il suo nome, scacciato demòni e compiuto molti prodigi: si tratta di fenomeni del tutto involontari, come ad esempio avvenne per il Sommo Sacerdote Caiafa che, tra i principali fautori della morte provvisoria di Gesù, disse al Sinedrio “Voi non capite nulla! Non vi rendete conto che è conveniente per voi che un solo uomo muoia per il popolo, e non vada in rovina la nazione intera!”,parole che Giovanni annota così:“Questo però non lo disse da se stesso, ma, essendo sommo sacerdote quell’anno, profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione. E non soltanto per la nazione, ma per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi. Da quel giorno dunque decisero di ucciderlo” (Giovanni 11.49-53). Pensiamo anche a quelle manifestazioni miracolose che si verificano, e che abbiamo ricordato ultimamente, tese ad instaurare nella mente altrui false convinzioni religiose o, nel caso di specie, a quegli esorcisti itineranti in Atti 13, che però nulla poterono di fronte a un indemoniato più forte di loro.

Il cristiano deve sapere che ogni intervento soprannaturale di cui può essere testimone non è detto che venga inequivocabilmente da Dio e troppo spesso ci si dimentica che, se Satana si presentasse in tutta la sua potenza negativa, avrebbe ben pochi seguaci. Così, chi si traveste da pecora, troverà la sua condanna nell’ultimo verso del nostro passo: “Non vi ho mai conosciuto. Allontanatevi da me, voi che operate l’iniquità”.

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05.50 – I FALSI PROFETI (Matteo 7.15-20)

05.51 – Falsi profeti (Matteo 7.15-20)

 

15Guardatevi dai falsi profeti, che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci! 16Dai loro frutti li riconoscerete. Si raccoglie forse uva dagli spini, o fichi dai rovi? 17Così ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi; 18un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produrre frutti buoni. 19Ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco. 20Dai loro frutti dunque li riconoscerete.”.

 

Quando i servi del padrone di casa nella parabola della zizzania andarono ad avvisarlo del fatto che, nel campo di grano da lui seminato, erano apparse anche piantine diverse, questi rispose “Un nemico ha fatto questo” (Matteo 13.28). Non troviamo nelle parole di quell’uomo stupore, non uno scatto d’ira, ma soltanto un’affermazione che sembra a sostegno di un fatto inevitabile, conosciuto, previsto: “Un nemico ha fatto questo”. Il grano seminato era buono, ma una persona avversa, per minare il progetto del padrone di quel campo, aveva deciso di seminarvi un’erbacea destinata a far molto danno perché la zizzania si confonde facilmente con il grano e, soprattutto, produce una farina ad alto potere intossicante. Gesù spiegò poi ai discepoli la parabola con queste parole: “Colui che semina il buon seme è il Figlio dell’uomo. Il campo è il mondo. Il seme buono sono i figli del regno, la zizzania sono i figli del maligno e il nemico che l’ha seminata è il diavolo. La mietitura rappresenta la fine del mondo e i mietitori sono gli angeli. Come dunque si raccoglie la zizzania e si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo”.

Le parole dei versi che oggi esaminiamo credo coinvolgano anche questa parabola sotto il profilo dell’inevitabilità perché tutto quanto viene prodotto a danno dell’opera di Dio viene da Satana, da quel “nemico” che da quando fu creato Adamo con sua moglie ha sempre cercato in tutti i modi di rovinare la loro relazione con Lui. Certo non solo di loro due, ma di tutta la discendenza che ne sarebbe derivata, nella quale anche noi rientriamo.

È bello considerare che Nostro Signore, al verso 15, non mette solo genericamente in guardia i suoi uditori dai “falsi profeti”, ma dia in realtà uno spaccato storico dell’opera di Satana riguardo all’inquinamento del “campo di Dio” comprendendo passato, presente e futuro perché si tratta di personaggi che sono sempre esistiti, esistono ed esisteranno: pensiamo ai molti impostori apparsi ai tempi dell’Antico Patto, quindi al passato, al presente relativo con tutti quelli che pretendevano di essere il Messia in opposizione a Gesù, Unico autorizzato a rivelare il Padre, e per il futuro all’opera terribile che verrà fatta tanto nel campo generico del mondo, quanto in mezzo al gregge. “Vengono a voi in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci”.

Gesù, nei versi in esame, si presenta così come unico Profeta abilitato a rivelare Dio Padre e anticipa al tempo stesso quanto poi dirà ai suoi discepoli sugli eventi futuri, dalla sua resurrezione al suo ritorno: “Sorgeranno molti falsi profeti e inganneranno molti; per il dilagare dell’iniquità si raffredderà l’amore di molti. Ma chi avrà perseverato fino alla fine, sarà salvato. Questo vangelo del Regno sarà annunziato a tutto il mondo, perché ne sia data testimonianza a tutti i popoli, e allora verrà la fine” (Matteo 24.11-12). Il falso profeta, che nella sua forma peggiore e potenza sorgerà negli “ultimi tempi”, agisce in ambito spirituale col fine di distogliere l’attenzione dell’essere umano dal Dio vero e unico col fine di perderlo. Si tratta di un tema dalla vastità enorme, che comprende falsa scienza e vera ignoranza, superstizione e soprattutto sfrutta la mancanza di conoscenza, a volte colpevole, di chi dovrebbe avere una fede radicata in quella Parola che non può sbagliare.

Già gli uditori di Gesù presenti sul monte, come già rilevato in altre volte occasioni, avevano gli elementi per comprendere le sue parole perché possedevano un riferimento non solo nella storia del loro popolo, ma soprattutto nella Legge di Mosè, dove in Deuteronomio 13.2-4 si legge “Qualora sorga in mezzo a te un profeta o un sognatore che ti proponga un segno o un prodigio, e il segno e il prodigio annunciato succeda, ed egli di dica «Seguiamo dèi stranieri, che tu non hai conosciuto, e serviamoli», tu non dovrai ascoltare le parole di quel profeta o di quel sognatore, perché il Signore, vostro Dio, vi mette alla prova per sapere se amate il Signore, vostro Dio, con tutto il cuore e con tutta l’anima”.

Il falso profeta, allora, è qualcosa di più complesso di un persecutore rozzo e ignorante; non è una persona immediatamente riconoscibile come negativa, ma può presentare le sue dottrine col sostegno di miracoli, come ad esempio avvenuto – andando indietro nel tempo – con i sacerdoti del Faraone che, per un certo tempo, riuscirono a compiere gli stessi prodigi di Mosè. E dando uno sguardo a quanto avvenuto nella Chiesa, non occorre andare ai periodi recenti della storia contemporanea, dove possiamo trovare i Testimoni di Geova o i Mormoni come espressione severa di travisamento dottrinale, ma basta trovare le tracce che i falsi profeti, o persone a loro collegabili, hanno lasciato negli scritti del Nuovo Patto: troviamo ad esempio Diòtrefe, personaggio particolare poi imitato da molti nel corso della storia, che cercava il primato nella sua Comunità. Giovanni nella sua terza lettera, scrive ”Ho scritto qualche parola alla Chiesa, ma Diòtrefe, che ambisce il primo posto tra loro, non ci vuole accogliere. Per questo, se verrò, gli rinfaccerò le cose che va facendo, sparlando di noi con discorsi maligni. Non contento di questo, non riceve i fratelli e impedisce di farlo a quelli che lo vorrebbero e li scaccia dalla Chiesa” (3 Giovanni vv.9-10).

Diòtrefe è allora l’immagine della persona presuntuosa e ambiziosa, di chi ha bisogno di un pubblico indipendentemente dalla qualità del messaggio e teme il confronto con esperienze e rivelazioni diverse e migliori, impedendo lo sviluppo della verità. Diòtrefe temeva le parole che Giovanni e i suoi collaboratori avrebbero potuto portare alla Chiesa di cui era certamente un anziano. Questo personaggio è però l’antitesi del pastore perché ha trasferito tutti gli inutili difetti umani in un campo spirituale e, con la propria condotta, fa solo danni non ammettendo la pluralità dei doni e arrestando la crescita della Chiesa.

Altro esempio negativo lo troviamo in Imeneo e Filéto e questa volta è l’apostolo Paolo a scrivere; “Evita le chiacchiere vuote e perverse, perché spingono sempre più all’empietà quelli che le fanno; la parola di costoro infatti si propagherà come una cancrena. Fra questi vi sono Imeneo e Fileto, i quali hanno deviato dalla verità, sostenendo che la resurrezione è già avvenuta e così sconvolgono la fede di alcuni” (2 Timoteo 2.16-18). In realtà, leggendo le lettere di Paolo come degli altri autori, vediamo che molto spesso si trovano nelle condizioni di confutare dottrine estranee; a volte sono errori apparentemente di poco conto, altre sono negazioni della divinità di Gesù e della sua opera di salvezza.

Il falso profeta viene in veste di pecora, ma dentro è un lupo malvagio: si dichiara quindi credente, ma agisce traviando i membri di una Chiesa a partire dai più immaturi. Riconoscere il falso profeta è piuttosto semplice, come scrive l’apostolo Giovanni: “Carissimi, non prestate fede ad ogni spirito, ma mettete alla prova gli spiriti, per saggiare se provengono veramente da Dio, poiché molti falsi profeti sono venuti nel mondo. In questo potete riconoscere lo Spirito di Dio: ogni spirito che riconosce Gesù Cristo venuto nella carne, è da Dio; ogni spirito che non riconosce Gesù, non è da Dio. Questo è lo spirito dell’anticristo che, come avete udito, viene, anzi è già nel mondo” (1 Giovanni 4.1-3). Lo spirito dell’anticristo sappiamo che si manifesterà ufficialmente nell’epoca stabilita da Dio, eppure ci viene detto che “anzi è già nel mondo”: come è indicativo quell’”anzi”! Ci parla veramente del fatto che presso il Signore “un giorno è come mille anni e mille anni sono come un giorno”, che tanto lo Spirito di Dio che quello a lui avverso agiscono al di là del tempo che scandisce le nostre giornate, gli anni e i secoli. Se c’è la salvezza, così importante, che si costruisce giorno per giorno quanto a identità del credente perché i doni la arricchiscono, c’è anche la perdizione, così terribile, e anche lei subisce lo stesso scorrere perché si forma poco a poco, in modo tanto impercettibile quanto inevitabile per chi non crede ponendosi come ostacolo allo sviluppo della fede.

Il falso profeta non è necessariamente una persona che propone insegnamenti sbagliati o alternativi alla fede genuina, ma è anche chi non fa nulla o agisce per scopi personali nonostante il ruolo da lui rivestito nella Chiesa; ricordiamo Isaia  56.10-11 a proposito dei “guardiani” di Israele, che per noi potrebbero raccordarsi proprio agli “anziani”, “pastori” o “sacerdoti” delle varie Chiese: “I suoi guardiani sono tutti ciechi, non capiscono nulla. Sono tutti cani muti, incapaci di abbaiare; sonnecchiano accovacciati, amano appisolarsi. Ma questi cani avidi, che non sanno saziarsi, sono pastori che non capiscono nulla”. Tutto questo si collega alle parole di Paolo agli anziani di Efeso: “Io so che dopo la mia partenza verranno fra voi lupi rapaci, che non risparmieranno il gregge; perfino in mezzo a voi sorgeranno alcuni a parlare di cose perverse, per attirare discepoli dietro di sé” (Atti 20.29-30).

Proprio per questo motivo il credente è chiamato a vagliare ogni messaggio che gli viene proposto non solo perché in esso possono nascondersi dei contenuti erronei volti a traviarlo senza che se ne accorga, ma anche perché sono possibili interventi soprannaturali per far deviare le masse dalla fede; lo abbiamo già letto e Gesù stesso avvisò i Suoi con queste parole: “…sorgeranno falsi cristi e falsi profeti e faranno segni e prodigi per ingannare, se possibile, gli eletti. Voi, però, fate attenzione! Io vi ho predetto tutto” (Marco 13.21-23).

I “segni e prodigi” sono forse i più pericolosi perché riguardano il campo dell’inspiegabile e sono quelli che, da sempre, spingono gli uomini a credere perché vanno a coinvolgere la loro parte più emotiva e primitiva. Anche qui però la Parola di Dio ha lasciato elementi importanti perché il gregge ne faccia tesoro e non cada nel laccio dell’Avversario; ricordiamo le parole ai Galati “Ma se anche noi stessi, oppure un angelo dal cielo vi annunciasse un vangelo diverso da quello che avete ricevuto, sia anàtema” (1.8). Dalle parole “noi stessi” e “un angelo dal cielo” possiamo capire fino a quanto può spingersi il piano di perdizione nei confronti di chi, divenendo figlio di Dio, si è fatto inevitabilmente bersaglio di Satana; poiché il successo della distruzione delle relazioni si misura anche nella quantità, ecco che l’interesse è rivolto alle masse proprio sfruttando la loro facilità ad essere manipolate e a credere ciò che viene loro propinato: “Nessuno che si compiace vanamente del culto degli angeli e corre dietro alle proprie immaginazioni, gonfio di orgoglio nella sua mente carnale, vi impedisca di conseguire il premio” (Colossesi 2.18). E qui penso alle apparizioni e ai falsi miracoli avvenuti in campo solo apparentemente cristiano che hanno traviato molti.

Ancora, sulla seduzione, sappiamo che “Anche Satana si traveste da angelo di luce. Non è perciò gran cosa se anche i suoi ministri si mascherano da ministri di giustizia; ma la loro fine sarà secondo le loro opere” (2 Corinti 11.14-15).

È allora doveroso che ogni cristiano si chieda sempre se quanto pratica rientra in ciò che il “Vangelo originale” contempla oppure no, se crede in cose aggiunte e appartenenti alla tradizione degli uomini o se legittimamente procedenti da Dio. Non si tratta di aderire a una Chiesa piuttosto che a un’altra, ma di buona pratica, quella essenziale, logica, giusta, che ci mette nelle condizioni di amare il Signore sempre di più e sempre di più essere amati. Perché come credenti siamo chiamati ad essere dei cercatori di verità e a camminare di conseguenza. Concludo presentando due realtà che ci descrivono il Salmo 92 e il profeta Geremia: “Il giusto fiorirà cine palma, crescerà come cedro del Libano; piantati nella casa del Signore, fioriranno negli atri del nostro Dio”. Al contrario: “Maledetto l’uomo che si confida nell’uomo e pone nella carne il suo sostegno, allontanando il suo cuore dal Signore. Sarà come un tamerisco nella steppa; non vedrà venire il bene, dimorerà in luoghi aridi nel deserto, in una terra di salsedine, dove nessuno può vivere”.

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05.49 – LA PORTA STRETTA (Matteo 7.13,14)

05.49 – La porta stretta (Matteo 7.13,14)

 

13Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che vi entrano. 14Quanto stretta è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e pochi sono quelli che la trovano!”.

 

Stiamo esaminando da un po’ di tempo una serie di inviti, o suggerimenti, dati da Gesù alla folla desiderosa di ascoltarlo e possiamo dire che tutti – il non dare giudizi, non accumulare tesori sulla terra e non essere “solleciti di cosa alcuna” – comportano uno spogliarsi della parte istintiva della persona. Tutto questo è in relazione coi versi di quest’oggi, quella “porta stretta” che a noi dice poco, per lo meno nella sua realtà, ma che fu compresa immediatamente dai presenti: nelle città circondate da mura c’era una porta “larga e spaziosa” che rimaneva aperta tutto il giorno e attraverso la quale si poteva transitare liberamente con le proprie masserizie; di sera e di notte, però, quella porta si chiudeva e ne restava aperta una, molto più piccola. Si trattava di quel famoso “ago” attraverso il quale un cammello passava a fatica e che troviamo menzionato in Matteo 19.24 con le parole “È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio”.

Ebbene Gesù qui parla di entrare “per la porta stretta”, passaggio possibile se non si hanno bagagli ingombranti da portarsi appresso: questi vanno lasciati fuori, anzi l’immagine suggerisce il passaggio di una persona leggera, al contrario di quanto avveniva per la porta “larga e spaziosa”, comoda da attraversare per coloro che volevano far presto, avevano cose da fare, carichi da portare comprati o da vendere, impegnati nella loro vita orizzontale accanto alla spietata implacabilità di un tempo che passa senza dare la possibilità di gustare in modo fermo e duraturo i momenti positivi che possono capitare.

L’ “Entrate” di Gesù non sottintende un arrivo, ma l’ingresso in un mondo nuovo, spirituale, quello del regno di Dio di cui un giorno disse “è dentro di voi”. E non è possibile entrare senza spogliarsi di tutto ciò che ingombra, appesantisce, rallenta proprio perché la porta è stretta. Certo allora Nostro Signore non poteva soffermarsi e spiegare nei dettagli cosa significasse passare per quell’ingresso: se aveva ancora molto da dire ai suoi discepoli, ma tacque perché non avrebbero potuto comprendere altre parole perché lo Spirito Santo non era ancora sceso, il suo compito era quello di gettare un seme che avrebbe germogliato in futuro. Ai presenti poteva solo dichiarare che, se avessero voluto, avrebbero potuto avere un futuro di eternità con Lui. Molti erano e sono quelli che passano per la porta ampia e spaziosa, pochi quelli che trovano quella stretta, là dove il trovare implica l’approfittare dell’opportunità di quel passaggio, parlando in termini umani, così scomodo, disagevole e imbarazzante. Per quel pertugio, di giorno, non passava nessuno.

È giusto porre un distinguo perché qui non si parla di operare rinunce particolari, ma di scelte che comunque gli uditori del sermone potevano capire: “Non entrare nella strada degli empi e non procedere nella via dei malvagi. Evita quella strada, non passarvi, sta’ lontano e passa oltre” (Proverbi 4.14,15). “Evita” perché la potresti trovare comoda e allettante. Ancora, “Beato l’uomo che non entra nel consiglio dei malvagi, non resta nella via dei peccatori e non siede in compagnia degli arroganti, ma nella legge del Signore trova la sua gioia, la sua legge medita giorno e notte” (Salmo 1.1), tutte figure della porta “larga e spaziosa”. La “porta stretta”, che Gesù stesso poi indicherà in lui stesso, è indicata da Isaia 55.7 quando scrive “L’empio abbandoni la sua via e l’uomo iniquo i suoi pensieri; ritorni al Signore che avrà misericordia di lui e al nostro Dio che largamente perdona”.

Entrare per la porta stretta” possiamo dire che è uno degli inviti più pressanti del Vangelo là dove esiste un essere umano che cerca la pace non con se stesso, ma con Dio: “Convertitevi dunque e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati e possano così giungere i tempi della consolazione da parte del Signore e così Egli vi mandi Colui che aveva destinato come Cristo, cioè Gesù” (Atti 3.19,20). Non si può passare per la porta stretta senza conversione, è questa che determina il perdono di Dio perché costituisce l’unica firma che possiamo porre sul nostro contratto di salvezza. Gesù diede una rivelazione piena e totale di quanto stiamo meditando con queste parole: “Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo” (Giovanni 10.9). Lui è la porta, perfetto garante del nostro futuro perché risorto, vincendo la morte che tocca a tutti gli uomini perché tutti si portano dietro il peccato dei loro progenitori. Entrare “attraverso” significa credere in Lui non solo come personaggio storico, ma come unica alternativa, base su cui costruire, riferirsi, come persona che assiste e veglia sul cammino che viene intrapreso. Certo, come Lui disse, per essere salvati, altrimenti ogni cosa sarebbe inutile. Chi studia la mente umana sa benissimo che la mancanza di un progetto è alla base e sintomo della depressione e di malattie che progrediscono col passare del tempo e, senza la salvezza come futuro certo e il conseguente cammino verso di lei, anche la vita di chi crede rischia di essere prima sterile e poi malata. E quando un progetto umano crolla, se la persona ha riversato in quello e su quello tutte le proprie energie, il corto circuito nella mente è inevitabile e viene descritto coi termini “pianto e stridore di denti” quando si parla dei perduti che, appunto, scopriranno troppo tardi che tutto quanto avranno fatto in vita non sarà servito a nulla. Perché la perdizione ha due aspetti, il primo è quello dell’anima come punto di arrivo estremo causato dal rifiuto costante della grazia, ma il secondo, quello che si vede subito, è la mancanza di uno scopo, dell’uomo o donna che diventano dei vuoti a perdere pur vivendo. E ancora ci aiutano i Proverbi dove, in 16.25, leggiamo “C’è una vita che sembra dritta per l’uomo, ma alla fine conduce su sentieri di morte”. “Alla fine”, quando è troppo tardi per tornare indietro, “alla fine” come risultato, “salario delle proprie fatiche” perché, comunque, camminare costa energie in ogni caso, sia che si percorra una strada in salita, sia che sia comoda e pianeggiante.

Torniamo però ai nostri testi: avuta la salvezza, vediamo due verbi, “entrare” e “uscire”, strettamente collegati al “trovare pascolo” che hanno connessione con la vita delle pecore sotto il “buon pastore” che non fa mancare loro nulla e per loro dà la sua vita. Le pecore di Gesù non vengono tenute solo nell’ovile, ma vengono da lui condotte come nel Salmo 22, spesso usato a sproposito e in modo quasi scaramantico nei funerali, quando spesso si vorrebbe che la Parola di Dio intervenisse, ma è troppo tardi: “Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla. Su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce. Mi rinfranca, mi guida per il giusto cammino, per amore del suo nome. Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male, perché tu sei con me”. Queste parole, lette in alcune cerimonie un’infinità di volte, hanno finito per diventare una specie di modo di dire, ma ci si dimentica che sono state scritte da chi ha sperimentato veramente su di sé quella realtà.

Entrate per la porta stretta” è un’esortazione che comporta un percorso a tappe, fatto di riflessione per chi l’ascolta perché non è qualcosa che può essere affrontato alla leggera trattandosi di scegliere se seguire Gesù o meno. Se il Vangelo si basa sul verso “Credi nel Signore Gesù e sarai salvato”, è indubbio che un aspetto fondamentale della dottrina cristiana si basi sul comportamento dell’uomo o della donna che hanno creduto come confacente alla fede che professa; viceversa avremmo superficialità approssimazione, errore. E qui ci viene in aiuto l’evangelista Luca che, riportando la frase di Gesù che stiamo esaminando, la scrive in modo leggermente diverso: “Sforzatevi di entrare per la porta stretta perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non vi riusciranno” (Luca 13.24). Qui, a differenza di Matteo, c’è l’idea di uno sforzo visto nello spogliarsi di ciò che non serve perché ostacola il passaggio, contrapposto al “cercare di entrare” da parte di molti: sono quelli che, sentito il messaggio evangelico, lo apprezzano teoricamente, ma lo vorrebbero adattare al loro impianto mentale, alle loro convinzioni, ai loro egoismi, a quel buonismo che tanto li fa apparire “giusti di fronte agli uomini”; da qui originano i tragici tentativi per entrare, pari a quelli dell’invitato alle nozze senza il vestito, o del giovane ricco che aveva osservato fin da bambino i precetti della Legge ma che non volle seguire Gesù, o delle vergini stolte che avevano portato le lampade, ma non l’olio necessario.

Qui ci si ricollega anche alle parole di Gesù a Nicodemo quando gli disse che “Se uno non nasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio” (Giovanni 3.3,5), ma ancora di più, per noi che viviamo tempi cronologicamente e umanamente lontani dall’anno in cui Nostro Signore visse ed operò sulla terra, vale la descrizione sulla condotta cristiana che l’apostolo Paolo descrisse ai Colossesi e che accenniamo brevemente: “Se dunque siete risorti con Cristo– la professione di fede che ogni fratello o sorella ha fatto un giorno – cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio. Rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra”. Ecco, il pensiero, dono che ha l’uomo e che gli ha permesso di arrivare a scoperte avanzate in ogni campo, va indirizzato verso l’alto, “dove è Cristo”, quindi in un luogo preciso cui solo lo Spirito può condurre un cuore rinnovato. “Voi infatti siete morti– al peccato e al mondo – e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio– perché ancora non siamo con Loro -. Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato– col Suo ritorno -, allora anche voi apparirete con lui nella gloria”. Ebbene a questo punto, se tutto quanto esposto fin’ora si è davvero verificato nella mente e nel cuore del credente, ecco rivelato l’impegno inevitabile perché, come diceva un fratello, “il cristiano è al tempo stesso sacerdote e vittima”: “Fate morire dunque ciò che appartiene alla terra – di cui siamo fatti -: impurità, immoralità, passioni, desideri cattivi e quella cupidigia che è l’idolatria– cioè avere falsi miti come riferimento -; a motivo di queste cose l’ira di Dio viene su coloro che gli disobbediscono. Anche voi un tempo eravate così, quando vivevate in questi vizi– ecco perché dobbiamo stare attenti a giudicare il nostro prossimo -. Ora invece gettate via tutte queste cose: ira, animosità, cattiveria, insulti e discorsi osceni, che escono dalla vostra bocca. Non dite menzogne gli uni agli altri– la reciprocità nella carne che rende gli uomini simili -: vi siete svestiti dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova per una piena conoscenza, a immagine di Colui che lo ha creato” (Colossesi 3.1-10).

Ecco, qui Paolo sintetizza il cammino, ricordando a chi è passato per la porta stretta che, se da un lato ha fatto bene ed è stato fautore di una scelta di cui non si pentirà “quando Cristo sarà manifestato” ma non solo, ha ancora tanto lavoro da fare visto nel far morire ciò che appartiene alla terra. Guai a pensare che, fattolo una volta, sia per sempre: il peccato infatti, non come condizione di base, ma come strumento di Satana per far cadere e compromettere la comunione col Signore, è sempre lì come possibilità di scelta: “Se non agisci bene, giace alla porta, verso di te è il suo istinto, e tu lo dominerai” (Genesi 4.7). Quante migliaia di anni separano questo verso dallo scritto paolino che abbiamo ricordato? Tanti, ma l’uomo è sempre lo stesso. “Entrare per la porta stretta”, allora equivale non solo credere nella morte e risurrezione di Cristo per i nostri peccati, ma anche accettare accogliendo questa conoscenza e metterla in pratica quotidianamente, come altrettanto quotidianamente salirà la richiesta al Padre di rimetterci i nostri debiti. E di rimetterli ai nostri debitori. Amen.

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05.48 – QUESTA È LA LEGGE E I PROFETI (Matteo 7.12)

05.48 – La Legge e i Profeti (Matteo 7.12)

12Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la legge e i profeti”.

Personalmente trovo questo verso, così chiaro, parente stretto di quello che dice “con il giudizio col quale giudicate, sarete giudicati voi e con la misura con la quale misurate sarà misurato a voi” (Matteo 7.2): se infatti ogni uomo tende a giudicare gli altri, ma non se stesso, allo stesso modo sa come vorrebbe essere trattato, ma così non agisce verso il suo prossimo. Sono contraddizioni, o forse difese, o ancora regole che il mondo ha stabilito per sopravvivere come se Dio non esistesse. Al limite, i più buoni hanno stravolto il senso delle parole che abbiamo letto trasformandolo nell’adagio “Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”, come riassunto del messaggio evangelico, molto più comodo e altrettanto meno impegnativo.

Il verso 12 ha un’importanza particolare: scritto in maniera identica da Matteo e Luca, è rivolto in modo specifico alla maggioranza degli ebrei che osservavano la legge morale e cerimoniale e trascuravano il principio dell’amore per il loro prossimo vanificando così la posizione che avrebbero voluto avere davanti a Dio. Più volte abbiamo parlato dei danni prodotti della religione fine a se stessa e spiegato quel “voglio misericordia e non sacrificio” più volte ricordato dai profeti. Citando Levitico 19.18 “Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso”, vediamo che “il tuo prossimo” sono “i figli del tuo popolo” e non le genti che vivevano, o avrebbero vissuto, nei territori limitrofi: Israele era il popolo eletto così come oggi lo è la Chiesa i cui componenti rischiano di vanificare la loro partecipazione alle adunanze e la loro testimonianza quando fanno attenzione ad osservare – ad esempio – i “dieci comandamenti” e poi non pensano che “chi ama l’altro ha adempiuto la legge” (Romani 13.10).

Addirittura l’amore può essere spento e soffocato quando si agisce per essere a posto con la propria coscienza e non perché il nostro sentire spirituale ci porta ad agire: “Lo scopo del comando è però la carità, che nasce da un cuore puro, da una buona coscienza e da una fede sincera. Deviando da questa linea alcuni si sono perduti in discorsi senza senso, pretendendo di essere dottori della Legge, mentre non capiscono né quello che dicono, né ciò di cui sono tanto sicuri” (1 Timoteo 5-7). Guardando a queste parole, vediamo che il comandamento esiste per un motivo e non è un ordine dato senza possibilità di essere discusso come può avvenire in ambito militare; ogni comandamento viene dato con lo scopo che l’uomo possa chiedersi il perché, usare la propria intelligenza per capire che, in realtà, è un “pedagogo verso Cristo, perché fossimo giudicati per la fede” (Galati 3.24). Gesù sapeva benissimo che le persone alle quali parlava ed insegnava erano sotto la Legge, dispensazione temporanea nell’attesa “della fede che doveva essere rivelata” (Ibid., v.23), per cui aveva l’autorità per dichiarare in cosa consistessero in realtà Legge e Profeti.

Teniamo presente le parole del verso 12 e riflettiamo su ciò che Lui ha fatto: con la Sua morte e resurrezione ha aperto la dispensazione della Grazia dandoci una prospettiva. È andato al di là del principio del fare agli altri quello che vorremmo ci fosse fatto perché nessuno avrebbe mai pensato né ad una porta aperta verso il cielo, né tantomeno di venire invitato ad entrarvi. È il Dio che si identifica nella creatura a tal punto da dare se stesso per lei. È il Dio che, nonostante il peccato, ha fatto sì che questo fosse vinto e lo ha fatto, una volta avvenuto, in modo tale che esattamente come in Eden l’uomo potesse scegliere: se Adamo avrebbe potuto vivere l’eternità non cibandosi del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, l’uomo che vive nella dispensazione della Grazia può entrare in essa accettando Gesù Cristo come il suo unico salvatore e quindi vivendo in modo adeguato alla sua fede in Lui. È una scelta, allora come oggi, ed è un cammino. È triste constatare, guardando al percorso fatto dai due popoli nelle due dispensazioni, Israele e la Chiesa, come entrambi abbiano fallito nella testimonianza, salvo rari casi. Questo è successo, e succede sempre, ogni volta che anteponiamo noi stessi a Dio e vogliamo conservare quello che rimane della nostra natura.

Per molto tempo ho sentito dire che chi ha creduto in Cristo non ha bisogno di fare nulla perché è stato già trasformato dalla Grazia, ma il verso “se uno è in Cristo è una nuova creatura” si riferisce al risultato della fede della persona e non al fatto che viene catapultato in una sorta di Eden e in uno spazio spirituale nuovo a prescindere dove ogni cosa è bella e tutto è pace. La presenza o l’assenza dell’amore verso i fratelli è indice di salute o di una grave febbre spirituale, come scrive l’apostolo Giovanni nella sua prima lettera. Lì infatti leggiamo: “Carissimi, non vi scrivo un nuovo comandamento, ma un comandamento antico, che avete ricevuto da principio– che si trova nella Legge data da Dio a Mosè e da lui al popolo -. Il comandamento antico è la parola che avete udito– quindi la Legge e i Profeti -. Eppure vi scrivo un comandamento nuovo– nel senso di rivelazione -, e ciò è vero in lui e in voi, perché le tenebre stanno diradandosi e in lui già appare la luce vera. Chi dice di essere nella luce e odia il suo fratello, è ancora nelle tenebre. Chi ama il suo fratello, rimane nella luce e non vi è in lui alcuna occasione d’inciampo. Ma chi odia il suo fratello, è nelle tenebre, cammina nelle tenebre e non sa dove va, perché le tenebre hanno accecato i suoi occhi” (2.7-11).

Ora questa lettera è stata scritta non a persone da evangelizzare, ma a dei pagani convertiti al cristianesimo nell’Asia minore, quindi a dei salvati o presunti tali. Con le parole che abbiamo letto Giovanni non vuole escluderli dalla comunione con corpo e il sangue di Cristo, ma intende farli riflettere sulla posizione che hanno; in sintesi, non possiamo dirci nella luce se in noi manca l’amore per il prossimo, cioè per il fratello prima di tutto. E in questo tutti sono chiamati in causa, dai conduttori (o Anziani, o Pastori, o Sacerdoti a seconda della denominazione) a chi dichiara di aver creduto perché tutti, una volta ricevuto il battesimo consapevole, sono responsabili gli uni degli altri. Perché essere credenti comporta proprio il progressivo svuotamento di sé per arrivare al discernimento di ciò che è davvero necessario al nostro sostentamento, materiale e spirituale. Un giorno un fratello scrisse “Il risultato è proporzionale alla nostra autentica resa. Maggiore è la finzione, l’ipocrita recitazione di un ruolo, maggiore è la distanza da Cristo e dalla Croce”. Sembra, e lo è, l’enunciato di una legge fisica. Una fisica spirituale. Ecco perché le invettive di Gesù riguardarono sempre non i peccatori, le prostitute, i pubblicani e via dicendo, ma gli Scribi e i Farisei che, nonostante avessero gli strumenti per capire, si guardavano bene dal farlo perché avrebbero dovuto mettere in discussione tutta la loro vita, ravvedendosi.

Affrontando il nostro verso vediamo che quel “tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi” non richieda una grande intelligenza per essere compreso. Lo sappiamo già. Quel “tutto quanto” sono quelle “cose buone” che riusciamo a dare in quanto “malvagi”e che ora possono essere veramente “buone” in quanto date, fatte, da figli di Dio in possesso dello Spirito. Impossibile barare, saremmo come quelli che, di fronte al povero, gli dicono “vai in pace” e non gli danno di che sostenersi, non si prendono cura di lui, non fanno proprio il suo caso. Il mondo dominato dal peccato con uomini agli antipodi da Dio lo rileviamo nel rapporto di Oxfam diffuso alla vigilia del Forum economico di Davos nel 2017 in cui viene detto che otto miliardari posseggono la stessa ricchezza netta (426 miliardi di dollari) di metà della popolazione più povera del mondo, vale a dire 3,6 miliardi di persone.

Non è facile l’esercizio della pietà in un mondo di persone che scelgono volutamente di vivere di espedienti e spesso sono ricattatori morali di professione: occorre cercare, occorre vedere, serve il discernimento spirituale, la necessità di fare del bene mirato e non generalizzato, perché il dono arricchisca chi lo fa e chi lo riceve. Ricordiamo le parole di Giacomo: “Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano, e uno di voi dice loro «Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi», ma non date loro il necessario per il corpo, a che cosa serve?” (2.15,16).

Anche voi fatelo a loro”: quell’ “anche” determina l’assoluta identità reciproca, dev’essere una norma, un’inevitabile, insopprimibile gesto che sta a significare l’avvenuta comprensione del principio in base al quale chi è stato salvato da Dio non può non venire aiutato, il mettersi al suo posto.

Il “Voi” e “loro” di questo verso non sono soltanto dei pronomi, ma indicano due aree di competenza, due zone che da sempre sono distinte perché da sempre “io – noi”, “tu – voi”, “lui – loro” sono usati per dividere, distinguere, mettere in chiaro aree, competenze, territori che non possono essere invasi, ma che qui non esistono più. Perché il “voi” si fonde nel “loro”, forma un tutt’uno per quanto l’individuo in quanto tale rimanga sempre; si tratta di un raccordo alle parole dell’apostolo Paolo che scrisse “…non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Galati 2.20).

Possiamo concludere questa riflessione citando un episodio celebre, che sempre Matteo riporta, in cui un Dottore della Legge fu scelto dai Farisei per porre una domanda trabocchetto a Gesù su quale fosse il comandamento più importante della Legge. Non erano tanto i dieci quelli a cui quel Dottore alludeva, ma i 613 dei quali 248 positivi (“farai”) e 365 negativi (“non farai”). La risposta fu “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la legge e i profeti” (22-36-40).

L’amore però non è un qualcosa che può suscitarsi a comando, nessuno può amare qualcuno perché gli viene detto di farlo, ma è un sentimento possibile solo quando esiste un rapporto di conoscenza e tanto più questo è stretto, tanto più questo è grande. E l’amore vero consiste nell’annullarsi nell’altro, è fidarsi, è sentirsi al sicuro, protetti, utilizzando chiaramente intelligenza e discernimento. Si può amare Dio, e lo si ama, quando si è da Lui trovati e ci si scopre onorati e colmi di gratitudine per questo. E crescendo nell’amore per lui, è inevitabile trovarsi con coloro che hanno ricevuto le medesime attenzioni. Ecco perché i due comandamenti formano un tutt’uno, ecco perché il secondo, che per questa nostra riflessione Gesù riassume con le parole “questa infatti è la legge e i profeti”, è il più grande, conduce a Cristo e da Lui proviene. Amen.

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05.47- CHIEDETE E VI SARÀ DATO (Matteo 7.7-11)

05.47 – Chiedete e vi sarà dato (Matteo 7.7-11)

 

7Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. 8Perché chiunque chiede riceve, e chi cerca trova, e a chi bussa sarà aperto. 9Chi di voi, al figlio che gli chiede un pane, darà una pietra? 10E se gli chiede un pesce, gli darà una serpe? 11Se voi, dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele chiedono!”.

 

Con questo invito Gesù torna all’insegnamento sulla preghiera, anche se vista in modo diverso da quello esposto sul Padre Nostro al capitolo quinto. Stupisce nei versi che abbiamo letto la distanza intercorrente tra i due atteggiamenti e al tempo stesso l’identità dei rapporti: chi chiede ottiene, chi cerca trova, a chi bussa viene aperto proprio in virtù della relazione figlio – padre che si instaura: “A quanti lo hanno accolto, ha dato il potere di diventare figli di Dio” (Giovanni 1.12), verso che da un lato esprime l’universalità della condizione e dall’altro circoscrive la qualifica ricevuta; non tutti gli uomini sono figli di Dio, non tutti gli uomini sono fratelli.

L’apostolo Paolo approfondirà il concetto scrivendo “Quindi non sei più schiavo, ma figlio e, se figlio, sei anche erede per grazia di Dio” (Galati 4.7), realtà che esclude un rapporto a termine, ma ha una prospettiva di eternità: “Voi non siete più stranieri né ospiti, ma concittadini dei santi e famigliari di Dio” (Efesi 2.19). È importante soffermarsi su questi principi, perché determinano lo stato di “nuova creatura” in cui si trova chi ha creduto accettando Gesù nella propria vita, venendo cancellato il proprio passato proprio alla luce della nuova dignità ricevuta: “Un tempo, per la vostra ignoranza di Dio – perché non lo conoscevamo – voi eravate sottomessi a divinità che in realtà non lo sono – divinità presunte o create da noi, come il denaro e tutti gli altri falsi miti –. Ora che invece avete conosciuto Dio, anzi da lui siete stati conosciuti – proprio per il rapporto nuovo che si è venuto a creare –, come potete rivolgervi di nuovo a quei deboli e miserabili elementi, ai quali di nuovo come un tempo volete servire?” (Galati 4.8,9).

Con questi versi l’apostolo Paolo ricorda almeno due importanti verità: primo, la condizione di estraneità alla realtà di Dio per l’ignoranza in cui vivevamo e, secondo, la necessità di perseverare nella nuova vita ricevuta rimanendo con la mente uniti alla Verità. Si tratta di un metodo che molti nelle chiese della Galazia avevano smesso di perseguire tornando a “quei deboli e miserabili elementi” di cui un tempo erano servi, influenzati dal giudaismo e da quanti volevano mettere sullo stesso piano Legge e Grazia.

Ho tratteggiato questo piccolo quadro per sottolineare che le tre azioni descritte da Gesù al verso settimo, “Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto”, sono al tempo stesso un invito e una norma di relazione con promessa; impossibile non ottenere chiedendo, non trovare cercando, che non ci venga aperta la porta qualora noi bussiamo a quella della Grazia: non siamo stranieri né ospiti, come abbiamo letto, ed è soprattutto quel cercare e trovare che ci ricorda quando noi, alla ricerca di una ragione di vita o consapevoli dell’inquietudine derivante dalla presa d’atto che nulla di quanto ci circondava poteva saziarci, ci siamo messi alla ricerca di una ragione superiore chiedendo a quel Dio che non conoscevamo, di rivelarsi. E qui ciascun credente potrebbe narrare la sua esperienza e la scoprirebbe diversa da quella del proprio fratello, o sorella. Personalmente amo ricordare quel passo di Isaia che dice “Cercate il Signore mentre lo si può trovare, invocatelo mentre è vicino” (Isaia 55.6), oppure la verità stabilita in Salmo 145.18 “Il Signore è vicino a chiunque lo invoca, a quanti lo invocano con sincerità”. Perché? Perché anche oggi, nonostante i tempi moralmente difficili, esiste chi lo cerca con quella sincerità che esclude doppi fini. Si cerca il Signore perché non si hanno alternative, perché viene in momento in cui scopriamo di essere soli nonostante amici, compagne, fidanzate o mogli, perché la sazietà non può venire dal nostro simile, né da quanto il mondo può offrire.

Dobbiamo sempre considerare che la folla presente sul pianoro del monte aveva tutti gli elementi per non considerarlo uno dei tanti predicatori che saltuariamente comparivano in quella regione; Luca infatti, al quale dedicheremo qualche riflessione una volta concluse quelle su Matteo, inquadra l’ambiente con parole illuminanti: “C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e Sidone, che erano venuti per ascoltarlo ed esser guariti dalle sue malattie; anche quelli che erano tormentati da spiriti immondi, venivano guariti. Tutta la folla cercava di toccarlo, perché da lui usciva una forza che guariva tutti” (Luca 6.17,18). E Luca era medico. E chi era presente aveva dovuto fare della strada, anche molta, per trovare Gesù. Aveva dovuto cercarlo. Aveva dovuto iniziare un percorso per uno scopo, per vedere se effettivamente quell’uomo che parlava di Dio con autorità e faceva miracoli avrebbe potuto fare qualcosa per loro individualmente.

Ecco allora che le promesse delle tre azioni contenute nell’invito di Gesù sono a largo raggio e coinvolgono tutti quelli che si pongono delle domande e insistono fino a quando non hanno ottenuto delle risposte, fino a quando non hanno trovato. Esattamente come tutti quegli uomini e donne che, nell’episodio descritto da Matteo e Luca, erano presenti dopo aver tanto camminato ed aver fatto la fatica di salire su quel monte. Certo, tutta la Bibbia narra di uomini che hanno avuto questa esperienza, hanno cercato e trovato ma, anche, sono stati trovati perché scelti, eletti come Saulo di Tarso che così spesso citiamo. Su tutto, però, si elevano le parole di Proverbi 8.17 in cui leggiamo “Io amo quelli che mi amano, e quelli che mi cercano mi trovano”. Gesù non poteva non lasciarsi trovare e, guarendo, dimostrare andare ben oltre il fatto di essere un bravo filosofo o un buon parlatore.

È però necessario soffermarci sulla prima promessa, “chiedete e vi sarà dato”, perché ho notato che spesso si tende a confonderla e ad usarla ingenuamente, infantilmente, come un ricatto: in pratica, chiedere a Dio per noi stessi aggrappandoci al testo letterale senza riflettere sulla portata di quanto domandiamo, della serie “hai promesso, adesso mi dai”. Allora si scambia la fede con l’autoconvincimento, forti ad esempio del testo che recita “Tutto quello che chiederete con fede nella preghiera, lo otterrete” (Matteo 21.22) oppure Marco 11.24 “Tutto quello che chiederete nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto e vi accadrà”. Altri, quasi scaramanticamente, concludono le loro preghiere pubbliche “Nel nome di Gesù” perché così è stato scritto e Lui stesso lo ha raccomandato dicendo “E qualunque cosa chiederete nel mio nome, la farò, perché il Padre sia glorificato nel Figlio. Finora non avete chiesto nulla nel mio nome; chiedete e otterrete, perché la vostra gioia sia piena” (Giovanni 16.23,24).

Chiedere qualcosa “nel nome” di Gesù però non significa usare il suo Nome quasi fosse una formula magica, ma proporre una preghiera che abbia in Cristo il suo Amen, cioè risponda al Suo e al nostro essere. È un esame perché il Nome, come sappiamo, non può essere detto invano. Ecco, qui cominciamo a intravedere il senso della promessa “chiedete e vi sarà dato”; quando infatti Nostro Signore si trovò a spiegare ai discepoli il loro ruolo e condizione nella storia, disse “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga, perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda” (Giovanni 15.16). Il verso successivo poi, è illuminante: “Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto”. Qui sta la promessa, la preghiera, l’esistenza cristiana, senza sminuire le preghiere che vengono rivolte al Padre per avere l’aiuto, il soccorso anche materiale. Non mi stancherò mai di ricordare l’esempio di Salomone, premiato da Dio con la sapienza e la regalità perché gliela chiese al posto di onori e ricchezze nonostante, essendo giovane, fosse sicuramente sensibile ad esse. Ecco perché dovremmo chiedere al Padre l’intelligenza e il discernimento prima di qualsiasi altra cosa, rendendoci docili al suo insegnamento. Giacomo, “fratello del signore” scrive “Se qualcuno di voi è privo di sapienza, la domandi a Dio, che dona a tutti con semplicità e senza condizioni, e gli sarà data. La domandi però con fede, senza esitare, perché chi esita somiglia all’onda del mare, mossa e agitata dal vento. Un uomo così non pensi di ricevere qualcosa dal Signore: è un indeciso, instabile in tutte le sue azioni” (Giacomo 1.5). La fede quindi non è autoconvincimento o determinazione, ma il semplice sapere che ci rivolgiamo a Colui che può. È una scelta, la stessa che fecero tutti coloro che, nel Vangelo, si rivolsero a Gesù per guarire. La fede è consapevolezza, la gioia di sapere che quanto chiediamo viene valutato da Dio che, conoscendoci a differenza nostra, ci dà quello di cui abbiamo bisogno e non ciò che crediamo sia importante per noi. Chi esita, come abbiamo letto, non è chi ha timore di non ricevere, ma chi ora chiede e ora si ritrae, chi prega tanto per farlo e sa già in partenza che, eventualmente ottenendo, non saprebbe cosa farsene perché non ha prospettive. Ecco perché Giacomo scrive “Un uomo così non pensi di ricevere qualcosa dal Signore”.

Ai versi 9 e 10 Gesù fa riflettere sulla relazione padre – figlio nel mondo naturale: nessun genitore darebbe una pietra a un figlio che gli chiede del pane, o una serpe al posto di un pesce (Luca scrive “O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione?”), nonostante sia “malvagio”, cioè “non buono” secondo le aspettative di Dio che, parlando dopo il giudizio del diluvio, disse “Non maledirò più il suolo a causa dell’uomo, perché ogni intento del cuore umano è incline al male fin dall’adolescenza; né colpirò più ogni essere vivente come ho fatto” (Genesi 8.21). Allora Gesù invita i suoi uditori a riflettere sul fatto che, se l’uomo nonostante la sua impurità interiore è in grado di provvedere dando “buone cose” ai propri figli, Dio che è perfetto potrà andare ben oltre. Rileggendo il testo, “Se vuoi, dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliene chiedono”.

Cose buone” provengono da un padre umano imperfetto per il sostentamento dei figli, “Cose buone” provengono dal Padre perfetto che è nei cieli. Luca va più nello specifico e scrive “Quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono” nel senso dei doni, delle rivelazioni, illuminazioni, di tutto ciò che serve ad orientamento in una terra che non è nostra e nella quale ogni vero cristiano non può che trovarsi a disagio, talvolta anche profondo. Ed è poi da sottolineare che anche qui si ritorna all’inizio della nostra lettura, del “chiedere e ricevere” perché il Padre dà in dono le “cose buone” quando gli vengono richieste: a una richiesta di chi è figlio corrisponde un “dare” perfetto, cioè secondo le nostre capacità, possibilità che abbiamo di gestire quanto ci viene donato. Infatti: “E questa è la fiducia che abbiamo in lui: qualunque cosa gli chiediamo secondo la sua volontà, Egli ci ascolta. E se sappiamo che ci ascolta in tutto quello che gli chiediamo, sappiamo di avere già da Lui quanto abbiamo chiesto” (1 Giovanni 5.14). È questa una certezza che abbiamo e che ci aiuta di molto a vivere nel deserto affollato e rumoroso che è la terra. Amen.

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05.46 – CANI E PORCI (Matteo 7.6)

05.47 – Cani e porci (Matteo 7.6)

 

6Non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci, perché non le calpestino con le loro zampe e poi si voltino per sbranarvi”.

 

“Cani e porci” è un detto popolare usato per indicare la presenza delle persone più disparate in un determinato contesto e affonda le sue origini in questo passo, anche se stravolgendone il significato: con l’esortazione qui contenuta Gesù intende riferirsi ad una categoria specifica di persone, non generalizzando come fanno molti che ritengono “cani” e “porci” tutti quanti non la pensano come loro da un punto di vista religioso.

Il cane e il maiale erano secondo la Legge, e quindi al tempo di Nostro Signore, animali considerati impuri al pari di altri, ma a differenza – ad esempio – di un coniglio, vivevano una realtà diversa: alcuni cani erano tenuti nelle case (pensiamo alla parabola del ricco e Lazzaro e le parole di Gesù alla donna sirofenicia), altri venivano allevati per la caccia o perché rappresentavano un valido aiuto ai pastori, ma per lo più, quando si parlava negativamente di loro, li si associava a quelli selvatici, che vivevano in branco presso i depositi di spazzatura fuori dalle mura delle città, spesso feroci e pericolosi. Il cane, anche oggi, a differenza del gatto non può andare libero nei centri abitati e, se in branco, può aggredire e uccidere, per non citare alcune razze suscettibili a moti incontrollabili di aggressività che spesso si concludono tragicamente anche perché affidati a proprietari che non fanno prevenzione e controllo su di loro. Il cane non era trattato come da noi oggi, ma con una distanza che impediva una sua “umanizzazione” sia perché animale, sia perché impuro, cioè non ci si poteva cibare della sua carne. Ritenuto imprevedibile come tutti gli esseri non dotati di ragione, pericoloso nonostante le eccezioni, è figura dell’impurità abbinata al disordine morale, all’irrazionalità e alla violenza; ricordiamo le parole del Gesù glorificato in Apocalisse 22.15 “Fuori i cani, i maghi, gli immorali, gli omicidi, gli idolatri e chiunque ama e pratica la menzogna”. In questo verso vediamo che i “cani” sono i primi a venire cacciati fuori dalla Città di Dio: sono quelli che non hanno dignità, quel rimasuglio impuro e immondo che non sono maghi, cioè coloro che incantano e distolgono l’attenzione che dovrebbe essere indirizzata verso Dio. Non sono immorali, cioè privi di quel senso che naturalmente guida la coscienza nell’uomo ed è in lui presente a prescindere dal fatto che creda o meno. Non sono neppure omicidi o idolatri, cioè chi serve altri (potere, ricchezze, condizione sociale eccetera) come se fosse Dio. Il cane, poi, sbrana e l’oltraggio più grande in tal senso lo ricevette Iezebel, le cui vicende sono narrate nel primo libro dei Re: Moglie di Akhab re d’Israele, favorì il culto di Baal mantenendo 450 suoi profeti e cercando di sterminare quelli di Dio, su di lei si abbatté il giudizio anticipato da Elia: “I cani divoreranno la carne di Izebel(…) e il cadavere di Izebel sarà(…) come letame sulla superficie del suolo, in modo che non si potrà dire «Questa è Izebel». Così avvenne: ““Egli disse: «Buttatela giù!» Quelli la buttarono; e il suo sangue schizzò contro il muro e contro i cavalli. Ieu le passò sopra, calpestandola; poi entrò, mangiò e bevve, quindi disse: «Andate a vedere quella maledetta donna e sotterratela, poiché è figlia di un re». Andarono dunque per sotterrarla, ma non trovarono di lei altro che il cranio, i piedi e le mani. E tornarono a riferir la cosa a Ieu, il quale disse: «Questa è la parola del SIGNORE pronunciata per mezzo del suo servo Elia il Tisbita, quando disse: “I cani divoreranno la carne di Izebel nel campo d’Izreel; e il cadavere di Izebel sarà, nel campo d’Izreel, come letame sulla superficie del suolo, in modo che non si potrà dire: ‘Questa è Izebel'”»(2 Re 9:33-37).

Il cane è anche sinonimo di falsità e quando in Filippesi 3.2 andiamo alle raccomandazioni dell’apostolo Paolo, leggiamo “Guardatevi dai cani, guardatevi dai cattivi operai, guardatevi da quelli che si fanno mutilare”, cioè l’esortazione è diffidare ancora una volta dei profani e impuri. “Quelli che si fanno mutilare” è poi un riferimento a coloro che portavano avanti la circoncisione come requisito per appartenere al popolo di Dio e guardavano ancora con disprezzo chi non era circonciso.

Il maiale, invece, considerato impuro come il cane, era più sinonimo di sporcizia e degradazione. Non lo si trovava certo nelle case, ma in branco, non venendo allevato. Vero è che abbiamo l’episodio dell’indemoniato di Gadara in cui sono citate persone che pascolavano i porci, ma era un territorio dalla popolazione mista, non appartenente a Israele; piuttosto, si può citare la parabola del figliol prodigo, che capisce il suo errore e a quale livello di bassezza era arrivato nel momento in cui fu mandato a pascolare i porci e avrebbe voluto saziarsi con le carrube che quelli mangiavano (Luca 15.15,16). Si può ricordare il detto di Proverbi 11.2 “Una bella donna a cui manca la discrezione è come un anello d’oro nel muso di un porco”, che rappresenta l’assurdo, l’inutilità, contrasto e svilimento assieme. Anche il profeta Isaia impiega questi animali per sottolineare l’ipocrisia di chi è religioso solo esteriormente: “Così dice il Signore: «Il cielo è il mio trono, la terra lo sgabello dei miei piedi. Quale casa mi potreste costruire? In quale luogo potrei fissare la mia dimora? Tutte queste cose ha fatto la mia mano ed esse sono mie – oracolo del Signore –. Su chi volgerò lo sguardo? Sull’umile e su chi ha lo spirito contrito e su chi trema alla mia parola. Uno sacrifica un giovenco e poi uccide un uomo. Uno immola una pecora e poi strozza un cane. Uno presenta un’offerta e poi sangue di porco. Uno brucia incenso e poi venera l’iniquità. Costoro hanno scelto le loro vie, essi si dilettano dei loro abomini; anch’io sceglierò la loro sventura e farò piombare su di loro ciò che temono»” (Isaia 66.1-4). Le due facce dell’ipocrita sono l’opposto dell’umile, di chi ha lo spirito contrito e di chi trema alla Parola del Signore, tutti e tre comportamenti che provengono dall’acquisizione del principio di ciò che siamo realmente.

Ebbene, Gesù con il verso oggetto di meditazione parla di non dare “ciò che è santo ai cani”, esempio immediatamente compreso dai suoi uditori perché si rifà ai sacerdoti, cui spettava ciò che rimaneva dei sacrifici; leggiamo in Numeri 18.8-10 “Il Signore parlò ancora ad Aaronne: «Ecco, io ti do il diritto su tutto ciò che si preleva per me, cioè su tutte le cose consacrate dagli israeliti; le do a te e ai tuoi figli, a motivo della tua unzione, per legge perenne. Questo ti apparterrà fra le cose santissime, fra le loro offerte destinate al fuoco: ogni oblazione, ogni sacrificio per il peccato e ogni sacrificio di riparazione che mi presenteranno; sono tutte cose santissime che apparterranno a te e ai tuoi figli. Le mangerai in un luogo santissimo; ne mangerà ogni maschio. Le tratterai come cose sante”. Ricordiamo quando Davide mangiò i pani di presentazione, episodio ricordato in un altro studio: “Il sacerdote– Achimelec – gli diede il pane sacro perché non c’era altro pane che quello dell’offerta, ritirato dalla presenza del Signore, per mettervi pane fresco nel giorno in cui quello veniva tolto” (1 Samuele 21.7), non fu un gesto che sicuramente rientrò nel caso qui proposto da Gesù.

“Dare ciò che è santo ai cani”, allora, significa per un credente sapersi fermare nella sua testimonianza e valutare attentamente le persone a cui questa si indirizza. Del resto le istruzioni di Gesù ai dodici prima di inviarli a predicare, furono molto chiare: “In qualunque città o villaggio entrate, domandate chi là sia degno e rimanetevi finché non sarete partiti. Entrando nella casa, rivolgetele il saluto. Se quella casa ne è degna, la vostra pace scenda su di essa, ma se non ne è degna, la vostra pace ritorni a voi. Se qualcuno poi non vi accoglie e non dà ascolto alle vostre parole, uscite da quella casa o da quella città e scuotete la polvere dei vostri piedi. In verità vi dico: nel giorno del giudizio la terra di Sodoma e Gomorra sarà trattata meno duramente di quella città” (Matteo 10.11-15). Sono parole importanti: c’è una pace che scende se accolta e torna se rifiutata, un rimanere di chi annuncia la parola o un allontanamento, un dono di salvezza o un sigillo a giudizio.

E la stessa cosa vale per il saggio e lo stolto: “Chi corregge lo spavaldo ne riceve disprezzo e chi riprende il malvagio ne riceve oltraggio. Non rimproverare lo spavaldo per non farti odiare; rimprovera il saggio ed egli ti sarà grato. Dà consigli al saggio, ed egli diventerà ancora più saggio; istruisci il giusto ed egli aumenterà il sapere” (Proverbi 9.7.9).

Se ciò che è santo si riferisce alla dottrina e ai misteri di Dio rivelati, le “perle” rappresentano la saggezza ad essa collegata. La perla, per come viene prodotta da alcuni molluschi, è anche figura della sofferenza e dello sforzo personale di chi vuol rimanere unito a Lui, con Lui camminare e vivere. Preziosa e rara, ha connessione con la “Sapienza” cui sono dedicati i primi capitoli del libro dei Proverbi, “Albero di vita per chi l’afferra, fonte di beatitudine per chi ad essa si stringe” (3.18). La Sapienza a sua volta altri non è che la figura di Gesù Cristo, ed è scritto che “ha più pregio delle perle” (3.15) e Giobbe disse “Coralli e perle non meritano menzione: l’acquisto della sapienza non si fa con le gemme” (28.18).

Al non dare ciò che è santo ai cani si accompagna la proibizione di dare le “nostre perle” ai porci, quindi abbiamo una fonte, cioè che appunto è santo, e una sua conseguenza vista nel risultato della vicinanza ad essa. Del resto fu detto “Chi ha sete venga a me e beva. Chi crede in me, come dice la Scrittura, fiumi d’acqua viva sgorgheranno dal suo seno” (Giovanni 7.38).

Ciò che è santo ai cani e perle ai porci sono quattro elementi simili tra loro (in coppia, vale a dire ciò che è santo con le perle e i cani con i porci), ma assolutamente opposti ai quali non è consentito incontrarsi pena il catastrofico risultato di un calpestio oltraggioso e poi dello sbranamento, che troviamo figurativamente descritto nella parabola delle nozze quando, di fronte agli inviti del Re, “Non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero” (Matteo 22.5-6). Si noti poi che il nostro verso riporta il “calpestio” e il “voltarsi per sbranare” come azione inevitabile, in linea col carattere dell’animale. Il calpestare è indice di disprezzo. Calpestando una cosa la si affonda fino a farla scomparire e qui suonano – o dovrebbero suonare per molti anche oggi – degne di seria preoccupazione le parole dell’Autore alla leggera agli Ebrei: “Quando uno ha violato la legge di Mosè, viene messo a morte senza pietà sulla parola di due o tre testimoni. Di quanto peggiore castigo pensate che sarà giudicato meritevole chi avrà calpestato il Figlio di Dio e ritenuto profano quel sangue dell’alleanza, dal quale è stato santificato, e avrà disprezzato lo Spirito della grazia? Conosciamo infatti colui che ha detto «A me la vendetta! Io darò la retribuzione!». E ancora: «Il Signore giudicherà il suo popolo». È terribile cadere nelle mani del Dio vivente!” (10.26-31).

Tornando al nostro verso, Gesù invita chi crede in Lui ad esercitare giudizio e discernimento: non suggerisce ai suoi uditori il silenzio né proibisce di parlare a chiunque, ma specificamente ai cani e ai porci, esseri ben precisi figura di altrettanti, uomini e donne, aventi il loro stesso carattere e pericolosità.

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05.45 – NON GIUDICATE PER NON ESSERE GIUDICATI (Matteo 7.1-5)

05.45 – Non giudicare per non essere giudicati (Matteo 7.1-5)

 

1Non giudicate, per non essere giudicati; perché con il giudizio col quale giudicate sarete giudicati voi 2e con la misura con la quale misurate sarà misurato a voi. 3Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo? 4O come dirai al tuo fratello «Lascia che tolga la pagliuzza dal tuo occhio», mentre nel tuo c’è la trave? 5Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello”.

 

Quello del giudicare è un tema su cui Nostro Signore ha più volte accennato nel sermone sul monte, illustrando il rapporto molto stretto che intercorre tra il metro che l’uomo usa per valutare e trattare il prossimo e quello che il Padre ha, di riflesso, nei confronti di chi agisce in tal senso. “Non giudicate per non essere giudicati” oppure, come afferma Luca nel parallelo, “non condannate e non sarete condannati” (Luca 6.37). I versi che abbiamo letto da 3 a 5, poi, illustrano un modo di fare purtroppo istintivo in ciascuno di noi e non a caso Esopo, scrittore e favolista greco vissuto nel 500 a.C., affermò che Giove avesse stabilito che ogni uomo portasse addosso due bisacce, una davanti e una dietro, la prima riempita di tutti i difetti, errori e vizi degli altri uomini e la seconda di tutte le qualità negative del portatore. Ora, essendo per impossibile guardare nella borsa portata di spalle, cioè quella contenenti i propri difetti, gli uomini erano portati a scrutare in quella che avevano davanti, quella contenente le mancanze e le deficienze degli altri. Così una caratteristica della nostra natura è quella di essere sempre pronti a criticare ogni minimo errore altrui, ma tenendosi accuratamente lontani dal valutare i propri.

Nel passo in esame però, Gesù non vuole parlare di un’usanza purtroppo frequente, ma delle conseguenze che l’azione del giudizio comporta sotto l’aspetto dell’universalità del peccato. Mi spiego meglio:  queste parole sono rivolte a tutti indipendentemente dal fatto che credano in Lui o meno perché il giudicare gli altri è un’azione che purtroppo viene istintiva per cui Nostro Signore attacca il metodo, denuncia un costume dando al tempo stesso un avvertimento. Quello che leggiamo nei versi di Matteo è importante a tal punto da spingere l’apostolo Paolo a trattare nella sua lettera ai Romani lo stesso argomento; alla fine del capitolo primo parla della corruzione del costumi insita nel paganesimo, ma all’inizio del secondo irrompe con un preciso avvertimento rivolto a chi si reputa migliore di loro: “O uomo, chiunque tu sia che giudichi, non sei scusabile perché, giudicando gli altri, tu condanni te stesso perché, pur giudicando, fai le stesse cose.(…) E credi che, giudicando quelli che fanno ciò che tu fai, potrai scampare dal giudizio di Dio?” (2.1,3). Ecco allora che tanto Gesù quanto Paolo non fanno riferimento al giudizio che viene espresso nei tribunali, o nella Chiesa che dovrebbe essere governata da persone mature e in grado di distinguere il bene dal male, ma proprio a quell’atteggiamento che scaturisce dall’ignoranza, dal voler vivere comodi nella propria piccolezza, da una voluta, mancata crescita spirituale. E tutto questo porta al trionfo della carne, terreno prediletto dell’Avversario. Non è condannando gli altri che possiamo trovare giustificazione ai nostri o al nostro stato di peccatori, ma caso mai ricercando in noi quei germi causa di comportamenti errati. Quando ero immaturo, anch’io ero pronto a giudicare i miei fratelli, ma lo facevo senza pensare che guardare le mancanze degli altri era un modo per non confrontare le mie alla luce della Parola di Dio.

Il giudicare cui fanno riferimento Nostro Signore e gli apostoli quando trattano l’argomento è proprio l’assenza di amore, della responsabilità che comporta l’essere credenti e si estende a tante altre cose perché il giudizio non è un’azione, ma un modo di essere, di vedere le cose, è un’impostazione di mentalità e quindi di vita. A conferma Giacomo, ponendo una situazione del tutto differente a quella del valutare gli altri alla luce della Parola di Dio, scrive così: “Supponiamo che entri in una vostra adunanza qualcuno con un anello al dito, vestito splendidamente, ed entri anche un povero con un vestito logoro. Se voi guardate a colui che è vestito splendidamente e gli dite «Tu siediti qui, comodo» e al povero dite «Tu mettiti in piedi lì» oppure «Siediti qui ai piedi del mio sgabello», non fate in voi stessi preferenze e non siete giudici dai giudizi perversi?” (2.3,4). E poco più aventi: “Parlate e agite come persone che devono essere giudicate secondo una legge di libertà, perché il giudizio sarà senza misericordia contro chi non avrà usato misericordia; la misericordia invece ha sempre la meglio sul giudizio” (vv.12,13). Una “legge di libertà” non è quella che tiene conto rigidamente di un principio, ma lo valuta e lo adatta alla realtà della persona, tiene cioè conto del vissuto di essa e degli elementi che hanno prodotto una determinata situazione. La “legge di libertà” non contempla il tollerare condotte o uno stile di vita basato sul peccato, ma tutto ciò che può essere messo in atto per l’accoglienza e la comprensione prima di quel famoso “sìati come il pagano e il pubblicano”, quello sì giudizio che penalizza la vita di chi non può più frequentare la comunità perché messosi contro di lei con azioni o metodi di pensiero a lei estranei. La misericordia, poi, è all’opposto del giudizio: la prima è un sentimento di compassione (cum-patire, cioè patire assieme identificandosi) attivo, il secondo comporta una sentenza che, se definitiva, non consente possibilità di appello. Se pensiamo alla grazia che Dio ha fatto all’uomo, che ha mostrato la Sua misericordia “facendosi carne e venendo ad abitare fra noi”, va da sé comprendere che il giudizio non ci compete.

Impegnàti quotidianamente a vivere, spesso non si pensa che si può sempre morire. Impegnàti quotidianamente a vivere spesso facendo le cose di sempre e con gli stessi impegni, sociali o di lavoro, prendiamo appuntamenti per i giorni che verranno e così lo scorrere del tempo sembra appartenerci con tutto ciò che ci circonda, compresi gli altri che giudichiamo senza riflettere. Più guardiamo per terra, più ne assorbiamo piccolezze e miserie. Molti, addirittura, preferiscono percorrere la facile ed ovvia strada dello sguardo basso, orizzontale, e in basso restano. Da qui deriva un facile giudicare e un facile misurare il cui esercizio viene fatto in modo quasi scontato. Illuminante in proposito l’episodio della donna adultera che molti volevano lapidare convinti di adempiere alla Legge e le parole di Gesù: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei” (Giovanni 8.7); il risultato fu “Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi” (v.9). Questo significa che c’è una coscienza che si può ascoltare, che guardarsi dentro è possibile e non lo si fa per pigrizia, perché giudicare gli altri è sempre più comodo che non rivolgere la stessa attenzione verso se stessi. A quell’imminente lapidazione erano presenti uomini di tutte le età e capirono che l’essere “senza peccato” era una condizione che contemplava due condizioni: la prima era l’essere esenti dalla colpa di adulterio, che può essere consumato materialmente o anche solo pensato, la seconda l’essere esenti da qualsiasi colpa, quindi santi, puri. E nessuno dei presenti si reputò tale. Fu così che nessuno fu in grado di lanciare per primo la sua pietra. Chi guarda dentro di sé scopre di avere un lavoro da fare a tal punto da non avere tempo per giudicare gli altri.

C’è però un errore ancor più grossolano che si può commettere ed è quello di avere la pretesa di togliere la pagliuzza dall’occhio altrui senza far caso che proprio noi abbiamo una trave. L’originale greco usato per “pagliuzza” è “kàrfos” che significa “piccola cosa secca, scheggia” per cui sta a significare le colpe minime, al contrario della trave. C’è poi il termine “Ipocrita” che Gesù spesso usa nei confronti dei Farisei e chi si identifica in loro: sappiamo che questi giudicavano il loro prossimo dall’alto della loro presunta santità. Si crogiolavano in lei a motivo dell’assiduità con cui pregavano e studiavano le Scritture, crescendo nella conoscenza, ma proporzionalmente anche nella ristrettezza mentale visto che non instauravano un rapporto col loro Dio e sconfessavano con le azioni ciò che professavano con le labbra. Ricordiamo infatti le parole “Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Fate dunque e osservate tutte le cose che vi diranno – perché teoricamente giuste– ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno” (Matteo 23.2,3). E per noi, oggi, i Farisei rappresentano quei credenti che studiano con impegno le Scritture, ma finiscono per inorgoglirsi e non mettono in pratica quello che scoprono, stabilendo princìpi che loro per primi non applicano. “Ipocrita” è la parola che come sappiamo indicava anticamente l’attore, chi recita quindi una parte e rappresenta un carattere che non ha.

Eppure, tolta la trave, si avrà la possibilità di veder bene e si sarà in grado di togliere il “kàrfos”. Abbiamo allora l’obbligo di chiederci sempre se non abbiamo un peccato non confessato e non lasciato davanti al Signore, perché altrimenti non saremmo in grado di insegnare e correggere costruttivamente gli altri. Diventeremmo dei teorici, persone dalle buone parole disgiunte dalla realtà, costruttori di ostacoli per noi stessi e il prossimo. Lasciare un peccato o una metodologia errata spaventa sempre la persona quanto è diventata parte integrante di lei ed è per questo che molti credenti sono solo degli ascoltatori della Parola di Dio, ma quasi mai dei fautori di essa: rimane lì, genera un misticismo carnale, vuoto, privo della pur minima consistenza. Soddisfacendo la parte più superficiale dell’anima, però, a molti va bene così.

Chi ha tempo per giudicare gli altri, solitamente non ha altro di meglio da fare. Si chiude nel proprio castello di convinzioni. È quasi sempre religioso e prende i modelli di comportamento come norme che vorrebbe vedere applicate dagli altri ma, come i personaggi citati da Nostro Signore, se ne tiene accuratamente alla larga convinto che basti conoscerli senza sperimentarli. Queste persone non sanno che “giudicare” significa fondamentalmente “discernere”, azione possibile solo dopo un lungo tirocinio spirituale, soprattutto dopo esperienze anche penose in cui si sono sperimentate cadute per debolezza, inavvertenza, ignoranza e, purtroppo, presunzione, leggerezza ed egoismo infantile che, negli adulti, è molto difficile eradicare. Così scrive l’apostolo Paolo nella sua prima lettera ai Corinzi: “L’uomo naturale non comprende le cose dello Spirito di Dio. Esse sono follia per lui e non è capace di intenderle, perché se ne può giudicare solo per mezzo dello Spirito. L’uomo spirituale invece giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno.” (2.14,15).

Giudicare ogni cosa. Scrive Giovanni Diodati a commento di questo verso “È discernere tutto ciò che è della verità di Dio intorno alla sua salvezza, senza che la sua fede soggiaccia ad alcun giudizio umano, essendo fondata sopra la certissima testimonianza dello Spirito Santo”. È anche, a mio parere, quella capacità di filtrare attraverso l’ottica dello Spirito quegli avvenimenti e quelle persone che ci coinvolgono ogni giorno. L’altro giudizio, quello sul prossimo, se va oltre il “discernimento degli spiriti” o quegli interventi che le persone possono sempre chiedere per avere un parere spirituale da uomini di fede ed esperienza provate, è un sostituirsi a Dio, definito “giusto giudice”. Per giudicare occorre conoscere il cuore umano e quindi ciò che ha portato o porta una persona ad agire in un certo modo. E tornando ai versi di Paolo, possiamo vedere che il giudizio corretto è quello dell’uomo spirituale, mentre quello naturale, proprio perché le cose dello Spirito di Dio non le comprende, non può far altro che sbagliare, e quindi giudicare gli altri a proprio esclusivo danno. L’uomo “naturale” si ritiene giusto senza esserlo. Fa del male, ma si meraviglia e offende quando lo riceve a sua volta. Privo di vita al di là del battito cardiaco, non sa agire in una dimensione diversa né gli interessa perché crede che Dio non esista e si affida a una falsa scienza per argomentare l’assenza e l’inesistenza del Creatore e del Suo piano di salvezza.

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05.44 – LE SOLLECITUDINI ANSIOSE – seconda e ultima parte (Matteo 6.25-34)

05.45 – Le sollecitudini ansiose II (Matteo 6.25-34)

 

25Perciò io vi dico: non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito? 26Guardate gli uccelli del cielo: non seminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro? 27E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita? 28E per il vestito, perché vi preoccupate? Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano. 29Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. 30Ora, se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, non farà molto di più per voi, gente di poca fede? 31Non preoccupatevi dunque dicendo: «Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?». 32Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno. 33Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. 34Non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. A ciascun giorno basta la sua pena.

 

Credo, nello scorso episodio della nostra lettura dei Vangeli, di avere sufficientemente reso l’idea di ciò che significa rifiutare l’ansia derivante dalla preoccupazione costante per la nostra sopravvivenza: non si tratta di ricorrere alla “meditazione” intesa come pratica per estendere o controllare l’attività della mente, di scaricare tensioni irrisolte con l’attività fisica o fare rilassanti passeggiate nei boschi, ma di entrare in un ambito spirituale preciso, dominato dalla certezza e dalla consapevolezza dell’appartenenza a Dio in cui si crede e dal quale si dipende. Non sto parlando di uno “stato mentale” raggiunto, ma di un modo di vivere diverso che non ci si può autoimporre, ma si realizza come conseguenza di una pratica di vita, di un guardare all’esistenza in modo differente che esclude i mantra, le luci soffuse in una stanza per “fare atmosfera”, ma consiste in una camera e una porta chiusa: “Invece, quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà” (Matteo 6.3).

L’ansia, in un soggetto sano, è uno stato che emerge dal rimuginare continuo su un problema che, nella sua mente, tende a farsi dominante. Nostro Signore non affronta lo stato ansioso a livello medico ma, come già visto in altre circostanze, preventivo e andandone all’origine. La preoccupazione “per la vostra vita” non è qui riferita al mangiare e al vestire, ma include anche tutte le altre problematiche esattamente come il “sudore del volto” preannunciato ad Adamo, che va ben oltre a quello provocato dalla fatica per provvedere al sostentamento quotidiano dell’uomo. La preoccupazione sorge istintivamente in noi, è un meccanismo di allarme come la paura, comune a tutti gli animali, che spinge chi la prova a mettersi in salvo o a lottare: la preoccupazione è uno stato d’animo che, quando persiste, spiritualmente è un campanello d’allarme perché ci indica che il nostro sguardo verticale è minoritario rispetto a quello orizzontale. La preoccupazione, soprattutto nei tempi in cui viviamo, è un fatto naturale.

La terra. Già il fatto che ogni cosa sia soggetta alla forza gravitazionale testimonia di per sé che a lei siamo ancorati, corporalmente e mentalmente. Ogni istante siamo costretti a confrontarci con problemi di varia entità che vanno risolti, ogni giorno porta “la sua pena” cui è sensibile il trinomio cuore-occhi-mente, ma a ben guardare il sentimento della preoccupazione, pur naturale, è fuori luogo perché l’essere umano che crede nel Padre e nel Figlio ha in loro un formidabile punto di riferimento, conoscendo Lui in anticipo cosa stiamo per chiedergli e di cosa abbiamo bisogno. Ricordiamo le parole “Il Padre sa” e “Non valete forse voi più di loro?”.

Vorrei però spostare l’attenzione su un verso molto importante, e cioè “Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani”, pronunciate come sappiamo a degli ebrei che si ritenevano superiori agli altri popoli perché eletti da Dio. Esistevano cioè solo loro; gli altri erano – e restano tuttora – goym, plurale di goy cioè “popolo”, “nazione” che troviamo per la prima volta in Genesi 10.5: “Da costoro– i figli di Sem, Cam e Jafet – derivarono le genti disperse per le isole, nei loro territori, ciascuna secondo la propria lingua e secondo le loro famiglie, nelle rispettive nazioni”. Per quanto l’atteggiamento ebraico nei confronti delle altre etnie dipenda da un maggiore o minore integralismo, l’idea di base è che questi siano di per sé impuri per quanto si affermi che i giusti di tutte le nazioni abbiano un posto nel mondo a venire. Da un lato si dice “Non devi essere ebreo per trovare il favore negli occhi di Dio”, dall’altro il Talmud paragona chi non è ebreo all’asino.

Ciò che allora Gesù vuol dire è molto semplice: non è la tua origine che fa di te una persona grata a Dio, ma ciò che sei veramente dentro di te. E l’apostolo Pietro dovette avere una visione per capire che, come dirà poi in Atti 10.34, “Dio non ha riguardo per la qualità delle persone”, alludendo alla loro origine ebraica o non. I presenti al sermone sul monte, come detto più volte, avevano tutti un’infarinatura biblica, frequentavano la Sinagoga ascoltando gli insegnamenti dei vari maestri che si succedevano nel commentare i passi scelti, ma quando si trattava di affrontare i problemi, ecco che la preoccupazione diventava ben presto ansia e si rivelava così tutta la natura umana, identica a quella dei pagani cioè di quei popoli che, pur avendo una religione, andavano alla ricerca “di tutte queste cose”, cioè l’accumulare, l’arricchirsi, la sollecitudine ansiosa per ciò che avrebbero mangiato e di ciò di cui si sarebbero vestiti. E questo vale sotto l’aspetto fisico e psichico.

I Testimoni di Geova, per i quali vale il verso “Guai a voi, (…), che percorrete il mare e la terra per fare un solo proselito e, quando lo è divenuto, lo rendete degno della Geenna due volte più di voi” (Matteo 23.15), spesso mettono dei banchetti con opuscoli e libri nei punti di passaggio della gente e offrono pubblicazioni dedicate a come risolvere il problema dell’ansia, sapendo quanto sia importante per molti guarirne; ad essa si sostituisce la religione intesa come osservanza di precetti e pseudo conoscenza, del fare-non fare, totalmente inutile senza un cuore rinnovato da Cristo e dallo Spirito Santo. Al suo posto si instaura forse un senso di soddisfazione perché si crede in qualcosa, ma il pericolo di avere e rivolgersi a un amico immaginario rimanendo imbottigliati in uno stallo è reale e molto spesso così avviene. Aderire a Cristo è, prima che ubbidienza, esame e ricerca, confronto, ascolto, attesa e, soprattutto, una costante vigilanza su se stessi. Questo è ciò che Nostro Signore esorta a fare ai suoi uditori: non adagiarti sul fatto che fai parte del popolo eletto, ma guarda a te stesso, parti dal principio elementare che, se ragioni e ti comporti come un pagano, essere “mio” a nulla ti serve. Ecco perché dobbiamo tener sempre presente che, sottoposti come tutti a problemi e ai seri motivi di preoccupazione che il mondo e non solo ci danno, siamo chiamati a verificare il nostro comportamento e a valutarci prima di cadere nel comodo giudizio delle opere e dei pensieri altrui: “Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo? Come puoi dire al tuo fratello «Fratello, lascia che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio» mentre tu stesso non vedi la trave che è nel tuo? Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello” (Luca 6.41,42). Vedere bene, collegamento al trinomio visto tempo fa, significa fare proprio un lungo lavoro di perfezionamento sincero su se stessi, un esame continuo cui Gesù allude con l’imperativo “Vegliate, perché non sapete né il giorno, né l’ora”. Vediamo sempre qualcosa che non va negli altri, mai in noi. E qui viene in mente il comportamento di Giobbe che, pensando ai suoi figli, “offriva olocausti per ognuno di loro. Infatti pensava: «Forse i miei figli hanno peccato e hanno maledetto Dio nel loro cuore»” (Giobbe 1.5), segno che non trascurava nulla pur di tenersi unito al Dio che lo aveva benedetto fino ad allora.

C’è però un’ultima annotazione che riguarda un altro motivo per cui Gesù si espresse così a proposito delle preoccupazioni della vita: sapeva quanto potessero essere dominanti e andare a minare profondamente la fede e il rapporto con Lui. Per questo più avanti esporrà la parabola dei terreni su cui cade il buon seme: c’è la strada, il sassoso, quello su cui sono cresciuti i rovi e infine quello buono. Del seme che cade sul terreno tra i rovi leggiamo: “Quello che è seminato tra i rovi è colui che ascolta la Parola, ma la preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza soffocano la Parola ed essa non dà frutto” (Matteo 13.22). Attenzione alla pianta scelta da Nostro Signore: il rovo è infestante, si diffonde rapidamente e si eradica con difficoltà perché tagliarlo o bruciarlo non risolve il problema. Quando poi è presente in gran numero, finisce per aggredire e soffocare la vegetazione circostante. Questi sono gli effetti del rovo per la terra, questi sono gli effetti della “preoccupazione del mondo” e della “seduzione della ricchezza” per l’uomo.

C’è quindi chi ascolta il Vangelo, s’interessa, ma crede a modo suo, vale a dire comprende quanto sia necessaria una scelta di vita diversa da quella che ha avuto fino all’annuncio della Parola, ma non ce la fa ad alzarsi in volo perché rimane ancorato proprio ai due elementi contestati da Gesù nel nostro passo. La “Preoccupazione del mondo” è qualcosa che schiaccia perché l’idea della sopravvivenza, intesa come conseguimento di aspirazioni e desideri oltre il proprio sostentamento basilare, si fa dominante. La “Seduzione della ricchezza” ha poi riferimento all’attrazione viva e irresistibile che suscita in molti anche solo l’dea di possedere denaro e beni che in tal modo restano appunto sedotti, quindi ingannati. È il trionfo dell’apparenza. Ho conosciuto persone dare un valore esagerato ai loro averi e poi, giunta la malattia degli ultimi giorni, scoprire troppo tardi che ciò in cui avevano posto le loro speranze non li poteva accompagnare da nessuna parte, era lì, conservato immobile in qualche luogo e all’improvviso si era fatto enormemente lontano da loro, estraneo. E si sentivano persi e completamente soli. Ciò che era stato loro, improvvisamente li stava lasciando come la vita che non potevano più trattenere. Penso al momento finale, quello in cui Dio chiama ogni essere umano a render conto di come ha speso la propria vita: lì vengono tirate le somme, lì abbandoniamo tutto ciò che ci avrà accompagnato fino a quel momento.

Il fatto è che tutto si ricollega non tanto alla morte, passaggio inevitabile e obbligato, ma alla destinazione finale: se non si accetta e soprattutto non si comprende che la vita terrena è un passaggio, un periodo datoci per agire secondo il volere di Dio e non il nostro, ecco allora che ci si affida più o meno inconsapevolmente a quel paganesimo che, ora che il Vangelo è stato rivelato, non ha più ragione di esistere. E dobbiamo fare attenzione perché il mondo, la terra con tutte le sue sollecitudini, ci attira a sé come la forza di gravità che àncora ogni cosa.

L’ansia deriva dalla preoccupazione e dalla mente che, contrariamente a quello che pensiamo, non è controllabile nei suoi automatismi: il pensiero ossessivo e ansioso trova le sue origini dalla solitudine che abbiamo in determinate circostanze, ma di fatto il cristiano sa benissimo che, “solo” non lo è. È stato amato a tal punto che il Figlio stesso è sceso dai cieli, dov’era con il Padre, per farsi uomo e dare la sua vita per lui. Sono molti i cristiani che, pur appropriatisi di questo messaggio e aver fatto una professione di fede, vivono preoccupandosi del domani. Ma indipendentemente dal problema che può opprimerli, non possono consentire che divenga dominante a tal punto da interferire nel loro rapporto col Dio che ascolta e parla comunque: se questo accade, se cioè l’ansia diventa dominante, sono chiamati a chiedersi se la casa che hanno costruito sulla roccia non vada rinforzata, se non sia il caso di rivedere i calcoli fatti a suo tempo per la sua stabilità. La roccia, infatti, garantisce l’edificazione ottimale, ma chi porta i materiali, li sceglie e li assembla è sempre l’uomo, per quanto aiutato dello Spirito Santo che dev’essere messo nelle condizioni di agire.

Ecco allora che qui ritornano le parole di Gesù sui pagani che “di queste cose vanno in cerca”: se tu che sei cristiano ti ritieni superiore agli altri e li giudichi ritenendoli impuri e perduti, stai attento a quello che hai dentro, al tuo tesoro, ai tuoi occhi e al tuo cuore perché, se poi ti comporti come loro, rischi di trovarti in una posizione ancora peggiore. Certo, questo vale quando l’eccezione diventa un abitudine e tutta la vita è improntata su un continuo compromesso tra ciò in cui si dice di credere e ciò che realmente si fa, si pensa, si è. Così si fallisce nella testimonianza e si rischia di assumere quella temperatura che è definita “tiepida”. E leggiamo in Apocalisse 3.15: “Oh, fossi tu pur freddo o fervente! Così, perché sei tiepido e non sei né freddo, né fervente, io ti vomiterò dalla mia bocca”. Questo Gesù volle far capire ai suoi uditori, che si trovarono di fronte a princìpi e a verità che nessuno aveva mai rivelato prima di allora. Sappiamo che la gente che lo ascoltava “stupiva della sua dottrina”: finalmente potevano capire, i Suoi erano concetti semplici, quelli “nascosti ai sapienti” chiusi nei loro calcoli e nella loro cultura, enormemente lontani da quell’amore che ignoravano. Amen.

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05.43 – LE SOLLECITUDINI ANSIOSE – prima parte (Matteo 6.25-34)

05.43 – Le sollecitudini ansiose I (Matteo 6.25-34)

 

25Perciò io vi dico: non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito? 26Guardate gli uccelli del cielo: non seminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro? 27E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita? 28E per il vestito, perché vi preoccupate? Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano. 29Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. 30Ora, se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, non farà molto di più per voi, gente di poca fede? 31Non preoccupatevi dunque dicendo: «Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?». 32Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno. 33Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. 34Non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. A ciascun giorno basta la sua pena.

 

Abbiamo letto delle verità importanti che costituiscono l’applicazione pratica dei principi esposti da Gesù in precedenza: il cuore ha un suo tesoro e a lui pensa e in funzione di ciò che prova agisce (“Dove è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore”); l’occhio può essere puro o impuro e quindi ha una sua visione delle cose e della vita (“Se il tuo occhio è puro, tutto il tuo corpo sarà illuminato, ma se il tuo occhio è cattivo, tutto il tuo corpo sarà tenebroso”), infine lo stato mentale della persona, che si trova nell’impossibilità di “servire a due padroni” perché una sola è la condizione di appartenenza che determina il risultato delle azioni di ciascuno. Il “perciò” iniziale del verso 25, allora, è la conseguenza di tutti e tre gli elementi messi insieme. I versi di cui ci siamo occupati nelle ultime riflessioni, sono stati una premessa a questo discorso di Gesù sulle sollecitudini ansiose, temine che ho preso in prestito da Saulo di Tarso che, scrivendo ai Filippesi, dice “Non siate con ansietà solleciti di cosa alcuna, ma siano in ogni cosa le vostre richieste notificate a Dio, con preghiere, suppliche e ringraziamenti” (4.6). È infatti Lui che dispone della nostra vita.

Ansia, preoccupazioni, tensioni sono quelle che in un modo o nell’altro dominano la vita dell’uomo naturale, sono quelle che rientrano nel “sudore della tua fronte” anticipato da Dio ad Adamo quando gli spiegò a quale prezzo si sarebbe guadagnato “il pane”. E tutti noi sappiamo quanto sia importante il sostentamento visto nella “vostra vita”: mangiare, bere, essere in salute, vestire. Possiamo dire che, sicuramente, in questi quattro termini si riassume appunto la nostra esistenza, è la premessa indispensabile per realizzare, concretare i nostri progetti.

Anche qui ciascuno reagisce a seconda del cuore, dell’occhio e della mente di cui è dotato perché il mondo, retto dall’Avversario, fa di tutto per esasperare il concetto del vivere e qui è necessario aprire una parentesi importante che riguarda ciò che è veramente utile oppure no. Ricordo che da bambino un mio zio, volendo farmi riflettere su come spendevo la “paghetta” che mi davano i miei genitori, mi chiese se ciò che mi compravo mi serviva davvero e gli risposi di no. Le sue parole furono: “Vedi? Se tutti spendessimo per le cose che ci servono veramente, risparmieremmo molti soldi, ma poi non sapremmo cosa farcene”. Da queste semplici parole vediamo che alla base di tutto c’è un inganno totale che va oltre al semplice pubblicizzare un prodotto da vendere: perché questo sia desiderabile, occorre prima provocare uno stato mentale che sia sensibile al superfluo, creare un mito, una situazione che in realtà non abbia un perché. Così, i soldi messi da parte, “in più”, finiscono per essere spesi in beni che non hanno un motivo reale di essere posseduti: “dobbiamo” spostarci il più celermente possibile, “navigare” in rete veloci e magari ogni componente della famiglia deve avere in tablet, una televisione intelligente, essere connessi anche quando viaggiamo, camminiamo. Una strategia per non farci pensare, ottenere risposte automatiche, delle emorragie di tempo che impieghiamo freneticamente senza rendercene conto.

L’Avversario, che progredisce nelle sue strategie col tempo perché mira a creare un sistema che sia interamente al suo servizio, ha cambiato profondamente la mentalità della gente anche solo negli ultimi vent’anni. Cinema e televisione non propongono più modelli positivi, non fanno più pensare, non provocano reazioni interiori nobili, ma istintive. I protagonisti sono “buoni” o “cattivi”, ma non s’interrogano mai sulla loro vita, non intraprendono un percorso interiore, non ne sentono il bisogno, al limite vanno in analisi. Gli spot pubblicitari ti propongono un mondo irreale in cui, se c’è una famiglia, è perfetta. Uomini e donne sono sempre di successo e hanno case bellissime, un lavoro appagante, auto da sogno (che anche se utilitarie vengono rappresentate come all’avanguardia in fatto di tecnologia) vengono inquadrate in paesaggi non naturali, ma realizzati con software dedicati. Meraviglie che un tempo incantavano i bambini e ora attirano i cosiddetti “adulti”, quelli maturi in età, ma non nella mente. E quello che un tempo era un bimbo prepotente, diventa un adulto che uccide perché non è in grado di affrontare qualunque negazione. Abbiamo la realtà aumentata, giochi in 3D, smartphone perché devi essere sempre connesso e soprattutto “condividere” contenuti sempre più mediocri perché l’estetica e la ragione, frutto di uno sforzo intelligente, non devono più esistere. La musica come architettura ricercata di suoni è bandita, al suo posto esiste il ritmo primitivo ossessivamente ripetuto e, se vengono introdotti testi, sono di una banalità devastante. Confrontando ciò che propongono i media con quello che è il messaggio cristiano, vediamo quanto l’uno sia opposto all’altro, quanto la preoccupazione reale sia diversa da quella imposta a un pubblico ormai immaturo senza possibilità di riscatto. Potremmo continuare all’infinito.

Devi sapere che negli ultimi tempi verranno momenti difficili. Gli uomini saranno egoisti, amanti del denaro, vanitosi, orgogliosi, bestemmiatori, ribelli ai genitori, ingrati, senza religione, senza amore, sleali, maldicenti, intemperanti, accecati dall’orgoglio, attaccati ai piaceri più che a Dio, con la parvenza della pietà mentre ne hanno rinnegata la forza interiore” (2 Timoteo 3.1-5). Sono parole che abbiamo già ricordato.

Con le Sue parole Gesù indica una spazio mentale diverso e pone la domanda: “La vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito?”: apparentemente c’è una contraddizione, perché la vita senza nutrimento è impossibile e il corpo deve coprirsi, mancando a noi il pelo come gli animali. Ricordiamo però le parole di Isaia 33.14-16: “Chi di noi può abitare presso un fuoco divorante? Chi di noi può abitare tra fiamme perenni? Colui che cammina nella giustizia e parla con lealtà, che rifiuta un guadagno frutto di oppressione, scuote le mani per non prendere doni di corruzione, si tura le orecchie per non ascoltare proposte sanguinarie e chiude gli occhi per non essere attratto dal male: costui abiterà in alto, fortezze sulle rocce saranno il suo rifugio, gli sarà dato il pane, avrà l’acqua assicurata”. E penso al Gesù stremato dal digiuno dopo le tentazioni di Satana nel deserto, di cui è detto che “gli angeli lo servivano”. La vita terrena, così importante perché con lei e attraverso di lei ci esprimiamo, non è ritenuta marginale dal Padre nostro che è nei cieli perché “Avendo da nutrirci e da coprirci, saremo di ciò contenti” (1 Timoteo 6.8). La vita terrena, se vista come unico bene, può portare ad un impiego smodato del tempo che abbiamo: molti sono quelli che fanno del lavoro una ragione di vita e lo vedono come realizzazione personale o per sfuggire altre realtà che non sanno affrontare o di cui rinviano la soluzione. Salomone scrive in Salmo 127.2 “Invano vi alzate di buon mattino e tardi andate a riposare, voi che mangiate un pane di fatica: al suo prediletto Egli lo darà nel sonno”. Sono concetti che la società umana rifiuta.

La “vita” che “vale più del cibo” e il “corpo più del vestito” si riferisce proprio alla nostra stabilità psichica, all’anima che, se abitata da qualcuno diverso dallo Spirito, si perde: vita come il risultato del nostro presente e vita futura, eterna, come collocazione nel Regno di Dio a seconda di come avremo vissuto. E la vita cristiana è impossibile senza una progressiva rinuncia a se stessi, non s’impara in poco tempo, ma è il frutto di uno sperimentare continuo, di un ascolto attento, di una verifica di come e a cosa pensiamo. A volte è una chiamata, altre è un’illuminazione che porta ad agire. Ho sentito molti giovani chiedere cosa dovevano fare per servire il Signore, pensando a chissà quali rinunce oppure opere che li attendevano: nel campo cattolico romano viene detto loro di stare insieme, essere buoni, partecipare a raduni e funzioni; in quello evangelico li si indirizza ad iniziative di evangelizzazione, campi estivi di studio biblico o manifestazioni pubbliche in cui si canta e danno opuscoli, ma non viene mai spiegato loro quanto è importante ricercare le rivelazioni di Dio nel silenzio del proprio intimo, contemplare ed ampliare quella luce che il Signore ha già dato loro, la fedeltà nelle piccole cose. Purtroppo, viviamo in un mondo che non riesce a sopravvivere senza spettacolo e mancano uomini e donne con una vera esperienza cristiana e memoria del loro passato.

Gesù, nel suo discorso sulle sollecitudini, invita i suoi uditori ad un’azione molto semplice, cioè “guardare”, che significa non solo osservare qualcosa o qualcuno, ma anche “proporsi qualcosa come scopo o come modello”, che nel caso del passo in esame sono gli animali, cioè i “corvi”per il nutrimento del corpo, e i “gigli del campo”per il vestire. Non viene detto che “tanto il cibo lo trovano comunque”, ma che “Dio li nutre”. “Quanto più degli uccelli valete voi!”. “Voi” che in me avete creduto, credete o crederete.

Allo stesso modo il giglio, quello di Etiopia che abbondava in Galilea, dai colori intensi e con sfumature molto eleganti, nella sua pur brevissima vita, è vestito meglio di Salomone che faceva sfoggio di raffinatezza ed eleganza: “La regina di Saba, quando vide la sapienza di Salomone, la reggia che egli aveva costruito, i cibi della sua tavola, il modo ordinato di sedere dei suoi servi, il servizio dei suoi domestici e le loro vesti, gli olocausti che egli offriva nel tempio del Signore, rimase senza respiro” (2 Cronache 9.3). Facciamo caso alla reazione di questa donna: era una regina, per cui non certo una persona di poco conto e sicuramente aveva visto e conosciuto altri re ed altre corti oltre a quella, sontuosa, in cui di certo viveva, ma rimase senza respiro. Ebbene quel giglio, vestito da Dio padre come gli altri fiori del campo che non hanno cercato la loro eleganza con sforzo o l’intervento di uno stilista prezzolato, è superiore a tutto quello sfarzo che la lasciò senza parole.

Anche qui, come avvenuto con i corvi, il paragone con gli uomini fa riflettere: “Non farà molto di più per voi, gente di poca fede?”, anche se l’originale dice “non vestirà molto più voi”; sono parole che si riferiscono tanto al vestire nella sua quotidianità, quanto all’abito che indosseremo quando riceveremo il premio nella vita futura che ci attende, quando saremo un tutt’uno con Cristo. Un vestito di eternità, santità e giustizia. L’apostolo Pietro, che era presente quando Gesù pronunciò questo discorso, si ricordò del fiore del campo e, citando Isaia 40, scrisse che il cristiano è rigenerato “non da un seme corruttibile, ma incorruttibile, per mezzo della parola di Dio viva ed eterna. Perché ogni carne è come l’erba e tutta la sua gloria come un fiore del campo. L’erba inaridisce, i fiori cadono, ma la parola del Signore rimane in eterno. E questa è la parola del Vangelo che vi è stato annunciato”. Amen.

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05.42 – SERVIRE A DUE PADRONI (Matteo 6.24)

05.42 – I due padroni (Matteo 6.24)

24Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza.

Ricordando quanto abbiamo letto nei versi precedenti, abbiamo visto l’importanza che rivestono il “tesoro” del cuore e la vista spirituale, soggetta a difetti o ad ammalarsi come quella del corpo. Ora Gesù, con il verso che mediteremo, collega tra loro il cuore, cioè il sentimento che spinge ad agire, le motivazioni profonde che ci motivano, la vista, cioè il riscontro, gli impulsi che determinano le nostre scelte, e la mente, stabilendo per la prima volta un’impossibilità umana tutta interiore, cioè quella di  “servire Dio e la ricchezza”. Si tratta di una traduzione dall’originale aramaico “Mamon” che significa “ricchezza”, ma che troviamo anche nella mitologia caldeo-siriaca riferito a un demone. Sapevano gli uditori di Nostro Signore di quest’ultimo significato? Il testo lascerebbe pensare di sì, perché la ricchezza in senso generico è una condizione di vita che si ha, o si brama, e qui si allude a un padrone, a qualcosa che domina la mente: “Mamon” è una personificazione, qualcuno che rende schiavo chi ha a che fare con lui. A prescindere dal fatto che “Mammona” (come traducono i più) sia un personaggio che tenta o esista personificando l’amore smodato per il profitto e l’accumulare, è importante che nel nostro testo si parli di servire “due padroni”, cosa impossibile senza fare delle preferenze per l’uno o per l’altro, da cui deriverebbe un servizio difettoso per uno dei due. Se poi facciamo caso al verbo impiegato nel testo greco, “douléo”, vediamo che quel “servire” si riferisce a uno status giuridico tipico dello schiavo che appartiene interamente al suo padrone ed è a lui completamente sottoposto. Uno schiavo era a tempo pieno, non esisteva il parziale.

Ancora una volta dobbiamo chiederci cosa avessero pensato le persone riunite sul monte ad ascoltare Gesù sentendo quella frase. Erano ebrei e, anche se non possiamo escludere la presenza di qualche Fariseo o Dottore della legge, si trattava di persone che un’infarinatura dei testi sacri la possedevano per cui saranno sicuramente andati agli avvertimenti che Giosuè dette al popolo a Sichem dove, terminato l’esodo, si rinnovò l’alleanza con YHWH prima di entrare nella terra promessa. Leggiamo in Giosuè 24.14,15 “Ora, dunque, temete il Signore e servitelo con integrità e fedeltà. Eliminate gli dèi che i vostri padri hanno servito oltre il Fiume e in Egitto e servite il Signore. Se sembra male ai vostri occhi servire il Signore, sceglietevi oggi chi servire: se gli dèi che i vostri padri hanno servito oltre il Fiume oppure gli dèi degli Amorrei, nel cui territorio abitate. Quanto a me e alla mia casa, serviremo il Signore”. Abbiamo quindi questo verbo, “servire”, che fa riferimento ad un pensiero costante, a un compito, al punto di riferimento che precede l’azione. Anche qui possiamo connetterci al “tesoro del cuore” e al vedere bene o al vedere male: ogni uomo infatti è chiamato a fare una scelta e la fa anche inconsapevolmente, cercando il Signore o rifiutandolo. “Sceglietevi oggi chi servire”, sono parole particolari pronunciate davanti ad un popolo che sarebbe entrato nella terra promessa dopo quarant’anni di vita errabonda nel deserto e tutti coloro che avevano peccato di incredulità, idolatria e ribellione erano ormai morti per il giudizio che si era abbattuto su di loro: “Il Signore disse a Mosè ed Aaronne: Ho sentito gli israeliti lamentarsi continuamente di me! Questo popolo insopportabile, quando la finirà coi suoi lamenti? Di’ loro da parte mia: Io il Signore vivente, dichiaro che vi tratterò come avete detto sul mio conto. Morirete tutti in questo deserto. Tutti voi che siete stati registrati nel censimento, dall’età di vent’anni in su, morirete dal primo all’ultimo, perché vi siete lamentati di me. Giuro che non entrerete nella terra dove avevo promesso di farvi abitare.(…) Voi dicevate che i vostri bambini sarebbero stati fatti prigionieri dai nemici; invece io farò entrare proprio loro nella terra che voi avete disprezzato: essi la conosceranno” (Numeri 14.26-35). Ecco allora che quel “sceglietevi oggi chi servire” si riferiva ad una scelta consapevole dopo aver considerato l’esperienza comune dei loro padri.

Leggendo le parole di Giosuè, mi sono chiesto perché una persona debba essere necessariamente obbligata a scegliere tra Dio e ciò che non lo è, perché non si possa essere neutrali e quindi semplicemente liberi; la risposta immediata è stata: perché è impossibile in quanto l’essere umano è comunque sottoposto alle sue passioni e a queste reagisce dipendendo da esse, per cui in pratica ne è schiavo; loro sono il suo tesoro e lì è il suo cuore.

Se Matteo scrive “Nessuno può servire a due padroni”, Luca specifica meglio il soggetto, “Nessun servitore può servire a due padroni”, per cui implicitamente questo evangelista qualifica l’essere umano, che tanta opinione ha di sé perché constata ogni giorno di essere in grado di pensare e agire in modo apparentemente libero, come un servo a prescindere. Ogni uomo, nessuno escluso, è schiavo, servo delle proprie passioni, aspirazioni, desideri, attitudini, siano esse umanamente positive o negative, a meno che scelga di appartenere a Dio e quindi servirlo; senza un pensiero costante in tal senso, si collocherà in un dualismo impossibile.

L’apostolo Paolo nella sua lettera ai romani afferma “Non sapete che, se vi mettete a servizio di qualcuno per obbedirgli, siete schiavi di colui al quale obbedite, sia del peccato che porta alla morte, sia dell’obbedienza che conduce alla giustizia? Rendiamo grazie a Dio perché eravate schiavi del peccato, ma avete obbedito di cuore a quella forma di insegnamento alla quale siete stati affidati. Così, liberati dal peccato, siete stati resi schiavi della giustizia” (6.16-18). Già qui Paolo cita i due padroni, in questo caso non la ricchezza, ma il peccato inteso come condizione contrapposta alla santità di Dio. Obbedire al peccato significa proprio rifiutare la Sua presenza nella nostra vita. Il peccatore non è necessariamente l’omicida, il ladro o chi frequenta le prostitute o le osterie, ma chi lascia il Signore fuori dalla propria vita. Facendo ciò compie una libera scelta tra l’essere servo Suo o del peccato e quindi dell’Avversario. Non possiamo essere neutrali o “liberi” per il semplice fatto che siamo su un pianeta che è territorio dominato dal “principe di questo mondo” per cui, teoricamente, ogni uomo gli appartiene per nascita. Ecco perché il termine usato per indicare l’opera di Dio nei confronti chi crede in lui è “strappare”: il Signore Gesù Cristo “ha dato se stesso per i nostri peccati al fine di strapparci da questo mondo malvagio” (Galati 1.4), tradotto da altri con “secolo”.

Paolo nel verso che abbiamo letto nella lettera ai Romani parla comunque di un’obbedienza, “al peccato che porta alla morte” o all’ “obbedienza che conduce alla giustizia”. Scegliete chi volete servire. Attenzione al verbo, “servire”, non “seguire”.

Il peccato è allora una realtà nella quale tutti possono cadere accidentalmente, oppure una condizione che schiavizza coinvolgendo il cuore, la mente, gli occhi che restano chiusi alla luce dello Spirito, l’unica in grado ad illuminare la vita per davvero. Il peccato porta all’amore per il mondo, alla ricerca estenuante e continua della sopravvivenza, fisica o psichica poco importa. Il peccato porta al poter contare solo su se stessi in una continua successione di battaglie che possono essere vinte o perse, ma che conducono alla capitolazione definitiva. Giovanni, “il discepolo che Gesù amava”, scrive nella sua prima lettera “Non amate il mondo, né le cose del mondo. Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui; perché tutto quello che è nel mondo – la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita – non viene dal Padre, ma viene dal mondo. E il mondo passa con la sua concupiscenza, ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno” (2.15-17).

Ecco, le tre realtà citate da Giovanni relative al mondo, le possiamo considerare come le altrettante caratteristiche di Mamona: la prima, la “concupiscenza della carne” si riferisce a quanto ricerchiamo per soddisfare tanto il corpo quando la mente, entrambi sempre alla ricerca di saziare la propria fame e sete; la seconda, la “concupiscenza degli occhi” è quella che ho definito in una scorsa riflessione “la ricerca del bello” in tutte le sue forme. Il bello indubbiamente appaga, ma la concupiscenza degli occhi non si sazia mai e finisce per renderli ancora una volta ossessivamente dipendenti. La terza, la “superbia della vita”, è il naturale riassunto dell’atteggiamento di chi si crede libero, ma in realtà è soltanto un misero che si crede qualcuno. La superbia della vita si riassume in tre affermazioni: io sono, io posso, io voglio, guarda caso tutte in opposizione al concetto dell’essere schiavi, destinate a scontrarsi con parole che ogni credente conosce molto bene: “Tu sei polvere, e ritornerai polvere”. Non è un caso se proprio i tre verbi, essere, volere e potere, sono i più usati negli spot pubblicitari. Non è neppure un caso che su queste tre condizioni fece leva Satana tentando Eva per prima.

A questo punto la ricchezza, Mamona, è tutto quanto abbiamo visto finora messo assieme; un concentrato, una brodaglia impura con dentro un po’ di tutto di cui si nutre chi non ha fatto proprio l’amore della verità per essere salvato. Non è la condizione di chi è ricco in sé che ostacola l’incontro e la relazione con Dio, ma è quello che l’accompagna, vale a dire il volerla difendere, l’attaccarsi a lei con tutte le proprie energie. “A quelli che sono ricchi in questo mondo ordina di non essere orgogliosi, di non porre la speranza nell’instabilità delle ricchezze, ma in Dio, che tutto ci dà con abbondanza perché possiamo goderne” (1 Timoteo 6.17): queste parole non contengono una censura relativa alla condizione di chi possiede dei beni, ma la pongono nella giusta prospettiva, vale a dire non base da cui partire per impostare una vita nell’agio egoistico, ma strumento di ringraziamento e metodo come fu, ad esempio, per Giobbe che diceva “…io liberavo il povero che invocava aiuto e l’orfano che ne era privo. (…) al cuore della vedova infondevo gioia” (29.12,13). Le parole “tutto ci dà in abbondanza perché possiamo goderne”, poi, non esortano certo chi crede a desiderare una vita di stenti, ma a considerare ciò che abbiamo come un dono abbondante, termine che si riferisce alla condizione tanto materiale quanto spirituale, quindi a una dimensione. È con lo spirito che si valutano i doni di Dio, non con il metro del denaro o delle possibilità di soddisfazione dei sensi.

Il denaro, le ricchezze, “Mamona”, non è un dio da servire perché è in grado di menomare gravemente se non impedire il rapporto con quello vero. Troppe volte ho sentito affermare che il cristiano è definitivamente liberato dal peccato e quindi non può peccare perché amico di Dio e nuova creatura: questo significa relegare versi che hanno un’indubbia verità isolandoli dal contesto in cui sono stati scritti e soprattutto dare un’interpretazione univoca ai concetti espressi. In realtà troviamo in Colossesi 3.5-11 un invito preciso rivolto ai membri di quella Chiesa, quindi a noi: “Fate dunque morire ciò che appartiene alla terra: impurità, immoralità, passioni, desideri cattivi e quella cupidigia che è idolatria; a motivo di queste cose l’ira di Dio viene su coloro che gli disobbediscono.(…) vi siete svestiti dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova per una piena conoscenza, a immagine di Colui che lo ha creato”. E Giacomo 4.4 ricorda “Non sapete voi che l’amore per il mondo è nemico di Dio?”. Sono parole rivolte a cristiani convertiti, tese a ricordare loro che hanno uno scopo e un compito nel mondo, che è quello di essere “sale della terra” che abbiamo visto può perdere il suo sapore.

Ecco spiegato perché non possiamo servire due padroni: scelto Gesù Cristo, c’è un dovere da compiere, un “giogo leggero” che il vero cristiano ha preso su di sé rifiutando l’altro, quello dell’Avversario che illude e divora l’uomo a tal punto da perderlo. Giosuè ricordò, come abbiamo letto all’inizio, che se Israele avesse abbandonato il Signore per servire dèi stranieri, Lui stesso gli si sarebbe voltato contro e, dopo aver fatto loro del bene, li avrebbe annientati: “Voi non potete servire il Signore, perché è un Dio santo, e un Dio geloso; egli non perdonerà le vostre trasgressioni e i vostri peccati. Se abbandonerete il Signore e servirete dèi stranieri, egli vi si volterà contro e, dopo avervi fatto tanto bene, vi farà del male e vi annienterà”. Questo succederà a chiunque, posta la sua fede nelle ricchezze di questo mondo, avrà impostato la propria vita a inseguirle, accumularle, vivere per loro. In poche parole, servendo Mamona, un dio diverso. Così facendo avrà odiato il Dio d’amore che chiama, sempre. Amen.

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05.41 – L’OCCHIO, LAMPADA DEL CORPO (Matteo 6.22-23)

05.41 – L’occhio, lampada del corpo (Matteo 6.22-23)

 

22La lampada del corpo è l’occhio; perciò, se il tuo occhio è semplice, tutto il tuo corpo sarà luminoso; 23ma se il tuo occhio è cattivo, tutto il tuo corpo sarà tenebroso. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra!

 

Prima di questo pensiero sappiamo che Gesù disse “Dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore”, quindi: nessuno può fare a meno di continuare a pensare all’oggetto dei propri affetti, o interessi, a prescindere da quali essi siano. Ecco allora che la presenza del “tesoro” è il punto di partenza per una trattazione di argomenti che toccano l’umana condotta e il modo di pensare (i versi di cui ci occuperemo oggi), per poi arrivare allo stato di sudditanza nei confronti della ricchezza come miraggio conseguito sulla terra, o realizzato presso Dio. È da lì che, poi, ne consegue tutto l’atteggiamento nei confronti della vita terrena. Nostro Signore non fa qui della filosofia come potrebbe sembrare, ma dà dei principi appartenenti più all’analisi della persona umana che a un’osservazione distaccata dei comportamenti o al consigliare un atteggiamento nei confronti della vita perché “tanto tutto passa”: correlato ai versi che abbiamo letto e leggeremo è il principio che troviamo in Luca 6.45 “L’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male: la sua bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda”. Facciamo attenzione al testo: “dal cuore”indica la provenienza e sappiamo cosa significhi quest’organo per la Scrittura. Il “sovrabbonda”poi parla di ciò che è in eccesso, quindi quello che naturalmente ne esce come se fosse un recipiente colmo fino all’orlo che così trabocca. Certo tutto questo vale se l’individuo in questione non simula, ma possiamo dire che nessuno sfugge al principio in base al quale si tende sempre a parlare di ciò che abbiamo dentro, di ciò che occupa i nostri pensieri: “dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore”. Siamo ciò che ci abita e da cui siamo abitati. Sempre.

Ora Gesù parla dell’occhio in termini elementari stante il fatto che doveva farsi capire dai suoi uditori, per poi lasciare a loro il compito di trovare gli opportuni riferimenti. Si può dire che qui venga esposta una parabola elementare, che però implica verità molto profonde; la vista serve per riconoscere, scegliere, valutare, percorrere. Vediamo un pericolo, una persona cara, ammiriamo un panorama, un ambiente; ci sentiamo attratti da una bella persona. L’occhio e l’orecchio è scritto che non si stancano mai di assolvere al loro compito ed è quello che ci ha testimoniato il re Salomone nel suo scritto che abbiamo citato la volta scorsa: “Mi sono procurato cantori e cantatrici insieme con molte donne, delizie degli uomini.(…) Non ho negato ai miei occhi nulla di ciò che bramavano”. Pare che sia la vista il senso che le persone temono di perdere più di qualunque altro e se pensiamo che ai tempi di Gesù problemi oggi risolvibili come la miopia o presbiopia costituivano un serio problema, possiamo capire quanto facile fosse stato comprendere le implicazioni di un “occhio semplice” o “cattivo” (“puro” o “viziato” secondo altre traduzioni). Pensiamo poi alla cataratta, al glaucoma, al fatto che esporre gli occhi al sole del deserto portava molti alla cecità poiché i danni che le radiazioni solari possono provocare alla rétina sono in gran parte irreversibili.

Fino a questo punto, tanto per quello che è stato scritto quanto per ciò che ha detto Gesù, sono state fatte osservazioni abbastanza ovvie, valide per tutti, uomini e animali perché, se si parla di sopravvivenza, la vista è indispensabile e la frase “Se un cieco guida un altro cieco, entrambi cadranno nella fossa” (Matteo 15.14) ci mostra un aspetto purtroppo indiscutibile delle dinamiche terrene. Luca però, nel riportare le parole oggetto di riflessione, aggiunge una frase importante, cioè “bada dunque che la luce che è in te non sia tenebra. Se il tuo corpo è tutto luminoso senza avere alcuna parte nelle tenebre, tutto sarà luminoso come quando la lucerna ti illumina con il suo bagliore” (11.35,36).

Allora l’occhio sano, o puro, o luminoso a seconda delle traduzioni, non è riferito ad un organo che possiede dieci decimi. Allora, possiamo credere di essere nella luce e di vedere quando in realtà ci troviamo in una condizione opposta senza saperlo: “bada”, cioè “fai attenzione”, “cura”, “controlla”, “dedicati a”, non dare per scontato, stai attento perché ne va della tua vita perché, se ciascuno ha il suo tesoro, ciascuno ha la sua luce, ma una sola è quella che durerà in eterno, una sola è quella che ti può illuminare veramente.

E allora non possiamo che andare ad Adamo ed Eva, come già fatto altre volte perché tutto comincia da lì, in Genesi, che come sappiamo significa “origine”. La conseguenza dell’infrazione all’unico comandamento ricevuto fu “Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture” (3.7): non che prima non ci vedessero, ma l’apertura degli occhi significa che le loro frequenze ricettive si spostarono da quelle spirituali e perfette a quelle della carne. Si schiusero su realtà che prima non appartenevano loro. La nudità che vollero coprire non riguardò i loro organi genitali, ma la nudità spirituale, il loro essere indifesi a fronte della perdita della luce di Dio che li rivestiva. Provarono per la prima volta paura e quelle cinture di fico scoprirono subito che nulla potevano di fronte a quel sentimento di vergogna e paura che mai avevano provato fino ad allora. Se il fico avesse potuto proteggerli, Adamo non avrebbe detto “Ho avuto paura perché sono nudo e mi sono nascosto” (v.10), ma si sarebbe presentato liberamente a Lui come se nulla fosse. E questo ci parla del fatto che, per quanto possa fare, l’uomo non potrà mai essere accettato da Dio a meno che Lui stesso non lo chiami, non lo attiri a sé.

E così la creatura, responsabile del Giardino, che parlava con Lui senza che nessuna cosa si frapponesse tra loro, si sentì fuori posto, avvertì una distanza incommensurabile, non sapeva più come orientarsi: non vedeva come prima. Adamo aveva avuto tutto gratuitamente, non si sentiva nudo non perché ignorava di esserlo, ma perché tale non era, rivestito di santità e soprattutto di purezza a tal punto da formare un tutt’uno con l’ambiente in cui viveva e con suo progettista che, ricordiamo, si riposò il settimo giorno per contemplare il lavoro svolto. Ricordiamo le parole alla fine del sesto giorno: “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona”. Questa fu la Sua valutazione.

Ci ritroviamo quindi con l’occhio di Adamo impossibilitato a vedere, dopo la caduta, tutto ciò che prima poteva distinguere perché permeato della scienza del suo Creatore. Privato di questo senso così come aveva in origine, l’uomo ha così dovuto adeguarsi: Adamo vide la terra che avrebbe dovuto lavorare, quel suolo che gli avrebbe prodotto “spine e tribolazioni”, Eva il figlio Abele ucciso ed entrambi assistettero impotenti al dipanarsi della storia umana: sarebbero venuti altri omicidi, prevaricazioni, guerre, lotte di potere senza un perché reale proprio in conseguenza di quegli occhi schiusi alla condizione di peccato senza possibilità di appello se non – per alcuni – nella fede in quella promessa secondo la quale il serpente avrebbe avuto schiacciata la testa dalla “progenie della donna”. Adamo infatti tramandò alla sua posterità il racconto della sua caduta e alcuni di loro, saputo il destino finale del serpente, posero la loro fede in quelle parole. Da quando l’uomo iniziò a vivere sulla terra corrotta, iniziò così a scegliere in quale luce vivere, cioè se nella propria, o mettersi a cercare quella di Dio implorando la Sua assistenza, rivelazione, orientamento. E abbiamo tutti gli scritti dell’Antico Patto che lo dimostrano, che ci parlano di scelte oculate e scellerate, di vista illuminata oppure ottenebrata, di convinzioni ostinate che vengono demolite al tempo opportuno e di orientamenti chiaramente riconducibili ad un’illuminazione dall’alto. Caso più eclatante è quello dell’asina di Balaam di Numeri 22.

La vista. Se non è sana, ti fa vedere il mondo in modo diverso, senza occhiali ci si orienta con fatica, senza di essa si dipende purtroppo dagli altri. Si è, come dice Gesù, “nelle tenebre” anche se vedremo che si tratta di un’espressione che comprende due significati.

Ma per la visione spirituale delle cose, così connessa al tesoro del cuore? I ciechi guariti da Gesù dovettero ammettere un problema oggettivo, ma l’uomo che vuole risolvere l’ostacolo di una vista spirituale difettosa, come quei miracolati nei Vangeli, deve ammettere di essere nella loro stessa condizione, per quanto su un piano diverso. È un problema comune a tutti gli uomini che però dev’essere riconosciuto e a far questo sono in pochi perché occorre un atto di profonda umiltà: bisogna riconoscere di non essere in grado di orientarsi oppure, secondo un altro aspetto comunque connesso a questo, di avere sete: “Chiunque ha sete, venga a me e beva. Chi crede in me, come dice la scrittura, «fiumi d’acqua viva usciranno dal suo seno»” (Giovanni 7.37.38). Non è un invito rivolto a tutti, ma solo a chi riconosce due cose: di aver sete e che solo in Cristo può trovare la soddisfazione di questo bisogno. Allo stesso modo, è capire che non possediamo la vista spirituale che può spingerci a chiedere aiuto.

Vedere implica un’interpretazione e il mondo visto da un daltonico non è lo stesso che vede  una persona che tale non è e così avviene per chi ha altre patologie, per quanto non gravi. Personalmente posso dire di essere affetto da un problema alla vista per cui ho bisogno di portare gli occhiali; pur conducendo una vita autonoma ed essendo in grado di fare tutto quello che fanno gli altri, l’oculista mi disse che poche persone sarebbero in grado di vivere come me, vedendo quello che vedo. Mi sono molto meravigliato perché, anche senza l’ausilio delle lenti, sono in grado di spostarmi nello spazio senza problemi; la sua risposta fu che se fossi stato in grado di vedere perfettamente, avrei capito le sue parole. Devo quindi dedurre che io credo di vedere, ma in realtà vedo poco, o comunque non come una persona sana anche se il mondo è come lo interpreta il mio cervello che si basa sui segnali che i miei nervi ottici gli trasmettono. Credo di vedere, mi baso su quello che ho ma, a quanto mi dice quel medico, sbaglio. Secondo le parole che abbiamo letto, quindi, basandomi sulla vista in senso tecnico e umano, il mio corpo non è “tutto illuminato”, ma lo è in parte.

Rapportando tutto questo alla vita spirituale, le capacità di orientamento nell’essere umano possono essere del tutto assenti, o funzionare parzialmente e dare una visione non corretta della realtà: ci sono ciechi che fingono di vedere e guidano altri ciechi, c’è chi vede poco e si comporta come se non avesse problemi e potremmo paragonarlo a chi guida un veicolo senza occhiali quando dovrebbe indossarli. Nell’uomo, stando alle parole di Gesù che abbiamo esaminato fin qui, occhi, mente e cuore sono collegati per cui in un certo senso costituiscono la base della persona. Da notare il termine usato per l’occhio: a quello “cattivo”, tradotto da altri con “difettoso”, corrisponde un corpo “tenebroso”, aggettivo che può riferirsi alla completa assenza di luce, ma anche all’assenza di chiarezza e verità, alla torbidità morale. Il corpo “tenebroso”è quindi ridotto alla percezione oscura delle cose. Allora si può individuare la connessione con Efesi 4.18 in cui l’apostolo Paolo parla dei pagani “…accecati nella loro mente, estranei alla vita di Dio a causa dell’ignoranza che è in loro e della durezza del loro cuore. Così, diventati insensibili, si sono abbandonati alla dissolutezza e, insaziabili, commettono ogni sorta d’impurità”.

Al contrario, l’intervento di Gesù nella vita della persona la trasforma e la rende in grado di vedere, come testimoniato da quei ciechi guariti in più occasioni nei Vangeli.

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05.40 – NON FATEVI TESORI SULLA TERRA (Matteo 6.19-21)

05.40 –Non fatevi tesori sulla terra (Matteo 6.19-21)

“…19Non accumulate per voi tesori sulla terra, dove tarma e ruggine consumano e dove ladri scassìnano e rubano; 20accumulate invece per voi tesori in cielo, dove né tarma né ruggine consumano e dove ladri non scassìnano e non rubano. 21Perché, dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore.

In questo nostro percorso sulla lettura cronologia dei Vangeli nonostante i limiti, ho ritenuto opportuno riprendere dal verso 19 tralasciando quelli da 14 a 18 perché già affrontati col “Padre nostro”; leggiamo infatti: “Se voi perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche voi; ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe”). Abbiamo fatto lo stesso anche quando abbiamo trattato la vanità e l’ipocrisia come motore delle azioni religiose: “E quando digiunate, non diventate malinconici come gli ipocriti, che assumono un’aria disfatta per far vedere agli altri che digiunano. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Invece, quando tu digiuni, profùmati la testa e làvati il volto, perché la gente non veda che tu digiuni, ma solo il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che è nel segreto, ti ricompenserà” (vv.19-21).

Possiamo dire che, con i versi oggetto di meditazione, Nostro Signore torna agli esempi semplici, immediatamente comprensibili ai suoi uditori di allora come di oggi. In particolare, se la presenza dei ladri che scassinano e rubano è a prescindere dall’epoca, è il dettaglio della “tarma”e della “ruggine”a portarci ai tempi antichi e, allo stesso tempo, a darci un dettaglio importante: i “tesori sulla terra” di cui parla Gesù sono costituiti da tutto quanto è soggettivamente prezioso, che può essere riconosciuto in quel “per voi”, riferito alle esigenze e attitudini di ciascuno. Se accumulo qualcosa “per me”, significa che intendo mettere da parte per un futuro che non mi appartiene ciò che mi rappresenta, ciò a cui tengo e che non voglio condividere con altri. Accumulare richiede attenzione ed energie e chi lo fa mette in atto il suo progetto di soddisfazione personale. In ciò che ammassiamo “per noi” ci sono spesso le nostre aspettative future e, se il caso più comune e banale è l’accumulo di denaro, possiamo avere anche quello di libri, quadri, gioielli, orologi, francobolli, case, terreni, insomma tutto quanto mettiamo da parte per poi controllarlo, ammirarlo, sapere che esiste perché nostro. “La roba”, insomma. A volte, l’uomo tende a identificarsi in ciò che possiede a tal punto da vederlo come una propria creatura.

Le parole di Nostro Signore non intendono essere un invito alla povertà e a disprezzare il mettere da parte per il proprio futuro, ma sottolineare il controsenso tra il premunirsi eccessivamente per la propria vita terrena a scapito di quella futura. Leggiamo in 2 Corinti 12.14 “Non spetta ai figli mettere da parte per i genitori, ma ai genitori per i figli” e “Se poi uno non si prende cura dei suoi cari, soprattutto quelli della sua famiglia, costui ha rinnegato la fede ed è peggiore di un infedele” (1 Timoteo 5.8). Mettere da parte e risparmiare è una cosa, accumulare tesori “per noi” è un’altra, dipende dal valore che dà il cuore alle cose, se queste diventano o sono dominanti.

Gesù sul monte non si rivolge a persone particolarmente ricche o avide come quelle che incontreremo nelle parabole o in altre situazioni, ma a chi tra loro aveva il concetto dell’accumulare anche piccole cose senza escludere le grandi, come appunto testimoniato dalla “tarma”, che intaccava le vesti preziose che i ricchi tenevano sia per loro stessi, sia per far doni o per essere distribuite agli invitati di una loro festa. Pensiamo poi alla “ruggine”, dall’originale “bròsis” indicante quel consumo e perdita di peso che non intaccava l’oro o l’argento, ma le monete di bronzo comuni che, ammassate in quantità, consistevano senza dubbio quei “tesori” eventualmente ammassati dagli uditori del Signore. Siccome banche a quel tempo non esistevano; le monete venivano nascoste sotto terra o in punti particolari nelle case, ma si deterioravano o potevano essere rubate dai ladri, andando così perdute per il furto oppure decadevano in peso e valore.

Chi vorrebbe monete arrugginite? E ancora, chi passerebbe il tempo a togliere da loro la ruggine, data la quantità accumulata di monete? Ne uscirebbe un lavoro enorme, non retribuito, che andrebbe ad aggiungersi a quello già fatto per aver guadagnato quella somma, ora diventata inservibile.

Ecco allora che, con questo semplice esempio, Gesù vuole avvertire l’uomo che lo ascolta quanto non possa avere nulla di certo: la persona guadagna e mette da parte, ma non è detto che un giorno possa godere il frutto delle sue fatiche. La persona accumula per sé presumendo di assaporare un giorno il risultato dei suoi sforzi, ma può perdere ogni cosa; pensiamo alle tragedie che si verificano anche oggi, in cui persone che hanno investito i risparmi di una vita, o la liquidazione, si sono ritrovate senza nulla perché truffati o semplicemente perché le banche che avrebbero dovuto tutelarli sono fallite. Pensiamo ai terremoti, agli uragani o alle inondazioni che, di colpo, cancellano e portano via in un attimo ciò che le persone hanno costruito o realizzato con fatica.

Ebbene Gesù esorta ancora una volta i suoi uditori ad alzare lo sguardo, a cercare di cambiare frequenza ricettiva, ad andare oltre perché ai tesori che si possono sempre perdere si contrappongono quelli messi da parte nel cielo, che la perfetta contabilità di Dio ripone con interessi inossidabili. E qui ci ritroviamo ancora una volta di fronte ai baratri che si frappongono tra ciò che è terreno e spirituale come rileviamo nei due “accumulate per voi” del testo: chi lo fa per i “tesori sulla terra” avrà corruzione e perdita come risultato, chi lo fa per quelli in cielo non solo ritroverà tutto quanto che avrà messo da parte, ma lo vedrà moltiplicato secondo le promesse di Gesù ai suoi quando parlò loro del “premio” e delle “corone” di giustizia, gloria e vita.

C’è però una precisazione fondamentale, e cioè che Gesù ancora una volta pone l’accento sul cuore: a nulla serve abbandonare la volontà dell’accumulare i tesori se il esso non è rinnovato, se non acquisisce, se non assimila il principio dell’aderire a Dio con tutto se stesso rifiutando l’inganno satanico nelle ricchezze di questo mondo: viceversa, nulla cambierà, si correrebbe il rischio di cadere nella religiosità, vale a dire di abbandonare qualcosa per uno o più precetti astratti per poi ritrovarsi più vuoti di prima ed essere costretti a fingere davanti a se stessi e agli altri per sopravvivere. Scrive l’apostolo Paolo: “Quelli che invece vogliono arricchirsi, cadono nella tentazione, nell’inganno di molti desideri insensati e dannosi, che fanno affogare gli uomini nella rovina e nella perdizione. L’avidità del denaro infatti è la radice di tutti i mali; presi da questo desiderio, alcuni hanno deviato dalla fede e si sono procurati molti tormenti” (1 Timoteo 6.9,10). Rileviamo qui alcune parole significative che si pongono in antitesi alla libertà nella quale viene posta la persona che fa proprio il Vangelo: “inganno”, “insensato”, “dannoso”, “affogare”, “rovina”, “perdizione” sono termini che non lasciano scampo; soprattutto è la presenza del desiderio insensato e dannoso che fa riflettere perché porta direttamente alla fine, alla nostra essenza mortale. Siamo esseri che, per quanto intelligenti e in grado di progettare, abbiamo un termine che non conosciamo e che Satana ci tiene nascosto a livello di idea, di concetto. L’uomo infatti è convinto di avere un domani, sempre.

Ricordiamo le parole “Sì, sono un soffio i figli di Adamo, una menzogna tutti i figli degli uomini: tutti insieme, posti sulla bilancia, sono più lievi di un soffio” (Salmo 62.10) e Proverbi 23.4,5 “Non affannarti per accumulare ricchezze, sii intelligente e rinuncia. Su di esse volano i tuoi occhi, ma già non ci sono più: perché mettono ali come aquila e volano verso il cielo”. Ecco allora che i tesori, anziché parlare di potenza, di posizione altolocata e sotto certi aspetti intoccabilità nel contesto umano, ne attestano la fragilità: in opposizione alla gloria terrena, scrive il salmista “Fammi conoscere, Signore, la mia fine, quale sia la misura dei miei giorni, e saprò quanto fragile io sono. Ecco, di pochi palmi hai fatto i miei giorni, è un nulla per te la durata della mia vita. Sì è solo un soffio ogni uomo che vive. Sì, è come un soffio chi si affanna, accumula e non sa chi raccolga”. Sono versi che ciascuno può meditare come meglio crede, tenendo presente che a nulla serve pensare che, essendo la vita breve, è meglio viverla nel migliore dei modi: questo sarebbe un’idea valida a condizione che questa fosse veramente una sola, ma come affrontare l’altra, che non potrà esistere se quella sulla terra si sarà basata sul consumo della stessa e se nulla si sarà fatto per accumulare i “tesori nel cielo” di cui ha parlato Nostro Signore? Si tratta di un tema estremamente serio: ho conosciuto molte persone non credenti che, in salute, accettavano serenamente l’idea della morte, ma piangevano ed erano terrorizzati nel momento in cui credevano si avvicinasse. O si avvicinava per davvero. E nel lavoro che svolgevo un tempo ne ho visti tanti.

Salomone, figlio di Davide, uomo di cui troviamo scritto molto nella Bibbia, scrisse fra gli altri il libro dell’Ecclesiaste, o Qoèlet, in cui riversò la sua esperienza particolare di uomo. Leggiamo alcune sue parole 2.3-11: “Ho voluto fare un’esperienza– che come re cui nulla era precluso poteva concedersi. Salomone cioè volle provare, diremmo oggi, “qualcosa di diverso” –:allietare il mio corpo con il vino e così afferrare la follia, pur dedicandomi con la mente alla sapienza”. La sua ricerca si volse dunque alla soddisfazione della sua persona, sperava di trovare delle alternative alla gestione responsabile del suo rapporto con Dio che lo aveva onorato consentendogli di edificargli il Tempio oltre che colmarlo di ricchezze proporzionali alla sua saggezza di cui, alla fine, io sospetto non sapeva cosa farsene perché venutegli a noia. Infatti l’autore del testo continua e scrive “Volevo scoprire se c’è qualche bene per gli uomini che essi possono realizzare sotto il cielo durante i pochi giorni della loro vita”. Volle cioè rendersi indipendente da quello che la sapienza di Dio già gli aveva rivelato e toccare con mano. Notare l’espressione “i pochi giorni”: solo chi è avanti negli anni e si volta indietro scopre che il suo tempo è passato come un soffio. I giovani, al limite, sospettano che sia così, se sono in grado di guardare al loro debole passato e un delirio di onnipotenza non s’impossessa di loro o l’inesperienza non si fa dogma.

Per far capire al lettore chi sia stato e cos’abbia realizzato, ecco che Salomone si presenta: “Ho intrapreso grandi opere, mi sono fabbricato case, mi sono piantato vigneti. Mi sono fatto parchi e giardini e vi ho piantato alberi da frutto di ogni specie; mi sono fatto vasche per irrigare con l’acqua quelle piantagioni in crescita”. Quest’uomo quindi ebbe la possibilità di contemplare il risultato delle proprie fatiche, che non si limitarono alla realizzazione di grandi opere: “Ho acquistato schiavi e schiave e altri ne ho avuti nati in casa; ho posseduto anche armenti e greggi in gran numero, più di tutti i miei predecessori in Gerusalemme. Ho accumulato per me– ecco l’ “accumulare per voi” di cui Gesù parla – anche argento e oro, ricchezze di re e provincie. Mi sono procurato cantori e cantatrici, insieme con molte donne, delizie degli uomini. Sono divenuto più ricco e potente di tutti i miei predecessori a Gerusalemme, pur conservando la mia sapienza”. La ricerca di Salomone fu quindi “a tutto tondo”, senza tralasciare nulla, la sua fu una ricerca del piacere secondo la carne e sappiamo che questa comportò il traviamento del suo essere. Prosegue confessando “Non ho negato ai miei occhi nulla di ciò che bramavano, né ho rifiutato alcuna soddisfazione al mio cuore, che godeva di ogni mia fatica: questa è stata la mia parte che ho ricavato da tutte le mie fatiche”. Salomone potrebbe essere considerato l’equivalente degli uomini e donne che vengono citati ogni anno dalla rivista “Forbes” che pubblica i nomi delle persone più ricche del mondo in termini di miliardi di dollari USA.

Ebbene, alla fine, è scritto nel nostro testo: “Ho considerato tutte le opere fatte dalle mie mani e tutta la fatica che avevo affrontato per realizzarle. Ed ecco, tutto è vanità e un correre dietro al vento. Non c’è alcun guadagno sotto il sole”. Perché? Perché se tutto si basasse sulla soddisfazione personale non resterebbe altro che un terribile, arido deserto che ci sforzeremmo di vedere fiorito.

Io ho visto come vivono i ricchi. Pur non appartenendo al loro ambiente, da giovane sono stato ammesso alla loro cerchia, forse perché mi ritenevano simpatico oppure li incuriosivo in quanto diverso da loro pur non essendo di condizione sociale umile. Anche la vita del ricco è fatta di piccole cose, esattamente come quella del povero. A parte la preoccupazione di come spendere i propri soldi, nulla cambia e ciò che può apparire attraente per chi non ha le loro possibilità economiche, per loro è la norma per cui vivere un’estate su una barca del costo di centinaia di milioni equivale ad uscire in mare con un canotto per un ragioniere di banca. Avere molte ville in giro per l’Italia o il mondo significa spesso dimorarvi per qualche tempo e non sapere cosa fare ed escogitare stratagemmi per non annoiarsi, vivendo di quello che offre un giorno che anche per loro porta la sua pena. Ogni istante sono costretti ad affidarsi al presente, alla carne, alla terra.

Eppure, ciascuno ha il suo tesoro cui rimane attaccato perché altrimenti non saprebbe come vivere. Gesù però dice “dove è il tuo tesoro, qui sarà il tuo cuore”. È un invito a considerare la propria condizione di vita, la propria prospettiva perché sta a noi scegliere il terreno sul quale costruire. Abbiamo una vita da vivere sulla terra e siamo chiamati a gestirla con accortezza e non certo da incoscienti, il che comprende tanto la dissolutezza quanto il misticismo inconcludente, tenendo presente che “(Dio Padre) ci ha rigenerati per un’eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce. Essa è conservata nei cieli per voi” (1 Pietro 1.4). Credo che i veri cristiani siano invitati a considerare se si identificano o meno in queste parole: “Chi avrò per me nel cielo? Con te non desidero nulla sulla terra. Vengono meno la mia carne e il mio cuore; ma Dio è roccia del mio cuore, mia parte per sempre” (Salmo 72.25,26). Se manca l’identificazione in questo passo, occorre che si lasci agire lo Spirito Santo e procedere ad una profonda rivisitazione del proprio stato.

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05.39 – PADRE NOSTRO IX/IX (Matteo 6.13)

05.39 – Padre nostro IX (Matteo 6.13)

 

“…13e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male. Perché tuo è il regno, la potenza e la gloria nei secoli. Amen.”

La volta scorsa abbiamo cercato di dare uno sguardo sui Cherubini in quanto esseri spirituali la cui presenza e ruolo è connessa al regnare di Dio, alla Sua realtà che l’uomo naturale, come scrive l’apostolo Paolo, “non conosce e non può comprendere” al contrario di tutto ciò che riguarda la terra nella sua realtà e manifestazioni: capire i suoi fenomeni è questione di tempo, di spazio, conoscenza e studio, ma con così per le cose spirituali, impenetrabili salvo una rilevazione dello Spirito Santo.

Il Regno, però, è una condizione, un’appartenenza, richiede un possesso diottrico di cui siamo stati privati e che solo lo Spirito può metterci in condizione di percepire. È scritto che “…noi conosciamo in parte e in parte profetizziamo; ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è è imperfetto scomparirà.(…)Adesso vediamo in modo confuso, come in uno specchio, ma allora vedremo faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come io sono conosciuto” (1 Corinti 13.9-12). Abbiamo qui la descrizione della limitazione del vivere nella carne rapportata alla conoscenza che verrà data una volta liberi da essa, avuta pienamente la cittadinanza del Regno che, pur avendola già, non abbiamo ancora acquisito in modo ufficiale; il credente di oggi infatti ha il passaporto per entrarvi, ma è in viaggio verso la meta.

Tornando ed espandendo un poco l’argomento affrontato nelle riflessioni precedenti, il Cherubino è connesso alla presenza di Dio ed è per questo che lo troviamo in quattro luoghi: abbiamo visto che in Eden prima del peccato ne è citato uno, Lucifero, il più importante di loro, coperto di pietre preziose e avente una funzione protettiva. Da cosa? Mi sono chiesto se le attenzioni di questo essere non fossero rivolte all’anello più debole della catena, l’uomo, che, creato libero, avrebbe potuto cibarsi del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, cosa che forse avvenne proprio quando, per il piano scellerato di volersi fare uguale a Dio, cessò di assisterlo per farsi strumento della sua seduzione. Certo i nostri progenitori peccarono per scelta, dimostrando di non fidarsi di quanto aveva detto loro il Creatore, ma in loro fu instillata subdolamente l’intenzione di diventare come Lui, che fossero stati ingannati, cosa possibile solo se coincidente col piano distruttivo del tentatore creato, come Cherubino, prima di loro.

Il secondo luogo in cui troviamo questi esseri è fuori del giardino, posti a protezione della via per l’albero della vita, “A oriente del giardino di Eden” (Genesi 3.23), cioè là dove il sole sorge, posizione che ci parla di salvaguardia dalla “luce” della conoscenza umana che a tutto vorrebbe pervenire e tutto vorrebbe investigare.

Abbiamo poi trovato i Cherubini scolpiti sul coperchio dell’arca in un posizione che denota protezione e al tempo stesso contemplazione di un mistero perché le creature del regno spirituale, se hanno una visione perfetta del loro ruolo e dimensione, trovano difficile comprendere i meccanismi dei rapporti di Dio con l’uomo e i suoi interventi per la sua salvezza.

La totalità del rapporto fra YHWH e i Cherubini la troviamo poi nel Luogo Santissimo, altrimenti detto “Santo dei Santi” all’interno del quale nessun uomo poteva entrare salvo il Sommo Sacerdote una volta all’anno. Leggiamo in 2 Cronache 3.7-14 che Salomone “Rivestì d’oro la navata, cioè le travi, le soglie, le pareti e le porte; sulle pareti scolpì cherubini. Costruì la cella del Santo dei santi, lunga, nel senso della larghezza della navata, venti cubiti e larga venti cubiti. La rivestì di oro fino, impiegandone seicento talenti. Il peso dei chiodi era di cinquanta sicli d’oro; anche i piani di sopra rivestì d’oro. Nella cella del Santo dei santi eresse due cherubini, lavoro di scultura e li rivestì d’oro. Le ali dei cherubini erano lunghe venti cubiti. Un’ala del primo cherubino, lunga cinque cubiti, toccava la parete della cella; l’altra, lunga cinque cubiti, toccava l’ala del secondo cherubino. Un’ala del secondo cherubino, di cinque cubiti, toccava la parete della cella; l’altra, di cinque cubiti, toccava l’ala del primo cherubino. Queste ali dei cherubini, spiegate, misuravano venti cubiti; essi stavano in piedi, voltati verso l’interno. Salomone fece la cortina di stoffa di violetto, di porpora, di cremisi e di bisso; sopra vi fece ricamare cherubini”. La loro presenza era quindi ovunque e, dalle misure che troviamo nel testo, occupavano tutta l’area della stanza. Le loro ali andavano a toccare le quattro le pareti. I Cherubini, allora, erano assolutamente connessi alla presenza di Dio che figurativamente dimorava in quel luogo a prescindere dalla presenza umana. Eppure, nonostante la loro potenza e funzione, è scritto che il signore “siede” su di loro (Salmo 80.1 – 99.1).

Quarto luogo in cui i Cherubini agiscono è la mobilità – immobilità della Corte Celeste nell’attesa che tutto si compia. Ezechiele, che li vide, li descrisse come riuscì, raffigurandoli simbolicamente: “Muovendosi, potevano andare nelle quattro direzioni senza voltarsi, perché si muovevano verso il lato dove era rivolta la testa, senza voltarsi durante il movimento. Tutto il loro corpo, il dorso, le mani, le ali e le ruote erano pieni di occhi tutt’intorno; ognuno dei quattro aveva la propria ruota. Io sentii che le ruote venivano chiamate «Turbine». Ogni cherubino aveva quattro facce: la prima quella di uomo, la seconda quella di bue, la terza quella di leone e la quarta quella di aquila. (…). Quando i cherubini si muovevano, anche le ruote avanzavano al loro fianco: quando i cherubini spiegavano le ali per sollevarsi da terra, le ruote non si allontanavano dal loro fianco; quando si fermavano, anche le ruote si fermavano; quando si alzavano, anche le ruote si alzavano con loro perché lo spirito di quegli esseri era in loro. La gloria del Signore uscì dalla soglia del tempio e si fermò sui cherubini. I cherubini spiegarono le ali e si sollevarono da terra sotto i miei occhi; anche le ruote si alzarono con loro e si fermarono all’ingresso della porta orientale del tempio, mentre la gloria del Dio d’Israele era in alto su di loro” (Ezechiele 10.11-19).

Guardando brevemente il testo, il Cherubino ha occhi ovunque a denotare la sua visione perfetta del micro e del macro. Ha poi quattro facce, circa le quali possiamo fare questi collegamenti: l’uomo è l’unica tra le creature a possedere intelligenza, il bue tra gli animali addomesticati è il più instancabile, il leone tra le fiere è il più regale e potente mentre l’aquila, fra gli uccelli, è quella che ha il volo più perfetto e la vista migliore. I maestri ebrei aggiungono “tutti questi hanno ricevuto il dominio e grandezza gli è stata data, eppure sono fermi al di sotto del carro dell’Iddio Santo”. Questi, grazie alle loro facce, non perdono tempo a voltarsi, ma si spostano usando le ruote o le ali a sottolineare il fatto che sono in grado di agire sulla terra e in cielo, nelle due regioni, o nei due regni distinti, che si sono venuti a creare dopo il peccato dei nostri progenitori. Ricordiamo sempre la loro funzione racchiusa nella radice stessa del termine kavar che implica una rete e quindi una protezione. Diversi sono i Serafini, descritti nei capitoli 4 e 5 dell’Apocalisse che diversi commentatori, anche antichi, hanno voluto identificare i quattro Vangeli.

Sappiamo che i regni sono quindi due, quello sulla terra, retto dal “Principe di questo mondo”, cioè dall’Avversario, e quello che è già preparato, ma non si è ancora manifestato nella sua potenza e gloria, quella della Gerusalemme nuova che scende dal cielo “come una sposa adorna per il suo sposo” (Apocalisse 21.2). Lì è scritto che “Non vi sarà più maledizione. Nella città vi sarà il trono di Dio e dell’Agnello: i suoi servi lo adoreranno; vedranno il suo volto e porteranno il suo nome sulla fronte. Non vi sarà più notte e non avranno più bisogno di luce di lampada né di luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà. E regneranno nei secoli dei secoli” (33.3-5).

Il regno della terra realizzato dall’Avversario ebbe come motore l’orgoglio, l’invidia e la volontà di distruggere (le stesse ragioni che portarono Caino ad uccidere il fratello), quello di Dio Padre ebbe all’inizio un ordine, “Sia la luce”, che solo Lui poteva dare. Credo ci sia differenza. “Tuo è il Regno” è un riconoscimento che contiene la certezza che sia l’unico che possa vincere quello fondato sul non senso, sull’apparenza e l’illusione, sul contrario del bene. Tutto cominciò da lì: ascoltando l’Avversario, l’uomo scoprì l’inganno quando era troppo tardi esattamente come accade oggi, quando le basi sulle cui ha costruito la sua vita, senza Cristo, crollano.

A volte ci si dimentica che il Regno implicherà il cambiamento della nostra fisionomia e corpo che avverrà con quel “batter d’occhio” quando “tutti saremo trasformati” (1 Corinti 15.51,52): “È infatti necessario– per entrare nel Regno – che questo corpo corruttibile si vesta d’incorruttibilità e questo corpo mortale si vesta d’immortalità. Si compirà la parola della Scrittura: «La morte è stata inghiottita nella vittoria. Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?»” (54,55). È l’anticipazione del cambiamento che ci attende perché, come disse Gesù, rispondendo ai Sadducei, “Quando risusciteranno dai morti non prenderanno né moglie né marito, ma saranno come angeli nei cieli”(Marco 12.25), vale a dire non procreeranno, non sarà necessario perché si sarà completato il numero degli eletti “prima della fondazione del mondo” (Efesi 1.4)

“Potenza”e “Gloria”sono altri attributi che vengono dati al Padre, complementari al Regno che non sarà mai distrutto: stanno a ricordare ancora una volta la differenza che intercorre tra quella umana e quella divina, la prima illusoria e la seconda reale che mai come in questo caso sembrano essere un controsenso. Siamo abituati a stupirci di fronte alle grandi opere che i nostri simili fanno e quando si parla di “potenza” è facile associarla a quella militare che garantisce la supremazia di un popolo su un altro, ma ci si dimentica che sarà solo alla fine dei tempi le due glorie e le due potenze verranno messe a confronto. La storia ci insegna che l’uomo si è sempre illuso e si è posto in contrasto con Dio: lo ha fatto individualmente (Caino) e collettivamente (la torre di Babele) volendo fare affidamento sulle sue sole forze e sull’ingegno che gli è stato dato, ma ha sempre perso. Nonostante questo, sviluppa scelleratamente il progetto e la realizzazione di quella “Babilonia la grande”, anch’essa destinata a cadere come descritto in Apocalisse ai capitoli 17 e 18. Eppure, nonostante l’adorazione che le avranno dato i popoli, “…quanto ha speso per la sua gloria e il suo lusso, tanto restituitele in tormento e afflizione. Perché diceva in cuor suo «Seggo come regina, vedova non sono e lutto non vedrò». Per questo, in un solo giorno, verranno i suoi flagelli: morte, lutto e fame. Sarà bruciata dal fuoco, perché potente Signore è Dio che l’ha condannata” (18.7,8).

E il “Padre nostro” si conclude con l’Amen, derivato da un verbo ebraico che significa “essere fermo, sicuro, fedele”, che costituisce un’attestazione di verità spirituale e non viene mai pronunciata alla leggera. E così facciamo, nell’attesa che il Regno, la potenza e la gloria di Dio si manifestino. Amen.

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05.38 – PADRE NOSTRO VIII (Matteo 6.13)

05.38 – Padre nostro VIII (Matteo 6.13)

 

“…13e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male. Perché tuo è il regno, la potenza e la gloria nei secoli. Amen.”

Come già preannunciato in un altro incontro, la parte finale del verso 13 non compare in tutte le traduzioni ed è ritenuta da molti un inserto, per così dire, rituale o “liturgico”. Credo però che così facendo si snaturi in parte il senso di questa preghiera perché qui si dichiara la ragione, il perché le richieste precedenti vengano rivolte al Padre: a Lui e a nessun altro appartengono i tre elementi, il regno, la potenzae la gloria nei secolicitati da Gesù. La prima parola da considerare è infatti il “perché”, traducibile con “poiché”, “siccome”, “in quanto”, concetto che ci richiama all’unicità del Padre che ascolta e provvede al quale vanno indirizzate le nostre preghiere. La conclusione del “Padre nostro” è allora una dossologia importante perché costituisce una confessione di appartenenza, è la parte finale di un Credo che trova nell’ “Amen” finale, suo quarto elemento, la nostra firma.

Abbiamo cercato di esaminare il concetto di “Regno” quando abbiamo affrontato le parole “Venga il tuo Regno”, ma il questo concetto è immenso per significati e applicazioni: come parlare del regno di Dio, come presentarlo, definirlo? Qualunque sua esposizione risulterebbe limitata perché noi siamo tali e Lui no. È il Suo progetto di comunione e condivisione con l’uomo e, per quanto argomento su cui torneremo molte altre volte, non potremo far altro che affrontarlo in modo riduttivo proprio perché il Regno non è qualcosa che è stato o che sarà, ma una realtà che esiste ed è legata indissolubilmente allo suo essere di Dio. Il Regno è Lui stesso, come noi siamo Lui in una trasformazione costante in vista di quella piena che avremo. È un progetto destinato a realizzarsi, che si può intravedere leggendo il Pentateuco e i libri storici, ma che fu visto come reale ed esistente dai profeti e fu descritto dall’apostolo Giovanni nell’Apocalisse in momenti di attesa e di compimento, per non parlare delle notizie che Gesù diede ai suoi che tuttavia non recepirono perché allora non ne erano in grado. Dobbiamo sempre tenere presente che gli argomenti della Scrittura possono essere visti e spiegati solo in parte e non può esservi nessuno che può avere la pretesa di esaurirne un solo argomento, altrimenti non sarebbe Parola divina e sappiamo che, quando alcuni uomini di Dio si trovarono di fronte alla Sua vastità, non poterono fare altro che soccombere di fronte ad essa e spesso non riuscirono a parlarne in termini umani. Alcuni di loro, come Paolo di Tarso, definirono impronunciabili le parole che ascoltarono e altri, non riuscendo ad esporre le loro visioni, ricorsero a una simbologia tutta particolare confidando che questa fosse recepita dai loro lettori e interpreti.

Sono assolutamente convinto del fatto che, quando riconosciamo a Dio Padre la legittima detenzione del Regno, non possiamo che rifarci, anche e non solo, a quel progetto che iniziò, alla presenza e con la partecipazione del Verbo, con le parole “Sia la luce”. Tutte le sei ere che caratterizzarono la creazione, infatti, non ebbero lo scopo di manifestare la “bravura” di Dio come costruttore in senso autocelebrativo, ma in vista di quella creatura luminosa, Adamo, che con Eva avrebbe dovuto popolare il territorio santo e circondato dai quattro fiumi che prendeva il nome di Eden, cioè “delizia”. Lì l’uomo, così diverso da noi, creato libero, sceglieva ogni giorno di rapportarsi con YHWH liberamente, discorrendo con lui faccia a faccia senza quella limitazione che si sentì dire un giorno Mosè in Esodo 33.20: “Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo”.

Ho scritto all’inizio che il Regno è un concetto e una realtà: alle origini tutto era in Eden o, meglio, là c’era una sua parte, un aspetto visto in quella comunione che ebbe termine quando, dopo la trasgressione all’unico comandamento, Adamo e sua moglie ne furono estromessi. Se leggiamo l’episodio, però, possiamo notare che quel luogo non fu distrutto, ma che “Il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden, perché lavorasse il suolo da cui era stato tratto. Scacciò l’uomo e pose ad oriente del giardino di Eden i cherubini con una spada fiammeggiante, per custodire la via all’albero della vita” (Genesi 3.23,24).

A questo punto individuiamo alcuni elementi: primo, Adamo e sua moglie, che avevano desiderato essere come Dio, si vedono estromessi e avrebbero passato la loro esistenza lavorando la terra dalla quale erano stati tratti. Il loro sguardo, cioè, sarebbe stato costantemente rivolto verso il basso, avrebbero compreso il significato della parola “morte” (“Nel giorno in cui ne mangerai, per certo morirai”) e sarebbero tornati polvere, tutto questo portando in loro il ricordo di ciò che erano. Secondo, la via all’albero della vita non viene preclusa, ma protetta, custodita affinché né Adamo, né Eva, né i loro discendenti a prescindere dalle epoche, l’avessero potuta trovare un giorno e diventare immortali. Terzo e ultimo, quello su cui desidero soffermarmi oggi, abbiamo nominati per la prima volta i Cherubini, creature molto particolari che esistono nel Regno spirituale, quello che non vediamo, ma che per noi ebbero il privilegio di vedere e descrivere i profeti e l’apostolo Giovanni.

Il Cherubino è comunemente ritenuto un angelo, ma più che portare messaggi agli uomini pare avere una funzione di esecutore, di guardiano, di protettore, con un’incessante opera di salvaguardia e adorazione davanti al trono di Dio. L’Avversario, Satana, così potente, era uno di loro e, se non il primo, uno dei più importanti. Leggiamo in Ezechiele al capitolo 28.12-15 “Tu eri al sommo, pieno di sapienza e perfetto in bellezza. Tu eri in Eden, giardino di Dio; tu eri coperto di pietre preziose, di diamanti, di grisoliti, di pietre d’onice, diaspri, zaffiri, smeraldi e carbonchi e di oro; l’arte dei tuoi tamburi e dei tuoi flauti era presso di te, quella fu ordinata nel giorno in cui fosti creato. Tu eri un cherubino unto, protettore e io ti avevo stabilito, tu eri nel monte santo di Dio, tu camminavi in mezzo alle pietre di fuoco. Tu sei stato compiuto nelle tue faccende, dal giorno che tu fosti creato, finché si è trovava iniquità in te”.

Questa era la funzione che aveva quando si chiamava Lucifero, cioè “Portatore di luce”. Di lui è detto in Isaia 14.12-15 “Come mai sei caduto dal cielo, Lucifero, figlio dell’aurora? Come mai sei stato steso a terra, signore dei popoli? Eppure tu pensavi «Salirò al cielo, sulle stelle di Dio innalzerò il trono, dimorerò sul monte dell’assemblea, nelle parti più remote del settentrione. Salirò sulle regioni superiori delle nubi, mi farò uguale all’altissimo». E invece sei stato precipitato negli inferi, nelle profondità dell’abisso!”.

Raccordando tra loro i due versi, rileviamo il nome che aveva l’Avversario nel Regno spirituale di Dio, la sua presenza del Giardino, il grado di eccellenza che possedeva testimoniato dalle pietre preziose che lo ricoprivano, la sua funzione unica di “Unto” e “Protettore” e la perfezione vista nel suo camminare in mezzo alle pietre infuocate essendo il fuoco riferimento al vaglio e al giudizio cui era immune stante la sua condotta. Ma ci è dato di comprendere come, a un certo punto, fu trovata iniquità in lui e questa si manifestò in un progetto che aveva come risultato finale il “farsi uguale all’altissimo”. Sono le stesse parole che, preso possesso del serpente, disse ad Eva: “Dio sa che il giorno in cui ne mangereste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male” (Genesi 3.5). Nella sua improponibile volontà distruttiva, cercava un alleato. Il figlio dell’aurora sapeva benissimo che non avrebbe potuto farsi uguale a Dio essendo stato creato da lui, ma diventare un dio in un mondo corrotto dal peccato certamente sì. E così fu.

Se allora prima di questi eventi ciò che era in cielo e sulla terra – o meglio in Eden – formavano un tutt’uno, nel terribile dopo possiamo affermare che si crearono due regni, due territori differenti, uno santo e un altro impuro; il primo abitato da Dio e dagli esseri spirituali che di Lui sono l’emanazione, il secondo popolato da uomini incompatibili con lui parte dei quali però cercavano la Sua comunione, benevolenza, aiuto: erano quelli che, informati da Adamo e sua moglie delle modalità della caduta e ancor più del vestito che il Creatore aveva loro confezionato, lo pregavano di aver pietà e soccorso in quella vita così ostile che si trovavano ad affrontare loro malgrado. Ogni giorno constatavano delle avversità che non avrebbero dovuto conoscere. Seppero così i nostri progenitori dell’esistenza di due regni, uno terreno e l’altro spirituale. “Venga il tuo Regno”, allora, perché il Tuo è l’unico a durare per sempre.

Il Cherubino ritorna poi nella Legge. Non è un personaggio che compie azioni particolari come gli angeli che distrussero Sodoma e Gomorra o parlarono a molti, ma è ordinato che venga rappresentato sul coperchio dell’arca. Non è una figura minacciosa, non ha una spada, ma: “Farai due cherubini d’oro: li farai lavorati a martello sulle due estremità del coperchio. Fa’ un cherubino ad una estremità e un cherubino all’altra estremità. Farete i cherubini tutti di un pezzo con il coperchio alle sue due estremità. I cherubini avranno le due ali stese di sopra, proteggendo con le ali il coperchio; saranno rivolti l’uno verso l’altro e le facce dei cherubini saranno rivolte verso il coperchio. Porrai il coperchio sulla parte superiore dell’arca e collocherai nell’arca la Testimonianza che io ti darò. Io ti darò convegno appunto in quel luogo: parlerò con te da sopra il propiziatorio, in mezzo ai due cherubini che saranno sull’arca della Testimonianza, ti darò i miei ordini riguardo agli Israeliti” (Esodo 25.18-22).

Per quanto il Cherubino comparisse anche raffigurato sui teli che costituivano il velo della dimora a conferma del fatto che è un essere a diretto contatto con la Santità di Dio e con lui compatibile, è la sua presenza sul coperchio dell’arca a rivelarci elementi che ci consentono delle connessioni molto importanti; i cherubini non erano due belle statuine saldate sul coperchio, ma costituivano un tutt’uno con lui, erano un pezzo solo, d’oro puro – il solo metallo che è riferito costantemente a Dio – posti uno di fronte all’altro. Due e non quattro perché non era un riferimento ai punti cardinali, ma alle dimensioni semplici intese come destra e sinistra, uomo e donna, bene e male, di qua o di là. Le loro ali proteggevano il coperchio: sono estremità che consentono uno spostamento diverso dal nostro, che avviene solo sulla terra, ma che adombrano e proteggono, difendono. In più, i cherubini sono posizionati sì frontalmente, ma il loro sguardo è rivolto verso il coperchio, guardando idealmente all’interno dell’arca che conteneva un vaso d’oro con la manna raccolta nel deserto, il bastone d’Aaronne che era fiorito e le tavole della Legge, quelle che Mosè tagliò e sulle quali Iddio scrisse il decalogo, da destra a sinistra, cinque per ogni tavola secondo il Talmud di Gerusalemme. Anche qui, è interessante il rapporto tra le due tavole e i due Cherubini.

Nel meditare però il passo di Esodo 25 mi sono chiesto perché queste due creature, a parte le ali spiegate, avessero lo sguardo verso il basso, metaforicamente a guardare all’interno dell’Arca quasi a contemplarne il contenuto, cioè la manna per la provvidenza di Dio, il bastone a ricordare il serpente che si mangiò tutti quelli creati dai maghi del Faraone e quindi la supremazia di YHWH e le tavole rappresentanti l’osservanza che il Signore si aspetta dall’uomo, oggi per noi misura di ciò che è bene e ciò che è male.

Non credo sia possibile avere una risposta diversa dall’indizio che ci offre l’apostolo Pietro nella sua prima lettera quando, parlando degli avvenimenti con cui Dio si caratterizzò nei tempi antichi a testimonianza del Regno, scrive: “…perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre raggiungete la meta della vostra fede: la salvezza delle anime. Su questa salvezza indagarono e scrutarono i profeti, che preannunciavano la grazia a voi destinata; essi cercavano di sapere quale momento o quali circostanze indicasse lo Spirito di Cristo che era in loro, quando prediceva le sofferenze destinate a Cristo e le glorie che l’avrebbero seguite. A loro fu rivelato che non per se stessi, ma per voi erano servitori di quelle cose che ora vi sono annunciate mediante lo Spirito Santo, mandato dal cielo: cose nelle quali gli angeli desiderano fissare lo sguardo” (1.8-12). Ed è interessante sottolineare che alcune traduzioni riportano “guardare dentro”.

Il contenuto dell’Arca testimoniava l’amore di Dio e le Sue esigenze, i profeti scrissero e parlarono di un tempo allora imminente, di un regno che sarebbe dovuto venire a suo tempo ma che esisteva già, pronto e preordinato a tal punto che la sua realizzazione piena, così importante per tutte le negatività che verranno annullate e che ogni salvato attende, può sembrare un dettaglio. Perché la cittadinanza eterna già la possediamo ed è quello che ci spinge a vivere. Amen.

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05.37 – PADRE NOSTRO 7/9 (Matteo 6.9-13)

05.37 – Padre nostro – VII (Matteo 6.9-13)

 

9Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome,10venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. 11Dacci oggi il nostro pane quotidiano, 12e rimetti a noi i nostri debiti  come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori, 13e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male.14Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi;15ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.”.

NON INDURCI IN TENTAZIONE, MA LIBERACI DAL MALE

Ho preferito riportare il verso 13 nella versione comunemente insegnata del “Padre nostro”. “Non indurci”è certo la traduzione più sbagliata di quelle proposte rispetto alla più corretta “non esporci”, o “non abbandonarci”: leggiamo in Giacomo 1.13 che “Nessuno, quando è tentato, dica «Sono tentato da Dio» perché Dio non può essere tentato al male e non tenta nessuno al male”. Con la richiesta espressa dalla preghiera insegnata da Gesù ci troviamo allora di fronte a qualcosa di più complesso, a qualcosa che non chiede, ma implica la presenza di elementi che dobbiamo possedere e che sono raggiungibili anche attraverso la preghiera perché la tentazione intesa come peirasmòs, cioè quella prova morale che serve a mettere in luce il carattere dell’uomo, è inevitabile. Sappiamo che la fede come sentimento è buona cosa, ma ha bisogno di venire dimostrata, di essere messa alla prova e sempre Giacomo, contrastando quelli che si affidavano a un sentimento generico ritenendosi a posto con la propria coscienza, dice in 2.19-24 “Tu credi che c’è un Dio solo? Fai bene; anche i demòni lo credono e tremano! Ma vuoi sapere, o insensato, come la fede senza le opere è senza valore? Abramo, nostro padre, non fu forse giustificato per le opere, quando offrì Isacco, suo figlio, sull’altare? Vedi che la fede cooperava con le opere di lui, e che per le opere quella fede divenne perfetta e si compì la Scrittura che dice: E Abramo ebbe fede in Dio e gli fu accreditato a giustizia, e fu chiamato amico di Dio. Vedete che l’uomo viene giustificato in base alle opere e non soltanto in base alla fede”.

Per le opere, la fede diventa perfetta. È la dimostrazione, la conferma, l’inattaccabilità di fronte a quel “fuoco” che sappiamo “farà la prova dell’opera di ciascuno”, cioè di quanto avremo costruito sopra il fondamento, la fede nell’opera di Cristo. Già nella scorsa riflessione era stato accennato al fatto che, come cristiani, c’è un cammino da compiere e che la nostra non è una strada facile perché ci troviamo di fronte a scelte che gli uomini comuni non si pongono, oppure non affrontano e non comprendono. È un percorso in cui non possiamo essere soli e che richiede un aggiornamento dal “non indurci in tentazione” a “non abbandonarci”, cioè, “non lasciarci soli” perché altrimenti falliremmo, cadremmo inevitabilmente.

Entriamo qui in un campo complesso, che contempla la nostra natura umana che si contrappone alla spirituale descritta dall’apostolo Paolo con queste parole: “Io so infatti che in me, nella mia carne, non abita il bene. C’è il me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo. Infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra. Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? Siano rese grazie e Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore! Io dunque con la mente servo la legge di Dio, con la carne invece la legge del peccato” (Romani 7.18-25). Con queste parole ci viene data la descrizione del combattimento interiore che sarebbe destinato a fallire sempre se dovessimo contare unicamente sulle nostre forze: la mente, infatti, accetta la teoria, ma fatica enormemente a tradurla in pratica perché si ritrova a fare i conti con un corpo che vorrebbe ogni cosa per sé. Tendenzialmente non siamo fatti per il “no”, esattamente come il corpo è fatto per star bene e per questo, in natura, all’occorrenza assume da solo posizioni antalgiche, si protegge, reagisce con l’istinto alle minacce che gli si pongono davanti.

La persona che ha accettato Gesù Cristo come suo personale Salvatore non deve e non può sottrarsi a un percorso di crescita, eppure spesso tende a sottovalutare le insidie dell’avversario che “Va girando come un leone che ruggisce cercando chi possa divorare”. Ecco allora che il riferimento nel Padre nostro non è tanto a quelle situazioni occasionali in cui una persona può cadere, sbagliare e pentirsi, ma al sistema, al progetto specifico dell’Avversario a danno della creatura. Nelle espressioni “il giusto pecca sette volte al giorno”, e “se uno cade, si rialza” abbiamo l’inevitabilità del peccare da parte nostra, ma quello a cui allude Nostro Signore è piuttosto il “laccio”, cioè quella condizione nella quale il credente può cadere e rimanere intrappolato.

Il laccio di cui parla la scrittura ha riferimento con la vita di tutti i giorni di allora (e non solo), quando per catturare animali selvatici si faceva un nodo scorsoio con una corda. Tra i sinonimi di “laccio” troviamo “trappola, tranello, vincolo, impaccio, qualcosa che soffoca”. Il laccio dev’essere proporzionale alla forza della preda perché, se troppo sottile, questa potrebbe liberarsi e fuggire, cosa che il cacciatore non vuole. Il laccio è quindi il risultato di un calcolo, di uno studio in questo caso molto serio perché Satana, “principe di questo mondo”, ha la potestà su di esso e non ha interesse ad occuparsi di chi già gli appartiene, ma dei credenti. I primi li tiene per sé, i secondi li combatte e mira alla loro caduta come fece alle origini. È noto il versetto che dice “…per sedurre se possibile anche gli eletti”: di qui un progetto volto a menomare il rapporto che i credenti hanno con Dio. Per prendere un uomo, come fece in Eden coi nostri progenitori, Satana deve impostare un piano su misura per lui, partendo dalle sue debolezze e attirarlo al loro interno senza che se ne accorga sapendo che, spesso, la sua vittima è un superficiale e si rende conto di esservi caduto dentro se non quando è troppo tardi. È bello per noi sapere che esiste una promessa: “Le mie pecore ascoltano la mia voce, e io le conosco, ed esse mi seguono; e io do loro la vita eterna e non periranno mai, e nessuno le rapirà dalla mia mano. Il Padre mio che me le ha date è più grande di tutti; e nessuno può rapirle dalla mano del Padre” (Giovanni 10.27-29). Anche se Gesù non parla di perdita, la possibilità del danno esiste sempre. Certo Satana distrugge quel che può distruggere, ma là dove questo gli è impedito danneggia e compromette. È in questo contesto che, fondamentalmente, dobbiamo intendere quel “non abbandonarci alla tentazione”.

E penso ai discepoli, quando erano dei semplici uomini che avevano seguito ammirati il loro Maestro senza capirne la reale portata se non quando lo Spirito Santo scese su di loro, stabiliti per essere colonne della Chiesa, colonna e sostegno a sua volta della Verità. Penso a loro quando fuggirono spaventati all’arresto di Gesù, penso a quei due di loro delusi sulla via di Emmaus e a Pietro, quando gli fu detto “Simone, Simone, ecco, Satana ha chiesto di vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno. E tu, quando sarai convertito, conferma i tuoi fratelli” (Luca 22.31,32). E così fece.

Io non so se chi mi legge ha mai provato l’esperienza di essere preso in un laccio spirituale: è un’esperienza terribile e umiliante in cui, alla consapevolezza dello Spirito presente e della propria dignità, si affianca un senso di paralisi, d’incapacità a prendere decisioni. Si vorrebbe, ma non si riesce ad uscire. E si ha paura e ci si dibatte come in un perfetto labirinto perché qualunque decisione che si può prendere si pensa sia sbagliata, non si sa più ciò che si è veramente e la mente corre il rischio di ammalarsi. E male come gli “amici” di Giobbe fanno quei “fratelli” che si sentono santi e in grado di giudicare e non trovano meglio che citare versi a sproposito, primo fra tutti Isaia 40.28,31 “Non lo sai forse? Non lo hai udito? Dio eterno è il Signore, creatore di tutta la terra. Egli non si affatica e non si stanca, la sua intelligenza è inscrutabile. Egli dà forza allo stanco e moltiplica il vigore allo spossato. Anche i giovani si affaticano e si stancano, gli adulti inciampano e cadono; ma quanti sperano nel Signore riacquistano forza, mettono ali come aquile, corrono senza affannarsi, camminano senza stancarsi”. E così, citando parole di verità, ma fuori dal contesto in cui si trova la persona, feriscono e annichiliscono perché le citano senza vedere il problema, senza capire, avulsi dalla carità. Proprio come Elifaz, Bildad e Zofar.

Eppure Dio libera e risponde a quel “non abbandonarci”. Lo fa coi suoi tempi e quando siamo pronti a individuare il Suo intervento liberatorio per ringraziarlo ed amarlo ancora di più. Ancora una volta andiamo alle parole dell’apostolo Paolo che, scrivendo alla travagliata Chiesa di Corinto, scrisse “Nessuna tentazione vi ha presi, se non umana; infatti Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via d’uscita e la forza per sopportarla” (1 Corinti 10.12-13). La via d’uscita, quella che o non vedevamo, o non avevamo il coraggio di intraprendere.

Tornando alla frase della preghiera esposta da Gesù, ci conclude con le parole “ma liberaci dal male”. E quel “ma” sta a indicare un intervento che solo lui può compiere. Il male: quale? Tradotto così suona generico, potrebbe essere banalmente definito come tutto ciò che non appartiene alle categorie del bene. Ma chi decide tra gli uomini ciò che è giusto o sbagliato, se non il sentire comune di un popolo e la propria cultura che si è sviluppata nei secoli? La morale cambia continuamente, soprattutto nel tempo in cui viviamo; a parte il furto e l’omicidio, gli altri sono concetti opinabili, ciò che costituisce reato per un popolo, per un altro non lo è, oppure azioni che oggi sono considerate riprovevoli domani non lo sono più.

L’illuminazione che procede da Dio, però, è diversa: è Lui stesso che ha rivelato la Sua volontà nell’Antico Patto attraverso il Sommario della Legge e i corollari relativi ad essa, o nel Nuovo il Suo amore e perfezione ufficialmente incarnatosi nel proprio Figlio Gesù Cristo. Il Male, allora, è da inquadrare come la diretta espressione di Satana e quel “Male” andrebbe più correttamente tradotto con “Maligno” che trova appunto nella sua opposizione a Dio la propria ragion d’essere e il proprio fine distruttivo.

Pietro ebbe da Gesù la promessa: “Io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno”. Nella circostanza, certo, parlò a lui, ma la stessa preghiera l’aveva rivolta al Padre per tutti coloro che si sarebbero aggiunti alla Chiesa: “Non prego solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola; perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Giovanni 17.20,21).

Ricordiamo ancora le parole di Paolo a Timoteo: “Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato la forza perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero: e così fui liberato dalla bocca del leone. Il Signore mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli, nel suo regno. A lui la gloria nei secoli. Amen” (2 Timoteo 4.18).

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05.36 – PADRE NOSTRO 6/9 (Matteo 6.9-13)

05.36 – Padre nostro – VI (Matteo 6.9-13)

 

9Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome,10venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. 11Dacci oggi il nostro pane quotidiano, 12e rimetti a noi i nostri debiti  come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori, 13e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male.14Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi;15ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.”.

…COME NOI LI RIMETTIAMO AI NOSTRI DEBITORI.

La volta scorsa abbiamo accennato alla differenza che intercorre tra “debito” e “debiti”, anticipando che, riguardo alla reciprocità che contraddistingue i cristiani, è impossibile che non si comportino tra loro utilizzando il perdono come uno dei principali metodi di rapporto interpersonale. Abbiamo anche citato come punto di orientamento fondamentale la parabola del “servitore spietato” che va necessariamente esaminata per comprendere la nostra posizione spirituale, cosa eravamo un tempo e chi siamo ora. La parabola, come amava precisare un fratello, non è una favoletta più o meno edificante, ma un racconto che presenta, tramite la descrizione di episodi di facile memorizzazione, delle profonde verità dottrinali. Nel caso della remissione dei debiti da parte di Dio e dell’azione conseguente da parte nostra, la parabola è quella detta del “servo spietato” che troviamo in Matteo 18.21-35, esposta a seguito di una domanda dell’apostolo Pietro che “gli si avvicinò, e gli disse «Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.A proposito, il regno dei cieli è simile a un re che volle fare i conti con i suoi servi. Incominciati i conti, gli fu presentato uno che gli era debitore di diecimila talenti. Non avendo però costui il denaro da restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, con i figli e con quanto possedeva, e saldasse così il debito. Allora quel servo, gettatosi a terra, lo supplicava: Signore, abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa. Impietositosi del servo, il padrone lo lasciò andare e gli condonò il debito. Appena uscito, quel servo trovò un altro servo come lui che gli doveva cento denari e, afferratolo, lo soffocava e diceva: Paga quel che devi! Il suo compagno, gettatosi a terra, lo supplicava dicendo: Abbi pazienza con me e ti rifonderò il debito. Ma egli non volle esaudirlo, andò e lo fece gettare in carcere, fino a che non avesse pagato il debito. Visto quel che accadeva, gli altri servi furono addolorati e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: Servo malvagio, io ti ho condonato tutto il debito perché mi hai pregato. Non dovevi forse anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te? E, sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non gli avesse restituito tutto il dovuto. Così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello»”.

Anche se si tratta di un testo che esamineremo in futuro, si possono effettuare alcune sottolineature, prima fra tutte l’ammontare del debito che questo servitore, da individuare certamente in un dignitario di corte, aveva accumulato probabilmente distraendo delle somme a proprio vantaggio: il re della parabola “volle fare i conti” con i responsabili del suo patrimonio e, poco dopo aver iniziato le verifiche, ecco emergere questo personaggio e la frode a danno del suo signore. Va osservato che subito Pietro, ed eventualmente gli altri che ascoltavano Gesù parlare, si resero conto dell’enormità della somma poiché il talento di allora era l’equivalente di 32 kg circa d’argento. Il talento, però, poteva anche essere anche in oro per cui il debito accumulato era di 320 tonnellate a prescindere dal metallo distorto. È chiaro che quella persona non avrebbe mai potuto restituire la somma, ma secondo le leggi del tempo era possibile che pagasse comunque per la colpa venendo venduto unitamente alla sua famiglia come schiavo. Avrebbe cessato di esistere come individuo, non avrebbe avuto più nulla e lo stesso i suoi famigliari.

Contrariamente ad ogni previsione, però, quel re ebbe pietà di quel contabile e, ben sapendo che non avrebbe mai potuto mantenere quanto gli prometteva – ricordiamo le parole che gli disse dopo esserglisi gettato a terra, “Abbi pazienza con me e ti rifonderò il debito” – andando contro i suoi interessi, mosso unicamente da un sentimento di pietà, gli azzerò la somma che avrebbe dovuto restituire. Ora stupisce il comportamento che quest’uomo ebbe non appena incontrò una persona, che si suppone fosse un suo pari grado, debitore nei suoi confronti di 100 denari, somma rapportabile allo stipendio di poco più di tre mesi di un operaio: era un’inezia rispetto a quella che a lui era stata condonata. Ma rimase inflessibile e fu crudele verso di lui. Anche quel debitore si gettò a terra esattamente come aveva fatto l’altro col suo re, dicendo le stesse parole, questa volta però pronunciando una promessa plausibile. Eppure abbiamo letto che “non volle esaudirlo, andò e lo fece gettare in carcere, fino a che non avesse pagato il debito”. Questa azione ci dice molto sullo spirito che dominava il servitore spietato: per lui esisteva solo il proprio io: quando si era trovato davanti al suo signore il terrore che aveva provato all’emersione del debito, il sentirsi perduto, lo aveva spinto a gettarsi a terra e a chiedere sinceramente pietà, ma ogni paura era svanita una volta ottenuto il condono ed era tornato quello che era, un essere insensibile attento solo ai propri interessi. Abbiamo letto la sua fine: “Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non gli avesse restituito tutto il dovuto” cioè mai, vista l’enormità del debito.

È allora facile individuare nella somma che il servitore spietato avrebbe dovuto restituire al re, la condizione di peccato in cui versano tutti gli uomini che non hanno ricevuto il perdono di Dio. Quando un uomo scopre di essere nella condizione di quel servo, di non avere di che pagare ma soprattutto che per quanto farà non riuscirà mai a soddisfare le esigenze del Suo Signore e gli chiede pietà nonostante tutto, ottiene un perdono che non può non trasmettere agli altri. La sua persona, cioè, non può che venire trasformata da quell’atto di pietà e amore. Certo non possiamo salvare nessuno, ma gestire il perdono per quanto ci è dato, sicuramente sì. Ecco allora che ancora una volta ci troviamo di fronte a un “debito”, che riguarda la verticalità del rapporto uomo – Dio, e a dei “debiti” che rientrano invece nell’orizzontalità del rapporto tra esseri umani visti nei 100 denari della parabola: piccole cose, tranquillamente rifondibili, elementi che sappiamo che addirittura dovremmo aspettare ci venissero restituiti dalla persona senza chiederli indietro.

Il problema però è che non solo Gesù, ma tutta la Scrittura parla in larga parte per simboli e qui non si tratta solo di denaro, ma di offese, di torti, di azioni ingiuste che abbiamo eventualmente patito. Si potrebbero citare molti versi in proposito, di cui una parte sono già stati scritti in riflessioni precedenti quando abbiamo affrontato l’amore per i nemici, il porgere l’altra guancia e altri; qui credo però sia necessario andare al libro del Siracide, un deuterocanonico che, pur non avendo l’autorità spirituale di altri come i Proverbi o il Qoélet (Ecclesiaste), è interessante perché scritto da una persona che dedicò la propria vita a studiare anche i meccanismi psicologici che regolano i rapporti umani. Ben Sira, il suo autore, è scritto che chiese a Dio la sapienza e la ottenne. Conosciuto anche come “Ecclesiastico” è databile attorno al 180 a.C.. Scrive Aldo Moda che l’autore del libro era uno scriba ed espose il frutto del suo studio, intrapreso per grande passione per autentica vocazione fin dalla giovinezza, alla gioventù aristocratica di Gerusalemme che frequentava la sua scuola. Arricchì la sua cultura con numerosi viaggi all’estero, forse anche giovane entrò al servizio di un re straniero in qualità di funzionario. La sua professione di scriba gli permise di essere attento alla realtà sociale ed al culto nel Tempio. Alcuni studiosi lo avvicinano alla corrente sadducea, allora al suo sorgere.

Ebbene, nel grandissimo numero degli argomenti, Jehoshua Ben Shira affronta il tema dell’offesa e quindi dei “debiti” che gli uomini possono contrarre fra loro e il loro spontaneo regolarsi. Ben Shira non fa mai riferimento a tribunali o a terze persone che possano costringere a saldare i debiti, ma valuta indirettamente ed in modo tanto semplice quanto profondo le cause e gli effetti delle offese: “Se hai sguainato la spada contro un amico, non disperare, può esservi un ritorno. Se hai aperto la bocca contro un amico, non disperare, può esserci riconciliazione, tranne il caso di insulto e di arroganza, di segreti svelati e di un colpo a tradimento; in questi casi ogni amico scomparirà” (22.21,22). Perché? Perché in tutti questi casi viene a mancare il rispetto, il riguardo per la persona e la sua dignità in quanto amico e persona, per cui solo una radicale revisione del modo i pensare di chi si è comportato così può spingere a chiedere il perdono e trovarlo. Certo Ben Shira non conosceva la Grazia e parlava a livello umano, non sbagliando le sue valutazioni di base né contraddice a priori le parole di Gesù sul perdono, settanta volte sette. E non esiste perdono senza confessione e prima ancora ravvedimento, tra uomo e uomo e tra questi e Dio stesso.

Fatta questa parentesi necessaria, una delle tante che dimostrano la serietà del perdono che non può essere generalizzato e dato a prescindere, la frase conclusiva di Gesù alla parabola del servo spietato illumina su quanto sia attento lo sguardo di Dio sui suoi figli: “Così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello”; questa si raccorda a quella pronunciata proprio a conclusione dell’esposizione del “Padre nostro”: “Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il padre vostro perdonerà le vostre colpe” (Matteo 6.14,15). Ecco la reciprocità. Ecco l’impensabilità dei doppi pesi e delle doppie misure che in un rapporto fraterno non possono esistere. Senza la reciprocità, non rimane che la religione che, in sintesi, altro non è se non la pretesa puerile di essere ascoltati a prescindere da quello che siamo veramente, nella nostra essenza, nel nostro cuore. Perché il perdono è l’espressione della partecipazione ad un progetto, di un cammino che non percorriamo da soli, ma con il Padre. Che, appunto, è nostro. Amen.

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05.35 – PADRE NOSTRO 5/9 (Matteo 6.9-13)

05.35 – Padre nostro – V (Matteo 6.9-13)

 

9Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome,10venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. 11Dacci oggi il nostro pane quotidiano, 12e rimetti a noi i nostri debiti  come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori, 13e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male.14Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi;15ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.”.

 

RIMETTI A NOI I NOSTRI DEBITI…

Il verso 12 è molto chiaro e parrebbe non necessario di approfondimenti: si chiede al Padre la remissione dei debiti che abbiamo con Lui come noi ci impegniamo a fare altrettanto con chi li ha verso di noi o, meglio, perché abbiamo avuto, accettando il Vangelo, lo stesso trattamento da Lui. Anche se è così, possiamo dire che questo è un verso molto impegnativo e la comprensione di quanto esprime credo possa far del bene a tutti noi, stante il rapporto profondo e continuo esistente tra Antico e Nuovo Patto. Ancora una volta dobbiamo partire dalla realtà conosciuta dagli uditori di Gesù che, nell’attesa che la parola “debito” venisse spiegata con la parabola del servo spietato, potevano collegarsi alla preghiera che Salomone rivolse a YHWH quando l’Arca dell’alleanza fu trasferita nel tempio. La preghiera è contenuta in 1 Re 8.36-50 e ne riportiamo una parte: “Quando il tuo popolo Israele sarà sconfitto di fronte al nemico perché ha peccato contro di te, ma si converte a te, loda il tuo nome, ti prega e ti supplica in questo tempio, tu ascolta nel cielo, perdona il peccato del tuo popolo Israele e fallo tornare sul suolo che hai dato ai loro padri. Quando si chiuderà il cielo e non ci sarà pioggia perché hanno peccato contro di te, ma ti pregano in questo luogo, lodano il tuo nome e si convertono dal loro peccato perché tu li hai umiliati, tu ascolta nel cielo, perdona il peccato dei tuoi servi e del tuo popolo Israele, ai quali indicherai la strada buona su cui camminare, e concedi la pioggia alla terra che hai dato in eredità al tuo popolo. Quando sulla terra ci sarà fame o peste, carbonchio o ruggine, invasione di locuste o bruchi, quando il suo nemico lo assedierà nel territorio delle sue città o quando vi sarà piaga o infermità di ogni genere, ogni preghiera e ogni supplica di un solo individuo o di tutto il tuo popolo Israele, di chiunque abbia patito una piaga nel cuore e stenda le mani verso questo tempio, tu ascoltala nel cielo, luogo della tua dimora, perdona, agisci e da’ a ciascuno secondo la sua condotta, tu che conosci il suo cuore, poiché solo tu conosci il cuore di tutti gli uomini, perché ti temano tutti i giorni della loro vita sul suolo che hai dato ai nostri padri”.

Qui viene descritta una realtà che è presa d’atto di una sconfitta, di eventi che, per la dispensazione in cui si trovava il popolo, potevano essere chiaramente riconducibili ad un intervento di Dio teso a punire una condizione di peccato. Allo stato di cose descritto, cioè l’essere vinti dal nemico, la presenza della siccità, della malattia o altro, segue una vera richiesta di perdono dovuta a un forte dolore interiore. Il popolo, cioè, non avrebbe dovuto soltanto “chiedere perdono” come in un banale rito, ma convertirsi (ricordiamo le parole di Giovanni Battista, “ravvedetevi, perché il regno dei cieli è vicino”).  Salomone stesso dice “Se si convertono dal loro peccato”, ponendo la condizione, la sola in grado di testimoniare che il ravvedimento è avvenuto e che la richiesta di perdono è sincera. Possiamo dire che, relativamente alla remissione del peccato da parte di Dio, la stessa cosa avviene anche oggi: in questo tempo in cui le calamità naturali sono una conseguenza delle violenze che uomini scellerati hanno perpetrato su un pianeta prossimo al collasso, non possiamo certo fare gli stessi collegamenti dell’Israele allora; tuttavia per ogni uomo viene il momento in cui si ritrova a fare i conti con delle sconfitte di fronte alle quali è obbligato a chiedersi se queste derivino dal naturale svolgersi della vita, oppure siano un richiamo di Dio alla conversione e questo vale anche per i credenti.

Nell’ultima parte della preghiera di Salomone, poi, vediamo come veda il popolo come organismo di individui, passando ad esaminare il singolo perché facente parte di esso e per questo dotato di individualità e responsabilità: “Dà a ciascuno secondo la sua condotta, tu che conosci il suo cuore”. Lo stesso avviene anche oggi per noi.

Nel Padre nostro Gesù parla di “debiti”perché, come vedremo, esiste un “debito” con Dio, quello che non c’è uomo sulla terra che non abbia, e dei “debiti”. Il primo è quello che rendeva i cristiani incompatibili con Lui visto nella condizione di peccato ereditata alla nascita, i secondi sono quelli che come credenti possiamo sempre contrarre a causa di una mancata vigilanza sulle nostre azioni, cioè quelli che possiamo commettere nella carne perché siamo defettibili. Essere dei salvati non implica l’essere santi e puri a prescindere delle nostre azioni, cioè che siamo stati liberati dal peccato una volta per tutte e che quindi non peccheremo più, ma percorrere una strada fatta di astensione da ciò che offende la nostra dignità e posizione di credenti penalizzando anche fortemente il rapporto che abbiamo con Lui.

Cos’è il peccato? È un termine che si riferisce a qualsiasi azione che possiamo commettere estranea alla volontà e santità di Dio. Il “peccato” è prima di tutto un modo di ragionare, di essere e di vivere, quello di chi esiste ignorando più o meno deliberatamente la Sua presenza, le Sue aspettative nei confronti della creatura che si ritrova così abbandonata a se stessa e cerca di soddisfarsi da un punto di vista fisico e psichico raggiungendo lo scopo per brevi periodi. Ora sappiamo che, grazie al sacrificio di Cristo sulla croce, chiunque lo comprenda e lo accetti consapevolmente per la propria salvezza eterna, in tal modo accogliendolo, viene fatto figlio di Dio venendo liberato dalla sua condizione di peccatore: viene accolto così com’è, viene perdonato, cessa di essere straniero ed avventizio secondo versi che abbiamo citato diverse volte.

L’Agnello di Dio toglie il “peccato del mondo”, non “dal” mondo, non elimina la possibilità di compierlo anche da parte di chi è salvato e redento. E per “togliere” si intende prendere su di sé. C’è un’opinione diffusa in certe Chiese cristiane secondo la quale chi ha creduto, perdonato una volta per sempre dal sangue versato di Cristo, non abbia più bisogno di domandare il perdono dei suoi peccati quotidiani perché non può più peccare. Eppure Giovanni nella sua prima lettera sappiamo che scrive “…se qualcuno ha peccato, noi abbiamo un Avvocato presso il Padre: Gesù Cristo giusto“ (1 Giovanni 2.1).

Davide scrisse “Per il tuo nome, Signore, perdona la mia colpa, anche se grande” (Salmo 25.11), e “Liberaci e perdona i nostri peccati, a motivo del tuo nome” (Salmo 79.9), richieste rivolte a chi è tanto giusto quanto pietoso nei confronti della creatura che a Lui si rivolge. Possiamo dire che la preghiera del “Padre nostro” si occupa non del debito originale, ma di quelli che si accumulano o possono presentarsi lungo il nostro cammino terreno di cui chiediamo la remissione, possibile a due condizioni: perché ne abbiamo compreso la portata e perché li abbandoniamo, la sola azione che possa dimostrare, come già detto, l’avvenuto ravvedimento. Quando ero bambino e andavo a confessarmi, al termine c’era l’”atto di dolore” che si concludeva con le parole “propongo di non offendervi mai più, Signore misericordia perdonatemi”: col tempo, mi sono chiesto se pronunciare quelle parole a distanza di giorni non fosse un alibi, un modo per legittimare certi miei comportamenti perché tanto venivo perdonato e assolto comunque. La stessa cosa succede a molti anche oggi, che pongono in essere comportamenti liberi sapendo che tanto poi, andandosi a confessare, si pentono formalmente regolando così i propri “debiti”.

Nulla di più sbagliato. Si tratta di un modo di ragionare falso e distorto, utilitaristico, che non ha nulla a che vedere con lo Spirito e tutto ha a che fare con l’essere umano carnale, diabolico e ipocrita perché sapere che non esiste peccato che non possa essere rimesso non è una realtà che possiamo distorcere a nostro vantaggio, servircene per i nostri fini personali. Chi agisce così è una persona che, se non si ravvede, sarà solo un religioso, cioè uno che rientra nelle categorie di cui Gesù sappiamo disse “Questo è il premio che ne hanno”.

Utile in proposito un breve commento e relativa lettura su Efesi 4.17-32 che si apre con un paragone importante. L’apostolo Paolo si rivolge a dei credenti che avevano da poco abbandonato il paganesimo e quindi risentivano inevitabilmente dei suoi retaggi e per questo vengono invitati a meditare sulla loro condizione: “Vi dico dunque e vi scongiuro nel Signore: non comportatevi più come i pagani con i loro vani pensieri, accecati nella loro mente, estranei alla vita di Dio a causa dell’ignoranza che è in loro e della durezza del loro cuore. Così, diventati insensibili, si sono abbandonati alla dissolutezza e, insaziabili, commettono ogni sorta di impurità”. Qui vediamo che il paganesimo, la vita normale quotidiana, “orizzontale”, si caratterizza con vani pensieri, cioè “privi di consistenza, internamente vuoti”, cecità mentale, estraneità alla vita di quell’unico Dio che la vita può dare. Ignoranza e durezza del cuore, entrambe coltivate più o meno consapevolmente, hanno portato insensibilità spirituale e piena disposizione a ciò che è animale e terreno non dando loro altra scelta se non quella di rifugiarsi nella dissolutezza che va a tamponare l’insoddisfazione. I germi del paganesimo, che si concretano nell’anarchia spirituale, li porteremo sempre con noi, se non altro come bagaglio storico. C’è però un’avversativa lapidaria vista nel “Ma” che apre il verso 20: “Ma non così– cioè comportandovi in quel modo – voi avete imparato a conoscere il Cristo, sedavvero gli avete dato ascolto e sein lui siete stati istruiti, secondo la verità che è in Gesù, ad abbandonare con la sua condotta di prima l’uomo vecchio che si corrompe seguendo passioni ingannevoli, a rinnovarvi nello spirito della vostra mente e a rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità”.

Qui abbiamo un grande insegnamento: prima di tutto io noto dei “se”, che vanno idealmente a collegarsi alla preghiera di Salomone citata poco prima; è un “se” che fa la differenza, è una verifica, è un garanzia. Facile dire che si conosce Gesù Cristo e che si ha il Suo Spirito soprattutto in certi ambienti evangelici; molto meno agevole è dimostrare di avere abbandonato l’uomo vecchio che si corrompe seguendo passioni ingannevoli e ancor di più il suo metodo di giudicare. L’uomo vecchio segue le proprie passioni e si basa su di esse, ma alla fine queste crollano. Siamo chiamati a rinnovarci e a rivestire l’uomo nuovo. Siamo chiamati a non rimanere immobili nelle nostre posizioni perché la stasi non esiste e comprometterebbe gravemente la nostra realtà. Chi non si evolve, come ci dimostra la “parabola dei talenti”, in realtà va indietro e peggiora progressivamente senza rendersene conto.

Agire senza rinnovarsi, senza cercare di portare il nostro modo di pensare e di essere a un livello superiore coltivando lo Spirito ma continuando nelle azioni dell’ ”uomo vecchio”, equivale a contristarlo: “E non vogliate rattristare lo Spirito Santo di Dio, con il quale foste segnati per il giorno della redenzione. Scompaiano da voi ogni asprezza, sdegno, ira, grida e maldicenze con ogni sorta di malignità. Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato voi in Cristo”. Ecco un’altra applicazione col debito rimesso: lo Spirito Santo abbiamo letto che è un “segno” dato per il giorno della redenzione, ma la presenza dentro di noi di elementi dominanti estranei, come quelli che caratterizzano l’uomo vecchio che a volte torna a manifestarsi, fanno parte di quei tanti “debiti” che abbiamo il diritto dovere di chiedere al Padre che ci siano rimessi. E siccome le stesse azioni negative le possono compiere dei fratelli nei nostri confronti, chiedere che ci venga perdonato senza che noi perdoniamo, è un’assurdità. L’uomo che un giorno si è messo alla ricerca di Dio, trovandolo, non può venire lasciato solo nel proprio cammino di ricerca e edificazione spirituale.

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05.34 – PADRE NOSTRO 4/9 (Matteo 6.9-13)

05.35 – Padre nostro – IV (Matteo 6.9-13)

9Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome,10venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. 11Dacci oggi il nostro pane quotidiano, 12e rimetti a noi i nostri debiti  come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori, 13e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male.14Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi;15ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.”.

 

SIA FATTA LA TUA VOLONTÀ COME IN CIELO COSÌ IN TERRA

Con questa terza e ultima dossologia abbiamo il punto ideale di congiunzione tra il credente e Dio Padre; sicuramente è la più impegnativa e responsabilizzate perché ci chiama in causa davvero in modo diretto. Sono convinto che, quando molti cristiani recitano il “Padre nostro”, non pensino che in realtà s’impegnino di fronte a Dio in modo categorico perché, a prescindere dalle richieste che rivolgiamo davanti al Trono della Sua Grazia, chiediamo che venga fatta la Sua volontà e non la nostra. E il nostro essere naturale viene così a trovarsi, obiettivamente, davanti a un muro, a ciò che è il perimetro del nostro territorio, dell’ambito in cui viviamo contrapposto alla volontà di Dio che può essere, come spesso avviene, diversa dalla nostra.

Tutto ciò ci porta a Gesù, che sperimentò nella sua perfezione e totalità il dolore e l’angoscia giungendo pregare perché gli fosse risparmiato l’immenso patire che avrebbe subito dall’arresto alla crocifissione e, infine, la morte. Sofferenza non solo fisica, ma spirituale, quella che più lo opprimeva. Gesù stesso è il primo riferimento a quel “Sia fatta la tua volontà” perché ne ha dato il più illustre esempio. Leggiamo il testo: “Allora Gesù andò con loro in un podere, chiamato Ghetsemani, e disse ai discepoli: «Sedetevi qui, mentre io vado là a pregare». E presi con sé Pietro e i due figli di Zebedeo, cominciòa provare tristezza e angoscia. E disse loro: «La mia anima è triste fino alla morte; restate qui e vegliate con me». Andò un poco più avanti, cadde faccia a terra e pregava, dicendo: «Padre mio, se è possibile, passi via da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!». Poi venne dai suoi discepoli e li trovò addormentati. E disse a Pietro: «Così, non siete capaci di vegliare con me una sola ora? Vegliate e pregate per non entrare in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole». Si allontanò una seconda volta e pregò dicendo: «Padre mio, se questo calice non può passare via senza che io lo beva, si compia la tua volontà». Poi venne e li trovò di nuovo addormentati, perché i loro occhi si erano fatti pesanti. Li lasciò, si allontanò di nuovo e pregò per la terza volta, ripetendo le stesse parole”(Matteo 26.36-44).

Personalmente rilevo in questi versi che Gesù, nonostante avesse perfettamente chiaro fin dall’inizio del suo ministero pubblico, ma anche prima della fondazione del mondo, che lo scopo della prima sua venuta sulla terra sarebbe stato quello della morte in croce, qui inizia a provare un sentimento assolutamente umano (ricordiamo che sudò sangue, a differenza di Adamo che col sudore del volto si sarebbe guadagnato il pane). Non si trattava della paura del dolore fisico, ma di quello morale e spirituale che sarebbe consistito nell’abbandono del Padre che avrebbe provato per la prima e unica volta. Quel grido, “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” non credo possa essere descritto, quanto a significato di sofferenza, con termini adeguati. Eppure, nonostante questo, Nostro Signore dichiara “Sia fatta la tua volontà” mettendosi in secondo piano rispetto al volere del Padre che era il risultato di un piano concordato dalle tre persone racchiuse nella parola “Elohim” e raffigurate nel tetragramma YHWH.

Poi, notiamo che Gesù rivolse al padre la richiesta di non bere quel calice per tre volte, non una di più, a conferma di un comportamento assolutamente dignitoso, di una preghiera in cui la consapevolezza di venire ascoltato a prescindere dall’esaudimento era l’elemento più importante.

La meravigliosa e perfetta dignità con la quale Nostro Signore accettò il suo ultimo compito, dall’arresto all’ultima parola sulla croce, poi, ci presenta tra gli infiniti spunti di riflessione quanto fosse stata reale, vera l’accettazione della volontà del Padre: Gesù non cede mai. Non si lamenta. Non ha un solo movimento o frase inconsulti giungendo a rifiutare l’anestetico che i soldati romani porgevano ai condannati. “Sia fatta la tua volontà”,principio che per Lui rappresentava una fonte di nutrimento: “Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera”(Giovanni 4.34). E il “compiere” comportava bere quel “calice” a Lui riservato e di cui chiedeva, se possibile, che gli fosse risparmiato.

Un secondo esempio lo troviamo in Atti 21 in un contesto molto particolare: l’apostolo Paolo aveva terminato il suo viaggio attraverso la Macedonia e la Grecia e intendeva tornare a Gerusalemme. Dice il testo: “…giungemmo a Cesarea ed entrati nella casa di Filippo l’evangelista, che era uno dei Sette, restammo presso di lui. Egli aveva quattro figlie nubili, che avevano il dono della profezia. Eravamo qui da alcuni giorni, quando scese dalla Giudea un profeta di nome Agabo. Egli venne da noi e, presa la cintura di Paolo, si legò i piedi e le mani e disse: «Questo dice lo Spirito Santo: l’uomo al quale appartiene questa cintura, o Giudei a Gerusalemme lo legheranno così e lo consegneranno nelle mani dei pagani». All’udire queste cose, noi e quelli del luogo pregavamo Paolo di non salire a Gerusalemme. Allora Paolo rispose: «Perché fate così, continuando a piangere e a spezzarmi il cuore? Io sono pronto non soltanto ad essere legato, ma anche a morire a Gerusalemme per il nome del Signore Gesù», E poiché non si lasciava persuadere, smettemmo di insistere dicendo: «Sia fatta la volontà del Signore»(Atti 21.8-14).

Qui siamo in un contesto diverso, in cui gli interessati sono dei credenti che manifestano il loro affetto spirituale e umano legato ad un ambito personale: consci del valore dell’apostolo e di tutto quello che aveva fatto per loro, rifiutano l’idea che Paolo potesse subire una sorte a lui “sfavorevole”, dimenticandosi che il solo che può disporre veramente della vita e stabilire i percorsi di ciascuno di loro sia in realtà il Padre. La resa manifestata dalle loro ultime parole, le sole che Luca riporta in modo preciso, risiede proprio in quel “Sia fatta la volontà del Signore”dalle quali rileviamo l’accettazione di quei credenti del piano di Dio per Paolo. È un verso molto bello perché ci insegna che, per quanto sia lecito pregare in base alle nostre aspettative, l’importante è la Sua “volontà” e non la nostra. Sicuramente quei cristiani accettarono il fatto che l’apostolo partisse per Gerusalemme come un esaudimento alla loro preghiera, capendo che le vie del Signore possono essere differenti da quelle che ci aspettiamo. E giunto là, Paolo fu arrestato nel Tempio e dovette successivamente affrontare il tribunale ebraico.

Conseguenza diretta di questo episodio, spiritualmente, è l’atteggiamento raccomandato a tutti i veri cristiani: “Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare per poter discernerela volontà di Dio, cioè che è buono, a lui gradito e perfetto” (Romani 12.2). Sono parole importanti che ci rivelano ciò che da soli non sapremmo. Vivendo in questo mondo, per lo più circondati da gente che vive un sistema che pensa unicamente alla propria sopravvivenza inevitabilmente a danno di altri sempre e comunque, abbiamo l’invito a non conformarci a lui, cioè adeguarsi alla sua mentalità, ai suoi metodi di vita, ai suoi obiettivi che sono innati anche in noi e si sviluppano dal preciso momento in cui ascoltiamo la nostra carne e la sua volontà. Il lasciarsi trasformare, poi, implica un’azione docile, un lasciarsi trasportare senza resistenza perché in quel caso porremmo una forza di attrito a quella benefica dello Spirito. Resistere a qualcosa implica fatica, ma opporsi allo Spirito comporta un danno al nostro stato di “nuova creatura” che rimarrebbe inevitabilmente penalizzata. Solo rinnovando il nostro modo di pensare antico, nel quale purtroppo a volte torniamo, è possibile “discernere la volontà di Dio, cioè che è buono, a lui gradito e perfetto”. Anche questo è racchiuso in quel “Sia fatta la tua volontà” ed ecco perché ho scritto che, per chi recita il Padre nostro indipendentemente dal fatto che lo utilizzi come preghiera recitata o modello, sono parole che impegnano profondamente e non possono venire pronunciate alla leggera, non confermandole con un comportamento – impegno consono all’importanza che rivestono. Pronunciarle significa porre la nostra persona in secondo piano dichiarando la nostra disponibilità ad accettare qualunque progetto che Dio ha per noi.

Successivamente Gesù ci indica dove debba compiersi questa volontà e lo fa citando la totalità dei luoghi coinvolti, il cielo e la terra. È una congiunzione tra i due elementi, il planare perfetto del volere del Padre che dall’alto, o meglio dalla dimensione perfetta dello spirito, la quarta, arriva fino a noi. Obiettivamente, presa alla lettera la prima parte, sembrerebbe una richiesta senza senso, poiché il Padre agisce indipendentemente dalla volontà dell’uomo, non ha chiesto il permesso a nessuno quando ha dato inizio alla creazione e neppure il nostro prima di farci venire al mondo; anzi, dalla lettura di Giobbe 38.8-41 emerge quanto siano distanti la nostra conoscenza, volontà e possibilità dalle sue. Ricordiamo parte delle parole di questo passo: “Cingiti i fianchi come un prode: io ti interrogherò e tu mi istruirai: quando ponevo le fondamenta della terra, tu dov’eri? Dimmelo, se sei tanto intelligente! (…) Chi ha chiuso tra due porte il mare, quando usciva impetuoso dal seno materno, quando io lo vestivo di nubi e lo fasciavo di una nuvola oscura, quando gli ho fissato un limite e gli ho messo chiavistello e due porta dicendo «Fin qui giungerai e non oltre e qui s’infrangerà l’orgoglio delle tue onde»?(…) Da quando vivi, hai mai comandato al mattino e assegnato il posto all’aurora, perché afferri la terra per i lembi e ne scuota i malvagi, ed essa prenda forma come creta premuta da sigillo e si tinga come un vestito e sia negata ai malvagi la loro luce e sia spezzato il braccio che si alza a colpire? Sei mai giunto alle sorgenti del mare e nel fondo dell’abisso hai passeggiato? Sei mai giunto fino ai depositi della neve, hai mai visto i serbatoi della grandine, che io riserbo per il giorno della sciagura, per il giorno della guerra e della battaglia?”.

Ecco, in questo dialogo abbiamo un racconto di alcune fasi della creazione e del diluvio, che non esistono nel libro della Genesi, da cui traspare la perfetta scienza e autonomia di Dio. Allora la risposta alla domanda sul perché di una simile richiesta nel “Padre nostro” non può essere se non il voler aderire ancora una volta e con forza al progetto del Creatore: è una dichiarazione totale che, come già detto, non può essere pronunciata alla leggera, ritualmente, distrattamente, ma richiede piena partecipazione non come atteggiamento, ma come condivisione. “Sia fatta la tua volontà” è una confessione, è la dichiarazione mediante la quale ci riconosciamo dei subordinati a lui perché la volontà che si deve compiere non può essere che la sua, come comprese quel lebbroso che disse a Gesù “Signore, se tu vuoi, puoi guarirmi” (Marco 1.40). Sappiamo che fu quella frase a suscitare in Nostro Signore la compassione, cioè a immedesimarsi nella sua condizione che contemplava sì la malattia, ma anche tutto quel sentimento di riverenza, fede e non pretesa. “Se tu vuoi, puoi”, è una frase che potremmo definire parente stretta di quel “Sia fatta la tua volontà” espressa nel Padre nostro.

La volontà del Padre in cielo è un riferimento a tutto ciò che non conosciamo relativamente ai Suoi piani, alla totalità di quel creato che possiamo soltanto intravedere e dal quale siamo stati esclusi per quanto riguarda la nostra vita in una terra in cui sperimentiamo costantemente le conseguenze del peccato dei nostri progenitori. Esprimere la preghiera per cui sia fatta la volontà del Padre in cielo come in terra, esprime l’adorazione profonda dell’uomo al suo Dio: “Il Signore ha posto il suo trono nei cieli e il suo regno domina l’universo. Benedite il Signore, angeli suoi, potenti esecutori dei suoi comandi, attenti alla voce della sua parola. Benedite il Signore, voi tutte sue schiere, suoi ministri che eseguite la sua volontà” (Salmo 103.19-21). Amen.

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05.33 – PADRE NOSTRO 3/9 (Matteo 6.9-13)

05.33 – Padre nostro – III (Matteo 6.9-13)

 

9Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome,10venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. 11Dacci oggi il nostro pane quotidiano, 12e rimetti a noi i nostri debiti  come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori, 13e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male.14Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi;15ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.”.

VENGA IL TUO REGNO

Siamo giunti al secondo dei tre “tuo”che, nel “Padre nostro”, indicano l’area di pertinenza di Dio. Così come è il Suo Nome che deve essere santificato, in opposizione a quello di altri, così deve venire il Suo Regno, non uno dei tanti che gli uomini hanno cercato di instaurare, a volte riuscendovi per quanto temporaneamente. Così, in questi “ultimi giorni” cui abbiamo accennato la volta scorsa, questa speranza, questo desiderio del nostro spirito, è inevitabile che si faccia più pressante stante la presenza di un altro regno, a lui opposto, che il “principe di questo mondo” sta realizzando ed è di imminente instaurazione: si tratta di un sistema che sarà costituito da un potere economico assolutamente immorale in mano a pochi, che richiederà totale adesione di coscienza e azione, che combatterà con tutti i mezzi a sua disposizione chi dissentirà da lui. Uno stato di cose che finirà con la distruzione del pianeta che, come sappiamo, è scritto che “si logorerà come un vestito”. Il Regno vero, quello di Dio, si realizzerà definitivamente quando avverrà ciò che l’apostolo Giovanni vide dopo il giudizio finale: “Poi vidi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il primo cielo e la prima terra erano passati e il mare non c’era più. E io, Giovanni, vidi la santa città, la nuova Gerusalemme, che scendeva dal cielo presso Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. E udii una gran voce dal cielo, che diceva «Ecco il tabernacolo di Dio con gli uomini! Ed Egli abiterà con loro, ed essi saranno suo popolo e Dio stesso sarà con loro e sarà il loro Dio. E Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi, e non ci sarà più la morte, né cordoglio, né grido né fatica, perché le cose di prima son passate»” (Apocalisse 21.1-4).

Va sempre tenuto presente il dualismo esistente in ogni elemento: il “regno“ ha come definizione quella di uno stato monarchico inteso come ente politico, come territorio e come insieme dei cittadini. Indica un ambito e un luogo più o meno grande su cui il potere viene esercitato e in cui qualcuno domina. Questa definizione non ci può far venire in mente l’impossibilità che ha l’essere umano di servire a due padroni e quindi di appartenere a un contesto piuttosto che a un altro. Del resto, sappiamo che Satana si trova a suo agio sulla terra, che percorre alla ricerca tanto di chi possa perdere, quando di chi possa tentare. Incontrando Dio in Giobbe, alla domanda “Da dove vieni?” risponderà “Da un giro sulla terra che ho percorso” o, come in un’altra versione, “Dall’andare avanti e indietro sulla terra e dal percorrerla su e giù” (Giobbe 1.7).

Il Regno di cui preghiamo la venuta deve ancora venire, ma chiunque crede e fa la volontà di Dio ne fa già parte, pur vedendolo ancora in lontananza. E qui si dovrebbe aprire una grande parentesi, perché dovremmo affrontare il tempo come dimensione in cui agiscono gli uomini a prescindere dall’epoca in cui sono vissuti. Leggiamo in Giovanni 8.56 “Abramo desiderò vedere il mio giorno; lo vide e ne gioì. Ancora in Matteo 13.17 “In verità vi dico: molti profeti e giusti hanno desiderato vedere ciò che voi vedete, e non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, e non lo ascoltarono”. Ricordiamo Ebrei 11.13 “Nella fede morirono tutti costoro, senza avere ottenuto i beni promessi, ma li videro e li salutarono da lontano, dichiarando di essere stranieri e pellegrini sulla terra”. Ecco perché il “Regno” è il tutto, come lo è Cristo presente alla creazione, che venne al mondo con un corpo simile al nostro, che tornerà a giudicare il mondo e a realizzare il compimento definitivo delle promesse. Molto belle le parole di San Girolamo in proposito: “Vedi qui dunque come l’Antico Testamento si unisce al Nuovo; poiché se i Profeti fossero stati servitori di un Dio estraneo o contrario a Cristo, mai avrebbero desiderato vederlo” (Catena aurea: glossa continua super Evangilia). Il “Regno” si realizza attraverso ogni singolo istante e in ogni anima che crede in Gesù e lo accoglie, cambiando vita e scopo di esistenza. Il Regno è quel luogo che Gesù descrisse con poche parole ai Suoi quando disse loro “Il vostro cuore non sia turbato: credete in Dio, e credete anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore; se no ve lo avrei detto. Io vado a prepararvi un posto. E quando sarò andato e vi avrò preparato il posto, ritornerò e vi accoglierò presso di me, affinché dove sono io siate anche voi. Voi sapete dove vado, e sapete anche la via” (Giovanni 24.1-4).

Il Regno che deve venire non fu rivelato in Eden, territorio in cui l’uomo, allora sì a immagine e somiglianza di Dio, poteva vederlo, parlargli e camminare assieme per il giardino nel fresco della sera. Con la catastrofe conseguente all’infrazione dell’unico comandamento ricevuto, l’uomo, divenuto incompatibile con quel luogo santo e la trasformazione della sua fisiologia da immortale a mortale, ascoltò la condanna del serpente e la promessa di un riscatto visto nella progenie della donna che gli avrebbe schiacciato il capo.

Ecco, lì fu annunciato per la prima volta, per quanto in modo velato, ma alla fine della dispensazione dell’innocenza, quando i nostri predecessori entrarono in quella della coscienza. Da lì in poi, attraverso quella della Legge e poi della Grazia nella quale viviamo tuttora, non mancarono mai le rivelazioni di Dio che promettevano un radicale cambiamento della condizione amara in cui erano soggetti subendo il male con persecuzioni umane o con le tentazioni mirate dell’Avversario.

Il Regno di Dio fu rivelato ed è tuttora in costruzione attraverso i tempi. Gesù Cristo, testimone nell’eternità e nel tempo umano, disse parlando alle subdole autorità religiose di allora “Abrahamo, vostro padre, giubilò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e se ne rallegrò” (Giovanni 8.56): questo avvenne probabilmente attraverso una visione profetica in uno dei colloqui con “l’Angelo del Signore”. La progressione del Regno attraverso i secoli la vediamo agli inizi della storia umana, anche quando, in Genesi 4.26, a proposito della posterità di Adamo, che dopo Abele generò Set, è scritto “Anche a Set nacque un figlio, e lo chiamò Enos. Questi cominciò a invocare il nome del Signore”. Il tutto mentre esistevano, come progenie di Caino, “i figli degli uomini”.

Il Regno di Dio, nel suo punto di svolta che vi sarebbe stato con la morte e resurrezione di Cristo, lo vediamo anche nell’incontro sul monte della trasfigurazione al quale parteciparono anche Mosè ed Elia che “parlavano con lui della sua dipartita che stava per compiersi a Gerusalemme” (Luca 9.31).

Il Regno di Dio, però, al di là della sua manifestazione definitiva di cui siamo in attesa, è anche qualcosa che permea: quando infatti Nostro Signore fu interrogato dai farisei “…su quando sarebbe venuto il Regno di Dio, rispose loro e disse «Il regno di Dio non viene in maniera che si possa osservare, né si dirà Eccolo qui o Eccolo là, poiché ecco, il regno di Dio è dentro di voi»” (Luca 17.20-21) là dove un’altra traduzione, ugualmente corretta stante l’ambivalenza del significato, recita “È già in mezzo a voi”. Si tratta di un regno spirituale che si manifesta in molte modalità: quante volte Gesù iniziò alcune sue parabole con le parole “Il regno dei cieli è simile a…”? Ricordiamo ad esempio:

il seme della senape (Matteo 13.32,32)

«Il regno dei cieli è simile a un granello di senape, che un uomo prese e seminò nel suo campo. 32Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre piante dell’orto e diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a fare il nido fra i suoi rami».

il mercante che trova una perla di enorme valore (Matteo 13.44-46)

“Il regno dei cieli è anche simile a un mercante che va in cerca di belle perle;
e, trovata una perla di gran valore, se n’è andato, ha venduto tutto quello che aveva, e l’ha comperata”.

la rete gettata nel mare (Matteo 13.47,48)

“Il regno dei cieli è simile anche a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci. Quando è piena, i pescatori la tirano a riva e poi, sedutisi, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi. Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti.”

al lievito nelle tre misure di farina (Matteo 13.33)

«Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata».

E ve ne sono molte altre che richiederebbero uno studio a parte stante la ricchezza di elementi che ne potrebbe scaturire. “Venga il tuo regno” allora è un’espressione che include tutti questi significati senza contare la nostra posizione che va vagliata continuamente perché sappiamo, in altre parabole, quanto sia importante la vigilanza del servo vista anche nelle vergini stolte e in quelle savie. Poter dire “venga il tuo regno”, per un cristiano, significa esprimere un desiderio forte di comunione col suo Signore e confermare al tempo stesso la sua appartenenza a lui. Viceversa, sarebbe un controsenso perché, per la generazione di Caino, la venuta del regno comporterà il giudizio: “Io sono l’Alfa e l’Omega, il principio e la fine. A chi ha sete darò in dono della fonte dell’acqua della vita. Chi vince erediterà tutte queste cose e io sarò per lui Dio ed egli sarà per me figlio. Ma per i codardi, gli increduli, gli immondi, gli omicidi, i fornicatori, i maghi, gli idolatri e tutti i bugiardi, la loro parte sarà nello stagno che arde con fuoco e zolfo, che è la morte seconda”(Apocalisse 21.6-8).

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05.32 – PADRE NOSTRO 2/9 (Matteo 6.9-13)

05.32 – Padre nostro – II (Matteo 6.9-13)

9Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome,10venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. 11Dacci oggi il nostro pane quotidiano, 12e rimetti a noi i nostri debiti  come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori, 13e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male.14Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi;15ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.”.

 

SIA SANTIFICATO IL TUO NOME

Prima delle speranze o lodi espressa nella terna dei versi 9 e 10 che riguarda le aspettative spirituali. Teniamo presente che l’insegnamento di questa frase venne pronunciata in un tempo particolare, quando era imminente l’aperto rifiuto di Israele ad accettare Gesù come Messia e la Parola sarebbe stata predicata ai pagani. “Sia santificato”, cioè sia considerato come santo, riverito e glorificato da ogni creatura ragionevole, dotata di anima e libero arbitrio secondo la rivelazione di Cristo. Scrive l’apostolo Giovanni nel suo Vangelo “Dio nessuno lo ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” (1.18), di qui il fatto che nessuno può andare al Padre se non per mezzo di Lui, che è “l’immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura” (Colossesi 1.15).

Il primo elemento del “Padre nostro”, che qui consideriamo, ci parla di tempo e di scelta. Penso che si tratti di una frase sicuramente attuale dato che la dispensazione della grazia è ancora aperta, ma non si può non pensare ad alcune riflessioni sugli “ultimi tempi” che l’apostolo Pietro, guidato dallo Spirito Santo, già definiva consistere in quelli della venuta al mondo di Gesù facendo riferimento al fatto che, quando si esaurirà la Grazia, seguiranno eventi terribili per quell’umanità che non Lo avrà riconosciuto. C’è un periodo in cui l’accesso a Dio è aperto, ma ce ne sarà uno in cui sarà chiuso e già il profeta Isaia, nello scrivere l’invito del Messia a tutti gli assetati di giustizia, scriveva “Cercate l’Eterno mentre lo si può trovare, invocatelo mentre è vicino” (55.6). Ancora: “Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere innaffiato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare in modo da dare il seme al seminatore e pane da mangiare, così sarà la mia parola uscita dalla mia bocca: essa non ritornerà a me a vuoto senza aver compiuto ciò che desidero e realizzato ciò per cui l’ho mandata” (9-11). Ecco descritto il progetto di Dio per l’uomo: la Sua parola non torna a vuoto indipendentemente dal fatto che la creatura la accetti o meno, la scelga o la rifiuti. Un risultato lo produce in ogni caso, di benedizione o di esclusione.

I tempi in cui viviamo sono sia quelli di cui Paolo scrisse “…ci troviamo negli ultimi termini dei tempi” (1 Cor. 10.11): non erano importanti quanti anni o secoli mancassero, ma il fatto che erano gli “ultimi giorni” comunque: “Ora sappi questo: che negli ultimi giorni verranno tempi difficili, perché gli uomini saranno amanti di se stessi, avidi di denaro, vanagloriosi, superbi, bestemmiatori, disubbidienti ai genitori, ingrati, scellerati, senza affetto, implacabili, calunniatori, intemperanti, crudeli, senza amore per il bene, traditori, temerari, orgogliosi, amanti dei piaceri invece che amanti di Dio. Aventi l’apparenza della pietà, ma avendone rinnegata la potenza. Da costoro, allontànati” (2 Timoteo, 3.1-4). Ora le caratteristiche degli uomini degli “ultimi giorni” esistono da sempre. Pensiamo solo all’amara constatazione di Dio prima di procedere col diluvio: disse “L’uomo non è altro che carne”, ebraico “basar” che sta ad indicare non tanto il corpo fisico, appunto di ossa, muscoli, e organi, ma le forze mentali istintive che lo governano. L’uomo degli ultimi giorni però, a differenza dei suoi predecessori, è quello che cerca legittimazione e ufficializzazione a tutti i costi delle proprie azioni malvage a differenza del suo omologo di quelli antichi che, pur contravvenendo alle leggi della “comunità civile” o comunque fautore di infrazioni che la stessa avrebbe riprovato anche solo moralmente, agiva di nascosto e mai sarebbe stato portato come esempio. Questo accade oggi in cui, paradossalmente, i trasgressori sono coloro che cercano di vivere la loro vita e fede cristiana autentica, già minata all’interno dello stesso cristianesimo a prescindere dalla denominazione.

Pur non sopportando personalmente il moralismo, è fuor di dubbio che nostri sono i giorni in cui molte libertà e concetti elementari di regole di vita stanno stravolgendosi con un ritmo sempre più allarmante. Satana, che sa di avere poco tempo, fa sì che vengano minate proprio le identità cristiane precise e costituisce poco a poco una religione al servizio della politica e del governo mondiale che, salvo ormai dettagli, è realizzato. È questo il tempo in cui alla pietà e alla carità si sostituiscono opere di facciata e ai giovani è rivolta tutta una strategia di comunicazione mirante a renderli incapaci di riflettere a vantaggio della soddisfazione di qualunque istintività vista come un diritto da acquisire sempre e comunque.

Sia santificato il tuo nome”, lo ritengo allora un qualcosa di strettamente, urgentemente correlato ora più che mai ai successivi due elementi del Padre Nostro (“Venga il tuo Regno” e “Sia fatta la tua volontà”) affinché il disegno di Dio possa compiersi presto, fermo restando che i tempi sono, come sempre Suoi.

Sia santificato il tuo nome”, però, implica una collaborazione dell’uomo: senza una testimonianza attiva da parte di chi ha creduto, il “Nome” di Dio non sarebbe mai stato conosciuto. Ai tempi dell’Antico Testamento erano i prodigi e i giudizi, a volte sul singolo, altre sull’intero popolo d’Israele, altre ancora sui popoli che con lui avevano a che fare; ai tempi del Nuovo, a produrre questa santificazione del Nome, sono stati i miracoli fatti da Gesù e dagli apostoli e quindi la predicazione, la conversione e la testimonianza di coloro che, in virtù della loro fede, cambiavano vita spiegando agli altri le ragioni del loro comportamento, il perché di una scelta.

Nonostante quello che ho detto sui motivi che produssero in me la certezza che non vi fosse altro Dio all’infuori di quello annunciato da Cristo, la mia sarebbe stata solo una convinzione personale se non avessi trovato uomini e donne che avessero rivolto il loro cuore a Lui e che mi avessero dato l’esempio particolarissimo di persone che, nonostante i loro limiti e imperfezioni, avevano una meta, un obiettivo da raggiungere anche a costo di sforzi e scelte non facili. Persone che avevano messo da parte il loro io e si erano messe a cercare la santità.

Molto spesso si pensa, come cristiani, di essere chiamati a compiere grandi cose, ma ci si dimentica che dobbiamo esercitarci nelle piccole, perché “chi è fedele nel poco, è fedele anche nel molto e chi è ingiusto nel poco, lo è anche nel molto” (Luca 16.10); ricordiamoci del premio di quel servitore che si sentì dire “Bene, buono e fedele servo: tu sei stato fedele in poca cosa e io ti costituirò sopra molte cose; entra nella gioia del tuo Signore” (Matteo 25.21).

Ogni azione che il credente compie per Colui che lo ha salvato, la porta avanti anche per se stesso: si tratta di quel tesoro che mettiamo da parte quando tutto ciò che avremo fatto in vita verrà vagliato quando saremo alla Sua presenza. “Secondo la grazia di Dio che mi è stata data, come savio architetto io ho posto il fondamento ed altri vi costruisce sopra, perché nessuno può porre altro fondamento diverso da quello che è stato posto, cioè Gesù Cristo. Ora, se uno costruisce sopra questo fondamento con oro, pietre preziose, argento, legno, fieno, stoppa, l’opera di ciascuno sarà manifestata mediante il fuoco, e il fuoco proverà quale sia l’opera di ciascuno. Se l’opera che uno ha edificato sul fondamento resiste, egli ne riceverà una ricompensa, ma se la sua opera è arsa, egli ne subirà la perdita. Non di meno sarà salvato, ma come attraverso il fuoco” (1 Cor. 3.10-15).

Ecco, il cristiano e la Chiesa di cui fa parte sono coinvolti nella santificazione del Nome perché, senza la testimonianza di ciascuno, il concetto di Dio sarebbe assolutamente sterile, identico a quello di altre confessioni. Indubbiamente, nonostante Satana si sia dato da fare parecchio e purtroppo con successo anche all’interno della Chiesa, il “rimanente fedele” ha resistito e ha annunciato il Vangelo sia con la predicazione che con l’esempio di una vita dedicata a Colui che lo ha salvato. Il cristianesimo non è grido, funzioni solenni che attirano curiosi, grandi movimenti acclamanti o processioni che tanto fanno pensare al paganesimo, ma molto spesso è silenzio e servizio muto. E naturalmente fatti concreti.

Il “Nome” di Dio, fermo restando che non non ha uno come il nostro che usiamo per distinguerci gli uni dagli altri, credo che sia da ricercarsi nella terza persona del verbo essere, “Colui che è”. Non c’è bisogno di affannarsi per chiamarlo o definirlo perché quell’ “È” esclude la presenza di qualsiasi altro. Dio “è”, tempo presente che viene dall’eternità come Gesù ebbe a dire: “Prima che Adamo fosse nato, io sono” (Giovanni 8.58) e collegato a quel “Gesù Cristo è lo stesso di ieri, di oggi e in eterno” (Ebrei 13.8). Giovanni, in 8.58, non aggiunge altro. Forse nessuno osò chiedere ragguagli a Gesù sulla sua frase. Io di domande gliene avrei fatte molte. La pericope di Giovanni implica il fatto che presso di Lui non esiste interrogativo che non possa avere una risposta, un elemento che non possa avere un posto. L’ordine del tutto scaturito dal nulla, poiché prima del mondo, alla nostra portata, non esisteva niente.

Sia santificato il tuo nome”, allora, è frase che esprime la preghiera, o la speranza, per cui tutti possano riconoscerlo come unico Dio, vero risolutore del problema basilare della nostra origine e fine. L’unico, tra i tanti, troppi, falsi che il mondo ci propone.

Sia santificato il tuo nome”, quindi non quello di altri e qui non possiamo non fare un riferimento all’elemento che apre il decalogo contenuto sulle tavole che Dio e non Mosè scrisse: “Io sono il Signore Iddio tuo, che ti ho tratto fuori dal paese d’Egitto, dalla casa di servitù. Non avere altri dei nel mio cospetto”; come Israele fu liberato dal Paese in cui era schiavo, il cristiano è stato liberato dalla schiavitù del peccato nel senso che gli è stata data l’opportunità di vivere non più dominato da lui. Non avere altri dèi, per chi crede davvero e mette in pratica, ora significa non avere più dei riferimenti estranei per la sua realizzazione spirituale, non avere altri punti di riferimento. Questo significa, per il credente, santificare il nome del Padre suo. Del Padre nostro. Amen.

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05.31 – PADRE NOSTRO 1/9 (Matteo 6.9-13)

05.32 – Padre nostro – I (Matteo 6.9-13)

 

9Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome,10venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. 11Dacci oggi il nostro pane quotidiano, 12e rimetti a noi i nostri debiti  come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori, 13e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male.14Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi;15ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.”.

Se dovessi definire il “Padre nostro”, personalmente lo farei in tre modi: è una preghiera, è un modello di preghiera, è un inno con una sua struttura precisa. Partendo dall’ultima caratteristica, quella dell’inno, vediamo che ha una struttura bipartita A-B. Nella A abbiamo l’espressione di tre “speranze”, o più propriamente “lodi”, e nella B quattro preghiere anche se la formula “non indurci in tentazione”insegnata per la recitazione mnemonica è errata essendo più proprio “non abbandonarci”o “non esporci”. Ancora una volta abbiamo allora il numero 3, indice di perfezione e completezza assieme al 7 e al 10, e il 4, tipico dell’uomo o, meglio, di qualcosa di cui necessita per avere stabilità. Nella parte A, vista nelle espressioni “sia santificato il tuo Nome”, “venga il tuo regno” e “sia fatta la tua volontà”, c’è chi ha riconosciuto un andamento discendente per l’essere umano, partendo dall’alto del Suo nome giungendo all’adempimento della Sua volontà, mentre nella B troviamo un percorso ascendente, partendo dal “pane quotidiano” per arrivare alla liberazione dal maligno (o dal male che è la sua diretta emanazione). Dio si piega verso l’uomo che, se lo riconosce, ha il dovere di elevarsi e di iniziare un cammino.

Il “Padre nostro” è un modello di preghiera perché, se quel “pregate così” fosse riferito ad un’unica formula accettata da Dio significherebbe avere il possesso di una sorta di “password” e che qualunque altro contenuto sarebbe rigettato. Naturalmente non è così anche perché il parallelo di Luca è lievemente diverso e, nel Nuovo Patto, troviamo tante preghiere diverse e specifiche, frutto dello Spirito e non di memorizzazione.

Il “Padre nostro” è una preghiera anche se una parte della cristianità piuttosto radicale si vanta di non recitarla mai accusando chi la utilizza di essere un perditempo o un superstizioso sostenendo (quasi) a spada tratta che qui Gesù ci indica le cose che dobbiamo chiedere e non le parole che dobbiamo pronunciare. Personalmente non ho mai capito questo accanimento, tanto più che le varie Chiese cristiane hanno degli inni che, anche se non parlati, ripetono le stesse parole ogni volta che vengono cantati dall’Assemblea. Non capisco quindi la differenza tra una preghiera cantata qual è l’inno vero e proprio, e una recitata consapevolmente qual è appunto il “Padre nostro” che, fra l’altro, inno, oltre che preghiera, a mio giudizio è.

Le tre speranze della prima parte non hanno solo un andamento discendente, ma si riferiscono anche a tutto il piano di Dio che si è sviluppato attraverso i secoli: il Padre che abita nei cieli, nella dimensione dell’eternità che un caro fratello amava definire come “quel concetto di tempo che non ha inizio né fine”, non lasciò solo Adamo dopo la caduta, ma fece la promessa in base alla quale la progenie della donna avrebbe schiacciato il capo al serpente in attesa della venuta del regno e alla volontà finale vista in quei “Nuovi cieli e nuova terra dove giustizia abita” che saranno pronti quando il numero dei salvati sarà completo e avremo il giudizio finale sull’Avversario e tutti coloro che lo avranno seguito.

Le quattro preghiere, d’altro lato, con il loro andamento ascendente, partono dalle elementari esigenze del corpo per il suo sostentamento e terminano con la liberazione dal maligno: questa coinciderà proprio con l’avvento del Regno che costituirà la liberazione da Satana e da tutto ciò che è sua diretta emanazione. L’ultima parte del periodo A, “Sia fatta la tua volontà”, punto di arrivo del piano di Dio per l’uomo, coincide con l’ultima parte del periodo B, “Liberaci dal maligno”, punto di arrivo del percorso dell’uomo che a Lui si è affidato: lo ha fatto per quanto peccatore, per quanto imperfetto e bisognoso di cure continue, ma santificato dal sangue di Colui che, morendo sulla croce, ha compiuto il sacrificio per eccellenza, gradito a Dio “una volta per sempre” (Ebrei 10.10).

Possiamo concludere questo breve sguardo in generale sulla preghiera insegnata da Gesù con questa annotazione: abbiamo l’espressione di tre speranze, o lodi, e quattro richieste per un totale di sette elementi, preceduti da un’invocazione per un totale di otto episodi. Ecco allora che l’ottavo elemento, cioè l’invocazione, sta a significare ancora una volta il compimento, l’indirizzo perfetto a cui inviamo le nostre richieste, ben diverse da una divinità generica che non ha orecchi per udire e potenza per rispondere proprio come il Baal al quale i suoi profeti si rivolgevano nel passo che abbiamo citato nelle precedenti riflessioni, appartenete al capitolo 18 del primo libro dei Re.

 

  1. PADRE NOSTRO CHE SEI NEI CIELI

In questa pericope vengono contemporaneamente espresse le idee della prossimità e della distanza. La prima fornisce una caratteristica di Dio alla quale gli ebrei non erano abituati, essendo usi a chiamare Dio con una quantità notevole di nomi, o più propriamente attributi. Ricordiamo Elohim, in forma plurale, il primo incontrato in Genesi 1.1. Troviamo poi “El” come suffisso accompagnato a un sostantivo come ad esempio El Hane’eman (Il Dio fedele), El Elyon (Il Dio altissimo), El Olam (Il Dio d’eternità), El Echad (L’unico Dio), ma anche “il Dio d’Israele”, “del cielo e della terra” e molti altri.

Abbiamo poi il tetratramma YHVH, tradotta come “Signore”, rivelato per la prima volta a Mosé al pruno ardente: “Io sono colui che sono”, tetragramma proveniente dal verbo “essere”. Di questo nome, pronunciato da alcuni YEHOWAH e dal altri YAHVEH, non si conosce in realtà la pronuncia corretta poiché l’uso di utilizzarlo nel linguaggio parlato presso gli ebrei cessò nel 200 d.C. temendo di infrangere il comandamento “Non usare il nome dell’Eterno, che è il Dio tuo, in vano; perché l’Eterno non terrà per innocente chi avrà usato il suo nome invano” (Esodo 20.7). Oggi i rabbini spiegano che nel tetragramma è anche compreso il senso del nascondere e da qui l’impronunciabilità del Nome.

Il Dio rivelato ad Israele era quindi innanzitutto l’Unico vero, giusto e terribile, ma anche amorevole come sappiamo fu testimoniato, fin dagli inizi della storia umana, dal vestito confezionato ai nostri progenitori e dalla promessa della progenie della donna che avrebbe schiacciato il capo al serpente.

La qualifica di Dio come “Padre”, tuttavia, era quasi sconosciuta, potremmo definirla come velata e veniva usata per ricordare agli israeliti la loro ribellione. Ad esempio vediamo Isaia 1.2 “Udite, o cieli, e ascolta, o terra, perché L’Eterno ha parlato: «Ho allevato dei figli e li ho fatti crescere, ma essi si sono ribellati contro a me”. Malachia 1.6 riporta le parole di Dio “«Un figlio onora il padre e un servo il suo signore. Se dunque io sono padre, dov’è il mio onore? E se sono signore, dov’è il timore di me?» dice l’Eterno degli eserciti a voi, sacerdoti «che disprezzate il mio nome» e dite «In che cosa abbiamo disprezzato il tuo nome?».

Ora invece abbiamo questo titolo di Dio, Padre, che in tutti e quattro i Vangeli verrà utilizzato 80 volte in passaggi indicanti il legame tra il credente e Dio e tra Cristo e Colui che lo ha mandato: non è poco. Gesù quando pregava si rivolgeva a Dio chiamandolo Padre e la stessa cosa possiamo fare noi, sotto la nuova rivelazione, la nuova dispensazione, epoca, periodo della Grazia fino a quando Dio riterrà opportuno farla durare. Con la rivelazione della parola “Padre” abbiamo l’apertura di un ponte reso possibile, in tutta la sua ufficialità, con la resurrezione e ascensione al cielo di Cristo perché fu quella a sancire in modo definitivo che era Gesù e non altri il Figlio di Dio promesso.

Qui possiamo aprire una parentesi riguardante la religione in genere. Al mondo ce ne sono tante, ciascuna che propone un modello di vita più o meno austero o rigido, ciascuna che propina una o più verità e ciascuna di loro ha un fondatore. La religione implica aderire ad essa in modo più o meno radicale, comporta l’osservanza di riti e atteggiamenti che molto possono adattarsi ai versi letti tempo fa, quelli relativi al “premio” che a nulla serve. Religione a parte ci sono poi correnti di pensiero, o ideali, ai quali molti aderiscono e si impegnano con forme di attivismo più o meno accentuate. Sono però fedi basate sull’uomo. Alcune di loro possono anche sembrare positive, ma riguardano uno o più settori che, se possono far sentire meglio chi si inserisce in loro, tutto possono fare tranne che salvare perché l’unica scelta possibile in tal senso è Gesù Cristo. E dico questo non per propagandare una Chiesa o uno stile di vita religioso, ma perché posso dire di avere sperimentato personalmente di non avere alcuna alternativa o scelta che possa risolvere il problema relativo al mio essere umano.

L’ateo, colui che è convinto nel profondo che non esista alcuna forma di vita superiore o creatrice, non dovrebbe avere nessun problema perché, ritenendosi il frutto di un incidente molecolare, sa di venire dal nulla e di ritornare al nulla. Chi tuttavia non riesce a concepire come il caso abbia potuto far nascere, per quanto nei millenni, anche una semplice drosophila, s’interroga inevitabilmente su chi possa essere o quale sia stata la Forza che ha creato l’Universo: ora, il problema è che tutti i fondatori delle religioni o delle forme di pensiero ad esse afferenti, sono morti. Alcuni, quelli delle numerose sette in particolare – mi riferisco sia a quelle che hanno tratto spunto dalla Bibbia che a quelle tipo Scientology – sono morti da tempo e hanno comunque lasciato imperi economici tutt’altro che irrilevanti e avuto eredi che hanno portato avanti la loro “missione”.

Gesù Cristo, però, è stato l’unico ad essere risorto, nonostante la prima reazione dell’autorità costituita fu quella di nascondere la cosa: sappiamo infatti che i soldati posti a guardia del sepolcro in cui il corpo era stato posto, corsero a riferire ai capi sacerdoti quanto avevano visto ma quelli, “radunatisi con gli anziani, deliberarono di dare una cospicua somma di denaro ai soldati dicendo loro «Dite: i suoi discepoli sono venuti di notte e l’hanno rubato mentre noi dormivamo. E se la cosa verrà agli orecchi del governatore. Lo placheremo noi e faremo in modo che voi non siate puniti». Ed essi, preso il denaro, fecero come erano stati istruiti e questo si è divulgato fra i Giudei fino ad oggi” (Matteo 28.11-15).

Ma perché credere alla resurrezione? Per quanto mi riguarda, la lettura dei Vangeli mi ha insegnato che i discepoli di Gesù, che credettero in lui nei suoi tre anni di ministero, entrarono in crisi profonda con il suo arresto e morte. Parlano credo a nome di tutti gli altri i due discepoli sulla via di Emmaus che dissero: “…ora noi speravamo che fosse lui che avrebbe liberato Israele; invece, con tutto questo, siamo già al terzo giorno da quando sono avvenute queste cose. Ma anche alcune donne tra di noi ci hanno fatti stupire perché, essendo andate di buon mattino al sepolcro, e non avendo trovato il suo corpo, sono tornate dicendo di avere avuto una visione di angeli che dicono essere lui vivente. E alcuni dei nostri sono andati al sepolcro e hanno trovato le cose come avevano detto le donne, ma lui non lo hanno visto” (Luca 24.21-24).

Vediamo l’incredulità di questi due discepoli che sicuramente rappresentavano quella di tutti: se non avessero visto il loro Maestro resuscitato non una, ma molte volte come leggiamo in Atti 1.3 – “Ad essi, dopo aver sofferto, si presentò vivente con molte prove convincenti, facendosi vedere da loro per quaranta giorni e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio” – se ne sarebbero tranquillamente tornati alle loro case e ai loro mestieri. Se quindi Pietro e tutti gli altri non avessero avuto la prova finale della resurrezione, non avrebbero avuto alcun interesse a propagandare una nuova dottrina che non solo non li avrebbe arricchiti, ma avrebbe fatto di loro dei perseguitati e soprattutto dei martiri. Qui, come uomo razionale, ho dovuto arrendermi perché all’evidenza non avevo era tanto l’ordine nell’Universo indice di un Creatore, ma la testimonianza di uomini come me che non avrebbero mai dato la loro vita per una persona, per quanto sapiente, buona e fautore di miracoli, che non avesse sancito le Sue parole con la resurrezione. Poi la Grazia ha fatto altro e ha prodotto l’uomo nuovo.

Gesù Cristo quindi visse, morì, risorse e salì al cielo. Come questo avvenne è narrato in Atti 1.9-11: “Dette queste cose, mentre essi guardavano, fu sollevato in alto e una nuvola lo accolse e lo sottrasse ai loro occhi. Come essi avevano gli occhi fissi in cielo, mentre egli se ne andava, ecco due uomini in bianche vesti si presentarono loro e dissero: «Uomini galilei, perché state a guardare verso il cielo? Questo Gesù, che è stato portato in cielo di mezzo a voi, ritornerà nella stessa maniera con cui lo avete visto andare in cielo»”. Mi fermo, purtroppo, solo sul fatto della nuvola, chiaro rimando agli episodi in cui Dio, nell’Antico Patto, manifestava la sua presenza attraverso di essa o da lei parlava. Non è che Gesù salì in cielo e continuò nella sua ascesa fino alla ionosfera e oltre: fu accolto in una nuvola ed entrò in quella dimensione così a noi lontana, ma spiritualmente non così tanto, che è quella dei “cieli” in cui il Padre Nostro abita.

Il “Padre” implica quanto l’apostolo Paolo scrive ai Romani in 8.16,17: “Lo Spirito stesso rende testimonianza al nostro spirito che noi siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi, eredi di Dio e coeredi di Cristo, se pure soffriamo con lui per essere anche con lui glorificati”. Il “Padre” è “nostro”, cioè è a noi pertinente, ci appartiene. Il “Nostro” implica relazione reciproca per cui è di ciascuno, uomo e donna, che in Lui crede. È di tutti i componenti della Chiesa, latino ecclesia, greco ek-kaleo, cioè coloro che sono “chiamati fuori” dal mondo in cui vivono. Infatti “…noi siamo debitori non alla carne per vivere secondo la carne, perché se vivete secondo la carne voi morrete, ma se per mezzo dello Spirito fate morire le opere del corpo, voi vivrete, poiché tutti coloro che sono condotti dallo Spirito di Dio sono figli di Dio. Voi infatti non avete ricevuto uno spirito di schiavitù per cadere nuovamente nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito d’adozione per il quale gridiamo «Abba, Padre»” (Ibid. v. 12-15) dove “Abba” è una parola derivante dall’aramaico traducibile con “padre” oppure il famigliare “papà”. È una relazione che si possiede, poiché un figlio è e rimane tale, ma che va al tempo stesso mantenuta e non autorizza il cristiano a comportarsi come se non fosse, appunto, un figlio.

Tornando al testo, se gli uomini di Dio dell’Antico Testamento potevano rivolgersi a Dio chiamandolo “Signore”, in Cristo ora possiamo dire “Abba, Padre”, “nostro che sei nei cieli” e che, nonostante questa distanza, è vicino e pronto ad accogliere chi lo cerca con cuore sincero e desideroso di diventare erede della promessa della vera Vita Eterna.

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05.30 – INTRODUZIONE AL PADRE NOSTRO II/II (Matteo 6.9-13)

05.31 – Padre nostro – Introduzione II (Matteo 6.9-13)

 

5E quando pregate, non siate simili agli ipocriti che, nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, amano pregare stando ritti, per essere visti dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. 6Invece, quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.7Pregando, non sprecate parole come i pagani: essi credono di venire ascoltati a forza di parole. 8Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate.9Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome,10venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. 11Dacci oggi il nostro pane quotidiano, 12e rimetti a noi i nostri debiti  come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori, 13e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male.14Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi;15ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.”.

Siamo così arrivati al secondo incontro introduttivo sulla preghiera insegnata da Gesù, nel sermone sul monte, ai discepoli e a tutti quanti vollero incontrarlo. Il verso settimo prende in esame una categoria nuova di persone, cioè i pagani che vengono associati ai farisei e a chi pratica una vuota religiosità alla quale potevano affiancarsi anche manifestazioni di lesionismo corporali che estendevano il concetto di “mortificazione” che avveniva tramite il digiuno. È interessante il verbo greco che ha utilizzato forse lo stesso Matteo dall’aramaico, “Battologhéo”, riferito a Battos, poeta greco verboso e prolisso noto per le sue continue ripetizioni inutili e retoriche. È scritto che i pagani pensano di essere esauditi per la moltitudine delle loro parole: un riferimento (anche) a 1 Re 18.26 quando viene riportato che i profeti di Baal invocarono il nome del loro dio dal mattino fino a mezzogiorno, “26…ma non si udì alcuna voce e nessuno rispose. Intanto essi saltavano intorno all’altare che avevano fatto”. 27A mezzogiorno Elia cominciò a beffarsi di loro e a dire «Gridate più forte, perché egli è dio: forse sta meditando o è indaffarato o è in viaggio, o magari si è addormentato e dev’essere svegliato». 28Così essi si misero a gridare più forte e a farsi incisioni con spade e lance secondo le loro usanze finché grondavano di sangue. 29Passato mezzogiorno, essi profetizzarono fino al tempo di offrire l’oblazione, ma non si udì alcuna voce, nessuno rispose e nessuno diede loro retta”. Troviamo un riferimento interessante anche nel Nuovo Testamento, in Atti 19.34 quando, per circa due ore, tutti gridavano “Grande è la dea Diana degli Efesini”. È un mantra, la ripetizione infinita, cui non pochi tra i medici della psiche e purtroppo anche nel cristianesimo attribuiscono un valore.

Illuminanti le parole in Ecclesiaste 5.1-3 “1Bada ai tuoi passi quando vai alla casa di Dio: avvicinati per ascoltare piuttosto che per offrire il sacrificio degli stolti, i quali non sanno neppure di far male. 2Non essere precipitoso con la tua bocca e il tuo cuore non si affretti a proferire alcuna parola davanti a Dio, perché Dio è in cielo e tu sulla terra: perciò siano le tue parole poche. 3Poiché con le molte occupazioni vengono i sogni e con le molte parole la voce dello stolto”. È importante notare che, in questi versi, quando troviamo scritto “Dio” il testo originale abbia il plurale Elohim e quindi suggerisca il concetto trinitario che andrebbe tradotto “Iddio”. C’è però il pericolo di un fraintendimento, poiché la lettura di questi versi sembra esortare a una preghiera breve a prescindere: chi può quantificare il tempo giusto per farlo? Nel senso, vanno bene pochi secondi o pochi minuti? Se sì, quanti? Quante parole sono necessarie perché, come ha scritto Salomone, siano considerate “poche”?

In realtà Nostro Signore e il riferimento nell’Ecclesiaste non parla del pregare tanto o poco, ma all’intelligenza della persona: “pregherò con lo spirito, ma pregherò anche con intelligenza”, scrisse Paolo in 1 Corinti 14.15. È probabile che qui Gesù, che passava notti intere a pregare, abbia fatto un riferimento al non fare della ripetizione e della lunghezza della preghiera un obbligo con la speranza-garanzia che questa venga esaudita esattamente come speravano i profeti di Baal di cui abbiamo letto. È la preghiera del pagano che chiede segni, miracoli, manifestazioni soprannaturali o che la vita si svolga attraverso esaudimenti di richieste materiali; quella del cristiano, invece, deve avere intenti e origini opposte viste nel dialogo, nel confronto col Padre ora possibile grazie allo Spirito Santo e all’intercessione del Risorto.

Infatti il verso successivo parte con l’esortazione – comandamento: “Non siate come loro” e ne spiega il motivo, “perché il Padre vostro sa le cose di cui avete bisogno prima che gliele chiediate”. Se il pagano è convinto che il suo dio vada informato delle cose che gli necessitano, il cristiano è spinto alla preghiera fondamentalmente perché ha bisogno della comunione col Padre e che questo implica necessariamente un profondo esame di coscienza: ci presentiamo a lui consci delle nostre mancanze e ne chiediamo perdono? Abbiamo dei pesi che ostacolano il nostro cammino di comunione? Ci mettiamo davanti a Lui con onestà di cuore, rifuggendo le eventuali contaminazioni, siamo attenti? Abbiamo dei peccati non confessati e non lasciati?

Il Padre sa di cosa abbiamo bisogno prima che glielo domandiamo. Siamo qui a un bivio: il Creatore che sa cosa necessita realmente la Sua creatura, ma questa spesso non conosce le sue necessità spirituali, al contrario delle sollecitudini ansiose che ha ben presente: “Non cercate di che cosa mangerete o che cosa berrete e non ne siate in ansia, perché le genti del mondo cercano tutte queste cose, ma il Padre vostro sa che voi ne avete bisogno” (Luca 12.29-30).

 

Il sette, l’otto e altri numeri

Quello che mi ha stupito ed altrettanto edificato nell’esaminare il contesto di questa preghiera è la posizione che occupa il sostantivo “Padre” all’interno dei capitoli 5 e 6 del Vangelo di Matteo. Vediamo i versi che precedono il “Padre nostro”:

 

  1. “…affinché siate figli del Padre vostro” (5.45)
  2. “Voi dunque siate perfetti, come è perfetto il Padre vostro, che è nei cieli” (5.48)
  3. “…altrimenti voi non ne avrete ricompensa presso il Padre vostro, che è nei cieli” (6.1)
  4. “… e il Padre tuo, che vede nel segreto, te ne darà ricompensa palesemente” (6.4)
  5. “…chiudi la porta e prega il Padre tuo, che vede nel segreto” (6.6)
  6. “…e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà pubblicamente” (6.6)
  7. “…il Padre vostro sa le cose di cui avete bisogno prima che gliele chiediate” (6.8)
  8. “Padre nostro che sei nei cieli…” (6.9)

 

Le riflessioni che si possono fare a questo punto sono molte. Guardando ai primi sette versi che riportano la parola “Padre”, non si può ignorare che la loro quantità ha riferimento diretto a Dio, alla Sua opera, pienezza e perfezione. La presenza di questo numero è costante in tutta la Bibbia a partire dalla Genesi quando fu il settimo giorno a fare da sigillo alla creazione. Tra innumerevoli episodi citabili, sono particolarmente importanti le sette volte in cui il generale del re di Siria Naaman fu mandato a bagnarsi nel Giordano da Eliseo per guarire dalla lebbra, oltre ai sette anni impiegati da Salomone per costruire il Tempio, per non parlare della costante del numero nel libro dell’Apocalisse.

Forse può essere interessante, a proposito del Sette, citare la figura di Ivan Nikolayevich Panin (1855 – 1942), critico letterario nichilista e agnostico molto conosciuto in Canada e negli Stati Uniti d’America, che si convertì al Cristianesimo quando, analizzando numericamente i testi del Nuovo e Antico Testamento, dopo un lavoro durato otto anni ed aver riempito un totale di circa 40mila pagine, giunse alla conclusione che il numero 7 è alla base di tutta la struttura letteraria biblica a patto che questa non sia manipolata tramite l’inserimento di parole non presenti nell’originale. Ivan Panin dedicò i restanti 50anni della sua vita allo sviluppo della scienza dei numeri biblici rifiutando incarichi universitari anche prestigiosi.

Può essere interessante cercare in rete “Ivan Panin” dove i dati sulla sua ricerca abbondano. Mi limito a trascrivere la sua ricerca sul verso di Genesi 1.1 “Nel principio Iddio creò i cieli e la terra”.

La frase in ebraico è composta di sette parole, ciascuna delle quali ha il suo valore numerico complessivo, che si ottiene sommando il valore di ogni lettera:

– בראשית 913 (400+10+300+1+200+2) Nel principio

– ברא 203 (1+200+2) creò

– אלהים 86 (40+10+5+30+1) Dio

– את 401 (400+1) Articolo indefinito non traducibile

– השמים 395 (40+10+40+300+5) i cieli

– ואת 407 (400+1+6) e

– הארץ 296 (90+200+1+5) la terra

In questo breve versetto, il numero sette con i suoi multipli ricorre in decine di combinazioni di cui riportiamo solo alcuni esempi:

– Il numero delle parole del verso è 7.

– Vi sono tre importanti parole: Dio, cieli, terra che hanno valore 86, 395, 296. Sommati tra loro danno 777, cioè 111×7.

– Il numero delle lettere di queste tre parole (Dio, cieli, terra) è 14 (2×7).

– Il numero delle lettere delle quattro restanti parole è sempre 14 (2×7).

– Il numero totale delle lettere ebraiche in questa frase è dunque 28 (4×7).

– Le prime tre di queste sette parole ebraiche contengono il soggetto e il predicato della frase: “Nel principio Iddio creò”. Il numero delle lettere di queste tre parole è 14 (2×7).

– Le altre quattro parole contengono l’oggetto della frase: “i cieli e la terra”. Il numero delle lettere di queste quattro parole è anch’esso 14 (2×7).

– Il valore numerico del verbo “creò” è 203 (29×7).

– Il numero trovato sommando il valore numerico della prima e dell’ultima lettera di tutte e sette le parole che compongono questo versetto è 1393 (199×7).

– Il numero 1393 si divide nella seguente maniera:

  1. a) il numero che si ottiene sommando i valori numerici della prima e dell’ultima lettera della prima e della settima parola è un multiplo di 7: 497 (71×7)
  2. b) Il numero che si ottiene sommando i valori numerici della prima e dell’ultima lettera delle cinque parole rimaste in mezzo è anch’esso un multiplo di 7, cioè 896 (128×7),

– L’ultima lettera della prima e dell’ultima parola hanno un valore numerico totale di 490 (70×7)

– La più breve parola è al centro. Il numero ottenuto sommando le lettere di questa parola sommate con le lettere della parola alla sua sinistra è 7.

– Il numero ottenuto sommando le lettere di questa parola sommate con le lettere della parola alla sua destra è 7.

 

Le perfezioni del numero non ricorrono solo nell’AT, ma anche nel Nuovo. Ad esempio nella genealogia di Gesù riportata da Matteo (che non a caso scrive per gli ebrei) e, sempre nel primo capitolo, ai versi da 18 a 25 in cui si narra della visita dell’angelo a Maria e della nascita di Gesù. In questo caso abbiamo:

  • in numero delle parole greche è 161 (23×7)
  • il valore numerico di queste 161 parole è di 93.394 (13.342×7)
  • Il numero delle forme grammaticali in cui queste 161 parole ricorrono è 105 (15×7)
  • Il valore numerico di queste parole usate nelle 105 forme è 65.429 (9347×7)
  • Di queste 105 forme il numero dei verbi è 35 (5×7)
  • Di queste 105 forme il numero dei nomi propri è 7
  • Il numero delle lettere in questi 7 nomi propri è 42 (6×7)
  • Il numero delle forme trovate in questo brano, ma che non si trovano in nessun’altra parte del Vangelo di Matteo è 14 (2×7)
  • Il valore numerico di queste 14 forme è 8.715 (1.245×7)
  • Le sei parole greche trovate in questo brano e che non si trovano in nessun’altra parte del libro di Matteo hanno un valore numerico di 5.005 (715×7)
  • Il numero delle lettere di queste sei parole è esattamente 56 (8×7)
  • L’unica parola trovata qui, ma che non so trova in nessun’altra parte del NT è il nome “Emanuele” il cui valore numerico è 644 (92×7)
  • Il numero delle forme
  • Il valore numerico di tutte le parole usate dall’angelo è di 21.042 (3006×7)
  • Il numero delle forme usate dall’angelo è 35 (5×7)
  • Il numero delle lettere greche in queste 35 forme usate dall’angelo è 168 (24×7)
  • Il valore numerico delle 35 forme usate dall’angelo è di 189.397 (2.772×7).

Ho riportato questi dati unicamente per rendere un’idea della perfezione che esprime questo numero.

 

Torniamo al tema delle prime sette volte in cui compare la parola “Padre”: notiamo che, negli aggettivi accanto a questa parola, abbiamo quattro volte “Vostro” e tre “Tuo”, a mio giudizio una chiara allusione alla stabilità (il numero 4) della Chiesa che sarebbe nata (vista in quel “Vostro” che accomuna) e alla imminente, nuova perfezione del rapporto individuale (il numero 3) visto nel “Tuo”, possessivo che abbiamo già visto Maria di Magdala dichiarare splendidamente con le parole “…hanno portato via il mio Signore e non so dove l’abbiano posto” (Giovanni 20.13). Era il Signore di tutti, ma in questa espressione Maria volle dichiarare tutto l’amore individuale che aveva per Lui e Lui per lei, così come ogni credente dovrebbe testimoniare.

Ora il “Padre nostro” compare per l’ottava volta quanto a parola “Padre”, ma per la prima con il possessivo “nostro”, segno di un cambiamento profondo, lo stesso che comporterà la resurrezione di Cristo, avvenuta sì nel primo giorno della settimana, ma anche nell’ottavo così come è chiamato altrimenti. Il “Padre nostro” come posizione e definizione può essere considerato sia all’ottavo posto, sia al primo ciclico di una serie di altri che si trovano a seguire. L’otto è quindi abbinabile alla nuova vita, quella eterna a cui destina tutti coloro che Lo accolgono, Lui che ci ha dimostrato che non è la morte ad avere l’ultima parola per cui è chiamato anche “Il primogenito dai morti” (Apocalisse 1.5), ma ancor di più in Romani 8.29: “…poiché quelli che ha preconosciuto, li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Suo Figlio, sia da essere lui il primogenito fra molti fratelli”. Il numero otto ha riferimento con un’altra creazione, quella appunto della “Nuova creatura” di cui parla l’apostolo Paolo in 2 Corinzi 5.17: “Se dunque uno è in Cristo, è un nuova creatura; le cose vecchie son passate, ecco, tutte le cose sono diventate nuove”. È un ottavo giorno che ogni essere umano può sperimentare.

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05.29 – INTRODUZIONE AL PADRE NOSTRO (Matteo 6.9-13)

05.30 – Padre nostro – Introduzione I (Matteo 6.9-13)

9Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome,10venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. 11Dacci oggi il nostro pane quotidiano, 12e rimetti a noi i nostri debiti  come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori, 13e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male.14Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi;15ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.”.

            Sono due le osservazioni da fare su questo testo: la prima è che, per lo meno in questa versione, viene finalmente corretta la traduzione “non indurci in tentazione” che purtroppo è diventata di dominio comune fra molti credenti, e la seconda è che manca, dopo “liberaci dal male” la pericope “Poiché tuo è il regno, la potenza e la gloria nei secoli” in uso presso le Comunità Evangeliche. Non si tratta di un’aggiunta, azione dalla quale i veri traduttori si guardano bene di fare, né di un’omissione (per la quale vale lo stesso principio); piuttosto è questa una frase che si trova presente non in tutti i manoscritti e riportarla o meno è una scelta. “Tuo è il regno, la potenza e la gloria nei secoli” non si trova nella Vulgata (IV secolo), ma compare nella versione Peshito, Siriaca e in quelle Sahidica e Thelaica del II secolo per poi mancare in quella Latina, dello stesso periodo. Siccome è opinione comune che gli antichi cristiani, seguendo l’esempio ebraico, avessero l’abitudine di aggiungere questa dossologia alla fine delle loro preghiere, alcuni hanno qui individuato una reminiscenza di tale uso. Personalmente mi ritengo a favore di una sua inclusione. Prima di trattare il “Padre nostro” sezione per sezione, credo sia giusto introdurlo; per farlo dovremo inevitabilmente tornare ai versi che abbiamo già letto la volta scorsa, quelli da 5 a 8, sui quali saranno possibili riflessioni aggiuntive.

La preghiera del “Padre Nostro”, sotto certi aspetti, si può dire che sia stata l’unica ad essere insegnata da Gesù a quanti lo ascoltavano e non possiamo escludere che fu ripetuta, come modello, in più occasioni, non sempre con le stesse parole così come leggiamo e confrontiamo Matteo e Luca che ci suggeriscono così l’idea di una preghiera dalla struttura non rigida e mnemonica, ma di contenuti.

Matteo, come abbiamo visto, la inserisce nel discorso detto “della montagna” in un punto particolarmente importante, cioè dopo avere affrontato il tema della preghiera individuale; Luca la pone in un momento più generico che viene descritto con queste parole: “Mentre stava pregando in un luogo, quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni insegnò ai suoi discepoli»” (Luca 11.1). Quel discepolo dovette constatare la differenza tra il modo di Gesù di presentarsi davanti al Padre e il suo: da lì si rese conto che, nonostante la tradizione che gli era stata trasmessa, non sapeva pregare cioè gli mancavano gli elementi per relazionarsi realmente con Dio. Se una persona chiede ad un’altra di insegnargli qualcosa, ammette di non saperla fare, o di farla male.

Due furono quindi i momenti “ufficiali” in cui fu insegnato il modello che tutta la cristianità conosce a memoria, ma non si può escludere che il Signore, stante la sua importanza, lo abbia proposto, in tutto o in parte, anche in altre circostanze nonostante Marco (che scrisse sotto la supervisione dell’apostolo Pietro) e Giovanni non ne parlino. Si può essere autorizzati a fare questa supposizione perché sappiamo che i Vangeli contengono una minima parte di quello che Gesù fece e insegnò: “Vi sono ancora molte altre cose fatte da Gesù che, se si volessero scrivere una ad una, credo che il mondo intero non potrebbe contenere i libri che si potrebbero scrivere” (21.25).

Sarebbe un errore esaminare questa preghiera senza soffermarci sugli insegnamenti precedenti ad essa; per questo credo sia giusto rileggere i versi da 5 a 9 di cui ci siamo occupati nello scorso studio, che spiegano la differenza tra il metodo di ragionamento umano, orizzontale, e quello di Dio, verticale: 5E quando pregate, non siate come gli ipocriti: poiché amano starsene a pregare nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze in modo da apparire agli uomini, vi dico per certo che ricevono la loro ricompensa. 6Tu invece, quando preghi, entra nella tua stanza e, chiusa la tua porta, prega il tuo Padre, quello (che è) nel segreto, e il tuo Padre che vede nel segreto ti ricompenserà. 7Pregando, non sproloquiate come i pagani, che ritengono che saranno esauditi nella loro verbosità. 8Dunque non siate simili ad essi, poiché il vostro Padre sa di che cosa avete bisogno prima che voi lo chiediate”.

La prima impressione che si ricava da questa lettura è che essa parla di separazione: saltano subito alla mente i frammenti “non siate come”, “Tu invece” e ancora, rafforzando il concetto, “dunque non siate simili ad essi”, riferiti a due categorie ben precise, sostanzialmente accomunate alle persone che non vanno oltre alla religiosità ostentata e quindi, intenzionalmente o per ignoranza, simulano per un proprio tornaconto. L’ipocrita, termine riferito anticamente all’attore, quindi una persona che fingeva di essere colui che nella realtà non era, trova un suo collegamento, per i tempi in cui Gesù parlava alle folle o ai discepoli, con i Farisei e gli Scribi, definiti appunto ipocriti. La preghiera finta si può manifestare con due atteggiamenti: il primo è esteriore e si caratterizza con manifestazioni pubbliche fine a se stesse nei luoghi di adunanza (sinagoga) o scelti per l’occasione: non in viottoli o in quei posti isolati in cui Gesù si recava spesso, ma quelli in cui la gente passava e non poteva fare a meno di considerare le persone che vedeva pregare, in piedi e oscillando avanti e indietro come gli ebrei usano fare ancora oggi, come pie. Si trattava di una strategia portata avanti per avere un’influenza maggiore presso il popolo e che andava a rafforzare il ruolo che quei personaggi avevano nella società del tempo influendo molto più dei Sadducei, che erano in maggioranza, nelle decisioni del Sinedrio.

Tra i tanti passi dei Vangeli che parlano dei comportamenti di costoro, ricordiamo le parole “E io vi dico che se la vostra giustizia non sarà maggiore di quella degli Scribi e dei Farisei, non entrerete nel regno dei cieli” (Matteo 5.20) e ancor di più quell’esempio in cui Gesù mette a confronto la preghiera di Fariseo e di un pubblicano: 10Due uomini salirono al tempio a pregare, uno era fariseo e l’altro pubblicano. 11Il Fariseo, ritto in piedi, pregava dentro di sé così: «Ti ringrazio, o Dio, perché io non sono come gli altri uomini, rapaci, ingiusti e adulteri, e nemmeno come quel pubblicano. 12Io digiuno due volte la settimana, pago le decime su tutto ciò che posseggo». 13Il pubblicano, invece, stando da lontano, non ardiva neppure alzar gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo «O Dio, abbi pietà di me, che sono peccatore». 14Io vi dico che questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro: perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato”. Anche qui abbiamo un modello di preghiera errato e uno corretto: il primo resta lì, non va oltre al semplice compiacimento personale (ecco il “premio”) che non porta ad alcun vantaggio nel suo presunto rapporto con Dio, mentre il secondo, al di là del gesto esteriore del battersi il petto, frequente in Israele al pari dello stracciarsi le vesti, porta il frutto della giustificazione addirittura in un tempo in cui Gesù non si era ancora totalmente identificato nel peccatore arrivando a morire e risorgere per lui.

La preghiera del Fariseo che abbiamo letto contiene due “Io” espliciti (“non sono come gli altri uomini” e “digiuno due volte la settimana”) e due impliciti (“Ti ringrazio” e, in osservanza alla legge,  “pago le decime”): un totale di quattro, numero che ci parla dell’uomo, ma soprattutto di stabilità e base su cui costruire e quindi dell’opinione alta, ferma e assoluta che quell’uomo aveva di sé . Nel nostro versetto 5, rileviamo un altro particolare: queste persone è scritto che “amano” fare le cose che abbiamo letto, quindi si compiacciono ancora di più nella loro religiosità ostentata che va a gonfiare il loro orgoglio che si autoalimenta all’infinito impedendo quel processo di esame interiore, di coscienza, che ogni credente è chiamato a compiere. È solo un serio e consapevole inventario delle proprie azioni che può condurre la creatura alla conclusione di essere sempre e solo un peccatore che, per vivere, ha bisogno del perdono di Dio.

Il verso 6 propone invece un profondo cambiamento di rotta, visto nel “Ma tu”. Un invito, un avvertimento personale, molto più rafforzativo di un generico “voi”. “Tu” che leggi le mie parole che un mio servo ha riportato e che sono giunte a te dopo più di 2000 anni, “tu” che mi stai ascoltando su questo monte, “tu” che vuoi esimerti dal metodo ipocrita che ti ho appena descritto o vuoi sapere come fare, “quando preghi, entra nella tua stanza e, chiusa la tua porta, prega il Padre tuo, che è nel segreto, e il tuo Padre che vede nel segreto ti ricompenserà”.

C’è qui una situazione diametralmente opposta alla precedente, tesa a dimostrare l’assoluta intimità del rapporto non più con un Dio altissimo e irraggiungibile, ma con qualcosa di molto più vicino all’uomo. La preghiera comunitaria, così necessaria nell’adorazione e in altre circostanze, passa qui in secondo piano poiché una Chiesa, per definirsi tale, non può che essere composta da persone che hanno un’esperienza privata e personale, appunto, col Padre.

Ora nell’esortazione a entrare nella propria stanza e chiudere la porta c’è un messaggio che non poteva essere ignorato dalle persone allora presenti, poiché è un riferimento alla resurrezione del figlio della Sunamita operata da Eliseo (2 Re 4.32,33) di cui è scritto “Quando Eliseo entrò in casa, vide il fanciullo morto e sdraiato sul suo letto. Egli allora entrò, chiuse la porta dietro a loro e pregò l’Eterno”. Stessa cosa farà l’apostolo Pietro per la resurrezione di Tabita (Atti 9.40) e prima delle sue visioni sul puro e impuro (10.9 e seguenti), per quanto si trovasse sul terrazzo di casa. Le rivelazioni di Dio avvengono sempre quando la persona si trova appartata, e credo non potrebbe essere altrimenti. Nella solitudine, si conosce. Chiedere onestamente l’aiuto di Dio quando si guarda in se stessi è un’azione che produce sempre un risultato.

Nel verso sesto c’è una cronologia: l’intento della preghiera, l’ingresso nella stanza e la chiusura della porta. Le prime due azioni si spiegano da sole, la terza è una condizione. La porta chiusa ci parla di scelta, di condizione seria, del lasciare fuori tutto ciò che è di impedimento tanto all’esposizione che all’ascolto. La preghiera non è mai, non può essere un elenco sterile di bisogni più o meno carnali che vengono presentati a Colui che può, ma un rapporto tra creatura e Creatore qui rivelato come Padre. La chiusura della porta non può essere qualcosa di rituale, un’obbedienza a quanto troviamo scritto in questo passo, ma l’atto finale di un processo spirituale e mentale attraverso il quale rinunciamo a noi stessi consapevoli di non poter nascondere nulla a Colui che ci ha ammessi alla Sua presenza. Il Padre tuo è “in segreto” e “in segreto ricompensa” (alcune traduzioni riportano “ti ricompenserà in palese”) perché a volte l’esaudimento è recepito dal singolo, in altre anche da quanti conoscono il nostro stato e lo vedono mutare.

L’essere “in segreto” del Padre implica la Sua perfetta lettura della coscienza e dei suoi intenti, pronta a rivelarne se del caso la sua ipocrisia e a rendere un premio ad essa proporzionato. L’essere “in segreto” ci parla della profondità del rapporto creatura redenta – Creatore: se nulla può essergli nascosto possiamo avere la certezza, nella preghiera, non tanto del suo esaudimento, ma della correttezza della sua valutazione. Il Padre “riguarda” in segreto, verbo che ci parla della Sua perfetta valutazione e conoscenza del nostro esistere che è al tempo stesso prezioso e, sotto l’ottica dei “servi inutili”, insignificante. Ricordiamo Luca 17.10 “…così anche voi, quando avrete fatto tutto ciò che vi è stato ordinato, dite: «Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare»”.

Il segreto può essere di Dio – i Suoi piani rivelati e non – oppure dell’uomo, temporaneo, pericoloso: quanti segreti abbiamo? Quante cose ci illudiamo di tenere nascoste? Ebbene, “Non vi è nulla di nascosto che non si debba manifestare e nulla di segreto che non venga a risapersi e non venga messo in luce” (Luca 8.17).

Dio è colui che “conosce i segreti del cuore” (Salmo 44.21) e la Sua onniscienza e onnipresenza è ben descritta nel Salmo 139 di cui riportiamo i versi 3 e 4 particolarmente adatti al tema di cui ci stiamo occupando: “Tu esamini attentamente il mio cammino e il mio riposo e conosci a fondo tutte le mie vie. Poiché prima ancora che la parola sia sulla mia bocca tu, Eterno, la conosci appieno”. E infine, un avvertimento di cui tutti noi abbiamo bisogno per il nostro avanzamento spirituale, alla luce del “premio” di cui Gesù ha parlato a proposito del pregare in modo corretto o errato: “Io, l’Eterno, investigo il cuore, metto alla prova la mente per rendere a ciascuno secondo le sue vie, secondo il frutto delle sue azioni” (Geremia 17.10), perché “Non vi è alcuna creatura nascosta davanti a lui, ma tutte le cose sono nude e scoperte agli occhi di colui al quale dobbiamo rendere conto” (Ebrei 4.13). “…e tutte le chiese conosceranno che io sono colui che investiga le menti e i cuori, e renderò a ciascuno di voi secondo le sue opere” (Apocalisse 2.23). Ecco, io credo che, nella preghiera individuale e non solo, il concetto del “segreto” sia racchiuso anche in tutti questi versi che sono stati citati.

La chiusura della porta va fatta con onestà e consapevolezza perché, se non accettiamo ciò che questo comporta, rischiamo di compiere un gesto come tanti, formale, privo di significato, sterile che non va oltre la ricompensa data alla preghiera dei Farisei, degli ipocriti. La “ricompensa” che riceve chi prega non per proprio tornaconto come visto al verso 5, ma si pone di fronte a Dio per avere una risposta – che può essere positiva o negativa – è vista nel dialogo e nella consapevolezza che la preghiera rivolta sia accolta indipendentemente da quello che chiediamo. Troppo spesso si pretende, complice anche un mancato insegnamento sulla preghiera vista più come il presentare un elenco di richieste cui si accompagnano promesse o “voti” poi non mantenuti, che il “premio”, o ricompensa, di cui Gesù parla consista nell’esaudimento di quanto chiediamo: può anche essere, ma non è il primo elemento sul quale ci si deve basare. Piuttosto, vanno tenute presenti le parole che verranno riportate più avanti in 7.11: “Se dunque voi, che siete malvagi, sapete dare buoni doni ai vostri figli, quanto più il Padre vostro, che è nei cieli, darà cose buone a coloro che gliele chiedono?”.

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05.28 – COME PREGARE (Matteo 6.5-8)

05.29 – Come pregare (Matteo 6.5-8)

5E quando pregate, non siate simili agli ipocriti che, nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, amano pregare stando ritti, per essere visti dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa.6Invece, quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.7Pregando, non sprecate parole come i pagani: essi credono di venire ascoltati a forza di parole. 8Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate.”.

Qui inizia il secondo insegnamento di Gesù sulla pratica della “giustizia” che, nel caso di specie, abbiamo visto essere tripartita in elemosina, preghiera e digiuno. Il gruppo di versi letto è molto particolare perché, secondo Matteo, precede l’esposizione del “Padre nostro” e, prima di insegnarla, Nostro Signore si preoccupa ancora una volta di far riflettere sulla differenza tra ciò che è ostentazione con fini non spirituali e il reale atteggiamento che deve contraddistinguere la preghiera. Ci troviamo su un terreno delicato perché, alla luce delle parole “hanno già ricevuto la loro ricompensa”, possiamo individuare uno stato d’animo che trova la sua soddisfazione nell’avere lo sguardo degli altri, che di se stessi: poltrone o palchi privati non si trovano solo a teatro, ma purtroppo sono numerosi anche in quel cristianesimo fatto di manifestazioni esteriori che alimentano costantemente quella “loro ricompensa” di cui parla Gesù.

Ci siamo già occupati del fatto che chiunque si colloca, o pretende di farlo, in una posizione spirituale dichiarando la propria fede agli uomini, da quel momento è inevitabile si ponga come esempio e quindi “insegni”: lo fa con le proprie azioni quotidiane indipendentemente dal fatto che si metta a predicare o a testimoniare in maniera più o meno dotta o ricercata. Abbiamo infatti letto “Chi dunque trasgredirà uno solo di questi precetti, anche minimi, e insegnerà agli uomini a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà agli uomini, sarà considerato grande nel regno dei cieli” (Matteo 5.19-20). Se leggiamo il verso successivo, poi, appare chiaro che esiste una profonda differenza tra l’ipocrisia e la pratica della verità, come dalle parole “Se la vostra giustizia non supererà– cioè non andrà oltre – quella degli scribi e dei farisei, voi non entrerete nel regno dei cieli” (v.21). Le due categorie di persone che Gesù cita così spesso, scribi e farisei, col loro esempio negativo avevano finito per insegnare agli altri “a fare altrettanto”, vale a dire avevano ridotto la preghiera a un atto formale, facendo sì che anche quella personale ne risentisse: tutti li vedevano e nella loro ignoranza, o umana “semplicità”, avevano finito per considerarli persone veramente devote ammirandoli e, inevitabilmente, quell’atteggiamento formale aveva finito per contagiarli.

La preghiera pubblica era quella che veniva fatta in tempi stabiliti del giorno e il giudeo devoto si fermava ovunque si trovasse (a meno che il luogo non fosse impuro) e recitava quanto prescritto stando in piedi. Lo faceva immedesimandosi nel testo, solitamente quello di un Salmo, facendolo proprio, perché ancora non era sceso lo Spirito Santo che, come scrive l’apostolo Paolo ai Romani “…viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con sospiri ineffabili” (8.26). Anche i musulmani pregano in pubblico a tempi prestabiliti e l’osservanza di questa pratica è considerata un segno di grande devozione.

Gesù, venuto “non per abolire, ma per adempiere” non intende demolire la preghiera pubblica, ma censura gli intenti diversi dalla sincerità con cui ci si dovrebbe approcciare ad essa e, con le parole “amano stare ritti in piedi”, smaschera quanti agivano in tal modo.

Ma cosa chiedere al Dio che ascolta e vede, come raccordare una posizione pubblica con il prossimo che ti guarda e considera, con l’accoglimento e l’esposizione reale dei contenuti? Nostro Signore non si occupa dell’orazione comunitaria della Chiesa in cui è inevitabile che i fratelli si ritrovino alla Sua presenza, ma ancora una volta si occupa della persona con quel “ma tu” sul quale ci siamo già soffermati tempo addietro. Gesù doveva spiegare ai presenti sul monte che tutto partiva dall’interno dell’uomo invitato a cercare prima di tutto il rapporto individuale con YHWH che lo avrebbe guidato e chiamato direttamente. Ricordiamo sempre che la Chiesa è comunità formata da individui, ciascuno con la sua funzione vista nel corpo di Cristo e nelle “molte membra”, o se vogliamo è un edificio composto da molte pietre, non mattoni cotti in una fornace, ciascuno con le stesse dimensioni e fattezze.

L’ipocrita recita una parte, ha un ruolo che è quello di impressionare un pubblico, nulla a che vedere con la verità e l’esaudimento che si ritrovano nel rapporto personale con Dio. Si tratta di scegliere. Vuoi una ricompensa? Scegli se avere quella dell’ammirazione umana da parte dei membri di una comunità religiosa, o quella che proviene dalla ricerca dell’incontro col tuo Signore, che Davide ha descritto in modo stupendo e poetico nel Salmo 139 citato la volta scorsa.

Nelle parole di Gesù però c’è molto di più, perché l’insegnamento sulla preghiera occupa una posizione centrale e si allarga notevolmente, essendo un “tu” al tempo stesso personale e comunitario. Ci possiamo infatti ricollegare alle parole di Maria di Magdala quando, piangente vicino al sepolcro vuoto, rispose ai due angeli che le chiedevano il motivo delle sue lacrime: “Hanno portato via il mio Signore e non so dove l’hanno posto” (Giovanni 20.13). Certo Maria non poteva avere l’esclusiva dell’appartenere a Cristo e viceversa, ma queste parole rappresentano il sentimento di totale aderenza a Lui. Quel Signore che umanamente non sapeva dove fosse nonostante avesse dichiarato che sarebbe risorto, dal punto di vista affettivo e del rapporto individuale era unicamente di quella donna e al tempo stesso degli altri coi quali aveva condiviso la vita di predicazione del Vangelo. Ma la prevalenza del rapporto è da vedersi con il “mio”: è lui che mi ama, mi parla, mi sostiene.

Ecco allora il “tu” che diventa “mio”, cioè non può che coinvolgere l’esterno e l’interno della persona e da lì riversarsi nella comunità, nella Chiesa. Ecco allora che il “mio” diventa poi “nostro”, un plurale che leggiamo nella preghiera del Padre nostro: “nostro” – “dacci oggi” – “rimetti a noi” – “non indurci” – “liberaci dal male”. Sono quattro richieste perché possiamo rimanere in equilibrio, per quanto il “non indurci” sia una traduzione errata e vada piuttosto intesa come “non esporci” o meglio ancora, come vedremo, “non abbandonarci”. Avremo modo di affrontare i plurali nelle prossime riflessioni; per ora è necessario sostare ancora sul singolare, che si riflette comunque nel plurale e viceversa perché è da lì che parte la costruzione della Chiesa, la Comunità dei salvati che Dio riunisce sulla terra in attesa di chiamarli a Lui per sempre.

La comunità beneficia sempre della preghiera del singolo, della persona spirituale che ben difficilmente si dichiarerà tale per avere una posizione d’onore sugli altri: agirà con l’obiettivo di camminare unito a Cristo, o a YHWH per gli uomini dell’Antico Patto. Pensiamo ad Abramo che fece intercessione per Sodoma, a Simeone “guardiano” del Tempio, al “rimanente fedele” degli ultimi tempi e al passo “Iddio conosce quelli che sono suoi”.

L’esortazione di Gesù è quindi quella di cercare la comunione col Padre “nel segreto”, di chiudersi in camera, concetto che esamineremo nel corso della trattazione del “Padre nostro”, là dove nel “chiudere la porta” individuiamo l’atto con cui lasciamo fuori tutto ciò che ci ha accompagnato fino a poco prima, non certo solo le persone: pensieri, idee, preoccupazioni, turbamenti, perché viceversa correremmo il rischio di ripetere le nostre richieste come una sorta di mantra oppure, attaccati al contingente, presenteremmo una “lista della spesa” esattamente come farebbero quei “pagani che credono di venire ascoltati a forza di parole”. È il bambino che vede solo le proprie necessità e si crede al centro del mondo, non l’adulto ed è per questo che abbiamo l’esortazione ad essere “bambini in malizia e uomini maturi in senno” (1 Corinti 14.20).

È l’equilibrio che può garantire un esaudimento, che non può essere insegnato ma va ricercato: molto spesso gli insegnamenti di Gesù sono solo un appello al buon senso spirituale che purtroppo non sempre l’uomo possiede e quindi cade in contraddizioni tremende; ricordiamo ad esempio l’offerta sull’altare che non può essere presentata nel momento in cui il nostro prossimo ha qualcosa contro di noi: il “debito” che abbiamo col fratello impedisce l’accoglimento di essa e, nel nostro caso, della preghiera.

Pensiamo ancora al “tu” di Gesù che invita il singolo, l’individuo, a presentarsi lasciando fuori dalla porta tutto quanto può interferire col rapporto col Padre: è quello il momento in cui si realizza il confronto tra due elementi, Dio che ascolta e l’uomo. La porta che tiene fuori ciò che disturba può metterci in condizione non tanto e solo di chiedere, ma di confrontarci, discorrere, fare il punto di situazioni più che chiedere aiuto per i fatti contingenti della vita di cui è detto “il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate” (v.8).

Quando ero giovane mi chiedevo, alla luce di queste parole, per quale motivo io dovessi pregare per le mie necessità se queste erano già conosciute dal Padre: la parte più importante del verso, però, è quella che informa dell’onniscienza di Dio che ci osserva; sa di cosa abbiamo bisogno realmente e non di ciò che noi riteniamo sia importante. E questo consola e illumina. A volte possiamo essere convinti di avere necessità della soluzione ad un problema e vediamo solo quello e purtroppo istintivamente, come i bambini, vorremmo che il suo appianamento fosse immediato: non è così. Non sempre, almeno. L’apostolo Pietro raccomanda di riversare “…su di Lui ogni preoccupazione, perché Egli ha cura di voi” (1 Pt 5.7): questa è una verità che dovrebbe spingerci, nella preghiera che rivolgiamo a Dio nella preoccupazione che talvolta si muta in angoscia, a chiedere quell’aiuto, ma anche l’accettazione di una Sua volontà diversa nei nostri confronti. Perché l’accoglimento della preghiera non è detto che avvenga secondo le nostre intenzioni. L’importante è avere una risposta, la soluzione di un dubbio e, sotto quest’ottica, un “sì” o un “no” hanno lo stesso valore.

Chi ebbe un’esperienza diversa da quella che si aspettava, cioè un esaudimento risolutivo di un problema, fu l’apostolo Paolo che, affetto da una malattia agli occhi provocatagli da schiaffi e pugni presi in carcere, pregò Dio che lo guarisse. Paolo passò del tempo a interrogarsi sul perché rimanesse così e, scrivendo ai Corinti, lo spiegò: “Perché  non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di Satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia. A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che lo allontanasse da me– ecco il rifiuto dell’usare molte parole come i pagani –. Ed Egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella tua debolezza». Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo” (2 Corinti 12.7-9). Da Dio una risposta arriva sempre anche se i suoi tempi non sono i nostri. Paolo accettò questa condizione, continuando a scrivere anche se il corpo dei suoi caratteri, a causa della vista, aumentò considerevolmente e, a un certo punto, dovette ricorrere all’aiuto di altri fratelli che redigessero alcune lettere (pensiamo a Terzio con la lettera ai Romani). Ma ebbe rivelazioni che non furono rivolte a nessun altro uomo.

Il credente è sempre nell’amore di Dio, tanto nella gioia sulla terra quanto nel suo opposto. Prende il dolore come parte integrante di essa. Sa di essere nelle Sue mani. A differenza degli altri uomini non salvati, può guardare a Lui. Sempre. Amen.

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05.27 – PRATICARE LA GIUSTIZIA II/II (Matteo 6.1-4)

05.28 –Praticare la Giustizia II/II (Matteo 6.1-4)

1State attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro, altrimenti non c’è ricompensa per voi presso il Padre vostro che è nei cieli. 2Dunque, quando fai l’elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade, per essere lodati dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. 3Invece, mentre tu fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, 4perché la tua elemosina resti nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.”. 

Nella riflessione precedente abbiamo affrontato il tema delle “buone opere”, o della “giustizia”, partendo dall’aspetto negativo, quello di ciò che viene fatto per ostentazione. Abbiamo anche visto che col termine “giustizia”, in questo caso, si intendevano elemosina, preghiera e digiuno, elementi che si affiancavano alla legge cerimoniale praticata pubblicamente dagli Scribi e Farisei distorcendo così il valore spirituale di quellee azioni. Gesù, però, con il suo insegnamento non intendeva dare a chi Lo ascoltava delle “istruzioni su come ottenere i favori di Dio”, ma piuttosto far riflettere sulle motivazioni che spingono veramente ad agire chi si vuole porre in rapporto col Padre: siamo quello che facciamo e, in quanto esseri pensanti, c’è sempre l’invito a valutarci attentamente rispondendo sempre a una domanda che giunge puntuale: “perché?”. “Perché” è quel ritornello ossessivo che spesso un bambino, arrivato a una certa età, rivolge agli adulti, ma anche sarebbe un metodo che, se adottato in età consapevole, porterebbe a conclusioni senz’altro interessanti; sarebbe un andare alla radice, sarebbe un esame a vasto raggio su ciò che sentiamo sia nella vita quotidiana naturale che in quella spirituale. È un comportamento che raramente attuiamo, abituati come siamo al quotidiano e, soprattutto, a dare tutto per scontato nei rapporti coi nostri simili e con Dio. Chiedersi perché equivale a fermarsi, azione che soprattutto la società attuale fa di tutto per evitare che ciò accada.

Gesù, invece, proponendo due comportamenti tra loro opposti, cioè praticare la giustizia finta e quella vera, spinge i suoi uditori e chi legge le sue parole a riflettere sul valore di questi metodi, ma soprattutto a ricordare che Dio non può essere preso in giro da nessuno: sappiamo che il primo verso del capitolo 6 inizia con “State attenti”. Se nella prima parte di queste riflessioni ci siamo occupati dell’agire per avere l’altrui approvazione, qui esamineremo la verità secondo cui Dio guarda “in segreto” e quindi, alla radice, alla genesi delle nostre azioni.

 

  1. In segreto

C’è un particolare da tener presente non solo nel leggere questi versi, ma tutto il capitolo e cioè: se andiamo a leggere le indicazioni sulle “buone opere” troviamo sempre, a un certo punto, un bellissimo, interessante pronome: “Invece, mentre tu fai l’elemosina” (v.3), “Invece, quando tu preghi” (v.6), “Invece, quando tu digiuni” (v.17). Quando un essere umano incontra Cristo in salvezza e si pone in rapporto con Lui, quindi, esce dalla massa per farsi persona. Questo è il significato del “tu” citato per tre volte. Non è poco perché, se la massa fosse composta da individui pensanti, non sarebbe tale, non sarebbe folla, quella che gridava “crocifiggilo” dimenticando i miracoli e le guarigioni avvenute. La massa è pilotabile da sempre, fa sì che i movimenti politici diventino grandi, è quella che segue la Bestia e il falso profeta, che asseconda e si riconosce nelle mode, viene spinta a fare rivoluzioni da un’élite di “pensatori” perché tutto resti sostanzialmente come prima, dove le cose cambiano perché nulla cambi o, nella migliore delle ipotesi, vince una battaglia ma mai una guerra perché il potere momentaneamente sconfitto ritorna sempre e più forte di prima. E all’occorrenza, con forme diverse. La massa crede, si fa influenzare inconsapevolmente, obbedisce e non programma mai a lungo termine, dà per scontato, gli basta poco per sposare le opinioni che le vengono fornite perché non avendole ne ha bisogno, la massa si plasma col tempo e con strategia.

Il “tu” di Gesù invece chiama in causa direttamente, invita chi Lo ascolta a riconoscersi in Lui e, in caso di risposta affermativa, l’essere umano scopre che il suo nome è scritto nel libro della vita, nel “registro di Dio” come lo definì un giorno un fratello, quello che l’apostolo Giovanni vide in una visione che riporta in Apocalisse 5.1: “E vidi, nella mano destra di Colui che sedeva sul trono, un libro scritto sul lato interno e su quello esterno, sigillato con sette sigilli”, quelli che solo il Cristo vittorioso potrà aprire dopo che si saranno compiuti tutti gli avvenimenti descritti nei capitoli dal quinto a 20.12: “E vidi i morti, grandi e piccoli che stavano ritti davanti al trono. E i libri furono aperti. E fu aperto un altro libro, che è il libro della vita. E i morti furono giudicati dalle cose scritte nei libri, secondo le opere loro”. Puntualizzazione: i morti “grandi e piccoli” non sono adulti e bambini, ma persone che nella loro vita sono stati più o meno importanti, ma hanno avuto comunque tutti la responsabilità della gestione del bene più prezioso, la loro vita. Notare la distinzione fra “i libri”, contenenti metaforicamente le azioni di ciascuno di loro, folla, e “il libro” su cui sono scritti i nomi dei salvati, quelli del “tu”: ognuno di loro è conosciuto perché “Le mie pecore conoscono la mia voce ed esse mi seguono” (Giovanni 10.27). Ecco, i tre “Invece tu” sono lo sviluppo del cammino secondo Cristo, quello che compiono quelle “pecore” che conoscono la voce del pastore e quindi non seguono altri, non fidandosi. Chi non ha Lui come pastore, non potrà che perdersi perché ne avrà scelto inevitabilmente un altro, uno alternativo, quello che la vita per il suo gregge non l’avrà mai data.

E ci troviamo ancora alla divisione in due gruppi, ai due tagli della spada che qui divide chi è massa da chi è diventato persona. Non si tratta di presunzione, ma di condizione ben delineata nella Parola di Dio. Non esiste credente che sia tale perché ha avuto un’esperienza personale col Signore e che non sia protetto dall’ultimo, grande inganno degli “ultimi tempi” visto in quel sistema religioso, politico ed economico che precluderà qualunque possibilità di evasione e distinzione da lui: “E tutti gli abitanti della terra i cui nomi non sono scritti fin dalla fondazione del mondo, la adoreranno” (Apocalisse 13.8), riferito alla Bestia. Mi rendo conto di scrivere concetti che meriterebbero ben altri approfondimenti, ma è importante sapere che ogni azione che facciamo è sempre il frutto di una scelta e non c’è possibilità di essere neutrali nel nostro cammino terreno. Chi è massa segue gli altri, chi è persona – spiritualmente parlando – segue Cristo in un percorso che sarà sempre e solo individuale, per quanto condiviso con altri.

Torniamo però alla persona in genere: comunque sia, che appartenga alla massa o da lei si distingua – e non serve compiere azioni eclatanti per farlo – vale quanto leggiamo in Geremia 17.9,10: “Niente è più infido del cuore e difficilmente guarisce! Chi lo può conoscere? Io, il Signore, scruto la mente e saggio i cuori, per dare a ciascuno secondo la sua condotta, secondo il frutto delle sue azioni”. Ancora: “Sono forse Dio solo da vicino? (…) Non sono Dio anche da lontano? Può nascondersi un uomo nel suo nascondiglio senza che io lo veda?” (23.23,24). Infatti “Non vi è creatura che possa nascondersi davanti a Dio, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi di Colui al quale dobbiamo rendere conto” (Ebrei 4.13).

Ancora una volta abbiamo una distinzione molto importante sul rendiconto, diverso dal giudizio, risparmiato a chi crede: “In verità, in verità io vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita” (Giovanni 5.24). Piuttosto, il concetto del rendiconto è spiegato dall’apostolo Paolo con queste parole: “Nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo. E se, sopra questo fondamento, si costruisce con oro, argento, pietre preziose, legno, fieno, paglia, l’opera di ciascuno sarà ben visibile: la farà conoscere quel giorno che si manifesterà col fuoco, e il fuoco proverà la qualità dell’opera di ciascuno. Se l’opera che uno costruì sul fondamento resisterà, costui ne riceverà una ricompensa; ma se l’opera finirà bruciata, sarà punito: tuttavia egli si salverà, però come attraverso il fuoco” (1 Corinti 3.11-15).

In questi versi abbiamo prima di tutto la descrizione dell’impossibilità di costruire qualcosa senza Gesù Cristo come motivazione e soprattutto su di lui come fondamento, poi la prova del fuoco che brucerà tutto ciò che di inutile avremo realizzato lasciando soltanto ciò che avremo prodotto di veramente prezioso e accettevole a Dio. Come interpretare però le ultime parole “si salverà, però come attraverso il fuoco”? Il fuoco rovina, guasta, sfigura la persona, crea una sofferenza terribile. Per questo mi pare di capire che, per quanti si troveranno in quello stato, la loro vita nei “Nuovi cieli e nuova terra” sarà in qualche modo penalizzata come, nel quotidiano terreno, chi si ustiona al di là del primo grado incontra seri problemi per gli esiti cicatriziali e resta invalido, visto che la morte, che a volte sopraggiunge nei grandi ustionati, qui non è contemplata. Una cosa è vivere la dispensazione della grazia, data all’uomo per salvarsi e costruire, un’altra affrontare “il rendiconto”. Ecco uno dei perché del timor di Dio: è contemplato che uno sul fondamento costruisca con legno, fieno o paglia, materiali che non duraturi nel tempo e suscettibili ad essere distrutti nel giorno della retribuzione. Ricordiamoci che quando Giovanni vide in visione il Signore, lo descrisse come avente “occhi fiammeggianti” a sottolineare il suo discernimento tra ciò che resiste o no alla perfezione del suo sguardo.

Ecco allora che quel triplice “Invece tu”, indica il metodo, un aspetto del cammino che solo l’amore per Colui che ci ha salvato può spingerci a compiere.

Ho scritto della persona che si differenzia dalla massa: può aiutare l’esperienza di Davide nel Salmo 139 che illustra con parole di verità l’essenza di questo rapporto: “Signore, tu mi scruti e mi conosci, tu sai quando mi siedo e quando mi alzo, intendi da lontano i miei pensieri, osservi il mio cammino e il mio riposo, ti son note tutte le mie vie. La mia parola non è ancora sulla lingua ed ecco, Signore, già la conosci tutta. Alle spalle e di fronte mi circondi e poni su di me la tua mano. Meravigliosa per me la tua conoscenza, troppo alta, per me inaccessibile. Dove andare lontano dal tuo spirito? Dove fuggire dalla tua presenza? Se salgo in cielo, là tu sei; se scendo negli inferi, eccoti. Se prendo le ali dell’aurora per abitare all’estremità del mare, anche là mi guida la tua mano e mi afferra la tua destra”. Facciamo caso ai verbi: scrutare – conoscere – sapere – intendere – osservare – circondare – porre – essere – guidare – afferrare. Sono dieci, a significare la cura totale che Dio ha per l’uomo che ha chiamato. E che le esigenze che ha sono proporzionali alle cure che dà.

E abbiamo letto parole di Davide, nonostante abbia compiuto azioni non sempre degne di un individuo spirituale a tal punto che YHWH non gli consentirà di edificargli il tempio, scegliendo per questo Salomone suo figlio. Questo re conobbe momenti di formidabile comunione con Dio ed altri molto più carnali, quando si adagiò sui lussi della propria vita di corte. Questo ci consente di chiederci: quanto tempo della mia giornata trascorro col mio Dio onestamente? Pensiamo a Giovanni Battista, che stava nel deserto attendendo l’ora per cui era stato preparato. Certo, Davide scrisse questo Salmo gioendo per la possibilità di contemplazione che gli veniva data ed è proprio l’esperienza di essere ascoltato e conosciuto nel profondo a farlo parlare nel modo in cui abbiamo letto. Ecco ciò che è compreso nel “tu” e “in segreto”: un rapporto individuale che nessuno conosce al di fuori di due persone, quella di chi crede e Dio stesso.

Per questo il “tu” è anche una sorta di termometro, indica la nostra posizione spirituale. Davide descrive la conoscenza di Dio con le parole “Meravigliosa”, “troppo alta” e per lui “inaccessibile”, ma non si stancava di contemplarla sentendosi parte di lei e, nonostante fosse conscio di capirla in una quantità infinitesimale, ci ha lasciato come profeta delle verità molto profonde nei suoi Salmi. Davide sapeva di essere parte del piano per la redenzione dell’uomo. Per lui era importante quel “Tu” a prescindere dalla sua natura umana che purtroppo, come per tutti noi, era sempre lì, pronta a penalizzarlo. Chi è salvato entra in un mondo immenso, non potrebbe essere diversamente.

C’è poi la retribuzione, termine che nasconde realtà diverse e che consiste nel sostegno nella vita terrena nonostante le prove, i lutti o le malattie perché “piove sui giusti e sugli ingiusti”, ma anche nel risultato del rendiconto di cui troviamo una descrizione nella famosa parabola detta “dei talenti” (Matteo 24.14-30) in cui viene detto “Sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; entra nella gioia del tuo signore”. Sarà allora che ciò che è segreto diventerà palese ed eterno, mentre le opere di chi avrà agito per ostentazione saranno dimenticate e distrutte. Amen.

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05.26 – PRATICARE LA GIUSTIZIA (Matteo 6.1-4)

05.27– Praticare la GiustiziaI/II (Matteo 6.1-4)

1State attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro, altrimenti non c’è ricompensa per voi presso il Padre vostro che è nei cieli. 2Dunque, quando fai l’elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade, per essere lodati dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. 3Invece, mentre tu fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, 4perché la tua elemosina resti nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.”.

Nonostante il contenuto semplice ed immediato, questi versi implicano e ampliano sinteticamente concetti che svilupperemo per lo spazio di due incontri, ponendo delle basi su cui costruire anche i successivi insegnamenti di Gesù sulla preghiera e il digiuno. La prima precisazione riguarda il termine “giustizia”, diverso da quello sviluppato a suo tempo con la quarta beatitudine, “Beati quelli che sono affamati e assetati di giustizia, perché saranno saziati”: “giustizia”, nel brano oggetto di riflessione, è reso in vari modi nelle traduzioni, cioè con “elemosina” o il generico “buone opere”. Ora il termine “vostra giustizia” è riferito effettivamente alle opere buone che ogni pio israelita era tenuto a compiere cioè l’elemosina, la preghiera e il digiuno, argomenti sui quali Nostro Signore si soffermerà non poco e sempre facendo una divisione netta tra il valore che si dà alle cose secondo parametri umani e quanto appartiene all’ambito spirituale. Umano e spirituale sono due mondi, due blocchi distinti che comportano realtà, dimensioni assolutamente incompatibili ovunque, tanto nel mondo tangibile quanto in quello della quarta dimensione.

Se andiamo alla parabola del ricco e Lazzaro, a un certo punto Abrahamo dice al ricco: “Tra voi e noi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a voi” (Luca 16.26). Ebbene queste parole hanno una valenza a largo raggio perché riassumono delle esistenze che, in realtà, erano già divise dal “grande abisso” anche quando si svolgevano in terra. Ricordiamo le parole “chi non crede è già condannato” (Giovanni 3.18) che, pur indicando uno stato non definitivo perché la persona può sempre ravvedersi, inseriscono il condannato in un ambito preciso, diverso da chi è giustificato per fede. Per quanto la parabola sarà oggetto di studio a suo tempo, va detto che le parole su“coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono”, non vogliono sottintendere che ci sia qualcuno che dal “seno di Abrahamo” vuol raggiungere chi è nei tormenti, ma sono la risposta alla richiesta del ricco che pretendeva di avere ancora autorità sul povero Lazzaro che in vita aveva costantemente umiliato.

Venendo ad testo, le prime due parole che incontriamo sono un avvertimento, “State attenti”, cui segue uno sviluppo sulla divisione tra il mondo della carne e quello dello spirito. Non si tratta solo della descrizione di una condizione, ma delle conseguenze cui porta aderire a un mondo piuttosto che a un altro, che non possono essere trascurate: “State attenti”. Essendo la Sua parola una spada a due tagli, tutto il messaggio di Gesù si basa sulla divisione che essa produce e in questo caso va a colpire la realtà storica del suo uditorio, abituato a manifestazioni eclatanti nella gestione delle “buone opere” da parte dei suoi maestri: l’elemosina elargita sempre in pubblico, preghiere esternate con atteggiamenti quasi teatrali, digiuno accompagnato da aspetto mesto e sofferente. Nostro Signore quindi affronta i punti cardini di quella “giustizia” individuale secondo l’insegnamento (ed esempio) che scribi e farisei davano al popolo, nonostante tutta la loro scienza scritturale che avrebbe potuto aiutarli in un’onesta relazione con Dio.

Pensiamo: conoscevano il passo “O voi tutti che siete assetati, venite alle acque” (Isaia 55.1). Ebbene, anziché aderire a quell’invito avevano finito per realizzare ancora una volta il lamento “Hanno abbandonato me, fonte di acqua viva, e si sono scavati cisterne piene di crepe, che non contengono acqua”(Geremia 2.13). Ogni volta che l’uomo abbandona la vera via, quella spirituale e diretta che gli concede un accesso a Dio, e vuole fare da solo, scava cisterne inidonee, inutili se c’è una fonte eterna, già crepate in partenza e, sempre da Geremia, corre dietro al nulla, e nulla diventa (2.5). L’uomo si trasforma sempre in ciò che ama, cerca, arriva a formare un tutt’uno con lui.

Il tema del primo intervento di Nostro Signore sulle “buone opere” riguarda l’elemosina, quell’azione che chi ha è tenuto a compiere nei confronti del povero. Già abbiamo incontrato nel sermone sul monte alcuni cenni al dare a chi chiede, ma qui è diverso, è un riferimento a Deuteronomio 15.11 in cui è scritto “Poiché i bisognosi non mancheranno mai nella terra, allora io ti do questo comando e ti dico: «Apri generosamente la mano al tuo fratello povero e bisognoso sulla terra». Giobbe stesso, in uno dei suoi ultimi discorsi ai cosiddetti “amici” venuti a consolarlo dice “…soccorrevo il povero che chiedeva aiuto e l’orfano che ne era privo. La benedizione del disperato scendeva su di me e al cuore della vedova infondevo la gioia” (Giobbe 29.11,12).

Colpisce in entrambi i versi come sia non il dovere, ma l’immedesimazione nel prossimo sofferente il motore dell’azione che porta all’aiuto economico. Colpisce il fatto che Giobbe, vissuto nella dispensazione della coscienza, ai suoi tempi il più ricco degli uomini in Oriente definito “Integro e retto, timorato di Dio e lontano dal male” (1.1), si immedesimasse a tal punto nella condizione di preoccupazione e sofferenza del suo prossimo indigente da rinunciare a parte dei suoi averi. Le sue non erano delle semplici offerte, che oggi ci sono e domani no, ma un sostentamento. E qui il confronto tra Giobbe e il ricco della parabola che abbiamo citato sorge spontaneo: l’uno teneva per sé ossessivamente, l’altro dava ritenendo ciò che possedeva uno strumento per aiutare l’altro. Anche qui, due mondi.

Quello dell’elemosina è per noi un tema delicato, essendo la realtà in cui viviamo molto più complessa di quella di allora: chi mendicava era realmente bisognoso mentre oggi sono molti quelli che vivono di espedienti, che oggi chiedono aiuto e domani rubano per cui aiutare in modo mirato chi veramente si trova in condizioni precarie è molto difficile; le stesse associazioni benefiche cui uno potrebbe far riferimento sono in realtà organizzazioni che cercano di trarre profitto anche dalla donazione più insignificante e le stesse strutture, anche religiose, che provvedono agli indigenti raramente rispettano il principio di sopperire prima ai bisogni dei poveri locali. E l’apostolo Paolo scrisse “Se uno non si prende cura dei suoi cari, soprattutto quelli della sua famiglia, costui ha rinnegato la fede ed è peggiore di un infedele” (1 Timoteo 5.8). Oggi ci sono delle congregazioni religiose che hanno sfrattato dalle loro strutture persone realmente povere, italiane, per ospitarne altre, straniere, confidando nell’aiuto economico dello Stato, cosa davvero molto triste e che di carità ha solo la parvenza esteriore.

Tornando alle parole di Gesù sull’elemosina, che nella sua forma corretta è un atteggiamento, uno spazio mentale e non un mero versare delle somme a qualcuno, vediamone lo sviluppo: c’è un’azione, l’esercizio della “giustizia” e poi due scopi, quello di guadagnarsi l’ammirazione altrui, oppure qualcosa compiuto in silenzio, nel segreto, che si esprime attraverso il naturale e semplice gesto del puro, disinteressato aiuto per il prossimo. Scegliere a quale aderire significa prendere una direzione che porta a conseguenzediametralmente opposte.

 

  1. Agire per avere l’altrui approvazione.

Chi cerca il pubblico è l’attore, cioè una persona che finge una condizione, uno stato d’animo che non gli appartiene, l’essere ciò che non è. Agisce per altri scopi, recita. E il greco, per indicare una simile persona, usa il sostantivo “ipocrita” adottato dalla lingua italiana che lo spiega con la definizione “simulatore di atteggiamenti o sentimenti esemplari”. Chi ha letto il Vangelo non può non associare l’ipocrita ai tradizionali oppositori di Gesù, gli Scribi e i Farisei, da lui così definiti in Matteo 23.27 e non solo: “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti! Perché rassomigliate a sepolcri imbiancati, che di fuori appaiono belli, ma dentro sono piedi di ossa di morti e di ogni putredine!”. Poiché i sepolcri e relativi monumenti venivano imbiancati ogni anno il 15 del mese di Adar (febbraio – marzo) per evitare che i viandanti contraessero impurità toccandoli inavvertitamente, Nostro Signore fa un paragone assolutamente esaustivo con la condizione spirituale di questi personaggi. Anzi, in Luca 11.44 va oltre, sottolineando la loro pericolosità: “Guai a voi, perché siete come quei sepolcri che non si vedono e la gente vi passa sopra senza saperlo”. Con il primo paragone, quello dei sepolcri imbiancati, abbiamo un riferimento alla persona che fa di tutto per sembrare “per bene” e non lo è; con il secondo, invece, si ha il ritratto di colui che pare innocuo, ma in realtà danneggia profondamente gli altri con il suo esempio.

La religione, con l’esercizio così spinto della forma e della ritualità, rende impossibile l’espressione sana e semplice della fede, insegna non troppo trasversalmente a chi vi prende parte ai suoi riti che è l’apparenza quello che conta. Quando da bambino sono stato cresimato e qualcuno interessato alla pecunia mi ha fatto una foto ricordo, prima di scattare mi ha detto “metti le mani giunte e fa’ finta di pregare”. Fare finta era l’importante, senza quella messa in scena il ritratto non avrebbe avuto valore. E allora ecco che anche nel cristianesimo esiste il rischio di ridurre tutto a qualcosa di falsamente rappresentativo che, nella migliore delle ipotesi, snatura il messaggio originale e nella peggiore insinua nella mente di quanti vi si accostano l’idea che tutto si basi su un atteggiamento, una veste di distinzione, un paramento, mani giunte o alzate, belle musiche e canti. In una parola, effetti speciali. Viene allora spontaneo l’accostamento alle parole di rimprovero rivolte sempre ai Farisei: “Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente: allargano i loro filatteri e allungano le frange; si compiacciono dei posti d’onore nei banchetti, dei primi seggi nelle sinagoghe, dei saluti nelle piazze, come anche di essere chiamati «Rabbi» dalla gente” (Matteo 23.3).

Avere l’ammirazione o l’approvazione degli uomini è qualcosa che conforta e soprattutto sazia la persona vanitosa che si sente realizzata quando gli altri le riconoscono un merito, ma oltre questo non si va. Non solo, ma ci si preclude la vera realizzazione spirituale come fecero quei capi del popolo che credettero in Gesù, ma senza rivelarsi: “Anche tra i capi, molti credettero in lui, ma a causa dei farisei non lo dichiaravano per non essere espulsi dalla sinagoga. Amavano infatti la gloria degli uomini più che la gloria di Dio” (Giovanni 12.42,43). Certo l’espulsione di cui parla Giovanni non era cosa da poco perché implicava l’esclusione dalla vita sociale di Israele: se quei capi de popolo di fossero rivelati, avrebbero perso la loro carica e ogni diritto.

Secondo le parole di Gesù, chi si comporta per avere l’approvazione altrui riceve il suo premio che consiste nell’ottenere ciò che cerca: l’altrui plauso.

Ecco però emergere ancora una volta in queste riflessioni la parabola che abbiamo già citato: il ricco, che aveva speso la sua vita per soddisfare la propria carne, si sentì dire “…lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti” (Luca 16.25): c’è un premio che si riscuote sulla terra e ce n’è un altro che si ottiene nella vita che viene dopo. Anche questi sono incompatibili, tra loro vi è “un profondo abisso”. Nella prossima parte esamineremo il secondo atteggiamento e cercheremo di sviluppare il significato del “vedere nel segreto”; per ora, vale l’avvertimento del primo verso, “State attenti”, teso a correggere l’idea che Dio sia costretto ad approvare e mettere “in conto di giustizia” qualunque buona azione che, in realtà, soddisfa esclusivamente la vanità personale. Sono i pochi centesimi dati come offerta nelle riunioni di Chiesa. Sono le donazioni anche cospicue in denaro date agli enti caritatevoli e pubblicizzate sui quotidiani o in televisione. Sono le ambulanze con su scritto “Dono della famiglia Tale”. È tutto ciò che viene fatto utilizzando la finta fede per avere un tornaconto personale, anche solo il cosiddetto “ritorno di immagine”. Perché le rivelazioni di Dio sono state sempre nel silenzio. Amen.

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05.25 – AMARE IL PROPRIO NEMICO (Matteo 5.43-48)

05.25 – Amare il proprio nemico (Matteo 5.43-48)

43Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimoe odierai il tuo nemico. 44Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, 45affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. 46Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? 47E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? 48Voi dunque, siate perfetti come è perfetto il padre vostro celeste”.

L’esposizione di Gesù su quanto insegnato dalla Legge e tramandato dai suoi maestri prosegue con la citazione di Levitico 19.18 in cui leggiamo “Non far vendetta e non servare odio a quelli del tuo popolo, anzi ama il tuo prossimo come te stesso”: da questo passo vediamo quanto fosse presente la considerazione in ciascun israelita dovesse tenere il suo prossimo che non era qualsiasi essere umano, ma in chi apparteneva allo stesso Israele in virtù del progetto salvifico che Dio aveva in serbo per lui. L’odio per il nemico, invece, non lo troviamo prescritto da nessuna parte della Scrittura e possiamo ritenere che fosse non tanto comandato, quanto tollerato da quanti che insegnavano la Legge, ritenendo gli altri popoli impuri. L’amore per il prossimo era allora ristretto, negli insegnamenti farisaici, ai soli connazionali e, restringendo il concetto di “prossimo”, gli anziani avevano tratto la conclusione che bisognava odiare il nemico, cioè chi “prossimo” non era. Non a caso i romani accusavano gli ebrei di “odium humani generis”, poi diventato capo d’accusa anche per i cristiani sotto la persecuzione neroniana del 64.

Ebbene, Gesù irrompe nella credenza popolare, nel facile acquisito umano ancora una volta con le parole “Ma io vi dico”, non tanto ordinando un cambio di atteggiamento, quanto piuttosto invitando a considerare quanto sia facile amare e odiare secondo il comportamento di chi ci circonda, oppure reagire secondo gli istinti in base a come il nostro prossimo si comporta con noi. Ancora un volta non ci viene detto che “dobbiamo essere buoni”, ma ci è chiesto di entrare in una dimensione corrispondente alla nostra fede che non è un’ideale, ma un modo di vivere che si basa su uno stato, una verità rivelata. L’amore non è qualcosa che può essere insegnato o praticato senza che sia mosso da qualcosa: non può essere simulato, ma deve appunto avere un motore, una motivazione profonda e questa la si trova e può esistere solo se siamo stati amati per primi da Dio, se il suo amore lo avvertiamo davvero. Allora, non potremo che comportarci come Lui. Il “Padre nostro che è nei cieli”, infatti, dando corso agli eventi naturali non fa distinzione tra buoni e cattivi, fa sorgere lo stesso sole e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti, termini che si riferiscono alle condizioni di vita che cambiano a vantaggio o a svantaggio della persona perché possa riflettere, chiedere o ringraziare delle attenzioni che riceve, interrogarsi sul piano di Dio per lui e avvicinarglisi sempre di più. C’è sempre un motivo nelle cose che avvengono nella vita nostra e dei popoli; ricordiamo Atti 14.16,17: “Egli, nelle generazioni passate, ha lasciato che tutte le genti seguissero la loro strada, ma non ha cessato di dar prova di sé beneficiando, concedendovi dal cielo piogge per stagioni ricche di frutti e dandovi cibo in abbondanza per la letizia dei vostri cuori”. “Dar prova di sé” come ha fatto con la perfezione assoluta degli equilibri presenti in natura che l’uomo, non Lui, sta stravolgendo così tragicamente.

Il verbo “amare”, nonostante sia uno, in italiano ha tanti significati che però il greco suddivideva meglio avendo un verbo per indicare l’affezione morale (agapào) e un altro per l’affetto personale (filéo), chiaramente diversi e, nel verso in esame, è usato proprio il primo, che in questo caso allude chiaramente a una manifestazione fattiva che dimostra il desiderio per il bene altrui. E qui abbiamo un primo significato, un primo campo d’agire che esprime una netta separazione tra il comportamento del nemico e la pietà del giusto. Va ripetuto: l’odio per il nemico non è prescritto né raccomandato negli scritti dell’Antico né tantomeno del Nuovo Patto, anzi possiamo citare l’episodio in cui Saul, partito alla ricerca di Davide con tremila uomini per ucciderlo, fu trovato da Davide e dai suoi uomini in una caverna. Gli tagliò un lembo del mantello senza che se ne accorgesse – notare quanto fosse affilata la sua spada – e poi gli disse “Guarda, padre mio, guarda il lembo del tuo mantello nella mia mano. Quando ho staccato questo lembo dal tuo mantello nella caverna, non ti ho ucciso. Riconosci dunque e vedi che non c’è in me alcun male né ribellione, né ho peccato contro di te; invece tu vai insidiando la mia vita per sopprimerla. Sia giudice il Signore tra me e te e mi faccia giustizia il Signore nei tuoi confronti, ma la mia mano non sarà mai contro di te. (…). Il Signore sia arbitro e giudice fra me e te, veda e difenda la mia causa e mi liberi dalla tua mano” (1 Samuele 24.12-16).

Abbiamo già visto in una precedente riflessione che l’odio di Saul verso Davide fu generato dall’invidia. Ora è chiaro dal testo che Davide avrebbe potuto ucciderlo anziché tagliargli il mantello, ma ebbe pietà di lui e, invece di approfittare della possibilità che aveva in quel momento, decise di lasciare a Dio il compito di difenderlo, rimettendo a Lui il compito di giusto Giudice, mettendo così in secondo piano la propria vendetta. In quell’occasione Davide distinse la sua posizione da quella di Dio, non si intromise ed ebbe pietà del suo nemico o, meglio, di chi provava un odio umano nei suoi confronti. Tra l’altro va tenuto ben presente il rispetto che portava a Saul, unto re a differenza sua, per cui rispettò questa distinzione che era anche spirituale: poteva farsi giustizia da sé, ma chiese quella di Dio. Leggiamo in Proverbi 25.21,22 “Se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare. Se ha sete, dagli acqua da bere, perché così ammasserai carboni ardenti sul suo capo e il Signore ti ricompenserà”: perché? Perché così facendo non solo non avrai fatto a lui quello che certamente lui non avrebbe mai fatto a te, ma riconoscerai a Dio il potere di renderti giustizia! Chiediamoci che senso abbiano i “carboni ardenti”: sono la figura di un giudizio imminente e la frase “Il Signore ti ricompenserà” sta a indicare la benedizione conseguente dal fatto che chi si è comportato col nemico sfamandolo e dissetandolo ha dimostrato di estraniarsi dalla logica dell’ostilità così facile, umana, umiliante perché guarda sempre, ostinatamente, verso il basso.

L’amore per il nemico, quindi, trova il suo apice non nel fatto che si provi un sentimento positivo e di piena disponibilità nei suoi confronti, ma nel rifiuto dell’idea di vendetta. Un giorno conobbi una persona, credo depravata o dai principi quanto meno discutibili, che sosteneva di mettere in pratica questo metodo col fine specifico del radunare i “carboni ardenti” sul capo delle persone a lei ostili. Inutile dire che queste sue azioni si ritorcevano inevitabilmente contro di lei.

Ricordiamo invece l’agire di Gesù che “…insultato, non rispondeva con insulti. Maltrattato, non minacciava vendetta, ma si affidava a Colui che giudica con giustizia” (1 Pietro 3.9): se la fede è vera, autentica, la certezza assoluta del giudizio di Dio non prevale né si abbassa al livello del nemico. Ricordiamo le parole “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno” in cui Nostro Signore si fa intercessore dei soldati romani che lo crocifiggevano, per i quali altri non era che un semplice malfattore. Non condannò neppure i sommi sacerdoti, i capi del popolo, e il popolo stesso: lo fecero da soli quando, di fronte a Pilato che si lavò le mani pubblicamente a sottolineare la sua estraneità e contrarietà a quell’esecuzione, dissero “Il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli” (Matteo 27.24-26). Ricordiamo anche Stefano che, lapidato dal Sinedrio, morì dicendo “Signore, non imputar loro questo peccato” (Atti 7.60): non era una frase detta “per fare bella figura”, ma una richiesta di perdono per quelli che, lapidandolo, si trovavano nelle stesse condizioni di Saulo da Tarso, poi diventato Paolo, presente e consenziente alla sua morte – “approvava la sua uccisione” –  (8.1). Tra di loro c’erano persone che erano veramente convinte di difendere la Legge e i Profeti ed erano in buona fede. Se Saulo avesse portato avanti la sua persecuzione come gli Scribi e i Farisei odiavano Gesù e lo ostacolavano anche senza argomenti, non sarebbe mai stato chiamato ad essere apostolo.

Il terzo significato delle parole di Gesù che stiamo esaminando è per la Chiesa, quella che dovrebbe essere la legittima e unica testimone di Cristo sulla terra: sotto questo aspetto sono chiare e illuminanti le parole “Da questo conosceranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Giovanni 13.35). “Se”, la condizione. Una Chiesa senza amore vero tra i fratelli è un albero senza frutti, è un’associazione religiosa fatta di persone che si comportano senza alcun segno distintivo che non consista in un riunirsi per abitudine, per essere a posto con la propria coscienza in un presunto ritenersi superiori a tutti coloro che non condividono il suo credo, i suoi equilibri fatti di usanze e dogmi più o meno veri, ma altrettanto più o meno vuoti. Una Chiesa, un cristiano senza amore ha già fallito ed è destinata o a spegnersi. Non a caso leggiamo a proposito della Chiesa di Gerusalemme queste parole: “Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo della simpatia di tutto il popolo. Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità coloro che erano salvati” (Atti 2.44-48). Alla mancanza di amore spirituale non si può che sopperire se non con quello umano, ingannevole, lo stesso facile dell’amare chi ci ama e il salutare settariamente solo i propri fratelli; la stessa cosa la facevano i pubblicani e i pagani citati da Gesù col fine di suscitare disagio nel suo uditorio: io odio pubblicani e pagani e poi mi comporto come loro.

Credo che di tutto il discorso di Nostro Signore che abbiamo esaminato, sia l’ultima parte la più impegnativa. Con quel “Siate perfetti come lo è il Padre vostro che è nei cieli”, non furono pochi quelli che, tra i presenti, pensarono alle parole di Dio ad Abrahamo “Io sono Dio l’Onnipotente, cammina davanti a me e sii integro” (Genesi 17.1). Come può un mortale essere trovato integro da Colui che è tre volte Santo? Camminando davanti a Lui, cioè avendo presente la propria identità da un lato e la Sua dall’altro, “tendendo alla perfezione” come scrive l’apostolo Paolo ai Corinti, oppure ai Filippesi in 3.12-15: “Non ho certo raggiunto la meta, non sono arrivato alla perfezione, ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù. Fratelli, io non ritengo ancora di averla conquistata. So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la meta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù”.

Questa era l’esperienza di Paolo, il suo cammino. Non lo faceva da solo, ma invitava tutti i credenti a fare lo stesso talché in Colossesi 2.6,7 scriveva “Come dunque avete accolto Cristo Gesù, in lui camminate, radicati e costruiti su di lui, saldi nella fede come vi è stato insegnato, sovrabbondando nel rendimento di grazie”.

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05.24 – OCCHIO PER OCCHIO II/II (MATTEO 5.38-42)

5.24 – Occhio per occhio II (Matteo 5.38-42)

38Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente. 39Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra, 40e a chi vuole portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. 41E se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due. 42Da’ a chi ti chiede, e a chi desidera un prestito da te non voltar le spalle”.

  Due mondi a confronto. Mondi diversi, incompatibili. Così distanti esattamente come la luce dalle tenebre. Ma sappiamo che la prima cosa a venire creata fu lei e ciò avvenne tramite un ordine di Dio, quindi essa, considerata come realtà fisica, non apparteneva alla condizione originaria, allo stato veramente naturale in cui si trovava il nulla, quel “deserto e vuoto” con “le tenebre che ricoprivano la faccia dell’abisso”; senza quel “sia la luce”, esse sarebbero ancora lì, nella loro immobilità e immutabilità. Si può dire allora che, con le parole che abbiamo letto in Matteo, Gesù contrappone il comportamento di chi appartiene alle tenebre a quello di chi si identifica nel loro esatto opposto. E vive.

Allora Nostro Signore esorta i suoi uditori a un comportamento non da persona pacifica, buona o debole, ma proporzionale all’acquisizione del principio di appartenergli. Attenzione che tutto questo riguarda la persona nella profondità del proprio essere, è qualcosa di individuale, a nessuno è ordinato di rinunciare a difendere i propri cari o il proprio legittimo ambito operativo; piuttosto a comportarsi tenendo sempre presente chi si è, la dignità acquisita come figli di Dio: apparteniamo alla Chiesa, cioè siamo stati fatti “concittadini dei santi, e membri della famiglia di Dio”? Il nostro vero mondo è un altro, forma un tutt’uno con la nostra destinazione, il nostro essere che, nel suo esprimersi, nel momento in cui vive spiritualmente, va da sé che si distacchi profondamente, anche nelle sue reazioni, dal sentire e dall’agire comune.

Le parole di Gesù sono indirizzate a persone che avevano una base culturale diversa dalla nostra: sapevano che doveva arrivare un inviato di Dio, la loro vita non aveva né i nostri ritmi né i nostri tempi, era diffusa la certezza dell’aiuto di Dio e del principio della responsabilità individuale nei rapporti con Lui, della benedizione o della maledizione a seconda di come si operava. Ecco allora che, citando la tunica che si portava sopra la camicia, e soprattutto il mantello, era implicito il riferimento alla Legge che ammoniva così: “Se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo, glielo renderai prima del tramonto del sole perché è la sola sua coperta, è il mantello per la sua pelle: come potrebbe coprirsi dormendo? Altrimenti, quando griderà verso di me, io l’ascolterò, perché sono pietoso”(Esodo 22.6).

Notiamo da questo verso che c’è un principio di giustizia visto nel fatto che l’”Io sono”, rivelatosi al popolo d’Israele come il liberatore dalla schiavitù d’Egitto, quindi con “mano potente”, provvede di fronte alle rimostranze del povero che chiede giustizia. Rileggiamo il verso: “Altrimenti– se non ti comporti rispettando il tuo prossimo nelle sue esigenze elementari – quando griderà verso di me– perché mi riconoscerà come l’unico Giudice – io lo ascolterò– e tu ne subirai le conseguenze – perché sono pietoso– e imparerai a tue spese cosa vuol dire fargli violenza”.

Il fatto che Dio interviene a difesa è una cosa che raramente si tiene presente. Ci sono persone che sono sempre pronte a pregare unicamente per le proprie necessità quasi come per fare degli scongiuri, ma non riflettono su quanto è presente di Dio nella loro vita, su quale posto gli lasciano occupare, distratti come sono dalle problematiche quotidiane. Sono persone ancorate alla consuetudine, ma ancora di più alla loro storia umana, alle proprie vicissitudini perché sono costantemente sotto tensione. Non consentono alla Grazia di agire in loro trasformandoli.

Ricordiamo sempre che i comportamenti di cui parla Nostro Signore nel passo su cui riflettiamo hanno senso esclusivamente perché c’è promessa difesa da parte Sua e che comunque la Legge, molto spesso “maltrattata” negli studi cristiani cui le si attribuisce esclusivamente un peso, si preoccupava di regolare anche i rapporti tra le persone. Prendiamo ad esempio Numeri 5.6: “Quando un uomo o una donna commette qualsiasi offesa contro qualcuno, così facendo commette un peccato contro il Signore e questa persona si rende colpevole”. Possiamo vedere anche Deuteronomio 24.12-18 che trascrivo in parte: “Se quell’uomo è povero, non andrai a dormire col suo pegno. Dovrai assolutamente restituirgli il pegno al tramonto del sole, perché egli possa dormire col suo mantello e benedirti. Questo ti sarà contato come un atto di giustizia agli occhi del Signore, tuo dio. Non defrauderai il salariato povero e bisognoso, sia egli uno dei tuoi fratelli o uno dei forestieri che stanno nella tua terra, nelle tue città; gli darai il suo salario il giorno stesso, prima del tramonto del sole, perché egli è povero e a questo aspira. Così egli non griderà al Signore e tu non sarai in peccato. (…) Non lederai il diritto dello straniero e dell’orfano e non prenderai in pegno la veste della vedova. (…) Quando facendo la mietitura nel tuo campo, vi avrai dimenticato qualche mantello, non tornerai indietro a prenderlo: sarà per il forestiero, per l’orfano e per la vedova. Quando vendemmierai la tua vigna, non tornerai indietro a racimolare. Sarà per il forestiero, per l’orfano e per la vedova. Ricordati che sei stato schiavo nella terra d’Egitto, perciò ti comando di fare questo”. È un verso che è già stato citato, ma non fa male reinserirlo. E il motore di tutto qui è il ricordo della condizione in cui si versava un tempo, che provoca l’immedesimazione nella sofferenza del forestiero, dell’orfano e della vedova. E ciò che causa la reazione penalizzante di Dio è proprio il non ricordare ciò che eravamo rapportandolo a ciò che siamo, come nella parabola del creditore spietato.

È un verso, quello dell’immedesimazione nella altrui sofferenza e aspettative, che ci consente di rilevare la temperatura morale e spirituale del tempo in cui viviamo, poiché chi governa è andato molto oltre rispetto agli egoismi e alle nefandezze che i despoti del tempo biblico commettevano. Alla violenza primitiva, alle prepotenze chiaramente riconoscibili proprio perché si manifestavano attraverso di essa, se ne è sostituita una molto più apparentemente morbida, subdola, che non uccide ma spinge all’omicidio di sé o di altri. Annienta e falcia. È un processo irreversibile come i deterioramenti della terra su cui camminiamo, avvelenata e prossima ad esaurirsi, o della vera dignità della persona, a meno che non si rivolga all’Unico in grado di elevarla.

Rientro in tema e riporto le parole di un commento al passo sul “non resistere al malvagio” che stiamo meditando: “Le razionalizzazioni delle parole di Gesù non mostrano che le sue parole sono impraticabili o esagerate, ma semplicemente che il mondo cristiano non è mai stato disposto e non lo è tuttora a vivere secondo questa etica”. Sono parole che riflettono una condizione di malattia spirituale, poiché le esortazioni a comportarsi diversamente dall’umanamente ordinario non solo le troviamo scritte da Pietro e da Paolo, ma era un principio praticato nella Chiesa primitiva.

Arriviamo così al terzo caso, quello esposto al verso 41, che allude a un servizio forzato o alla presenza di un dominatore straniero. Il parallelo con l’Egitto è inevitabile: Israele non ottenne la libertà con una sommossa e neppure fu liberato da Mosè come condottiero “puro ed eroico”, ma da Dio che dispose gli eventi in modo tale che determinati avvenimenti si verificassero. Teniamo presente che la traduzione che usiamo in questo caso è molto sbrigativa: l’esempio non è di una persona prepotente che vuol costringere un’altra a percorrere un miglio, ma di chi requisisce arbitrariamente, in virtù della sua superiorità militare, uomini o bestiame per i suoi scopi. Chi aveva l’autorità per requisire era solitamente un corriere pubblico o un portatore di dispacci che si chiamava “Angàrios” da cui il verbo “Angaréuo” che significa “costringere qualcuno a fare un viaggio”. Da lì viene il nostro “angariare”. Ora gli ebrei, notoriamente, rifiutavano qualsiasi servizio al dominatore romano (teniamo presente come consideravano i pubblicani e le dispute sul fatto se fosse lecito o meno pagare le tasse) e quindi l’esortazione a percorrere due miglia anziché uno aveva molto da dire a chi aveva quel tipo di atteggiamento. E un miglio era l’equivalente di mille passi. È chiaro allora che impuntarsi per ragioni di principio non porta da nessuna parte, anzi, offrire un’assistenza per il doppio di quanto richiesto può costituire una testimonianza che vada a beneficio dell’angariante.

E arriviamo al quarto punto, quello del dare. Quattro sappiamo che è sinonimo di completezza umana e qui sono ritratti gli aspetti possibili del reagire. Come ci può essere chi è reattivo a fronte di un’aggressione perché forte di costituzione e chi invece è più incline a subire, così possiamo avere chi è attaccato alle proprie cose a tal punto da volerle tenere sempre per sé, accumularle. Purtroppo, “è mio” non lo dicono solo i bambini capricciosi, ma il voler possedere uomini o cose è una caratteristica del nostro genere. Anche qui gli ascoltatori di Gesù avevano un retroterra culturale che noi non abbiamo: “Il malvagio prende in prestito e non restituisce, ma il giusto ha compassione e dà in dono”(Proverbi 3.27,28). Ancora: “Chi ha pietà del povero fa un prestito al Signore, che gli darà la sua ricompensa”(19.17).

Viene così rinnovato per la quarta volta il principio della responsabilità. Siamo esortati a dare a chi ci chiede e a non voltar le spalle a chi desidera un prestito da noi, facendo però attenzione a non generalizzare il tutto sotto un falso buonismo, ma a considerare le necessità della persona: “A quelli che sono ricchi in questo mondo ordina di non essere orgogliosi, di non porre la speranza nell’instabilità delle ricchezze, ma in Dio, che tutto ci dà con abbondanza perché possiamo goderne. Facciano del bene, si arricchiscano di buone opere, siano pronti a dare e a condividere: così si metteranno da parte un buon capitale per il futuro, per acquistarsi la vera vita”(1 Timoteo 6.17,18).

Ecco, questo è un verso adatto per concludere queste riflessioni. Paolo scrive a Timoteo, suo discepolo e compagno d’opera, ricordandogli il tipo di esortazione da fare ai ricchi in denaro: non avrebbero dovuto essere orgogliosi, cioè ritenersi migliori di altri perché avevano una posizione sociale rilevante e quindi far leva sulle loro amicizie altolocate ed esclusive, né porre la speranza nella loro ricchezza, definita “instabile” perché può essere perduta (rubata, requisita, distrutta). Soprattutto Dio può chiamarli a sé senza dar loro l’opportunità per goderne, come nella parabola del ricco stolto. Avere ricchezze significa esserne dominati perché ci si deve adoperare affinché crescano, fruttino, non si svalutino e spesso il pensiero di perdere il denaro investito logora chi se ne occupa. La mentalità del mondo non comprende chi si comporta diversamente da lei perché chi appartiene al suo sistema si trova automaticamente inserito in una morale che non contempla favorire il prossimo, ma difendersi da lui a prescindere. È la legge della sopravvivenza espressa nell’antico adagio “mors tua, vita mea”.

Poi c’è qualcosa di illuminante, che riguarda la collettività a prescindere dalla eventuale ricchezza di ciascuno, cioè che la speranza va posta “in Dio, che tutto ci dà con abbondanza”, dove “tutto” e “abbondanza” dichiarano che quanto abbiamo come cristiani è progettato, costruito su misura per noi. C’è tutto un insegnamento riguardo alle sollecitudini ansiose sul mangiare, bere e vestirsi che Gesù tratterà proprio in questo sermone sul monte e verrà espresso in parte nel “Padre nostro” e in altri versi a seguire. Lo scopo del dare con abbondanza di Dio è “perché possiamo goderne” e ringraziare. Nessuno crederebbe in Cristo se non avvertisse su di sé le attenzioni e l’amore del Padre.

Ebbene, anche ai ricchi conosciuti da Timoteo è raccomandato di non considerare i loro averi come qualcosa di esclusivo, ma “siano pronti a dare e a condividere” là dove è quel “pronti” che qualifica la disposizione d’animo.

Gesù quindi dà ai suoi uditori e a noi, ancora una volta, gli elementi per crescere e mettere in pratica un altro aspetto della loro vita spirituale.

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05.23 – OCCHIO PER OCCHIO (I/II) (Matteo 5.38-42)

5.24 – Occhio per occhio I (Matteo 5.38-42)

38Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente. 39Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra, 40e a chi vuole portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. 41E se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due. 42Da’ a chi ti chiede, e a chi desidera un prestito da te non voltar le spalle”.

Con il quarto intervento di Gesù quale Rabbi sulla Legge che era venuto ad adempiere, si esce dal commento al decalogo per approfondire molti temi a partire da Esodo 21.22-25 dove troviamo enunciato per la prima volta che il  colpevole di una lesione al suo prossimo, la doveva subire nello stesso modo: “Quando alcuni uomini litigano e urtano una donna incinta, così da farla abortire, se non vi è altra disgrazia, si esigerà un’ammenda, secondo quanto imporrà il marito della donna, e il colpevole pagherà attraverso un arbitrato. Ma se segue una disgrazia, allora pagherai vita per vita: occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede, bruciatura per bruciatura, ferita per ferita, livido per livido”. Questo principio viene poi ribadito in Levitico 24.19-21 e in Deuteronomio 19.21, dove lo troviamo nella sua essenzialità: dopo le regole per i testimoni in processo, leggiamo “Il tuo occhio non avrà compassione: vita per vita, occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede”.

Premessa importante: Israele non aveva un codice legislativo come altri popoli, vedi ad esempio il noto “Codice di Hammurabi” in uso presso i Babilonesi (che comunque arrivarono secondi). Tutto ciò che gli israeliti avevano era la serie di regole, precetti e norme che Mosè aveva ricevuto e trasmesso contemplanti minuziosamente ogni aspetto della vita di relazione con Dio e tra gli uomini. Do a questo punto una lettura molto superficiale: in un periodo storico che potremmo definire di barbarie e molto primitivo, il principio in base al quale chi causava – ad esempio – una ferita doveva provare lo stesso dolore su di sé per capire cosa questo significasse e non farlo più, poteva essere comprensibile. Era però quella la stessa epoca in cui pensare al proprio simile era non meno raccomandato che ricambiare “livido per livido”: “Quando facendo la mietitura nel tuo campo, vi avrai dimenticato qualche mantello, non tornerai indietro a prenderlo: sarà per il forestiero, per l’orfano e per la vedova. Quando vendemmierai la tua vigna, non tornerai indietro a racimolare. Sarà per il forestiero, per l’orfano e per la vedova. Ricordati che sei stato schiavo nella terra d’Egitto, perciò ti comando di fare questo” (Deuteronomio 24.19-22). Il Codice di Hammurabi citato, databile attorno al 1750 a.C., risentiva delle influenze della Legge di Mosè; ad esempio leggiamo che “I poveri, le vedove e gli orfani sono posti sotto la tutela dello Stato. Le donne sono protette contro i maltrattamenti del marito, in favore dei lavoratori viene alzato il salario e sono stabiliti i giorni di riposo annuali” e veniva applicata la legge del taglione cui Gesù ha fatto riferimento nel passo in esame.

Va poi anche aggiunto, riguardo a Israele, che la giustizia era intesa in modo differente dal nostro: chi svolgeva l’attività di giudice era uno che, esercitandola, a prescindere dalla condanna liberava la persona dall’ingiustizia e dall’oppressione. C’erano così Anziani e Giudici che, prima di emettere una sentenza, indagavano a fondo ascoltando i testimoni a seconda dell’importanza delle cause da trattare. Ai tempi di Gesù l’applicazione della legge del taglione, lungi dall’essere ristretta nelle possibilità dei magistrati che ne ordinavano l’applicazione in determinati casi, era stata estesa liberamente ai singoli concedendo loro di farsi giustizia da sé. “Occhio per occhio e dente per dente” è allora il riassunto di un modo di ragionare, oltre che di un passo scritturale indicatore di un periodo per noi passato.

Dobbiamo prestare attenzione al fatto che Nostro Signore non attacca la Legge in quanto tale, ma l’uso improprio che se nei faceva essendo la vendetta a quel tempo vista come un diritto – dovere. In questo modo, privato della sentenza di un Giudice o degli Anziani, chi si rendeva colpevole di un’offesa fisica poteva subire quella dei parenti dell’offeso ai quali non pareva vero di poter sfogarsi sul malcapitato, ritenuto colpevole senza giusto processo.

Teniamo sempre presente che ogni principio scritturale non può essere estrapolato dal contesto per giustificare l’azione che in esso si sostiene, ma va armonizzato con gli altri: infatti la stessa Legge che ha dato il principio dell’”occhio per occhio”, prima ancora di ripeterlo (Levitico da Esodo), dice “Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore” (Levitico 19.18). La Legge quindi non è solo violenza, punizione e annullamento, così come Nostro Signore non amputa, ma cauterizza, non taglia l’albero che il padrone della vigna vorrebbe eliminare, ma lo concima e gli sistema il terreno attorno per farlo prosperare; non abolisce, ma adempie, completa, rende perfetto ciò che l’essere umano non sarebbe mai stato in grado di compiere.

Il Suo discorso sulla legge del taglione parte da lì, la cita e subito affronta, nei restanti versi, quattro distinti aspetti che riguardano la sfera della persona attraverso espressioni indubbiamente forti che verranno poi sviluppate dagli apostoli Paolo e Pietro. Tutto parte dal principio “Non contrastate il malvagio”, cioè chi perseguita in un modo o in un altro. Dopo questa esortazione, abbiamo la violenza fisica (v.39), la contesa legale (v.40), il lavoro o servizio forzato (v.41) e infine la richiesta di regali o prestiti (v.42).

Prima di esaminare i quattro casi proposti da Gesù, consideriamo ancora una volta che si rivolgeva a un popolo religioso o, meglio ancora, composto da persone che comunque erano educate a far riferimento a quell’Iddio che tante volte veniva pregato, adorato, seguito nelle feste che si celebravano più volte all’anno (finora abbiamo visto solo la Pasqua) ed aveva gli elementi per distinguere il bene dal male, per quanto in linee generali. Il principio dal quale parte Nostro Signore è a monte del non contrastare il malvagio e viene espresso in Proverbi 20.22 in cui leggiamo “Non dire «Renderò male per male»; confida nel Signore ed Egli ti libererà”.

C’è allora ancora una volta un confine che siamo liberi di valicare o meno nel senso che, nel momento in cui le nostre azioni sono tese ad ottenere una vendetta nei confronti di chi ci ha fatto del male, agiamo di nostra iniziativa e precludiamo al Signore la possibilità di intervenire. Se però spostiamo la nostra ottica confidando in lui anche come Difensore, avremo la liberazione effettiva dal male: “…ma liberaci dal male”, o “dal maligno”, che sono la stessa cosa.

In pratica: non contrasto il malvagio perché sono un debole e se mi difendo pecco, ma supero il principio, vado oltre perché confido nel Signore. Restituire, rendere male per male è umano ed è una reazione immediata che siamo invitati a non fare per il semplice fatto che non siamo soli: come cristiani non abbiamo sposato una generica ideologia di amore e pace che mai riusciremmo a mantenere fino in fondo, ma siamo stati salvati e non apparteniamo più a questo mondo con la sua logica e le sue regole. Molto spesso la vendetta è la messa in atto di una rivalsa nel tentativo di placare un animo ferito che tuttavia raramente, a vendetta compiuta, resta soddisfatto, liberato dall’umiliazione o dal torto subito.

Dirà l’apostolo Paolo ai Romani “Non rendete a nessuno male per male. Cercate di compiere il bene davanti a tutti gli uomini. Se possibile, per quanto dipende da voi, vivete in pace con tutti. Non fatevi giustizia da voi stessi, carissimi, ma lasciate fare all’ira divina. Sta scritto infatti «Spetta a me fare giustizia, io darò a ciascuno il suo», dice il Signore. Al contrario, se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete, dagli da bere: facendo questo, infatti, accumulerai carboni ardenti sopra il suo capo. Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene” (12.17-21). Anche questi versi pongono il cristiano in un ambito differente, estraneo al male che viene fatto, ricordando “Se possibile, per quanto dipende da voi”, cioè guardate che quel che fate sia per scelta consapevole e non per una posizione assunta per filosofia. Il principio è “Spetta a me fare giustizia, io darò a ciascuno il suo”. Non sono parole che appartengono a una dispensazione diversa dalla nostra, per cui potremmo ipotizzare siano decadute, anzi: “Chi vuole amare la vita e vedere giorni felici, trattenga la sua lingua dal male e le labbra da parole d’inganno, eviti il male e faccia il bene, cerchi la pace e la segua, perché gli occhi del Signore sono sopra i giusti e le sue orecchie sono attente alle loro preghiere; ma il volto del Signore è contro coloro che fanno il male” (1 Pietro 3.10-12).

Posso testimoniare di avere vissuto personalmente un’esperienza del genere in cui mi sono trovato nell’impossibilità totale, quindi anche volendolo, di “resistere al malvagio” che, così come è comparso, si è dileguato in un tempo molto più breve di quanto sarebbe avvenuto qualora lo avessi combattuto.

Interessante la riflessione dell’apostolo Paolo che scrisse “per questo, affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia” (1 Corinti 12.7): si può ragionevolmente supporre che quell’inviato, o come altri traducono, “angelo” di Satana fosse stata una persona che lo picchiò quando si trovava in carcere a causa delle sue predicazioni; costui gli causò una lesione permanente agli occhi che gli impediva di leggere e di scrivere correttamente. In Galati 4.15 infatti nomina dei credenti che avrebbero voluto, se possibile, cavarsi gli occhi per darli a lui.

Rientrando al tema del porgere l’altra guancia, ma tenendo ben presente quanto citato in precedenza, ci domandiamo: è fattibile? È questo che Nostro Signore intendeva, cioè va preso in senso letterale, oppure questa sua espressione è da intendersi come “parente” dei versi riferiti all’enucleazione dell’occhio e all’amputazione della mano di cui abbiamo già trattato? Mi pare di riconoscere chiaramente, nelle parole che seguono l’invito a non contrastare il male, un modo per qualificare l’atteggiamento interiore che esclude, come già rilevato in altre circostanze, la rivalsa, la vendetta, l’infierire. Sono azioni che non troviamo mai come positive, ma se fosse categoricamente esclusa la reazione a un’aggressione Giovanni Battista avrebbe ordinato ai soldati che gli chiedevano “E noi, cosa dobbiamo fare?” di disertare, mentre disse “non maltrattate e non estorcete niente a nessuno, accontentatevi delle vostre paghe” (Luca 3.14). Le leggi di guerra di allora, infatti, autorizzavano la devastazione e il saccheggio, senza contare la violenza sulla popolazione civile che avviene in tutte le guerre da sempre, anche nel nostro “civilissimo” secolo.

Possiamo ricordare Gesù stesso, che al soldato che gli diede uno schiaffo non offrì l’altra guancia – per lo meno letteralmente – ma gli disse “Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male. Ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?” facendolo desistere (Giovanni 18.22).

Credo che sia la persona coinvolta che debba decidere il comportamento opportuno da adottare in proporzione alla portata dell’offesa fisica, cosa del resto stabilita dai codici penali umani a proposito della legittima difesa, in cui questa deve essere proporzionale alla minaccia. Credo che vada sempre tenuto in considerazione il fatto che Luca, riportando le parole di Gesù lette in Matteo, scrive “A chi ti percuote sulla guancia, offri anche l’altra” e che Pietro scrive “…Cristo patì per voi lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme: egli non commise peccato e non si trovò inganno sulla sua bocca; insultato non rispondeva con insulti, maltrattato non minacciava vendetta, ma si affidava a colui che giudica con giustizia” (1 Pietro 2.22,23).

Credo che il cristiano sia chiamato a valutare con intelligenza quanto si verifica attorno a lui e, alla luce dei passi paralleli che abbiamo coinvolto, tutto viene sviluppato partendo da rapporti tra persone che hanno una base comune, non costrette a confrontarsi – ad esempio – con etnie dedite geneticamente allo sfruttamento, alla delinquenza e agli espedienti per sopravvivere (che tra l’altro combattevano). Viviamo un tempo ultimo in cui tante cose devono accadere ad ogni livello, sia esso politico, ambientale, economico o migratorio e la fine della società che conosciamo non è poi così lontana. Ma quello che deve contraddistinguere il cristiano, da sempre, è la sua capacità di guardare oltre, grazie allo Spirito.

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05.22 – NON GIURARE IL FALSO (Matteo 5.33-37)

5.23 – Non giurerai il falso (Matteo 5.33-37)

33Avete anche inteso che fu detto agli antichi: «Non giurerai il falso, ma adempirai verso il Signore i tuoi giuramenti». 34Ma io vi dico: non giurate affatto, né per il cielo, perché è il trono di Dio, 35né per la terra, perché è lo sgabello dei suoi piedi, né per Gerusalemme, perché è la città del grande Re. 36Non giurare neppure per la tua testa, perché non hai il potere di rendere bianco o nero un solo capello. 37Sia invece il vostro parlare: «Sì, sì», «No, no»; il di più viene dal Maligno”.

“Avete inteso… ma io vi dico”. Un annuncio storico, una rivelazione, una comunicazione data “agli antichi”, agli uomini di un tempo, contrapposta a un annuncio nuovo dato da chi la Legge non l’abolisce, ma l’adempie e quindi ha pieno diritto per estenderla, spiegarla, tracciare le linee guida di base che poi lo Spirito Santo, tramite gli apostoli, la svilupperà per la Chiesa. Chi legge oggi il discorso della montagna deve tener sempre presente che Gesù parla in un momento storico preciso e a persone diverse da noi: le sue parole vanno lette alla luce della conoscenza di quel tempo che si basavano sia sulla Legge che sull’insegnamento degli Scribi e dei Farisei che avevano finito per formare con lei un tutt’uno. Per questo, fino a questo momento, Gesù dichiara aperte le beatitudini e sviluppa alcuni comandamenti quali il sesto e il settimo, cardini delle relazioni umane che vanno a compromettere gravemente, se infranti, anche quelle fra uomo e Dio. Con le parole che abbiamo letto, “né per il cielo, né per la terra, né per Gerusalemme, né per la tua testa” vengono fatte delle estensioni non tanto sul nono punto “Non pronuncerai falsa testimonianza contro il tuo prossimo”, ma piuttosto sul terzo “Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio, perché il Signore non lascia impunito chi pronuncia il suo nome invano” che Gesù non pronuncia testualmente, ma riferendosi al suo compendio che troviamo in due passi integrativo-paralleli.

Il primo di questi è reperibile in Levitico 19.12 “Non giurerete il falso servendovi del mio nome: profaneresti il nome del tuo Dio. Io sono il Signore, vostro Dio”, il secondo in Numeri 30.2 “Quando uno avrà fatto un voto al Signore o si sarà impegnato con giuramento a un obbligo, non violi la sua parola, ma dia esecuzione a quanto ha promesso con la bocca”. Sottolineiamo che, nel passo del Levitico, Dio parla di un suo “Nome” che va inteso non come proprio di persona, poiché Egli è Unico e non ha bisogno di distinguersi da un altro, ma di unicità di riferimento, di potenza e sovranità sull’uomo così come si presentò ufficialmente e legalmente all’apertura del Decalogo: “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile: non avrai altri dèi di fronte a me”.

Per capire meglio le ragioni che spinsero Gesù a soffermarsi su questo punto della Legge, occorre sostare brevemente su questo verso perché in esso Dio si presenta. “Io sono il Signore” è già un’apertura che, se ci pensiamo, lascia senza parole perché con lui il Creatore, il Progettista, l’Architetto dell’universo non solo si presenta, ma si rivela alla creatura. “Tuo Dio”, possessivo e qualifica, contrappongono l’uomo, che ha la polvere come origine e fine, alla massima potenza del creare e del pensare propria di Dio. In più, in queste parole di presentazione non si fa cenno ai sei giorni, alle promesse ad Abrahamo o ai grandi giudizi visti nel diluvio o nella distruzione di Sodoma e Gomorra, ma alla liberazione da due elementi impossibili senza un Suo intervento, “dalla terra d’Egitto” e “dalla condizione servile” cioè dalla promiscuità, da un ambiente estraneo in cui gli israeliti erano costretti a convivere con gente straniera in una condizione non solo di inferiorità, ma appunto “servile”, senza diritti, personalità, privi di quell’esistenza libera che consente possibilità di scelta. Costretti ai lavori più umili, alle dipendenze di qualsiasi capriccio di un faraone o delle sue guardie.

In altre parole Dio, con il primo verso del Sommario della Legge, si presenta in modo tale da rammentare senza possibilità di equivoco quello che ha fatto per il popolo facendogli capire la continuità della sua assistenza, a dirgli “non ti ho chiamato ed eletto per poi disinteressarmi di te. Per questo non avrai altri dèi all’infuori di me, lasciali agli altri che non mi hanno mai conosciuto”.

La questione del “nome” certo può essere ampliata ulteriormente, ma in estrema sintesi è qui anche perché Dio, se non può essere chiamato come un uomo, può essere però designato con titoli e così è stato fatto: basta consultare qualsiasi dizionario biblico alla voce “nomi di Dio” per trovarne tanti, ciascuno rispondente a una rivelazione, a un carattere che traspare da un dato episodio scritturale. Leggiamo però Esodo 3.13-15: “Mosè disse a Dio: «Ecco, io vado dagli Israeliti e dico loro “Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi”. Mi diranno «Qual è il suo nome?» E io cosa risponderò loro?». Dio disse a Mosè: «Dirai agli Israeliti “Io-Sono mi ha mandato a voi”». Dio disse ancora a Mosè: «Dirai agli Israeliti “Il Signore, Dio dei vostri padri, Dio di Abrahamo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, mi ha mandato a voi. Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione».

Arriviamo così al tetragramma, il “nome” di Dio fondato su quattro consonanti, pronunciato dal Sommo Sacerdote una volta all’anno nel luogo santissimo nel giorno del Kippur la cui corretta, antica pronuncia è andata perduta non solo nel timore di infrangere il terzo comandamento, ma perché quel “questo è il mio nome per sempre”, ebraico el-‘olam, può essere letto anche el-‘allem, “da nascondere”. Così, essendoci nell’antico ebraico scritto le sole consonanti, Dio viene chiamato “il Santo, che Benedetto sia”, oppure, semplicemente è indicato con l’espressione “il Nome”.

Ora Gesù dichiara che l’uomo non deve giurare perché non è lecito e ne spiega i motivi: se abbiamo bisogno di giurare significa che ammettiamo che la verità – che è e non ha bisogno di rafforzativi – non la diciamo. Chi di noi da bambino non ha “giurato” su qualcosa per rassicurare i propri compagni di gioco che diceva il vero? Appunto, eravamo bambini e, nella nostra ingenuità, capivamo istintivamente molte cose, magari senza esserne consapevoli, prima fra tutte che l’uomo è mentitore.

Gesù, trattando il passo in esame, implicitamente si riferisce a un’aggiunta che i Farisei avevano fatto al comandamento che aveva subito trovato delle eccezioni: “…ma se giurerai per qualche altra cosa che per il nome del Signore, potrai spergiurare impunemente”. Ancora oggi fra gli orientali, in particolare presso gli arabi di basso ceto sociale e ignoranti, è molto frequente l’uso del giuramento su membri della propria famiglia, sulla propria salute, su loro stessi o su qualunque situazione negativa volta a punirli in caso di infrazione (“Possa morire adesso se non dico il vero” e simili). L’adulto non deve giurare non perché risponde a questa descrizione, ma in quanto non gli appartiene proprio nulla e le parole con cui si esprime sono importanti perché lo qualificano.

Cosa abbiamo da dare a garanzia del fatto che diciamo il vero? La legge italiana punisce la falsa testimonianza nel processo, preceduta da una dichiarazione di impegno a dire la verità, con la reclusione da due a sei anni (Art. 372 C.P), ma a parte questo il giuramento tra persone non ha senso perché adempiere un “Sì” o un “No” è già cosa non da poco.

Gesù, dopo aver detto “Non giurate affatto”, passa ad esaminare i modi di dire più frequenti del suo tempo in cui i discorsi venivano enfatizzati da espressioni che chiamavano in causa il cielo, la terra e Gerusalemme, elementi che all’uomo non competevano. Addirittura la terra, da lui calpestata, è in realtà “lo sgabello” dei piedi di Dio e quindi l’uomo non è che un ospite, un utilizzatore secondario. Non solo, ma essendo la terra opera Sua, ne chiama direttamente in causa il “Nome”. Escluse queste possibilità di chiamare in causa qualcosa per rafforzare una testimonianza, teoricamente non rimarrebbe che la propria vita vista nel “capo” ma anche qui, viene detto che “non hai potere di rendere bianco o nero un solo capello”. Là dove “bianco” e “nero” sono riferiti non alla possibilità di usare delle tinture, ma proprio a quel processo di invecchiamento e modifica che subiamo tutti e di fronte al quale non possiamo far nulla se non salvare le apparenze con interventi estetici. È il primo capello bianco che, nella vita della persona, avvisa che il tempo sta passando. Non si torna indietro.

Qui non si tratta tanto di un mettere a confronto ciò che è nel potere di Dio e quanto può fare l’uomo, ma della descrizione, se vogliamo “cruda”, di quanto è ristretto l’ambito in cui possiamo agire come creature: un capello è cosa da nulla, una persona normale ne perde dai 40 ai 120 al giorno o anche di più in base al suo stato di salute. Altrove è detto che “I capelli del vostro capo sono tutti contati” (Matteo 10.30) a conferma delle attenzioni che il Signore ci riserva e la conoscenza che ha di noi. Possiamo costruire, realizzare, portare a termine compiti, ma di fronte a un capello bianco o nero non possiamo far nulla ed è per questo che tutto quanto va oltre un semplice “sì” o “no” “viene dal maligno” nel senso che non serve, è inutile e dannoso.

Con le parole “viene dal maligno” Nostro Signore non vuole riferirsi tanto a Satana, quanto piuttosto al suo sistema: in un mondo in cui l’Avversario è il principe e gli effetti del peccato si rivelano anche nelle ingiustizie sociali, quindi nella ricchezza smodata di pochi e nella povertà di molti, i simili non si fidano l’uno dell’altro e hanno bisogno di vincolarsi da contratti e giuramenti. La prima perversione del sistema di Satana la vediamo proprio nel fatto che un uomo come noi, alla cui esistenza è stato dato un termine, ci fa del male, ci danneggia, ci ferisce per cui abbiamo bisogno di contratti, di leggi, di organi giudiziari.

Paolo però, parlando di credenti di Efeso, suggerisce un modo naturale di relazione: “Bando alla menzogna e dite ciascuno la verità al suo prossimo, perché siamo membri gli uni degli altri” (4.25). Questo in opposizione al mondo che conosciamo in cui ognuno pensa per sé e subisce la cultura del colpire per primo per non soccombere. Giacomo stesso, probabilmente pensando alle parole di Gesù, scrive “Soprattutto, fratelli miei, non giurate né per il cielo, né per la terra e non fate alcun altro giuramento. Ma il vostro «sì» sia sì e il vostro «no» no per non incorrere nella condanna” (5.12). Quale? L’umiliazione di constatare che, per convincere qualcuno di qualcosa o di promettere, si sia assorbito un sistema estraneo a quella che è la principale, basilare procedura cristiana. Ricordiamo le parole di Gesù in Matteo 12.35,37: “L’uomo buono dal suo buon tesoro trae fuori cose buone, mentre l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori cose cattive. Ma io vi dico: di ogni parola vana che gli uomini diranno, dovranno rendere conto nel giorno del giudizio; infatti in base alle tue parole sarai giustificato e in base alle tue parole sarai condannato”. Per assurdo, è l’uomo che ha in sé il suo peggior nemico, si fa danno da solo per cui quel “pianto e stridore di denti” di cui spesso fa menzione nostro signore allude a quella reazione di crisi che prenderà gli esclusi dal regno quando constateranno di essersi condannati da soli. Dalle tue parole sarai “giustificato” o “condannato”. Non ci sarà la possibilità di un appello.

Personalmente considero un “di più” anche una promessa perché so, come essere umano, di poter garantire nulla. Nella Scrittura numerosi sono gli esempi di persone che hanno dato la loro parola con leggerezza, costretti a mantenerla salvo poi pentirsene, come ad esempio Erode Antipa quando Salome lo irretì quando era già ebbro e si fece promettere, tramite sua madre, la testa di Giovanni Battista su un vassoio. Leggiamo che “Il re ne fu addolorato, ma, per il giuramento fatto e non volendo sfigurare davanti ai suoi invitati, ordinò di dare alla ragazza ciò che aveva chiesto” (Matteo 14.9). Ricordiamo il pianto amaro di Pietro, quando si trovò di fronte alla sua fragilità dopo aver contestato a Gesù la sua predizione sul fatto che lo avrebbe rinnegato tre volte: “Anche se dovessi morire con te, non ti rinnegherò in alcun modo” (Matteo 26.35). Pietro non aveva promesso nulla, ma sicuramente vi fu un impegno nel futuro che non poteva assumersi. Trovandoci un questa condizione di precarietà anche di fronte alla nostra volontà, Nostro Signore ci dice che un «sì» o un «no» sono già di per sé impegnativi.

C’è comunque un altro tema, neppure tanto nascosto nelle parole di Gesù sul giuramento, ora decaduto: quello verso il Signore. Vale anche qui il principio del “Non giurare affatto” e, per le parole che abbiamo letto, anche l’azione del “fare un voto” tanto cara a molti, rientra nelle categorie del “di più, che viene al maligno”. È questo un aggiornamento forse traumatico per alcuni, ma il voto, praticato nell’antica dispensazione e giustificato dal modo che Dio aveva di rivelarsi, non è accettabile nel tempo della Grazia nonostante il suo uso.

Quello del “voto” è un sistema perverso in cui un essere umano chiede un favore a Dio credendo di poterlo barattare con un’atto per ringraziarlo di un favore eventualmente ottenuto. Chiediamoci: l’apostolo Paolo non scrisse forse “In Cristo ho tutto pienamente”?; Gesù stesso, nell’occasione di questo sermone, non disse forse “Cercate prima il Regno di Dio, e tutte le altre cose vi saranno sopraggiunte”? Non basta la preghiera, quando sappiamo che il Padre sa già quello che gli chiederemo? Può essere accolta una preghiera il cui senso sia il baratto, vale a dire “io do una cosa a te se tu dai una cosa a me”? Con il “voto” si offre a Dio qualcosa, solitamente di “buono” che costa fatica e che non si farebbe altrimenti: può essere un comportamento considerato legittimo, o piuttosto è una presa in giro? Cosa si può offrire, se non la propria vita, a chi si è offerto a noi per primo?

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05.21 – SETTIMO, NON COMMETTERE ADULTERIO VII (Matteo 5.27-32)

5.22 – Settimo, non commettere adulterio VII (Matteo 5.27-32)

27Avete inteso che fu detto: Non commetterai adulterio.28Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore. 29Se il tuo occhio destro ti è motivo di scandalo, cavalo e gettalo via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geènna. 30E se la tua mano destra ti è motivo di scandalo, tagliala e gettala via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo vada a finire nella Geènna. 31Fu pure detto: «Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto del ripudio». 32Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, eccetto il caso di unione illegittima, la espone all’adulterio, e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio”.

Con questo incontro concluderemo quella che è solo una panoramica generale sul settimo comandamento, che coinvolge direttamente l’istituzione matrimoniale senza la quale l’adulterio non potrebbe esistere. Parlando di credenti il pericolo di questa infrazione esiste quando si verifica un problema di ascolto e una delle due parti, o molto spesso entrambe, hanno posto le basi perché ciò si verificasse. Molti dei versi che abbiamo citato e letto nei capitoli precedenti illustrano la condizione ideale, quella di Dio, ma occorre tener presente che, nel contingente quotidiano, ciascuno di noi sa di avere a che fare con la propria carne “debole”, con le sue esigenze che vorrebbero essere sempre dominanti e con il proprio spirito che, pur “pronto”, è costretto ad affrontare il proprio lato umano imperfetto. L’uomo convive quindi con questi due elementi spesso in conflitto fra loro e così nel matrimonio, nel rapporto continuo con il nostro corrispettivo femminile o maschile, si può dire che a fronteggiarsi, a volte disordinatamente, si è in quattro.

Ognuno di noi sa, per esperienza diretta, quanto sia difficile a volte gestire il rapporto con noi stessi: egoisti per natura, siamo capaci di azioni tanto nobili quanto disonorevoli. Dal punto di vista della personalità il cristiano, come tutti, può evolvere o involvere, venire condizionato negativamente da circostanze avverse nella vita e nel lavoro senza contare che, come si può ammalare il nostro corpo, anche la mente, sottoposta a stress prolungati, può aver bisogno di cure. Non credo di assumere posizioni estreme affermando che, quando tutto ciò si verifica, a monte c’è un mancato cammino quotidiano col Signore fatto di preghiera e soprattutto identificazione con Lui e la Sua Parola. Ricordiamo Isaia 40.29,31: “Egli dà forza allo stanco e moltiplica il vigore allo spossato. Anche i giovani faticano e si stancano, gli adulti inciampano e cadono; ma quanti sperano nel Signore riacquistano forza, mettono ali come aquile, corrono senza affannarsi, camminano senza stancarsi”. Certo, questi versi descrivono la posizione di chi cammina sempre davanti a e con Dio, ma dobbiamo tener presente che la vita che scorreva nei tempi antichi era profondamente diversa da quella attuale, che impone all’essere umano ritmi insostenibili perché visto come una macchina da sfruttare e che deve produrre velocemente e proficuamente. La gestione di un tempo basato – ad esempio – sui bioritmi o anche solo a misura della persona è divenuta da tempo impossibile e le nevrosi nascono libere, causate da fattori che prima non esistevano e ci sono credenti che non trovano il tempo per pregare e appartarsi con Signore, arrivando a fine giornata sfiniti.

La nostra mente, oggi, è molto più in pericolo di allora e in tal modo si creano squilibri: una persona poco in grado di gestire se stessa, lo è ancora meno nel gestire un rapporto di coppia. Allora possono nascere dei conflitti peggiori di quelli previsti, sempre dall’apostolo Paolo che sviluppò molto il tema del matrimonio, con queste parole: “Riguardo alle vergini non ho alcun comando dal Signore, ma dò un consiglio, come uno che ha ottenuto misericordia dal Signore e merita fiducia. Penso dunque che sia bene per l’uomo, a causa delle presenti difficoltà, rimanere così com’è. Ti trovi legato a una donna? Non cercare di scioglierti. Sei libero da donna? Non andare a cercarla. Però se ti sposi non fai peccato e se la giovane prende marito, non fa peccato. Tuttavia costoro avranno tribolazioni nella loro vita, e io vorrei risparmiarvele” (1 Corinti 7.25-28).

È proprio la definizione “tribolazioni nella loro vita”, tradotta da altri con “tribolazioni nella carne”, che allude a uno stato di sofferenza che può instaurarsi a causa di un’unione che, per i motivi più svariati, s’incrina a tal punto da lasciare i coniugi soli con loro stessi e a scendere in un terreno di contesa e rivalsa. È il desiderio di vita naturale che si insinua in quella della coppia e Paolo, paternamente, vorrebbe risparmiare a chi non è ancora fidanzato o legato sentimentalmente la prospettiva del matrimonio perché contempla anche sofferenza che può essere più o meno transitoria a seconda dell’atteggiamento di entrambi. Ricordiamo che l’unione ha sempre come obiettivo la cooperazione verso qualcosa di molto più alto di una semplice convivenza e che ciascuno dovrebbe vedere nell’altro tanto il proprio simile quanto, fatte le debite proporzioni, il volto di Dio che si riflette nel credere, nell’essere salvati e nel crescere. Perché occorre aver cura della moglie come del proprio corpo? È un modo per ricordare che lei è parte integrante del marito, non è un frammento di vita autonoma. E viceversa. Tutto questo può essere considerato retorica pura, ma non è così, per lo meno da un punto di vista cristiano perché marito e moglie, avendo un obiettivo di crescita comune davanti al Signore, sono uniti proprio da quel cammino. Allora possiamo mettere a confronto, facendo ciascuno libere considerazioni, le parole di Paolo che abbiamo letto e quelle del Qoèlet, o Ecclesiaste: “Meglio essere in due che uno solo, perché due hanno un miglior compenso nella fatica. Infatti, se vengono a cadere, l’uno rialza l’altro. Guai invece a chi è solo: se cade, non ha nessuno che lo rialzi. Inoltre, se due dormono insieme, si possono riscaldare, ma uno solo, come fa a riscaldarsi? Se uno aggredisce, in due gli possono resistere e una corda a tre capi non si rompe tanto presto” (4.9-12).

Si può ora tornare a 1 Corinti 7, leggendo un nuovo passo: “Agli sposati dò quest’ordine, che non viene da me, ma dal Signore: la moglie non si separi dal marito. Se si è già separata dal marito, non si risposi. Cerchi piuttosto di riconciliarsi con lui. E d’altra parte, il marito non mandi via la moglie”. Qui abbiamo un distinguo tra consiglio e ordine e, come vedremo nei versi successivi, il secondo si riferisce a coniugi credenti, che hanno acconsentito al Signore Gesù Cristo di entrare nella loro vita e hanno fatto a suo tempo un progetto comune scegliendo di diventare una sola carne. Tutte le indicazioni contenute al capitolo 7 di questa lettera non sono state trattate dall’apostolo per sua volontà, ma da esplicite domande dei credenti di Corinto che non ci sono pervenute, poiché leggiamo all’inizio “Quanto poi alle cose di cui mi avete scritto” (v.1) e il caso della moglie che non si deve separare dal marito – e viceversa – è posto come ideale perché in realtà, può farlo ma senza risposarsi.

Subito dopo però viene contemplato anche il caso di un matrimonio in cui uno dei due coniugi non è credente: “Agli altri do un consiglio e questo è un parere mio, non un ordine del Signore: se un cristiano ha una moglie che non è credente, e questa desidera continuare a vivere con lui, non la mandi via. E così pure la moglie cristiana non mandi via il marito che non è credente, se egli vuol vivere con lei. Il marito non credente appartiene già al Signore per la sua unione con la moglie credente e viceversa la moglie non credente appartiene già al Signore per la sua unione col marito credente. In caso contrario voi dovreste rinnegare anche i vostri figli, mentre invece essi appartengono al Signore. Ma se uno dei due è credente e vuole separarsi, lo faccia pure. In tal caso il credente, sia esso marito o moglie, non è vincolato. Dio infatti vi ha chiamati a vivere in pace” (vv.12-14).

Da questi versi, che da un lato confermano la “sola carne” perché il coniuge non credente “appartiene già al Signore” per il solo fatto di aver sposato una controparte cristiana rileviamo che, in caso di separazione, è proprio chi dei due è cristiano a non essere vincolato dal matrimonio contratto e quindi può risposarsi: perché? Perché la parte che rinuncia al legame decide di estraniarsi rendendo impossibile il proseguimento di un rapporto liberando di fatto la controparte e rendendola autonoma. Sarà poi una scelta di chi è stato abbandonato dalla moglie o dal marito non credente se rimanere “solo”, oppure cercare un altro legame per il principio secondo il quale è “meglio sposarsi che bruciare” cui abbiamo accennato in una recente riflessione.

Diventano molto significative a questo punto le parole, sempre in questo capitolo, “Vorrei sapervi liberi da preoccupazioni. Infatti l’uomo non sposato si preoccupa di quel che riguarda il Signore e cerca di piacergli. Invece l’uomo sposato si preoccupa di quel che riguarda il mondo e cerca di piacere alla moglie. E così finisce con l’essere diviso nel suo modo di pensare e di agire. Allo stesso modo, una donna non sposata, sia essa adulta o ragazza, si preoccupa di quel che riguarda il Signore, perché desidera vivere interamente per lui. Invece la donna sposata si preoccupa di quel che riguarda questo mondo e di piacere al marito” (vv.32-34). Sono molto significative le parole che esprimono il sottile disagio dell’essere “diviso nel suo modo di pensare e di agire”rispetto all’unico obiettivo di servire il Signore liberamente, ma si tratta di una realtà possibile solo a quelli che sanno dominarsi per cui “chi si sposa fa bene, ma chi non si sposa fa meglio” (v.38), parole che chiudono il discorso paolino sul celibato quale condizione migliore sul matrimonio di cui ha illustrato da una parte i limiti e dall’altra i vantaggi.

È possibile concludere questa breve panoramica con una considerazione sui cosiddetti “rapporti prematrimoniali”, definizione francamente impropria perché l’avere un rapporto fisico con una persona di sesso opposto determina il matrimonio. Per questo valgono le parole dal verso 26 al 37: “Se a causa della sua esuberanza un fidanzato si trova a disagio dinnanzi alla fidanzata e pensa che dovrebbe sposarla, ebbene la sposi! Non commette alcun peccato! Può darsi però che il giovane, senza subire alcuna costrizione, mantenga fermamente la decisione di non sposarsi. In tal caso, se sa dominare la sua volontà e mantiene fermo il proposito di non avere relazioni – carnali– con la sua compagna, agisce rettamente se non la sposa”. Anche qui viene ribadito che tanto il matrimonio che il celibato sono una scelta, ma troviamo un particolare fondamentale, importante tanto quanto il progetto di vita insieme: “senza subire alcuna costrizione” ed è proprio quell’ “alcuna” a spiegarci che il “costringere”, azione coercitiva, non è riferito solo a un atto violento con minacce più o meno esplicite e forti, quindi un’estorsione, ma anche a un’operazione intrapresa per influenzare, convincere, portare la persona a compiere un passo che altrimenti non farebbe tanto nello sposarsi quanto nel rimanere celibe. Ecco perché nella Chiesa, indipendentemente dalla denominazione, devono essere presenti persone in grado di vigilare e vagliare attentamente le circostanze che portano al matrimonio di due giovani, dei pastori veri che amino il gregge e non individui che si crogiolano in un incarico che loro e non il Signore ha dato. Ricordiamoci dei sette tipi di amore e del fatto che chi è coinvolto sentimentalmente spesso non è in grado di distinguere perché non obiettivamente partecipe con la mente, spesso proiettando sulla persona progetti e ideali non a lei confacenti. Urgono persone, pastori, che servano il Signore davvero e che amino il loro prossimo veramente come loro stessi.

Nel passo di Matteo in cui Gesù tratta il divorzio nel suo sermone sul monte, “eccetto il caso di unione illegittima”, abbiamo così l’anticipazione dell’importante tema che poi sarà l’apostolo Paolo a sviluppare: l’unione illegittima, quindi l’adulterio, interrompe il matrimonio davanti a Dio, con un colpevole e un innocente e spetta al secondo scegliere se perdonare il primo cercando di ricomporre l’unione per quanto possibile, o “mandarlo via” legittimamente e risposarsi perché non responsabile di un matrimonio infranto.

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5.20 – SETTIMO, NON COMMETTERE ADULTERIO VI (Matteo 5.27-32)

5.21 – Settimo, non commettere adulterio VI (Matteo 5.27-32)

27Avete inteso che fu detto: Non commetterai adulterio.28Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore. 29Se il tuo occhio destro ti è motivo di scandalo, cavalo e gettalo via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geènna. 30E se la tua mano destra ti è motivo di scandalo, tagliala e gettala via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo vada a finire nella Geènna. 31Fu pure detto: «Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto del ripudio». 32Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, eccetto il caso di unione illegittima, la espone all’adulterio, e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio”.

Avevo pensato di finire questi interventi su divorzio e matrimonio con il quinto studio, ma avrei compiuto delle omissioni. Tutto ciò che Gesù dice nel nostro passo di Matteo è rivolto in primis ai giudei e quindi ai cristiani, per quanto sarà l’apostolo Paolo a sviluppare il tema soprattutto ai credenti della Chiesa di Corinto che, composta in maggioranza da greci convertiti, era soggetta alle influenze del pensiero non solo filosofico di allora; i costumi sessuali dell’epoca, inoltre, influivano sulla condotta di molti componenti della Comunità corinziana perché nel mondo greco la pederastia e l’amare indifferentemente uomini o donne rientravano nel concetto della ricerca del bello. Ricordiamo poi che in quei credenti si era fatta strada la convinzione secondo cui, se col sacrificio di Cristo erano stati liberati dal peccato, l’impegno a non commetterne altri non aveva senso.

È per questo motivo che Paolo, al fine di mettere ordine nei costumi e nelle idee di molti componenti di quella Chiesa, affronta il tema del matrimonio sotto due aspetti, quello della “sola carne”, quindi del corpo del singolo, e quello spirituale.

 

LA CARNE E IL CORPO

Voi dite spesso: «Tutto è lecito!”. D’accordo, ma tutto è utile? Certamente tutto è lecito, ma non mi lascerò mai dominare da qualsiasi desiderio. Voi dite anche: «Il cibo è fatto per lo stomaco e lo stomaco è fatto per il cibo». È vero, ma Dio distruggerà l’uno e l’altro. Il vostro corpo, però, non è  fatto per l’immoralità, perché appartenete al Signore, e il Signore è anche il Signore del vostro corpo. Ebbene, Dio che ha fatto risorgere il Signore, risusciterà anche noi con la sua potenza. Voi dovete sapere che appartenete a Cristo. E chi prenderebbe ciò che appartiene a Cristo per unirlo a una prostituta? Sapete benissimo che chi si unisce a una prostituta diventa un tutt’uno con lei. Infatti la Bibbia dice «I due saranno una sola carne». Ma chi si unisce al Signore diventa spiritualmente un solo essere con lui. Fuggite l’immoralità! Qualsiasi altro peccato che l’uomo commette resta esterno al suo corpo, ma chi si dà all’immoralità pecca contro se stesso. O avete dimenticato che voi stessi siete il tempio dello Spirito Santo? Dio ve lo ha dato ed Egli è in voi. Voi quindi non appartenete più a voi stessi, perché Dio vi ha fatti suoi, riscattandovi a caro prezzo. Rendete quindi gloria a Dio col vostro corpo” (1 Corinti 6.12-20).

Molto spesso pensiamo di appartenere a Dio ma dimentichiamo un’importante verità: in quanto salvati, redenti, eredi della promessa di eternità, siamo stati acquistati col prezzo del sangue di Gesù interamente, corpo compreso perché, quando si parla della nostra futura risurrezione, anch’esso verrà coinvolto. Ecco allora che, per un credente, l’unione con una prostituta causa un violento turbamento dell’equilibrio del corpo perché chi si unisce a lei “diventa un tutt’uno con lei” anziché un tutt’uno con Dio, compromettendo gravemente il suo rapporto col suo Signore. “Immoralità” è anche tradotto con “impurità”, ma andrebbe utilizzato più correttamente il termine “fornicazione” che deriva dal latino “fornix” cioè “sotterraneo a volta, sede di prostitute, postribolo”. La fornicazione è quindi un utilizzo improprio del nostro corpo, peccato che viene rimesso una volta abbandonato.

Ho scelto di partire dal corpo perché, iniziando un percorso dal basso, è più facile arrivare al concetto più alto, quello spirituale dell’essere “sola carne”. A questo punto è curioso osservare che uno degli aspetti del matrimonio è proprio porre le premesse perché la fornicazione non abbia luogo, e qui bisogna riflettere molto: “Rispondendo a quanto mi avete scritto, è cosa buona per l’uomo non toccar donna, ma, per evitare la fornicazione, ciascuno abbia la propria moglie e ogni donna il proprio marito. Il marito dia alla moglie ciò che le è dovuto e ugualmente anche la moglie al marito. La moglie non è padrona del proprio corpo, ma lo è il marito; allo stesso modo anche il marito non è padrone del proprio corpo, ma la moglie. Non rifiutatevi l’un l’altro, se non di comune accordo e temporaneamente, per dedicarvi alla preghiera. Poi tornate a stare insieme, perché satana non vi tenti mediante la vostra incontinenza” (1 Corinti 7.1-5).

Uno degli aspetti dell’unione tra uomo e donna, dell’essere “una sola carne” è quindi il prevenire una gestione disordinata della sessualità di entrambi, che porterebbe inevitabilmente alla fornicazione a tal punto che Paolo, al verso 8 scrive “Ai non sposati e alle vedove dico che è buona cosa per loro rimanere come sono io, ma se non sanno contenersi, si sposino, perché è meglio sposarsi che bruciare” non certo all’inferno, ma dentro di sé, espressione che non si riferisce solo alla sofferenza di chi non può avere una via di sfogo sessuale, ma soprattutto alle conseguenze alle quali essa può portare: la frustrazione che, se repressa per molto tempo, può condurre a manifestazioni che vanno oltre il “semplice” frequentare una prostituta. I casi in cui un uomo o una donna possono restare senza un compagno/a sono molto rari: Paolo ad esempio era uno di quelli e il suo stato non gli pesava; quando scrive “vorrei che tutti fossero come me” allude proprio alla sua condizione di uomo libero che non sentiva la necessità di un legame né affettivo né fisico, ma parla comunque della necessità di avere una donna come un diritto: “Non abbiamo noi il diritto di mangiare e di bere? Non abbiamo anche noi il diritto di portare con coi una moglie credente come l’hanno gli altri apostoli e i fratelli del Signore, o Cefa?” (1 Corinti 9.4,5).

Coi versi sull’appartenenza dei corpi al rispettivo coniuge, poi, viene posto l’accento sull’importanza dei rapporti sessuali fra entrambi, elemento che negli studi biblici viene messo in risalto raramente, per quanto intuibile, negli scritti delle precedenti dispensazioni in cui, a parte l’istinto naturale dell’uomo verso la donna e viceversa, la procreazione era il primo fine stante il fatto che in terra c’era posto per tutti: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela” (Genesi 1.28).

Anche qui però bisogna distinguere e riflettere sulla compatibilità fra gli individui, poiché se il legame non si basa su questa, è destinato a fallire anche sotto l’aspetto della sessualità che non può essere certo subita o lasciare insoddisfatte le parti perché, altrimenti, sarebbe come se l’unione non ci fosse. Il matrimonio è e deve essere un universo, un “hortus conclusus” cioè un giardino recintato sostenuto dall’amore reciproco che si manifesta nelle sue forme più disparate e trova nella comunione e nel sostegno dei coniugi l’uno verso l’altro il suo fondamento; viceversa, se visto a senso unico sotto l’aspetto dei rapporti fisici come purtroppo spesso capita, diventerebbe “una forma legale di prostituzione”, come Marx ebbe a scrivere un giorno.

 

LA RELAZIONE SPIRITUALE

Alla realtà terrena e fisica del matrimonio si accompagna inevitabilmente il suo aspetto spirituale di cui si occupa ancora una volta l’apostolo Paolo che spiega l’universo nuovo dei rapporti che si vengono a creare tra l’uomo e la donna: “E voi, mariti, amate le vostre mogli, come anche Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola con il lavacro dell’acqua mediante la parola, e per presentare a se stesso la Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata. Così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo: chi ama la propria moglie, ama se stesso. Nessuno infatti ha mai odiato la propria carne, anzi la nutre e la cura, come anche Cristo fa con la Chiesa, poiché siamo membra del suo corpo. Per questo l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne.Questo mistero è grande: io lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa! Così anche voi: ciascuno da parte sua ami la propria moglie come se stesso, e la moglie sia rispettosa verso il marito” (Efesi 5.25-33).

Si tratta di rapporti equilibrati di dare e ricevere, che impegnano vicendevolmente come conseguenza del progetto originario: Cristo ha amato la Chiesa, l’ha scelta e ha dimostrato il suo amore dando sé stesso, non ha tralasciato e non tralascia nulla perché questo possa verificarsi. Nella visione ideale e al tempo stesso molto concreta di Paolo si verifica che “Nel timore di Cristo, siate sottomessi gli uni agli altri: le mogli lo siano ai loro mariti, come al Signore. Il marito infatti è il capo della moglie, così come Cristo è capo della Chiesa, lui che è salvatore del corpo. E come la Chiesa è sottomessa a Cristo, così anche le moglie lo siano ai loro mariti in tutto” (21-24): questa visione non allude al fatto che l’uomo sia un capo indiscusso come si potrebbe apparire, ma abbia una posizione di responsabilità spirituale vista nel cammino quotidiano verso la realizzazione piena del Regno di Dio o, per essere in tema, di quelle “nozze dell’Agnello” imminenti. Nessuno è autorizzato a prevalere sull’altro. La Chiesa è sottomessa a Cristo perché, se non lo fosse, se non avesse questo atteggiamento, tutto l’equilibrio d’amore salvifico, il rapporto con Lui e la Sua assistenza cesserebbero esattamente come avvenne con Israele quando, abbandonato YHWH, peccava di idolatria e serviva altri dèi. Se così fosse, se la Chiesa agisse in autonomia dimenticando il sacrificio di Cristo, non sarebbe una comunità di salvati dai Suo Amore, ma un gruppo di religiosi con manifestazioni che non portano ad alcun risultato salvo l’appagamento carnale scambiato per spirituale.

Nel rapporto marito – moglie c’è una gerarchia tutta particolare, che non implica ordini dittatoriali, ma è fatta di relazioni ideali che si concretano naturalmente: “Voglio però che sappiate che il capo di ogni uomo è Cristo, e il capo della donna è l’uomo, e il capo di Cristo è Dio” (1 Corinti 11.3) perché “Egli(l’uomo) è immagine e gloria di Dio, ma la donna è gloria dell’uomo. Non è l’uomo che deriva dalla donna, ma la donna dall’uomo; né l’uomo fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo. (…) Tuttavia, nel Signore, né la donna è senza l’uomo, né l’uomo è senza la donna. Come infatti la donna deriva dall’uomo, così l’uomo ha vita dalla donna; tutto poi proviene da Dio” (vv. 7-12).

Il rapporto tra marito e moglie, in pratica, è sotto l’aspetto dell’amore identico a quello tra padre e figlio in cui troviamo, accanto alla correzione che si può rendere necessaria, il principio generale di non porlo nella condizione di soffrire per azioni ingiuste, dettate dal puro desiderio di dominare su di lui piegandolo all’esclusiva volontà del padre. È ancora Paolo ai Colossesi che spiega in cosa consista la vera sottomissione: “Voi, mogli, siate sottomesse ai mariti, come conviene nel Signore. Voi, mariti, amate le vostre mogli e non trattatele con durezza. Voi, figli, obbedite ai genitori in tutto, ciò è gradito al Signore. Voi, padri, non esasperate i vostri figli, perché non si scoraggino. Voi, schiavi, siate docili in tutto con i vostri padroni terreni: non servite solo quando vi vedono, come si fa per piacere agli uomini, ma con cuore semplice e nel timore del Signore. (…) Servite il Signore, che è Cristo!” (Colossesi 3.18-24). Il modo con cui si concludono i versi che trattano dei rapporti nella famiglia (e nella società), “Servite il Signore, che è Cristo”, ci fanno capire che la vita stessa è servizio in relazione al ruolo o ai ruoli che una persona occupa nella famiglia e nel mondo: siamo organi, membra del corpo di Cristo anche all’interno di questi contesti ed ecco perché ho definito il matrimonio un “hortus conclusus”, un universo che contempla un’infinità di sentimenti, diritti e doveri perché “Chi commette ingiustizia subirà le conseguenze del torto commesso” (v.25).

Concludendo questa sesta parte, come ricordato in altre riflessioni, le parole che leggiamo nella Bibbia non solo riguardo al matrimonio, non vogliono mai essere un vademecum del credente perfetto: Dio non ha bisogno di automi, ma di persone che lo amino e lo vogliano seguire. Prendere una concordanza biblica, cercare un argomento e quindi di adeguarsi a quanto troviamo scritto in essa, se può essere un’azione lodevole, a nulla serve se a monte non esiste la comprensione di quanto sia necessario conoscere per capire ed adeguarsi di conseguenza. Non è un esercizio ascetico, non ci sono comandamenti da osservare con la rigidità egoistica degli scribi o dei farisei che portano inevitabilmente distorsione, presunzione, rigidità e giudizio, ma una pratica di vita: mi comporto così perché amo. E se amo, è perché sono stato amato per primo e questo amore l’ho compreso, l’ho assimilato e lo voglio vivere. Così come l’amore che ho per Cristo è tale perché si rinnova ogni giorno, allo stesso modo così è per quello coniugale: non c’è un giorno uguale all’altro, non ci sono rivendicazioni, ma solo un donarsi. Amen.

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5.19: SETTIMO, NON COMMETTERE ADULTERIO V (Matteo 5.27-32)

5.19 – Settimo, non commettere adulterio V (Matteo 5.27-32)

27Avete inteso che fu detto: Non commetterai adulterio.28Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore. 29Se il tuo occhio destro ti è motivo di scandalo, cavalo e gettalo via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geènna. 30E se la tua mano destra ti è motivo di scandalo, tagliala e gettala via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo vada a finire nella Geènna. 31Fu pure detto: «Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto del ripudio». 32Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, eccetto il caso di unione illegittima, la espone all’adulterio, e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio”.

Abbiamo concluso la quarta riflessione citando la necessità di un progetto, termine che per la serietà che implica richiama il piano di costruzione di una casa, di un ponte o di qualsiasi altra struttura atta a servire a uno scopo. Allo stadio progettuale non si può lasciare nulla all’improvvisazione, ma bisogna tenere presente il tipo di terreno su cui si costruisce e tutti i materiali che comporranno l’opera da terminare. Progettare, a parte la creatività utilizzata per rendere gradevole la struttura e il suo interno, richiede calcoli continui che non possono essere errati, pena il fallimento.  L’accostamento alla parabola della casa costruita sulla sabbia o sulla roccia, nonostante abbia un significato primario diverso, può comunque aiutarci: un uomo costruisce sulla roccia e leggiamo “Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ma essa non cadde, perché era fondata sulla roccia”; un altro invece costruì sulla sabbia: “Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa cadde e la sua rovina fu grande” (Matteo 7.24-29).

La parabola si riferisce a chi ascolta e mette in pratica le parole di Gesù, ma se prendiamo l’importanza del costruire, la roccia è il simbolo di una scelta accurata e la sabbia a ciò che non è, né può essere, stabile. E la roccia, nel caso del matrimonio, è sinonimo di compatibilità, di affinità e comunione di intenti. Costruire un matrimonio “su Cristo” è un ragionare troppo generico ed equivale a sostenere che le affinità tra le parti non siano importanti perché “tanto c’è Lui”. Chi ha costruito la prima casa della parabola, ha vagliato prima di tutto il tipo di roccia e la sua consistenza, chi ha edificato la seconda ha pensato solo a una base generica, la più facile e immediata, sottovalutando evidentemente il problema. In tre parole, non ha ragionato come avrebbe dovuto, secondo razionalità.

Questo esempio dovrebbe dire molto a quei cristiani che pensano, con un pensiero molto primitivo che ho sentito più volte, che se due persone sono credenti, è impossibile che abbiano dei problemi nella vita e quindi nel matrimonio. Al contrario, per costruire una casa, dal progetto al prodotto finito, ci vogliono persone specializzate. Anche prima del matrimonio gli eventuali, futuri coniugi, sono chiamati a vagliarsi, possibilmente affrontando anche degli esami specifici sulla compatibilità matrimoniale anziché far leva sul semplice innamoramento, causa spesso di rovina e non di costruzione. Possiamo citare l’episodio di Amnon e Tamar che troviamo in 2 Samuele 13: “Amnon si appassionò a tal punto di Tamar, sua sorella, da diventarne malato”(v.2), ma dopo alcune vicissitudini e la sua strategia per unirsi a lei, leggiamo “Ma egli non volle darle ascolto e, essendo più forte di lei, la violentò e si unì a lei. Poi Amnon ebbe verso di lei un odio fortissimo, a tal punto che l’odio per lei fu maggiore dell’amore di cui l’aveva amata prima”(vv.14,15).

Tralasciamo il fatto che l’unione partiva in modo clamorosamente errato perché si basava sull’incesto e guardiamo le dinamiche: si passa da una passione incontenibile – per quanto a senso unico – al punto da provocare una malattia nell’interessato e poi, una volta raggiunto lo scopo, all’odio. Così può accadere quando la passione, o l’innamoramento, trova le sue origini nell’aspetto esteriore o comunque in ciò che appare della persona oggetto di attenzioni: questa piace e non si sa perché, anche se in realtà si vogliono vedere solo i suoi lati gradevoli, non c’è nulla di ragionato o responsabile in questo. È istinto. È innamoramento. È vedere la persona per quello che vorremmo sia, non per quello che è. Passa.

Studi sull’amore di coppia furono sviluppati da Robert Steinberg che lo suddivise in sette tipologie, e cioè:

 

Simpatia(solo intimità): connotata da confidenza, calore, tipica dei rapporti di amicizia;

Infatuazione(solo passione): caratteristica dell’amorea prima vista, con l’idealizzazione dell’altro;
Amore vuoto(solo decisione-impegno): amore stagnante, routinario, senza dialogo. Può essere l’evoluzione di matrimoni che durano da molto tempo dove si resta insieme solo per il vincolo coniugale;
Amore romantico(intimità + passione): rimanda alle grandi storie d’amoreletterarie o alle avventure estive, con la presenza di vicinanza e attrazione, ma senza progettualità;
Amore fatuo(passione + impegno): si è travolti dalla passione ma alla base non c’è la conoscenza emotiva profonda. È proprio delle relazioni in cui ci si sposa poco dopo essersi conosciuti, sull’onda della sola attrazione;

Amore amicizia(intimità + decisione-impegno): si ritrova nei rapporti di lunga durata, dove la passione si è spenta ma resta la condivisione;

Amore vissuto(intimità + passione + decisione-impegno): è l’amorecompleto, è difficile farne esperienza e, soprattutto, mantenerlo.

 

Credo che sia importante che le persone conoscano questi aspetti e siano chiamate a interrogarsi dai pastori, anziani o sacerdoti impegnati soprattutto sui giovani.

Tornando ai testi della Scrittura, possiamo citare due massime tratte dal libro dei Proverbi che, se possono far sorridere, nascondono verità molto amare: la prima è “Meglio abitare nell’angolo di un tetto, che in comoda casa con moglie rissosa” (21.9), la seconda “Una donna bella, ma senza giudizio, è un anello d’oro nel grugno di un porco” (11.22). Qui abbiamo due esempi drammatici: la “moglie rissosa”, cioè persona dal temperamento litigioso, naturalmente attaccabrighe, è una persona che non dà tregua perché trae soddisfazione nella lite e non nella pace che raggiunge unicamente quanto tutto quanto si aspetta egoisticamente procede secondo le proprie aspettative. In genere le persone di questo tipo, in cui chiaramente rientrano anche gli uomini, sono sempre rozze nelle loro manifestazioni tanto nel dolore quanto nella gioia, si entusiasmano o si disperano solo di fronte ad eventi “forti”. Il “rissoso” non ha alcun rispetto per gli altri e a motivo del suo carattere imprevedibile e disturbante, difficilmente riesce ad avere legami duraturi di qualunque tipo. La “donna bella, ma senza giudizio” è l’opposto della categoria precedente. Qui per “giudizio” non si fa riferimento all’intelligenza, ma al discernimento, alla capacità di distinguere: il bene dal male, la dignità dalla vergogna, il decente dall’indecente, il bello dal brutto, l’utile dall’inutile, il morale dall’immorale. La bellezza fa da opposto a ciò che nasconde, cioè il nulla. La persona di questo tipo fonda tutta la sua vita sull’apparenza e ogni sua azione si basa sull’esteriorità. È incapace di qualsiasi sentimento profondo e la sua capacità di inserimento in un ambiente dipende dal grado con cui è accettata e soprattutto ammirata dal suo prossimo che, comunque, tratta con sufficienza vedendolo come strumento per le proprie realizzazioni.

Al contrario vediamo raffigurata un’unione importante in Proverbi 31.10-27 in cui è descritta la donna “operosa” secondo il concetto – si badi bene – di allora: “Una donna forte, chi potrà trovarla? Ben superiore alle perle è il suo valore. In lei confida il cuore del marito e non verrà a mancargli il profitto. Gli dà felicità e non dispiacere tutti i giorni della sua vita. Si procura lana e lino e li lavora volentieri con le mani. È simile alle navi di un mercante, fa venire da lontano le provviste. Si alza quando ancora è notte, distribuisce il cibo alla sua famiglia e dà ordini alle sue domestiche. Pensa a un campo e lo acquista e con il frutto delle sue mani pianta una vigna. Si cinge forte i fianchi e rafforza le sue braccia. È soddisfatta perché i suoi affari vanno bene; neppure di notte si spegne la sua lampada. Stende la mano alla conocchia e le sue dita tengono il fuso. Apre le sue palme al misero, stende la mano al povero. Non teme la neve per la sua famiglia, perché tutti i suoi famigliari hanno doppio vestito. Si è procurata delle coperte, di lino e di porpora sono le sue vesti. Suo marito è stimato alle porte della città, quando siede in giudizio con gli anziani del luogo. (…) Apre la bocca con saggezza e la sua lingua ha solo insegnamenti di bontà. Sorveglia l’andamento della sua casa e non mangia il pane della pigrizia”.

Ecco, nonostante il testo proponga una visione della donna possibile solo nella società di un tempo antico, sono il carattere della persona desumibile dai termini utilizzati a venire posti in risalto: si parla di una donna di cui il marito si fida (e viceversa), che possiede un modo di essere fondato sulla continuità che gli garantisce la possibilità di gioire in lei. È una donna non spaventata dalla fatica, che quando non è impegnata nelle sue faccende pensa a soluzioni per migliorare la propria vita e di quanti le stanno intorno. È previdente a tal punto da aver preso in considerazione che un giorno possa nevicare, evento raro ma possibile per i territori in cui è collocato questo scritto. I risultati positivi che ottiene col suo lavoro la spronano a migliorarsi anziché pensare di aver fatto abbastanza. All’occorrenza, rinuncia al sonno pur di risolvere eventuali problemi e rifiuta tutto ciò che non è essenziale, come intrattenersi a spettegolare con altri. È un tipo generoso e compassionevole e il fatto che troviamo menzionato il marito “stimato alle porte della città” ci autorizza a pensare che si tratti di un matrimonio fra due persone fra loro compatibili per carattere.

Tutto questo rafforza ulteriormente l’idea del progetto cui accennavamo prima: l’uomo e la donna sono tenuti a considerare le caratteristiche caratteriali compatibili e a trovare una ragione precisa al loro stare insieme. Nell’idea della loro unione, è contemplata la possibilità di avere figli? Tanto l’uno quanto l’altra, hanno l’istinto genitoriale? C’è piena fiducia reciproca, o ci sono delle riserve? Come risponde l’uno rispetto all’altro di fronte a uno stress prolungato? C’è maturità affettiva, o esistono problemi irrisolti? Queste sono solo un esempio delle domande che ci si deve necessariamente porre; non dimentichiamoci che per ogni casa o costruzione esiste sempre il collaudo che viene effettuato verificando le conformità tra progetto teorico e opere realmente eseguite; controllando i metodi di calcolo strutturale e i risultati vengono riesaminate le prove sui campioni dei materiali ed infine si arriva alle prove di carico sui solai misurando eventuali deformazioni e pressioni. La stessa cosa, figurativamente parlando, la devono fare i due che desiderano coinvolgersi nel progetto matrimoniale, pena una fine indecorosa che vediamo nella frase “Se un regno è diviso in parti contrarie, non può sorreggersi” (Marco 3.24).

Appare chiaro che un’unione non può basarsi unicamente su un generico sentimento d’amore, ma deve avere delle solide fondamenta nelle persone stesse e nella volontà di costruire assieme un futuro che non contemplerà solo dei “bei momenti”, ma anche delle conflittualità da risolvere.

E torniamo ora all’inizio del nostro discorso, cioè l’informazione che la Chiesa deve dare ai suoi membri, in particolare ai giovani che arriveranno a un matrimonio. I due saranno una sola carne, raggiungeranno un primo traguardo, uno stato importante che non potrà più essere sciolto se vorranno davvero concretare l’ideale di Dio nella loro vita: parlar loro di diritti e doveri come se esistesse un manuale per la vita a due, non ha senso e offende l’intelligenza. Al contrario, metterli in guardia sulla serietà della loro scelta in modo molto più esteso di quanto non abbiamo fatto in questa sessione, può certamente far del bene ed evitare catastrofi anche perché ci possiamo chiedere quale validità possa avere un matrimonio realizzato senza consapevolezza o volontà, una scelta che la Scrittura ci autorizza a paragonare a quella di Cristo per la Chiesa.

Nelle Chiese cristiane, per lo meno in molte, purtroppo tutto ha preso il tono del pressapochismo o del manierismo: si danno consigli su come scegliere l’edificio in cui avrà luogo la cerimonia, su quali tipi di bomboniere concentrarsi, sui vestiti. Nelle Chiese evangeliche molto spesso tutto si risolve invitando un pastore considerato importante che, naturalmente, parlerà di matrimonio con un messaggio scontato cercando – solo allora – di responsabilizzare gli sposi quando hanno già fatto la loro scelta: ma che senso ha?

Se Nostro Signore parla a persone che avevano la possibilità di conoscere il valore del matrimonio e li illumina sull’essenza di questa istituzione, oggi c’è chi si è sposato senza essere consapevole e, nonostante la “sola carne”, non ha colpe perché nessuno, a differenza di ciò che avveniva in Israele, si è mai occupato di lui, di informarlo, di capirlo. Anzi, gli ha posto, anche senza volerlo, in mente delle convinzioni errate. Se la sola lettura o citazione del testo biblico fosse sufficiente a comprendere e discernere, Salomone non avrebbe mai chiesto a Dio un cuore intelligente per poter amministrare la giustizia e discernere il bene dal male: gli sarebbe bastato farsi un prontuario, un vademecum con tutti i casi previsti dalla Legge di Mosè e regolarsi di conseguenza. E guardate la risposta che ebbe: “Poiché tu hai domandato questo, e non hai chiesto per te lunga vita, né ricchezze, né la morte dei tuoi nemici, ma hai chiesto l’intelligenza per poter discernere ciò che è giusto, ecco, io faccio come tu hai detto; e ti do un cuore saggio e intelligente: nessuno è stato simile a te nel passato, e nessuno sarà simile a te in futuro” (1 Re 3.9-12). Ricordiamo suo padre Davide che, come abbiamo ricordato, mangiò i pani di presentazione e non fu ritenuto colpevole.

Forse i concetti esposti possono esser sembrati come ovvi, ma credetemi che non lo sono per tutti, quelli che magari sono cresciuti diversi dai molti. Credo che l’uomo, ogni uomo e donna credente, abbia dovere di chiedersi sempre il perché.

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5.18 – SETTIMO: NON COMMETTERE ADULTERIO IV (Matteo 5.27-32)

5.18 – Settimo, non commettere adulterio IV (Matteo 5.27-32)

27Avete inteso che fu detto: Non commetterai adulterio.28Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore. 29Se il tuo occhio destro ti è motivo di scandalo, cavalo e gettalo via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geènna. 30E se la tua mano destra ti è motivo di scandalo, tagliala e gettala via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo vada a finire nella Geènna. 31Fu pure detto: «Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto del ripudio». 32Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, eccetto il caso di unione illegittima, la espone all’adulterio, e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio”.

Anche se si tratta di passi che verranno meglio sviluppati a suo tempo, è buona cosa esaminare i paralleli alla versione di Matteo. In questa quarta parte prenderemo in esame l’istituzione matrimoniale dal punto di vista tecnico-legale, lasciando alle successive il compito di entrare nella rivelazione cristiana, fermo restando il fatto che a cambiare non sono tanto i contenuti, quanto le premesse e alcuni sviluppi.

Il primo passo da prendere in esame è reperibile in Luca 16.17,18 e conferma quanto esposto sul monte. Gesù stava parlando alla folla e, dopo la parabola del “servitore disonesto”, aveva parlato dell’impossibilità a “servire due padroni, Dio e la ricchezza”. Questo discorso rese i Farisei, che erano “attaccati al denaro”, indisponenti a tal punto da farsi “beffe di lui” davanti a coloro che lo ascoltavano. Dopo aver detto loro “Voi siete quelli che si ritengono giusti davanti agli uomini, ma Dio conosce i vostri cuori: ciò che fra gli uomini viene esaltato, davanti a Dio è cosa abominevole”, ecco che Gesù passa a descrivere ciò che stava avvenendo in quel tempo: “La Legge e i Profeti durarono fino a Giovanni: da allora in poi viene annunciato il regno di Dio e ognuno si sforza di entrarvi. È più facile che passino il cielo e la terra, anziché cada un solo trattino della Legge. Chiunque ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio; chi sposa una donna ripudiata dal marito, commette adulterio”.

Ecco, in questi tre versi, solo in apparenza scollegati, vediamo altrettante verità: la prima riguarda la “Legge” e i “Profeti”, le due grandi branche in cui si dividono gli scritti dell’Antico Patto che “durarono fino a Giovanni” nel senso che fu il Battista l’ultimo grande uomo di Dio di quell’era. Gesù, colui di cui lo stesso Giovanni disse “bisogna che lui cresca, e io diminuisca”, precisa cosa sta accadendo in quei momenti: “viene annunciato il regno di Dio” a quanti hanno “orecchie per sentire” e ciascuno di loro “si sforza di entrarvi”, cioè ubbidisce all’invito “Sforzatevi di entrare per la porta stretta perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno” (Luca 13.24). Entrare per questa porta equivale a lasciare fuori da essa tutto ciò che è inutile, appesantisce e impedisce il passaggio attraverso di lei. E, come dicono i versi successivi, molti cercheranno di entrare quando sarà troppo tardi, senza riuscirvi.

Ebbene, nonostante il messaggio della salvezza, rivoluzionario, abbiamo letto che “è più facile che passino il cielo e la terra, anziché cada un solo trattino della Legge” certo un riferimento non a quella cerimoniale, ma a quella morale perché le esigenze di Dio in proposito non sono cambiate a tal punto che leggiamo, a compendio dei tre versi di Luca che abbiamo riportato, “Non sapete che gli ingiusti non erediteranno il regno di Dio? Non illudetevi: né immorali, né idolatri, né adulteri, né depravati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né calunniatori, né rapinatori erediteranno il regno di Dio” (1 Corinti 6.9,10): sono parole che confermano il senso della Legge talché, per porre rimedio alle infrazioni commesse incidentalmente e non per professione, leggiamo “Chi rubava non rubi più, anzi lavori operando il bene con le proprie mani, per poter condividere con chi si trova nel bisogno” (Efesi 4.28).

Qui vediamo chiaramente che è la confessione del peccato e il suo abbandono che cancella il peccato specifico e quindi dà il perdono di Dio, a differenza del sacrificio o della condanna richiesta dalla vecchia dispensazione che comunque è la sola ad informarci di cosa sia il peccato: una violazione più o meno cosciente alle esigenze di YHWH. È probabile che, con la citazione della frase sul cielo e la terra contrapposta al trattino, Gesù citi un proverbio in uso al suo tempo, condividendolo. Sappiamo che non era venuto per abolire, ma per adempiere, o “portare a compimento”.

Il secondo passo, più impegnativo, lo troviamo in Marco 10 quando dei farisei, “per metterlo alla prova, gli domandavano se era lecito ad un marito ripudiare la propria moglie”. Dobbiamo tener presente che Matteo, riportando lo stesso episodio, aggiunge “per un motivo qualsiasi”, che riflette più da vicino il dibattito rabbinico contemporaneo sul divorzio. Leggiamo ora Marco: “Ma egli rispose loro «Che cosa vi ha ordinato Mosè?». Dissero «Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di ripudiarla». Gesù disse loro «Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma, ma dall’inizio della creazione li fece maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne. Dunque l’uomo non divida ciò che Dio ha unito». A casa, i discepoli lo interrogavano di nuovo su questo argomento, e disse loro «Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio verso di lei; e se lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio»” (10.2-12).

Da queste parole vediamo che Nostro Signore spinge i Farisei ad andare alle origini della creazione, quando Adamo vedendo la donna disse “Questa veramente è ossa delle mie ossa e carne della mia carne”, ragione che spiega la spinta dell’uomo – e della donna – a formare con la sua controparte un legame più forte di quello che aveva coi propri parenti diretti. “Per la durezza del vostro cuore” è così un invito a riflettere sulla condizione penalizzante del peccato e della mente di quel popolo: Dio che li aveva eletti, ma il dettaglio “essere di dura cervice” equivaleva all’essere ostinati, caparbi, non disposti a piegarsi. Ricordiamo Deuteronomio 31.27 “…perché conosco la tua ribellione e la durezza della tua cervice”, o Nehemia 9.16 “Ma essi, i nostri padri, si sono comportati con superbia, hanno indurito la loro cervice e non hanno obbedito ai miei comandamenti”. Eppure li amò comunque. E soprattutto, li scelse. Gli stessi Farisei, comunque, dovettero ammettere che Mosè aveva “permesso”, cioè concesso in virtù di un’autorità, quando la norma in origine era un’altra.

In altri termini Gesù, citando la regola scritta da Mosè a proposito del divorzio, pone l’accento sulla sacralità dell’unione e non sul fatto che l’uomo potesse interrompere il legame matrimoniale a suo piacimento: “l’uomo non separi ciò che Dio ha unito”. Citando poi la “sola carne” il Maestro ci rimanda a quello che era Adamo all’origine, quando fu creato e la donna ancora non esisteva. Quindi, l’unione tra uomo e donna (compatibili fra loro) è in un certo senso un ritorno alle origini in cui la parte maschile convive con quella femminile. E lo fa per tutta la vita. Qui abbiamo il confine e al tempo stesso ciò che accomuna il matrimonio dei tempi della Legge a quello della Grazia. Ancora una volta, dobbiamo sottolineare che gli ebrei, a differenza di noi pagani “innestati” nel piano di Dio, sapevano queste cose e venivano loro insegnate fin dall’infanzia per cui non giungevano impreparati alla gestione del matrimonio. Per quanto riguarda il cristianesimo, la conoscenza di questi argomenti non può avvenire per sommi capi, ma deve essere profondamente radicata nei giovani che, purtroppo molto spesso, arrivano al matrimonio frettolosamente e soprattutto disinformati sugli innumerevoli significati che la scelta di vita a due comporta, nel bene e nel male e i cui germi, come sempre, si trovano già pronti negli scritti dell’Antico Patto.

Certo, in tutto quello che abbiamo visto finora non c’è nulla che non sia vero e rispondente alle esigenze di Dio perché tutta la Scrittura, se ci pensiamo, in sostanza contiene due cose, quello che Lui ha fatto per l’uomo e ciò che l’uomo può fare per Lui. La Bibbia, per il credente spirituale, è un libro dai contenuti inesauribili sui rapporti fra l’uomo e Dio, fra l’uomo e il suo simile e fra l’uomo e la donna rivolto a tutti a prescindere dal tempo in cui i suoi libri furono scritti. Se da un lato abbiamo il dovere di prendere il testo come riferimento, dall’altro abbiamo la stessa necessità di porci delle serie domande su cosa significhino quelle frasi oggi fermo restando che, se “Gesù Cristo è lo stesso di ieri, di oggi e in eterno”, lo sono anche le sue esigenze. Eppure, queste cambiano nel senso che siamo chiamati ad osservarle alla luce della conoscenza di cui disponiamo e di una lettura attenta, ben diversa da quella della Chiesa di un tempo che, male interpretando le Scritture, riteneva la terra piatta e che il sole ruotasse attorno ad essa, quando nulla di ciò è scritto. E al riguardo si potrebbero dire tante cose.

Ci sono fenomeni che hanno avuto un senso nei primi tempi del cristianesimo e che oggi non si ripetono più: pensiamo alle lingue straniere che parlavano i componenti della Chiesa di Gerusalemme dopo la discesa dello Spirito Santo, primo segno ufficiale della Sua presenza. I membri di quella Chiesa parlavano lingue precise che non avevano mai studiato prima e che i testimoni a quell’evento riconobbero: “Erano stupiti e, fuori di sé per la meraviglia, dicevano «Tutti costoro che parlano non sono forse galilei? E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamiti, abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadocia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, Romani qui residenti, Giudei e proseliti, Cretesi ed Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio». Tutti erano stupefatti e perplessi e si chiedevano l’un l’altro «Che cosa significa questo?». Altri, invece, li deridevano e dicevano «Si sono ubriacati di vino dolce»” (Atti 2.7-13). Dopo quella manifestazione dello Spirito, chiunque avesse voluto imparare l’arabo, avrebbe dovuto studiarlo. Dopo di allora, ogni persona anche spirituale, se vuole parlare una lingua straniera, è costretta a dedicarsi ad essa con impegno e può far leva solo sulla propria attitudine.

Altro caso avvenuto e non più proponibile oggi è l’immunità dal morso dei serpenti velenosi. Leggiamo infatti “Questi sono i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome cacceranno i demoni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano i serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno, imporranno le mani ai malari e questi guariranno” (Marco 16.17,18): sono eventi che si sono verificati; Paolo stesso sulla costa di Malta fu morso da un serpente e, fra lo stupore generale, non gli avvenne nulla di male (Atti 28.1-10). Oggi, se mi morde una vipera, la mia vita corre un serio pericolo se non ho con me l’antidoto o il Padre decide che la mia ora non è ancora giunta. Ma mi faccio male comunque.

Questi due esempi li ho citati per dire che i tempi sono diversi e che oggi i miracoli e l’assistenza di Dio costituiscono eventi molto seri che non possono essere dati per scontati. Certo sostenere che non siamo protetti sarebbe un’assurdità, ma dobbiamo tenere presente sempre che abbiamo il dovere di essere consapevoli e di “non tentare il Signore” attraverso la pretesa che debba per forza intervenire, provvedere, assistere, sopperire alla nostra incoscienza o presunzione. Ecco, questa è una premessa fondamentale per le nostre prossime riflessioni sul matrimonio cristiano: oggi le leggi della fisica, della psicologia accertata, della genetica, insomma di tutto quanto è dimostrato e dimostrabile, non possono essere ignorate come un tempo.

Chiudo citando l’esempio di un componente di una Chiesa cristiana di cui sentii parlare tempo fa: era portatore sano di una malattia genetica remissiva che, quindi, avrebbe potuto essere trasmessa ad eventuali figli. Convinto che Dio avrebbe comunque provveduto in bene, volle un figlio che nacque con problematiche molto serie e, convinto che ciò fosse dovuto a una sua poca fede, ne ebbe ancora un altro che nacque con gli stessi handicap del fratello. Il suo fu un comportamento che potrebbe essere definito criminale, ma che trova le sue radici in un atteggiamento, o interpretazione, superstiziosa: non si possono sfidare impunemente le leggi della scienza quando è palese che riflettono la logica della creazione. Non tentare il Signore Iddio tuo.

Il matrimonio, per noi oggi, alla luce di quello che sappiamo dall’Antico e del Nuovo Testamento, è un avvenimento che spesso trova le origini del suo eventuale fallimento in un difetto di progettazione di uno o entrambi i coniugi che, probabilmente non informati a dovere non tanto sulla sua importanza, ma sulle sue premesse, finiscono per vivere con estrema fatica il loro legame.

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5.17 – SETTIMO, NON COMMETTERE ADULTERIO III (Matteo 5.27-32)

5.17 – Settimo, non commettere adulterio III/VII (Matteo 5.27-32)

27Avete inteso che fu detto: Non commetterai adulterio.28Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore. 29Se il tuo occhio destro ti è motivo di scandalo, cavalo e gettalo via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geènna. 30E se la tua mano destra ti è motivo di scandalo, tagliala e gettala via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo vada a finire nella Geènna. 31Fu pure detto: «Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto del ripudio». 32Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, eccetto il caso di unione illegittima, la espone all’adulterio, e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio”.

Facendo il punto su quanto scritto finora possiamo dire di aver affrontato il matrimonio, condizione per la quale si possa parlare di adulterio, nelle varie dispensazioni eccetto quella della grazia, non ancora aperta quando Nostro Signore parlò alla folla sul monte. Lo abbiamo fatto in modo molto essenziale, tralasciando di approfondire quei punti che ci avrebbero spostato su un trattato dedicato al tema anziché sulla semplice riflessione su un passo evangelico; tuttavia dovrebbe essere chiaro il punto fondamentale che vede nell’unione fra uomo e donna un progetto divino destinato a durare tutta la vita. Anche l’istituzione matrimoniale, esattamente come tutte le altre rientranti nella Legge, nel o nei Patti di Dio con l’uomo, aveva un riferimento spirituale proprio come, ad esempio, quell’offerta del profumo officiata dal sacerdote Zaccaria incontrato all’inizio della nostra lettura cronologica: se tutto, a partire da ciascun componente dall’altare fino all’incenso e da lì al fumo che saliva aveva connessione con le realtà a quel tempo nascoste di Dio, il matrimonio raffigurava la connessione del Creatore con l’uomo in previsione del concretarsi del rapporto Cristo – Chiesa, progettato e voluto per essere eterno, di cui troviamo numerose tracce nel Cantico dei Cantici, a torto considerato da una certa critica solo come un’opera dal carattere erotico.

Gesù quindi, affrontando l’infrazione del settimo comandamento, parte dall’enunciato base che tutti conoscevano ma, come aveva già fatto con l’omicidio, lo inquadra come il risultato di una serie di errori commessi già a monte, cioè prima che questo peccato venisse commesso materialmente. E qui si mette l’accento sul risultato finale a cui porta il desiderare illegittimamente persone, animali o cose. Teniamo sempre presente che Nostro Signore sta parlando a persone che capivano, certo a grandi linee, quello che voleva dire; se avesse parlato così ai pagani, lo avrebbero preso inizialmente per pazzo o al per uno strambo filosofo e si sarebbe espresso diversamente. Credo però che in tal caso non avrebbe affrontato il problema perché, prima di farlo, altri sarebbero stati gli elementi da portare all’attenzione di un eventuale uditorio. Se di per sé il desiderio non è una cosa negativa perché costituisce uno stimolo che consente l’identificazione di un obiettivo, di un percorso con uno scopo finale, qui abbiamo un atto che, come l’ira che può condurre all’omicidio, tramite una serie di tappe porta all’infrazione del settimo comandamento.Guardare– stadio di partenza in cui non vi è alcuna colpa – desiderare– secondo passaggio che ne mette in modo altri in modo più o meno dominanti – adulterio nel cuore– atto non materiale, ma riferimento a, possibilità che quello vero possa verificarsi. Ancora una volta è la coltivazione del pensiero impuro che provoca il reato, così come l’ira nelle sue varie forme può condurre all’omicidio. Anche qui, per quanto non sempre.

Possiamo considerare in proposito l’episodio di Dina, figlia di Giacobbe e Lea in Genesi 34, vista, rapita e violentata da Sichem, o lo stesso episodio di Davide e la moglie di Uria che abbiamo già visto: a portare Davide all’adulterio non fu il vedere Betsabea che faceva il bagno nuda, ma il desiderio illegittimo coltivato senza preoccuparsi dell’esistenza di un comandamento e che quella donna appartenesse ad un altro: come con Caino, “Il peccato ti spia alla porta”. Gesù quindi, con le parole “ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore” va qui allo stato, alla radice, alla nascita di una condizione di impurità e infatti usa “nel suo cuore” ad indicare uno stato intermedio tra l’infrazione teorica e quella consumata realmente. Ecco perché, a questo enunciato sintetico, seguono delle istruzioni che alcuni hanno voluto intendere come degli imperativi letterali e non degli esempi figurati ad indicare un modo (differente) di accostarsi al problema. Non a caso Gesù chiama in causa due organi specifici, l’occhio e la mano, che non necessariamente devono essere considerati strumenti per infrangere il settimo comandamento: l’occhio, che “non è mai sazio di guardare”, può essere motivo di scandalo – cioè di inciampo in un cammino – anche per sentimenti di invidia a fronte di una cosa posseduta da altri e spingere al furto, coinvolgendo la mano. E nell’esempio di Gesù i due organi sono destri, cioè i dominanti per la maggioranza delle persone. Attenzione, poi, che occhio e mano sono anche strumenti di comunicazione, per cui il messaggio di Cristo si espande ancora di più. L’occhio indirizza le nostre scelte e la mano lo segue quasi automaticamente per cui è impossibile che “occhio” e “mano” siano solo strumenti che aiutino ad infrangere un solo comandamento o abbiano a che fare unicamente col problema sessuale.

La domanda a questo punto è: se si prendessero alla lettera le affermazioni sul cavare e tagliare, si risolverebbe qualcosa, alla luce di quanto esposto da Gesù finora, cioè che è il pensiero negativo che sta alla base del problema del peccato? Certamente no: cavato l’occhio destro, resterebbe sempre il sinistro e la stessa cosa si può dire per la mano; inoltre, si parla di perdere “una delle tue membra”, e non entrambe, di entrare nel regno orbi o monchi, ma non totalmente invalidi. Bisogna considerare anche la totale inutilità dell’amputazione poiché, anche se – per ipotesi – cieca, una persona potrebbe comunque avvertire il desiderio impuro dentro di sé, rendendo così inutile l’intervento di “cavare” e “tagliare”.

Teniamo presente che gli ebrei, come anche altri popoli, rappresentavano le affezioni dell’anima con le diverse parti del corpo. Così il cuoreera la sede degli affetti e dei sentimenti, le visceredenotavano la compassione, le reniil desiderio e gli scopi segreti mentre l’occhio, in alcuni casi, l’invidia. L’apostolo Pietro, ad esempio, parla di persone che “hanno gli occhi pieni di desideri disonesti e il cuore assuefatto alla cupidigia” (2 Pietro 2.14), gli uni aiutano l’altro in perfetta sinergia. E anche qui, i “desideri disonesti” sono tanti, polivalenti.

Ecco allora che il cavare l’occhio e l’amputare la mano è una similitudine che allude a un’operazione chirurgica virtuale, ma per questo non meno difficile, che l’uomo intenzionato a seguire ciò che Dio si attende da lui è chiamato a fare, cioè una vigilanza sui suoi pensieri.

Siamo quindi a un punto, in questo insegnamento di Gesù, in cui per “adulterio” si collega a qualunque invasione in ciò che è di altri e non a caso il decimo comandamento fa da corona a tutti gli altri, in particolare a quelli dedicati ai rapporti tra esseri umani: “Non desidererai la casa del tuo prossimo. Non desidererai la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo né la sua schiava, né il suo bue né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo” (Esodo 20.17).

A questo punto Gesù entra nell’ambito del divorzio, realtà permessa dalla Legge che consentiva solo all’uomo di interrompere la relazione con la moglie: “Quando un uomo ha preso una donna e ha vissuto con lei da marito– vedi il “non marito” della Samaritana in Giovanni 4 –, se poi avviene che ella non trovi grazia ai suoi occhi perché egli ha trovato in lei qualcosa di vergognoso, scriva per lei un libello di ripudio e glielo consegni in mano e la mandi via dalla casa. Se ella, uscita dalla casa di lui, va e diventa moglie di un altro marito e anche questi la prende in odio, scrive per lei un libello di ripudio, glielo consegna in mano e la manda via dalla casa o se quest’altro marito, che l’aveva presa per moglie, muore, il primo marito, che l’aveva rinviata, non potrà riprenderla per moglie, dopo che lei è stata contaminata, perché sarebbe abominio agli occhi del Signore” (Deuteronomio 24.1 e segg.). È evidente che l’istituzione del divorzio era dato per concessione e non per regola, come rileviamo dal verbo “contaminare” che ci dice come una seconda unione, per quanto regolare, aveva prodotto una condizione di non purezza: la “sola carne” si era verificata col primo matrimonio e il secondo era considerato alternativo, senza possedere forse la stessa valenza del primo. Tornare al matrimonio precedente, poi, era considerato “abominio” perché sarebbe stato considerato, sempre per la regola della “sola carne” peggio dell’adulterio. Ricordiamo che la purità sessuale era un requisito indispensabile per poter entrare e crescere nella terra promessa, poiché le istruzioni che abbiamo letto in Dt 24 si concludono così: “Tu non renderai colpevole di peccato la terra che il Signore, tuo Dio, sta per darti in eredità”. La terra promessa costituiva una rivendicazione di Eden, una regione in cui Israele avrebbe potuto vivere e prosperare gestendola come santa. Dovremmo già conoscere il capitolo 18 del Levitico (lo abbiamo sviluppato la scorsa riflessione), ma non abbiamo posto l’accento si come questo si conclude: “Non rendetevi impuri con nessuna di tali pratiche, poiché con tutte queste cose si sono rese impure le nazioni che io sto per scacciare davanti a voi. La terra ne è stata resa impura; per questo ho punito la sua colpa e la terra ha vomitato i suoi abitanti. Voi dunque osserverete le mie leggi e le mie prescrizioni e non commetterete nessuna di queste pratiche abominevoli: né colui che è nativo della terra, né il forestiero che dimora in mezzo a voi. Poiché tutte queste cose abominevoli le ha commesse la gente che vi era prima di voi e la terra è divenuta impura. Che la terra non vomiti anche voi, per averla resa impura, come ha vomitato chi l’abitava prima di voi, perché chiunque praticherà qualcuna di queste abominazioni, ogni persona che le commetterà, sarà eliminata dal suo popolo. Osserverete dunque i miei ordini e non seguirete alcuno di quei costumi abominevoli che sono stati praticati prima di voi; non vi renderete impuri a causa di essi. Io sono il Signore, vostro Dio»”.

A parte queste considerazioni, va sottolineato che la concessione del divorziare aveva provocato una reazione a catena per cui gli israeliti avevano finito per praticare la monogamia fino a quando non si stancavano della moglie e ne prendevano un’altra, trasformando così la divina istituzione del matrimonio in un sistema legale di prostituzione a danno esclusivo della donna.

Nel verso di Deuteronomio 24 “Qualcosa di vergognoso” è da tradurre più propriamente “Qualcosa di ripugnante” e a cosa questo “ripugnante” si riferisse fu sviluppato a lungo dai rabbini. La tradizione parla di due opinioni predominanti nel periodo neotestamentario: Shammai permetteva il divorzio solo in caso di adulterio, per Hillel invece poteva giustificarsi nel caso in cui il marito si fosse innamorato di un’altra donna o per motivi banali come l’aver bruciato una minestra. Gesù, invece, giustifica il divorzio solo nel caso di “unione illegittima”, anche qui traduzione che accenna solamente e non specifica: il termine usato è “pornèia”, cioè “prostituzione” o “condotta impura”.

In questo modo Nostro Signore chiarisce ai suoi uditori che il sistema del divorzio praticato a quel tempo dagli ebrei esponeva quattro individui al rischio di infrangere il settimo comandamento: 1) Il marito che ripudiava la moglie qualora lui si risposasse; 2) la donna che questi si sposava; 3) la moglie a torto ripudiata qualora si risposasse e infine 4) l’uomo che sposava colei che era mandata via per qualsiasi ragione futile. Con le sue parole, invece, Gesù libera l’innocente, maschio o femmina, da un coniuge infedele che, avendo avuto rapporti con una terza persona, ha di fatto interrotto il vincolo matrimoniale.

L’insegnamento di Nostro Signore sul matrimonio non si limita a questa circostanza: a volte fu richiesto un suo pensiero in merito, altre fu lui stesso a prendere la parola sul tema, ampliandolo. Va anche tenuto presente che, fin’ora, abbiamo considerato questa istituzione solo nella dispensazione della Legge e non della Grazia: le parole di Gesù ai suoi uditori erano per il loro tempo e le conoscenze acquisite in quel periodo, nonostante abbiano in gran parte la loro validità anche oggi. Nelle prossime riflessioni analizzeremo i passi paralleli e, in quella successiva, tratteremo il matrimonio e il divorzio al tempo della Chiesa.

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5.16 – SETTIMO: NON COMMETTERE ADULTERIO II (Matteo 5.27-32)

5.17 – Settimo, non commettere adulterio II (Matteo 5.27-32)

27Avete inteso che fu detto: Non commetterai adulterio.28Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore. 29Se il tuo occhio destro ti è motivo di scandalo, cavalo e gettalo via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geènna. 30E se la tua mano destra ti è motivo di scandalo, tagliala e gettala via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo vada a finire nella Geènna. 31Fu pure detto: «Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto del ripudio». 32Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, eccetto il caso di unione illegittima, la espone all’adulterio, e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio”.

Prima di passare alla seconda parte di questo studio è giusto tornare un attimo alla precedente perché abbiamo citato il caso di violenza – con la forza fisica o con la seduzione – su una giovane non fidanzata. Va ricordato che, nel caso fosse promessa sposa, il fatto non poteva rientrare nella categoria degli “incidenti di percorso” cui andava posto rimedio con matrimonio o una multa, ma in quella dell’adulterio che prevedeva la morte. Va tenuto presente che la Legge, vista nel Decalogo e relativi corollari, non era per il popolo qualcosa di oscuro o sconosciuto, ma veniva insegnata senza trascurare nulla; c’era tutta una pedagogia specifica costituita dalla trasmissione orale, e non solo, che possiamo leggere in Deuteronomio 6.4-8: “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le tue forze. Questi precetti che io ti do, ti stiano fissi nel cuore. Li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando ti troverai in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte”. Esisteva quindi di una vera e propria profilassi spirituale al fine di evitare che i comandamenti contenuti nel Decalogo venissero infranti, cosa che si verifica sempre quando l’uomo si considera il centro, rifiutando la dipendenza da Dio come Caino e i suoi discendenti.

Il matrimonio era un’istituzione concepita per popolare la terra in modo “ordinato”, vale a dire con lo scopo che nessuna linea genealogica si estinguesse e, a differenza di quanto accaduto nella dispensazione della coscienza, Dio istituì delle norme precise tese a preservare la razza che non poteva venire contaminata da unioni tra consanguinei e mutazioni genetiche destinate a produrre malformazioni e/o ritardo mentale nella popolazione. È Levitico 18 ad elencare nei dettagli tutte le relazioni carnali illecite. È un capitolo molto importante che va esaminato, per quanto lo spazio ridotto lo renda possibile solo a grandi linee, dai versi 4 e 5 che fungono da introduzione: “Fate ciò che io vi comando attraverso le mie leggi e osservate i miei statuti, per camminare in essi: io sono il Signore Iddio vostro. Osservate i miei statuti e le mie leggi: chiunque li metterà in pratica, vivrà per essi: io sono il Signore”. Sta all’uomo scegliere se aderire o meno all’esigenza divina riguardo alla gestione del proprio corpo ed è avvertito che, se osserverà gli statuti e le leggi presentate, “vivrà per essi”. Si tratta di scegliere fra bene e male, cioè tra ciò che è approvato da Dio e ciò che non lo è; inutile accusare il testo o il suo Autore di essere reazionario o dileggiarlo perché non viene consentito l’esercizio di una sessualità “libera”: ogni uomo o donna poteva e può scegliere di seguire i comandamenti nel suo interesse, oppure no. Ma non è possibile poi avere la pretesa, in caso di ribellione a ciò che non un uomo ha stabilito, di “vivere per essi”. Chi quindi non si adegua ai precetti che seguono, si colloca quanto meno fuori dall’attenzione e la protezione di Dio: sceglie di anteporre il proprio “ma” subendone le conseguenze.

6Nessuno si accosti ad una sua parente carnale per scoprire la sua nudità. Io sono il Signoreè il verso d’esordio, dove altri hanno tradotto “parente carnale” con “consanguineo” anche se cosa s’intenda per essi viene spiegato versi nei successivi, non potendo la Legge lasciare dei dubbi in quanti intendevano metterla in pratica. “Scoprire la nudità” è uno dei modi per riferirsi al rapporto carnale, come già accennato con altri casi. Per scongiurare fraintendimenti, ecco che il verso parte proprio dall’ovvio, non essendovi parente carnale più stretto del proprio padre o della propria madre. Essendo l’omosessualità non consentita, “padre” o “madre” stanno a indicare che quanto esposto riguarda sia gli uomini, che le donne. 7Non scoprirai la nudità di tuo padre né la nudità di tua madre: è tua madre; non scoprirai la sua nudità.8Non scoprirai la nudità di una moglie di tuo padre; è la nudità di tuo padre”. Immediatamente dopo la madre naturale viene un’altra donna, considerata allo stesso livello della genitrice perché comunque carne del padre. Viene qui in mente l’episodio dell’incestuoso di Corinto, che aveva questo tipo di rapporto (1 Corinti 5.1-5). 9Non scoprirai la nudità di tua sorella, figlia di tuo padre o figlia di tua madre, generata in casa o fuori; non scoprirai la loro nudità”: da qui vediamo che, come nel verso precedente, per essere fratelli o sorelle secondo la carne non è necessario discendere dagli stessi genitori, ma ne basta uno ed è quell’ “o” a negare ci sia differenza tra fratello e fratellastro, sorella o sorellastra. Qui, in particolare, penso che il verso si riferisca a fratelli o sorelle acquisiti, quindi anche figli di un matrimonio precedente interrotto a causa di una vedovanza poiché la dichiarazione ufficiale dei rapporti fraterni a livello famigliare è più definita al verso 11 che recita “Non scoprirai la nudità della figlia di una moglie di tuo padre, generata da tuo padre: è tua sorella, non scoprirai la sua nudità”: cambiano i termini, ma non la sostanza. Al verso 10,  “Non scoprirai la nudità della figlia di tuo figlio o della figlia di tua figlia, perché è la tua propria nudità”vediamo cheil o la nipote sono visti in modo profondamente identificativo giungendo ad essere accomunati agli stessi nonni, parenti carnali come gli zii paterni e materni:12Non scoprirai la nudità della sorella di tuo padre; è parente carnale di tuo padre.13Non scoprirai la nudità della sorella di tua madre, perché è carne di tua madre”. Si arriva poi alla zia acquisita, altra configurazione di incesto:14Non scoprirai la nudità del fratello di tuo padre: non accostarti con sua moglie: è tua zia”. Infine chiudono l’elenco la nuora e la cognata comprendendo implicitamente genero e cognato:15Non scoprirai la nudità di tua nuora: è la moglie di tuo figlio; non scoprirai la sua nudità.16Non scoprirai la nudità di tua cognata: è la nudità di tuo fratello.

Seguono poi alcune indicazioni di etica e igiene che avrebbero dovuto distinguere, come le precedenti, Israele dagli altri popoli: “17Non scoprirai la nudità di una donna e di sua figlia. Non prenderai la figlia di suo figlio né la figlia di suo figlio per scoprirne la nudità: sono parenti carnali. È un’infamia.18Non prenderai in sposa la sorella di tua moglie, per non suscitarne rivalità, mentre tua moglie è in vita.19Non ti accosterai a donna per scoprire la sua nudità durante l’impurità mestruale.20Non darai il tuo giaciglio alla moglie del tuo prossimo, rendendoti impuro con lei.22Non ti coricherai con un uomo come si fa con una donna: è cosa abominevole.23Non darai il tuo giaciglio a una bestia per contaminarti con essa; così nessuna donna si metterà con un animale per accoppiarsi: è una perversione”.

Nessuna di queste unioni proibite, tanto nella prima che nella seconda parte del capitolo, è inconcepibile per il cosiddetto “uomo naturale” tant’è che il paganesimo antico e moderno le ha impiegate quasi come metodo; basta pensare alla Grecia antica prima, durante e dopo i tempi dell’apostolo Paolo (Corinto ed altre) come ai popoli che Israele avrebbe cacciato dalla terra che gli era stata promessa. “24Non rendetevi impuri con nessuna di tali pratiche, poiché con tutte queste cose si sono rese impure le nazioni che io sto per scacciare davanti a voi.25La terra ne è stata resa impura; per questo ho punito la sua colpa e la terra ha vomitato i suoi abitanti.26Voi dunque osserverete le mie leggi e le mie prescrizioni e non commetterete nessuna di queste pratiche abominevoli: né colui che è nativo della terra, né il forestiero che dimora in mezzo a voi.27Poiché tutte queste cose abominevoli le ha commesse la gente che vi era prima di voi e la terra è divenuta impura.28Che la terra non vomiti anche voi, per averla resa impura, come ha vomitato chi l’abitava prima di voi,29perché chiunque praticherà qualcuna di queste abominazioni, ogni persona che le commetterà, sarà eliminata dal suo popolo.30Osserverete dunque i miei ordini e non seguirete alcuno di quei costumi abominevoli che sono stati praticati prima di voi; non vi renderete impuri a causa di essi. Io sono il Signore, vostro Dio”.

Ho ritenuto utile inserire anche quelle che potremmo definire “situazioni estreme” perché si verificano ancora oggi sia come pratica individuale che come spettacolo, così come non ci vuole molto a riconoscere per estensione al verso 21, che prima ho omesso, la produzione degli “snuff movies” ricercati a prezzi inimmaginabili anche nell’ambito cosiddetto “pedofilo”: “Non consegnerai alcuno dei tuoi figli per farlo passare a Moloc e non profanerai il nome del tuo Dio. Io sono il Signore”. E Moloc era il dio cananeo il cui culto veniva celebrato nella Geenna, la Valle di Hinnom, tramite sgozzamento e bruciamento dei bambini, spesso figli primogeniti. È vero, abbiamo letto dei versi che pongono situazioni molto pesanti, ma sono convinto che occorra conoscere il negativo per conoscere ed apprezzare il positivo.

In pratica: l’uomo è stato creato maschio e femmina, quindi la sessualità è da considerarsi un dono da esercitarsi liberamente con la persona che ciascun individuo, maschio e femmina, si è scelto. Qualche millennio dopo una parte della cristianità, con perversione opposta alle categorie che abbiamo trovato in Levitico 18, ma sempre di perversione si tratta, giungerà a considerare il rapporto sessuale un peccato a meno che non fosse giustificato da fine procreativo prescrivendo che, prima dell’atto, si frapponesse un lenzuolo forato tra i corpi sostenendo che lo scopo fosse quello di procreare e non il piacere fine a se stesso. Credo che quando la sessualità, legittima espressione di sé, viene repressa, trovi inevitabilmente sfogo in altre vie che la stessa Bibbia condanna. Leggiamo in Proverbi 5.18,19 “Sia benedetta la tua fonte, e vivi lieto con la sposa della tua gioventù. Cerva d’amore, cavriola di grazia, le sue carezze t’inebrino in ogni tempo, e sii del continuo rapito nell’affetto suo”.

Possiamo concludere queste riflessioni con una semplice presa d’atto: quando Dio creò l’essere umano, lo pose in un territorio circondato da quattro fiumi. Doveva restare lì, protetto, senza conoscere ciò che non gli sarebbe servito o, meglio ancora, gli avrebbe procurato molto danno. Da allora, nonostante il peccato e il suo essere fuori da quel giardino, gli è sempre stato indicato un confine, un territorio, un “recinto” visto sbrigativamente, almeno nella Legge, nei termini “farai” o “non farai”, anche questi posti nel suo interesse. Aggiungere nuove norme o precetti a quelli già dati da Dio, così come eliminarli o torcerli a proprio vantaggio, equivale a infrangere quelli già esistenti e le conseguenze non possono che essere disastrose nel rapporto con Lui. Perché è l’abbattimento dei confini che il Creatore ha stabilito, non perché dispotico, ma in quanto conoscitore perfetto della propria creatura, che rende l’uomo davvero schiavo. Amen.

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5.15 – SETTIMO, NON COMMETTERE ADULTERIO I (Matteo 5.27-32)

5.16 – Settimo, non commettere adulterio I (Matteo 5.27-32)

27Avete inteso che fu detto: Non commetterai adulterio.28Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore. 29Se il tuo occhio destro ti è motivo di scandalo, cavalo e gettalo via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geènna. 30E se la tua mano destra ti è motivo di scandalo, tagliala e gettala via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo vada a finire nella Geènna. 31Fu pure detto: «Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto del ripudio». 32Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, eccetto il caso di unione illegittima, la espone all’adulterio, e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio”.

Dopo aver spiegato cosa si intenda per infrazione al sesto comandamento Gesù passa al successivo implicante la presenza di un vincolo matrimoniale che, nel corso delle dispensazioni, è stato inteso in vari modi. Ciò non è accaduto per altri precetti del decalogo come il non rubare e lo stesso “non uccidere” che abbiamo appena visto. Il passo di Matteo è sicuramente impegnativo e, per affrontarlo, è necessario percorrere nelle sue linee fondamentali come si è sviluppata l’istituzione del matrimonio aggiornandolo poi alla nostra realtà di cristiani alla quale Gesù, commentando la Legge, accenna solamente. “Matrimonio” è parola che deriva da due sostantivi latini, mater al genitivo (“matris-”) e “-monium” cioè “dovere, compito” per cui, letteralmente, il suo significato letterale è “dovere di madre”: l’etimologia stessa fa riferimento alla finalità procreativa dell’unione dei coniugi, fondamentale nei tempi antichi, ma molto meno oggi come avremo modo di vedere.

Andando alle origini, quindi al libro della Genesi, leggiamo che la donna fu creata dopo che Iddio “disse: Non è bene che l’uomo sia solo; voglio fargli un aiuto che gli corrisponda”(2.18) e, poco dopo,  “Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno una sola carne” (2.24). Sappiamo che è anche scritto che “Dio li benedisse e disse loro «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del mate e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra»” (1.28). La donna quindi venne creata perché l’uomo, che a quel tempo aveva evidentemente in sé sia le caratteristiche maschili che femminili, non aveva un simile con cui confrontarsi e, quando Dio gli condusse tutti gli animali perché desse loro un nome, leggiamo “…ma per l’uomo non si trovò un aiuto che gli corrispondesse” (2.20). Si tratta di termine, “aiuto” che non allude alla necessità di avere qualcuno che gli facesse i lavori domestici, ma piuttosto di avere un rapporto con una persona con la quale confrontarsi, avere relazioni. Con gli animali Adamo aveva una dimensione di comunione, visto che interagiva con loro, ma anche di separazione perché nessuno di loro poteva essergli l’aiuto di cui aveva bisogno visto nel completamento di sé.

I maestri ebrei sono concordi nel ritenere l’Adamo prima della donna come una creatura androgina e fanno notare che la parola “costola” (sela’) significa anche “lato”, per cui Eva sarebbe il lato femminile di Adamo tolto da lui e postogli finalmente di fronte; di qui “l’aiuto che gli corrispondesse”. Questo risolverebbe anche un problema non da poco, perché secondo il racconto biblico dovremmo ritrovarci con un numero non proporzionale di costole, essendo che quella utilizzata per formare la donna era una.

Ecco allora che quel “non è bene che l’uomo sia solo” era riferito non a un errore di Dio che creandolo così aveva sbagliato, ma al fatto che creando la donna, separandola da lui e ponendogliela innanzi, l’uomo avrebbe potuto riconoscere se stesso e comprendere fino a che punto arrivasse l’amore del suo Creatore per lui. Infatti Adamo disse “Questa volta è osso dalle mie ossa, carne della mia carne. La si chiamerà donna– isha – perché dall’uomo– ish – è stata tolta” (2.23). Il fatto che però la donna sia stata formata dall’uomo insegna molto, poiché Adamo trovò in Eva un simile costituito per lui e da lui e non un essere complesso e spesso scarsamente decifrabile come oggi. In pratica, Eva, moglie di Adamo, era unica perché lui era unico e quindi mancava di un background culturale che la rendesse diversa, ferma restando una maggiore vulnerabilità e suscettibilità all’adulazione perché, altrimenti, l’Avversario non si sarebbe rivolto a lei. Se a quel tempo Eva era davvero un aiuto che corrispondesse ad Adamo, oggi le possibilità che questo si verifichi sono molto minori e le relazioni uomo – donna, lungi dal somigliare a quelle dei nostri progenitori in Eden, sono molto più simili alla conflittualità che essi conobbero una volta fuori dal Giardino: dal momento in cui trasgredirono l’unico comandamento ricevuto, Adamo non si fidò più di lei e iniziò tutta una serie di reciproci scambi di accuse, fomentate dalle diverse esigenze e dalla necessità di autonomia di ciascuno. Il rapporto che esisteva tra i due in origine, in cui si riconoscevano liberamente nell’altro e all’altro dava naturalmente e senza secondi fini, era finito.

Alla dispensazione dell’innocenza nel Giardino, seguì quella della coscienza che divise gli uomini, Caino e Abele per primi e in cui Lamec, di cui abbiamo già accennato in una precedente riflessione, si mise in opposizione a Dio e all’istituzione matrimoniale prendendosi due mogli, Ada e Silla. Lamec, che una leggenda ebraica afferma essere stato l’omicida di Caino con una freccia, è l’autore di un cantico d’odio – “Ho ucciso un uomo per una scalfittura e un ragazzo per un mio livido. Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech lo sarà settantasette” – in cui riconosciamo sia una consapevole volontà di infrangere il comandamento dell’uomo e donna uniti in un solo essere senza ingerenze esterne, sia la pretesa di volere un Dio a lui sottomesso. E la pretesa di una vendetta smisurata per il suo sangue eventualmente sparso, 70+7. Lo conferma.

Ci si pone però il problema sul perché, a parte l’episodio di Lamec che agì in tal modo solo per odio nei confronti di Dio, sia esistita la poligamia presso i patriarchi e ai tempi dell’Antico Patto, continuando anche sotto la dispensazione della Legge: abbiamo Abramo, Giacobbe ed altri per la Coscienza e Davide, Salomone ed altri per la Legge. C’è chi ha sostenuto, penso non sbagliando, che Dio abbia permesso la poligamia stante la maggioranza della popolazione femminile rispetto a quella maschile già nel mondo di allora e, da calcoli fatti, pare che ci fossero decine di migliaia di donne in più rispetto agli uomini. Era una situazione drammatica per vari motivi perché la società patriarcale del tempo non consentiva l’autosostentamento e l’autoprotezione della donna. L’unico modo era quello di sposarsi e fare figli. L’uomo così si sposava, la donna gli apparteneva e viceversa, tant’è che l’adulterio scattava nel momento in cui un uomo sposato aveva rapporti carnali con una donna sposata e viceversa, oppure era sufficiente che solo uno dei due avesse un vincolo. Non mi sento di dissentire dal concetto in base al quale Dio abbia permesso la poligamia per proteggere e provvedere ai bisogni delle donne che altrimenti non avrebbero trovato marito avendo di fronte un destino di schiavitù o di prostituzione pur di sostentarsi.

Questo uso è circoscritto a un tempo preciso e non sminuisce il progetto ideale per il matrimonio che, nelle intenzioni del Creatore, prevedeva che l’uomo si sarebbe unito “a sua moglie(al singolare) e i due saranno una sola carne(altrettanto al singolare)”. A integrazione del discorso sulla poligamia possiamo vedere il verso di Deuteronomio 17.17 che, parlando del re che Israele si sarebbe costituito, stabilisce tra i suoi requisiti “Non dovrà avere un gran numero di mogli, perché il suo cuore non si smarrisca”. Sappiamo infatti, per averlo già incontrato nelle nostre riflessioni, che il cuore di Salomone “si sviò” dai sentieri di Dio – quindi si smarrì – proprio per la quantità enorme di mogli e concubine che si era procurato. E per “smarrire” intendiamo proprio perdere l’orientamento nel cammino, nel pellegrinaggio verso la meta finale avendo Dio come guida.

Chi si smarrisce prima sbaglia strada e poi non riesce più a trovare quella giusta, perde l’orientamento. Basta poco.

La poligamia, tornando al tema, non era equiparata all’adulterio, ma tollerata a condizione che chi sposava una seconda donna continuasse a mantenerla e a provvedere alle sue esigenze. Avere più di una moglie erano in pochi a poterselo permettere.

Nella Legge l’adulterio era punito con la morte e questa pena, come sappiamo, era ancora in uso ai tempi di Gesù, come possiamo constatare dall’episodio in cui una donna stava per essere lapidata per questo gli Scribi e i Farisei lo interpellarono con queste parole. “Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu, che ne dici?”(Giovanni 8. 4,5). Alle origini del motivo della pena di morte per quel reato stava il fatto che era il rapporto carnale a determinare il matrimonio, tant’è che sono le espressioni come “entrò da lei” o “la conobbe” che lo ufficializzano al di là del contratto che si stipulava tra le famiglie dei futuri sposi purtroppo indipendentemente dai sentimenti che provavano l’uno per l’altro. L’adulterio era così un attentato al principio dell’essere “una sola carne” compiuto deliberatamente all’insaputa del coniuge e, in caso di rapporto carnale avvenuto, l’uomo e la donna si dovevano sposare.

Il matrimonio riparatore però contemplava un’eccezione vista nella violenza carnale e in proposito abbiamo due versi che si integrano: in Deuteronomio 22.28,29 leggiamo “Se un uomo trova una fanciulla vergine che non sia fidanzata, l’afferra e giace con lei e sono colti in flagrante, l’uomo che è giaciuto con lei darà al padre della fanciulla cinquanta sicli d’argento; ella sarà sua moglie per il fatto che egli l’ha disonorata, e non potrà ripudiarla per tutto il tempo della sua vita”. Questo però poteva accadere solo se il padre della giovane accettava, poiché poteva decidere di prendere solo la somma in denaro e risparmiare alla figlia una vita di stenti sicuramente morali: “Quando un uomo seduce una vergine non ancora fidanzata e si corica con lei, ne pagherà il prezzo nuziale e lei diverrà sua moglie. Se il padre di lei si rifiuta di dargliela, egli dovrà versare una somma di denaro pari al prezzo nuziale delle vergini” (Esodo 22.15,16). È interessante notare che qui abbiamo la possibilità di un divorzio nonostante i due fossero diventati “una sola carne” e non leggiamo che alla giovane fosse precluso un secondo matrimonio. Non va trascurata la differenza della terminologia impiegata nei due versi, “l’afferra e giace con lei” indica un rapporto sessuale estorto con la forza, mentre il “seduce” suggerisce consensualità, ma in entrambi i casi esiste sempre una costrizione, con forza espressa o celata. Il sedotto è più debole del seduttore.

In questa prima parte penso di aver fatto una presentazione generale dell’argomento che posso riassumere in questi punti:

  1. L’adulterio è un grave attentato all’istituzione matrimoniale stabilita da Dio sùbito aver posto l’uomo nel Giardino di Eden e questa prevedeva che fossero una sola carne;
  2. Si verifica adulterio nel momento in cui una persona coniugata, uomo o donna, ha rapporti carnali con una terza sì che il vincolo matrimoniale si rompe per colpa;
  3. Era possibile, per ragioni storiche e in un tempo in cui la terra andava popolata, la poligamia a condizione che l’uomo avesse la possibilità di non far mancare nulla alle proprie mogli;
  4. Al di là della distinzione tra fidanzamento e matrimonio, era la congiunzione carnale che sanciva definitivamente che il matrimonio tra le due persone era avvenuto.

Nella prossima serie di riflessioni cercheremo di affrontare la casistica rimanente, prima di analizzare le parole di Nostro Signore su questo importante comandamento.

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5.14 – SESTO: NON UCCIDERE III/IV (Matteo 5.21-26)

5.14– Sesto, non uccidere III/IV(Matteo 5.21-26)

 

21Avete inteso che fu detto agli antichi: Non ucciderai; chi avrà ucciso dovrà essere sottoposto al giudizio. 22Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio. Chi poi dice al fratello: «Stupido», dovrà essere sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: «Pazzo», sarà destinato al fuoco della Geènna.23Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, 24lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono.25Mettiti presto d’accordo con il tuo avversario mentre sei in cammino con lui, perché l’avversario non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia, e tu venga gettato in prigione. 26In verità io ti dico: non uscirai di là finché non avrai pagato fino all’ultimo spicciolo!”.

 

Il “Non uccidere” del titolo è un imperativo che però, nel testo originale, è espresso al futuro proprio a sottolineare che l’omicidio è il risultato di una serie di ragionamenti, del dare seguito a conclusioni, anche se non sempre: può essere volontario (premeditato e non), colposo (cioè non intenzionale, ma accidentale per colpa di chi lo provoca), o preterintenzionale, cioèil risultato di un intenzione diversa, come può essere uno spintone dato a una persona che, in seguito ad esso, cade, batte la testa e muore.

L’omicidio del primo tipo è chiaro: una persona decide in piena coscienza di porre fine alla vita di un suo simile organizzandosi e scegliendo le modalitàmigliori per realizzarlo. Si tratta quindi di precluderealla vittima qualsiasi possibilità di scelte future, di percorso, crescita, sviluppo; è decidere la soppressione di una vita per la quale solo Dio può stabilireun termine.

Sappiamo che la prima volta in cui leggiamo“Non ucciderai” è in Esodo 20, ma stante le varianti che comporta questo peccato troviamo un iniziale sviluppodel precetto e su come trattare la sua infrazione in 21.12-14 in cui è scritto “Chi percuote un uomo che, a motivo di questo, muore, sarà messo a morte. Se però non gli ha teso alcun agguato, ma Dio glielo ha fatto cadere in mano, io ti assegnerò un luogo dove egli possa rifugiarsi. Se uno agisce con premeditazione contro il suo prossimo,per ucciderlo con l’inganno, tu lo strapperai anche dal mio altareper farlo morire”: qui è distinto l’omicidio con premeditazione, lo stesso che fece Caino col fratello, da quello avvenuto perché chi ha uccisoha incontrato il proprio nemico casualmente e, accecato dall’ira, ha approfittatodell’occasione. Erano tempi in cui il “caso”,così come lo intendiamooggi, era un concetto sconosciuto e in essosi intravedeva la volontà di Dio;per questo era praticata l’estrazione a sorte, che oggi non può essere utilizzata come metodoperché dispensazionale della Legge e,nonostante questo,non sempre praticata.Vero è che gli apostoli, quando si trattò di rientrare nel numero 12, scelsero così Mattia anzichéBarsaba (Atti 1.25-36), malo Spirito Santo non era ancora sceso e l’elezione di Mattia fu il risultato di una preghiera fatta con la certezza di un esaudimento: “Tu, Signore, che conosci i cuori di tutti, mostra quale di questi due hai scelto per ricevere la sorte di questo ministero e apostolato dal quale Giuda si è sviato per andare al suo luogo”. Possiamo dire che gli apostoli, che attendevano l’arrivo del Consolatore promesso, avevano nella preghiera e nell’estrazione a sorte l’unico modo per risolvere il problema di chi potesse sostituire Giuda, il traditore.

Anche ai tempi dell’Antico Patto, comunque, questa procedura non era l’unica, come rileviamo dall’episodio in cui Gedeone, dovendo scegliere solo trecento uominiper combattere contro i Madianiti e gli Amalekiti, utilizzò un criterio che Dio stesso gli aveva suggerito.Gedeoneportò infatti una gran quantità di uomini assetati in un luogo dove vi eradell’acqua: “Tutti quelli che lambiranno l’acqua con la lingua come la lambisce il cane, li metterai da parte; così farai con quelli che per bere si metteranno in ginocchio” (Giudici 7.5).

Rientrando in tema, il colpevole di omicidio premeditato doveva essere messo a morte in base al principio che qualunquemale fatto al prossimo doveva ricadere suchi lo aveva commesso: “Quando alcuni uomini litigano e uno colpisce il suo prossimo con una pietra o con il pugno e questi non muore, ma deve mettersi a letto, se poi si alza ed esce con il bastone, chi lo ha colpito sarà ritenuto innocente, ma dovrà pagare il riposo forzato e assicurargli le cure. Quando un uomo colpisce con il bastone il suo schiavo o la sua schiava e gli muore sotto le sue mani, si deve fare vendetta. Ma se sopravvive un giorno o due, non sarà vendicato, perché è suo denaro.Quando alcuni uomini litigano e urtano una donna incinta, così da farla abortire, se non vi è altra disgrazia, si esigerà un’ammenda, secondo quanto imporrà il marito della donna, e il colpevole pagherà attraverso un arbitrato. Ma se segue una disgrazia, allora pagherai vita per vita: occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede, bruciatura per bruciatura, ferita per ferita, livido per livido” (Esodo 21.18-24).

Vigeva così il principio di reciprocità per un popolo che, composto da individui chiamati adessere santidalDio che liaveva eletti, nel caso facesserodel male aipropri simili, dovevanopagare di personaprovando su di sé le conseguenze delle azioni negative che avevano messo in attosuglialtri.Così l’omicidio premeditato o volontario non poteva essere tolleratoperché avrebbe precluso alla vittima un cammino con Dio all’interno di una società originariamente chiamata a realizzare il Suo regno sulla terra. Uccidere una persona equivaleva ad estraniarsi ed estraniarla da quel percorso comunitario e il fatto che l’omicidasopravvivessealla propria vittima era una realtà non aveva alcuna ragionedi essere.

Discutere oggi sull’ammissibilità della pena di morte o della legittimità della cosiddetta “legge del taglione”non ha senso perché nel cristianesimo reale, non nominale, i principi sono altri, non valendo il “non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”, ma il“non giudicate e non sarete giudicati, (…) perché con la misura con cui misurate sarà altresì misurato a voi. (…)fate agli altri quello che vorreste fosse fatto a voi”(Luca 6. 31 e 37).Credo che il verocristianesimo sia diverso da quello apparente e che la società umana sia diversa quella cristiana, ben diversa da quella che dà per scontata l’appartenenza a un sistema religioso solo per un’aspersione praticata ad unsoggetto incapace di intendere e volere.L’appartenenza a Cristo si identifica nell’Ecclésia, alla quale la persona deve aderire responsabilmente e senza alcuna imposizione, nel popolo dei “chiamati fuori” da un mondo e da unconsorzio umanoche non gli appartiene.

Per l’omicidio volontario a seguito di uno scatto di ira incontrollata valeva quanto riportato in Numeri 36.16-19: “Ma se uno colpisce un altro con uno strumento di ferro e quegli muore, quel tale è omicida; l’omicida dovrà essere messo a morte. Se lo colpisce con una pietra che aveva in mano, atta a causare la morte, e il colpito muore, quel tale è un omicida; l’omicida dovrà essere messo a morte. O se lo colpisce con uno strumento di legno che aveva in mano, atto a causare la morte, e il colpito muore, quel tale è un omicida; l’omicida dovrà essere messo a morte. Sarà il vendicatore del sangue quegli che metterà a morte l’omicida; quando lo incontrerà, lo ucciderà”.

Era poi contemplata la possibilità diun altro tipo di omicidio, quello che poteva verificarsiper difendere la propria casa o famiglia, se il fatto avveniva di notte: “Se il ladro, colto nel fare uno scasso, è percosso e muore, il proprietario non è colpevole di omicidio nei suoi confronti. Se il sole si era già alzato quando avvenne il fatto, egli è colpevole di omicidio. Il ladro dovrà risarcire il danno; se non ha di che risarcirlo, sarà venduto per il furto da lui fatto” (Esodo 22.2,3).Per il furto, infatti, se avveniva di giorno e quindi l’autore del crimine poteva essere identificato, vigeva il principio in base al quale chi lo perpetrava era costretto alla restituzione del doppio rispetto al valore del bene asportato.

 

Veniamo ora agli altri tipi di infrazione al sesto comandamento, che possono rientrare, per la Legge data a Mosè, in un’azione preterintenzionale: in questo caso valeva il principio del rifugio, o asilo, in sei città istituite allo scopo peraccoglierequanti provocavano la morte del proprio simile senza averne l’intenzione.“…e questa è la regola per l’omicida che si rifugia là, per aver salva la vita: chiunque ha ucciso il suo prossimo involontariamente, senza averlo odiato prima. Così, quando uno va col suo compagno nel bosco a tagliar legna e, mentre vibra un colpo con la scure per abbattere un albero, il ferro gli sfugge dal manico e colpisce il compagno che poi muore, quel tale si rifugerà in una di queste città e avrà salva la vita; perché il vendicatore del sangue, mentre l’ira gli arde in cuore, non insegua l’omicida e lo raggiunga, quando il cammino è troppo lungo, e non lo uccida anche se meritava la morte, perché nel passato non aveva odiato il compagno” (Deuteronomio 19.4-6).

La giustizia di Dio aveva istituito sei città di rifugio, o di asilo,per chi aveva causato la morte del suo simile senza volerlo, città“che voi designerete affinchévi si rifugi l’omicidache avrà ucciso qualcuno involontariamente; queste serviranno di asilo contro il vendicatore del sangue, perché l’omicida non sia messo a morte prima di comparire in giudizio dinnanzi alla comunità” (Numeri 36.12): il numero 6, che ci parla di imperfezione, fu istituito da YHWH a salvaguardia tanto del responsabile del reato quanto del vendicatore; fu un atto di protezione e non di distruzione al contrario di come agisce Satana, l’Avversario, colui che fu “omicida fin dal principio”che, oltre a tentare, accusa incessantementee suscita una vendetta accecata dall’odio. Tutto questo è simboleggiato nel capitolo citato dal versi 24a 26: “Ecco allora le regole secondo le quali la comunità giudicherà fra colui che ha colpito e il vendicatore del sangue. La comunità libererà l’omicida dalle mani del vendicatore del sangue e lo farà tornare alla città di asilo dove era fuggito. Lì dovrà abitare fino alla morte del Sommo Sacerdote che fu unto con l’olio santo. Ma se l’omicida esce dalle città di asilo dove si era rifugiato e se il vendicatore del sangue trova l’omicida fuori dai confini della sua città di asilo e lo uccide, il vendicatore del sangue non sarà reo del sangue versato. Perché l’omicida deve restare nella sua città fino alla morte del Sommo Sacerdote; dopo la morte di esso, l’omicida potrà ritornare nella sua proprietà”.

È interessante notare che le città di rifugio, sotto la custodia dei levitied istituite da Dio, eranotre ad Est ed altrettante ad Ovest del territorio;viste su una cartina risulta che erano disposte in modo tale da non essere difficili da raggiungereda qualunque luogoe ciascuna di esse era servita da un ottimo sistema viario.L’autore diomicidio-involontario – una volta giunto là, era protetto ma doveva risiedervi, non uscire dalle loro mura, altrimenti avrebbe potuto subire la vendetta del parente dell’ucciso.Sicuramente chi ha definito Nostro Signore la settima città di rifugio, quella perfetta, non ha commesso un errore: in fondo, chi si affida a Lui non lo fa mai perché ha peccato ribellandosi volontariamente, ma per completa ignoranza e, non conoscendo ancora la Sua grazia, non poteva comportarsi diversamente. Mentre eravamo tutti in quella condizione, Dio pensava a noi: “Io conosco i progetti che ho fatto per voi: progetti di pace e non di sventura, per darvi un avvenire e una speranza” (Geremia 29.11).

Il ritratto del cristiano in proposito è descritto dall’apostolo Paolo con queste parole: “Anche voi eravate morti per le vostre colpe e i vostri peccati, nei quali un tempo viveste, alla maniera di questo mondo, seguendo il principe delle Potenze dell’aria, quello spirito che ora opera negli uomini ribelli. Anche tutti noi, come loro, un tempo siamo vissuti nelle nostre passioni carnali seguendo le voglie della carne e dei pensieri cattivi: eravamo per natura meritevoli d’ira, come gli altri. Ma Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo: per grazia siete salvati. Con lui ci ha anche risuscitato e ci ha fatto sedere nei cieli, in Cristo Gesù, 7per mostrare nei secoli futuri la straordinaria ricchezza della sua grazia mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù. Per grazia infatti siete salvati mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene. Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo” (Efesi 2.1-10).

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5.12 – SESTO, NON UCCIDERE I/IV (Matteo 6.21-26)

5.12 – Sesto, non uccidere I/IV: Caino e Abele (Matteo 5.21-26)

 

21Avete inteso che fu detto agli antichi: Non ucciderai; chi avrà ucciso dovrà essere sottoposto al giudizio. 22Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio. Chi poi dice al fratello: «Stupido», dovrà essere sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: «Pazzo», sarà destinato al fuoco della Geènna.23Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, 24lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono. 25Mettiti presto d’accordo con il tuo avversario mentre sei in cammino con lui, perché l’avversario non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia, e tu venga gettato in prigione. 26In verità io ti dico: non uscirai di là finché non avrai pagato fino all’ultimo spicciolo!”.

 

E siamo arrivati agli insegnamenti di Gesù sulla Legge in cui si parte da un comandamento estendendolo fino alle radici della coscienza e dello spirito: “Avete inteso(…) ma io vi dico”. L’osservanza della Legge, fatta per l’uomo che aveva perso la propria innocenza in Eden, a partire dal cammino del popolo nel deserto era il solo modo possibile per ottenere la benedizione e l’assistenza di Dio ma, soprattutto, era stata data nell’attesa di Colui che l’avrebbe adempiuta. È importante tener presente la definizione che dà della Legge l’apostolo Paolo, probabile autore della lettera agli Ebrei, in base alla quale essa è “l’ombra dei futuri beni”, ma non avendo “la forma reale stessa delle cose” (10.1); è da questo principio che bisogna partire per comprendere la forza dell’insegnamento di Gesù tanto su di essa e sui Profeti quando leggeremo che “insegnava come avendo autorità, non come gli scribi o i farisei” generando stupore e ammirazione in quanti lo ascoltavano.

Siamo giunti a un punto del discorso sul monte in cui Nostro Signore inizia ad affrontare alcuni comandamenti a partire dal sesto in base al capitolo 20 del libro dell’Esodo in cui il “Decalogo”, o “Sommario”, viene enunciato e che è giusto riportare:

 

01 –   Io sono il Signore Iddio tuo, che ti ha fatto uscire dal paese di Egitto, dalla casa di schiavitù. Non avrai altre dèi davanti a me;

02 –   Non ti farai scultura alcuna né immagine alcuna delle cose che sono lassù nei cieli e quaggiù sulla terra e nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non le servirai;

03 –   Non userai il Nome del Signore, tuo Dio, invano, poiché il Signore non lascerà impunito che pronuncia invano il suo nome;

04 –   Ricordati del giorno di sabato per santificarlo;

05 –   Onorerai tuo padre e tua madre, affinché i tuoi giorni siano lunghi sulla terra che il Signore Iddio tuo ti dà;

06 –   Non ucciderai;

07 –   Non commetterai adulterio;

08 –   Non ruberai;

09 –   Non farai falsa testimonianza contro il tuo prossimo;

10 –   Non desidererai la casa del tuo prossimo; non desidererai la moglie del tuo prossimo, né il suo servo, né la sua serva, né il suo bue né il suo asino, né cosa alcuna che sia del tuo prossimo.

 

Ho trascritto l’elenco originale, riportato anche in Deuteronomio 5, perché forse non tutti sanno che differisce da quello tradizionalmente insegnato dalla Chiesa di Roma che ne ha purtroppo stravolto l’ordine, eliminando e aggiungendo arbitrariamente degli elementi.

Riguardo ai comandamenti, sesto compreso, vediamo che la proibizione è utilizzata al tempo al futuro a dimostrazione della loro immutabilità nel tempo e che la sua infrazione è il risultato di un lungo processo progettuale che si sviluppa in un’anima che si lascia contaminare dal peccato, permanendo in esso, divenendo così contraria alle esigenze che Dio ha fatto conoscere. Il peccato infatti è prima di tutto una condizione, quella in cui versa la creatura lontana per natura dal proprio creatore. È lo stato in cui si versa ereditariamente dopo la trasgressione dei progenitori in Eden, liberi di accettare la vita nel Giardino, o la morte sulla terra. Se non si pone rimedio a questo stato diventando figli per la fede in Cristo, lo stato di allontanamento da Dio genera tutti gli altri e per questo fu dato il decalogo, o Sommario della Legge.

Per poter affrontare il tema del sesto punto del Sommario, prima di entrare nel merito dell’insegnamento di Gesù, credo occorra esaminare l’omicidio nella storia guardando a due uccisioni emblematiche e relative conseguenze, tenendo presente che per “Legge” gli ebrei consideravano tutti i libri formanti il Pentateuco. Partire con questa base significa inevitabilmente andare all’omicidio perpetrato da Caino su Abele che troviamo al capitolo quarto del libro della Genesi. Si tratta di un episodio che molti conoscono, in cui vi sono particolari sui quali si sorvola se si legge l’episodio come un semplice racconto, ma che descrivono come l’idea dell’omicidio si forma e si sviluppa in una persona.

Caino era il primogenito e il suo nome significa “Acquisto” perché sua madre ritenne di aver avuto un favore da Dio rimanendo incinta di lui e credette di aver pagato, “partorendo con dolore”, il suo debito. Non si può nemmeno escludere che sperava che Caino fosse il destinato a porre rimedio alla situazione in cui lei e suo marito versavano. Adamo ed Eva erano infatti presenti quando venne formulato il giudizio sul serpente con la “progenie della donna” che gli avrebbe schiacciato il capo. A proposito del primogenito di Eva leggiamo che “Adamo conobbe Eva sua moglie, che concepì e partorì Caino e disse: «Ho acquistato un uomo grazie al Signore»” (Genesi 4.1). Quando poi lei constatò che suo figlio era fragile, soggetto ad ammalarsi e a soffrire come tutti, ecco che capì la vita umana sarebbe stata ben diversa da quella conosciuta in Eden e “Partorì ancora Abele, suo fratello” il cui nome significa “soffio” o “vanità”. Il primo figlio di Eva fu agricoltore, il secondo pastore ed entrambi offrirono in sacrificio a Dio secondo i frutti del loro lavoro, ma mentre Abele presentò i primogeniti del suo gregge con il loro grasso, quindi rinunciando ai migliori capi e anticipando i sacrifici della dispensazione della Legge, Caino si limitò ad un’offerta generica in cui era esente il sentimento di adorazione e di amore per il proprio Creatore. Quando infatti Caino “fu molto irritato e il suo volto era abbattuto” (v. 5), perché constatava che il fratello veniva benedetto e la sua offerta veniva ignorata, Dio non lo lasciò solo coi suoi pensieri ad arrovellarsi e intristirsi ulteriormente, ma gli parlò: “Perché sei irritato ed è abbattuto il tuo volto? Se agisci bene, non dovresti forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, e tu lo dominerai” (v.6), che altri traducono “devi dominarlo”.

Da queste parole possiamo trarre alcuni elementi: Dio invita Caino a riflettere rispondendo prima di tutto da sé alla domanda sul perché fosse irritato e abbattuto e questo fu un’esortazione ad un ascolto profondo, ad una analisi, a mettere da parte sia la delusione che porta alla tristezza interiore, sia l’astio che ne avrebbe potuto esserne la conseguenza: calmati, fermati, rifletti perché sei dotato di anima, quindi di intelligenza, ed il tuo problema lo puoi risolvere.  Trovando le ragioni del suo stato psicologico, Caino ne avrebbe trovato anche il rimedio perché la radice del problema non risiedeva nell’offrire frutti della terra anziché pecore, ma in tutto il suo modo di pensare e agire a monte: “Se agisci bene, non dovresti forse tenerlo alto?”. Erano parole che tendevano ad indicare una strada, un percorso che Abele aveva già intrapreso senza che alcuno glielo indicasse, scelto dopo aver riflettuto: impossibile che Adamo ed Eva non avessero spiegato ai loro figli il perché della sofferenza, fisica e morale, del lavoro e come mai dovessero faticare per poter sopravvivere.

Se Caino non avesse “agito bene”, cioè lasciandosi guidare dalla propria coscienza e depurandosi dei pensieri che lo contaminavano, sarebbe stato sempre dominato dal proprio istinto che lo avrebbe portato sempre più lontano dalla presenza e dalle attenzioni di Dio che mostrava di gradire le offerte del fratello con una vita meno travagliata della sua, sostenendolo nelle proprie fatiche e facendolo prosperare. Il peccato, inteso come tutto ciò che è contrario al bene e quindi alla santità, era “accovacciato alla porta” della mente di Caino in attesa di prenderne possesso e solo lui avrebbe potuto tenerlo fuori, dominandolo, vale a dire non dandogli ascolto, non lasciando che pensieri egocentrici e ciechi prendessero il sopravvento su di lui. Con quelle parole Caino fu posto di fronte a un bivio: proseguire nel suo senso di ostilità e delusione, oppure cambiare modo di agire ponendo un freno ai suoi istinti, avrebbe dovuto accompagnare ciò che offriva ad una vita coerente mettendo al primo posto il rapporto con Dio anziché la propria istintività.

Alle parole di verità che gli erano state rivolte, Caino preferì la propria e ritenne di risolvere il problema eliminando fisicamente il proprio fratello, premeditandone l’omicidio: lo portò nei campi, quindi dove nessuno li vedesse – tranne Dio, ma non gli importava perché per Caino veniva prima di tutto la materia – e lo uccise. Quando fu giudicato è scritto che, invece di pentirsi, “Si allontanò dalla presenza dell’Eterno”, cioè decise di vivere autonomamente escludendo il Creatore, dando origine a una stirpe che arrivò al proprio culmine negativo con Lamek che, accecato nell’orgoglio e soffocata definitivamente la propria coscienza, volle sostituirsi a Dio dicendo “Sì, io ho ucciso un uomo perché mi ha ferito e un giovane per avermi procurato un livido. Se Caino sarà vendicato sette volte, Lamek lo sarà settanta volte sette” (v.23,24), cioè all’infinito. Lamek, per questa delirante affermazione, utilizzò le parole che il Signore aveva detto al suo capostipite dopo l’omicidio del fratello, “Chiunque ucciderà Caino, sarà punito sette volte” (v.15).

In entrambi i casi, quello di Caino e di Lamek, abbiamo una progressione interiore negativa che fondamentalmente parte sì dal non aver imposto dei freni al loro agire, ma da una morale sostitutiva che li voleva vedere protagonisti del loro destino, da una volontà costante e assoluta del voler vivere difendendo la propria persona senza curarsi del proprio prossimo e soffocando quella coscienza che, per la dispensazione nella quale esistevano, Dio aveva posto in loro.

Caino e Lamek, che diede origine alla poligamia, sono gli esempi delle persone che, non volendo vigilare su loro stesse, mettono la propria natura corrotta al primo posto e sono disposti a difenderla con qualunque mezzo, sia questo “lecito” o meno. “Il peccato è accovacciato alla tua porta” è tradotto anche “sta spiando alla porta e i suoi desideri sono verso di te”, atteggiamenti che denotano che il peccato è un’idea, un pensiero che attende il momento propizio per agire. “Peccato” è una parola astratta che, pilotata dall’Avversario, dà conseguenze purtroppo concrete anche se nel verso che abbiamo letto viene presentato antropomorficamente. Anche oggi, come testimoniano le cronache che leggiamo quotidianamente, si uccide per questo, in un gesto primitivo per eliminare chi ostacola anche se di poco la sopravvivenza e la riuscita dei progetti dell’omicida, le sue esigenze, di un Ego che cresce smisuratamente. Si uccide per uno scatto d’ira che, per manifestarsi in quel modo, non è mai stata tenuta a freno dallo Spirito o anche solo dalla ragione. L’omicidio, crimine nelle leggi di tutte le nazioni, è sempre il risultato di un mancato dominio sulla carne che vorrebbe sempre e comunque, non conosce freni se abbandonata a se stessa e arriva ad eliminare tutto ciò che la ostacola. Ricordiamo le parole di Agur in Proverbi 30.12-16: “C’è gente che si crede pura, ma non si è lavata dalla sua lordura. C’è gente dagli occhi così alteri e dalle ciglia così altezzose! C’è gente i cui denti sono spade e i cui molari son coltelli per divorare gli umili ed eliminarli dalla terra e i poveri in mezzo agli uomini. La sanguisuga ha due figlie: «Dammi! Dammi!». Tre cose non si saziano mai, anzi quattro non dicono mai «Basta!»: gli inferi, il grembo sterile, la terra mai sazia d’acqua, e il fuoco che mai dice «Basta!»”.

In opposizione, così Agur parla di sé: “Sono stanco, o Dio, sono stanco e vengo meno, perché io sono il più ignorante degli uomini e non ho intelligenza umana; non ho imparato la sapienza e ignoro la scienza del Santo. Chi è salito al cielo e ne è sceso? Chi ha raccolto il vento nel suo pugno? Chi ha racchiuso acque nel suo mantello? Chi ha fissato tutti i confini della terra? Come si chiama? Qual è il nome di suo figlio, se lo sai? Ogni parola di Dio è appurata, egli è uno scudo per chi non ricorre a lui” (vv. 1-5).

È bello notare che, come Giobbe lamentava la mancanza di un simile che lo comprendesse e lo aiutasse nel suo dibattimento con Dio, Agur si chiede il nome del Figlio di Dio, che si rivelerà agli uomini alcune centinaia di anni più avanti. Caino, primo omicida della storia che trattava Dio e il suo rapporto con Lui con estrema sufficienza, è il rappresentante dei tanti che verranno nei secoli e le sue motivazioni, certo viste brevemente, saranno utili riferimenti quando vedremo le parole di Gesù in proposito.

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5.11 – NON PER ABOLIRE, MA PER ADEMPIERE (Matteo 5.17-20)

5.11 – Non per abolire (Matteo 5.17-20)

7Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento. 18In verità io vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto. 19Chi dunque trasgredirà uno solo di questi minimi precetti e insegnerà agli altri a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà, sarà considerato grande nel regno dei cieli.
20Io vi dico infatti: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli”.

Col discorso della montagna abbiamo per la prima volta  un’esposizione dottrinale organica sui contenuti espressi da Gesù alla folla, per quanto Matteo e Luca è certo abbiano inserito anche insegnamenti che non necessariamente furono impartiti in quell’occasione. Se finora abbiamo preso in esame solo la narrazione del primo evangelista è solo per rispettare una consecutio a mio giudizio logica per queste riflessioni, lasciando al parallelo lucano il compito di fare delle piccole pause citandolo nel momento in cui va ad integrare la narrazione di Matteo. Di certo, sul monte, Gesù confermò di essere in grado di dare quell’”acqua viva”, di cui parlò alla donna samaritana, che avrebbe potuto dissetare per sempre e di essere Lui in grado di far sgorgare. Un giorno lessi in un manuale di esegesi del Nuovo Testamento una frase che allora non condivisi immediatamente e sosteneva che senza tenere presente la mentalità del tempo e dell’autore si poteva correre il rischio di fraintendere il messaggio contenuto in uno o più versetti scadendo nel letteralismo. Ebbene, pronunciando le parole che abbiamo letto, Gesù, perfetto conoscitore dei pensieri, del carattere, delle intenzioni e della mentalità dei suoi uditori, spiega agli uomini del suo tempo il perché fosse in mezzo a loro, qual era lo scopo per cui era venuto al mondo; le Sue parole, poi, illuminano la Chiesa ancora oggi e da esse può trarre il suo nutrimento adattandole alla sua realtà.

Dobbiamo tenere presente che nessuno al tempo del sermone sul monte, e per qualche anno più avanti, aveva le idee chiare sul Cristo: i suoi avversari già avevano un progetto omicida nei Suoi confronti, i discepoli lo avevano conosciuto come in grado di fare miracoli e avevano provato, come Simon Pietro, la distanza spirituale intercorrente fra loro e Lui, ma le opinioni in merito erano quanto mai diverse. Ancora, l’idea che poteva avere l’uditorio di Gesù poteva non essere corretta tanto riguardo Sua identità e soprattutto su come Lui si poneva di fronte alla Legge e ai Profeti. Ad esempio aveva dichiarato che l’uomo non era stato creato per il sabato, ma viceversa. Essendosi qualificato come “Signore del sabato”, di fatto, secondo loro, o lo intendeva abolire o poteva farlo. Davvero c’era traccia di Lui nei Profeti? Aveva fatto specifico riferimento all’eccellenza della misericordia e dell’amare Dio sui sacrifici che si celebravano: forse questo significava che erano decaduti? E poi la remissione dei peccati: come sarebbe potuta avvenire da lì in poi?

Ecco allora che con quel “Non crediate” Gesù mette un freno alle supposizioni e agli interrogativi sulla sua missione: non era venuto ad abolire né la Legge, né i Profeti, “ma a dare pieno compimento”, originale greco pleròsaiche significa letteralmente “riempire fino all’orlo, fino a traboccare” quindi dando loro un significato pieno, totale, oltre il quale era impossibile andare, spingersi oltre. Occorre prestare attenzione al termine greco, che suggerisce molto di più di un adempimento cui la nostra traduzione aggiunge “pieno”. “Pleròsai ha la stessa radice di “pleròma”, termine usato dallo gnosticismo per indicare “la perfezione divina intesa come pienezza che comprende in sé tutti gli esseri che emanano da Dio”. E lo gnosticismo, che mescolava credenze pagane, ebraiche e cristiane, involontariamente sottolinea così la totalità dell’opera che Gesù avrebbe compiuto.

Fondamentale è che Nostro Signore citi non solo la Legge, ma aggiunga immediatamente “e i profeti”. Ecco, qui il ragionamento si fa ancora più estensivo perché coi due termini, “Legge e Profeti”, si allude al tutto e, nel nostro caso, non c’è anche un riferimento a Giobbe: anni fa un fratello mi fece notare un passaggio particolarissimo in cui quest’uomo, che non conosceva le ragioni della sua sofferenza morale e fisica, parlò così all’Iddio tre volte santo: “Se sono colpevole, perché affaticarmi invano? Anche se mi lavassi con la neve e pulissi con la soda le mie mani, allora tu mi tufferesti in un pantano e in orrore mi avrebbero le mie vesti. Poiché non è un uomo come me, al quale io possa replicare «Presentiamoci alla pari in giudizio». Non c’è fra noi due un arbitro che ponga la mano su di noi” (Giobbe 9.29,33).

Ebbene in questi versi, in cui Giobbe confessa la sua impossibilità a reggere un confronto con Dio nonostante tutto il suo essere fosse costantemente rivolto a Lui e le benedizioni ricevute, lamenta la mancanza di un “arbitro”, quindi un mediatore, un uomo come lui che lo potesse capire senza possedere le sue meschinità. Giobbe non sapeva che un giorno sarebbe arrivato Uno che, avendo “adempiuto” la Legge e i Profeti portandoli a pieno compimento, avrebbe potuto ricoprire quel ruolo che allora mancava, talché Paolo scrisse “C’è un solo Dio – il Santo, il Perfetto, l’Assoluto –e anche un solo mediatore fra Dio e gli uomini: Gesù Cristo uomo” (1 Timoteo 2.5). Due unicità rientranti in una sola, funzioni distinte, ma essenza identica perché, se così non fosse, quel mediatore non avrebbe alcuna possibilità di essere ascoltato da chi è Santo per natura, essenza, definizione. Credo che questo verso di Paolo, oggi, abbia molto da dire a quella cristianità che non si limita a prendere i Santi come oggetto di interesse per ciò che hanno fatto e detto, ma li eleva a rango di intercessori o mediatori presso Dio quasi che possano “mettere una buona parola” a sostegno delle loro preghiere.

Ecco, l’apostolo Paolo specificava “uomo” perché senza la Sua umanità Gesù non avrebbe potuto portare a compimento la Legge e i Profeti. E qui ci raccordiamo all’incenso, che Zaccaria stava per offrire, che doveva essere costituito da parti uguali in cui, ora, possiamo distinguere l’umanità, la perfezione, la santità e la missione del Cristo.

A questo punto, tornando al nostro testo, abbiamo il primo “Amen”, cioè “In verità”, parola che molti pronunciano senza pensare al suo significato di attestazione, certificazione responsabile di un qualcosa di vero. L’Amen di Gesù qui riguarda uno spazio temporale del pieno adempimento delle sue parole: “Io vi dico”, tre elementi che qualificano il mittente, l’Unico vero Inviato di Dio, e i destinatari, gli uomini là presenti e tutti quelli che nei secoli avrebbero letto le Sue parole; “In verità”, rafforzativo che poi è un invito a riflettere e credere stante l’autorevolezza di quell’ “Io” che sta parlando, “che, finché sia passato il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un trattino della legge, senza che tutto questo sia avvenuto”.

Anche con la citazione del “cielo” e della “terra” Gesù si raccorda agli scritti dei profeti, che mettono l’uomo in guardia dal ritenere questi due elementi come eterni: già abbiamo visto, in una precedente riflessione,  la figura della terra che si “logorerà come un vestito” – cosa già in atto -, già sappiamo che “i cieli e la terra passeranno con fragore” – altri traducono “stridendo”, e in Salmo 102. 25,26 si legge “Anticamente tu hai stabilito la terra e i cieli come opera delle tue mani; essi periranno, ma tu rimarrai; si logoreranno tutti come un vestito– citazione di Isaia 51.6 -, tu li muterai come una veste ed essi saranno cambiati”. Conosciamo anche il verso di Marco 13 “I cieli e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno”, ma qui Gesù vuol porre l’accento sull’immutabilità del piano di Dio e degli adempimenti che avrebbe fatto visti nella citazione dello “iota” e del “trattino”, rispettivamente la più piccola consonante ebraica, lo yod, e quel piccolo segno a forma di corno che serviva per distinguere quelle consonanti che, nella scrittura quadrata, sarebbero state tra loro identiche.

Nelle parole del verso 18, “senza che tutto questo sia avvenuto”, c’è poi un’importante indicazione sulla scadenza temporale di tutta l’opera di Gesù, che sappiamo disse sulla croce “Tutto è compiuto”: nulla restava di incompleto alla luce del ministero terreno che aveva svolto, la Legge era stata completata nella sua pienezza, il Suo sacrificio quale Agnello di Dio era stato fatto, ma alcuni avvenimenti descritti dai Profeti dovevano e devono ancora verificarsi ed ecco il perché della frase “Senza che tutto questo sia avvenuto”. Pensiamo alle parole del Salmo che abbiamo letto “…tu li muterai come una veste ed essi saranno cambiati”.

Con i versi che seguono abbiamo poi un aggiornamento sulla condotta e la responsabilità che hanno coloro che la Legge la insegnano, anche se oggi l’esempio è perfetto per tutti coloro che, nella Chiesa, si adoperano in base ai doni ricevuti. Il messaggio si sposta così dagli uditori a “chiunque trasgredirà uno solo di questi minimi precetti e insegnerà agli altri a fare altrettanto”: c’è parentela verbale tra l’abolire del verso 17 (“non per abolire, ma per dare compimento”) e questo “trasgredire”, ma mentre nel primo caso i sinonimi del verbo sono “abbattere, annullare, abrogare” con riferimento a un sistema, qui si tratta di un’azione tesa a indebolire la forza di qualcosa, nello specifico un comandamento “minimo”, probabile riferimento all’insegnamento dei dottori della Legge che distinguevano i precetti in maggiori e minori poi giungendo, come sappiamo, al ridurre il giudaismo all’osservanza di una serie di norme indipendentemente dall’atteggiamento spirituale della persona.

Esiste una responsabilità però anche a dirsi cristiani e soprattutto nel modo di presentare Cristo e la Sua dottrina che non può basarsi su posizioni erronee a livello di essenza, di sostanza, del modo di porsi di fronte a Dio perché, ad esempio, va rimossa la trave nel nostro occhio prima di vedere la pagliuzza in quello dell’altro: là dove s’instaura il sentimento religioso che tende ad adattare la ritualità e la procedura alle vere esigenze dello Spirito – e quindi di Dio – si ha l’ingresso del fariseismo anche nella Comunità cristiana. E qui viene automatico citare i rimproveri che Gesù mosse, sempre ai suoi antagonisti, in varie forme, ad esempio “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pagate la decima della menta, dell’anèto e del cumìno, e trasgredite le prescrizioni più gravi della legge: la giustizia, la misericordia e la fedeltà. Queste cose bisognava praticare, senza omettere quelle. Guide cieche, che filtrate il moscerino e ingoiate il cammello! Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pulite l’esterno del bicchiere e del piatto mentre all’interno sono pieni di rapina e d’intemperanza. Fariseo cieco, pulisci prima l’interno del bicchiere, perché anche l’esterno diventi netto! Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che rassomigliate a sepolcri imbiancati: essi all’esterno son belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume. Così anche voi apparite giusti all’esterno davanti agli uomini, ma dentro siete pieni d’ipocrisia e d’iniquità. Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che innalzate i sepolcri ai profeti e adornate le tombe dei giusti, e dite: Se fossimo vissuti al tempo dei nostri padri, non ci saremmo associati a loro per versare il sangue dei profeti; e così testimoniate, contro voi stessi, di essere figli degli uccisori dei profeti. Ebbene, colmate la misura dei vostri padri!” (Matteo 23. 23-29). Gesù, tornando al suo discorso, a conferma del riferimento alla Chiesa futura, parla della considerazione nella quale sarà tenuto nel “Regno dei cieli” chi si sarà comportato in un modo piuttosto che in un altro.

Si parla di “giustizia”, termine di cui ci siamo già occupati non solo recentemente con le beatitudini, ma anche quando abbiamo esaminato Giovanni e altri personaggi considerati giusti: c’è una giustizia che viene da Dio e ce n’è una che l’uomo si può costruire, illusoria, ipocrita, assolutamente fine a se stessa e quindi utile alla propria carne, come quella dei personaggi che Gesù prende a riferimento, appunto gli Scribi e i Farisei. Se ci vestiamo della nostra giustizia, della presunzione di essere tali solo perché crediamo, se guardiamo il nostro prossimo disprezzandolo perché non appartiene alla nostra cerchia qualunque essa sia, ecco che a nulla vale la fede: non è luce, non è una città posta sul monte, ma è piuttosto un’impalcatura, un atteggiamento, un palazzo in cui la mente può trovare rifugio. Ma è un palazzo destinato a crollare. E il parallelo col “sepolcro imbiancato” è inevitabile così come lo è il riconoscere una persona dal frutto che produce: “Guardatevi dai falsi profeti – non chi predice il futuro, ma chi parla di Dio – che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci. Li riconoscerete dai loro frutti: si raccoglie forse uva dalle spine, o fichi dai rovi? Così ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi; un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produrre frutti buoni. Ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco. Dai loro frutti dunque li potrete riconoscere”.

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5.10 – IL SALE DELLA TERRA (Matteo 5.13-16)

5.10 – Il sale della terra (Matteo 5.13-16)

  • 13Voi siete il sale della terra; ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente. 14Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, 15né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa. 16Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli.”.
  • Con queste parole ci troviamo di fronte per la prima volta a una definizione che Gesù fa sul suo uditorio, vedendo i discepoli e quelli che avrebbero creduto in Lui come “sale della terra” e “luce del mondo”. Nel definirli così fa seguire poi tre esempi – l’insipidirsi del sale, la città sul monte e la lampada – per concludere con un imperativo al verso 16: “Coì’ risplenda la vostra luce davanti agli uomini”. Se poco prima il discorso delle beatitudini ha riguardato anche i trattamenti inflitti dal mondo ai discepoli, qui c’è un ribaltamento: sono loro ad influire sul mondo come vediamo dalla metafora del sale, sostanza tanto comune quanto necessaria.
  • Il sale è una sostanza da sempre conosciuta come esaltatore di sapidità ampiamente usato in cucina, ma è anche fondamentale per lo svolgersi di meccanismi fisiologici vitali come la trasmissione degli impulsi nervosi, lo scambio dei liquidi e la regolazione della pressione anche se è pericoloso superare la dose di più di 5 grammi giornalieri perché, in questo caso, può causare problemi ai reni e cardiaci. Qui però Gesù parla di sale “della terra”, alludendo alla testimonianza e capacità di annunciare il Vangelo al mondo una volta ricevuto lo Spirito Santo oppure, nel caso dei suoi uditori di allora, all’annunciare agli altri che era finalmente giunto il Regno di Dio nella Sua persona. In pratica, con quella definizione ai presenti, Nostro Signore indica loro il ruolo che avrebbero avuto se si fossero riconosciuti nelle Sue parole. Ciascun cristiano è potenzialmente “sale della terra” perché ciò che ha ricevuto può e deve – non per costrizione, ma come atto spontaneo e inevitabile – essere trasmesso, annunciato agli altri. Occorre prestare però attenzione: essere “sale della terra” non significa necessariamente diventare, essere dei predicatori come molti pensano o per far proseliti, ma possedere una proprietà fisica al nostro interno esattamente come ce l’ha il sale naturale, che dà sapore.
  • Data la definizione, Gesù contempla la possibilità che questo elemento perda le sue proprietà, riferendosi all’esperienza di allora: il sale veniva ricavato per evaporazione dal mare o da paludi, ma occorreva la massima attenzione perché il procedimento per la sua estrazione era primitivo e col sale potevano venire raccolte terra e impurità che lo facevano scadere a tal punto da tramutarlo in una polvere inservibile che veniva gettata sulla strada, non certo in un campo perché lo avrebbe fortemente impoverito. Ricordiamo che nelle antiche guerre, una volta distrutte e rase al suolo le città nemiche, vi si passava un aratro versando del sale nei solchi affinché non crescesse più nulla: non solo lo fecero i romani con Cartagine, ma lo troviamo anche nella Bibbia: “Abimelec combatté contro la città (Sichem) tutto quel giorno, la prese e uccise il popolo che vi si trovava, poi la distrusse e la cosparse di sale” (Giudici 9.45). “Terra salata” è anche una definizione usata frequentemente nella Scrittura per indicare un territorio arido e deserto.
  • Il sale, a parte il riferimento ai suoi effetti sul suolo, lo troviamo presente nella Legge: “Dovrai salare ogni offerta di oblazione: nella tua offerta non lascerai mancare il sale dell’alleanza del tuo Dio; sopra ogni offerta porrai del sale” (Levitico 2.13). Questo composto allora, come abbiamo letto, raffigurava l’alleanza di Dio con l’uomo: quale? Certo quella della Legge, ma anche le altre, in particolare quella che il Cristo portava con sé, a quel tempo non ancora rivelata. Eccoci giunti al punto: il sale che andava posto sopra ogni offerta lo ha dentro di sé chi crede nell’Agnello di Dio, che addirittura viene a lui paragonato, “voi siete”. Abbiamo questa proprietà, ma corriamo il rischio di perderla non rimanendo fedeli, dimenticandocene: essere il “sale della terra” non può costituire motivo di orgoglio perché, se si diventa insipidi, non si è più utili a nulla. La domanda “con che cosa lo si salerà” va letta come “In che modo potrà riacquistare il suo sapore?”. Ricordiamoci che i discepoli non sapevano di avere questa caratteristica, è Gesù che lo rivela, li avverte: “Fai attenzione, guarda che tu sei il sale della terra”, responsabilizzandoli e collegandosi alle beatitudini. Purtroppo la dimensione che subiamo ci costringe a dividere il discorso sul monte in blocchi come se fossero delle stanze da attraversare, ma ciò che Nostro Signore disse ai discepoli e alla gente venuta da ogni parte era un fiume che scorreva, non uno studio a puntate come il mio.
  • Questo primo paragone di Gesù è quindi un invito alla riflessione: dapprima informa i suoi discepoli del loro privilegio, dello scopo che hanno, quindi del fatto che portano dentro di sé l’alleanza che Dio ha fatto con loro e che non possono tenerla per sé. Poi, per la caratteristica che è stata loro data, essi sono il “sale del mondo” cioè danno un senso alla sua esistenza con la loro opera.
  • Il sale è anche riferito all’intelligenza spirituale: “Abbiate sale in voi stessi e siate in pace gli uni con gli altri” (Marco 9.50) e “Il vostro parlare sia sempre con grazia, condito con sale, per sapere come dovete rispondere a ciascuno” (Colossesi 4.6) là dove alcuni lo traducono con “senno”, quindi è l’intelligenza spirituale che dovrebbe caratterizzare i rapporti del cristiano coi fratelli e con gli altri uomini.
  • La parte finale del verso, sulle conseguenze del sale che perde le proprietà, viene espressa dall’autore della lettera agli Ebrei con queste parole: “Una terra imbevuta della pioggia che cade su di essa, se produce erbe utili a quanti la coltivano, riceve benedizione da Dio; ma se produce spine e rovi, non vale nulla ed è vicina alla maledizione: finirà bruciata” (6.7,8). Anche l’apostolo Pietro spiega questo concetto riferendosi a coloro che, dopo aver conosciuto Dio, si allontanano da Lui senza preoccuparsi delle conseguenze: “L’uomo è schiavo di ciò che lo domina. Se infatti, dopo essere sfuggiti alle corruzioni del mondo per mezzo della conoscenza del nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo, rimangono di nuovo in esse invischiati e vinti – quindi arrivano ad una condizione definitiva, una scelta deliberata senza possibilità di appello – la loro ultima condizione è diventata peggiore della prima” (2 Pietro 2.19,20).
  • La seconda definizione che dà Gesù ai discepoli è “La luce del mondo”, posizione che il cristiano dovrebbe occupare all’interno della società degli uomini. Salomone scrisse che “La strada dei giusti è come la luce dell’alba che aumenta lo splendore fino al pieno giorno. La via degli empi è come l’oscurità; essi non scorgono ciò che li farà cadere” (Proverbi 4.18,19). Sono entrambe strade visibili da chiunque, ma se quella del giusto non si vede, è impossibile notare la differenza. Ecco perché chi crede non brilla di luce propria, ma di quella di Cristo ed è chiamato a svilupparla, curarla tenendo ben presente quello che era prima dell’incontro con Lui e della sua conversione. “Un tempo eravate tenebre – notiamo che manca “nelle” -, ora siete luce del Signore. Comportatevi perciò come figli della luce. Ora il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità. Cercate di capire – la necessità del sale – ciò che è gradito al Signore” (Efesi 5.5-10). Quindi quel “Voi siete la luce del mondo” allude a un dono ricevuto e i primi passi da compiere – e sono tanti – devono riguardare proprio la formazione spirituale attraverso quel “cercate di capire”, operazione impegnativa e attenta, preoccupandosi di essere fedeli nelle piccole cose in vista, se verranno, di quelle grandi. Solo così si potrà essere un riferimento per gli altri perché la luce di Dio è prima di tutto interiore: illumina l’uomo sulla sua condizione di peccato, punto di partenza che, se accolto con la volontà di una vita nuova, crea già di per sé una festa nel cielo: “Ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di redenzione” (Luca 15. 7). “Cercate di capire” perché senza lo Spirito resteremmo nell’ignoranza. Troppo spesso il cristianesimo vorrebbe basarsi su una bontà generica e la comprensione degli altri, dimenticando che si cresce con la dottrina e non con le buone intenzioni.
  • Nostro Signore, allora come oggi, invita con le Sue parole alla responsabilità individuale, essendo invitati ad essere “…figli di Dio innocenti in mezzo a una generazione malvagia e perversa – alla quale appartenevamo anche noi comunque -. In mezzo a loro voi risplendete come astri nel mondo, tenendo salda la parola di vita” (Filippesi 2. 14,15). Già avendo un comportamento consono alla Parola di Dio il cristiano testimonia di non appartenere alla “generazione” di prima, quela in cui rientrava a tutti gli effetti prima della sua conversione. Egli ha un senso anche se è una piccola stella nel cielo notturno. Brilla nel buio. È una presenza, si riconosce, illumina per quanto gli è stato dato ed è per questo che il messaggio di Cristo è universale: pietre diverse formano la Chiesa, “pietre vive” come membra e organi distinti, che da soli non servirebbero a nulla, ma che formano il Corpo di Cristo.
  • Dopo la definizione di “Luce del mondo”, ecco i paragoni esplicativi: le città, i paesi costruiti su una montagna sono visibili e orientano il viaggiatore non solo nei suoi spostamenti, ma anche e soprattutto quando deve ricoverarsi in esse per la notte. Comunque sia, si vedono, “sono là”, è fisicamente impossibile non notarle. C’è chi prende atto della loro esistenza, e chi le visita.
  • La metafora della lampada, poi, è un’estensione del concetto di “luce” espresso poco prima: se la si accende, non la si mette sotto il moggio, antica unità di misura per le granaglie, costituito da una specie di secchio (conteneva circa 8 litri e mezzo). Mettere il lume sotto il moggio, evidentemente rovesciato, significava commettere un gesto assurdo, visto che la lampada si accendeva per illuminare l’ambiente e non per nasconderlo alla vista. Non di può quindi vivere contemporaneamente per se stessi, auto illuminandosi e finendo per godere di una luce a noi riservata, ma occorre porsi nella condizione di illuminare gli altri, cosa che diventa possibile quando si ha acquisito l’esperienza necessaria vista nella figura di un vaso che trabocca. Non può esserci luce se prima non si è illuminati, non può esserci comunicazione degna di tale nome se prima non la si è ricevuta e assimilata, come vediamo nei profeti dell’Antico Patto, che parlarono solo quando Dio li autorizzò a farlo.
  • La lampada sul candeliere significa anche avere una vita trasparente, santa e conforme al Vangelo perché in tal modo chi tra il mondo cerca o si pone delle domande sulla propria esistenza, la veda, ne sia attratto – se ha dentro di sé uno spirito non avverso – e accolga il messaggio d’amore del Cristo da cui sono escluse le regole del marketing “spirituale” caro a chi fa proseliti nella Chiesa e fuori.
  • Il fine della luce che risplende è “affinché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli”, frase che si riferisce all’inevitabile considerare che siamo figli della Luce a prescindere dal fatto che gli uomini si interessino di ciò che Dio ha loro da proporre. Un giorno ho sentito una persona dire “devo convertire qualcuno”: è concetto privo di senso, come se ci fosse dato il potere di salvare. Il cristiano che riconosce il suo Maestro è una luce, qui finisce il suo compito perché già esistendo come tale lo ha adempiuto; sono piuttosto gli altri cui spetta la scelta se dirigersi verso di lui, o evitarlo. Certo dobbiamo avere un carattere spirituale che ci contraddistingua, certo non può essere simulato pena l’incapacità a gestire le situazioni, per non parlare di ulteriori danni fatti a noi stessi e agli altri. Perché il cristianesimo è qualcosa di più che l’essere battezzati e il limitarsi a frequentare le Assemblee di una Chiesa. Amen.
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5.09 – LE BEATITUDINI 8: I PERSEGUITATI PER LA GIUSTIZIA (Matteo 5.3-12)

5.9 – Il sermone sul monte : le beatitudini VIII (Matteo 5.3-12)

 

3«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. 4Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. 5Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. 6Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. 7Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. 8Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. 9Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. 10Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.11Beati voi, quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia.12Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti perseguitarono i profeti che furono prima di voi”.

 

BEATI I PERSEGUITATI PER LA GIUSTIZIA

È l’ultima beatitudine, che termina come la prima, “perché di essi è il regno dei cieli”, che però per gli uditori di Gesù era di significato più oscuro e, infatti, Lui stesso si preoccuperà di spiegarla nei due versetti successivi. Due beatitudini sono al presente, le altre al futuro, segno che c’è continuità fra loro e che il cristiano non ne possiede una soltanto; l’ottava è però particolarmente complessa perché riguarda il compiersi di avvenimenti che, al momento dell’esposizione, non si erano ancora verificati. Nessuno di loro era stato ancora perseguitato.

Se ci soffermiamo sulla parola “giustizia”, sappiamo già che l’esserne affamati e assetati comporta l’esserne saziati in futuro, che questa viene data a chi crede nell’Iddio Vivente rivelato: i “giusti” dell’Antico Patto erano coloro che affiancavano alla Legge un sentimento di profondo essere un tutt’uno con YHWH e la ritenevano un mezzo per essere uniti a lui, non il fine. C’era una giustizia esteriore vista nell’osservanza e nel rimedio a fronte di una trasgressione, ma sarebbe stata inutile senza il riconoscimento dell’unicità di Dio dentro di sé, l’acquisire coscienza del fatto di appartenere al popolo eletto, composto da più individui che, in quanto tali, potevano avere un rapporto unico con Colui che aveva progettato un cammino per ciascuno. Abbiamo letto, per quanto riguarda il Vangelo, di persone considerate giuste: pensiamo a Zaccaria ed Elisabetta, a Giuseppe marito di Maria, a Simeone, Anna, Natanaele ed altri che avevano in comune proprio l’attesa consapevole del Consolatore di Israele, sentimento impossibile da possedere senza un riconoscersi mancanti di un’identità, di avere bisogno di Lui.

Ora, però, quella moltitudine radunata sul monte aveva davanti a lei la Giustizia di Dio vista nel quel Gesù di Nazareth che predicava, l’unico che avrebbe soddisfatto le esigenze di santità del Padre: credendo in Lui, questi avrebbero prodotto una profonda rottura con le credenze sulle quali i giudei che Lo avrebbero rifiutato si sarebbero arroccati. Anni più tardi l’apostolo Paolo scriverà ai romani “Il desiderio del mio cuore e la mia preghiera salgono a Dio per la loro – dei giudei-salvezza. Infatti rendo loro testimonianza che hanno zelo per Dio, ma non secondo una retta conoscenza. Perché, ignorando la giustizia di Dio e cercando di stabilire la propria, non si sono sottomessi alla giustizia di Dio. Ora, il termine della Legge è Cristo, perché la giustizia sia data a chiunque crede”. Gesù sostituiva la Legge ed era Lui stesso giustizia, unico mezzo sicuro per mantenersi in rapporto con Dio, messaggio rivoluzionario divenuto per gli ebrei inaccettabile e infatti i cristiani, come testimonia lo stesso libro degli Atti, saranno perseguitati da loro per primi.

Pensiamo alla giustizia di Dio, alla perfetta conoscenza che ha di ogni essere umano, al fatto che lo vede come realmente è, e poniamo questo dato in relazione all’episodio del paralitico che a Capernaum quattro uomini avevano fatto calare dal tetto della casa in cui si trovava Gesù: alla presenza dei farisei fu detto “Che cosa è più facile, dire al paralitico «I tuoi peccati ti sono perdonati», oppure dirgli «Alzati, prendi il tuo lettino e cammina?» Ma, affinché sappiate il che il Figlio dell’uomo ha sulla terra autorità di perdonare i peccati, io ti dico, disse al paralitico, «Alzati, prendi il tuo lettino e vattene a casa tua»” (Marco 2. 9-11). Se pensiamo che prima di quel miracolo i farisei avevano appena finito di dire “Chi può perdonare i peccati, se non solo Dio?”, non ci vuole molto a riconoscere in Gesù quel Dio che loro affermavano di servire e seguire. Difficilmente potremmo sostenere che il perdono, o la remissione di un peccato, non sia cosa che coinvolga la giustizia di Dio che così decide secondo il suo giudizio insindacabile.

Torniamo però di nuovo ai farisei, che espressero una verità: in un altro episodio, non sapendo cosa rispondere, dichiararono che Gesù scacciava i demoni con l’aiuto di Baal-zebub loro principe, cosa impossibile perché “Ogni regno diviso in parti contrarie sarà ridotto in deserto ed ogni città o casa divisa in parti contrarie non potrà reggere. E se Satana caccia Satana, egli è diviso contro se stesso; come dunque potrà sussistere il suo regno? (…) Ma, se è per l’aiuto dello Spirito di Dio che io caccio i demoni, è dunque pervenuto fino a voi il regno di Dio” (Matteo 12.24-28).

Altra osservazione utile per queste riflessioni la fa Paolo nella sua lettera ai Colossesi, che risentiva dottrinalmente delle influenze del giudaismo legale, e pagane: “Badate che nessuno vi inganni con la sua filosofia e con vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo. È in Cristo che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità e voi avete in lui parte alla sua pienezza, di lui cioè che è il capo di ogni Principato e di ogni Potestà” (2. 8-10). “Tutta la pienezza” tra le quali non possiamo non contare la giustizia e, infatti, è in lui che vengono saziati tutti coloro che sono affamati ed assetati di essa.

In un simile quadro allora, ecco che la giustizia sotto l’ottica di Gesù causerà persecuzione, e sarà caratterizzata dall’ insulto, dalla persecuzione e dalla menzogna, cose che Lui patì prima di tutti gli altri che lo avrebbero seguito credendo nella Sua persona ed opera. L’insultoè un’offesa grave e volontaria ai sentimenti e alla dignità della persona arrecata con parole ingiuriose, con atti di spregio volgare o anche con un contegno intenzionalmente offensivo e umiliante; nel caso di Nostro Signore, lo vediamo soprattutto alla crocifissione, con le percosse alle quali seguiva la frase “Indovina chi ti ha colpito”, con gli sputi e le prese in giro dei capi dei sacerdoti, scribi e anziani “Ha salvato gli altri e non può salvare se stesso”. La persecuzioneallude a un complesso di sistematiche azioni di forza intese a stroncare una persona o un movimento politico o religioso, a ridurre o addirittura ad eliminare una minoranza etnica o sociale. Che Gesù sia stato perseguitato, e con lui i primi cristiani (ma anche oggi nel mondo i cristiani perseguitati sono milioni) credo non sia un mistero per nessuno; però è indicativo che alla persecuzione si sia sempre accompagnata la menzogna, cioè un’affermazione contraria a ciò che si sa o si crede sia vero, o anche contraria a ciò che si pensa, alterazione (o negazione o anche occultamento) consapevole e intenzionale della verità. Ricordiamo ad esempio quanto concordarono i sacerdoti e gli anziani del popolo assieme ai soldati romani che testimoniarono loro di avere visto l’angelo che rotolava la pietra del sepolcro: “…dopo essersi consultati, diedero una buona somma di denaro ai soldati dicendo «Dite così: i suoi discepoli sono venuti di notte e l’hanno rubato, mentre noi dormivamo. E se mai la cosa venisse all’orecchio del governatore, noi lo persuaderemo e vi libereremo da ogni preoccupazione». Quelli presero il denaro e fecero secondo le istruzioni ricevute. Così questo racconto si è divulgato fra i giudei fino ad oggi” (Matteo 28.13-15). Furono quindi sordi al racconto di quegli uomini e anteposero la loro volontà di sopravvivenza assieme alle proprie dottrine evidentemente decadute. Così infatti era avvenuto: “Un angelo del Signore, sceso dal cielo, si avvicinò, rotolò la pietra e si pose a sedere sopra di essa. Il suo aspetto era come folgore e il suo vestito bianco come neve. Per lo spavento che ebbero di lui, le guardie furono scosse e rimasero come morte” (Ibidem, 2-4).

Lo stesso processo a Gesù, che esamineremo a suo tempo, studiato da un punto di vista strettamente legale, presentò una serie infinita di irregolarità alla luce della Legge che il popolo di Israele aveva ricevuto, ma qui ci occuperemo di pochi versi: “I capi dei sacerdoti e tutto il sinedrio cercavano una falsa testimonianza contro Gesù, per metterlo a morte; ma non la trovarono, sebbene si fossero presentati molti falsi testimoni. Finalmente se ne presentarono due, che affermarono «Costui ha dichiarato: posso distruggere il tempio di Dio e ricostruirlo in tre giorni»”(Matteo 26.59-61): si noti la sottigliezza del metodo vista nel fatto che si cercavano falsi testimoni ma, non trovandosene, si trovò il modo di estrapolare una frase che Gesù aveva effettivamente detto riferendosi al suo corpo, per piegarla ai loro scopi.

Questo è stato fatto a Nostro Signore. Per chi avrebbe creduto in Lui, possiamo citare le persecuzioni subite da Pietro, Giovanni, dall’apostolo Paolo e da Stefano, primo martire cristiano che troviamo al capitolo sesto del libro degli Atti che, “Pieno di grazia e di potenza, faceva grandi prodigi e segni fra il popolo. Allora alcuni della sinagoga detta dei Liberti, dei Cirenei, degli Alessandrini e di quelli della Cilicia e dell’Asia, si alzarono a discutere con Stefano, ma non riuscivano a resistere alla sapienza e allo Spirito con cui egli parlava. Allora istigarono alcuni di loro perché dicessero «Lo abbiamo udito pronunciare parole blasfeme contro Mosè e contro Dio». E così sollevarono il popolo e gli scribi gli piombarono addosso, lo catturarono e lo condussero davanti al sinedrio. Presentarono quindi dei falsi testimoni, che dissero «Costui non fa altro che parlare contro questo luogo santo e contro la legge. Lo abbiamo infatti udito dichiarare che Gesù, questo nazareno, distruggerà questo luogo e sovvertirà le usanze che Mosè ci ha tramandato” (Atti 6.8-14).

Ecco la menzogna organizzata, ma ecco anche la beatitudine di Stefano: prima è scritto che “Tutti quelli che sedevano nel sinedrio, fissando gli occhi su di lui, videro il suo volto come quello di un angelo” (v.15), ma poi quello che ha attirato la mia attenzione è stato il modo in cui concluse la sua esistenza terrena, poiché dopo aver esposto le sue ragioni con una predicazione toccante, leggiamo “Ma egli, pieno di Spirito Santo, fissando il cielo, vide la gloria di Dio e Gesù che stava alla destra di Dio e disse «Ecco, contemplo i cieli aperti e il Figlio dell’uomo che sta alla destra di Dio”(Ibidem, 7.15). Fu poi lapidato fuori Gerusalemme, pregando “Signore, non imputare loro questo peccato”.

Credo che la visione di Stefano fu il modo che ebbe Iddio per rincuorarlo e consentirgli di affrontare la morte serenamente e metterlo in condizione di andare oltre il dolore per quelle pietre che lo colpivano. Fu anche l’adempimento pratico delle parole che abbiamo letto, “Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli”, che appunto Stefano intravide. Gesù disse che “I nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa” (Matteo 10.36) alludendo proprio a quella di Israele, persecutrice prima di Roma di fronte ai cui metodi inorridiamo, dimenticando che invece i primi persecutori furono, appunto, quegli ebrei che, a differenza dei pagani superstiziosamente religiosi, avrebbero avuto tutti gli elementi per credere in Gesù Cristo e tutt’ora lo rifiutano.

Per ultima, abbiamo la frase “Così infatti perseguitarono i profeti che furono prima di voi”: pensiamo a Geremia, gettato nella cisterna di Malchia (Geremia 38), o prima di lui Elia, che Gezabele moglie del re Acab voleva uccidere (1 Re 19 e ss.). Ancora Isaia, arrestato e condannato a morte da Manasse secondo una tradizione ebraica, re di Giuda e figlio di Ezechia, oppure Uzia, perseguitato dal re Ioiachim (Geremia 26.21) oltre che Zaccaria, lapidato “nel cortile del Tempio del Signore” (2 Cronache 24.21), episodio  sconcertante: “Dopo la morte di Ioiadà, i comandanti di Giuda andarono a prostrarsi davanti al re, che diede loro ascolto. Costoro trascurarono il tempio del Signore, Dio dei loro padri, per venerare i pali sacri e gli idoli. Per questa loro colpa l’ira di Dio fu su Giuda e su Gerusalemme. Il Signore mandò loro dei profeti perché li facessero tornare a lui. Questi testimoniarono contro di loro, ma non furono ascoltati. Allora lo spirito di Dio investì Zaccaria, figlio del sacerdote Ioiadà, che si alzò in mezzo al popolo e disse «Dice Dio: «Perché trasgredite i comandi del Signore? Per questo non avete successo; poiché avete abbandonato il Signore, anch’egli vi abbandona». Ma congiurarono contro di lui e per ordine del re lo lapidarono nel cortile del tempio del Signore. Il re Ioas non si ricordò del favore fattogli da Ioiadà, padre di Zaccaria, ma ne uccise il figlio, che morendo disse «Il Signore veda e ne chieda conto!” (2 Cronache 24.17-22).

Ci sono poi le parole di quello Stefano che abbiamo citato: “Testardi e incirconcisi nel cuore e nelle orecchie, voi opponete sempre resistenza allo Spirito Santo. Come i vostri padri, acosì siete anche voi. Quale dei profeti i vostri padri non hanno perseguitato? Essi uccisero quelli che preannunciavano la venuta del Giusto, del quale voi ora siete diventati traditori e uccisori, voi che avete ricevuto la Legge mediante ordini dati dagli angeli e non l’avete osservata». All’udire queste cose, erano furibondi in cuor loro e digrignavano i denti contro Stefano” (Atti 7.51-53).

Chiedersi il significato dell’ultima beatitudine per noi è giusto, per quanti sono convinto che Gesù, con le parole sui “perseguitati per causa di giustizia”, si riferisse all’immediatezza di quanto sarebbe avvenuto a quanti lo avessero seguito. Credo che sia l’apostolo Pietro ad aggiornarci quando scrive “Nella misura in cui partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevi perché anche nella rivelazione della sua gloria possiate rallegrarvi ed esultare. Beati voi, se venite insultati nel nome di Cristo, perché lo Spirito della gloria, che è Spirito di Dio, riposa su di voi. Nessuno di voi abbia a soffrire come omicida o ladro, malfattore o delatore. Ma se uno soffre come cristiano, non se ne vergogni, ma anzi dia gloria a Dio” (1 Pietro 4.13-16), parole indirizzate a tutti quei fratelli o sorelle che, anche in questo tempo definito “civile” in cui viviamo, in molte zone della terra sono attuali e vive. Amen.

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5.08 – LE BEATITUDINI 7: GLI OPERATORI DI PACE (Matteo 5.3-10)

5.8 – Il sermone sul monte : le beatitudini VII (Matteo 5.3-10)

3«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. 4Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. 5Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. 6Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. 7Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. 8Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. 9Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. 10Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli”.

 

BEATI GLI OPERATORI DI PACE

Più che “pacifici” come in alcune traduzione, è corretta quella di “operatori di pace” o “coloro che si adoperano per la pace” nel senso che si impegnano per costituirla. La parola greca, letteralmente è, è “coloro che pongono la pace”, cioè non tanto quelli che sono di indole pacifica, istintivamente contrari alle dispute, ai litigi e alle lotte, ma quegli uomini che compiono sforzi per riconciliare coloro che sono nemici, o per prevenire i dissidi. Si tratta di una beatitudine particolare, raccordabile a quella dei mansueti e dei misericordiosi, che comporta l’essere chiamati “figli di Dio”, cioè avere un riconoscimento. Può sembrare scontato, ma non è così perché l’operatore di pace non è un diplomatico, chi appende alla finestra una bandiera con i colori dell’arcobaleno, chi rifiuta aprioristicamente l’uso delle armi o che pretende di insegnare la pace agli altri come stato d’animo interiore o esteriore, ma chi l’ha trovata in Cristo e per questo ha deposto il contendere, innato in lui, come metodo di espressione. La pace altrimenti è irraggiungibile e ciò può avvenire anche nel cristianesimo quando, più che difendere l’essenza del Vangelo dentro di noi, ci preoccupiamo delle nostre posizioni e coltiviamo l’orgoglio: nel momento in cui la fede diventa un alibi, e quindi è uno degli scopi della carne per apparire o salvaguardare “l’uomo vecchio”, ecco che viene a mancare.

Anche questa beatitudine viene pronunciata da Gesù per il suo uditorio guardando sia il presente, ma soprattutto il futuro: la folla sul monte poteva facilmente ricordarsi di Davide, al quale Iddio non consentì di costruirgli il Tempio, come leggiamo in 1 Cronache 22.7-10: “Davide disse a Salomone: «Figlio mio, io stesso avevo in cuore di costruire una casa al nome dell’Eterno, il mio Dio. Ma la parola dell’Eterno mi fu rivolta dicendo «Tu hai versato molto sangue e hai fatto molte guerre; perciò non costruirai una casa al mio nome, perché hai versato molto sangue sulla terra davanti a me. Ma ecco ti nascerà un figlio che sarà uomo pacifico e io gli darò riposo da parte di tutti i suoi nemici tutt’intorno. Egli si chiamerà Salomone e nei suoi giorni darò pace e tranquillità ad Israele. Egli costruirà una casa al mio nome: egli sarà per me un figlio e io sarò per lui un padre, e renderò stabile il suo trono su Israele per sempre”.

Il brano letto è indubbiamente interessante: Davide fece molte guerre e sparse molto sangue, anche se ciò serviva per la stabilità e la sussistenza di Israele, fu un servitore utile che tuttavia aveva messo in luce un aspetto di Dio in cui non si compiace, preferendo sempre la pace al dar luogo ai suoi giudizi e ricorrendo ad essi solo quando l’uomo lo pone nelle condizioni di non agire altrimenti. È questo un modo sbrigativo per accennare l’argomento, ma affrontando la severità di Dio andremmo fuori tema. Davide non era idoneo alla costruzione del tempio non perché “cattivo”, ma perché l’utilità che aveva avuto sconfiggendo tutti quei popoli descritti nei libri storici si era esaurita e un uomo come lui non poteva edificare un Tempio all’Iddio misericordioso e lento all’ira. Questo naturalmente in estrema sintesi. Per costruire il Tempio ci voleva un uomo come Salomone, appunto dall’ebraico šalôm, pace. E il suo regno ebbe una pace – a parte lievi interruzioni – praticamente continua che portarono ricchezza, prosperità, aumenti nel commercio e costruzioni.

Nella storia di Davide e in quella di suo figlio abbiamo un forte insegnamento sulla natura umana poiché il primo, nonostante la protezione di Dio in tutte le fasi più determinanti della sua vita e un continuo avere di fronte concretamente la sua assistenza, fu adultero e omicida. Anche Salomone, con tutta la sua saggezza divenuta proverbiale e la sua storia edificante, finì in una condizione triste vista in 1 Re 11.1-11: “Il re Salomone amò molte donne straniere, oltre alla figlia del faraone: moabite, edomite, sidònie e ittite, provenienti dai popoli di cui aveva detto il Signore agli israeliti «Non andate da loro ed essi non vengano da voi, perché certo faranno deviare i vostri cuori dietro i loro dèi». Salomone si legò a loro per amore. Aveva 700 principesse per mogli e 300 concubine; le sue donne gli fecero deviare il cuore. Quando Salomone fu vecchio, le sue donne gli fecero deviare il cuore per seguire altri dèi e il suo cuore non restò integro con il Signore, suo Dio, come il cuore di Davide, suo padre. Salomone seguì Astarte, dea di quelli di Sidone, e Milcom, obbrobrio degli ammoniti. Salomone commise il male agli occhi del Signore e non seguì pienamente il Signore come Davide, suo padre. Salomone costruì un’altura per Camos, obbrobrio dei Moabiti, suo monte che è di fronte a Gerusalemme, e anche per Moloc, obbrobrio degli Ammoniti. Allo stesso modo fece per tutte le sue donne straniere che offrivano incenso e sacrifici ai loro dèi. Il Signore, perciò, si sdegnò contro Salomone, perché aveva deviato il suo cuore dal Signore, Dio d’Israele, che gli era apparso due volte e gli aveva comandato di non seguire altri dèi, ma Salomone non osservò quanto gli era stato comandato”.

Un uomo integro, Davide, non poté costruire il Tempio, ma un uomo pacifico e saggio, Salomone, giunse al punto da seguire dèi immaginari e a costruire templi per gli “obbrobri” degli Ammoniti, cioè gli idoli. Se, come scrive l’apostolo Paolo, queste cose sono state scritte per nostro insegnamento, consideriamo ciò che quel re aveva ricevuto: “Dio concesse a Salomone sapienza, una grandissima intelligenza e una mente vasta come la sabbia che è sulla riva del mare. E la sapienza di Salomone superò la sapienza di tutti i figli di Oriente e tutta la sapienza degli Egiziani. Da tutti i popoli veniva gente per udire la sapienza di Salomone, mandati da tutti i re della terra che avevano sentito parlare della sua sapienza” (1 Re 4.29-30,34). Questo re, quindi, è l’esempio più eclatante di chi, permettendo a ciò che è impuro di svilupparsi dentro di lui, finisce per corromperlo. Siamo sempre al solito tema, quello del peccato che raramente fa nell’essere umano una brutale irruzione, ma si presenta sempre come qualcosa di apparentemente trascurabile, di “quasi innocuo”, naturale. Ma che poi presenta il conto quando è troppo tardi e chi si trova a pagarne le conseguenze è proprio chi ha sottovalutato il problema.

Ecco quindi il perché della citazione di Davide, uomo di guerra, e di Salomone, uomo di pace: il primo fu considerato come una persona che seguì Iddio “pienamente” e con il cuore “integro” nonostante il peccato commesso con Uria e sua moglie, il secondo invece fu un uomo a cui molto fu dato, ma diede prova di non saper gestire quanto ricevuto e fu giudicato per questo. Allora va da sé che col termine “operatori di pace” Gesù alluda agli uomini che si adoperano per essa utilizzando uno strumento la cui gestione corretta è possibile solo se guidata dallo Spirito Santo, dato ai figli di Dio che ne hanno la responsabilità.

Della pace, come esseri umani, abbiamo due idee, quella interiore e quella tra gli uomini o i popoli, entrambe irraggiungibili, possibili solo per un certo periodo tempo; basta poco a rompere il loro equilibrio. Il cristiano deve tenere presente sempre che ci sono due ambiti in cui vive, quello terreno e quello spirituale e che è nella misura in cui si dedica all’uno piuttosto che all’altro che realizza l’una o l’altra pace. Un caro fratello raffigurava la vita del credente in una “L” affermando che se la sua base era dominante sull’altezza, questi avrebbe vissuto una vita dominata dalla carne, dalla terra, dal proprio “io”; ecco perché nella preghiera del “Padre Nostro” leggiamo “dacci oggi il nostro pane quotidiano”, meglio tradotto con “necessario”, alludendo sì al cibo per il naturale sostentamento del nostro corpo, ma ancor di più a quello spirituale. Gesù disse “Vi lascio la pace, vi dò la mia pace. Non la dò come il mondo la dà a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbiate timore” (Giovanni 14.27). Chiedersi ogni giorno cosa facciamo della pace che Cristo ci ha lasciato, è importante.

In contrapposizione, a proposito di pace umana, va tenuto presente l’insegnamento di Paolo ai credenti di Tessalonica, la cui Chiesa si riuniva in casa di un certo Giasone. Tra gli interrogativi cui era necessario dare una risposta, vi erano quelli relativi alla destinazione finale di coloro che morivano e sul tempo in cui Gesù Cristo sarebbe ritornato: Paolo scrive “Riguardo poi ai tempi e ai momenti, non avete bisogno che ve lo scriva, perché sapete bene che il giorno del Signore verrà come un ladro di notte. E quando la gente dirà «C’è pace e sicurezza» allora d’improvviso la rovina li colpirà, come le doglie una donna incinta e non potranno sfuggire. Ma voi, fratelli, non siate nelle tenebre, cosicché quel giorno possa sorprendervi come un ladro. Infatti siete tutti figli della luce e figli del giorno; noi non apparteniamo alla notte, né alle tenebre” (1 Tessalonicesi 5.1-4). Pace e sicurezza irraggiungibili, posticci, effimeri su cui l’uomo cerca di costruire lasciando da parte quelle che solo il Cristo risorto può dare.

Chi appartiene a Dio e lo segue, non può che essere un portatore di pace, tanto dentro di sé quanto nei suoi rapporti con gli altri, non può non adoperarsi ad essa tanto più in seno alla Chiesa di cui fa parte perché Cristo stesso è stato un riconciliatore: “È piaciuto infatti a Dio che abiti in lui tutta la pienezza e che per mezzo di lui e in vista di lui siano riconciliate tutte le cose, avendo pacificato con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli” (Colossesi 1.19, 20).

Chi davvero crede, ha avuto la sua persona lavata e santificata dal sangue di Gesù, deve fare altrettanto: “Chi è tra voi saggio e intelligente? Con la buona condotta mostri che le sue opere sono ispirate a mitezza e sapienza. Ma se avete nel vostro cuore gelosia amara e spirito di contesa, non vantatevi e non dite menzogne contro la verità. Non è questa la sapienza che viene dall’alto: è terrestre, materiale, diabolica; perché dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni. Invece la sapienza che viene dall’alto è pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera. Per coloro che fanno opera di pace viene seminato nella pace un frutto di giustizia” (Giacomo 3.13-18).

Ecco gli operatori di pace: saranno chiamati, riconosciuti da Dio stesso come suoi figli. Amen.

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5.07 – LE BEATITUDINI 6: I PURI DI CUORE (Matteo 5.3-10)

05.07 – Il sermone sul monte : le beatitudini VI (Matteo 5.3-10)

 

3«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. 4Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. 5Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. 6Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. 7Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. 8Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. 9Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. 10Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli”.

BEATI I PURI DI CUORE

E arriviamo al cuore, argomento molto vasto cui anche la letteratura ha dato uno spazio enorme in tutte le epoche: quest’organo, così complesso e fondamentale per la vita non solo degli esseri umani, è stato da sempre visto come la sede dei sentimenti e dei pensieri, mutando i propri battiti in base alle emozioni e non solo allo sforzo fisico. Il cuore, assieme allo stomaco e al fegato, è suscettibile allo stress anche cronico e, se prolungato, può danneggiare in modo grave tutto il sistema cardiovascolare tramite l’ipertensione, a sua volta causa di inconvenienti anche gravi. Nella Bibbia il cuore è visto come l’organo che risponde alle emozioni e che arriva a influenzare fortemente quello che dovrebbe essere teoricamente, asetticamente, un altro ente del tutto autonomo, cioè il cervello dal quale scaturiscono tutti gli impulsi, spesso automatici, per la nostra vita e sopravvivenza. Allora non si sapeva che il cuore possiede dei neuroni che lo abilitano ad agire indipendentemente dal cervello che in alcuni casi, come dimostrano le ricerche del californiano HearthMath Insitute, gli obbedisce.

La conoscenza della fisiologia del muscolo cardiaco, tanto ai tempi del Nuovo che dell’Antico Patto, nonostante allora fosse elementare, aveva individuato comunque delle linee di base valide ancora oggi: pensiamo solo a Proverbi 14.30 “Un cuore calmo è vita per il corpo, ma l’invidia è il tarlo delle ossa”, o a 4.23 “Custodisci il tuo cuore più di ogni altra cosa, perché da esso sgorgano le sorgenti della vita”. Collegato a questo verso, che troviamo in 14.30 possiamo citare 17.22 “Un cuore allegro è una buona medicina, ma uno spirito abbattuto inaridisce le ossa”.

La “cardiologia biblica”, però, al di là di questi esempi e molti altri che si possono trovare in cui il cuore è citato nelle situazioni più disparate, si occupa fondamentalmente di lui come motore delle azioni e delle scelte della persona e la prima volta in cui viene nominato in tal senso la troviamo poco prima del terzo giudizio di Dio sull’uomo mediante il Diluvio: “Ora Iddio vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che tutti i disegni dei pensieri del loro cuore non erano altro che male in ogni tempo” (Genesi 6.5). Era un’umanità che pensava esclusivamente a se stessa, che si preoccupava della propria sopravvivenza materiale cercando di riempire il proprio tempo senza interrogarsi su come affrontare degnamente la propria vita e la propria morte in vista dell’eternità di cui conosceva l’esistenza; leggiamo infatti che “Dio ha fatto ogni cosa bella al suo tempo: egli ha messo la nozione dell’eternità nel loro cuore, senza però che gli uomini possano capire l’opera compiuta da Dio dal principio alla fine” (Ecclesiaste 3,11). Per questo le religioni sono un tentativo umano per sopperire a questo senso innato. Per questo, quando un uomo muore, se non è illuminato dallo Spirito Santo, ha paura.

Il cuore, quindi, caratterizza la vita dell’essere umano ed è visto come sede del vero motore delle scelte che poi effettivamente andrà a compiere perché, attratto dalle emozioni che lo stimolano in positivo, tenderà ad agire e progettare affinché durino il più possibile o si realizzino in futuro. “Cuore” è una parola che nella Scrittura è usata circa mille volte e solo in una parte, il 20 per cento, si allude al muscolo vero e proprio; per il resto la sua applicazione è figurata ed è connessa tanto all’uomo naturale che tutti conosciamo, quello che “non comprende le cose di Dio, perché per lui sono follia, e non è capace di intenderle, perché possono essere giudicate solo per mezzo dello Spirito” (1 Corinzi 2.14), quanto a quello spirituale, tale perché Dio stesso è intervenuto personalmente a renderlo così. Sono realtà tra le quali c’è un baratro, un mondo differente per modo di vita, aspirazioni e prospettive perché nessuno sarebbe mai in grado di essere un “puro di cuore” senza un intervento di Colui che lo ha creato e accolto.

Sotto questo aspetto sono gli scritti dell’Antico Patto a illuminarci per primi, tutta la storia del popolo di Israele che, nonostante l’assistenza continua di Dio dal momento in cui lo chiamò fuori dall’Egitto fino ad arrivare alla venuta di Gesù Cristo, si sviò provando su di sé giudizi anche terribili. Precisazione obbligatoria: se il verso che abbiamo citato molte volte, “Questo popolo mi onora con le labbra, ma suo cuore è lontano da me”, è riferito al popolo eletto, questo non vuol dire che non possa applicarsi anche al cristianesimo quando questo lascia che sia l’abitudine e la ritualità a prevalere sulla coscienza, sul cuore, come recita il proverbio profano “passata la festa, gabbato il santo”; solo perché si crede, non siamo autorizzati a fare qualsiasi cosa perché “tanto siamo salvati” o “tanto Dio ci protegge”. C’è una diffusa opinione in base alla quale ciò che è scritto nell’Antico Patto siano cose passate e non ci riguardino perché viviamo nella dispensazione della grazia, ma non è così: ricordiamoci sempre che Gesù non venne per abolire la Legge, ma per adempierla e che essa è e rimane il metro per misurare il bene e il male.

Nella sua prima lettera ai Corinzi Paolo di Tarso fa una lunga esposizione invitando i cristiani di quella Chiesa a considerare l’esempio di Israele e i suoi errori pagati a caro prezzo, con queste parole: “Ciò avvenne come esempio per noi, perché non desiderassimo cose cattive, come le desiderarono loro. Non diventate idolatri come alcuni di loro, secondo quanto sta scritto: «Il popolo sedette a mangiare e a bere e poi si alzò per divertirsi». Non abbandoniamoci all’impurità come si abbandonarono alcuni di loro e in un solo giorno ne caddero ventitremila. Non mettiamo alla prova il Signore, come lo misero alla prova alcuni di loro e caddero vittime dei serpenti. Non mormorate, come mormorarono alcuni di loro, e caddero vittime dello sterminatore. Tutte queste cose però accaddero a loro come esempio, e sono state scritte per nostro ammonimento, di noi per i quali è arrivata la fine dei tempi. Quindi, chi crede di stare in piedi, stia attento a non cadere” (10.5-11).

Paolo qui si guarda bene dal dichiarare che lo sviarsi per noi è impossibile; certo Gesù ha pagato per i peccati che possiamo sempre commettere nella carne, ma una cosa è camminare uniti a Lui e cadere per un incidente di percorso, altra cosa è desiderare cose cattive nel proprio intimo, cioè non porre freno a ciò che sappiamo essere male, o cadere nell’idolatria, cioè sostituire una persona o uno stile di vita diverso a quello ricevuto o rivelatoci un giorno, mettere Dio alla prova con una condotta che rientri nel comandamento “Non tentare il Signore Iddio tuo”.

Rientrando ora in tema, il cuore è un problema sia a livello di corpo, perché soggetto ad ammalarsi come tutti gli altri organi, sia a livello spirituale e di questo se ne accorsero molti, soprattutto quanto a motore delle azioni, positive o negative: ricordiamo ad esempio Davide che, conscio del proprio peccato e del fatto che da solo non avrebbe mai potuto fare nulla per mutare la propria condizione, scrisse nel Salmo 50: “Pietà di me, o Dio, nel tuo amore: nella tua grande misericordia cancella la mia iniquità. Lavami tutto dalla mia colpa, dal mio peccato rendimi puro. Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo. Non scacciarmi dalla tua presenza e non privarmi del tuo santo spirito. Rendimi la gioia della tua salvezza, sostienimi con uno spirito generoso. Insegnerò ai ribelli le tue vie e i peccatori a te ritorneranno”. Ricordiamoci che quella che abbiamo letto è la preghiera di un re costituito su Israele che non si assolse, ma si prostrò riconoscendo di avere bisogno dell’intervento di Dio nella sua vita per poter sussistere.

Ancora, sono determinanti le parole di Ezechiele che sottolineano l’impossibilità fisica di un rinnovamento umano senza un preciso operare di Dio: “Vi aspergerò di acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre iniquità e da tutti i vostri idoli; vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo le mie leggi e vi farò osservare e mettere in pratica le mie norme” (Ezechiele 36.25-27). Un rinnovamento, dunque, un miracolo.

A questo punto è inevitabile chiedersi se su quell’altopiano in cui Gesù proclamò le beatitudini ci fossero dei puri di cuore. Potremmo azzardare che Nostro Signore, facendo un collegamento estensivo, si rivolgesse a degli israeliti come Natanaele, uomo in cui non c’era “alcuna frode”, ma sbaglieremmo perché la chiave di lettura corretta risiede in due parole, “puri” e “cuore”.

I farisei avevano strutturato rigidamente il concetto di purezza, esasperandolo e vedendolo come l’osservanza di una serie di precetti, per non contaminarsi, che prendevano dalla Legge trasmessa al popolo da Mosè. In questo caso Gesù fa riferimento alla purezza levitica esteriore ottenuta mediante l’abluzione rituale, che vedeva in quel caso l’uomo “puro” se applicava alcune norme di comportamento. Leggiamo in proposito Marco 7.14,15: “Chiamata di nuovo la folla, diceva loro «Ascoltatemi tutti e comprendete bene! Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro, ma sono le cose che escono dall’uomo che lo rendono impuro”. Ora, dopo queste parole, fu interrogato dai discepoli che non avevano capito. Disse loro “«Così neanche voi siete capaci di comprendere? Non capite che tutto ciò che entra nell’uomo dal di fuori non può renderlo impuro, perché non gli entra nel cuore, ma nel ventre e va nella fogna?». Così rendeva puri tutti gli alimenti. E diceva: «Ciò che esce dall’uomo è ciò che lo rende impuro. Dal di dentro, infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultéri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono l’uomo impuro»” (Marco 7. 18-23).

E vediamo allora che il cuore ritorna, e vediamo che Gesù elenca ciò che sono le vere impurità che contaminano la sua creatura e da dove provengono. Ecco quindi che essere “puri” legalmente è una cosa, esserlo “di cuore” è un’altra. “Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio”, espressione che nel linguaggio dell’Antico Patto si riferiva ai membri della corte, quelli che vedevano la faccia del re. “Vedranno Dio” è poi un’espressione che si rifà alle parole che Lui stesso disse a Mosè che gli chiedeva di vedere il Suo volto: “L’uomo non può vedermi e vivere”.

Saranno quindi i puri di cuore a vedere Dio, cioè tutti coloro che rientreranno nella categoria descritta in 1 Corinzi 6-9,11: “Non sapete che gli ingiusti non erediteranno il regno di Dio? Non illudetevi: né immorali, né idolatri, né adulteri, né depravati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né calunniatori, né rapinatori erediteranno il regno di Dio. E tali eravate alcuni di voi! Ma siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio”.

Una degna conclusione di questa beatitudine possono essere le parole di Giovanni nella sua prima lettera: “Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando Egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come Egli è” (3.2). Amen.

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5.06 – LE BEATITUDINI 5: I MISERICORDIOSI (Matteo 5.3-10)

5.6 – Il sermone sul monte : le beatitudini V (Matteo 5.3-10)

3«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. 4Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. 5Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. 6Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. 7Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. 8Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. 9Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. 10Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli”.

BEATI I MISERICORDIOSI

Altra beatitudine, terza per la condizione dello spirito e quinta in ordine cronologico. L’aggettivo si riferisce a chi prova un sentimento di compassione per l’infelicità altrui che spinge ad agire per alleviarla, ma anche alla pietà che muove a soccorrere, a perdonare, a desistere dal punire. Il misericordioso è colui che antepone l’altro a se stesso nel senso che partecipa alle sue sofferenze, vede le condizioni in cui versa il suo prossimo e si preoccupa di lenirle, di comprendere; in poche parole, è una persona caritatevole nel senso spirituale del termine. La misericordia, del resto, è la prima azione con la quale Iddio si caratterizzò dopo la trasgressione e il conseguente giudizio dei nostri progenitori in Eden, poiché leggiamo “Poi l’Eterno Dio fece ad Adamo e sua moglie delle tuniche di pelle, e li vestì” (Genesi 3.21): solo con quelle tuniche e non con le foglie di fico con le quali i nostri progenitori avevano cercato di coprirsi sarebbero stati in grado di affrontare la vita nuova che li attendeva al di là di quel giardino protetto da qualsiasi contaminazione. Dio non inferì, non chiuse i rapporti con la sua creatura, ma si preoccupò di fornirle un abito che potesse proteggerlo nel nuovo mondo in cui andava ad abitare. Inoltre, continuò a comunicare con loro nonostante il peccato, per quanto non come prima, come deduciamo dal fatto che dimostrava di gradivre le offerte di Abele e non quelle di Caino.

La dichiarazione della beatitudine per i mansueti era ed è però rivolta a uomini particolari che anteponevano la misericordia al sacrificio. Guardiamo brevemente le queste parole: “Seminate per voi secondo giustizia e mietete secondo misericordia; dissodatevi un campo nuovo, perché è tempo di cercare il Signore finché Egli venga e diffonda su di voi la giustizia” (…) “Preparate le parole da dire, tornate al Signore e ditegli «Togli ogni iniquità. Accetta ciò che è bene: non offerta di tori immolati, ma la lode dalle nostre labbra»” (Osea 10.12; 14.3). Tanto le parole di Osea che quelle di Gesù erano rivolte a uomini che vivevano ancora l’Antico Patto, ma vediamo espressi dei concetti molto importanti e che si raccordano tra loro: il popolo viene esortato a seminare “secondo giustizia”, cioè mettere le basi per una condotta nuova che non cercasse più la facilità dello sviare dal cammino preparato per loro e mietere “secondo misericordia”, cioè con la disposizione d’animo dell’umile che ringrazia per l’esaudimento e non quella dell’orgoglioso perché “ha fatto un buon lavoro” e raccoglie il frutto delle sue fatiche perché se lo merita. È l’orgoglio che pretende, non l’umiltà.

C’è poi l’invito a dissodarsi “un campo nuovo”, cioè se stessi, la propria anima paragonata a un campo – vedi la parabola dei terreni, da quello arido a quello che porta frutto – che va dissodato. Se un terreno va dissodato è segno che non è mai stato interessato da un uso agricolo oppure è rimasto incolto per molti anni. Dissodare un terreno è un’azione che passa attraverso varie fasi: prima va ripulito disboscandolo e decespugliandolo – attività faticosa – e poi bisogna rompere la compattezza del suolo anche in profondità per metterlo in condizione di fare attecchire le nuove coltivazioni. Questo tipo di lavoro è necessario “perché è tempo di cercare il Signore finché Egli venga e diffonda su di voi la giustizia”, cioè quella vera, quella che non si ha per natura. Il secondo verso poi, con le parole “Preparate le parole da dire” non vuole consigliare l’ipocrita costruzione di un discorso da fare, ma un esame sincero della propria coscienza, delle cose dette e non dette, fatte e non fatte, è un consiglio perché “tornate al Signore” è l’unica possibilità che gli uomini hanno per poter sussistere come persone, come esseri bisognosi di una dignità che altrimenti non potrebbe concretarsi.

La preghiera è “Togli ogni iniquità”: solo Lui lo può fare, agire, togliere. E in quell’ ”ogni” c’è tutto il nostro limite perché spesso non vediamo il nostro peccato, come quello commesso per ignoranza. Ricordiamo le parole della Legge: “Se uno pecca e, senza rendersene conto, commette qualunque cosa che l’Eterno Dio ha vietato di fare, è ugualmente colpevole e ne porta la pena” (Levitico 5.17).

Ecco allora che non gli uomini di allora, non noi, siamo quelli che ci possiamo l’autoassolvere: questo è impensabile, la colpa resta e ce la si porta dietro a meno che Dio stesso intervenga per toglierla. E “Ogni iniquità” si riferisce proprio alla Sua misericordia e onnipotenza. Infine la preghiera dell’accettare “ciò che è bene” esclude la formalità del sacrificio, ma richiede la lode delle labbra come frutto di un cuore rinnovato. Conosciamo il detto “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me”che Gesù disse un giorno,manon si pensa che il verso che cita prosegue con“…e il timore che ha di me non è altro che un comandamento imparato dagli uomini” (Isaia 29.13): non è altro che un comandamento, quindi una tradizione, un’abitudine che va avanti per forza di inerzia, qualcosa di accettato passivamente, perché così si deve fare, ma la cui ragione non è stata assimilata. Se nei radunamenti delle varie Chiese cristiane se pensasse a questo verso, forse sorgerebbero degli interrogativi sui motivi della presenza in esse. L’abitudine porta alla disgregazione del proprio essere, in tutti i campi. Non può esserci avvicinamento dell’uomo a Dio senza una demolizione dei preconcetti e dei metodi che ne hanno contrassegnato l’esistenza.

Abbiamo citato poco fa Abele e Caino; guardiamo le parole che Dio rivolse al futuro fratricida: “Perché tu sei irritato e il tuo volto è abbattuto? Se fai bene, non sarai tu accettato? Ma se fai il male, il peccato sta spiandoti alla porta e i suoi desideri sono rivolti a te. Ma tu, devi dominarlo” (Genesi 4.6,7). Ecco, Caino era stato invitato con una semplicità e una verità disarmanti, a esaminare ciò che gli impediva di essere come Abele. Gli sarebbe bastato poco per cambiare, ma non volle.

Dissodarsi un campo nuovo, quindi, vuol dire distruggere tutto ciò che abbiamo di inutile, che non serve, che non possiamo portare con noi quando verremo chiamati attraverso la morte o quella trasformazione vista nel “batter d’occhio” di cui si parla in 1 Corinti 15.52. E in questo lavoro non saremmo mai lasciati soli.

Per dissodare un campo, nello specifico noi stessi, ci vuole tempo, bisogna capire profondamente le ragioni e la necessità di farlo, si tratta di agire nel proprio interesse perché “Il misericordioso fa bene a se stesso, ma il crudele tormenta la sua stessa carne” (Proverbi 11.17). Tutto ritorna indietro, tutto viene messo in conto di giustizia o di condanna a tal punto che “Chi ha pietà del povero presta all’Eterno, che gli contraccambierà ciò che egli ha dato” (Proverbi 19.17) ed ecco perché Gesù disse “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, lo avete fatto a me” (Matteo 25.31). Tanto nel bene quanto nel male, attenzione! La sintesi assoluta del discorso giunge poi con l’imperativo “Siate misericordiosi come misericordioso è il Padre vostro”, parole riportate in Luca 6.36 nella sua versione dello stesso sermone sul monte.

A questo punto, dopo aver dato una panoramica generale che credo possa portare a diverse riflessioni personali, scendiamo un po’ più sul concreto, sul concetto già espresso nell’introduzione alle beatitudini che rappresentano il contrario di quello che il mondo spesso ritiene, tendendo ad ammirare chi ha costruito imperi versando sangue innocente e dolore in ogni epoca. Possiamo dire che, nelle beatitudini dichiarate da Gesù ci siano gli esatti contrari di quelle sataniche e che con la frase “…perché troveranno misericordia” viene anticipato ciò che il misericordioso troverà un giorno quando si troverà di fronte a Lui. E qui si apre un mondo di possibilità e di riferimenti tanto per il Suo uditorio di allora quanto per quello di oggi: i misericordiosi la troveranno perché “Se voi perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi; ma se non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe” (Matteo 6.14,15). Un perdono che non si può generalizzare, ma che può venire solo di fronte al pentimento della persona che ha offeso con parole o atti. “State attenti a voi stessi! Se un tuo fratello pecca, rimproveralo, ma se si pente, perdonagli. E se pecca sette volte al giorno contro di te e sette volte ti dice «Mi pento», tu gli perdonerai”  (Luca 17.3,4).

C’è un confine tra la misericordia e la debolezza esattamente come l’essere mite o mansueto: sono caratteristiche, qualità, che non possono essere a senso unico, che non possono manifestarsi, contrassegnare l’individuo “a prescindere” perché altrimenti Dio stesso, che misericordioso lo è, non potrebbe essere il Giudice perfetto, che per l’ebraico è sia l’amministrazione del giudizio obiettivo e imparziale, ma include anche il provvedere a, difendere e punire. In altri termini, la misericordia non può venire data sempre e comunque, ma richiede il pentimento perché si possa innescare.

Parole illuminanti sulla differenza tra uomini e uomini le troviamo in due episodi nei Vangeli; le prime sono riferite a quanti seguivano Gesù: “Sceso dalla barca, vide una grande folla ed ebbe compassione di loro perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise ad insegnare loro molte cose” (Marco 6.34). Erano lì, non sapevano e non avevano nulla al di fuori della loro ignoranza. Bisognosi di tutto, di sapere, di conoscere, di avere un’identità, chi li guidasse perché la pecora, senza un pastore che la guidi e se ne prenda cura, è inevitabile che vada nel pericolo. Ma erano disposti ad ascoltarlo. Per gli scribi i farisei e il popolo a lui contrario disse però “Serpenti, razza di vipere, come potrete sfuggire alla condanna della Geènna? Perciò ecco, io mando a voi profeti, sapienti e scribi: di questi, alcuni li ucciderete e crocifiggerete, altri li flagellerete nelle vostre sinagoghe e li perseguiterete di città in città;perché ricada su di voi tutto il sangue innocente versato sulla terra, dal sangue di Abele il giusto fino al sangue di Zaccaria, figlio di Barachia, che avete ucciso tra il santuario e l’altare. In verità io vi dico: tutte queste cose ricadranno su questa generazione”.(Matteo 23.33-36).

Dio, pur volendo che tutti gli uomini siano salvati, non si rivela a tutti, ma a un tipo di persone di indole – non di merito – precisa: “Con l’uomo buono tu sei buono, con l’uomo integro tu sei integro, con l’uomo puro tu sei puro e dal perverso non ti fai ingannare” (2 Samuele 22.26,27) e “il giudizio sarà senza misericordia contro chi non avrà avuto misericordia” (Giacomo 2.13). Perché? Perché chi è privo di pietà prende posizioni opposte a quelle del Creatore che si è rivelato come misericordioso attraverso i secoli a tal punto da dare il Figlio Unigenito “affinché chiunque creda in lui non perisca, ma abbia vita eterna”.

I requisiti della quinta beatitudine si possono acquisire poi non con la pratica, cioè con lo sforzo, ma con l’acquisizione e la sperimentazione di quanto Dio ha fatto e fa con noi, con il confronto personale con Lui, chiamati come siamo a non guardare gli errori degli altri, ma i nostri prima di tutto, come rileviamo dall’insegnamento della pagliuzza e della trave nell’occhio. Chi guarda agli errori e ai peccati altrui, è persona che spesso ha paura di esaminare i propri, si rifugia spesso nell’integralismo, figlio prediletto dell’ignoranza, e tende a prendere posizioni estreme che altro non possono fare se non generare contese e risentimento. Così scrive l’apostolo Paolo agli Efesi: ““Sia rimossa da voi ogni amarezza, ira, cruccio, tumulto e maldicenza con ogni malizia. Siate invece benigni e misericordiosi gli uni verso gli altri, perdonandovi a vicenda, come anche Dio vi ha perdonato in Cristo” (4.32).

Abbiamo citato l’apostolo Paolo: l’intervento di Dio verso di lui fu a dir poco sorprendente perché era un persecutore della Chiesa ed era consenziente alla lapidazione di Stefano e quindi, se lo possiamo definire versato nella Legge (era fariseo), certo qualificarlo come misericordioso è quanto meno azzardato. Eppure fu chiamato direttamente in visione da Gesù e più volte nelle sue lettere parla del suo passato riconoscendo i propri errori. In 1 Timoteo 1.12-17 leggiamo la sua esperienza di uomo trasformato dall’amore di Cristo: “Rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me,che prima ero un bestemmiatore, un persecutoree un violento. Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo per ignoranza, lontano dalla fede, e così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù. Questa parola è degna di fede e di essere accolta da tutti: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io. Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Cristo Gesù ha voluto in me, per primo, dimostrare tutta quanta la sua magnanimità, e io fossi di esempio a quelli che avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna. Al Re dei secoli, incorruttibile, invisibile e unico Dio, onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen”.

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5.05 – LE BEATITUDINI 4: FAME E SETE DI GIUSTIZIA (Matteo 5.3-10)

5.5 – Il sermone sul monte : le beatitudini IV (Matteo 5.3-10)

3«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. 4Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. 5Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. 6Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. 7Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. 8Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. 9Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. 10Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli”.

BEATI QUELLI CHE HANNO FAME E SETE DELLA GIUSTIZIA

Condizione che denota l’impossibilità di sfamarsi e dissetarsi nonostante se ne avvertano i sintomi. Chi ha fame e sete cerca di soddisfare questo bisogno primario cercandolo ovunque possa, ma se permane in questa condizione vuol dire che ciò che ha eventualmente assunto ha fallito il suo scopo, non ha risolto il suo problema e cerca di sfamarsi e dissetarsi a sazieà. Questa applicazione è però più adatta alla nostra visione che a quella dell’uditorio di Gesù, che poneva il riferimento, come già avvenuto nelle sue precedenti enunciazioni, a passi che erano, o potevano essere, noti, primo fra tutti il Salmo 89.14 che recita “Giustizia e diritto formano la base del tuo trono, benignità e verità vanno davanti al tuo volto” e la conseguente supplica di Davide, conscio di essere in difetto: “Vivificami nella tua giustizia” (Salmo 112.40), parola che nella Scrittura indica la giustificazione davanti a Dio e la santità della vita vista nel perfetta conformità al Suo volere.

Credo che in questa fame e in questa sete si riassuma tutto il vissuto di quanti tra il popolo di Israele attendevano l’Unto del Signore di cui Isaia scrisse “La giustizia sarà fascia delle sue reni e la fedeltà la cintura dei suoi fianchi” (11.5) perché consci non solo si non averne, ma che neppure essa poteva trovarsi sulla terra, altro grande tema compreso in questa beatitudine. Davide scriveva “La mia anima è assetata di Dio, del Dio vivente” (Salmo 42.2), quindi non di un dio qualunque inventato o presunto: si tratta di quel Dio vivente, Unico e vero che legge nel cuore umano che chiama anche attraverso una fame e sete così particolare che non tutti provano. Essere “affamati e assetati di giustizia” significa escludere la propria, così facile e immediata, soprattutto così su misura per l’uomo naturale, sempre pronto a giudicare e condannare il proprio simile non pensando, non sapendo e spesso volutamente ignorando di compiere le stesse cose di chi condanna.

E ancora una volta qui si aprono due mondi, quello terreno e quello spirituale che proprio nell’uomo affamato e assetato di giustizia trovano il loro punto di incontro, una base, una possibilità, vista prima di tutto nel credere in Lui. Andiamo alle origini, in Genesi 15 che contiene un passo che tutti i lettori della Bibbia conoscono per essere stato citato dall’apostolo Paolo nella sua lettera ai Romani a proposito della giustificazione per fede. Troviamo Abamo a colloquio con Dio, in uno dei tanti avuti con Lui in cui già aveva avuto modo di illustrargli il Suo progetto anche sulla sua discendenza. “…la parola dell’Eterno fu rivolta in visione ad Abramo, dicendo: «Non temere, Abramo, io sono il tuo scudo e la tua ricompensa sarà grandissima». Ma Abramo disse «Signore, Eterno, che mi darai, perché io sono senza figli e l’erede della mia casa è Eliezer di Damasco? (…) Tu non mi hai dato alcuna discendenza; ora ecco, uno nato in casa mia sarà mio erede». Allora la parola dell’Eterno gli fu rivolta, dicendo «Questi non sarà tuo erede, ma colui che uscirà dalle tue viscere sarà tuo erede». Poi lo condusse fuori e gli disse «Guarda il cielo e conta le stelle, se le puoi contare» quindi aggiunse «Così sarà la tua discendenza». Ed egli credette a Dio, che glielo mise in conto di giustizia” (Genesi 15.1,6).

Ebbene, il “credere” di Abramo gli fu messo “in conto di giustizia” non solo perché aveva fatto sua la promessa fattagli in quel momento, ma soprattutto perché non dubitò nonostante gli anni che aveva, che erano 86 (Genesi 16.16), in cui avere figli è impossibile. “Credere a Dio” in questo caso è riconoscerlo come tale, tacere nel momento in cui Lui parla, non porre barriere, non rispondere con un “ma” alle Sue parole. Abramo sapeva che, come disse Gesù, “Ciò che è impossibile per gli uomini, è possibile per Dio”. Il credere di Abramo indicava una mente e un cuore a Lui rivolto indipendentemente dalla condizione di peccatore, quindi di inferiorità assoluta, in cui si trovava. Dobbiamo infatti sottolineare che il testo di Genesi nulla ci dice di quello che fece tra i suoi 86 e i 99 anni, età che aveva quando “…l’Eterno gli apparve e gli disse «Io sono il Dio onnipotente, cammina alla mia presenza e sii integro; e io stabilirò il mio patto fra me e te, e ti moltiplicherò grandemente»” (17.1,2), ben 13 anni dopo. E 13 anni di silenzio sono umanamente tanti. Abramo esteriormente era una persona come molte, eppure fu eletto, chiamato da Dio che lo scelse. Guardando alla storia di quest’uomo, vediamo che il suo nome compare alla fine dell’elenco della discendenza di Sem e poi a un certo punto Dio irrompe nella sua vita, quando aveva 75 anni, con una chiamata: “Vattene dal tuo paese, dal tuo parentado e dalla casa di tuo padre nel paese che io ti mostrerò, e io farò di te una grande nazione e ti benedirò grandemente e renderò grande il tuo nome e tu sarai una benedizione” (12.1). Abramo avrebbe potuto benissimo rimanere dov’era, rispondere “No, grazie” perché non credo non si trovasse a suo agio circondato dai parenti con cui i legami, nella realtà tribale di allora, erano molto stretti. Eppure se ne andò, lasciò il suo ambiente, ritenendo le benedizioni che gli venivano promesse migliori.

Ora, sappiamo che fu il “credere” e il conseguente agire che gli fece avere l’accreditamento in giustizia di cui abbiamo letto. Fu una scelta naturale così come altrettanto naturale, conseguente, fu il modo con cui Iddio lo considerò, cioè “giusto” nonostante i suoi errori anteriori e posteriori, che troviamo documentati in Genesi. Abramo fu una delle persone descritte in Salmo 25.9 “Buono e retto è il Signore: indica ai peccatori la via giusta, guida i mansueti secondo giustizia, insegna agli umili la sua via”, là dove i peccatori sono tutti gli uomini senza distinzione. Basta solo che questa via essi la vogliano riconoscere e seguire per rimediare alla condizione che, in quanto tali, non avrebbero mai modo di modificare. Ai peccatori indica la via giusta, la sola che li possa salvare, in alternativa alle tante che possono percorrere sospinti dalla loro natura. Chi è peccatore non sa dove andare, fa percorsi a caso in base ai propri sensi che lo dominano al momento e cambia strada nell’attimo stesso in cui questi mutano. Non compie scelte libere perché nessuna delle direzioni che prende è dominata dalla ragione, ma dal suo sentire momentaneo.

Eppure, se la destinazione finale è l’eternità, la via, la verità e la vita non possono che essere una sola. I mansueti, i docili al suo volere, vengono guidati secondo giustizia perché tutti i sentieri di Dio lo sono. E agli umili, tradotti anche “poveri” con evidente richiamo a quelli di spirito, insegna la Sua via: “insegnare” significa etimologicamente “mettere segni nella mente”, dal latino “in-signare”, cioè “mettere un segno dentro” e, da vocabolario, “In genere, colui che insegna fa sì, con le parole, con spiegazioni, o anche solo con l’esempio, che qualcun altro acquisti una o più cognizioni, un’esperienza, un’abitudine, la capacità di compiere un’operazione o apprenda modo di fare un lavoro”.

Ogni essere umano sa fare qualcosa per averlo appreso da qualcun altro, ma nessuno è in grado per natura di conoscere le cose di Dio, salvo che Lui glielo insegni, gli imprima nella mente se non altro i fondamenti di cosa voglia dire camminare secondo la Sua volontà. Il resto viene col tempo.

Ecco, credo che su questi principi si basi la fame e la sete della giustizia, che per la moltitudine che ascoltava Gesù si riferiva a un concetto preciso, così diverso da quello degli scribi e dei farisei che ritenevano di possederla già per i loro meriti di studio e abnegazione alla legge formale che si erano costruiti: “Se la vostra giustizia non supera quella degli scribi e dei farisei, voi non entrerete affatto nel regno dei cieli” (Matteo 5.20). La folla che era lì, che penso fosse composta da molti che cercavano nel Cristo la fonte della giustizia o volevano anche solo sentirlo parlare, viene così messa in condizione, nello stesso frangente, di valutare da sola cosa cercasse, domanda che fu la prima rivolta a Giovanni e Andrea: “Cosa cercate?”.

Ci vuole quindi fame e sete di giustizia per rivolgersi a Gesù, sapendo che in lui e in nessun altro la si può trovare. Abbiamo letto nel Salmo 25 che “il Signore indica ai peccatori la via giusta, guida i mansueti secondo giustizia, insegna agli umili la sua via”, azioni al presente ma che denotano continuità nel tempo perché la giustizia di cui si ha fame e sete comprende un percorso visto prima di tutto nella giustificazione davanti a Dio, poi nel condurre una vita santa nonostante la nostra imperfezione e le cadute purtroppo inevitabili. E qui è automatico inserire il verso di Paolo che dice “Giustificati dunque per fede, abbiamo pace con Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore” (Romani 5.1). Pace con Dio significa non essere più visti da Lui come ostili ed estranee per cui, altro verso molto conosciuto, “Voi non siete più stranieri né ospiti, ma concittadini dei santi, e membri della famiglia di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti, e avendo come pietra angolare lo stesso Cristo Gesù” (Efesi 2.19,20).

È questo un aspetto dell’essere saziati, che raggiungerà la sua pienezza con la cittadinanza eterna, che già abbiamo, del Regno che sarà instaurato nella nuova terra. Vediamo però il verso di Efesi: “Non siete più stranieri né ospiti”. C’è un presente, non un futuro. Poi, una condizione che è cessata, quella di essere “straniero o ospite”, termini che suggeriscono una temporaneità: lo straniero è chi non appartiene al Paese in cui vive perché a lui estraneo per cultura e origine; l’ospite poi è qualcuno con cui si condivide un periodo “da” ”a” e poi tutto torna come prima. L’ospite è colui che condivide con noi, nella nostra casa o a tavola, un tempo limitato perché destinato a scadere. “Voi non siete più” è qualcosa riferito al passato, come dire “una volta eravate stranieri e ospiti”. Una volta, adesso no. Dimenticate quello che eravate perché questo non conta più, oggi siete persone diverse.

Se hai creduto in Gesù Cristo, se Dio ti ha giustificato per fede, non sei più né uno straniero né un ospite, ma un concittadino dei Santi e un membro della famiglia di Dio, concetto sconosciuto nell’Antico Patto, ma dichiarato nel Nuovo perché Gesù è chiamato “il primogenito fra molti fratelli” (Romani 8.29): è la trasformazione operata dalla Grazia. Io che credo, tu che credi, sono e siamo fratelli di Gesù, cioè apparteniamo alla stessa famiglia e a Lui abbiamo la possibilità di rivolgerci per ogni cosa. “Concittadini dei santi”, cioè di quelli che popolano e popoleranno la “Santa città”, la Gerusalemme che ha da venire, quella nuova, e “membri della famiglia di Dio”, condizione possibile tramite il sublime, perfetto sacrificio del Figlio. Sono prospettive nuove per un peccatore che, se perdonato, ha trovato pace con Dio, cioè ha visto rimuovere la sua condizione di peccato che prima impediva un rapporto con Lui. A volte il cristiano può dimenticarsi di questa comunione che si è venuta a creare, se in essa non si nutre, se ad essa non pensa, se perde di vista la sua cittadinanza vera, se dimentica che, visto il verso che abbiamo letto, ha una carta di identità con su scritto il proprio nome e cognome che lo qualifica come individuo. Può accadere che ci si dimentichi di quanto siamo costati, la morte di quel “Figlio” che è morto e risorto per noi, di essere una persona, un individuo unico e irripetibile per il quale Cristo stesso ha dato la sua vita per salvarlo.

Il credente ha una identità e una dignità che gli altri, quelli che vivono il mondo e per il mondo, non hanno e non possono avere, è radicato su un fondamento che è quello che hanno posto gli apostoli e che ha Cristo come pietra angolare cioè quella che sostiene tutta la costruzione, il corpo, la Chiesa vera che gli apostoli hanno fondato a prezzo di sofferenze e fatiche; alcuni di loro hanno affrontato il martirio non tanto per essere di esempio, ma in quanto non potevano rinnegare quello che avevano ricevuto come elezione, mandato, salvezza, amore.

Poi c’è la promessa, “saranno saziati”: come? Questo avviene sia sulla terra, al presente, che in cielo, in futuro, per la caparra dello Spirito Santo che ci è stato dato, quello che ora attenua la fame e la sete e che in futuro sazierà pienamente. E vengono in mente le parole di Gesù alla donna samaritana: “Chiunque bene di quest’acqua avrà di nuovo sete, ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno”. Amen.

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5.04 – LE BEATITUDINI 3: I MITI (Matteo 5.3-10)

5.4 – Il sermone sul monte : le beatitudini III (Matteo 5.3-10)

3«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. 4Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. 5Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. 6Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. 7Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. 8Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. 9Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. 10Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli”.

BEATI I MITI

Terza beatitudine cronologica, seconda riferita al futuro dopo gli afflitti, dove i “miti” sono tradotti anche con “mansueti”. Il termine è riferito a persone che hanno un carattere dolce e umano, disposto alla pazienza e all’indulgenza, che si comportano con umanità e clemenza, senza severità, durezza o aggressività. Il suo contrario è l’essere impaziente, inesorabile, intransigente, aggressivo, violento, eccessivo.

Nella Scrittura gli esempi che vengono spontanei sono due: Mosè, di cui in Numeri 12.3 è detto che “…era un uomo molto mansueto, più di qualunque altro sulla terra”, e Gesù, che dà di sé questa definizione: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò riposo. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mansueto ed umile di cuore, e darò riposo alle anime vostre” (Matteo 11.28,29). Sempre Matteo connette l’episodio in cui Gesù fece in suo ingresso in Gerusalemme seduto su un’asina allo scritto di Zaccaria 9.9 in cui si legge “Ecco, a te viene il tuo Re. Egli è giusto e vittorioso, mansueto, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina” e quando l’apostolo Paolo dovette trattare il tema dei requisiti del vescovo di una Chiesa, cioè chi ne è responsabile – non può non venire in mente l’Angelo delle sette chiese dell’Apocalisse – ebbe a dire “Ora questa parola è sicura: se uno desidera l’ufficio di vescovo, desidera un buon lavoro. Bisogna dunque che il vescovo sia irreprensibile, marito di una sola moglie, sobrio, assennato, prudente, ospitale, atto ad insegnare, non dedito al vino, non violento, non avaro, ma sia mite, non litigioso, non amante del denaro” (1 Timoteo 3.1-3).

Va detto, dai passi citati, che il mansueto, il mite, è tale per indole ma rappresenta solo una parte della personalità e se fosse presente come caratteristica esclusiva, farebbe dell’individuo una persona debole e priva di possibilità di reazione o difesa. Mosè abbiamo letto che era l’uomo più mansueto di chiunque altro, eppure uccise un egiziano che colpiva un ebreo, evidentemente perché non aveva altro modo per farlo smettere e quelle percosse ne avrebbero causato la morte (Esodo 2.11,12). Va ricordato che tra ebrei ed egiziani c’era un rapporto schiavo – padrone e da parte dei primi non c’era alcuna possibilità di reagire pena punizioni ancora più dure. Per questo, dopo averlo ucciso ed evitare conseguenze, Mosè seppellì quell’uomo nella sabbia. Gesù era mansueto ed umile, ma non si lasciava intimidire dagli Scribi e dai Farisei che lo attaccavano, e cacciò i mercanti dal Tempio anche se non a frustate come molti sostengono. Anche il Suo ingresso in Gerusalemme non avvenne a cavallo, animale possente e sempre associato alla guerra, ai re o principi potenti e gonfi d’orgoglio, ma su un asino, la cavalcatura dei profeti, animale forte, paziente, controllato, mite e socievole. La mansuetudine è pazienza nel sopportare, ma non è cessione dei diritti o vigliaccheria come purtroppo viene scambiata nel mondo che divide le persone nelle categorie di chi subisce o fa subire, ammirando spesso i secondi.

L’apostolo Paolo scrive in Efesi 4.25,26 “Perciò, messa da parte la menzogna, ciascuno dica la verità al suo prossimo, perché siamo membra gli uni degli altri. Adiratevi e non peccate perché il sole non tramonti sopra il vostro cruccio. E non date spazio al diavolo” e nello stesso sermone sul monte, nel passo tradotto “Chiunque si adira contro il suo fratello sarà sottoposto al giudizio” (Matteo 5.22), molti preferiscono ignorare quei manoscritti che specificano “senza ragione”, travisando in questo modo la vera essenza della mansuetudine che non può essere l’unica caratteristica della persona “beata”. È la prevenzione e il controllo di sé che è raccomandato, ma ciò non toglie che vi siano occasioni in cui questa possa avere luogo: “Adiratevi e non peccate”, cioè non eccedete, non comportatevi in modo tale da infierire vendicandovi perché nessun sentimento che possa portare a una condizione di ostilità nei confronti del prossimo può essere coltivato. Già nei tempi antichi era raccomandato “Non ti associare a un collerico e non praticare un uomo iracondo, per non abituarti alle sue maniere e procurarti una trappola per la tua vita” (Proverbi 22.24,25). Anche qui la traduzione, che ho scelto perché più scorrevole in italiano, non rispecchia fedelmente il testo che riporta “…e procurarti un laccio per la tua anima” cioè qualcosa di fortemente penalizzante: il laccio è qualcosa che lega, intrappola, impedisce i movimenti, tiene fermo chi ne viene intrappolato, vincola a un luogo, in questo caso dell’anima. Già la cosiddetta saggezza popolare che ha coniato l’adagio “chi va con lo zoppo impara a zoppicare” aveva capito che una persona normale potesse venire deviata dagli usi altrui e non per nulla il popolo di Israele, entrato in Canaan, non poteva stringere alleanze con gli altri popoli, anzi: “Quando il Signore Iddio tuo ti avrà introdotto nel paese che vai a prendere in possesso e ne avrà scacciate davanti a te molte nazioni,(…)sette nazioni più grandi e più potenti di te, quando il Signore tuo Dio le avrà messe in tuo potere e tu le avrai sconfitte, tu le voterai allo sterminio, non farai con esse alleanza né farai loro grazia. Non ti imparenterai con loro, non darai le tue figlie ai loro figli e non prenderai le loro figlie per i tuoi figli, perché allontanerebbero i tuoi figli dal seguire me, per farti servire a dèi stranieri e l’ira del Signore si accenderebbe contro di voi e ben presto vi distruggerebbe” (Deuteronomio 7.1-4). È un passo indubbiamente forte, riferito ad altri tempi e per un popolo per il quale la testimonianza sarebbe stata fondamentale a tal punto da giustificare uno sterminio per evitare la perdita di un popolo eletto della propria identità. Un popolo che si fa strumento del giudizio insindacabile di Dio. Soprattutto, Israele avrebbe finito per assorbire una cultura estranea che lo avrebbe corrotto, spingendolo all’adorazione di dèi non veri.

Ci sono persone che leggono questo passo e restano inorridite, c’è chi ha scritto articoli e libri sulle “atrocità della Bibbia”, ma si dimentica che il valore della vita umana risiede nella misura in cui questa si rapporta con Dio e lo cerca, non sull’adagio “ogni uomo è mio fratello”, frutto di un equivoco tra chi è uomo e pone la propria sopravvivenza fisica al centro di ogni sua azione – spesso prevaricante sugli altri – e chi è tale perché ha fondato il suo esistere sull’amore e la dipendenza da Dio. Certo la questione è molto più ampia e non credo possa essere affrontata in questa sede.

Mi piace ricordare ancora una volta le parole dell’apostolo Pietro che riconobbe in Gesù “il Figlio dell’Iddio vivente”: un Dio che vive, non immaginato e creato dall’uomo come quello dei sette popoli citati nel passo che abbiamo letto prima. Credo che questa distinzione sia estremamente importante. È molto bello vedere come Pietro, in seguito, dette prova di aver compreso la profondità delle verità dettegli dal suo Maestro, scrivendo due lettere dense di significati e dottrina alle quali sicuramente non sarebbe arrivato senza l’assistenza dello Spirito Santo.

Tornando al nostro tema, il mansueto, il mite, è la persona che più di altre può imparare da Lui, “mansueto ed umile di cuore,” là dove l’imparare è rinunciare a se stessi per provare  quel “giogo” definito “dolce” e il suo carico “leggero”: perché? Il giogo è uno strumento per attaccare i buoi usati come bestie da tiro ed è diventato sinonimo di un dominio oppressivo spesso di un re o di una popolazione su un’altra. Ebbene, Gesù riferendosi agli animali da tiro definisce il suo giogo “dolce” e il suo carico di trasporto “leggero”. Con il possessivo “mio”, poi, dichiara implicitamente che ne esiste un altro e che non ci può essere uomo che non ne sia soggetto: non può esservi giogo alternativo a quello di Gesù che non venga dall’Avversario. E con l’aggettivo “leggero” viene posto l’accento sulla sostanza delle cose, sul fine delle azioni e delle scelte che siamo chiamati a fare in nome di quell’eredità che ci è stata promessa e a cui ogni cristiano tende. Anche qui non si tratta di aderire a una religione per essere qualcuno, per avere un’identità: la vera Chiesa non è un’associazione di volontariato, un circolo più o meno privato, ma un insieme, un corpo di persone diverse per carattere e provenienza storica e sociale che ha compiuto una scelta perché ha aderito a un invito e si ritrova perché unita da un vincolo di fratellanza, salvati dall’amore di Cristo.

Avere su di sé il gioco dell’Avversario significa dipendere in tutto e per tutto dalla casualità della vita, dai propri bisogni, dalla schiavitù della terra intesa come il suolo che ci àncora ad essa senza possibilità di una vera realizzazione ed appagamento spirituale. Ecco perché il “giogo” di Cristo e il carico da portare sono leggeri. E questo ci porta ad estendere il termine di “mansueto” e “mite” perché tendiamo a dimenticare che le caratteristiche esteriori di una persona, quanto al presentarsi agli altri, hanno in realtà radici ben più profonde: il mansueto è una persona interiormente disponibile non solo agli altri, ma nei confronti di tutti quegli “input” che gli vengono dalla Scrittura, trova la sua realizzazione di fronte a quanto scopre, o gli viene rivelato, dalla Parola di Dio. Esiste connessione tra la mansuetudine e la carità che “è magnanima, benevole. Non è invidiosa. Non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede– della Parola di Dio – tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesserà e la conoscenza svanirà. Infatti in modo imperfetto noi conosciamo e in modo imperfetto profetizziamo. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà” (1 Corinti 13. 4-9).

Ecco, credo che questi versi di Paolo siano un ottimo raccordo all’enunciazione di Gesù “Beati i mansueti”, parole dette a persone che già le conoscevano, se non tutti alcuni di loro, perché scritte da Davide nei suoi Salmi e i punti di connessione sono due: il primo in 25.9 “Egli guiderà i mansueti nella giustizia e insegnerà la sua via agli uomini” (25.9) ed il secondo in 37.10,11 “Ancora un po’ e l’empio non sarà più; sì, tu cercherai attentamente il suo posto e non ci sarà più. Ma i mansueti possederanno la terra e godranno di una grande pace”.

Ancora un po’”, è un’ espressione che indica sia un tempo generico, sia preciso, assoluto, quello che Dio ha decretato e che viene ricordato alla moltitudine dei Santi in Apocalisse 6.9-11: “Quando l’Agnello aprì il quinto sigillo, vidi un altare sotto cui stavano le anime di quelli che erano stati uccisi per la loro fedeltà alla Parola di Dio e per la loro testimonianza. Essi chiamavano il Signore a gran voce e dicevano «Fino a quando, o Sovrano vero e santo, aspetterai a giudicare gli abitanti della terra per quello che ci hanno fatto?» Quando chiederai loro conto del nostro sangue?». Ad ognuno di loro fu data una veste bianca e fu detto di aspettare ancora un po’ di tempo, finché non fosse completo il numero dei loro compagni di fede, cioè dei loro fratelli che dovevano essere messi a morte come loro”.

Questi versi testimoniano la differenza del concetto del tempo posseduto dagli uomini e quello di Dio, per cui “un giorno è come mille anni e mille anni sono come un giorno” (2 Pietro 3.8): se ci fossero stati dei “mansueti”, si sarebbero riconosciuti nella Sua promessa: avrebbero ereditato la terra, non quella corrotta del peccato, ma quella a venire. Ed è sempre Pietro a proseguire: “Il Signore non ritarda a compiere la sua promessa: alcuni pensano che sia in ritardo– perché prendevano alla lettera quell’ancora un po’ e credevano che il tempo fosse “vicino” usando i loro parametri umani -, ma non è vero. Piuttosto egli è paziente con voi, perché vuole che nessuno di voi si perda e che tutti abbiano modo di pentirsi” (v. 9).

Riassumendo abbiamo quindi:

  1. “Beati i poveri di spirito, perché di essi è il Regno dei cieli” (perché “il Regno dei cieli è vicino”, ma anche “dentro di voi”;
  2. Beati quelli che fanno cordoglio, perché saranno consolati” (prima beatitudine del primo gruppo di tre riferito alla condizione e al futuro)
  3. Beati i mansueti, perché erediteranno la terra(prima beatitudine del secondo gruppo di tre riferito allo spirito che caratterizza la persona e al futuro).

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5.03 – LE BEATITUDINI 2: QUELLI CHE SONO NEL PIANTO (Matteo 5.3-10)

5.3 – Il sermone sul monte : le beatitudini II (Matteo 5.3-10)

3«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. 4Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati.5Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. 6Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. 7Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. 8Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. 9Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. 10Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli”.

Prima di esaminare la seconda beatitudine occorre una brevissima premessa: stiamo leggendo un testo che riporta le parole di Gesù che, in quel momento, sta parlando a tre categorie di persone: coloro che erano venuti per ascoltarlo e farsi guarire, in gran parte israeliti, i discepoli, in numero ben maggiore rispetto ai dodici che conosciamo, e sicuramente qualche pagano, probabilmente rientrante in quei tanti provenienti dal “litorale di Tiro e Sidone” ebrei e pagani. Ricordiamo le parole di Luca già citate la volta scorsa: “C’era una gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e Sidone che erano venuti per ascoltarlo ed essere guariti dalle loro malattie” (Luca 6.17,18).

Il sermone sul monte ha quindi una doppia possibilità di lettura: una per i presenti e l’altra per tutti coloro che sarebbero venuti dopo di loro e avrebbero preso costruttivamente atto delle Sue parole, quelli di cui parlò Gesù a Tommaso e agli altri quando disse “Tu hai creduto perché hai visto; beati quelli che, pur non avendo visto, crederanno” (Giovanni 20.28).

Pensiamo a chi era su quel monte: si trovava lì dopo aver faticato, percorso molti chilometri perché bisognoso di soddisfare chi la propria sete di parole di vita, chi la propria curiosità, chi perché confidava nel fatto di venire guarito, ma avendo una base culturale diversa dalla nostra che si basava sull’ascolto della Legge e dei Profeti commentati nella sinagoga. Dichiarando la prima beatitudine ai “Poveri in spirito perché di essi è il Regno dei cieli”, Gesù fece una prima distinzione tra coloro che si ritenevano già “ricchi”, e quindi non avevano bisogno di Lui, e i “poveri”, che avrebbero ottenuto la cittadinanza in un regno a loro riservato. Certamente con quella prima frase fu compreso immediatamente, mentre noi abbiamo bisogno di riflettere di più prima di capire, stante le molte interferenze che abbiamo dal nostro tempo, con le sue consuetudini, che inevitabilmente ci condiziona.

BEATI QUELLI CHE SONO NEL PIANTO

Ecco, questa è una traduzione che, se applicata a un testo normale sarebbe accettabile, ma non lo è altrettanto in quello di Matteo perché ci indirizza immediatamente a una manifestazione specifica del dolore, diversa da persona a persona, che più propriamente altri hanno tradotto con “gli afflitti”, o “coloro che sono nell’afflizione” o “che fanno cordoglio”. Per gli israeliti l’afflizione poteva essere certamente individuale, ma c’era un forte senso collettivo come popolo che attendeva il Messia, certo con aspettative diverse da come lui si sarebbe rivelato. Eppure non tutti attendevano un re potente, ma un consolatore. Vediamo ancora il passo di Isaia 61.1-3 che abbiamo citato la volta scorsa: “Lo Spirito del Signore è sopra di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione per recare una buona novella– ecco il Vangelo – agli umili, mi ha inviato a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà agli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l’anno di grazia del Signore, il giorno di vendetta del nostro Dio, per consolare tutti gli afflitti, per dare agli afflitti di Sion una corona invece della cenere, olio di letizia invece di abito da lutto, veste di lode invece di uno spirito mesto”.

Ecco allora la beatitudine: era arrivato il consolatore e anche qui, per accoglierlo e realizzarla, era necessario riconoscere Colui che  era stato consacrato con l’unzione per annunciare il vangelo destinato, riservato agli umili, cioè tutti coloro che avrebbero riconosciuto la propria inferiorità “naturale” espressa nelle parole del Salmo ottavo “Quando io considero i tuoi cieli, opera delle tue dita; la luna e le stelle che tu hai disposte; che cos’è l’uomo, che tu ne abbia memoria? E il figlio dell’uomo, che tu ne prenda cura?”. Ricordiamo che il cielo che vedeva il salmista non era inquinato come oggi, per cui appariva in tutta la sua vastità. Vediamo, sempre nel verso di Isaia, il “fasciare le piaghe dei cuori spezzati”, di cui troviamo traccia nella parabola detta del “buon samaritano” in Luca 10. 25-37 che “Vide – l’uomo mal ridotto dai suoi assalitori, i briganti figura del peccato nelle sue multiformi oppressioni – e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite versandovi olio e vino, poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in albergo e si prese cura di lui”. “Vide” come tutti gli altri che passarono, il sacerdote e il levita, ma al contrario di loro “ne ebbe compassione”, attivandosi perché guarisse. Il Consolatore avrebbe proclamato la libertà agli schiavi, cioè a chi non era considerato nemmeno una persona, e la “scarcerazione” ai prigionieri, termine che può essere tradotto anche con “luce” perché chi era carcerato stava in grotte buie e malsane nella quale la luce non entrava mai. Ricordiamo la prima prigione menzionata dalla Bibbia in Genesi 37.23,24: “Quando Giuseppe fu arrivato presso i suoi fratelli, essi lo spogliarono della sua tunica, quella tunica con maniche lunghe che egli indossava, lo afferrarono e lo gettarono nella cisterna: era una cisterna vuota, senz’acqua”.

“Gli “afflitti di Sion”, coloro che aspettavano consci della loro condizione di schiavitù e per questo portavano la cenere sul capo in segno di penitenza e dolore, avrebbero ricevuto una corona, olio di letizia al posto dell’abito da lutto, cioè una sorta di sacco composto da pelli di capra e cammello, e veste di lode al posto di uno spirito mesto. Tutto questo stava per realizzarsi: beato chi si trovava in questa condizione perché la sua consolazione era giunta.

Possiamo dire che all’umile, al mansueto, all’afflitto e al povero di spirito non interessava avere un re potente che rovesciasse una situazione politica, ma la stabilità e la libertà interiore, ricevere la “buona notizia” che solo l’Emanuele “Dio con noi” poteva dare; quei miracoli che la folla aveva visto erano solo una pallida anticipazione di quello che sarebbe venuto dopo, con il possesso di un Regno che sarebbe stato “dei cieli” e non “della terra” il cui principato è lasciato a Satana. Un altro regno per gente diversa, che sa e si trova mancante nel proprio intimo, che ha bisogno non di un dio, ma di Dio e lo aspetta pronta a riconoscerlo.

Saranno consolati” è poi un termine ampio. C’è la consolazione che si prova nel momento in cui avviene l’incontro con Dio e l’accettazione di appartenergli come figlio, e c’è quella quotidiana, continua, perché nonostante una parte del cristianesimo voglia vedere il credente come perennemente guidato dallo Spirito e quindi in una condizione di continua letizia vista nell’espressione “pace nel cuore”, in realtà è soggetto come tutti gli altri uomini al dolore fisico e morale, al quale si aggiunge quello spirituale, in particolare al conflitto tra la propria natura sempre disposta a cedere alle tentazioni che variano a seconda della propria personalità, e all’astenersene.

Va sottolineato che, se il cammino cristiano fosse semplice, non sarebbe paragonato all’opposto di quella via “larga e spaziosa” che conduce alla perdizione. Ecco perché del Consolatore abbiamo bisogno sempre! Ciascuno di noi si scontra con la propria fragilità e il constatare quanto sia esteso il divario tra ciò che siamo e ciò che vorremmo-dovremmo essere, alla luce della perfezione che ci è richiesta, può a volte essere frustrante. È una perfezione ideale vista nella frase che Gesù dirà proprio in questo discorso sul monte: “Siate dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (v.48). Un cammino verso la perfezione è l’attivazione delle nostre forze per tendere ad essa, il curare noi stessi sapendo che non siamo lasciati soli perché, appunto, c’è un Consolatore che veglia su di noi.

Ecco allora che iniziamo a delineare la figura dell’afflitto del nostro tempo, che poi è quello di tutti coloro che sono vissuti prima di noi da quando lo Spirito Santo è stato dato ai membri della Chiesa di Gerusalemme, destinati ad incontrare ostacoli spirituali di ogni tipo proprio a causa della loro natura umana: “Siate sobri, vegliate. Il vostro nemico, il diavolo, come un leone ruggente va in giro cercando chi divorare. Resistetegli saldi nella fede, sapendo che le medesime sofferenze sono imposte ai vostri fratelli sparsi per il mondo” (1 Pietro 5.8,9).

Attenzione però a vedere queste parole e a vivere il concetto dell’afflitto con fatalità filosofica, guardando a questa condizione come se fosse stabile, perché Pietro continua dicendo “E il Dio di ogni grazia, il quale vi ha chiamati alla sua gloria eterna in Cristo Gesù, egli stesso, dopo che avrete un poco sofferto, vi ristabilirà, vi confermerà, vi rafforzerà, vi darà solide fondamenta” (v.10). È un ricordo, un’esortazione a vivere tenendo presente la prospettiva che ogni cristiano dovrebbe conoscere. E qui ci troviamo di fronte alla vera consolazione, così diversa dal conforto che un uomo può dare al proprio simile, momentaneo: quando finisce lascia la persona nella stessa condizione di prima. “Consolare” implica eliminare radicalmente il problema che causa l’afflizione, un cambiamento di stato, non ci può essere cristiano che non testimoni questa azione di Gesù Cristo nella propria vita, di questa sua opera continua nonostante i propri sbagli, il suo cammino a volte incerto.

Se Gesù si indirizza all’afflitto, significa che c’è chi non lo è, o meglio affronta il dolore in modo sbagliato escludendo Lui che desidera chinarsi per soccorrere (vedi la suocera di Pietro) e lo fa, nel caso del sermone sul monte, proprio dopo aver guarito e liberato persone da infermità e malattie sottolineando che, al ristabilimento del corpo a lungo desiderato, avrebbe fatto seguito quello dell’anima.

Ci chiediamo: di fronte a un dolore, si può solo aspettare che passi? Ci si può solo rassegnare, rinchiudere in uno stoicismo assoluto che indurisce? È una possibilità, un’alternativa che però non porta da nessuna parte perché esclude Cristo dalla nostra vita, quando questo è un mezzo per arrivare a lui o provare il suo sostegno lungo il cammino.

Ricordo le parole di un fratello a proposito di un bambino appena nato: “conoscerà il dolore e si chiederà perché”. Ecco, il perché è nella vita stessa nel senso che occorre accettarlo, non rifiutarlo come se non ci appartenesse. Va accolto, vissuto e posseduto ma, se questo lo faremo da soli, ci tormenterà senza uno scopo, non risolverà in consolazione, ma finirà eventualmente in un archivio disturbante, pronto ad emergere nei momenti più impensati; se sarà un mezzo per arrivare a Cristo, ecco che questo avrà una consolazione, l’unica possibile perché ciò che attende l’afflitto non è un incontro con un generico essere superiore che nella sua magnanimità assoluta risponderà a una preghiera, ma prima di tutto con la Parola fatta carne che, in quanto uomo, ha patito al di là del sopportabile conoscendo fatica e sofferenza in modo perfetto e totale. Ricordiamo quello che scrive l’autore della lettera agli Ebrei: “Perciò doveva rendersi in tutto simile ai fratelli, per diventare un Sommo Sacerdote misericordioso e degno di fede nelle cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo. Infatti, proprio per essere stato messo alla prova e avere sofferto personalmente, egli è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova” (2.17,18).

Gesù Cristo è quindi “in grado” prima di tutto non perché è onnipotente, ma per essere stato “messo alla prova e avere sofferto personalmente”. Lui tutt’uno col Padre, Unico, perfetto e totale intercessore che abbiamo, benedetto in eterno. Amen.

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