12.28 IL CIECO NATO I/VI (Giovanni 9.1-3)

12.28– Il cieco nato I (Giovanni 9.1-3)       

 

1 Passando, vide un uomo cieco dalla nascita 2e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?». 3Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio». 

 

Ci troviamo di fronte ad un episodio particolare della vita di Gesù e delle Sue guarigioni nei confronti dei ciechi, complessivamente sei, perché a differenza delle altre opera su un uomo che era così dalla nascita. Fu un avvenimento che destò una reazione ancor più ferma nei testimoni all’avvenimento che dissero (v.32) “Da che mondo è mondo, non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a uno cieco dalla nascita”. La cecità, in Israele e non solo, era dovuta principalmente alla cataratta e al glaucoma, quindi agli effetti dell’esposizione prolungata ai riflessi del raggi solari e alla polvere. Il fatto che quest’uomo fosse così “dalla nascita” potrebbe far pensare a una malattia genetica, come l’amaurosi congenita di Leber che colpisce la rétina dall’infanzia, oppure a un incidente durante il parto; fatto sta che il cieco in questione era conosciuto in città e, come molti altri infermi, non aveva alternativa per il proprio sostentamento se non quella di chiedere l’elemosina nei pressi del Tempio.

“Passando” e “vide” sono i verbi che Giovanni usa per descrivere le azioni di Gesù; il primo potrebbe lasciarci supporre che l’episodio avvenne poco dopo essere uscito dal Tempio dopo che “si nascose” alla vista di quanti lo volevano lapidare per bestemmia ed ecco la ragione dei dubbi espressi a proposito del collocare il ritorno dei settantadue in questo contesto. D’altro canto però abbiamo la presenza dei discepoli, citati qui e non prima. Il secondo verbo è più interessante perché quel “vide” sottintende un Suo sguardo prolungato che fu notato dai discepoli provocando una domanda che trovava la sua ragione nella credenza profondamente radicata negli ebrei in base alla quale tutte le sofferenze fisiche erano la conseguenza diretta di un peccato. Dal tono della domanda del verso 2 è chiaro che i discepoli erano fermamente convinti che quell’uomo patisse o per peccati commessi anteriormente alla nascita, o per altri da parte dei suoi genitori prima che venisse al mondo.

Certo questa credenza non era sorta da sé né aveva radici superstiziose, ma trovava la sua base in alcuni passi proprio dei libri della Legge di Mosè: ad esempio l’infrazione al secondo comandamento relativa agli idoli aveva come spiegazione “Perché io, il Signore tuo Dio, sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padre nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra la sua bontà fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti” Esodo 20.5,6; 34.7). Anche Geremia 32.18, “Tu usi bontà con mille generazioni e fai scontare l’iniquità dei padri in seno ai figli dopo di loro” conferma le parole della Legge, che comunque sono riferite a un comportamento impenitente e ad un’ostinata volontà di rimanere in un peccato. Ricordiamo anche l’affermazione davvero suicida del popolo a Pilato “Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli”.

Riguardo però al concetto comune sulla malattia e le sofferenze come causa di un peccato anteriore, Gesù interverrà più avanti in Luca 13 quando, commentando il fatto dei Galilei uccisi da Erode nel Tempio (il cui sangue fu mescolato a quello dei sacrifici) e degli uomini sui quali era caduta la torre di Siloe, dirà “Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quelle diciotto persone sulle quali crollò la torre di Siloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo” (vv.2-5). Alla supposizione di un peccato altrui, Gesù oppone la certezza del “perire” salvo intervenga una conversione, vale a dire un ribaltamento del proprio operare e ragionare umano.

Tornando ora al secondo verbo, il “vide” di Gesù, ha il sapore di un’osservazione prolungata, della lettura di tutta la storia di quel cieco, entrato come tutti nella vita naturale senza volerlo e costretto a sopravvivere senza possibilità di realizzarsi umanamente, riconoscendo le persone dalla voce e non dai volti, dalle possibilità di spostamento molto limitate, salvo che qualcuno lo accompagnasse, in un costante buio comunque. Sulla sua reale situazione dà però ai discepoli una rivelazione opposta: “Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio”. Questo non vuol dire che la ragione della cecità di quell’uomo fosse quella di fare da cavia ad un esperimento, ma ha connessione col piano di Dio nei confronti dell’uomo e al significato della sofferenza. Inoltre, ci parla del fatto che il Signore, per quelli che sono suoi, ha dato un appuntamento per incontrarlo in salvezza. Nostro Signore, guardando quel cieco, era come se lo riconoscesse perché era lui e solo lui che doveva essere guarito per diventare un Suo strumento di testimonianza, come infatti poi avverrà.

Giovanni non ci dice l’età di quell’uomo, ma a prescindere i giorni passavano tutti uguali, senza alcuna possibilità di migliorare il proprio stato e qualunque evento avrebbe comportato il dipendere da altri, bene o male intenzionati nei suoi confronti. Ora  il “perché siano manifestate in lui le opere di Dio” ci parla del fatto che esiste una terza possibilità sul fatto che quell’uomo fosse così: non perché lui avesse peccato – come avrebbe potuto, prima di nascere e avere passato ‘età dell’innocenza? – né suo padre né sua madre, ma perché Dio potesse manifestarsi in lui. E questo ci parla dell’ignoranza dell’essere umano o per lo meno delle sue scarse capacità di comprensione. Ricordiamo che, quando Marta e Maria mandarono a dire a Gesù che Lazzaro era malato, rispose loro “Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato“ (Luca 11.4). Sappiamo molto bene che Lazzaro morì, ma fu risuscitato.

Ecco allora che la terza possibilità, quella del “siano manifestate in lui le opere di Dio”, è quella finale, definitiva: Gesù guarisce o, per noi oggi, dà la forza per sopportare malattie o condizioni di tensione anche molto forti per poi liberare chi ne è afflitto. E posso testimoniare di avere sperimentato questo Suo intervento nei miei confronti e come me molti altri credenti che hanno portato e portano pesi anche maggiori, trasformando in testimonianza la reazione al dolore in qualunque forma si presenti. L’unica risposta al perché della sofferenza è nel peccato dei nostri progenitori e l’unica reazione ad essa non può che risiedere nell’abbandonarsi al Cristo vivente. Allora, e solo allora, potrà esservi una guarigione e che si tratti di una soluzione radicale a un problema spirituale è evidente: quell’uomo “cieco dalla nascita” ci accomuna spiritualmente tutti perché tutti, prima di incontrare Gesù nella nostra vita, tali eravamo. Ma, soprattutto, come lui vivevamo di espedienti: per sconfiggere la noia, l’ansia, il voler condurre una vita “dignitosa” – ma cosa significhi “dignitosa” è sempre stato per me un mistero –, non soffrire. E viviamo in una società che vorrebbe tanto abolire la sofferenza, ma più la rifugge più cade in essa e si allontana da Dio.”.

La ricerca ossessiva dell’autonomia e della liberazione dal dolore è visibile dal cosiddetto “credo delle sostanze”: basta passare qualche ora davanti alla televisione per accorgerci che l’esistenza umana ha bisogno di soluzioni che si riducono a una pillola per dormire, per non provare acidità di stomaco, reflusso gastrico, contro il mal di testa, i dolori mestruali prima, durante e dopo, per la stitichezza, gambe gonfie, dolori articolari e osteoarticolari di ogni tipo: tutto è pronto, lì per eliminare il sintomo ma non il problema e nessuno si sogna di suggerire alle persone di andare al perché, indagare le cause, nemmeno i cosiddetti Ministeri della Sanità o l’OMS. Altro problema enorme della nostra società è costituito dagli psicofarmaci, dal blando tranquillante a sostanze molto più serie, che molti prendono non perché malati, ma perché incapaci di affrontare determinate situazioni.

È la costante fuga dal dolore e dal disagio che caratterizza il nostro consorzio umano ma, per quanto spiacevoli, sono le uniche a poter formare l’individuo e sono fortemente convinto che il dolore non vada tanto evitato, quanto custodito quale unico strumento di crescita, altrimenti Gesù avrebbe potuto perdonare tutti senza scendere sulla terra e patire la nostra esistenza fino alla morte.

La società di oggi, se grazie alla Medicina può alleviare le sofferenze di chi è gravemente malato, subisce operazioni chirurgiche severe ed accompagnarlo alla morte senza farlo soffrire, non è più in grado di tollerare neppure un semplice fastidio e possiamo dire che fino a quando il dolore, di un’esistenza o localizzato nel corpo, andrà visto solo come qualcosa da eliminare per “vivere bene”, l’uomo sarà ovunque tranne che nei piani di Dio. Perché la sofferenza è necessaria affinché “sino manifestate in lui – noi – le opere di Dio”.

Cosa accomuna quel cieco nato all’uomo di oggi? Il fatto che la vista era assente dalla nascita: per lui si trattava di non vedere cose, animali e persone, per noi di essere limitati alla ricezione delle frequenze di ciò che obiettivamente è, ma vi è altro che non riusciamo a vedere. Se la vista è un senso fondamentale perché grazie ad essa ci muoviamo e decidiamo dove andare e come muoverci, se manca quella spirituale non potremo compiere altro se non scelte nocive per noi, per lo sviluppo del nostro essere spirituale che solo se guarito da Cristo potrà avere un domani. Gesù ha visto noi così come quell’ignoto che mendicava in qualche strada che portava al Tempio.

Le “opere di Dio” si manifestano proprio quando e là dove nessun intervento umano può risolvere e non necessariamente possono rivelarsi conformi alla nostra speranza o volontà, come sappiamo imparò l’apostolo Paolo che, pregando perché potesse guarire da “una spina nella carne” – un’invalidità che si portava dietro a seguito di percosse ricevute – si sentì rispondere “la mia grazia ti basta; la mia forza infatti si manifesta pienamente nella tua debolezza” (2 Corinti 12.9).

La presenza di quel cieco nelle vicinanze del Tempio era perché “in lui siano manifestate le opere di Dio”, ma quali? Certo la Sua potenza che portò alla guarigione, ma anche e soprattutto ciò che avvenne in conseguenza di essa, perché sarà un miracolo che farà scalpore, incontestabile, di fronte al quale i presenti reagiranno positivamente o (molto) negativamente, qualificandosi come futuri figli di Dio o reali figli dell’Avversario. Addirittura, considerando la frase di Gesù al verso 39 di questo capitolo, abbiamo una piena ed esaustiva descrizione della vera cecità: “È per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi”. Ecco il significato della guarigione di quest’uomo: da cieco divenne prima vedente – ma solo osservando le istruzioni che Gesù gli darà – e poi passerà dalla Sua parte, adorandolo.

Ci chiediamo comunque chi, tra il nato cieco e i Giudei, fosse più nelle condizioni di non vedere: si appelleranno al fatto che il miracolo era avvenuto di sabato, che era per loro impossibile che un cieco dalla nascita potesse ora vedere e apriranno un’inchiesta di fronte al risultato della quale non credettero comunque. Indicativa poi la conclusione dell’episodio da parte dei Giudei alla logica elementare prodotta  dal cieco: “«Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto far nulla». Gli replicarono: «Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?». E lo cacciarono fuori” (vv.33 e 34).

Siamo allora alla fine delle riflessioni sui primi tre versi dell’episodio: se “le opere di Dio” saranno “manifeste in lui”, altrettanto quelle dei servi dell’Avversario che ne ostacoleranno in ogni modo l’accoglimento. Luce e tenebre contrapposte, dunque, e sappiamo che “Dio è luce e non vi sono in lui tenebre alcune”. Amen.

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12.27 – L’INNO DI LODE (Luca 10.21-23)

12.27– L’inno di lode (Luca 10.21-23)        

 

21In quella stessa ora Gesù esultò di gioia nello Spirito Santo e disse: «Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. 22Tutto è stato dato a me dal Padre mio e nessuno sa chi è il Figlio se non il Padre, né chi è il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo».23E, rivolto ai discepoli, in disparte, disse: «Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete. 24Io vi dico che molti profeti e re hanno voluto vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono».

 

Forse fu proprio la frase “Rallegratevi piuttosto che i vostri nomi sono scritti nei cieli” a far vedere a Gesù il popolo nuovo che sarebbe sorto dopo il Suo sacrificio e relativa sconfitta della morte. Per riportare una traduzione più corretta, “esultò di gioia nello spirito” nel senso che Luca, tramite i testimoni presenti all’evento, volle mettere il risalto la profondità della partecipazione nella gioia di Gesù uomo, un trasporto che Lo coinvolse nel profondo, riportando le stesse parole di un analogo inno in Matteo 11.25-27 preceduto dalle parole “In quel tempo Gesù disse”, cioè senza collegarle ad un episodio preciso che ora sappiamo quale fosse.

La gioia profonda di Gesù, credo, è quella di un uomo diverso dagli altri che, ancora in un corpo di carne come il nostro, non può far altro che elevare al Padre una preghiera di ringraziamento, o meglio un inno che ha nelle prime parole “ti rendo lode”: l’uomo Gesù è conscio di chi è come funzione, ruolo, ma anche di essere umano per cui con questa lode stabilisce il contatto col Padre sapendo di essere ascoltato più di chiunque altro. Alcune versioni originali non meno degne di attenzione di questa hanno “onore e lode”, elementi che costituiscono un tutt’uno e sono al tempo stesso distinti.

L’ “onore” di cui parla Nostro Signore è per Lui molto impegnativo perché scaturisce dalla Sua Testimonianza concretata attraverso la santità della Sua intera vita e di essere “il servo che io sostengo”. Dio Padre infatti non avrebbe mai potuto accettare questo “onore”, e conseguentemente la “lode”, se non fosse proceduta da questa perfezione di servizio: chi rivolgeva al Padre questo inno non era un “brav’uomo”, un “giusto” considerato tale per la sua fede e le opere che da essa scaturivano, ma il Servo perfetto che avrebbe adempiuto la Sua volontà per la salvezza di chi si fosse aggrappato a Lui e alle Sue perfezioni. L’ “onore” è quindi qualcosa di estremamente concreto, riassume la Sua vita e il legame col Padre, la “lode” è invece quel sentimento di riconoscenza nel constatare l’adempimento di fatti che, pur sapendo che sarebbero avvenuti, si vedono concretati in quel preciso momento: i settantadue avevano svolto con successo la loro missione ed i miracoli erano la prova più evidente del fatto che Dio era stato con loro, costituivano una sorta di Sua firma.

E, storicamente parlando, il lodare Iddio accomunò tutti, popolo d’Israele e profeti quando constatarono quanto provveduto per loro, per non parlare di Davide e dei suoi Salmi. Ricordiamo 1 Cronache 16.23-26, che riporta (v.7) “Davide per la prima volta affidò ad Asaf e ai suoi fratelli questa lode al Signore: Cantate al Signore, uomini di tutta la terra, annunciate di giorno in giorno la sua salvezza. In mezzo alle genti narrate la sua gloria, a tutti i popoli dite le sue meraviglie. Grande è il Signore e degno di ogni lode, terribile sopra tutti gli dèi. Tutti gli dèi dei popoli sono un nulla, il Signore invece ha fatto i cieli”.

Ecco allora perché Gesù prosegue con “Signore del cielo e della terra”: è un riferimento a tutto il creato visibile e invisibile come in Deuteronomio 10.14 che, letto con attenzione, conferma il fatto che dell’universo abbiamo una visione parziale: “Ecco, al Signore, tuo Dio, appartengono i cieli, i cieli dei cieli, la terra e quanto in essa contiene”. Ora potremmo discutere sul fatto se “i cieli dei cieli” siano quelle regioni calcolate in anni luce (e relativi multipli) oppure quei territori in cui pochi, ultimo l’apostolo Giovanni, ebbero il privilegio di addentrarsi e riportare ciò che videro. Un ampliamento della definizione “Signore del cielo e della terra” lo diede l’apostolo Paolo nell’Areopago di Atene: “Il Dio che ha fatto il mondo e tutto ciò che contiene, che è Signore del cielo e della terra, non abita in templi costruiti da mani d’uomo né dalle mani dell’uomo si lascia servire come se avesse bisogno di qualche cosa. Egli creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini perché abitassero su tutta la faccia della terra. Per essi ha stabilito l’ordine dei tempi e i confini del loro spazio perché cerchino Dio, se mai, tastando qua e là come ciechi, arrivino a trovarlo, benché non sia lontano da ciascuno di noi. In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, come hanno detto anche alcuni dei vostri poeti” (Atti 17.24-28).

Possiamo allora usare quest’ultimo verso come ponte per le parole successive del nostro testo: “…perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli fanciulli”. La rivelazione di Dio quindi esiste per Sua stessa ammissione, è lì, disponibile a chiunque abbia un cuore “puro” nel senso di non avanzare altra pretesa al di fuori di voler seguirLo, esserGli sottomesso, vivere con e in Lui, cosa che i “sapienti” e i “dotti” del popolo, responsabili della sua educazione a tutti i livelli, avevano smesso da tempo di fare. Il profeta Isaia, al capitolo quinto del suo libro, elencando tutta una serie di personaggi negativi, scrive al verso 21 “Guai a coloro che si credono sapienti e si reputano intelligenti”: sono tutti quelli che fanno riferimento e usano per i propri scopi una sapienza umana e si servono della loro intelligenza per umiliare il prossimo. Chi si crede “sapiente” e “intelligente” non vive che per se stesso, è convinto di possedere le chiavi per comprendere tutto, ma in realtà si ritrova prigioniero della sua incapacità di cogliere i princìpi nella loro globalità ed essenza, prigioniero dei propri ragionamenti, sempre pronto a vedere ciò che gli si propone come un attentato alla sua presunta supremazia. E qui sta la violenza, non nel percuotere, ma nel volere costantemente prevalere sugli altri indipendentemente dal modo o dalla tattica. Questo, attenzione, non risparmia nemmeno il campo della lettura ed esposizione della Parola di Dio.

Piuttosto, la situazione morale e spirituale del tempo di Gesù, ma purtroppo anche dopo, fino ai nostri giorni, è quella descritta in Isaia 29.10,11: “(…) il Signore ha versato su di voi uno spirito di torpore, ha chiuso i vostri occhi, cioè i profeti, e ha velato i vostri capi, cioè i veggenti. Per voi ogni visione sarà come le parole di un libro sigillato: si dà a uno che sappia leggere dicendogli «Per favore, leggilo», ma quegli risponde: «Non posso, perché è sigillato». Oppure si dà il libro a chi non sa leggere dicendogli: «Per favore, leggilo», ma quegli risponde: «Non so leggere»”. Se ci pensiamo queste parole ci possono rammentare, quanto allo “spirito di torpore” versato, a quando “Il Signore indurì il cuore del faraone” nel libro dell’Esodo: lo fece solo quando quell’uomo dimostrò di non tenere in alcun conto i miracoli prodotti da Mosè per convincerlo a lasciare andare il popolo per servirLo; il faraone oppose alla parola di Dio i propri interessi, resistendo coscientemente alla proposta che gli veniva rivolta. Ecco perché ad ogni uomo è dato un tempo, una vita a termine.

“Le hai rivelate ai piccoli”: agli uni nasconde, agli altri rivela. Sono “gli eletti” di cui parla Paolo in Romani 11. 7-10: “Israele non ha ottenuto quello che cercava; lo hanno ottenuto invece gli eletti. Gli altri invece sono stati resi ostinati, come sta scritto: «Dio ha dato loro uno spirito di torpore, occhi per non vedere e orecchi per non sentire» fino al giorno d’oggi. E Davide dice: «Diventi la loro mensa un laccio, un tranello, un inciampo e un giusto castigo! Siano accecati i loro occhi in modo che non vedano e fa’ loro curvare la schiena per sempre!»”.

Il “queste cose” di cui parla Gesù è allora tutto quanto serve per la comprensione finale, la sola necessaria vista nel sacrificio della croce, della Sua morte e resurrezione perché “La parola della croce è stoltezza per quelli che si pèrdono, ma per quelli che si salvano, ossia per noi, è potenza di Dio” (1 Corinti 1.18). Ancora: “Se il nostro Vangelo rimane velato, lo è in coloro che si pèrdono: in loro, increduli, il dio di questo mondo ha accecato la mente, perché non vedano lo splendore del glorioso Vangelo di Cristo, che è immagine di Dio” (2 Corinti 4.3,4). Ecco come viene spiegata la differenza fra i “sapienti e dotti” e i “piccoli”. La sapienza terrena si basa comunque su ciò che è destinato a passare, quella rivelata riguarda l’eternità nella quale ogni credente è destinato ad entrare ed è solo quella che può spingerlo a proseguire un cammino che sarebbe altrimenti arido, inconsistente, inutile.

Nella seconda parte dell’inno Gesù dà una definizione di sé che più chiara non potrebbe essere, identificandosi totalmente nel Padre e ribadendo di essere l’Unico in grado di rivelarlo stante la loro unione e identità l’Uno nell’Altro, precisando che “Tutto mi è stato dato dal Padre mio”, come ribadirà agli undici prima di dar loro il mandato della predicazione una volta risorto: “A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra” (Matteo 28.18). Non potrebbe essere diversamente: “Egli la manifestò in Cristo – cioè la Sua potenza verso di noi – quando lo risuscitò dai morti e lo fece sedere alla sua destra nei cieli, al di sopra di ogni Principato e Potenza, al di sopra di ogni Forza e Dominazione e di ogni nome che viene nominato non solo nel tempo presente, ma anche in quello futuro. Tutto infatti egli ha messo sotto i suoi piedi e lo ha dato alla Chiesa come capo su tutte le cose. Essa è il corpo di lui, la pienezza di colui che è il perfetto compimento di tutte le cose” (Efesi 1.21-23). Ancora Filippesi 2.9,10: “Per questo – la sua obbedienza fino alla morte di croce – Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami «Gesù è Signore! A gloria di Dio Padre”.

Notiamo “ogni ginocchio”, cioè tutti, “sapienti e intelligenti” compresi che dovranno farlo non certo in salvezza, ma caso mai emuli di quei demòni che si prostravano davanti a Gesù riconoscendolo come Figlio di Dio, ma da Lui prontamente zittiti.

Il nostro episodio si conclude con una spiegazione ai discepoli “in disparte”, a confermare una rivelazione personale: c’è l’annuncio di una beatitudine per quanto vedevano e ascoltavano alla luce del fatto che “molti profeti e re hanno voluto vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono”: sono le stesse parole che disse quando i discepoli gli chiesero perché parlasse attraverso le parabole: “perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono”. Anche lì vi erano quelli che non ritenevano di avere alcun bisogno di Lui, bastavano a loro stessi. Invece Gesù, ai discepoli e quindi a ognuno di noi, ricorda un motivo di gioia e lode a Dio Padre: “molti profeti e re” hanno vissuto in una dispensazione diversa, non illuminata come la nostra, in prospettiva di tutti coloro che, invece, le avrebbero vedute. E (anche) qui sta la responsabilità che ciascuno di noi porta. Amen.

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12.26 – IL RITORNO DEI SETTANTADUE (Luca 10.17-20)

12.26 – Il ritorno dei settantadue (Luca 10.17-20)

             

17I settantadue tornarono pieni di gioia, dicendo: «Signore, anche i demòni si sottomettono a noi nel tuo nome». 18Egli disse loro: «Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore. 19Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra serpenti e scorpioni e sopra tutta la potenza del nemico: nulla potrà danneggiarvi. 20Non rallegratevi però perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli».

 

Ci troviamo di fronte a un episodio impegnativo sia a livello di riflessioni quanto di collocazione temporale. Luca, che ci illustra ciò che avvenne da quando Gesù uscì da Gerusalemme, scrive che “I settantadue tornarono” senza specificare dove e quando. Ora, essendo stati mandati in missione all’atto della Sua partenza dalla Galilea per Gerusalemme, possiamo supporre che fu da loro raggiunto in quella città, ma gli evangelisti non hanno ritenuto opportuno specificare il momento in cui ciò avvenne anche perché non tornarono tutti insieme. Leggendo Giovanni, poiché pare esservi un breve vuoto narrativo tra l’uscita di Gesù dal Tempio e l’incontro con l’uomo cieco dalla nascita – in cui tra l’altro viene posta in risalto la presenza dei discepoli (Giovanni 9.1,2) – , ecco la scelta di inserire qui l’incontro con loro precisando che si tratta di una mia opinione personale che non vuole sminuire quanto ipotizzato da altri nel loro trattare l’argomento.

Il verso 17 contiene diversi momenti degni di sottolineatura, il primo dei quali è “tornarono” che ci parla di fedeltà alle istruzioni ricevute, tra le quali il luogo dell’appuntamento, ma anche del fatto che quei discepoli dimostrarono di non avere alternative a Gesù e il loro ritorno ci rivela che al di fuori del vivere attorno al loro Maestro non avrebbero saputo cosa fare, soprattutto una volta constatati gli effetti del mandato e la differenza col vivere nel mondo. Ricordiamo in proposito quando Pietro disse “Signore, a chi ce ne andremmo noi? Tu solo hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio” (Giovanni 6.68,69).

Tornare. In senso generale, tutti noi lo facciamo: a volte è un’abitudine, a volte è una scelta ma comunque, quando lo si fa, è perché il luogo o la/le persone che raggiungiamo costituiscono per noi un centro più o meno importante. In questo caso però la pericope “Tornarono pieni di gioia” esclude la routine, il semplice acquisito, qualcosa che si fa perché non si hanno alternative e allora ci si adegua allo status quo. E qui la “gioia” dei discepoli, che arrivarono da Gesù poco per volta stante i diversi luoghi da loro raggiunti, era diversa da quella che avrebbe potuto procurarne una umana. La loro “gioia” fu quella di chi constata l’adempimento delle promesse di Dio e di avere adempiuto correttamente le istruzioni ricevute; ricordiamole: “La messe è abbondante, ma pochi sono gli operai! Pregate dunque il signore della messe perché mandi operai nella sua messe! Andate, ecco, vi mando come agnelli in mezzo ai lupi; non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada. In qualunque casa entriate, prima dite: «Pace a questa casa!». Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà a voi. Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché chi lavora ha diritto alla sua ricompensa. Non passate da una casa all’altra. Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà offerto, guarite i malati che vi si trovano e dite loro: «È vicino a voi il regno di Dio». Ma quando entrerete in una città e non vi accoglieranno, uscite sulle sue piazze e dite: «Anche la polvere della vostra città, che si è attaccata ai nostri piedi, noi la scuotiamo contro di voi; sappiate che il regno di Dio è vicino»” (Luca 10.2-11).

Ora è facile supporre che i settantadue si fossero attenuti scrupolosamente a tutto quanto ordinato, compreso il “pregate”, il non distrarsi per nessun motivo raffigurato nel non salutare “nessuno lungo la strada”; la conseguenza di questo loro comportamento andò al di là della guarigione dalle malattie perché “Anche i demòni si sottomettono nel tuo nome”. Quei discepoli erano consci che da soli non avrebbero mai potuto compiere nulla di quanto era stato ordinato loro. Era dunque la “gioia” del riscontro e della liberazione, dell’elevarsi, del servire con successo perché si erano attenuti alle disposizioni del Maestro senza esitazioni o titubanze ed erano stati premiati con un risultato che andava al di là delle loro aspettative, come rileviamo dall’ “anche” del verso in esame. Se raccordiamo questo successo con l’episodio in cui i dodici non erano riusciti a guarire un indemoniato (Luca 9.40), possiamo capire perché questi discepoli fossero nello stato che ci viene descritto.

La risposta di Gesù si articola su tre punti, il primo dei quali è un’altra dichiarazione della Sua presenza nell’eternità, “Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore”, con la quale dà una visione tanto dell’immediatezza del giudizio su questo personaggio, quanto della fine cui è destinato. Leggendo Isaia 14.12-15, infatti, abbiamo la stessa panoramica: “Come sei caduto dal cielo – tua residenza di un tempo –, astro del mattino, figlio dell’aurora? – la dignità che aveva – Come sei stato gettato a terra, signore di popoli? Eppure tu pensavi nel tuo cuore: «Salirò in cielo, sopra le stelle di Dio innalzerò il mio trono, dimorerò sul monte dell’assemblea, nella vera dimora divina. Salirò sulle regioni superiori delle nubi, mi farò uguale all’Altissimo» – ricordiamo le parole “sarete come Dio” dette ad Eva . E invece sei stato precipitato negli inferi – cioè nelle assolute regioni inferiori –, nelle profondità dell’abisso! Quanti ti vedono ti guardano fisso, ti osservano attentamente: «È questo l’individuo che sconvolgeva la terra, che faceva tremare i regni, che riduceva il mondo a un deserto, che ne distruggeva le città – con una morale perversa –  che non apriva le porte del carcere ai suoi prigionieri?» – perché se non interviene il Cristo a liberare è impossibile che Satana rinunci a tenere l’uomo per sé – Tutti i re dei popoli, tutti riposano con onore, ognuno nella sua tomba. Tu, invece, sei stato gettato fuori dal sepolcro, come un virgulto spregevole; sei circondato da uccisi trafitti da spada – l’onta della sconfitta –, deposti sulle pietre della fossa, come una carogna calpestata – cioè contaminata, immonda, e contaminante –. Tu non sarai unito a loro nella sepoltura, perché hai rovinato la tua terra, hai assassinato il tuo popolo”.

Le parole di Gesù si raccordano anche a Ezechiele 12-19 di cui riporto la parte dal 17: “Il tuo cuore si era inorgoglito per la tua bellezza, la tua saggezza si era corrotta a causa del tuo splendore: ti ho gettato a terra e ti ho posto davanti ai re, perché ti vedano. Con la gravità dei tuoi delitti, con la disonestà del tuo commercio hai profanato i tuoi santuari; perciò in mezzo a te ho fatto sprigionare un fuoco per divorarti. Ti ho ridotto in cenere sulla terra, sotto gli occhi di quanti ti guardano. Quanti fra i popoli ti hanno conosciuto, sono rimasti attoniti per te, sei divenuto oggetto di terrore, finito per sempre”.

La valenza della parole di Gesù, come tutte del resto, è anche in questo caso enorme perché ci parla al tempo stesso della rapidità del giudizio sull’Avversario che cadde dall’alto dei cieli intesi come dimora di Dio ed elevazione spirituale infinita non tanto sulla terra quanto a pianeta, ma nei suoi abissi, nell’inferiorità assoluta come abbiamo visto nella scorsa riflessione. Scrive l’apostolo Pietro nella sua seconda lettera: “Dio infatti non risparmiò gli angeli che avevano peccato, ma li precipitò in abissi tenebrosi, tenendoli prigionieri per il giudizio. Ugualmente non risparmiò il mondo antico, ma con altre sette persone salvò Noè, messaggero di giustizia, inondando con il diluvio un mondo di malvagi. Così pure condannò alla distruzione le città di Sodoma e Gomorra, riducendole in cenere, lasciando un segno ammonitore a quelli che sarebbero vissuti senza Dio. Liberò invece Lot, uomo giusto, che era angustiato per la condotta immorale di uomini senza legge. Quel giusto infatti, per quello che vedeva e udiva mentre abitava in mezzo a loro, giorno dopo giorno si tormentava a motivo delle opere malvagie. Il Signore dunque sa liberare dalla prova chi gli è devoto, mentre riserva, per il castigo nel giorno del giudizio, gli iniqui, soprattutto coloro che vanno dietro alla carne con empie passioni e disprezzano il Signore” (4-10).

E sono convinto che nel “giusto Lot” ci possiamo identificare anche noi, testimoni del degrado morale e dell’indottrinamento satanico di questi ultimi tempi che viviamo.

La citazione di questi versi avrebbe potuto limitarsi al quarto, ma riportarli tutti può aiutare nel considerare come l’Avversario e i suoi angeli costituiscono un tutt’uno con l’uomo che li segue esattamente come chi crede è un tutt’uno con Colui che li ha salvati. Infatti: “…ma costoro – gli iniqui –, irragionevoli e istintivi, nati per essere presi e uccisi, bestemmiando quello che ignorano, andranno in perdizione per la loro condotta immorale, subendo il castigo della loro iniquità. (…) Costoro sono come sorgenti senz’acqua e come nuvole agitate dalla tempesta, e a loro è riservata l’oscurità delle tenebre. Con discorsi arroganti e vuoti e mediante sfrenate passioni carnali adescano quelli che da poco si sono allontanati da chi vive nell’errore. Promettono loro libertà, mentre sono essi stessi schiavi della corruzione. L’uomo infatti è schiavo di ciò che lo domina” (vv. 12,13; 17-19).

Oltre a tutti questi versi dei profeti e di Pietro, non possiamo non citare l’atto finale: Satana è stato privato di tutta la sua regalità e dignità, ma se ne è costruita una propria come del resto fa qualunque persona lontana da Dio, ignorando in realtà di rendersi schiavo di chi non lo libererà mai, come abbiamo letto. Satana, “che seduce tutta la terra abitata, fu precipitato sulla terra e con lui anche i suoi angeli” (Apocalisse 12.9), ma soprattutto sarà gettato “nello stagno di fuoco” assieme alla morte, agli inferi” e a chi non risulterà “scritto nel libro della vita” (20.14,15). E sono convinto che anche qui, cadrà “come una folgore”.

Ora, tornando al nostro episodio, Gesù ricorda a tutti coloro che gli appartengono che, ascoltando e servendo Colui che ha visto “Satana cadere dal cielo come una folgore”, non hanno nulla di cui temere: sono dalla parte di chi è più potente di lui e infatti disse “Nulla potrà danneggiarvi”, certo “se rimanete fedeli alla mia parola” e non, come sostengono alcuni, a prescindere. Ricordiamo Giovanni 8.38,39: “Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi”.

Nostro Signore conclude poi il suo intervento esortando i discepoli a vedere il successo della loro missione non come qualcosa di personale o di umano: certo avevano guarito da malattie e possessioni, ma solo in quanto conseguenza della loro fede e, paradossalmente, i loro risultati andavano ridimensionati, ricondotti all’origine del loro essere figli di Dio. I miracoli, infatti, sono la conseguenza dell’essere vicini a Dio, ma possono anche essere prodotti dall’Avversario per “sedurre se possibile anche gli eletti”. Era quindi importante considerare l’origine, la causa e non l’effetto: “rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli”, la vera gioia assoluta. I – presumo tanti – miracoli operati avevano contribuito allo sviluppo del Vangelo da loro annunciato e non era certo poca cosa, ma il motivo della gioia doveva risiedere nel fatto che i nomi di quei discepoli erano scritti nel libro della vita a prescindere dalle loro opere. Se Gesù  non avesse specificato questo, avrebbe lasciato i futuri credenti nella convinzione che solo chi fa miracoli e gira il mondo a predicare sia degno di Lui. La “gioia” che i settantadue provavano, se non correttamente indirizzata, avrebbe potuto col tempo inorgoglirli: i miracoli compiuti, tangibili, incontestabili, saranno infatti usati con parsimonia dagli stessi apostoli nei libro degli Atti e, come tutti quelli dei Vangeli operati da Gesù, rimarranno nella Chiesa a memoria e si diraderanno una volta acquisito il concetto che il vero miracolo è appunto quello del nome scritto nel registro di Dio.

“Molti, ve l’ho già detto più volte e ora con le lacrime agli occhi ve lo ripeto, si comportano da nemici della croce di Cristo. La loro sorte finale sarà la perdizione, il ventre è il loro dio. Si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi e non pensano che alle cose della terra. La nostra cittadinanza infatti è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che egli ha di sottomettere a sé tutte le cose” (Filippesi 3.18-20).

Ecco il vero motivo della gioia, la radice: il nostro nome scritto, il nostro corpo di morte che è stato riscattato in vista della resurrezione e dell’ultima chiamata ad unirci a Lui, ora e quando ritornerà per rapire la Sua Chiesa o in giudizio. Amen.

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12.25 – PRIMA CHE ABRAHANO FOSSE, IO SONO (Giovanni 8.58)

12.25– Prima che Abrahamo fosse, io sono (Giovanni 8.58 )

           

58Rispose Gesù: «In verità, in verità io vi dico: prima che Abrahamo fosse, Io Sono». 59Allora raccolsero delle pietre per gettarle contro di lui, ma Gesù uscì dal Tempio.

 

Con questo verso, le cui parole scaturiscono dall’impossibilità dei Giudei di comprendere l’essenza e il ruolo di Gesù, ci troviamo di fronte a una realtà di enorme portata. Già abbiamo avuto modo di ragionare sul significato dell’ “Io Sono”, ma qui gli insegnamenti che possiamo trarre sono infiniti perché la realtà di Nostro Signore si raccorda al tempo in cui Abrahamo era vissuto e al tempo stesso parlava ai suoi oppositori nel Tempio. In queste parole, precedute da due amen, vediamo l’eternità dell’ “Io Sono”, ma soprattutto sottolineiamo il “prima”e il “fósse”, anche questa forma del verbo essere che implica l’esistere, cioè pensare ed agire, scegliere, muoversi. Umanamente l’ “essere”, visto dalla parte dell’uomo, comprende un inizio e una fine, chiama in causa la persona dalla nascita alla morte, quindi ci parla di come l’uomo ha agito.

Vediamo anche come Abrahamo, il cui nome compare in questo capitolo dieci volte, venga citato per primo e sia usato come collegamento in quanto nominato dai Giudei ai versi 39 (“Il nostro padre è Abrahamo”), 52 (“Abrahamo è morto e anche i profeti”) e 53 (“Sei tu più grande del nostro padre Abrahamo, che è morto? Anche i profeti sono morti; chi pretendi di essere”?). In questo caso, allora, Abrahamo è usato perché citato dai Giudei ed è da vedere non più come il cosiddetto “padre della fede”, ma come essere umano cui è abbinato il “fósse”, al passato remoto cioè un tempo che si usa per indicare un fatto ormai avvenuto, concluso e – attenzione – senza legami con il presente. Il passato remoto, nell’uso comune, può corrispondere a un distacco emotivo rispetto all’evento raccontato, mentre nello scritto letterario risponde più a una scelta stilistica.

Il “fósse”, quindi, indica che la persona è indubbiamente esistita ma che, nonostante la sua importanza, in quel momento non aveva più senso e non certo perché la sua valenza storica era diminuita: davanti ai Giudei non stava un uomo, ma l’ ”Io Sono”, il “Colui che è”, che Abrahamo lo aveva chiamato e assistito, aveva a lui parlato ed era a lui infinitamente superiore.“Fósse”è quindi da applicare a tutti gli uomini, ciascuno con la sua storia che lo distingue dagli altri indipendentemente dalla fede, dal fatto che accolga o rifiuti l’invito di Dio a ravvedersi, racchiude ciò che ha fatto dalla culla alla bara e, soprattutto, annuncia un tempo ormai chiuso, scaduto, ed è sotto questo aspetto che va letto il libro del Qoèlet, o Ecclesiaste, che dà una lettura orizzontale della vita umana avvertendo il lettore che tutto passa e scavando in profondità nel tema arrivando a dire che “Né del saggio né dello stolto resterà un ricordo duraturo e nei giorni futuri tutto sarà dimenticato. Allo stesso modo muoiono il saggio e lo stolto”(2.16). Nel “fósse”possiamo allora considerare il passo “vi è una sorte unica per tutto: per il giusto e per il malvagio, per il puro e l’impuro, per chi offre sacrifici e per chi non li offre, per chi è buono e per chi è cattivo, per chi giura e per chi teme di giurare”(9.2).

Il “fósse”che ci accomuna, però, si scontra con l’ “Io Sono”quando, sempre in questo libro, leggiamo “Riconosco che qualsiasi cosa Dio fa, dura per sempre; non c’è nulla da aggiungere, nulla da togliere. Dio agisce così perché lo si tema. Quello che accade, già è stato; quello che sarà, è già avvenuto. Solo Dio può cercare ciò che ormai è scomparso”(3.14,15).

E infatti “Io Sono”  è una definizione che solo Dio può dare perché non soggetto al tempo degli uomini, Lui che ha comandato la fine dell’immobilità in quell’allora “non universo” nato dal “Sia la luce!”del primo giorno. Il Figlio è quindi l’ “Io Sono”che si manifestò proprio allora e poi in tutti gli interventi nei confronti degli uomini dell’Antico Patto, quindi dal tempo dei Vangeli ad oggi e nell’attesa che tutti gli eventi stabiliti si compiano in quanto è “l’Alfa e l’Omega, il principio e la fine”. La Sua presenza costante nell’eternità verrà dichiarata in questo Vangelo quando, in un passo che vedremo fra breve, disse ai settantadue discepoli tornati da Lui “Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore”(Luca 10.18).

Quando mi sono trovato a progettare questo scritto mi sono chiesto quanto valesse la pena sviluppare il verso in esame, ma l’ho trovato infinito per cui, se solitamente di fronte a passi importanti tendo a svilupparlo in più parti, qui preferisco dare solo degli spunti che ciascuno sarà libero di seguire o ampliare se e come meglio crede. Non si può sottolineare un dato importante e cioè che “prima che Abrahamo fosse”è una traduzione che omette “nato”in quanto il verbo greco usato non è “eimi”, appunto “essere”, ma “ghignomai”, che sì ha “essere” come primo significato, ma rapportato al nascere come “divenire”, “accadere”, per cui il Figlio era lì tanto quando Abrahamo nacque, quanto quando “diventò”, cioè crebbe con tutto ciò che comporta (gioia, dolore, riflessione, amara constatazione dei propri errori e fede operante nelle promesse e nei comandamenti di Dio).

La domanda ora è se possiamo sapere qualcosa di ciò che era nell’eternità di YHWH prima che il mondo fosse, ma non ci è stato rivelato dalla Scrittura. Di ciò che c’era prima, per lo meno fisicamente, c’è la sola spiegazione che abbiamo imparato a conoscere non appena presa in mano una Bibbia, “In principio Iddio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque”(Genesi 1.1). Poi, però, se la figura di YHWH rimane distante, quanto a santità ed esigenze, dall’essere umano, non così il Figlio, raffigurato come sappiamo nella Sapienza che fu “generata”nel senso di rivelazione agli uomini, chiamata, vita in un contesto diverso. E in Proverbi 8.22-31 e segg. abbiamo qualcosa di assolutamente nuovo: “Il Signore mi ha creato come inizio della sua attività, prima di ogni sua opera, all’origine. Dall’eternità sono stata formata, fin dal principio, dagli inizi della terra. Quando non esistevano gli abissi, io fui generata, quando ancora non vi erano le sorgenti cariche d’acqua; prima che fossero fissate le basi dei monti, prima delle colline, io fui generata, quando ancora non aveva fatto la terra e i campi né le prime zolle del mondo. Quando egli fissava i cieli, io ero là; quando tracciava un cerchio sull’abisso, quando condensava le nubi in alto, quando fissava le sorgenti dell’abisso, quando stabiliva al mare i suoi limiti, così che le acque non ne oltrepassassero i confini, quando disponeva le fondamenta della terra, io ero con lui come un artefice ed ero la sua delizia ogni giorno: giocavo davanti a lui in ogni istante, giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo”. Ora, qui è racchiuso quel periodo antecedente a “Sia la luce”fino alle tante parole rivolte ad Adamo quando era innocente e che Mosè non ci ha riportato.

Nel Nuovo Testamento poi abbiamo “In principio era il Verbo”, cioè l’inizio assoluto, o “l’inizio senza inizio” come è stato definito perché non si può negare che, se il “Principio”di Genesi 1 è riferito al tempo della terra, quello di Giovanni 1 è un “Principio”che appartiene all’eternità. Poi, nel nostro verso, Gesù contrappone il divenire di Abrahamo alla Sua realtà di “Io Sono”e, senza il Suo intervento, l’uno sarebbe stato incommensurabilmente distante dall’Altro, non ci sarebbe stato nessun piano di Dio e Nostro Signore non sarebbe neppure venuto sulla terra. Padre, Figlio e Spirito Santo sarebbero rimasti com’erano nel loro splendido isolamento, ma sarebbero rimasti senza amore da dare. Ogni uomo sarebbe assolutamente lontano ed estraneo da Loro, condannato a una vita priva di futuro, di progetto, di programma, di destinazione. Suicidi dalla nascita. Ma, appunto, abbiamo usato il condizionale, cioè Gesù “sarebbe”, non “È”, non “Io Sono”.

Tornando al nostro episodio, i Giudei presenti non ebbero alcun problema a raccordare l’ ”Io Sono”di Gesù all’ “Io Sono colui che sono”di Esodo 3.14,15 quando Dio rispose così quando gli fu chiesto come si chiamasse: Mosè disse a Dio: «Ecco, io vado dagli israeliti e dico loro: «Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi». Mi diranno: «Qual è il suo nome?». E io cosa risponderò loro?». Dio disse a Mosè: «Io sono colui che sono!”». E aggiunse: «Così dirai agli israeliti: «Io-Sono mi ha mandato a voi!»»”.

I Giudei, fatto questo collegamento per una volta corretto, lungi dal credere, vollero ricorrere alla lapidazione per bestemmia e, per farlo, raccolsero le pietre che si trovavano in gran quantità nel cortile esterno non essendo il Tempio ancora ultimato.

Sorge a questo punto il problema insito nel “ma Gesù uscì dal tempio”che conclude il nostro episodio: certo un bestemmiatore degno di lapidazione non poteva non venire sorvegliato per cui è inammissibile che Nostro Signore abbia approfittato della distrazione dei Giudei che, intenti a raccogliere pietre, non si curarono di Lui; piuttosto abbiamo una ripetizione di quanto già avvenuto altre volte, ad esempio a Nazareth quando lo volevano gettare dalla rupe della città. Semplicemente, non era ancora giunta l’ora della Sua morte, per cui l’importante non è il metodo usato da Lui, ma il tema dell’assoluta impotenza dell’uomo di fronte a Dio. E mi viene in mente Salmo 2.1-4: “Perché le genti sono in tumulto e i popoli cospirano invano? Insorgono i re della terra e i prìncipi congiurano insieme contro il Signore e il suo consacrato: «Spezziamo le loro catene, gettiamo via da noi il loro giogo!». Ride colui che sta nei cieli, il Signore si fa beffe di loro”. Ricordiamo anche Abdia 1.10, “Si fa beffe dei re e dei capi se ne ride; si fa gioco di ogni fortezza: l’assedia e la conquista”.

Credo che sia questa la spiegazione più pertinente anche perché “Ma Gesù uscì dal tempio”è una traduzione che concilia il problema dei testi più antichi che non hanno una versione univoca. Ad esempio Giovanni Diodati e non solo, affidandosi a un altro corpo di scritti altrettanto autorevoli, riporta “Ma Gesù si nascose ed uscì dal tempio, essendo passato per mezzo loro, e così se ne andò”, creando così un parallelo con Luca 4.30 (a Nazareth) “Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino”.

Se Gesù era il “Servo”per eccellenza, allora vale quanto scritto da Davide in Salmo 18.18, “Mi liberò da nemici potenti, da coloro che mi odiavano ed erano più forti di me”, o in Salmo 53.4, “Siano svergognati e confusi quanti attentano alla mia vita; retrocedano e siano umiliati quanti tramano la mia sventura”.

Ragionando poi sul verso esteso, cioè quello che amplia “Ma Gesù uscì dal tempio”, vediamo che il “si nascose”non specifica dove, per cui dobbiamo ammettere che poté benissimo rendersi non visibile dai suoi oppositori nel senso di aver “impedito ai loro occhi di riconoscerlo”come avverrà ai due discepoli sulla via di Emmaus (Luca 24.16). Ricordiamo che “Siano svergognati e confusi quanti attentano alla mia vita”rende più probabile l’irriconoscibilità fisica, oltre che di ruolo, di Gesù per i Giudei. Credo che il testo ci autorizzi a pensarla in questo modo.

La giornata al Tempio si conclude in questo modo, col “nascondersi” di Nostro Signore passando “in mezzo a loro”e uscendo, azione che anticipa quel “mi cercherete, ma non mi troverete”che abbiamo recentemente incontrato in queste meditazioni figura del fatto che, se il Signore va cercato “mentre lo si può trovare”, va da sé che verrà il tempo in cui questo non sarà possibile. Sarà allora, nell’ineluttabilità di un destino scelto, responsabilmente o irresponsabilmente non importa, che il Signore raccoglierà il grano nel Suo granaio e lascerà le scorie a bruciare. Amen.

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12.24 – ABRAHAMO VOSTRO PADRE (Giovanni 8.52-56)

12.24– Abrahamo vostro padre (Giovanni 8.52-56 )

           

52Gli dissero allora i Giudei: «Ora sappiamo che sei indemoniato. Abramo è morto, come anche i profeti, e tu dici: «Se uno osserva la mia parola, non sperimenterà la morte in eterno». 53Sei tu più grande del nostro padre Abramo, che è morto? Anche i profeti sono morti. Chi credi di essere?». 54Rispose Gesù: «Se io glorificassi me stesso, la mia gloria sarebbe nulla. Chi mi glorifica è il Padre mio, del quale voi dite: «È nostro Dio!», 55e non lo conoscete. Io invece lo conosco. Se dicessi che non lo conosco, sarei come voi: un mentitore. Ma io lo conosco e osservo la sua parola. 56Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e fu pieno di gioia». 57I giudei allora gli dissero: «Tu non hai ancora cinquant’anni e hai visto Abrahamo?»

 

“Ora sappiamo”, cioè “adesso”, “in questo momento”, da quando hai detto che che “se uno osserva la mia parola, non vedrà la morte in eterno”.Eppure, citando Abrahamo, i Giudei dimenticano che fu proprio la fede totalmente riposta nella futura risurrezione di Isacco a dargli la forza per sacrificarlo, lui che tempo addietro aveva ritenuto impossibile la nascita di quel figlio. Abrahamo, invece, capì che non poteva far altro che riporre tutta la propria fede nelle promesse ricevute, compresa la sopravvivenza dopo la morte. Oltre a ciò vi era la consapevolezza di quanto fosse importante essere uno strumento nelle mani di Dio alla luce della conoscenza che Abrahamo aveva sulla caduta di Adamo ed Eva e di tutti gli avvenimenti verificatisi fino a lui, come la caduta, la morte di Abele contrapposta alla nascita di Set, il diluvio che fu al tempo stesso punizione (quindi morte) per il genere umano corrotto e salvezza per Noè e la sua discendenza dalla quale Abrahamo stesso aveva avuto origine, per poi arrivare alla torre di Babele il cui giudizio pose fine alla sete di autonomia ed egemonia degli uomini di allora.

Per quanto Dio, nei Suoi dialoghi con Abramo, non abbia mai parlato di vita eterna, questa compare in modo velato nelle prime parole con cui gli si rivolse, “Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò”(Genesi 12.1): da queste parole, infatti, quel servitore capì che non avrebbe avuto senso lasciare un ambiente se non gliene fosse promesso un altro migliore, che parlava di santità e separazione, oltre che di destinazione che certo non poteva essere provvisoria. Qui vediamo che la nostra tradizione, e ciò che abbiamo acquisito come “nostro”, non necessariamente è quello in cui siamo chiamati a vivere. Ciò che sono “Terra”,“parentela”e “casa di tuo padre”vengono stravolti nel momento in cui Dio irrompe nella vita di una persona che viene chiamata ad andare “verso la terra”che Lui indicherà nel senso di qualcosa a cui non ha pensato. Certo per Abrahamo la “terra”fu un luogo preciso geograficamente parlando, mentre per noi può essere benissimo anche uno spazio mentale, un modo di ragionare, un ruolo nella Chiesa, anche solo di “semplice” componente; in poche parole, tutto ciò che senza una rivelazione di Dio non avremmo mai raggiunto.

Proseguendo abbiamo “Farò di te una grande nazione e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e possa tu essere una benedizione”(v.2): qui Abramo comprese, col tempo, che il piano che Dio aveva per lui andava ben oltre l’orizzontalità della vita materiale. Ricordiamo che non viveva in condizioni precarie e non si sarebbe mai spostato solo per vedere un giorno “grande”il suo nome. Piuttosto furono ultime parole del verso terzo a convincerlo. “Benedirò coloro che ti benediranno e maledirò coloro che ti malediranno, e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra”. E la “benedizione” implica beneficiare del diretto intervento in Dio sempre, rientrare nel Suo piano che, essendo Lui stesso Eterno, non può che riguardare la vita dopo la morte. Che senso avrebbe, altrimenti?

 

Torniamo però alle parole dei Giudei: “Abrahamo è morto, e così anche i profeti”. Non ci potrebbe essere dato di fatto più obiettivo anche se notiamo quanto sia categorico quel “morto”nel senso che equivale a dire “non c’è più” quasi che tutto quanto aveva fatto fosse qualcosa di svanito e lo stesso dicasi per gli altri uomini di Dio, i profeti. È da qui che parte l’accusa a Gesù di essere indemoniato, questo perché la visione di cosa vi fosse dopo la morte secondo l’Antico Patto non era propriamente chiara anche se i Sadducei erano gli unici a rifiutare l’idea della resurrezione. Una lunga vita era vista come una benedizione e la morte non tanto come la fine del tutto, ma un qualcosa di misterioso e da vedere con pessimismo certamente sì. Dei patriarchi leggiamo che il tale “fu seppellito coi suoi padri”, o “si addormentò”che apre prospettive diverse. Salomone, il re più saggio, ha una visione distruttiva della morte e scrive che “Riguardo ai figli dell’uomo, mi sono detto che Dio vuole metterli alla prova e mostrare che essi di per sé sono bestie. La sorte degli uomini e quella delle bestie è la stessa: come muoiono queste, così muoiono quelli; c’è un soffio vitale per tutti. L’uomo non ha alcun vantaggio sulle bestie, perché tutto è vanità, tutti sono diretti verso il medesimo luogo: tutto è venuto dalla polvere e nella polvere tutto ritorna”(Ecclesiaste 3.18-20). Ricordiamo Zaccaria 1.5, cui forse i Giudei facevano riferimento in questo caso, “Dove sono i vostri padri? E i profeti forse vivranno per sempre?”.

I morti andavano nello Sheol, un luogo di non vita e non consapevolezza: “Nel soggiorno dei morti dove tu vai non c’è più lavoro, né pensiero, né scienza, né saggezza”(Ecclesiaste 9.10) e “Finché si vive c’è speranza. È meglio un cane vivo che un leone morto. I vivi sanno che devono morire. Ma i morti non sanno proprio niente”(9.4,5). Lo Sheol è l’inferno, che deriva da infer, da cui il nostro “inferiore” e che quindi ha relazione con ciò che è sotto terra e non a un luogo di tormenti come poi è diventato. Per questo, quando il termine Sheol ricorre, (65 volte) viene tradotto con “inferno”,“sepolcro”o “sotto terra”. Anima e corpo erano considerati un tutt’uno e quindi, alla morte del secondo, “moriva” anche la prima o, come abbiamo letto, “si addormentava”. Ma se vi è un sonno, va da sé che vi sia anche un risveglio. Se in Levitico 18.5 leggiamo “Osserverete dunque le mie leggi e le mie prescrizioni, mediante le quali chiunque le metterà in pratica vivrà”, non possiamo non trovare limitante quella promessa di vita ad una esclusiva gestione di un presente prolungato sulla terra. Ricordiamo poi il re Davide, che in Salmo 102.29 scrive “I figli dei tuoi servi avranno una dimora, la loro stirpe vivrà alla tua presenza”.

L’opinione in basse alla quale gli antichi avessero della morte l’idea come della fine di tutto senza appello è falsa; se mai riproduce un’errata opinione comune, ma la verità, che va sempre e comunque cercata, pur essendo  nascosta, si lascia trovare: ad esempio Isaia 26.18,19 non potrebbe essere più chiaro poiché, rappresentando il passato, il presente e il futuro, così scrive: “Abbiamo concepito, abbiamo sentito i dolori quasi dovessimo partorire: era solo vento, non abbiamo portato salvezza alla terra e non sono nati abitanti nel mondo. Ma di nuovo vivranno i tuoi morti. I miei cadaveri risorgeranno! Svegliatevi ed esultate, voi che giacete nella polvere. Sì, la tua rugiada è rugiada luminosa, la terra darà alla luce le ombre”. Possiamo citare anche Abacuc 2.4 a noi familiare perché usato da Nostro Signore, “Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede”. Ora è difficile pensare che questo “vivrà”sia qualcosa di temporaneo, soprattutto quando leggiamo Ezechiele 33.14-16: “Se dico al malvagio: «Morirai» ed egli si converte dal suo peccato e compie ciò che è retto e giusto, rende il pegno, restituisce ciò che ha rubato, osserva le leggi della vita senza commettere il male, egli vivrà e non morirà; nessuno dei peccati commessi sarà più ricordato: egli ha praticato ciò che è giusto e certamente vivrà”. Ora, credo fermamente che vivere per poi morire di nuovo non abbia alcun senso, a meno che vedere la morte come esclusivamente di un corpo che tornerà alla vita nel momento opportuno.

Sappiamo che gli scritti dell’Antico Patto contengono “l’ombra dei futuri beni”(Ebrei 10.1) e che Gesù, essendo il vero Liberatore, in quel momento stava annunciando al Suo uditorio, Giudei compresi, la sola verità a cui avrebbero potuto aggrapparsi per essere salvati, abbandonando però quelle, innumerevoli, che avevano. Più avanti dirà “Io sono la via, la verità e la via. Nessuno può venire al Padre se non per mezzo di me”, quindi Viacome unica strada per avere accesso a Dio Padre, Veritàin opposizione al padre della menzogna come visto recentemente, e Vitaquale strumento ed effetto per la fede in Lui riposta. Questo voleva dire “non morire in eterno”, o“non vedere mai la morte”.

Del tutto insensibili, i Giudei gli chiedono “Chi credi di essere?”manifestando tutto il loro disprezzo, ma ancora una volta Gesù li pone di fronte al fatto che di fronte a loro stava Uno che andava oltre Abrahamo e gli stessi profeti perché “Se glorificassi me stesso, la mia gloria sarebbe nulla”cioè sarebbe passato come uno dei tanti e si sarebbe perso in quel buio di cui parlò Salomone quando scrisse “Una generazione va e l’altra viene, ma la terra resta sempre la stessa (…)non resta più ricordo degli antichi, ma neppure di coloro che saranno si conserverà memoria presso coloro che verranno in seguito”(Qoèlet 1.4,11). Queste parole possono essere, nel caso di specie, rapportate a quelle di Gamaliele quando disse al Sinedrio “Per quanto riguarda questo caso– Pietro e Giovanni che stavano per essere da loro giudicati – ecco ciò che vi dico: «Non occupatevi di questi uomini e lasciateli andare. Se infatti questa teoria o questa attività è di origine umana, verrà distrutta; ma se essa viene da Dio, non riuscirete a sconfiggerli. Non vi accada di trovarvi a combattere contro Dio!»”(Atti 5.38,39).

Quello che Gesù vuol dire ai Suoi detrattori, allora, al di là dell’impossibilità in base alla quale Lui potesse fare qualsiasi cosa per glorificare se stesso, è che quanto da Lui fatto e detto verrà ricordato per sempre e sarebbe stato invincibile salvo il ferimento al calcagno in cui possiamo vedere tanto la Sua morte, annullata nella resurrezione, quanto l’invincibilità della Chiesa sulle quali non potranno mai prevalere le porte degli inferi (Matteo 16.18).

Come Verità, invece, Gesù non poteva che parlare del Padre che conosceva senza essere, al contrario del Giudei, un mentitore: “Conosco e osservo la Sua parola”arrivando al punto stesso di incarnarla. Attenzione alle parole di Isaia 42.1-4 che certamente quei Giudei conoscevano molto bene, senza però comprenderle: “Ecco il mio servo, che io ho scelto; il mio amato, nel quale ho posto il mio compiacimento. Porrò il mio spirito sopra di lui e annuncerà alle nazioni la giustizia. Non contesterà né griderà né si udrà nelle piazze la sua voce. Non spezzerà una canna già incrinata, non spegnerà una fiamma smorta, finché abbia fatto trionfare la giustizia; nel suo nome spereranno le nazioni”. E qui ci raccordiamo alle promesse fate ad Abrahamo, che le recepì e le contemplò da lontano, rallegrandosene.

“Il mio giorno”che quest’uomo desiderava vedere (e che vide) sappiamo che può riferirsi a vari eventi, come quello della Sua nascita, della Sua manifestazione al mondo, la Sua seconda venuta per giudicare vivi e morti oppure tutto lo svolgersi del proprio ufficio di Mediatore, anche se personalmente intendo il primo caso in quanto gli altri sono conseguenti. Chissà se Abrahamo non “vide”quel giorno proprio quando gli fu annunciata la nascita di Isacco, vero figlio perché avuto da Sara e non dalla schiava Agar. Leggiamo infatti che rise. Anche il libro della Genesi, come tutti gli altri, non va letto con la convinzione che gli avvenimenti e le parole riportate furono gli unici o le uniche.

“Abrahamo vostro padre”, esultando, fece ciò che loro, come guide cieche, non facevano perché non in grado di vedere che proprio quel “giorno”era giunto a loro ed era alla loro portata.

Gesù cita Abrahamo sia perché viene nominato dai Giudei per primi, sia perché lo aveva conosciuto e gli aveva parlato, ma a questo punto gli viene posta un’altra domanda: “Tu non hai ancora cinquant’anni e hai visto Abrahamo?”(v.57), allusione al punto culminante della vita (50 anni) in cui i sacerdoti e i leviti venivano dispensati dal servire nel Tempio e nel Tabernacolo. Per i Giudei, i trentatré anni circa di Gesù erano una cifra insignificante anche se dimenticavano che era proprio a trenta che il loro servizio iniziava.

Un fratello ha sottolineato un’altra stortura degli oppositori di Nostro Signore, poiché lo accusano di sostenere di avere “visto Abrahamo”quando in realtà aveva detto il contrario, cioè che Abrahamo aveva visto Lui: in effetti sembra cosa da poco, ma così sminuivano, certo spinti dall’Avversario, la portata delle Sue parole che, nel verso successivo, saranno di una valenza e di un peso dottrinale enorme: “Prima che Abrahamo fosse, io sono”, che esamineremo dal prossimo capitolo.

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12.23 – NON VEDER LA MORTE IN ETERNO (Giovanni 8.48-51)

12.23 – Non veder la morte in eterno (Giovanni 8.48-51)

           

 

48Gli risposero i Giudei: «Non abbiamo forse ragione di dire che tu sei un Samaritano e un indemoniato?». 49Rispose Gesù: «Io non sono indemoniato: io onoro il Padre mio, ma voi non onorate me. 50Io non cerco la mia gloria; vi è chi la cerca, e giudica. 51In verità, in verità io vi dico: se uno osserva la mia parola, non vedrà la morte in eterno».

 

“Chi è da Dio ascolta le parole di Dio; perciò voi non le ascoltate: perché non siete da Dio” sono le parole di Gesù che danno luogo all’intervento dei Giudei che abbiamo letto. Ora è chiaro che l’ascolto cui fa riferimento Nostro Signore dev’essere costruttivo e chiama in causa l’elaborazione onesta delle Sue parole, quella che implica una valutazione serena e obiettiva di quanto da Lui annunciato e non quella puntigliosa e ostile messa in atto aprioristicamente dai suoi oppositori. Questi, agendo sempre e comunque ascoltando loro stessi, disattendevano e oltraggiavano proprio Colui che, quando Gesù venne battezzato, parlò ai presenti dal cielo dicendo “Questo è il mio amato figlio, nel quale mi sono compiaciuto” (Matteo 3.17). Così facendo i Giudei si ponevano completamente fuori dal piano di Dio, estranei a tutta quella generazione di uomini spirituali che li avevano preceduti essendo quello il tempo in cui “molti profeti e re hanno voluto vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono” (Luca 10.24).

L’ascolto cui Gesù fa qui riferimento, che trova le sue radici anche negli scritti dell’Antico Patto, non è mai disgiunto da una profonda valutazione ed immedesimazione nel prossimo per non commettere errori di giudizio; ricordiamo ad esempio Deuteronomio 1.16, “Ascoltate le cause dei vostri fratelli e decidete con giustizia fra un uomo e suo fratello o lo straniero che sta presso di lui”. Ancora, ricordiamo le parole della Sapienza in Proverbi 8.6, dalle quali vediamo come non sia possibile scorporare l’ascolto dalla messa in pratica, “Ascoltatemi, perché parlerò di cose importanti e le mie labbra si apriranno per dire cose giuste”. Invece, i Giudei del nostro episodio possono essere identificati nel verso di Isaia 42.20, “Hai visto molte cose, ma senza prestarvi attenzione; le tue orecchie erano aperte, ma non hai udito nulla”.

Prova di tutto questo è proprio l’assurdo insulto del verso 48 in cui Gesù è definito “Samaritano” e, ancora una volta, “indemoniato”, così temporalmente vicino a quanto letto in 7.20, “Sei indemoniato! Chi cerca di ucciderti?”. Ora il termine “Samaritano” significa che Nostro Signore non era nemmeno considerato come un giudeo, ma come un vero e proprio impostore che con Israele e con Abrahamo non aveva nulla a che fare. Egli era dunque uno straniero, un scismatico, un impuro, per di più indemoniato, cioè una non persona posseduta da uno spirito che lo faceva parlare ed agire in modo tale da sedurre chi, come loro, non aveva che “un solo padre”, Abrahamo o Dio a seconda di come si ritenessero al momento.

Dal nostro testo, poi, non può essere ignorata la calma di Gesù, che non segue i Giudei sul terreno della contesa, ma resta sul sentiero della verità così a loro estranea, fedele a quanto scritto dall’apostolo Pietro che, nella sua prima lettera, annota “Anche Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme: egli non commise peccato e non si trovò inganno sulla sua bocca; insultato, non rispondeva con insulti. Maltrattato, non minacciava vendetta, ma si affidava a colui che giudica con giustizia” (2.21-23).

Notiamo ora come risponde Gesù ai versi 49 e 50: se avesse parlato anche solo in modo enfatico, avrebbe sminuito la portata delle sue parole perché la loro gravità si sarebbe ridotta; Dio infatti non parla per spot pubblicitari in cui l’attenzione del bersaglio va indirizzata, stimolata con escamotages che lo convoglino a scelte para obbligate, ma tramite parole di verità che non hanno bisogno di sottolineature, grassetti o marcature varie; queste se mai le usa chi studia e, guardando ad esempio le nostre Bibbie, non ve n’è una uguale all’altra quanto a segni, evidenziazioni o note.

Dio non alza la voce come molti per farsi meglio sentire, per esternare rabbia o sostenere le proprie ragioni, ma avverte con la parola o con la lettera e soprattutto agisce mantenendo ciò che promette tanto nel bene quanto nel male. Sta solo all’uomo “ascoltare” perché nulla resterà in sospeso e nessuno resterà impunito o premiato a seconda di come avrà agito. Il tragico è che  raramente la creatura si ferma per pesare la portata della Parola di Dio.

Quanto Gesù dice va letto – “ascoltato” come nel nostro episodio – con tutto il suo peso scegliendo, individuando ciò ci riguarda direttamente. Ecco allora che qui abbiamo “Io non sono indemoniato: io onoro il Padre mio, ma voi non onorate me – la traduzione corretta è “mi disonorate” –. Io non cerco la mia gloria; vi è chi la cerca, e giudica”. Si tratta di parole dalla portata immensa, che ignorano completamente l’accusa dell’essere indemoniato, ma si spostano sulla Sua attività incessante di “onorare il Padre”, cioè aderire continuamente al Suo progetto per il recupero dell’uomo in modo tale che sia reso partecipe all’essenza del Padre e del Figlio, che troverà compimento nei “nuovi cieli e nuova terra dove dimora stabile la giustizia”.

L’“onorare il Padre” da parte di Gesù equivaleva all’esercizio di una costante innocenza, non contaminazione dal peccato, continuare ad essere un tutt’uno con Lui nonostante il proprio corpo di carne perché altrimenti avrebbe fallito. Se così non fosse stato, non avrebbe mai potuto essere il Figlio di Dio, manifestarsi al mondo, essere il solo tramite fra il Padre e l’uomo peccatore, rivelarLo. Se Gesù non avesse onorato il Padre in modo perfetto, potremmo dire di Lui che sì, sarebbe stato un grande profeta ma, come tutti i profeti, un uomo che ci ha fornito una rivelazione parziale di Dio e saremmo ancora qui ad aspettare un Liberatore, un Messia, il mediatore perfetto di cui Giobbe lamentava la mancanza. Ma c’è di più, saremmo dei pagani, cioè ancora estranei alla realtà e al piano di Dio che, eventualmente, potremmo vedere da lontano senza esserne partecipi.

Di fronte ai Giudei del nostro episodio, allora, stava Uno che onorava il Padre ed era in mezzo a gente che Lo disonorava, cioè non solo era totalmente indifferente a tutto ciò che diceva e faceva, ma Lo osteggiava in tutto e progettava già da tempo la sua morte.

L’ultima parte del verso, “Io non cerco la mia gloria; vi è chi la cerca, e giudica”, va divisa in due parti: la prima è chiara ed è, sotto certi aspetti, una risposta all’essere “un Samaritano” sotto l’aspetto dell’impostore. A Gesù non interessò mai ricevere un riconoscimento umano e basta ricordare l’episodio della prima moltiplicazione dei pani e dei pesci in cui leggiamo “Ma Gesù, sapendo che stavano per venire a prenderlo far farlo re, si ritirò di nuovo sulla montagna, tutto solo” (Giovanni 6.15), ma quello spirituale certamente sì, non per se stesso, ma perché l’uomo potesse essere salvato. Possiamo dire che Nostro Signore non poteva cercare “la mia gloria” perché non avrebbe potuto portare da nessuna parte, sarebbe stata sterile perché credere in Lui disgiungendolo dal Padre avrebbe portato ad una visione incompleta, ad una religione come altre nonostante i miracoli e la resurrezione; invece, tutto è stato fatto, è stato “compiuto” in relazione al bisogno urgente, all’indispensabilità del fatto che Dio si rivelasse attraverso di Lui perché Gesù Cristo è il tramite che conduce al Padre, fonte di vita, responsabile di quel gesto di amore infinito e gratuito che fu la creazione dell’universo che avrebbe dovuto avere l’uomo al centro e non, come oggi, a margine, vittima di se stesso.

Penso che, più di altre parole, sia Giovanni 17.1-5 a renderci l’idea di quanto avvenuto: “…alzàti gli occhi al cielo, disse: «Padre, è venuta l’ora: glorifica il Figlio tuo perché il Figlio glorifichi te. Tu gli hai dato potere su ogni essere umano, perché egli dia la vita eterna a tutti coloro che gli hai dato. Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo. Io ti ho glorificato sulla terra, compiendo l’opera che mi hai dato da fare. E ora, Padre, glorificami davanti a te con quella gloria che io avevo presso di te prima che il mondo fosse”.

E qui arriviamo alla seconda parte del verso, “vi è chi la cerca, e giudica”, cioè Padre e Figlio assieme e qui possiamo vedere la differenza fra il Gesù in carne come “figlio dell’uomo” e come si manifesterà nell’ultimo giorno: “Il Padre non giudica nessuno, ma ha dato ogni giudizio al Figlio, perché tutti onorino il Figlio come onorano il Padre. Chi non onora il Figlio, non onora il Padre che lo ha mandato. In verità, in verità io vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita” (Giovanni 5.22-24). Abbiamo allora Gesù in doppia veste, poiché non essendo venuto sulla terra per condannare il mondo, ma perché questo fosse salvato per mezzo di lui (Giovanni 3.17), ben altra realtà sarà vista da tutti una volta in cui sarà presente o assente come Avvocato Difensore. Infatti “…se qualcuno ha peccato, abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo giusto. Egli è vittima d’espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo”. Per capire la differenza fra il Cristo compassionevole dei Vangeli e il Dio glorificato e glorioso dopo la Sua resurrezione, è sufficiente la lettura del libro dell’Apocalisse in cui viene presentato in una versione molto diversa, per noi attuale – quando agli avvenimenti nell’eternità in cui è tornato – e al tempo stesso futura, quando il tempo del mondo e dell’umanità avrà fine.

E qui giungiamo al nostro ultimo verso in cui abbiamo il doppio “amen” di Gesù, “In verità in verità io vi dico: se uno osserva la mia parola, non vedrà la morte in eterno”. Anche qui la traduzione non è precisa perché l’ “osservare” potrebbe lasciar pensare ad un seguire freddamente un libretto di istruzioni; al contrario qui si parla di custodire, che implica un’azione ben diversa: un bene dato in custodia è qualcosa di prezioso, da curare continuamente, da proteggere, è qualcosa di cui si è responsabili. Se si fa questo, non si vedrà mai la morte e in particolare l’episodio della risurrezione di Lazzaro ne è un esempio perché, poco prima di operare, Gesù disse “Io sono la resurrezione e la vita. Chi crede in me, anche se muore, vivrà. Chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno” (Giovanni 11.25,26).

Anche qui è importante il verbo: “vedere la morte” equivale a farne esperienza, provarla e certo non si parla di quella del corpo, attraverso la quale tutti passeranno salvo quei credenti che saranno in vita al ritorno di Gesù. “Vedere la morte” è comunque un ebraismo che allude al morire e qui, raccordandoci a quanto detto poco prima, il parallelo è con Apocalisse 21.8, “Ma per i vili e gli increduli, gli abietti e gli omicidi, gli immorali, i maghi, gli idolatri e per tutti i mentitori è riservato lo stagno ardente di fuoco e di zolfo. Questa è la seconda morte”.

Per chi crede, per chi cerca ed è destinato a trovare, valgono però altre parole: “In verità in verità vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a Colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita” (Giovanni 5.24). Amen.

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12.22 – DUE PADRI (Giovanni 8.42-47)

12.22 – Due padri (Giovanni 8.42-47)

42Disse loro Gesù: «Se Dio fosse vostro padre, mi amereste, perché da Dio sono uscito e vengo; non sono venuto da me stesso, ma lui mi ha mandato. 43Per quale motivo non comprendete il mio linguaggio? Perché non potete dare ascolto alla mia parola. 44Voi avete per padre il diavolo e volete compiere i desideri del padre vostro. Egli era omicida fin da principio e non stava saldo nella verità, perché in lui non c’è verità. Quando dice il falso, dice ciò che è suo, perché è menzognero e padre della menzogna. 45A me, invece, voi non credete, perché dico la verità. 46Chi di voi può dimostrare che ho peccato? Se dico la verità, perché non mi credete? 47Chi è da Dio ascolta le parole di Dio. Per questo voi non ascoltate: perché non siete da Dio».

Le parole di Gesù in questo intervento sono fondamentali per capire ciò che spingeva i Giudei ad ostacolare la Sua predicazione e a porsi costantemente contro di Lui; viene infatti demolita la lettura “politica” del loro comportamento che li vedrebbe come persone che, in buona fede, ritenendosi custodi della dottrina dell’Unico Dio e guide legittime di Israele, la dovevano difendere da chiunque si opponesse a loro. Forse, nella cecità che li animava, quei Giudei intendevano adattare alla circostanza Deuteronomio 13.2-5: “Qualora sorga in mezzo a te un profeta o un sognatore che ti proponga un segno o un prodigio, e il segno o prodigio annunciato succeda, ed egli ti dica «Seguiamo dèi stranieri, che tu non hai mai conosciuto, e serviamoli», tu non dovrai ascoltare le parole di quel profeta o di quel sognatore, perché il Signore, vostro Dio, vi mette alla prova per sapere se amate il Signore, vostro Dio, con tutto il cuore e con tutta l’anima. Seguirete il signore, vostro Dio, temerete lui, osserverete i suoi comandi, ascolterete la sua voce, lo servirete e gli resterete fedeli. Quanto a quel profeta o a quel sognatore, egli dovrà essere messo a morte, perché ha proposto di abbandonare il Signore, vostro Dio, che vi fatto uscire dalla terra d’Egitto e ti ha riscattato dalla condizione servile, per trascinarti fuori della via per la quale il signore, tuo Dio, ti ha ordinato di camminare. Così estirperai il male in mezzo a te”.

Questo verso, attuale anche oggi perché il cristianesimo non può accettare come provenienti da Dio fenomeni ingannatori che l’Avversario può sempre produrre per introdurre dottrine estranee alla fede (supportandole attraverso miracoli e falsi profeti), era però nel caso di specie totalmente avulso dal contesto e, soprattutto, è indice di quanto sia facile far dire alla Bibbia ciò che vuole l’uomo quando lo Spirito Santo è assente. Sappiamo che quei Giudei avevano dichiarato prima di non avere altro padre all’infuori di Abrahamo e poco dopo di avere “un solo padre: Dio!”(v.41), ma la risposta di Gesù “Se Dio fosse vostro padre, mi amereste, perché da Dio sono uscito e vengo”stabilisce una prima, enorme distanza là dove quel “mi amereste”va letto come seguire ed essere naturalmente attratti da lui, come avvenuto per molti tra il popolo. In altri termini, se quei Giudei avessero avuto davvero Dio per padre, avrebbero accolto con gioia Gesù, riconoscendolo come il loro vero liberatore dalla schiavitù non romana, ma dalla condizione di peccato che li dominava come tutti gli altri uomini. Le parole “Il regno dei cieli è vicino”, pronunciate molto tempo prima, erano supportate da tutta una storia che non avrebbe non potuto coinvolgere quelle persone nella mente e nel cuore.

Riflettendo su quanto stava accadendo, alla luce dell’assioma “Nessuno può venire a me se il Padre non lo attira”(Giovanni 6.44) era impossibile che, se quelle persone avessero amato veramente il Padre e fossero stati suoi figli, non avessero avuto difficoltà a riconoscere Gesù e soprattutto compreso il suo “linguaggio”, certo aiutati da quella scienza scritturale che il popolo non aveva eppure Lo ascoltava. Invece, non potevano “dare ascolto”alla Sua parola, di fronte alla quale inciampavano. Si noti quanto sia forte quel “non potete”che sta a indicare un’impossibilità duratura, incapacità funzionale, totale estraneità. E quanto denunciato da Gesù era possibile solo in un caso, cioè che il “padre” dei suoi oppositori fosse una forza a Lui contraria: “Voi avete per padre il diavolo e volete compiere i desideri del padre vostro”(v.44), lo stesso che si compiace nel distruggere o comunque attentare all’equilibrio della Chiesa dove “Il campo è il mondo. Il seme buono sono i figli del regno; la zizzania sono i figli del maligno e il nemico che l’ha seminata è il diavolo”(Matteo 13.38,39).

Ora occorre prestare la massima attenzione a ciò che implicano queste parole e cioè che ogni uomo o donna ha un padre a livello di appartenenza spirituale. E ciò non può essere ignorato in quanto divide chi è da Dio da chi non lo è. Si tratta di una classificazione che non è riferibile a quelli che ancora non credono, ma a chi, come l’Avversario, si pone all’opposizione più ferma ricorrendo ad ogni mezzo pur di ostacolare, negare il Vangelo e perseguitare chi lo propone. Due mondi fra i quali è già posta, come nella parabola del ricco stolto, “una gran voragine”, mondi incompatibili fra loro, quindi con destini diametralmente opposti.

Altra caratteristica di quei Giudei e di tutti quanti si identificano in loro a livello di opposizione, è “volete fare i desideri del padre vostro”, posizione ben diversa da chi, in quanto peccatore non ancora perdonato, si trova in una condizione di lontananza da Dio e in temporanea estromissione da Lui. Qui la “volontà” è per libera scelta, qualcosa di ben peggiore rispetto ad essere “per natura meritevoli d’ira”nel contesto espresso in Efesi 2.3, “Anche tutti noi, come loro, un tempo siamo vissuti nelle nostre passioni carnali seguendo le voglie della carne e dei pensieri cattivi: eravamo per natura meritevoli d’ira, come gli altri”: qui l’apostolo Paolo fa riferimento alle“cose vecchie”che “sono passate”, ma nel caso dei personaggi cui Gesù parla si tratta di un seguire l’Avversario fin dalle origini. Egli è “omicida fin dal principio”, definizione che risale a quando, vicario di Dio in Eden, volle condurre Adamo e sua moglie alla rovina (“Nel giorno in cui ne mangerai, per certo morirai”) perché il suo orgoglio non poteva sopportare che vi fosse una creatura innocente a rubargli l’egemonia che aveva in quanto Cherubino protettore. Il primo omicidio della nostra storia storia, quindi, alla luce di questo dato si può dire che non fu quello di Abele, ma di Adamo ed Eva, che senza dare ascolto a Satana avrebbero potuto vivere un’eternità di luce e perfezione.

Il padre dei Giudei che questionavano con Nostro Signore era quindi “omicida– altri traducono “micidiale”, cioè capace di provocare la morte per lo più in modo violento – fin dal principio”, e incapace di restare “saldo nella verità, perché in lui non c’è verità”(v.44), quindi solo menzogna e inganno come forza distruttiva e, perché questo avvenga, c’è bisogno di autori e di vittime. Facendo un parallelo con 2 Pietro 2.1-3: “Ci sono stati anche falsi profeti tra il popolo, come pure ci saranno in mezzo a voi falsi maestri– e queste sono parole dirette alla Chiesa nel suo percorso storico – che introdurranno eresie perniciose, rinnegando il Signore che li ha riscattati e attirandosi una propria rovina. Molti seguiranno le loro dissolutezze e per colpa loro la via della verità sarà coperta di improperi. Nella loro cupidigia vi sfrutteranno con parole false; ma la loro condanna è già da tempo all’opera e la loro rovina in agguato”.

Torniamo alla descrizione di Gesù su Satana, “Quando dice il falso, dice ciò che è suo, perché è menzognero e padre della menzogna”(v.44): mi sono chiesto il perché del “Quando”, che sembra posto ad indicare che non sempre “dice il falso”e in effetti così è, visto che di fronte a Dio sa di non poter mentire. Satana disse il vero, ad esempio, in Giobbe 1.6 quando, alla domanda “Da dove vieni?”, rispose “Da un giro sulla terra che ho percorso in lungo e in largo”. Sempre dal contesto di quell’episodio, però, emerge la sua natura distruttrice quando propose a Dio di provare quell’uomo: “Tutto quello che possiede, l’uomo è pronto a darlo per la sua vita– ed è una verità, basta guardarsi attorno –. Ma stendi un poco la mano e colpiscilo nelle ossa e nella carne e vedrai come ti maledirà apertamente!”. Sappiamo che YHWH non poteva sottrarsi a quelle parole nonostante conoscesse Giobbe profondamente e rispose “Eccolo nelle tue mani. Soltanto risparmia la sua vita”(2.6).

Gesù, parlando del padre dei Giudei, sostiene nella Sua autorità che, dicendo (e fabbricando) il falso “dice ciò che è suo”quindi viene esclusa una menzogna inventata, ma naturalmente presentata sul momento come fatto, come prodotto perché “in lui non c’è verità”quindi, come ha scritto un fratello, “questo significa che egli è internamente destituito di verità, mancante di quella santa e trasparente rettitudine che egli possedeva da principio, quale creatura di Dio. La menzogna è divenuta la vera e propria sua natura, per cui è interamente alieno dalla verità di Dio”. Abbiamo allora il falso come qualcosa di generato da lui, il risultato naturale, il frutto di un’essenza e non una costruzione risultato di un ragionamento. Attenzione, quindi, alle persone false che tutti noi conosciamo o con le quali veniamo a che fare!

“Parla del suo”: la traduzione letterale sarebbe “Parla del suo proprio”o “dalle proprie risorse”, quindi del fatto che un essere separato da Dio non può che risiedere nelle tenebre assolute e, anche se è in grado di produrre idee o fenomeni di qualunque tipo, in quanto indipendenti dalla volontà del Creatore, non possono altro che portare alla rovina. E credo che noi tutti siamo portatori di un’esperienza diretta in tal senso avendo provato personalmente gli effetti di persone che hanno scelto volontariamente la strada indicata dall’Avversario anziché l’unica percorribile per essere salvati ed appartenere ad un padre diverso.

Il “Padre della menzogna”la trasmette quale contrassegno ereditario a chi è già suo e così sarà fino all’ultimo, quando vi sarà chi entrerà nel Regno di Dio e chi no: “Fuori i cani – cioè gli immondi–  i fattucchieri, gli immorali, gli omicidi, gli idolatri e chiunque ama e pratica la menzogna!”(Apocalisse 22.15).

Il fatto che l’opposizione a Gesù fosse priva di fondamento così come lo è la menzogna, è rilevabile al verso 46,“Chi di voi può dimostrare che ho peccato?”: è un invito a trovare anche il più piccolo frammento di errore o trasgressione alla luce della Legge (non certo cerimoniale) e a scavare nella Sua vita che, come abbiamo visto all’inizio di questo lungo percorso di riflessioni, fu un continuo adempimento a quanto scritto dai Profeti.

Arriviamo così al nostro ultimo verso, “Chi è da Dio, ascolta le parole di Dio. Per questo voi non mi ascoltate, perché non siete da Dio”: anche questo è un verso impegnativo e sarà più volte ripreso e ampliato nelle varie lettere, soprattutto da Giovanni quando scrive “Noi siamo da Dio. Chi conosce Dio ascolta noi: chi non è da Dio non ci ascolta”(1a, 4.6). Si tratta di versi che a volte tendiamo a dimenticare nonostante racchiudano una verità assolutamente seria che riguarda chi, ascoltato il Vangelo, oppone un rifiuto fermo e categorico che resta immutato nel tempo senza variazione alcuna (anzi, il più delle volte tale posizione si fa sempre più dura, come inevitabile).

Menzogna e verità sono quindi i due elementi che ancora una volta si contrappongono, la prima rende sempre più schiavi, la seconda, se scelta, rende liberi. Amen.

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12.21 – ABRAMO PER PADRE IV/IV (Giovanni 8.39-41)

12.21 – Abramo per padre IV/IV (Giovanni 8.39-41)

39Gli risposero: «Il padre nostro è Abramo». Disse loro Gesù: «Se foste figli di Abramo, fareste le opere di Abramo. 40Ora invece voi cercate di uccidere me, un uomo che vi ha detto la verità udita da Dio. Questo, Abramo non l’ha fatto. 41Voi fate le opere del padre vostro». Gli risposero allora: «Noi non siamo nati da prostituzione; abbiamo un solo padre: Dio!».

Negli ultimi tre capitoli si è cercato di affrontare il personaggio di Abrahamo, sviluppato in modo sommario stante la profondità dei contenuti che avrebbero richiesto ben più spazio. Si è sorvolato su molti versi, fatti e vicende, ma l’intento era quello di fornire un orientamento sul testo e non di sviluppare la sua persona in modo esauriente. Giungiamo così a Genesi 22 col quale concluderemo la panoramica su di lui che, va sottolineato, termina in realtà con 25.8 che riassume la sua esistenza: “L’intera durata della vita di Abrahamo fu di centosettantacinque anni. Poi Abrahamo spirò e morì in felice canizie, vecchio e sazio di giorni, e si riunì ai suoi antenati”.

Venendo quindi al capitolo 22, già il primo verso ci introduce in un àmbito nuovo: “Dopo queste cose, avvenne che Iddio provò Abrahamo, e gli disse: «Abrahamo!», ed egli gli disse «Eccomi»”. Entra qui espressamente, per la prima volta nella sua vita, il tema della prova, l’unico mezzo col quale l’uomo può dimostrare a Dio (e a se stesso) la propria fede e coerenza. La prova, indipendentemente dal tipo, giunge in modo inaspettato e difficilmente si ha modo di riconoscerla, a differenza di quanto avvenne per Gesù quando fu tentato da Satana nel deserto. Della prova abbiamo l’esempio principe in Giobbe, che fra gli antichi la sperimentò più di tutti e, per gli scritti del Nuovo Testamento, abbiamo questa rivelazione a Pietro: “Simone, Simone, ecco, Satana ha chiesto di vagliarvi come si vaglia il grano, ma io ho pregato per te, affinché la tua fede non venga meno”(Luca 22.31,32).

La prova, per la carne, non è mai qualcosa di piacevole, anzi: può turbare profondamente l’anima, gli affetti e il corpo, isolatamente o tutti nell’insieme a seconda dei casi ed è lì che ci riveliamo per ciò che effettivamente siamo. Abrahamo risponde alla chiamata di Dio con “Eccomi”, cioè pronto all’ascolto di qualunque ordine o annuncio, sapendo che non aveva nulla da temere pensando a quanto gli fu detto in occasione dell’alleanza stabilita in Genesi 17, “Io sono l’Iddio Onnipotente, cammina alla mia presenza e sii integro; e io stabilirò il mio patto fra me e te e ti moltiplicherò grandemente” (vv. 1 e 2).

Quanto si sentì dire però al capitolo 22 fu qualcosa di categorico e sconvolgente: “Prendi ora il tuo figliolo, il tuo unico– nato secondo la promessa dalla quale Ismaele era escluso –, il quale tu ami– nel senso che le sue speranze alla luce delle benedizioni ricevute erano riposte in lui –, cioè Isacco, e va’ nella contrada di Moria ed offrilo qui in olocausto, sopra uno di quei monti che ti dirò”(v.2). Mi sono chiesto cosa fosse avvenuto in Abrahamo in quel momento, a parte il proprio dolore di padre: Mosè e coloro che hanno tramandato il libro della Genesi fino a noi non ci hanno lasciato alcuna sua obiezione, ma solo il fatto che pose in atto tutte le premesse perché l’olocausto avvenisse: “Abrahamo dunque, levatosi la mattina di buon’ora, mise il basto al suo asino e prese con sé due suoi servitori ed Isacco suo figliolo e, stipata la legna per l’olocausto, partì e andò nel luogo che Dio gli aveva indicato”(v.3). Il viaggio durò tre giorni, certo ricchi di pesanti interrogativi sul senso che poteva avere quell’ordine di Dio che metteva in discussione la promessa in base alla quale sarebbe diventato “padre di una moltitudine di nazioni”(17.4,5,6), chiamava in causa il perché della nascita di Isacco, la circoncisione che gli aveva fatto e il convito offerto quando fu svezzato (21.8). Ora tutto era diventato oscuro, senza spiegazione razionale e, poiché la voce di Dio non poteva averla confusa con nessun’altra, non restava che adempiere a quanto gli era stato detto nonostante tutte queste contraddizioni. Teniamo presente che però questa è solo una lettura immediata del testo.

Certo Abrahamo aveva ben presente ciò che il Signore gli aveva detto a proposito dei suoi due figli in 21.19-21: “Sara, tua moglie, ti partorirà un figlio e tu gli porrai nome Isacco, e io stabilirò il mio patto con lui per patto perpetuo per la sua progenie dopo di lui. E quanto ad Ismaele, ancora, io t’ho esaudito: ecco, l’ho benedetto e lo farò moltiplicare grandissimamente: egli genererà dodici prìncipi ed io lo farò diventare una grande nazione. Ma io fermerò il mio patto con Isacco, che Sara ti partorirà l’anno che viene, in questa stessa stagione”. Eppure, alle parole di Dio sull’olocausto da compiere, Abrahamo non disse nulla, cosa che invece avvenne col dialogo intercessore sui giusti eventualmente presenti in Sodoma: perché? Credo che una prima ragione vada ricercata nel fatto che, se nel caso della città che sarebbe stata distrutta stava parlando al Dio apparso in forma umana mentre, qui fu immediatamente chiaro che la parola rivoltagli, provenendo da YHWH, non poteva essere messa in discussione.

Va poi ricordata la corretta interpretazione del nostro episodio che già avevo messo in risalto in un precedente capitolo, e cioè che Abrahamo da un lato provava un dolore assolutamente umano, ma dall’altro era sospinto da una fede basata sulla certezza che non solo sarebbe stato protetto, ma che Isacco non sarebbe morto nel senso che sarebbe solo passato oltre la vita e qui abbiamo la fede nella resurrezione. Ricordiamo il commento all’episodio di Ebrei 11.17: “Per fede Abrahamo, messo alla prova, offrì Isacco, e proprio lui, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unigenito figlio, del quale era stato detto: Mediante Isacco avrai una discendenza. Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti, per questo lo riebbe anche come simbolo”.Ecco allora che Abrahamo fondò tutto il suo agire sulla base che le promesse di Dio si sarebbero realizzate comunque a prescindere del fatto che il proprio figlio passasse o meno attraverso la morte del corpo.

Altra nota va rilevata sul luogo indicato da Dio, la contrada di Moria e i suoi relativi due monti, il Sion e il Moria, sul quale sarà poi costruito il Tempio:“Salomone cominciò a costruire il tempio del Signore a Gerusalemme sul monte Moria, dove il Signore era apparso a Davide, suo padre, nel luogo preparato da Davide sull’aia di Ornan il Gebuseo”(2 Cronache 3.1). Il fatto che prima dell’apparizione a Davide Abrahamo fu fermato, molto dice sul significato di questo luogo.

“Ed Abrahamo stese la mano e prese il coltello per uccidere suo figlio. Ma l’Angelo del Signore gli gridò dal cielo e disse: «Abrahamo, Abrahamo!». Ed egli disse: «Eccomi» – segno che l’evento non aveva mutato la sua disponibilità nei confronti di Dio –. E l’Angelo gli disse: «Non mettere la mano addosso al ragazzo e non fargli nulla, perché ora so che tu temi Iddio, poiché non mi hai negato tuo figlio, il tuo unico– cioè quello della promessa e non Ismaele –». È assolutamente rilevante quel “mi”e non “gli”: Dio Padre non poteva essere certo definito “L’Angelo del Signore”, mentre il Figlio, la cui esistenza non era stata ancora rivelata (per quanto deducibile, ma alla luce del Nuovo Testamento) non poteva che venire raffigurato in quell’ “Angelo”così come, in Eden, nell’ “albero della vita”.

Altra frase che non può essere ignorata è “Ora so che tu temi Iddio”: e prima? Ancora una volta vale quanto osservato sul significato dell’essere “predestinati”, termine che è stato molto abusato e che non implica l’inevitabilità assoluta da parte dell’uomo di non poter agire diversamente da come opera in quel momento, ma semplicemente il fatto che ogni cosa che facciamo esiste quando avviene ed è sempre conseguenza di una nostra scelta, come fu per Abrahamo. “Ora so”sono parole pronunciate dall’Angelo per fargli capire il motivo della richiesta del sacrificio di Isacco, cioè la necessità che superasse la prova perché attraverso quella, la più ardua, avrebbe potuto dimostrare di essere in grado di portare tutte le benedizioni ricevute. La gratuità del dono di Dio andava confermata mediante la prova perché altrimenti Abrahamo non avrebbe potuto essere credibile né essere considerato padre di tutti i credenti indipendentemente dall’etnia di appartenenza.

La prova superata – attenzione – non costituì un merito umano di cui Abrahamo poteva andare fiero, ma semplicemente fu un comportamento corretto che produsse quanto scritto da Giacomo 2.21: “Abrahamo, nostro padre, non fu forse giustificato per le sue opere, quando offrì Isacco sull’altare? Vedi: la fede agiva insieme alle opere di lui, e per le opere la fede divenne perfetta”. Senza la fede, quindi quest’uomo non sarebbe mai stato in grado di giungere al punto di sacrificare il proprio figlio; però, essendo la fede senza le opere qualcosa di inerte, ecco che per esse diventa “perfetta”ed ecco perché gli fu rinnovata la promessa: “Io giuro per me stesso, dice il Signore Iddio, poiché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuo figlio, l’unico tuo figlio, io certo ti benedirò grandemente e moltiplicherò la tua discendenza come le stelle dei cielo e come la sabbia che è sul lido del mare e la tua discendenza possederà la porta dei tuoi nemici– modo di dire per alludere al pieno potere su di loro – . E tutte le nazioni della terra saranno benedette nella tua discendenza, perché tu hai ubbidito alla mia voce”(vv.16-19).

Il fatto che la promessa venne ripetuta due volte sta quindi a indicare che con la prima abbiamo una gratuita offerta, proveniente dalla libera iniziativa e dall’amore di Dio, mentre la seconda è il frutto dell’impegno reciproco. Abrahamo le accettò entrambe, la prima per fede (e fu già molto), la seconda per le opere che la confermarono, “rendendola perfetta”come commenta Giacomo, fratello del Signore.

Concludendo ancora una volta con l’attualità del tempo in cui Gesù parlò ai Giudei, certo alla luce di quanto ricordato non potevano dire “il padre nostro è Abrahamo”; indubbiamente discendevano da lui, ma ne erano distanti anni luce in quanto a fede ed è proprio ciò che si sentirono dire: “Se foste figli di Abrahamo, fareste le opere di Abrahamo. Ora invece voi cercate di uccidere me, un uomo che vi ha detto la verità udita da Dio. Questo, Abrahamo non lo ha fatto. Voi fate le opere del padre vostro”, chiaro riferimento all’Avversario che i Giudei compresero solo in parte, poiché la loro replica, “Noi non siamo nati da prostituzione, abbiamo un solo padre, Dio”altro non è che una menzogna rinnovata come la precedente, quella di non essere stati mai schiavi di nessuno: “nati da prostituzione”, o “fornicazione”come traducono altri, è un modo di sostenere che non provenivano da un popolo idolatra e quindi si arrogano il diritto di essere figli di Dio, cosa impossibile perché l’appartenergli non è cosa che si trasmette geneticamente.

Avere“un solo padre”è un richiamo alle origini, quando Dio disse a Mosè “Tu dirai al faraone: «Così dice il Signore: Israele è mio figlio, il mio primogenito. Perciò io ti dico: Lascia andare il mio figlio affinché mi serva; ma se tu rifiuti di lasciarlo andare, ecco io ucciderò il tuo figlio, il tuo primogenito»”(Esodo 4.22,23).

Nei versi che seguono e che affronteremo nel prossimo capitolo, Gesù stabilirà in modo univoco la differenza fra l’avere un Padre e un padre: “Se Dio fosse vostro padre, mi amereste, perché da Dio sono uscito e vengo; non sono venuto da me stesso, ma lui mi ha mandato. Per quale motivo non comprendete il mio linguaggio? Perché non potete dare ascolto alla mia parola. Voi avete per padre il diavolo e volete compiere i desideri del padre vostro. Egli era omicida fin da principio e non stava saldo nella verità, perché in lui non c’è verità. Quando dice il falso, dice ciò che è suo, perché è menzognero e padre della menzogna. A me, invece, voi non credete, perché dico la verità. Chi di voi può dimostrare che ho peccato? Se dico la verità, perché non mi credete? Chi è da Dio ascolta le parole di Dio. Per questo voi non ascoltate: perché non siete da Dio”.

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12.20 – ABRAMO PER PADRE III/IV (GIOVANNI 8.39-41)

12.20 – Abramo per padre 3 (Giovanni 8.39-41) 

39Gli risposero: «Il padre nostro è Abramo». Disse loro Gesù: «Se foste figli di Abramo, fareste le opere di Abramo. 40Ora invece voi cercate di uccidere me, un uomo che vi ha detto la verità udita da Dio. Questo, Abramo non l’ha fatto. 41Voi fate le opere del padre vostro». Gli risposero allora: «Noi non siamo nati da prostituzione; abbiamo un solo padre: Dio!».

Nei primi due capitoli ci siamo occupati di Abramo secondo il suo significato di “Padre grande”, datogli dal proprio padre Terach. Se quindi il nome dato a un figlio racchiudeva in sé ciò che questo sarebbe diventato un giorno o le caratteristiche somatiche o caratteriali, va da sé che nel momento in cui Dio interviene per modificarlo rende questo nome completo, lo rivela nella sua realtà operante. Per farlo fu sufficiente una “h” che, se fosse stata inserita da un uomo, sarebbe rimasta soltanto una consonante priva di valore non dando luogo ad alcuna modifica storica. Infatti:“Quanto a me, ecco io faccio con te un patto: tu diventerai padre di una moltitudine di nazioni. E non sarai più chiamato Abramo, ma il tuo nome sarà Abrahamo, poiché io ti faccio padre di una moltitudine di nazioni. Ti renderò grandemente fecondo, quindi ti farò divenir nazioni e da te usciranno dei re. E stabilirò il mio patto fra me e te e i tuoi discendenti dopo di te, di generazione in generazione; sarà un patto eterno, impegnandomi ad essere Iddio tuo e della tua discendenza dopo di te”(17.4-7).

Dal cambiamento del nome abbiamo un susseguirsi di eventi totalmente diversi da quelli di prima, che Abramo aveva conosciuto: viene istituita la circoncisione (17.9-14) e Sarai, che non poteva non rientrare nel piano preparato per il marito, fu chiamata Sara: “Quanto a Sarai tua moglie, non la chiamare più Sarai, ma il suo nome sarà Sara” (v.15). Anche per questa variazione vale la stessa considerazione fatta per il marito: con l’uno aggiunge una consonante, con l’altra toglie una vocale; il nome Sarai significa “Mia signora”con riferimento alla casa e alla famiglia, e Sara “Signora”in senso molto più ampio ed infatti molti traducono “Sara” con “Principessa”. Diodati annota in proposito “…essendo stato Abrahamo stabilito padre dei credenti di ogni nazione, Iddio volle che anche sua moglie rientrasse in quel titolo”. Altrimenti, aggiungo, l’essere “una sola carne”non avrebbe avuto alcun valore. Infatti è scritto “…la benedirò e diventerà nazioni, e re di popoli nasceranno da lei”(v.16), concetto identico che poco prima era stato riservato al marito.

Con la circoncisione ad Abrahamo viene consegnata la responsabilità dell’atto e della trasmissione del patto di quell’alleanza, mantenuta poi nella successiva, della Legge. Subito dopo abbiamo la rivelazione della nascita di Isacco, “Figlio del riso”solo apparentemente in ricordo dell’episodio in cui Sara rise a questa promessa, ma le cui ragioni vanno ricercate in 21.6-7, “Motivo di lieto riso mi ha dato Dio: chiunque lo saprà riderà lietamente di me! Chi avrebbe mai detto ad Abrahamo che Sara avrebbe allattato figli? Eppure gli ho partorito un figlio nella sua vecchiaia”.

Elemento che si tende a sottovalutare è costituito da una nota apparentemente di poco conto che troviamo in 17.22 che conclude il dialogo fra Dio ed Abrahamo riguardo alla nascita di Isacco: “Iddio terminò così di parlare con lui e lasciò Abrahamo, levandosi in alto”. Oltre a confermarci ciò che già sappiamo, cioè che Dio a quel tempo si rivelava in forma umana, non credo sia possibile altra conclusione se non che a parlargli fosse stato il Figlio, che di Dio è Parola, che con quell’ascensione di un corpo che aveva preso forma umana abbia voluto dare al tempo stesso un segno del luogo in cui dimora, che un riferimento a quanto avverrà più di 4mila anni dopo. Ad Abramo appare con corpo, a Mosé viene detto che non potrà essere visto perché “Tu non puoi vedere il mio volto, perché l’uomo non può vedermi e vivere”(Esodo 33.20). Il Dio delle promesse, quello che parla, è vicino, quello della Legge è distante, per quanto operativo, nella Sua Santità e Potenza.

Molto significativo sulle teofanie ad Abrahamo è quanto leggiamo in 18.1,2, preludio al rinnovo della promessa della nascita di un figlio da Sara: “Poi il Signore apparve a lui alle querce di Mamre, mentre egli sedeva all’ingresso della tenda nell’ora più calda del giorno. Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui”.

Sull’identità di costoro interviene l’autore della lettera agli Ebrei scrivendo “Non dimenticate l’ospitalità; alcuni praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo”(13.2), ma ci sono fondati motivi per ritenere che uno di essi, ancora una volta, fosse il Figlio di Dio: sarà infatti solo uno a parlare senza considerare il verso 13 “E il Signore disse ad Abrahamo: «Perché ha riso Sara, dicendo potrò mai partorire, essendo già vecchia?»”. Si noti “Il Signore”, e non un suo angelo, che intervenne personalmente stante la solennità del momento perché con la nascita di Isacco si sarebbe posta una pietra miliare nel percorso dell’umanità verso la salvezza.

La presenza di Gesù, tornando al tema, credo sia anche deducibile dal fatto che a entrare in Sodoma furono due, mentre il terzo, credo Lui, restò fuori (19.1): la ragione di questo, credo, vada ricercata nel fatto che era ai due angeli che spettava il compito della distruzione, strumento di giudizio, mentre al Figlio, in quanto Dio, di ordinarla dopo un attento vaglio:“Ora io scenderò– come avvenuto con la torre di Babele – e vedrò se sono venuti allo stremo come il grido che è pervenuto a me– probabilmente da Lot –. Se no, lo saprò”(18.21). Scrivo questo come opinione personale, parlando il testo di Genesi non in modo illuminante come il Nuovo Testamento, quando si distinguono in modo più accurato i ruoli di YHWH. E non potrebbe essere altrimenti pensando ad Atti 17. 30,31: “Dio dunque, passando sopra i tempi dell’ignoranza, ora comanda agli uomini che tutti, in ogni luogo, si ravvedano, perché ha fissato un giorno nel quale giudicherà il mondo con giustizia per mezzo dell’uomo che egli ha stabilito, e ne ha dato sicura prova a tutti, risuscitandolo dai morti”.

Abbiamo poi, riguardo ai tre personaggi che apparvero ad Abrahamo, una successione particolare poiché, quando si accomiatano da lui, se è scritto che “Quegli uomini, partitisi di là, si diressero verso Sodoma, ed Abrahamo rimase ancora davanti al Signore”(v.22), quindi furono solo due a partire, mentre il terzo si fermò a parlare con lui che intercedé per i giusti, qualora fossero là presenti. Ecco allora che le parole di Gesù “prima che Abramo fosse, io sono”assumono una forte valenza non solo sulla Sua eternità, ma anche nella citazione di “Abrahamo, mio amico”(Isaia 41.8). Il nome di Abrahamo viene allora citato sia perché i Giudei lo avevano da poco nominato, ma anche in riferimento a tutta la protezione e stima di cui fu oggetto nonostante gli errori commessi nella carne.

Anche su Lot ci sarebbe molto da dire; basta però sottolineare il fatto che fu risparmiato dal giudizio sulla città (per quanto si trattò di un’intera regione). Illuminanti sono le parole dell’angelo, “Affrettati, rifugiati là, perché io non potrò far nulla finché tu non sia arrivato là”, dalle quali rileviamo che il giusto sarà sempre risparmiato dalla distruzione riservata all’empio: ciò che avvenne a Sodoma è la figura degli avvenimenti che caratterizzeranno la “Gran Tribolazione”dalla quale la Chiesa sarà risparmiata e in quel “non potrò far nulla”discerniamo tutta la protezione di Dio nei confronti di coloro che lo amano e temono di fronte alla quale l’angelo, che di Lui è un fedele e assoluto esecutore, si ferma.

Pensare che Sodoma fu punita esclusivamente per l’omosessualità praticata ovunque è però un errore: va piuttosto considerato l’atteggiamento totalmente antropocentrico che la caratterizzava, la ricerca (compulsiva) del benessere fine a se stesso indipendentemente da quale fosse lo strumento del piacere; leggiamo le parole rivolte a Gerusalemme: “Ecco, questa fu l’iniquità di tua sorella Sodoma: essa e le sue figlie– le altre città – erano in piena superbia, ingordigia, ozio indolente. Non stesero però la mano contro il povero e l’indigente. Insuperbirono e commisero ciò che è abominevole davanti a me. Io le eliminai appena me ne accorsi”(Ezechiele 16.49-50). E Giuda, nella sua lettera, scrive “Ora voglio ricordare a voi (…)che il Signore, dopo aver salvato il suo popolo dal paese d’Egitto, in seguito fece perire quelli che non credettero. Egli ha pure rinchiuso nelle tenebre dell’inferno con catene eterne, per il giudizio del gran giorno, gli angeli che non conservarono il loro primo stato, ma che lasciarono la loro propria dimora. Proprio come Sodoma e Gomorra e le città vicine, che alla stessa maniera si abbandonarono all’immoralità e seguirono vizi contro natura, stanno subendo esemplarmente le pene di un fuoco eterno”(v.7). Il giudizio che si abbatté sulla regione, poi, non fu solo un castigo, la parola “fine” posta da Dio alla presunta autonomia umana, ma di monito per tutti quelli che ne avrebbero concretato la tendenza: “Così pure condannò alla distruzione le città di Sodoma e Gomorra, riducendole in cenere, lasciando così un segno ammonitore a quelli che sarebbero vissuti senza Dio”(2 Pietro 2.6).

Qui ci troviamo ad un punto fondamentale perché tutta la Scrittura parla del giudizio di Dio su chiunque lo rifiuta, principio che viene sempre esposto nella maniera più chiara possibile: l’uomo con le sue gioie (poche e comunque non garantite come lo sono la sofferenza e la morte) passa anche se si illude di poter vivere un eterno presente. Se sa di dover morire, agisce come se questo evento sia sempre e comunque lontano, non gli appartenga perché, nella carne, non sa come affrontarlo. Esemplare in proposito è il testo di Deuteronomio 29.18-20: “Non vi sia fra voi uomo o donna o famiglia o tribù il cui cuore si allontani dall’Eterno, il nostro Iddio, per andare a servire gli dèi di quelle nazioni; non vi sia tra voi radice alcuna– quindi che agisce sotto terra –che produca veleno o assenzio; e non avvenga che alcuno, ascoltando le parole di questo giuramento, in cuor suo faccia propria una benedizione dicendo «Avrò pace anche se camminerò secondo la caparbietà del mio cuore» come se l’ebbro potesse essere incluso al sobrio. L’Eterno non gli potrà mai perdonare, ma in tal caso la sua ira e gelosia arderanno contro quell’uomo e tutte le maledizioni scritte in questo libro si poseranno su di lui, e l’Eterno cancellerà il suo nome sotto il cielo”.

Concludendo questo scritto, e come consuetudine tornando al tempo in cui Gesù parlò ai Giudei, il nome di Abrahamo da loro pronunciato così alla leggera avrebbe dovuto farli riflettere anche attorno al giudizio su Sodoma, ricordato fra l’altro da Lui stesso in un’altra occasione quando disse alla città di Capernaum “…se in Sodoma fossero avvenuti i miracoli compiuti in te, oggi ancora essa esisterebbe!”. Il nome di Abrahamo implica certo le promesse, la circoncisione che anticipava la Legge, il rinnovo in un certo senso del patto dell’appartenenza e l’essere sua progenie secondo la carne, ma anche il giudizio sugli operatori d’iniquità, genere di persone alle quali indubbiamente quei Giudei appartenevano. Amen.

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12.19 – ABRAMO PER PADRE II/IV (Giovanni 8.39-41)

12.19 – Abramo per padre 2 (Giovanni 8.39-41)

           

39Gli risposero: «Il padre nostro è Abramo». Disse loro Gesù: «Se foste figli di Abramo, fareste le opere di Abramo. 40Ora invece voi cercate di uccidere me, un uomo che vi ha detto la verità udita da Dio. Questo, Abramo non l’ha fatto. 41Voi fate le opere del padre vostro». Gli risposero allora: «Noi non siamo nati da prostituzione; abbiamo un solo padre: Dio!».

 

Prima di passare a considerare gli altri episodi della vita di Abramo, proviamo a riassumere il significato di quelli accennati nello scorso capitolo:

1) Fu preso dalla condizione di ignoranza in cui viveva. Di Dio aveva una vaga opinione e mai avrebbe pensato, un giorno, che Lo avrebbe incontrato. Fu quindi oggetto di un intervento, fu chiamato così com’era e venne fatto oggetto di rivelazioni particolari senza fare nulla perché ciò si verificasse, per quanto dovette dare il suo benestare e così avvenne. L’apostolo Paolo scrive infatti in Romani 4.1-3 “Che diremo dunque di Abrahamo, nostro progenitore secondo la carne? Che cosa ha ottenuto? Se infatti Abrahamo è stato giustificato per le opere, ha di che gloriarsi, ma non davanti a Dio. Ora, che cosa dice la Scrittura? Abramo credette a Dio e ciò gli fu accreditato come giustizia”. La prima caratteristica di questo personaggio fu quindi non quella di avere delle qualità particolari, ma di essere stato scelto ed aver creduto, fattori che posero le premesse perché agisse secondo la volontà di Dio.

2) Acconsentendo di abbandonare Carran, territorio in cui era nato e cresciuto, per la destinazione che gli venne indicata, il Paese di Canaan, dimostrò di ritenere le promesse che gli furono rivolte infinitamente migliori rispetto alla vita che conduceva, presumo tranquillamente, in quella città. Abramo accettò di cambiare radicalmente la sua esistenza sulle parole “Io farò di te una grande nazione e ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai una benedizione”, cioè coinvolsero il futuro e non un presente tangibile al di là della voce udita, così particolare rispetto alle altre.

3) Non fu mai lasciato solo nemmeno quando, per salvarsi la vita senza consultarsi con YHWH, preferì sottoporre la propria moglie Sarai alla contaminazione col Faraone e al rischio di fare altrettanto con Abimelek. Ho scritto “contaminazione” e non “adulterio” stante la particolarità del periodo storico.

4) Pur non pienamente consapevole di quanto avveniva, incontrò Melchidedec e quindi ebbe un contatto dal fortissimo valore simbolico con l’Artefice della Grazia, rifiutando qualunque contatto con le ricchezze che poteva donargli il re di Sodoma, dimostrando di tenere nella corretta considerazione ciò che era il dare a Dio e il ricevere dall’uomo. Ciò avvenne una volta liberato Lot e la sua gente con “i suoi uomini esperti nelle armi, schiavi nati nella sua casa, in numero di trecentodiciotto”(14.14). Si tratta di una cifra particolare che troviamo solo qui, simbolicamente importante perché ottenuta moltiplicando il 100+6×3, quindi 10×10 (il compimento pieno) più il 6, numero dell’uomo moltiplicato per la triade divina. Se questo numero non fosse stato importante, l’autore del libro della Genesi non lo avrebbe certo annotato.

5) Non solo credette alla promessa secondo la quale sarebbe diventato una grande nazione, ma ancor di più nel fatto che avrebbe avuto un figlio nonostante fosse in età molto avanzata, come la moglie: credette cioè nell’umanamente impossibile, conscio che quanto gli veniva prospettato era parola di Dio e fu questo che lo portò a venire considerato giusto.

 

Il nuovo episodio che possiamo aggiungere si trova in 15.7-17, qui non trascritto per evitare di appesantire lo spazio a disposizione, che andrebbe comunque letto: la prima osservazione la possiamo fare sul sacrificio in cui sono citati tutti gli animali che saranno poi richiesti nei sacrifici nella dispensazione della Legge, tanto quelli offerti dai ricchi che dai poveri: la giovenca, la capra, l’ariete, tutti di tre anni, la tortora e il piccione. Anche se lo abbiamo accennato in un precedente capitolo, è importante l’intervento degli uccelli al verso 11, che scesero su quei corpi morti, ma furono scacciati da Abramo, episodio che conferma il fatto secondo cui l’Avversario si può servire di qualunque elemento, umano oppure no, per distogliere la persona dalla comunione e dalla preghiera con Dio. Infine abbiamo la visione riportata al verso 17, “Quando, tramontato il sole, si era fatto buio fitto, ecco un braciere fumante e una fiaccola ardente passare in mezzo agli animali divisi”, in cui possiamo discernere la maestà del Dio che passa vagliando quanto fatto dall’uomo, in questo caso approvando ciò che era avvenuto sia quanto alla forma che, soprattutto, al contenuto. Abramo fece ciò che gli era stato ordinato senza nulla aggiungere né togliere, capendo che così firmava il suo patto con l’Eterno Iddio. Inoltre, quella manifestazione fu la risposta alla sua domanda “Signore Dio, come potrò sapere che ne avrò possesso?”riferito alla terra promessa.

 

Seguendo la cronologia degli avvenimenti giungiamo alla nascita di Ismaele, avuto dalla serva di Sarai, l’egiziana Agar, narrato al capitolo 16. Si tratta di un passo importante prima di tutto perché Sarai indusse il marito ad infrangere il comandamento originario sul matrimonio, “perciò l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla propria moglie, e i due saranno una sola carne”(2.24) nonostante a quel tempo il concubinato fosse tollerato, ma mai praticato da Adamo fino ad allora per quanto riguarda le generazioni fedeli aYHWH. In pratica avvenne che Sarai, sapendo che il marito aspettava il realizzarsi della promessa di Dio in base alla quale avrebbe avuto un erede, lo indusse all’unione con la sua serva, fra l’altro di etnia diversa. La stessa cosa farà Rachele con Isacco: “«Ecco la mia serva Bila: unisciti a lei, partorisca sulle mie ginocchia cosicché, per mezzo di lei, abbia anch’io una mia prole». Così ella gli diede in moglie la propria schiava Bila e Giacobbe si unì a lei”(30.3,4). Notiamo inoltre che il testo di 16.2 mette in risalto l’errore di Abramo, quando scrive che “ascoltò l’invito di Sarai”, che ci rimanda immediatamente alla condanna di Eden: “All’uomo disse: «Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato (…) maledetto il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba dei campi. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane, finché non ritornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere ritornerai”(3.17-19). Il nato da Agar fu chiamato Ismaele per espresso ordine dell’angelo del Signore in 16.11, cioè “Iddio esaudisce”, quando Abramo aveva 86 anni, essendo considerato suo figlio anche da Dio cui riservò delle benedizioni, ma con uno sviluppo diverso.

È scritto che “Dio fu con il fanciullo– Ismaele –  che crebbe e abitò nel deserto e divenne un tiratore d’arco”(21.20), ma soprattutto ebbe un ruolo di antagonista proprio nei confronti della discendenza effettiva di Abramo; queste infatti furono le parole dell’Angelo del Signore ad Agar: «Ecco, sei incinta: partorirai un figlio e lo chiamerai Ismaele, perché il Signore ha udito il tuo lamento. Egli sarà un uomo simile ad un asino selvatico; la sua mano sarà conto tutti e la mano di tutti contro di lui, e abiterà in fronte ai suoi fratelli”(16.11,12). Precisazione doverosa: “sarà come”è riferito al fatto che darà inizio ad una progenie fiera e rozza, senza essere in grado di intrattenere relazioni civili coi popoli a lui vicini, anzi dando luogo a contese e guerre continue. Non è infatti possibile addomesticare l’asino selvatico: “Chi lascia libero l’asino selvatico e ne scioglie i legami? Io gli ho dato come casa il deserto– e Ismaele vi abiterà – e per dimora la terra salmastra”(Giobbe 39.5).

Tornando alla nascita di Ismaele, così la commenta l’apostolo Paolo in chiave spirituale e simbolica, citando anche Isacco: “Sta scritto che Abramo ebbe due figli, uno dalla schiava e uno dalla donna libera. Ma il figlio della schiava è nato secondo la carne; il figlio della donna libera, in virtù della promessa. Ora queste cose sono dette per allegoria: le due donne infatti rappresentano le due alleanze. Una, quella del monte Sinai, che genera nella schiavitù, è rappresentata da Agar. Il Sinai è un monte dell’Arabia; essa corrisponde alla Gerusalemme attuale, che di fatto è schiava, insieme ai suoi figli. Invece la Gerusalemme di lassù è libera ed è la madre di tutti noi”(Galati 4.22-26).

 

Un dato significativo, già rilevato in un altro capitolo, lo abbiamo nei tredici anni di silenzio fra la nascita dei due figli di Abramo, in cui nulla avvenne tra lui e Dio. Anche qui a parlare sono i numeri: non il primo (86) che, comunque lo si tratti, non dà nulla di significativo, ma il secondo (99), quello dell’annuncio e della circoncisione, cui manca un’unità per arrivare al cento compiuti quando nacque Isacco (21.5). Ai novantanove abbiamo l’alleanza in cui fu stabilita la circoncisione, da osservare “di generazione in generazione”per tutti: “Dev’essere circonciso chi è nato in casa, sia quello comprato con denaro da qualunque straniero che non sia della tua stirpe”(17.13). Ai novantanove abbiamo anche il cambiamento del nome, da Abramo in Abrahamo, “padre di una moltitudine di nazioni”(v.5) in cui vediamo tutti, sia israeliti che pagani convertiti secondo Romani 4. 11: “Egli divenne padre di tutti i non circoncisi che credono, cosicché anche a loro venisse accreditata la giustizia ed egli fosse padre anche dei circoncisi”.

 

Per ora, credo sia giusto fermarsi qui anche per la complessità degli argomenti trattati, non senza sottolineare ancora una volta, raccordandoci alla situazione del tempo di Gesù, quanto fosse distante da Lui la posizione spirituale dei Giudei che non avevano capito il significato reale della circoncisione, ritenendolo un segno sufficiente a qualificare il popolo di Dio e ritenersi superiori agli altri, dimenticando Deuteronomio 30.6: “Il Signore, tuo Dio, circonciderà il tuo cuore e il cuore della tua discendenza, perché tu possa amare il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore e con tutta l’anima e viva”. Ricordiamo anche Geremia 4.4 “Circoncidetevi per il Signore, circoncidete il vostro cuore, uomini di Giuda e abitanti di Gerusalemme, perché la mia ira non divampi come fuoco e non bruci senza che alcuno la possa spegnere, a causa delle vostre azioni perverse”.

Ancora una volta, fare “le opere di Abrahamo”si riferisce ad una condizione di spirito, preclusa ai Giudei che guardavano la superficialità della lettera: Abrahamo era loro padre in quanto da lui discendevano e, nell’apparenza, così era anche perché portavano nel loro corpo il segno della circoncisione appartenente a un’alleanza ormai destinata a divenire obsoleta. Quei Giudei non erano in grado ci compiere però né le “opere” di Abramo, né quelle di Abrahamo.

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12.18 – ABRAMO PER PADRE I/IV (Giovanni 8.39-41)

12.18 – Abramo per padre 1 (Giovanni 8.39-41)

39Gli risposero: «Il padre nostro è Abramo». Disse loro Gesù: «Se foste figli di Abramo, fareste le opere di Abramo. 40Ora invece voi cercate di uccidere me, un uomo che vi ha detto la verità udita da Dio. Questo, Abramo non l’ha fatto. 41Voi fate le opere del padre vostro». Gli risposero allora: «Noi non siamo nati da prostituzione; abbiamo un solo padre: Dio!».

Credo che, per capire questi versi, sia necessario raccordarci a quelli precedenti, affrontati nello scorso capitolo, e vari approfondimenti. Ricordiamo il testo già esaminato da 31 a 38: “Gesù allora disse a quei Giudei che gli avevano creduto: «Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi. Gli risposero: «Noi siamo discendenti di Abrahamo e non siamo mai stati schiavi di nessuno. Come puoi dire «Diventerete liberi»?. Gesù rispose loro: «In verità, in verità io vi dico: chiunque commette il peccato è schiavo del peccato. Ora lo schiavo non resta per sempre nella casa; il figlio vi resta per sempre. Se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero. So che siete discendenti di Abrahamo. Ma intanto cercate di uccidermi perché la mia parola non trova accoglienza in voi. Io dico quello che ho visto presso il Padre; anche voi dunque fate quello che avete ascoltato dal padre vostro”.

A proposito del nome di Abrahamo, si noti che lo riporto con la “h” intermedia anziché, come in molte versioni moderne, senza di essa. Queste distinguono fra “Abram”e “Abramo”a seconda del momento storico in cui si parla di lui. Questa versione però, pur agevole a leggersi, non è corretta perché non riproduce il testo quando Iddio stesso cambiò nome da “Abramo”, cioè “Padre grande”, in “Abrahamo”, “Padre di una moltitudine” (Genesi 17.4,5): “Quanto a me ecco, la mia alleanza è con te: diventerai padre di una moltitudine di nazioni. Non ti chiamerai più Abramo, ma ti chiamerai Abrahamo, perché padre di una moltitudine di nazioni ti renderò”.

Ora quando si parla di lui viene sempre alla mente la sua fede, i passi del Nuovo Testamento che lo nominano, il sacrificio di Isacco e le promesse che ebbe da Dio e questo, di per sé, è sufficiente per capire le parole di Gesù “Se foste figli di Abrahamo, fareste le opere di Abrahamo”, ma vale la pena di allargare un poco il discorso su di lui, perché la sua storia non si limitò a questi episodi, ma implica molto altro.

Di Abramo abbiamo la genealogia in Genesi 11.10-26 dalla quale risulta essere discendente di Sem, primogenito di Noè, cui fu riservata la benedizione “Benedetto sia il Signore, il Dio di Sem, e sia Canaan suo servo”(9.26), quindi apparteneva alla stirpe di coloro che avrebbero ereditato le promesse di assistenza e doni da parte di YHWH. Di Jafet è detto che avrebbe abitato “nei tabernacoli di Sem”,promessa quindi di una esperienza futura con Dio. Abramo, nella genealogia citata, occupa il decimo posto, il numero della completezza e dell’azione; da lui infatti si può dire che parta una storia nuova, quella che porterà in breve tempo, biblicamente parlando, alle dodici tribù di Israele e da lì a tutta l’attuazione del piano di salvezza attraverso i secoli, prima e dopo Cristo.

Abramo viveva la propria quotidianità ad Ur dei Caldei anche se poi la sua famiglia si stabilì ad Haran (detta anche Carran, o Carre), nell’odierna Turchia, città religiosamente importante perché in lei si praticava più che in altre il culto al dio della Luna, presente anche in Ur e Babilonia. Interessante è il fatto il fatto che gli dèi là venerati fossero tre, Sin come primo, seguito da Shamash e Istar.

Ebbene, a parte la singolarità del numero degli dèi presenti a Carran, le due città in cui Abramo visse il primo periodo della sua vita ci parlano di un’esistenza pesantemente condizionata dall’idolatria altrui che probabilmente lo coinvolse come avvenuto ad esempio per i suoi parenti, di cui è detto che avevano delle statuette che evidentemente veneravano: emblematico in proposito è l’episodio in cui Rachele ruba gli idoli di famiglia appartenenti al di lei padre Labano, provocandogli una reazione caratterizzata da una ricerca angosciata e ossessiva per ritrovarli (Genesi 31.19,34,35).

Fu a Caran, quindi in mezzo ai pagani, che Abramo ascoltò per la prima volta la voce di Dio, che evidentemente seppe riconoscere fra le tante che ascoltava dentro e attorno a sé: “Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò. Farò di te una grande nazione e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e possa tu essere una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò, e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra”(12.1-3).

Abramo quindi sentì una voce che riconobbe diversa da quella dei suoi pensieri, si pose in ascolto e mise in pratica, certo non senza fatica, le parole che aveva udito: “Allora Abramo partì come il Signore gli aveva detto, e Lot andò con lui. Abramo aveva settantacinque anni quando partì da Haran”(12.5). Solo successivamente quest’uomo fu beneficiario non più di un semplice messaggio, ma di un’apparizione: “Allora il Signore apparve ad Abramo– non ci è detto in che modo, ma sono convinto in forma umana come vedremo – e disse: «Io darò questo paese alla tua discendenza»”(v.7). Si trattò quindi di una chiamata inequivocabile, importante a tal punto che fu proprio da quell’episodio che Stefano, a distanza di circa duemila anni, iniziò la sua testimonianza (Atti 7.2). Il tutto avvenne senza che Abramo lo volesse nel senso che sapeva che certamente esisteva un Creatore, ma lo conosceva attraverso le tradizioni della sua gente, inquinate dal paganesimo. Le parole a lui rivolte, poi, ci parlano del fatto che per seguire e servire Dio bisogna “andarsene”dalla propria gente, uscire dall’ambiente inquinato, contaminante che la caratterizza; per farlo ci vuole però una chiamata, quindi un’esperienza individuale e precisa, oltre a un’accettazione incondizionata delle Sue parole altrimenti il cammino sarà solo a metà, in bilico, privo di un’identità chiara per quanto con buone intenzioni. E Abramo, per ubbidire all’ordine di Dio, fece un viaggio di più di 800 km. da Carran a Canaan che, a quel tempo, dovette essere fortemente impegnativo.

 

Altro episodio saliente lo abbiamo in Egitto quando, temendo di venire ucciso a causa della bellezza della di lui moglie Sarai, le ordinò di dire che fosse sua sorella (12.11-13), mezza verità perché lei, come dirà lui stesso ad Abimelek re di Gerar, “…è veramente mia sorella, figlia di mio padre, ma non figlia di mia madre, ed è poi divenuta mia moglie”(20.12). Si tratta di due episodi simili, ma la loro lettura (che si consiglia per meglio capire queste note) differisce in particolari non di poco conto: il faraone egiziano, il cui termine significa “difensore” o “liberatore” fu colpito da Dio con piaghe, mentre ad Abimelek andò a parlare e impedì che fosse commesso un peccato. Infatti “Dio venne da Abimelek in un sogno di notte, e gli disse: «Ecco, tu stai per morire a motivo della donna che hai preso, perché ella è sposata»”(20.3). Riflettendo sui due episodi e sul diverso trattamento ricevuto dai due uomini, vediamo che il faraone si caratterizzava con presunzione e arroganza anche nel nome, ma ad Abimelek Iddio riconobbe un cuore integro: “Sì, lo so che hai fatto questo nell’integrità del tuo cuore e ti ho quindi impedito dal peccare contro di me: per questo non ti ho permesso di toccarla”(20.6).

 

Altro avvenimento nella vita di Abramo è riportato al capitolo 14 in cui abbiamo la liberazione di Lot, catturato a Sodoma da “Chedorlaomèr e dagli altri re che erano con lui”: è dopo la sua liberazione che abbiamo l’incontro con un personaggio particolarissimo, “Melchisedec re di Salem”(Gerusalemme) in cui va riconosciuta la presenza del Figlio di Dio secondo le parole di Paolo in Ebrei 7.1-4: “Questo Melchisedec, re di Salem, sacerdote del Dio altissimo, andò incontro ad Abramo mentre ritornava dall’aver sconfitto i re e lo benedisse; a lui Abramo diede la decima di ogni cosa. Anzitutto il suo nome significa «re di giustizia»; poi è anche re di Salem, cioè «re di pace». Egli, senza padre– umano – senza madre, senza genealogia, senza principio di giorni né fine di vita, fatto simile al Figlio di Dio, rimane sacerdote per sempre. Considerate dunque quanto sia grande costui, al quale Abramo, il patriarca, diede la decima del suo bottino”.

L’incontro fra Abramo e Melchisedec fu quello fra due mondi, furono due dispensazioni che si incrociarono per un attimo con una portata immensa vista nell’offerta di “pane e vino”, cioè senza un sacrificio espiatorio! Da un lato fu data a Lui “la decima di tutto”, ma Abramo rifiutò di ricevere dal re di Sodoma qualunque cosa, per non contaminarsi, dicendo “Alzo la mano davanti al Signore, il Dio altissimo– giuramento – creatore del cielo e della terra: né un filo né un legaccio di sandalo, niente io prenderò di ciò che è tuo; non potrai dire: io ho arricchito Abramo. Per me niente, se non quello che i servi hanno mangiato”(14.22-24). Fu dopo questo che “La parola del Signore fu rivolta ad Abramo, in visione, con questi termini: «Non temere, Abramo, io sono il tuo scudo; la tua ricompensa sarà molto grande»”(15,1).

In queste parole risiede tutta la realtà della vita di quest’uomo, che sperimentò come Noè prima di lui, sotto l’aspetto del venire custodito, cosa significasse accettare di essere uno strumento nelle mani di Dio; ricordiamo Salmo 3.4 “Ma sei il mio scudo, Signore, sei la mia gloria e tieni alta la mia testa”, 5.13 “Tu benedici il giusto, Signore, come scudo lo circondi di benevolenza”, 84.12 “Perché sole e scudo è il Signore Dio; il Signore concede grazia e gloria, non rifiuta il bene a chi cammina nell’integrità”, 91.4 “Ti coprirà con le sue penne, sotto le sue ali troverai rifugio, la sua fedeltà ti sarà scudo e corazza”, 119.114 “Tu sei mio rifugio e mio scudo: spero nella tua parola”.

Possiamo concludere questa prima panoramica su Abramo con quanto avvenne poco dopo, quando ricevette la promessa di una discendenza in 15.3-6: “«Ecco, a me non hai dato discendenza e un mio domestico sarà mio erede». Ed ecco, gli fu rivolta questa parola dal Signore: «Non costui sarà il tuo erede, ma uno nato da te sarà il tuo erede». Poi lo condusse fuori e gli disse: «Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle»; e soggiunse: «Tale sarà la tua discendenza»”. Infine, l’autore della Genesi chiude l’episodio con una nota a noi famigliare: “Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia”.

Già da questi dati raccolti, tornando ai versi oggetto di considerazione in Giovanni, vediamo quanto fossero distanti quei Giudei che proclamavano di avere “Abramo per padre”: non solo non avevano nessuna delle sue caratteristiche né di cuore, né di fede, ma non erano neppure in grado di ascoltare, valutare, considerare altro se non ciò che proveniva dal loro cuore indurito. Per questo Gesù disse loro “Voi fate le opere del padre vostro”, ben diverso dal Suo, da identificare nel “principe di questo mondo”. Amen.

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12.17 – LA VERITÀ VI FARÀ LIBERI (Giovanni 8.31.38)

12.17 – La verità vi farà liberi (Giovanni 8.31-38)

           

31Gesù allora disse a quei Giudei che gli avevano creduto: «Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; 32conoscerete la verità e la verità vi farà liberi». 33Gli risposero: «Noi siamo discendenti di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno. Come puoi dire: «Diventerete liberi»?». 34Gesù rispose loro: «In verità, in verità io vi dico: chiunque commette il peccato è schiavo del peccato. 35Ora, lo schiavo non resta per sempre nella casa; il figlio vi resta per sempre. 36Se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero. 37So che siete discendenti di Abramo. Ma intanto cercate di uccidermi perché la mia parola non trova accoglienza in voi.38Io dico quello che ho visto presso il Padre; anche voi dunque fate quello che avete ascoltato dal padre vostro».

 

Siamo giunti, in questo capitolo ottavo di Giovanni, ad un punto particolare perché, alla luce del verso 31, “Gesù allora disse a quei Giudei che gli avevano creduto”,Nostro Signore si rivolge ad un uditorio profondamente diviso e non poteva essere altrimenti, “non essendo venuto a mettere la pace, ma la spada”, ovviamente quella dello Spirito. Si tratta di una spada che opera comunque indipendentemente dal fatto che la si lasci agire o che ci si opponga, poiché “…la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di una spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore. Non vi è creatura che possa nascondersi davanti a Dio, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi di colui al quale noi dobbiamo rendere conto”(Ebrei 4.12-13). La parola di Dio quindi seleziona, setaccia, divide, stimola nel profondo costringendo le persone a rivelarsi per quello che sono, tanto in positivo che in negativo. E allo stesso tempo il suo accoglimento implica la realizzazione o meno delle promesse di Gesù, fra cui quella riportata al verso 31, “Se rimanete nella mia parola”, che esprime la condizione della persona che desidera e cerca la propria realizzazione spirituale; a questa viene spiegato che il semplice credere in Lui costituisce solo la premessa per raggiungerlo perché la condizione è “rimanere nella mia parola”, tradotto anche con “perseverare”, cioè mantenersi costante in un atteggiamento, insistere, perdurare.

Va fatta però un’importante precisazione perché l’episodio in esame, che non si esaurisce qui, riporta tanto gli interventi dei Giudei che lo avevano accolto tanto di quelli che a Gesù si opponevano. “Quei Giudei che gli avevano creduto”erano al primo passo verso la salvezza, cioè avevano escluso una volta per tutte che fosse un impostore e che era davvero Colui che diceva di essere, ma altro non sapevano. Probabilmente lo ritenevano il Messia secondo il concetto ebraico del termine, ma comunque avevano individuato in Lui quello che doveva arrivare ed era stato promesso. Teniamo sempre presente che, all’interno del Sinedrio, oltre a Nicodemo vi erano diversi membri che erano discepoli di Gesù, ma di nascosto perché temevano i loro correligionari e le conseguenze derivanti dalla esclusione dalla Congregazione di Israele. Il riconoscere Gesù come Figlio di Dio significava unicamente che si erano arresi, ma avevano tutto un cammino da compiere davanti a loro che avrebbe richiesto il“rimanere nella mia parola”, espressione che allude ad un impegno di ricerca molto diverso da quello cui erano abituati.

Ciò che Nostro Signore pone come condizione per essere “davvero”suoi discepoli è il radicarsi nella sua parola, dimorare, costruire il proprio edificio spirituale sulla roccia per “conoscere la verità”, quella che ha infinite forme e sfaccettature perché così è la creatività di Dio che non può riassumersi in un solo gesto o pensiero: sarebbe come contare i colori del verde di un bosco o dell’azzurro di un cielo all’alba o al tramonto.

Il “rimanere” o “perseverare” descritto a quei Giudei era necessario perché non avevano ancora in loro quella conoscenza sufficiente perché si impiantasse la vera fede ed ecco perché abbiamo un’esortazione in tal senso. Si noti che tanto la permanenza quanto la perseveranza è apparentemente la stessa raccomandata dai capi delle vuote religioni, ma il risultato, che ogni vero cristiano ha sperimentato, è “conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi”, due passaggi ben distinti fra loro: “Conoscere la verità” è la rivelazione che porta al passaggio dalla Legge alla Grazia perché, quando un ebreo si converte a Cristo, porta con sé tutto un bagaglio di conoscenze che un pagano non ha, né potrà avere perché cresciuto e allevato in modo diverso.

Il pagano che si converte e legge la Scrittura per capirla, incontra molte più difficoltà e ha molte più domande da porsi rispetto a chi proviene dal popolo originario di Dio. Certo che entrambi arrivano a “conoscere la verità”, ma in modo diverso per quanto ugualmente salvifico. E comunque tutti i credenti beneficiano di una preghiera particolare che Gesù rivolge al Padre al capitolo 17 di questo Vangelo, chiedendo “Consacrali nella verità”, cioè una destinazione precisa, un dimorare in essa possibile solo grazie a un intervento di Dio.

Conoscere la verità equivale all’acquisizione della salvezza, impossibile se prima non si comprende l’amore del Padre, del Figlio donato per noi e quindi la nostra condizione di peccato, di totale estraneità alle realtà e al piano per “non essere più stranieri né ospiti, ma concittadini dei santi e membri della famiglia di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti– ecco l’Antico e il Nuovo – e avendo come pietra angolare lo stesso Cristo Gesù”(Efesi 2.19,20).

Conosciuta la verità, questa “vi farà liberi”, termine molto spesso equivocato perché non allude a fare quello che si vuole, ma all’affrancamento dello schiavo, alla sua liberazione che può essere stigmatizzata con le parole di Romani 8.12: “Ora, dunque, non c’è nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù. Perché la legge dello Spirito, che dà vita in Cristo Gesù, ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte”. E qual è questa “legge”? Certo, quella dell’Antico Patto, ma anche dell’inevitabile consumarsi senza rimedio, privi di una meta fino alla capitolazione del corpo.

Il concetto del venire liberati, o affrancati, è spiegato sempre in questa stessa lettera in cui vengono descritti gli effetti della fede nel Figlio, “Via, Verità e Vita”: “Il peccato non dominerà su di voi, perché non siete sotto la legge, ma sotto la grazia. (…) Non sapete che, se vi mettete a servizio di qualcuno come schiavi per ubbidirgli, siete schiavi di colui al quale obbedite, sia del peccato che porta alla morte, sia dell’obbedienza che conduce alla giustizia? Rendiamo grazie a Dio, perché eravate schiavi del peccato, ma avete obbedito di cuore a quella forma di insegnamento alla quale siete stati affidati. Così, liberati dal peccato, siete stati resi schiavi della giustizia”(6.14-18).

Qualcuno potrebbe obiettare che allora uno passa da una schiavitù ad un’altra e la libertà sia solo un’illusione, ma credo ci sia differenza fra essere soggetti a pensieri, desideri e progetti che portano alla morte, e scegliere liberamente di obbedire a un’altra legge, quella dello Spirito che porta a non subire più gli effetti di quelle sollecitudini ansiose di cui parlò Gesù, ad esempio, nel sermone sul monte quando disse “Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta”(Matteo 6.33). E questo è solo un esempio, quello più immediato perché quello completo lo abbiamo in 2 Timoteo 2.25,26 quando, parlando degli uomini schiavi del peccato raccomandando la preghiera per loro, leggiamo “…nella speranza che Dio conceda loro di convertirsi, perché riconoscano la verità e rientrino in se stessi, liberandosi del laccio del diavolo, che li tiene prigionieri perché facciano la sua volontà”. Prigionia o libertà, dunque.

Credo che questa sia una bellissima descrizione: “la verità vi farà liberi”comprende il fatto che le catene siano, grazie alla potenza del Figlio, finalmente sciolte e notiamo che nel verso appena ricordato compaiano due termini fortemente penalizzanti, “laccio”e “prigionieri”. Il credente non sarà mai schiavo di nessuno, se sarà in grado di realizzare queste fondamentali parole, condizionate al “rimarrete nella mia parola”, la sola che libera nel senso già visto di “affrancare”.

 

Una conferma di quanto sarebbe stato necessario per quei Giudei perseverare nelle Sue parole la abbiamo nella rivendicazione della loro discendenza da Abrahamo e nel fatto che sì, avevano creduto il Lui, ma come Messia aspettandosi che avrebbe ridotto le altre nazioni sotto il loro dominio. Furono proprio le parole “la verità vi farà liberi”a suscitare perplessità e una fortissima ritrosia perché l’orgoglio nazionale di quei Giudei – e qui non è comunque chiarissimo da chi fu pronunciata la risposta – li aveva portati a fare un’affermazione assolutamente non vera, “non siamo mai stati schiavi di nessuno”dimenticando i 400 anni di schiavitù in Egitto, i circa 300 in cui furono sottomessi ai Filistei e altri popoli vicini, i 70 anni di cattività babilonese e il dominio romano al quale erano soggetti. Si tratta di un’affermazione talmente enorme che alcuni commentatori hanno ipotizzato che il verbo greco impiegato potesse avere un significato diverso da come è stato tradotto, a noi non pervenuto. Forse, quei Giudei facevano riferimento alla loro elezione e tradizione che costituiva la base stessa di Israele, per cui non si poteva dire che avessero bisogno di essere liberati, possedendo la Legge e soprattutto le Promesse di Dio a loro favore.

A questo punto era necessario un chiarimento, che avviene puntualmente: “Chiunque commette il peccato è schiavo del peccato”, parole con cui Gesù spiega che il peccato cui fa riferimento è un sistema di vita e non un avvenimento isolato nel quale si può sempre cadere; il termine “schiavo”è qui usato nella sua accezione più dura, come era per coloro che versavano nella condizione di non speranza, condannati – se non interveniva qualcuno a liberarli – a vita. Chi vive un’esistenza di peccato è schiavo perché ogni peccato non è un qualcosa di accidentale, ma un segno della sua stessa natura e della schiavitù nella quale essa, faticosamente, si trascina ed ecco dove sta la libertà: chi si affida a Dio sceglie liberamente di farlo, ma chi fa altrettanto col mondo, ne rimane schiavo inconsapevole. E per questo la sua rovina sarà grande.

Prima ho scritto che non è inequivocabilmente chiaro da chi venisse l’obiezione in base alla quale i Giudei non erano mai stati schiavi di nessuno, ma sicuramente le frasi dei versi 30 e 31 sono rivolti a degli oppositori: “So che siete discendenti di Abrahamo. Ma intanto cercate di uccidermi perché la mia parola non trova accoglienza in voi”. Anche qui possiamo vedere l’agire dell’uomo schiavo: la discendenza da Abrahamo secondo la carne non garantiva nulla, dato che mentre lui credette e fu per questo “amico”di Dio, loro ponevano la genealogia come garanzia di giustizia indipendentemente dalle azioni e questo li portava ad assumere una posizione assurda, diametralmente opposta a quella del loro antico padre di cui è detto che “…esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e fu pieno di gioia”(Giovanni 8.56), arrivando a nutrire su Gesù pensieri, programmi di morte.

E qui torniamo al concetto di libertà leggendo Ebrei 10.1-4: “La Legge infatti, poiché possiede soltanto un’ombra dei futuri beni e non la realtà stessa delle cose, non ha mai il potere di condurre alla perfezione per mezzo di sacrifici, sempre uguali che si continuano ad offrire di anno in anno, coloro che si accostano a Dio. Altrimenti, non si sarebbe forse cessato di offrirli, dal momento che gli offerenti, purificati una volta per tutte, non avrebbero più alcuna conoscenza dei peccato? Invece in quei sacrifici si rinnova di anno in anno il ricordo dei peccato. È impossibile infatti che il sangue di tori e di capri elimini i peccati”. È il sacrificio di Cristo, “fatto una volta per sempre”, che toglie qualsiasi schiavitù che dimora nello spirito e nell’anima dell’uomo. Amen.

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12.16 – MORIRE NEL PROPRIO PECCATO (Giovanni 8. 21-30)

12.16 – Morire nel proprio peccato (Giovanni 8.21-30)

 

21Di nuovo disse loro: «Io vado e voi mi cercherete, ma morirete nel vostro peccato. Dove vado io, voi non potete venire». 22Dicevano allora i Giudei: «Vuole forse uccidersi, dal momento che dice: «Dove vado io, voi non potete venire»?». 23E diceva loro: «Voi siete di quaggiù, io sono di lassù; voi siete di questo mondo, io non sono di questo mondo. 24Vi ho detto che morirete nei vostri peccati; se infatti non credete che Io Sono, morirete nei vostri peccati». 25Gli dissero allora: «Tu, chi sei?». Gesù disse loro: «Proprio ciò che io vi dico. 26Molte cose ho da dire di voi, e da giudicare; ma colui che mi ha mandato è veritiero, e le cose che ho udito da lui, le dico al mondo». 27Non capirono che egli parlava loro del Padre. 28Disse allora Gesù: «Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora conoscerete che Io Sono e che non faccio nulla da me stesso, ma parlo come il Padre mi ha insegnato. 29Colui che mi ha mandato è con me: non mi ha lasciato solo, perché faccio sempre le cose che gli sono gradite». 30A queste sue parole, molti credettero in lui.

 

Ci troviamo di fronte al proseguimento del discorso iniziato a seguito dell’accusa mossa a Gesù dai farisei secondo cui dava testimonianza “di se stesso”, e abbiamo letto che Giovanni specifica al verso 30 “A queste sue parole, molti credettero in lui”, dando prova che “molti”avevano compreso l’urgenza di salvarsi a fronte di un tempo breve ancora loro concesso. A questa scelta, quei “molti”, erano giunti dopo aver compreso che Gesù non dava affatto testimonianza da solo e che non vi era nulla che impedisse loro di credere: bastava l’obiettiva constatazione che mai nessuno aveva parlato come Lui, dando prova di presentare verità come mai prima sentite, che ogni cosa detta trovava riscontro nel Suo modo di vivere ed agire nei confronti dell’uomo perché questi potesse essere spiritualmente guarito, sollevato; in poche parole, avesse un Pastore. La frase del verso 21 può essere considerata da un punto di vista storico, cioè rivolta ai farisei e a tutti coloro che ne condividevano la posizione (i “Giudei”, quindi tutto l’insieme delle autorità religiose), ma anche come qualcosa di lapidario, valida in ogni tempo fino al Suo ritorno. Ognuno di noi, infatti, ha un tempo di vita stabilito, con un termine che non conosce.

“Io vado”è chiaramente riferito alla Sua morte e resurrezione tornando così al Padre, ma è quel “e voi mi cercherete”che ha suscitato in me domande importanti perché mi sono chiesto come fosse possibile, una volta avuta soddisfazione con l’averlo soppresso, che venisse da loro cercato avendone in cambio la morte “nel loro peccato”. È indubbio che vi sia sproporzione fra l’annuncio della Sua dipartita, risolta in due parole a differenza di quando aveva parlato ai discepoli, e quelle impiegate a descrivere il destino dei Giudei, “voi mi cercherete, ma morirete nel vostro peccato”, quindi un riferimento alla sorte che loro stessi avevano scelto. La ricerca cui fa riferimento Nostro Signore non allude a quella dettata dalla fede e dal pentimento, ma quella spinta dalla sola disperazione (come fu per Giuda quando capì che non avrebbe potuto tornare indietro), quando è imminente la rovina personale o collettiva. È facile trovare, storicamente parlando, il senso di queste parole in almeno due avvenimenti che si sarebbero verificati da lì a poco tempo.

Citando un passo della profezia delle settanta settimane di Daniele 9, vediamo la morte di Gesù, “un consacrato sarà soppresso senza colpa in lui”, e la rovina di Gerusalemme nel 70 d.C., “il popolo di un principe che verrà distruggerà la città e il santuario”(v.24), avvenimento terribile che durò dal 66 al 73, anno in cui avvenne la distruzione di Masada, caratterizzata dal suicidio di massa degli Zeloti coi propri figli e mogli. Giuseppe Flavio racconta che il numero complessivo di prigionieri catturati nell’intera guerra fu di 97mila e i morti pari a oltre un milione (1.100.000), numero superiore a qualsiasi altro sterminio prima di allora. L’assedio di Gerusalemme, piena di pellegrini là giunti per la festa degli Azzimi, fece un numero enorme di vittime a causa prima della peste e poi della fame conseguenti all’assedio. Il Tempio, orgoglio e simbolo della religione ebraica, fu distrutto, come da profezia di Gesù “Verranno giorni in cui, di tutto quello che ammirate, non sarà lasciata pietra su pietra che non sia distrutta”(Luca 21.6) che su di lei pianse.

Altro avvenimento certamente angoscioso si verificò una quarantina di anni prima, proprio con la morte del corpo di Gesù, quando “il velo del tempio si squarciò in due da cima a fondo, la terra si scosse, le rocce si spezzarono, i sepolcri si aprirono e molti corpi di santi morti risuscitarono”(Matteo 27.51,52); Matteo e Luca parlano di un’eclissi di sole che provocò “buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio”e che “Anche tutte le folle che erano accorse a questo spettacolo, ripensando a quanto era accaduto, se ne tornarono percuotendosi il petto”(21.44; v.49), gesto che solitamente alludeva al pentimento, ma qui credo esclusivamente formale, frutto del solo spavento di fronte a quanto accaduto perché altrimenti, alla prima riunione della futura Chiesa di Gerusalemme, non vi sarebbero certo state solo 120 persone.

Ecco allora che, a fronte di avvenimenti sui quali l’essere umano non può avere nessun controllo, c’è un “cercare” che è solo animato dal desiderio impossibile di vederli risolti e quindi, sotto questo aspetto che caratterizza sempre l’uomo radicato nella propria carne, non solo c’è un “non trovare”, ma soprattutto la morte “nel proprio peccato”come sola conseguenza di una vita vissuta nel costante di Lui rifiuto.

Ora vorrei citare un passo di Apocalisse, riferito ai tempi dei giudizi di Dio sull’umanità dopo il rapimento della Chiesa: “Il resto degli uomini che non furono uccisi da questi flagelli, non si ravvidero dalle opere delle loro mani; non cessarono di adorare i demòni e gli idoli d’oro, d’argento, di bronzo, di pietra e di legno che non possono né vedere, né udire, né camminare. Non si ravvidero neppure dai loro omicidi, né dalle loro magie, né dalla loro fornicazione, né dai loro furti”(9.21). La stessa cosa, per quanto in piccolo ma che comunque rappresenta un indicatore molto significativo della condizione dei nostri tempi, la si è constata in occasione della pandemia originata dal Covid-19 in cui tutto si è fatto tranne che meditare costruttivamente non solo sulla fragilità della vita umana, ma sul significato ultimo di quanto accaduto e tutti, non appena questo si è ridotto, hanno ripreso a vivere come se niente fosse, salvo poi tornare a spaventarsi alla sua ripresa. Ogni essere umano infatti è costantemente chiamato a riflettere sulla precarietà della propria vita non considerando il tema a livello filosofico, ma per rimediare ad una condizione che altrimenti non può che giungere alla fine del tutto. Siamo in pratica, nel caso di specie, testimoni di un avvenimento che è solo paragonabile in modo infinitamente pallido a quanto è davvero imminente a giudicare dal livello di moralità che abbiamo raggiunto e dall’impegno posto nella distruzione del pianeta e nell’omologazione della moralità comune.

“Non mi troverete, ma morirete nel vostro peccato”nel senso che ogni uomo o donna, se non avrà creduto affidandosi fattivamente al Figlio di Dio, non potrà che morire portandosi dietro il peso, appunto, della propria condizione senza possibilità di presentare appello e dovrà adeguarsi alla sentenza che verrà pronunciata quando sarà costretto, suo malgrado, a presentarsi in giudizio dove Satana, come accusatore, avrà successo perché verrà a mancare proprio Gesù come Avvocato: “Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo giusto. Egli è vittima d’espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo. Da questo sappiamo di averlo conosciuto: se osserviamo i suoi comandamenti. Chi dice: «Lo conosco» e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo e verità non è in lui; ma chi osserva la sua parola, in lui l’amore di Dio è veramente perfetto”(1 Giovanni 2.1-5).

“Morire nel proprio peccato”si verifica quando si persiste nella condizione di morte rifiutando la vita, cosa che nessuno farebbe per il proprio corpo, ma che molti mettono in pratica per la loro anima.

Proseguendo nel testo, abbiamo ancora una prova ulteriore della cecità dei Giudei perché, se prima avevano ipotizzato che Gesù se ne andasse a predicare agli ebrei della dispersione in territorio pagano, qui pensano che stia per suicidarsi, gesto che presso quel popolo era messo allo stesso livello dell’omicidio: qui non trovano risposta, ma una frase che testimonia il profondo baratro che intercorreva tra loro, cioè“Voi siete di quaggiù, io sono di lassù; voi siete di questo mondo, io non sono di questo mondo”. Ecco, qui l’essere“di questo mondo”trova le tenebre come luogo di dimora stabile e rifiuto della luce. “Io sono la luce del mondo”.

“Se non credete che io sono, morirete nei vostri peccati”amplia poi quanto scritto poco prima: occorre credere in Gesù come “Io sono”, quindi come Dio nella sua sostanza di Figlio, Parola fatta carne; viceversa la morte dell’anima sarà l’unica, inutile coperta con la quale “proteggersi” da un freddo irrimediabile visto (anche) nel “pianto e stridore di denti”. Come ha scritto un fratello, “Mediante le parole “Io Sono”, egli si fa conoscere come la sorgente della vita, della luce e della forza, si presenta come la invisibile Maestà di Dio e come ad unire nella sua persona, in virtù dell’essere suo essenziale, il visibile e l’invisibile, il finito e l’infinito”.

 

La domanda “Tu chi sei?”contiene tutto il disprezzo dei Giudei, perché sapevano che era discendente da Davide, ma qui credo che il riferimento sia alle sue umili condizioni di figlio del carpentiere che vogliono contrapporre a quell’ “Io sono”appena pronunciato: Gesù, secondo loro, non meritava di essere ascoltato anche per questo e persistono in questa tesi non capendo “che egli parlava del Padre”(v.21). La frase successiva, “Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora saprete che Io Sono e non faccio nulla da me stesso, ma come mi ha insegnato il Padre, così io parlo. Colui che mi ha mandato è con me e non mi ha lasciato solo, perché io faccio sempre le cose che gli sono gradite”(vv.28,29) generò però una spaccatura in quel gruppo perché “a queste parole, molti credettero in lui”e sappiamo che proprio subito dopo inizierà un altro discorso diretto “a quei Giudei che avevano creduto in lui”(v.31). Si tratta di un riferimento sia alla Sua morte sulla croce, ma ancor di più alla conseguente resurrezione perché in un altro passo dirà “Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me”(12.32) dove quel “tutti”non è indistinto, ma riguarda tutte le Sue pecore che da lì in poi avrebbero creduto.

Infine, quel “saprete che Io Sono”ha riferimento con l’unicità nella resurrezione come insegnò l’apostolo Paolo in Romani 1.1-4: “…per annunziare il Vangelo di Dio che egli aveva promesso riguardo al Figlio suo, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne. Costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la resurrezione dai morti, Gesù Cristo, nostro signore”. Sapere che Lui è l’ “Io Sono”costituisce la prima, profonda esperienza di ogni cristiano non di nome, ma di fatto. Sapere che Lui è, inoltre, fu anche dimostrato dagli avvenimenti che si verificarono alla Sua morte di cui abbiamo parlato nel precedente capitolo soprattutto da individuare nello strappo della cortina, che sancì la fine della dispensazione della Legge come condicio sine qua non per il perdóno, per la giustificazione temporanea perché, una volta rimesso, il peccato si presentava puntualmente alla porta con tutta la sua forza distruttiva.

Infatti: “Ora, noi sappiamo che tutto ciò che dice la legge lo dice per quelli che sono sotto la legge, perché sia chiusa ogni bocca e tutto il mondo sia riconosciuto colpevole di fronte a Dio. Infatti in virtù delle opere della legge nessun uomo sarà giustificato davanti a lui, perché per mezzo della legge si ha solo la conoscenza del peccato. Ora invece, indipendentemente dalla legge, si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla legge e dai profeti; giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono. E non c’è distinzione: tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù”(Romani 3.19-24).

Mi viene in mente la diversa disposizione delle due Bibbie, quella Ebraica e quella Cristiana: la prima ha al centro la Legge, quindi i Profeti (anteriori con Giosuè, Giudici, Samuele 1 e 2 e Re 1 e 2, e posteriori con Isaia e tutti gli altri compresi Esdra, Neemia e 1 e 2 Cronache) e gli Scritti (i libri sapienzali), ma la seconda, quella cristiana parte dalla Legge e conduce progressivamente a Cristo mettendo appositamente i profeti per ultimi intendendo la Scrittura non come qualcosa di circolare, dove tutto ruota attorno alla Torah, ma lineare in direzione del Cristo. Credo che, tra i tanti argomenti portati da Gesù qui nel Tempio, vi sia stato anche questo. Amen.

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12.15 – CONFUTAZIONI AI FARISEI (Giovanni 8.13-20)

12.15 – Confutazioni ai farisei (Giovanni 8.13-20) 

13Gli dissero allora i farisei: «Tu dai testimonianza di te stesso; la tua testimonianza non è vera». 14Gesù rispose loro: «Anche se io do testimonianza di me stesso, la mia testimonianza è vera, perché so da dove sono venuto e dove vado. Voi invece non sapete da dove vengo o dove vado. 15Voi giudicate secondo la carne; io non giudico nessuno. 16E anche se io giudico, il mio giudizio è vero, perché non sono solo, ma io e il Padre che mi ha mandato. 17E nella vostra Legge sta scritto che la testimonianza di due persone è vera. 18Sono io che do testimonianza di me stesso, e anche il Padre, che mi ha mandato, dà testimonianza di me». 19Gli dissero allora: «Dov’è tuo padre?». Rispose Gesù: «Voi non conoscete né me né il Padre mio; se conosceste me, conoscereste anche il Padre mio». 20Gesù pronunciò queste parole nel luogo del tesoro, mentre insegnava nel tempio. E nessuno lo arrestò, perché non era ancora venuta la sua ora.

In questi versi sono narrate le reazioni dei farisei di fronte alla dichiarazione di Gesù come “luce del mondo”. La frase con cui esordiscono, precedute da “allora”, cioè “a quel punto”, “in conseguenza”, costituisce un’accusa di non credibilità: la Sua testimonianza, non essendo supportata secondo loro da alcuna prova attendibile, non poteva essere accettata. Ricordiamo che già in un’altra occasione, quella della guarigione del paralitico di Betesda, Gesù aveva risposto dicendo “Se fossi io a render testimonianza a me stesso, la mia testimonianza non sarebbe vera; ma c’è un altro che mi rende testimonianza, e so che la testimonianza che egli mi rende è verace”(Giovanni 5.31,32). Subito dopo aggiunse “Io non ricevo testimonianza da un uomo, ma vi dico queste cose perché possiate salvarvi”a significare che ciò che Lo supportava era quanto faceva e diceva. Tutto ciò aveva già posto molti, che in Lui avevano creduto, di salvarsi e sperimentare personalmente e nella maniera più inconfutabile chi fosse. Ancora una volta i farisei, qui come in questo episodio, non lo accusano di bestemmia e falso, ma rilevano che, in mancanza di“due o tre testimoni”, mancavano le prove necessarie per stabilire chi effettivamente Gesù fosse.

La frase con cui Nostro Signore risponde, però, va oltre: se nel passo appena citato aveva chiamato in causa il Padre che rendeva vera la Sua testimonianza perché Lui stesso, tramite i profeti, Lo aveva annunciato, qui, dicendo “Anche se io do testimonianza di me stesso”, parla della Sua funzione di “luce del mondo” specificando di sapere “da dove son venuto e dove vado”a differenza dei suoi oppositori: Gesù parlava di cose che solo Lui sapeva e che gli uomini, per la loro ignoranza, non potevano confermare né negare. In pratica viene chiamato in causa quel ragionamento libero, esente da preconcetti, che aveva costretto le guardie venute ad arrestarlo ad affermare pubblicamente “Mai un uomo ha parlato così”: “Mai”, cioè fra tutte le persone che avevano ascoltato in ambito religioso e di scienza delle Scritture, le Sue parole avevano risvegliato la loro coscienza. Anche il centurione che aveva sovrinteso all’esecuzione della croce fu costretto ad ammettere “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio”(Marco 15.39). Ricordiamo poi la testimonianza data dal Padre stesso al battesimo di Gesù, “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento”(Matteo 3.17), e alla trasfigurazione a cui viene aggiunto “ascoltatelo”(17.5).

La prima testimonianza, quindi, non fu di Gesù, accusato di darla isolatamente, ma del Padre. Infine, a proposito del riconoscerLo, possiamo pensare alle parole del cieco guarito di fronte a quelle dei farisei: “«Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio, ma costui non sappiamo di dove sia». Rispose loro quell’uomo: «Proprio questo stupisce: che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi»”(Giovanni 9.29,30). Poco dopo, siccome quel cieco aveva una visione spirituale ancora imperfetta, fu guarito anche da quella: “Tu credi nel figlio dell’uomo?». Egli rispose: «E chi è, Signore, perché io creda in lui?». Gli disse Gesù: «Lo hai visto: è colui che parla con te». Ed egli disse: «Credo, Signore!». E si prostrò davanti a lui”. (9.35-38).

Ecco allora che possiamo fare una considerazione evidente: per riconoscere Gesù quale Figlio di Dio, o “Figlio dell’uomo”secondo le profezie di Daniele, per il suo essere la “Parola fatta carne”, non è necessaria una cultura particolare, ma arrendersi all’evidenza, all’ascolto del Padre che chiama perché “Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno”(6.44). Perché ciò accada, è necessaria una sensibilità che o si ha per natura, come fu per Natanaele o altri personaggi definiti “giusti”, o emerge a un certo punto della vita, come avvenuto per il ladro sulla croce che, a differenza dell’altro, non insultava Gesù, ma gli disse “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”(Luca 23.42). E a proposito in cui un’anima capitola di fronte all’invito del Padre ricordo un mafioso importante, di cui non rammento il nome perché sono passati molti anni, che bussò una notte a una caserma di Carabinieri con una Bibbia in mano, disse nome e cognome al piantone allibito aggiungendo che, alla luce di quanto aveva letto, non riusciva più a sopportare il peso di ciò che aveva fatto ed era giusto che si costituisse.

È scritto “Oggi, se udite la sua voce, non indurite i vostri cuori”, “Oggi”perché la voce di Dio si fa sentire e, se la si ascolta davvero, genera una profonda crisi che può spaventare in quanto, nel momento in cui ciò avviene, si scopre la necessità di rivedere completamente la propria vita intesa come azioni, convinzioni, attitudini da correggere perché incompatibili con la realtà spirituale che viene posta davanti. È nel momento in cui l’uomo indurisce il proprio cuore respingendo la proposta di salvezza che determina la nullità del Vangelo, che sceglie di persistere nel proprio modo di vivere e, quindi continuerà ad agire e giudicare “secondo la carne”.

Dicendo “Voi invece non sapete da dove vengo o dove vado”, Nostro Signore fa riferimento proprio alla condizione di ignoranza, carnale e diabolica, scelta da quelle persone che né allora né dopo si ponevano il problema di comprendere realmente chi fosse, come invece fece Nicodemo, personaggio a mio giudizio sotto certi aspetti fra i più “tormentati” (in senso positivo) del Nuovo Testamento che, a differenza dei suoi correligionari, trovò la forza di schierarsi dalla parte di Gesù. Giuda tradì senza altra possibilità della propria estinzione, Nicodemo seppe ricucire, chiamato da Dio, lo strappo interiore che lo dominava entrando a pieno titolo nella Chiesa di Gerusalemme. L’autore della lettera agli Ebrei riporta il verso dell’ “oggi”per tre volte in 3.8, 3.15 e 4.7; proprio in quest’ultimo illumina il concetto scrivendo “Dio fissa un nuovo giorno, oggi, dicendo mediante Davide, dopo tanto tempo, «Oggi, se udite la sua voce, non indurite i vostri cuori»”. Ecco allora che abbiamo un “se”, riferito al fatto che la voce di Dio è unica e si distingue da quelle false che portano alla perdizione. “Se”chiama in causa l’udito spirituale, quella sordità che caratterizza chiunque si dà al mondo radicandosi come una pianta nella terra: tanto più profonde sono le sue radici, tanto più esiste la difficoltà, se non l’impossibilità, ad essere estirpato da essa per venire trapiantato nei terreno, appunto, dello Spirito e del Perdóno.

“Voi giudicate secondo la carne, io non giudico nessuno”(v. 15) è la descrizione di un’altra caratteristica dell’uomo naturale, schiavo dei propri modelli di vita e convinzioni, pronto a giudicare il prossimo in base al suo metro valutativo corrotto – anche da una religione – che si scontra con il ruolo di Gesù fino al Suo ritorno: Egli non giudica nessuno, come dimostrò con la mancata condanna della donna adultera in quanto venuto “non a giudicare, ma a salvare ciò che era perduto”(Luca 19.10). E qui abbiamo il concetto di salvezza secondo l’uomo e secondo Dio: “Chi cercherà di salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà”(Luca 9.24). Il giudicare cui fa riferimento Gesù in questo passo non allude alla formulazione di un giudizio di valore, ma il sottoporre il prossimo ad una sentenza di assoluzione o condanna, cosa che non fece mai nei suoi tre anni e mezzo circa di ministero: rimproverò, descrisse la condizione spirituale di molti, ma sempre dando loro la possibilità di porvi rimedio. L’uomo, ascoltando Cristo, ha sempre l’opportunità di tornare indietro, modificare la propria posizione, mutare itinerario.

Così leggiamo in Ebrei 2.1-4: “Per questo bisogna che ci dedichiamo con maggiore impegno alle cose che abbiamo ascoltato, per non andare fuori rotta. Se, infatti, la parola trasmessa per mezzo degli angeli si è dimostrata salda, e ogni trasgressione e disubbidienza ha ricevuto la giusta punizione, come potremmo noi scampare se avremo trascurato una salvezza così grande? Essa cominciò ad essere annunciata dal Signore, e fu confermata a noi da coloro che l’avevano ascoltata, mentre Dio ne dava testimonianza con segni e prodigi e miracoli d’ogni genere e doni dello Spirito Santo, distribuiti secondo la sua volontà”. Qui viene ricordata la parola scritta dell’Antico Patto, lasciata oggi a noi come esempio perché paragonassimo l’esperienza di un tempo lontano a quella possibile oggi identificata con le parole “una salvezza così grande”, prima non rivelata. Ed ecco che, perché questa proposta di “salvezza così grande”fosse credibile, fu supportata da “segni, prodigi e miracoli d’ogni genere”oltre che, per chi vive la dispensazione della grazia a tutti gli effetti, con “i doni dello Spirito Santo, distribuiti secondo la sua volontà”.

Gli ultimi versi del nostro passo sono tristi e umilianti al tempo stesso, perché la domanda “Dov’è tuo Padre?”rivela tutta la volontà di persistere nella condizione di cecità di quelle persone, aggravata dal fatto che si consideravano guide illuminate del popolo. La domanda dei farisei è particolare perché non chiedono chi fosse il Padre di Gesù, lasciando intendere forse che avessero bisogno di un chiarimento, ma dove fosse, quindi lo sfidano a produrre una Sua manifestazione, stante il fatto che Dio non lo si poteva vedere. “Dov’è tuo Padre?”contiene quindi tutto il sarcasmo e la presunzione di quella gente, profondamente ancorata alla terra e alla carne. Per questo Gesù aggiunge “Voi non conoscete né me, né il Padre mio; se conosceste me, conoscereste anche il Padre mio”: il Dio d’Israele non sarebbe stato più raggiungibile né con lo studio, né con la preghiera, né con le assemblee nella Sinagoga e soprattutto tramite i riti del Tempio perché le modalità di approccio erano cambiate e ben pochi lo avevano capito e ne gioivano.

Proviamo a paragonare quanto avvenuto in questo passo alle parole di Giovanni nel primo capitolo del suo Vangelo: “Venne fra i suoi e i suoi non l’hanno accolto. A quanti però lo hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio”(vv.11,12): un potere che prima non avevano e che qui viene ancora una volta respinto da persone cui null’altro importava se non mantenere vive tradizioni religiose e costumi privi di qualsiasi legame con Colui che già aveva detto “Voglio misericordia e non sacrificio”. Per loro, era meglio continuare così, ignorando il messaggio di chi “non è il Dio dei morti, ma dei viventi”(Matteo 22.23).

Infine l’ultimo verso della nostra lettura è “E nessuno lo arrestò, perché non era ancora venuta la sua ora”: potrebbe sembrare una ripetizione visto che Giovanni lo aveva ricordato altre volte; in realtà specifica questo a testimoniare che chi è lontano da Dio può desiderare tante cose, persone, cose o fatti, ma è del tutto impotente ad agire. Certo, in questo caso ci troviamo di fronte ad un avvenimento che era stato stabilito, concordato dal Padre e dal Figlio, ma non stava certo agli uomini determinare il quando e il come.

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12.14 – LA LUCE DEL MONDO III/III (GIOVANNI 8.12)

12.14 – La luce del mondo 3 (Giovanni 8.12)

  

12Di nuovo Gesù parlò loro: «Io sono la luce del mondo: chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita».

 

DEL MONDO

“Mondo” è un termine che racchiude molti significati il più immediato dei quali è l’ambiente in cui l’uomo vive con tutti i suoi equilibri. Senza di lui non si ha “il mondo”, ma “la terra”che di lui costituisce la base, la premessa perché posa realizzarsi ed esistere. Il mondo è stato creato da Dio, è il risultato e l’immagine della Sua sapienza e potenza come emerge da una notevole quantità di passi, tra i quali possiamo citare il cantico di Anna, “Al Signore appartengono i cardini della terra e su di essi egli poggia il mondo”(1Samuele 2.8), Salmo 24.1 e 50.12 in cui viene rivendicata la Sua proprietà, “Del Signore è la terra e quanto contiene: il mondo, con i suoi abitanti”e “Mio è il mondo e quanto contiene”. Da qui vediamo che il “mondo”, come già premesso, è un termine che si riferisce il più delle volte a ciò che di animato popola il pianeta e, secondo la Scrittura, tutto ciò che vediamo in esso è stato formato con la diretta partecipazione del Figlio. Se Giovanni è esplicito in proposito in 1.10 del suo Vangelo, “Era nel mondo e il mondo  stato fatto per mezzo di lui, eppure il mondo non lo ha riconosciuto”, l’Antico Patto lo presenta in forma nascosta: parlando della Sapienza, così scrive Salomone in Proverbi 8.22-31: “il Signore mi ha creato come inizio della sua attività– quindi prima del “Sia la luce!”, nell’eternità che è il contrario del tempo come noi lo misuriamo – prima di ogni sua opera, all’origine. Dall’eternità sono stata formata, fin dal principio, dagli inizi della terra. Quando non esistevano gli abissi, io fui generata; quando non vi erano le sorgenti cariche d’acqua; prima che fossero fissate le basi dei monti, prima delle colline, io fui generata, quando ancora non aveva fatto la terra e i campi né le prime zolle del mondo. Quando egli fissava i cieli, io ero là; quando tracciava un cerchio sull’abisso, quando condensava le nubi in alto, quando fissava le sorgenti sull’abisso, quando stabiliva al mare i suoi limiti, così che le acque non ne oltrepassassero i confini, quando disponeva le fondamenta della terra, io ero con lui come artefice ed ero la sua delizia ogni giorno: giocavo davanti a lui in ogni istante, giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo”. Possiamo allora considerare che a Salomone, che scrive nel 980 a.C. circa, come Isaia due secoli dopo, era stato rivelato che la terra aveva la forma di un globo, cosa che Aristotele inizierà ad ipotizzare nel 340 a.C.

Il Signore, che ha “formato la terra con la sua potenza, ha fissato il mondo con la sua sapienza, con la sua intelligenza ha dispiegato i cieli”(Geremia 51.15), ha però dovuto assumere dei provvedimenti precisi una volta che il peccato entrò a stravolgere i meravigliosi equilibri che aveva fissato: una lettura di quanto accaduto, che sposta la responsabilità originale della disubbidienza di Adamo ed Eva al comandamento ricevuto, ce la dà il libro della Sapienza con le parole “…ma per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo e ne fanno esperienza coloro che le appartengono”(2.24) e qui vediamo sia il principale responsabile, l’Avversario, sia che la morte è il fine ultimo di ogni esistenza, e non poteva essere altrimenti visto che la “via, la verità e la vita”per sfuggirle non era stata ancora rivelata. Sarà l’apostolo Paolo, molti secoli dopo, a spiegare che “…a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte, e così in tutti gli uomini si è propagata la morte, poiché tutti hanno peccato”(Romani 5.12). Il mondo, quindi, dall’estromissione da Eden, non fu letteralmente più lo stesso: privato della presenza, assistenza e amore incondizionato di Dio, si trasformò in un deserto di sospetti, fraintendimenti e di buio, per quanto caratterizzato dalle due generazioni di uomini, quella di Set che Lo cercava, e Caino che Lo rifiutava.

Il mondo può essere visto, sotto una certa ottica spirituale, anche come un territorio neutro in cui purtroppo entrambe le tipologie di uomini sono costrette a convivere: “Il campo è il mondo e il seme buono sono i figli del Regno. La zizzania sono i figli del maligno”(Matteo 13.38), ma è soprattutto una fonte di miraggi e di illusioni, come dalla frase a conclusione dell’insegnamento su cosa volesse dire seguire Gesù: “Quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la sua anima? O che cosa potrà dare in cambio della sua anima?”(Matteo 16.26).

L’uomo naturale trova nel mondo l’unica ragione di essere, cioè vivere ed esprimersi seguendo tutto ciò che lo attira e, nella misura in cui questa attitudine è presente, lo acceca rendendolo incapace di riconoscere la luce, come brevemente descritto nei due capitoli precedenti di queste riflessioni.

Definendosi “la luce del mondo”, Gesù non solo si propone, ma avverte che al di fuori di Lui non esiste alcun’altra via di uscita e quindi salvezza, che si concreta con l’illuminazione. Il mondo è un ambito in cui si vive, con le sue ragioni e sollecitudini che saranno sempre a Lui contrarie ed è proprio la Sua Parola a determinare una divisione tra ciò che è santo e gli appartiene e ciò che non lo è: la Parola è rivolta a tutti indistintamente, ma vediamo dalla parabola dei terreni che spesso viene portata via immediatamente, altre volte viene ascoltata, “ma la preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza soffocano la Parola ed essa non dà frutto”(Matteo 13.22).

Il nostro verso poi è caratterizzato da una profonda promessa e verità, “chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita”, quindi Cristo, “la luce del mondo”è sì paragonabile al sole per rendere agevole comprendere il concetto dell’illuminare, ma i verbi “seguire”, “camminare” e “avere” ci trasportano in un contesto completamente diverso: “seguire” significa non avere né volere alcun altro riferimento al di fuori di Gesù; questo riguarda fondamentalmente il “tendere a” e non una costrizione rituale, religiosa, un “ufficio delle ore” rigidamente costituito per non distrarsi. Se si segue un sistema così strutturato, per il quale peraltro ho estremo rispetto, si corre il rischio di banalizzare la vita cristiana e di renderla un dovere, un qualcosa da adempiere comunque e quindi si può insinuare la finzione, la ricezione di qualcosa che si trasforma in un’abitudine. Di qui può nascere la sterilità della persona che corre il rischio di passare da una prigione a un’altra.

“Seguire”, invece, è caratterizzato da quel continuo confronto col Maestro che si concreta attraverso la preghiera, la lettura della Sua Parola e soprattutto quel voler essere continuamente un tutt’uno con Lui in quanto Suoi fratelli. “Camminare nelle tenebre” sarà allora impossibile in quanto l’appartenenza a Cristo lo esclude, se effettivamente sarà tale. Infatti “Noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per conoscere ciò che Dio ci ha donato”(1 Corinti 2.12). Credo che, sotto l’aspetto del camminare, ogni cristiano sia chiamato a considerare la misura in cui la Parola di Dio dimora in lui, perché si può sempre professare con le labbra, mentre il cuore è lontano dalla realtà effettiva. Giacomo, “fratello del Signore”scrive “Gente infedele! Non sapete che l’amore per il mondo è nemico di Dio? Chiunque vuole essere amico del mondo, si rende nemico di Dio”(4.4). L’apostolo Giovanni poi andrà oltre: “Non amate il mondo, né le cose del mondo! Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui”(1 Giovanni 2.15). Diventa allora chiaro che l’amare il mondo non è il rifiuto sistematico a qualunque attività che in esso si può sempre fare, ma l’adesione alla sua mentalità, a quella scala di valori e tipi di rapporto sociale che ben conosciamo perché un tempo era tutta cosa nostra.

Ora, però, il credente è caratterizzato dall’ultimo termine usato da Gesù in questo passo, avere “la luce della vita”, quindi qualcosa di estremamente più prezioso di una semplice lampada: avere la “luce della vita”è qualcosa che abbraccia ogni istante dei nostri giorni, che interviene nel momento in cui usiamo la prudenza e ci confrontiamo con Dio presentandogli le nostre richieste di aiuto perché i nostri passi siano illuminati. Non credo che avere “la luce della vita”sia qualcosa di garantito sempre e comunque, che sia gestibile a prescindere perché il tutto è subordinato dal “seguire”: “chi segue me”contiene due individualità precise viste nel discepolo e nel Cristo, nessun altro. E uno dei primi effetti è proprio l’abbandono, certo progressivo ma costante, del mondo che “passa con la sua concupiscenza, ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno”(1 Giovanni 2.17).

Il fatto che Gesù sia “la luce del mondo”per quel poco che abbiamo esaminato, significa che illumina ogni cosa e soprattutto tutti, nessuno escluso, e ciò avviene attraverso il Vangelo scritto e predicato che ciascun essere umano è libero di accogliere o rifiutare: se si sceglie la prima opzione si ha un’importante promessa, “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”(Matteo 28.20); nel caso della seconda, la prima conseguenza è che si aderisce al dio alternativo, quello che è chiamato “il principe di questo mondo”, ma anche, a proposito di chi non crede, di persone cui “il dio di questo mondo ha accecato la mente, perché non vedano lo splendore del glorioso vangelo di Cristo, che è immagine di Dio”(2 Corinti 4.4).

Non si potrebbe concludere questa trilogia su Giovanni 8.12 senza ricordare che, se Nostro Signore è la luce del mondo, lo stesso sono o dovrebbero essere i cristiani: Gesù disse nel sermone sul monte “Voi siete la luce del mondo”e Paolo ribadisce “In mezzo a loro voi risplendete come astri nel mondo”(Filippesi 2.15), quindi ci troviamo ancora nella regione della responsabilità e dell’impossibilità a dividere Cristo dai suoi fratelli. Le tenebre sono allora sinonimo di ignoranza, pericolo e peccato, la luce di conoscenza, sicurezza e santità, qui trasmissibili proprio perché la fonte è Gesù stesso e chi gli appartiene non può che rifletterne la natura vista negli astri, ciascuno fonte di luce maggiore o minore a seconda della sua funzione, ma non per questo classificabile da noi più o meno importante come purtroppo molti sono soliti fare secondo un metodo a mio giudizio discutibile.

Credo a questo punto che, per non aggiungere contenuti e versi già citati in abbondanza, sia giusto fermarci qui anche perché, se letto con attenzione, ci troviamo di fronte a riflessioni che portano con sé molte domande: impossibile non porsele e soprattutto non risolverle come scritto in Romani 12.2. “Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto”. Amen.

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12.13 – LA LUCE DEL MONDO II/III (Giovanni 8.12)

12.13 – La luce del mondo 2 (Giovanni 8.12)

            12Di nuovo Gesù parlò loro: «Io sono la luce del mondo: chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita».

 LA LUCE

È, come anticipato brevemente nello scorso capitolo, il complemento oggetto. Qui, senza di lui, resterebbe chiara l’identità di Gesù col Padre per l’ “Io sono”, ma non sapremmo nulla sulla Sua funzione, su ciò che gli uomini avrebbero dovuto conoscere di Lui: infatti, che Egli “è”nel senso più puro ed alto del termine era già stato manifestato attraverso i molti miracoli che aveva compiuto e le remissioni dei peccati di cui solo una minima parte è stata riportata. Ecco perché, a un certo punto del Suo ministero, Pietro e gli altri furono in grado di comprendere che Gesù era “Il Cristo”, certo dopo una rivelazione del Padre (Matteo 16.17).

Ora cerchiamo di esaminare, sinteticamente per quanto lo spazio di questo capitolo lo concede, la “Luce”, primo elemento di cui è comandata l’esistenza in Genesi 1.3, “Iddio disse: «Sia la luce!». E la luce fu”. È bello considerare che “Iddio”, preferibile al generico “Dio”perché è un termine racchiude tutte e tre le Sue forme e sostanza, non è detto che creò personalmente, ma che ordinò, come già osservato dal Salmista molto tempo prima di noi: “Egli parlò, e tutto fu creato; comandò, e tutto fu compiuto”(33.9). L’unico essere frutto del Suo progetto diretto, nel senso che intervenne materialmente, fu l’uomo e solo lui: “E Iddio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò”(1.27); come questo creare si manifestò è descritto in 2.7, “…il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente”. Certo il racconto di questo libro è antropocentrico, teso a rivelare la prima verità che dev’essere conosciuta, e cioè che l’Universo fu fatto in funzione dell’uomo, poiché sappiamo che il Creatore riversò in questo sistema la Sua infinita intelligenza e qui possiamo ricordare come esempio Giobbe 38.4 e i suoi riferimenti: “Quando ponevo le fondamenta della terra, tu dov’eri? Dimmelo, se sei tanto intelligente!”. Resta il fatto che l’uomo fu l’unico in cui il Creatore soffiò il Suo Spirito nelle narici.

La luce, tornando a Genesi, fu quella fonte di energia ordinata per prima in quanto senza di lei la vita non avrebbe potuto generarsi, rendendo possibile la creazione nel terzo giorno: “Produca la terra germogli, erbe che producono seme, ciascuna secondo la propria specie, e alberi che fanno ciascuno l frutto con il seme, secondo la propria specie”. Possiamo facilmente comprendere che, poiché la luce fu la prima ad irrompere in un’eternità di buio, è il fenomeno con il quale Dio fece irruzione in un qualcosa di non definibile nei dettagli, ma certo “informe e vuoto”, con “le tenebre che ricoprivano la faccia dell’abisso”. Senza la Sua presenza e un Suo intervento, non possono infatti esistere altro che il buio più profondo e l’immobilità. Se poi prendiamo 1 Giovanni 1.5,“Dio è luce e in lui non vi sono tenebre”, troviamo la vera ragione per cui dovette separarle così come avverrà per le due generazioni, quella di Caino e quella di Seth, che prese il posto di Abele.

La separazione luce – tenebre,  immediatamente raffigurata nell’alternanza tra il giorno e la notte per quanto non caratterizzata dal buio completo, da allora in poi avrà un suo riferimento con la presenza o assenza di Dio in funzione degli uomini, come rileviamo in due episodi nel libro dell’Esodo: pensiamo alla penultima piaga che fu appunto caratterizzata dall’oscurità più totale talché gli Egizi “…non si vedevano più l’un l’altro e per tre giorni nessuno si poté muovere dal suo posto. Ma per tutti gli Israeliti c’era luce là dove abitavano”(10.23). Ricordiamo anche come Dio si caratterizzò nel cammino nel deserto, quando “…il Signore marciava alla loro testa di giorno con una colonna di nube, per guidarli sulla via da percorrere, e di notte con una colonna di fuoco, per far loro luce, così che potessero viaggiare giorno e notte”(13.21). Anche qui, abbiamo la stessa separazione, quella intercorrente fra una collettività guidata e un’altra, ben più numerosa, che operava nell’assenza, che nel libro di Giobbe è laconicamente descritta con le parole “Vi sono quelli che avversano la luce, non conoscono le sue vie, né dimorano nei suoi sentieri”(24.13).

La luce, o le tenebre, valgono tanto per un insieme di persone, ma soprattutto per il singolo che di esse fa un’esperienza diretta trattandosi di un àmbito a volte che si sceglie consapevolmente:“Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l’amaro in dolce e il dolce in amaro”(Isaia 5.20). Il fatto è che, poiché senza luce è impossibile vivere, ogni uomo decide di averne una, come da due passi che prendiamo ad esempio: “Certamente la luce del malvagio si spegnerà e più non brillerà la fiamma del suo focolare”(Giobbe 18.5) e “La lucerna dei malvagi è il peccato”(Proverbi 21.4); eppure, nonostante questo stile di vita, c’è chi sceglie altro: “Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino”(Salmo 119.105) e “Il Signore è mia luce e mia salvezza: di chi avrò timore? Il Signore è difesa della mia vita: di chi avrò paura?”(27.1).

Tralasciando le profezie sulla venuta della luce per il mondo che Matteo ha raccordato nel suo effetto più immediato quando Gesù venne ad abitare a Capernaum (4.12-17), vediamo che l’inizio del Suo ministero è descritto con le parole “Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino”(v.17), le stesse parole con cui Giovanni Battista si presentava agli uomini, però non supportate da miracoli, guarigioni e, soprattutto, remissione dei peccati. Del Battista infatti è detto “Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce”(Giovanni 1.8). Possiamo paragonare allora il ministero che parte da Capernaum all’alba che piano piano anticipa il giorno, dissolvendo le ombre.

“Io sono la luce”, con cui Gesù si qualifica agli uomini dopo più di due anni di ministero, è la dichiarazione aperta di una delle Sue caratteristiche che formano un tutt’uno con il Suo essere Figlio di Dio che l’uomo deve conoscere e non per nulla Giovanni apre il suo Vangelo con “In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce risplende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta”(1.4). E quella “vita”, a sua volte, la connettiamo a quell’ “albero” in Eden che consentiva ad Adamo ed Eva di essere illuminati, con quella vista che contemplava la visione del micro e del macro, la ricezione totale di frequenze che abbiamo perso perché con esse distingueva ogni essere anche spirituale che oggi non vediamo. Quindi, “Luce”e “Io sono”non lasciano dubbi sul fatto che non esiste altra alternativa se non quella di percorrere la propria vita illuminati da Dio attraverso il Cristo perché “Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo”(1.9), certo se la si accoglie. Si può dire che il Vangelo di Giovanni, più degli altri, parla di questo elemento, riportando le parole di Gesù “Io sono venuto nel mondo come luce, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre”(12.46): da qui in poi, questo elemento sarà sempre attribuito a Nostro Signore e al ruolo di rivelare il Padre. Parlando ad Agrippa, l’apostolo Paolo dirà “…ti mando alle nazioni per aprire i loro occhi, perché si convertano dalle tenebre alla luce e dal potere di Satana a Dio, e ottengano il perdono dei peccati e l’eredità, in mezzo a coloro che sono stati santificati per la fede in me” (Atti 26.18).

Ancora, tornando al nostro verso, è da sottolineare l’articolo, “La”e non “Una” davanti a “luce” dalla quale vediamo chiaramente che non ce ne possono essere altre per poter pervenire a quella unica e vera di cui l’essere umano ha veramente bisogno; diversamente, come abbiamo visto brevemente nei pochi passi citati, se ne avrà una falsa, quella che ad esempio possedevano quei farisei che vengono chiamate “guide cieche”. E del resto questa confusione iniziò proprio nel momento in cui i nostri progenitori furono estromessi dal giardino di Eden dopo aver conosciuto certamente il peccato, ma soprattutto la menzogna poiché, una volta introdotti nel mondo corrotto, non si fidarono più l’uno dell’altro e Caino, riproducendo la tecnica dell’Avversario, disse a suo fratello “Andiamo ai campi”.

La menzogna è non solo bugia, ma seduzione, inganno, travisamento, tutto ciò che non è chiaro e, quindi, luce. La scienza umana in proposito, a conferma del fatto che il mondo è nelle tenebre sotto quest’ultimo aspetto, ha accertato che l’uomo acquista la capacità di mentire per il proprio tornaconto dall’età di cinque anni e che gli stessi animali non sono esenti da questa tecnica: lo fanno per sopravvivere, nascondendo il cibo, mimetizzandosi, lanciando falsi allarmi alle altre specie che, fuggendo da un determinato luogo, lasciano loro spazio per nutrirsi di quel cibo di cui altrimenti si sarebbero impossessati. E l’uomo può mentire anche a se stesso, spesso senza accorgersene. Questo esempio per far capire che le “tenebre” hanno un significato che va molto oltre quello della semplice assenza di una fonte luminosa, ma sono riferite ad un buio che ogni essere si porta dentro essendo stata, con il peccato, la luce di Dio preclusa ad ogni creatura che, da allora, può pensare solo alla sua sopravvivenza immediata. Ecco perché è da irresponsabili non accogliere e non rivolgersi a Cristo, unica e vera Luce. E, concludendo, possiamo dedurre che quando Gesù disse “In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come un bambino, non entrerà in esso”(Luca 18.17) e ne prese in braccio uno prendendolo ad esempio, si riferisse proprio all’innocenza che caratterizza i bimbi attorno ai quattro anni.

Tornando all’apostolo Giovanni, che di luce parla fin dal primo capitolo del suo Vangelo, possiamo concludere queste riflessioni con una citazione molto indicativa, illuminante: “Chi crede il lui non è condannato, ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nell’unigenito Figlio di Dio. E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio”(3.18-21). Amen.

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12.12 – LA LUCE DEL MONDO I/III (Giovanni 8.12)

12.12 – La luce del mondo I/III (Giovanni 8.12)

12Di nuovo Gesù parlò loro: «Io sono la luce del mondo: chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita».

            Sono stato in dubbio se rivolgere tutte le attenzioni a questo solo verso oppure inserire anche quelli che seguono in cui viene descritta la questione sorta coi farisei che, di fronte all’affermazione di Gesù come “Luce del mondo”, cercarono in ogni modo di reagire. Ritengo però che sia meglio occuparci di un solo verso, lasciando ad un prossimo capitolo l’analisi degli altri. C’è però, nel testo integrale che non ho riportato, un particolare degno di nota e cioè che Gesù, nel frattempo, si era spostato dal cortile dei gentili a quello delle donne, la parte più frequentata del tempio dai soli israeliti, vicinissimo al Gazith, o Sala del Sinedrio; Giovanni, infatti, si preoccupa di scrivere al verso 20 “Queste parole Gesù le pronunziò nel luogo del tesoro mentre insegnava nel tempio”, cioè quel posto, appunto nel cortile delle donne, in cui erano murate 18 cassette destinate a raccogliere le offerte (e non solo), come avremo modo di esaminare nell’episodio conosciuto come quello de “il quattrino della vedova”.

Venendo al verso in esame l’osservazione più immediata è possibile sul “Di nuovo”con cui si apre, che si presta a due interpretazioni o, se preferiamo, a due alternative: infatti, ammettendo come proprio di Giovanni l’episodio della donna adultera, si vuole suggerire che Gesù, chiusa la questione precedente, riprese ad insegnare. Rimanendo però nell’ipotesi che sia difficile collocarlo temporalmente,  possiamo fare un raccordo a 7.53, “E tornarono ciascuno a casa sua”: quel “Di nuovo”potrebbe allora venir letto come una ripresa degli insegnamenti di Gesù avvenuta il giorno seguente, in un ambiente differente.

Veniamo ora al nostro verso che possiamo dividere in quattro parti la prima delle quali è composta da tre elementi che vivono di vita propria e presentano una progressione andando via via aggiungendosi: “Io sono”, “Io sono la luce”e “Io sono la luce del mondo”. Ciascuna di essi ha un senso compiuto.

IO SONO

Rappresenta da sempre il modo in cui un individuo pensante e agente dichiara la propria identità, la sua condizione morale, psicologica o lo stato in cui versa. L’uomo la usa per qualificarsi di fronte al proprio simile, a volte mentendo, ma Dio se ne serve sempre per presentarsi e la prima volta che questo avvenne fu con Abrahamo quando, all’età di novantanove anni quindi prima di raggiungere i cento che è la cifra del compimento, si sentì dire “Io sono l’Iddio Onnipotente, cammina davanti a me e sii integro”(Genesi 17.1). “Io sono”, quando è Dio a pronunciarlo, è sinonimo di promessa a meno che non definisca la Sua Identità assoluta e insondabile, “Io solo colui che è”, tradotto anche con “colui che sono”(Esodo 3.14). Come promessa ricordiamo le parole dette a Giacobbe, “Io sono il Dio di Abrahamo, tuo padre; non temere perché io sono con te: ti benedirò e moltiplicherò la tua discendenza a causa di Abrahamo, mio servo”. Più avanti nella storia, si presentò a Mosè usando come credenziali, perché non poteva essere confuso con altri e doveva esservi una linea continua nell’osservanza delle Sue parole, queste parole: “Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abrahamo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe”(Esodo 3.6). Tra l’altro, riguardo al “Colui che è”, al popolo bastava proprio la prima persona del verbo essere per identificarlo: “Così dirai agli israeliti: «L’Io sono mi ha mandato a voi»”. Altre volte le parole furono semplici, “Io sono il Signore”, alle quali viene aggiunto a ricordo “che vi ho fatto uscire dalla terra d’Egitto per essere vostro Dio; siate dunque santi, perché io sono santo”. È quindi impossibile rivolgersi a Lui o accostarsi alla Sua Parola, quindi a Gesù quanto alla Scrittura, senza tenere presente l’onnipotenza, la volontà e il piano che ha per l’uomo che deve a Lui inevitabilmente adeguarsi mettendo da parte ciò che è sconveniente e non caritatevole: “Non maledirai il sordo, né metterai inciampo davanti al cieco, ma temerai il tuo Dio. Io sono il Signore”(Levitico 19.12).

Quando l’ “Io sono” si presenta, pone sempre l’uomo nelle condizioni di temerlo, lo avvisa di camminare rettamente, gli presenta una via che, se vuole avere la Sua benedizione, comporta l’astenersi da determinate azioni quali ad esempio il non farsi idoli per prostrarsi davanti ad essi (Levitico 26.1), non opprimere il prossimo (25.17), non raccogliere gli avanzi della mietitura per lasciarli al forestiero (23.22), osservare i Suoi comandamenti per metterli in pratica (22.31), questo perché “…vi ho fatto uscire dalla terra d’Egitto perché non foste più loro schiavi; ho spezzato il vostro giogo e vi ho fatto uscire a testa alta”(26.13).

Nell’Antico Patto – ma anche nel Nuovo comunque per quanto la Grazia venuta da Gesù Cristo consenta un rapporto diverso, ma non per questo meno responsabile – l’identità di YHWH si presenta con l’assoluto “Sono io che do la morte e faccio vivere; io percuoto e io guarisco, e nessuno può liberare dalla mia mano”(Deuteronomio 32.39).

Ora, fatta questa panoramica molto generale, l’ “Io sono”di Gesù non è diverso, ma complementare, cioè necessario sul piano qualitativo, quantitativo, strutturale, compiuto nel senso che mette in luce ciò che nell’antichità era velato, nascosto. La Sua identità come “Il Cristo, il figlio dell’Iddio vivente”riservata a chi lo aveva ed ha conosciuto, necessitava infatti di ampliamenti: l’uomo non può andare a Lui se non conosce le caratteristiche più importanti della Sua natura, il Suo ruolo, ciò per cui è sceso dai cieli irraggiungibili sulla terra, quindi rendendosi visibile come qualsiasi essere umano, al contrario del Padre. Ad esempio, parlando della resurrezione dei morti ai Sadducei, disse che “Iddio non è il Dio dei morti, ma dei viventi”(Matteo 22.32), di non essere “venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori”rivelando la Sua volontà di salvare ciò che sarebbe inevitabilmente andato perduto ed è bello considerare che, quando si presentò ai discepoli risorto, non disse “io sono”, ma “Coraggio, sono io, non abbiate paura”(Marco 6.50).

Davanti al Sinedrio si presentò in modo inequivocabile: quando il Sommo Sacerdote gli domandò “«Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto?», Gesù rispose «Io lo sono»”(Marco 14.61,62), ma agli altri uomini, quelli non chiusi dal proprio orgoglio che avrebbero potuto accoglierlo o quantomeno farlo dopo un percorso di dubbio e crescita personale, usò altri termini, come ad esempio “Il pane vivo disceso dal cielo”, “Il pane della vita”. Non venuto da se stesso, ma inviato dal Padre, rimarcò la differenza fra Lui e i suoi accusatori, “Voi siete di quaggiù, io sono di lassù; voi siete di questo mondo, io non sono di questo mondo”(Giovanni 8.23), disse di non far nulla da se stesso, di essere venuto perché “coloro che non vedono, vedano, e quelli che vedono, diventino ciechi”(9.39), “non per condannare, ma per salvare il mondo”(12.47) di essere “la porta”(10.9), il “buon pastore”, “la resurrezione e la vita”(11.25), “la via, la verità e la vita”perché, parole dette a Pilato, “Tu lo dici, io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce”(18.37).

È sicuramente da sottolineare che l’identità di Gesù, come abbiamo visto, sotto gli aspetti del Suo “Io sono”è l’apostolo Giovanni a rivelarla esplicitamente più degli altri tre evangelisti e verrà da lui completata nell’ultimo scritto quando Gesù dirà “Io sono l’Alfa e l’Omega, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente”(Apocalisse 1.8), “Io sono il Primo e l’ultimo, e il Vivente. Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi”(v.17,18).

Anche qui abbiamo dato una panoramica generale e ciascuna delle identità di Gesù andrebbe sviluppata e lo faremo, per quanto non qui, ma nel corso dei vari capitoli di questi scritti; nel caso del nostro verso, all’ “Io sono”segue “la luce”a significare una delle qualità del Dio che, non essendo in Lui “tenebre alcune”non può che avere questa funzione. La “luce”di cui parla Gesù non è qualcosa di generico, ma da identificare nel “sole”sia perché il Suo volto brillò così alla trasfigurazione, sia per la promessa profetizzata da Zaccaria, padre di Giovanni Battista: “Grazie alla tenerezza e misericordia del nostro Dio, ci visiterà un sole che sorge dall’alto, per risplendere su quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra della morte, e dirigere i nostri passi sulla via della pace”(Luca 1.78,79). Sono questi passi che suggeriscono un cammino continuo verso una direzione consapevole e precisa il cui risultato è descritto nella parabola della zizzania: “La mietitura è la fine del mondo e i mietitori sono gli angeli. Come dunque si raccoglie la zizzania e la si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti quelli che commettono iniquità e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti – cioè i giustificati per fede –splenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchie, ascolti!”(Matteo 13.40-43).

Concludendo, “Io sono”è al tempo stesso un’affermazione lapidaria perché ha come primo riferimento l’identità di Dio con l’eternità nella quale vive e dalla quale proviene nel momento in cui si rivela, ma in questo caso ha bisogno, perché l’uomo comprenda, di un complemento oggetto che, per il verso in esame, è prima “la luce”e poi “del mondo”; e qui Gesù parla a tutti coloro che lo ascoltano, allora come oggi, perché possano determinare la loro condizioni di salvati o di perduti. Amen.

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12.11 – LA DONNA ADULTERA II/II (Giovanni 8.1-11)

12.11 – La donna adultera 2 (Giovanni 8.1-11)

1Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi. 2Ma al mattino si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui. Ed egli sedette e si mise a insegnare loro. 3Allora gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e 4gli dissero: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. 5Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?». 6Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo. Ma Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra. 7Tuttavia, poiché insistevano nell’interrogarlo, si alzò e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». 8E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra. 9Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani. Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo. 10Allora Gesù si alzò e le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». 11Ed ella rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù disse: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più».

 

            La risposta di Gesù al “Tu, che ne dici?”degli scribi e farisei mi ha sempre profondamente impressionato perché non è di tipo verbale, per lo meno all’inizio. Scrive col dito per terra, viene da pensare chinandosi un poco dalla posizione seduta sul proprio mantello e se è impossibile sapere cosa scrivesse – altre traduzioni hanno “faceva dei segni per terra”, sicuramente l’agire in quel modo sottolinea il Suo volersi estraniare dalla questione, pensando al fatto che non era venuto per condannare, ma “per cercare e salvare ciò che altrimenti sarebbe andato perduto”(Luca 19.20). E chi cerca, non lo fa certo distrattamente. Come rispondere alla domanda che gli era stata posta in modo che tutti capissero? È proprio la peculiarità del Suo gesto a segnalare a mio giudizio l’autenticità del passo, che credo non sarebbe venuto in mente a nessun narratore salvo che a un testimone dell’evento.

Giovanni, al verso settimo, scrive che i suoi avversari “insistevano nell’interrogarlo”, per cui quel “Tu, che ne dici?”fu ripetuto più volte, magari in altre forme che ne lasciavano invariata la sostanza per cui Gesù si alzò dando loro una risposta tesa a spiazzarli completamente: certo la Legge prescriveva la lapidazione per gli adulteri, ma dovevano essere proprio i testimoni accusatori a lanciare per primi la pietra sul condannato, come leggiamo nel passo principale in Deuteronomio 17.2-7 che prescrive “Qualora un uomo o una donna faccia ciò che è male agli occhi del Signore, tuo Dio (…),colui che dovrà morire sarà messo a morte sulla deposizione di due o tre testimoni, non potrà essere messo a morte sulla deposizione di un solo testimone. La mano dei testimoni sarà la prima contro di lui per farlo morire, poi sarà la mano di tutto il popolo. Così estirperai il male in mezzo a te”. Lo stesso avvenne alla lapidazione di Stefano, dove leggiamo che “…lo trascinarono fuori della città e si misero a lapidarlo, e i testimoni– prima di agire – deposero i loro mantelli ai piedi di un giovane chiamato Saulo”(Atti 7.58).

La risposta verbale di Gesù si rivolge a tutti i componenti del gruppo di accusatori ancora una volta dando una bellissima lezione di cosa effettivamente richiedesse la Legge, cioè non tanto l’esecuzione di una persona colta nella flagranza di un peccato, quanto del titolo che dovesse possedere chi la commettesse a partire dai testimoni per arrivare fino agli altri, cosa che Mosè non aveva prescritto: “Chi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei”. Quello che Nostro Signore voleva dire fu immediatamente compreso da tutti: il testimone dell’adulterio doveva essere senza peccato non nel senso che doveva essere un “santo”, quindi un “puro”, ma una persona che era esente dall’infrazione del settimo comandamento, ”non commetterai adulterio”di fatto o nel cuore come Lui aveva già dichiarato in uno dei Suoi insegnamenti: “Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore”(Matteo 6.28). Nessuno dei presenti fu in grado di ribattere alcunché, confermando così indirettamente le parole di quelle guardie cui era stato ordinato di arrestare Gesù e non vi riuscirono dichiarando “Nessuno parlò mai come quest’uomo”.

Le parole di Gesù, quindi, andarono dritte alla coscienza dei presenti ai quali, carnalmente, non pareva vero di poter commettere un omicidio legittimato dalla Legge dietro il quale mascherarsi, sentirsi più giusti per aver compiuto un atto spiacevole, ma comandato, il che avviene ancora oggi nelle società integraliste. In quel caso, però, compresero che nessuno di loro poteva dirsi innocente da un adulterio praticato di nascosto, o desiderato. Ecco allora che il gettare “per primo la pietra contro di lei”era qualcosa che andava ben oltre il rituale della lapidazione, ma coinvolgeva tutta la persona che quella pietra l’avrebbe lanciata. Certo la lapidazione non sarebbe mai potuta avvenire né all’interno del cortile, né in città, ma fuori dalle mura, ma comunque avrebbe chiamato in causa vari passaggi che avrebbero richiesto una ferrea volontà di fare “giustizia”: cercare una pietra idonea, prenderla in mano, prendere la mira e lanciarla perché così si sarebbe dovuto fare. Chi lapidava, quindi, si assumeva in pieno tutta la responsabilità dell’atto.

In quel caso, però, questa volontà venne meno perché fu la coscienza a bloccarla, spegnerla, farla scomparire. Quel “per primo”non si trovò. Forse i presenti si guardarono l’un l’altro mentre Gesù, “chinatosi di nuovo, scriveva per terra”aspettando una loro reazione nuovamente estraniandosi dal contesto ma, a differenza della prima volta, qui lascia a loro la totale responsabilità delle azioni future. Cosa avrebbero fatto di quella donna era di competenza dei Suoi avversari e, tornando a scrivere, li lascia soli con le Sue parole e la loro coscienza. Sappiamo che “Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani”: qui vengono accomunati tutti, scribi, farisei e gli integralisti fra il popolo e in una versione si aggiunge “convinti dalla coscienza”. Per primi se ne vanno gli anziani, in cui è presente la memoria di un percorso di vita ed è assente l’ardore giovanile così sensibile agli ideali non supportati dalla realtà; quegli anziani furono consapevoli per primi di essere peccatori in opere o pensieri e poi furono seguiti in questo da tutti gli altri, ammettendo così di essere impuri e non volendo essere ipocriti fino alla fine. La loro non fu pietà verso la donna, ma la comprensione del fatto che non avevano titolo per lapidarla alla luce di quanto Gesù aveva detto. Rinunciarono a portare la donna con sé per rinchiuderla da qualche parte nell’attesa che il Sinedrio si riunisse nonostante potessero farlo, ma la sorte di lei era passata in secondo piano. E tutto questo avvenne di fronte agli altri, quelli che erano venuti ad ascoltare il Maestro. “Lo lasciarono solo, con la donna nel mezzo”, conferma che ad allontanarsi furono solo gli avversari di Gesù, ma che nessuno di quelli che erano venuti ad ascoltarLo si era allontanato perché non chiamato in causa.

A questo punto abbiamo le due domande, “Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?” tese tanto a far considerare a quella persona tanto la situazione in cui si era venuta a trovare, cioè che i suoi accusatori erano scomparsi, ma ancora di più a farla riflettere sull’infrazione commessa che rimaneva comunque: il fatto che non fosse stata lapidata non significava che fosse innocente, ma che il debito con Dio era presente e, secondo la Legge, avrebbe dovuto morire comunque. Quindi, cosa avrebbe dovuto fare?

La risposta “Nessuno, Signore”allude certamente al fatto che, senza le parole di Gesù, sarebbe stata lapidata, ma in più abbiamo un’attesa di sapere sottolineata dal suo comportamento perché, quando quelli che l’accusavano si erano ritirati, non era fuggita via. Il suo rimanere lì indica un enorme stupore conseguente al trauma causato dall’angoscia di una morte estremamente dolorosa che dava per certa e quel “Signore”non fu usato per cortesia e rispetto, dettato da un sentimento che includeva timore e adorazione. Liberata dalla prospettiva di morte certa, non sapeva cosa fare e si aspettava che le fosse indicata una soluzione al suo problema.

Abbiamo però quel “Neanch’io ti condanno”che racchiude tutto l’amore del Dio che non giudica, per lo meno in quel momento, per cui alla persona dev’essere dato il tempo per ravvedersi pensando molto seriamente a cosa fare dal momento in cui scopre il proprio peccato in poi. Vediamo infatti che le stesse parole furono dette al paralitico guarito alla piscina di Betesta, ma che qui manca “perché non ti avvenga qualcosa di peggio”, segno a mio avviso che entrambi, Gesù e la donna, sapevano che il concetto era stato compreso.

Come “Signore”, qui viene rivelato non l’aspetto del Dio Giudice che Gesù era comunque, ma quello del Dio “pietoso e clemente, lento all’ira e di grande benignità”(Salmo 103.8) che molti avevano dimenticato o della cui qualità sapevano, ma senza averlo mai provato su di loro. È quel Dio rivelato anche nell’Antico Patto che “conosce la nostra natura e si ricorda che siamo polvere”(v.14) e sono convinto che sia per questo che veniamo ripresi, ma non puniti come dovremmo, quando sbagliamo. La donna del nostro episodio comprese la propria situazione non solo di individuo peccatore, ma anche l’opportunità che le era stata data: “Come è vero che io vivo, dice il Signore, l’Eterno, io non mi compiaccio della morte dell’empio, ma che l’empio si converta dalla sua via e viva”(Ezechiele 33.11) e “Quando l ‘empio si allontana dalla sua empietà e compie ciò che  giusto e retto, per questo egli vivrà”(v.18).

Resta ora una conclusione di natura tecnica: è innegabile che dal verso 12 del nostro capitolo esista un brusco cambiamento di stile perché si passa dalla cronaca di un fatto a una teologia molto fine e profonda: Gesù inizia un lungo discorso ai presenti su Lui come luce del mondo, sul fatto che presto sarebbe andato in una dimensione nella quale non sarebbe potuto essere raggiunto, su cosa siano verità e libertà e molto altro ancora. Per questo motivo non è azzardato supporre, come accennato all’inizio, che quanto avvenuto si sia verificato dopo Luca 21.37,38, “Durante il giorno insegnava nel tempio, la notte usciva e pernottava all’aperto sul monte detto degli Ulivi. E tutto il popolo veniva a lui di buon mattino per ascoltarlo”, ma la questione è superata dalla profondità dell’insegnamento qui contenuto, di ampia portata tanto per noi quanto per ogni uomo o donna che ancora segue le orme e soprattutto la mentalità perversa di questo mondo. Ora, ragionando sui contenuti dell’episodio, ha l’opportunità, per poco tempo ancora, di convertirsi e salvarsi. Amen.

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12.10 – LA DONNA ADULTERA I/II (Giovanni 8.1-11)

12.10 – La donna adultera 1 (Giovanni 8.1-11)

           

Premessa

Stiamo per affrontare un passo sulla cui autenticità si è molto discusso per quanto nulla lasci supporre, per l’insegnamento in esso contenuto ed il comportamento avuto da Gesù, che sia inventato. Fatto sta che il racconto, negli antichi manoscritti che riportano il Vangelo di Giovanni, o non è presente o si trova in un altro contesto, raccordabile a dopo Luca 21.37,38 quando leggiamo che “Durante il giorno insegnava nel tempio, la notte usciva e pernottava all’aperto sul monte detto degli Ulivi. E tutto il popolo veniva a lui di buon mattino nel tempio per ascoltarlo”. Si sottolinea che lo stile non sembra essere quello di Giovanni, che Origene (184-254), Tertulliano (155-230), Cipriano (210-258), Cirillo (370-444) e Crisostomo (344-407) non ne parlano mai nei loro scritti, ma d’altro canto l’episodio si trova nel Codice di Beza (380-420) e in circa trecento manoscritti corsivi anteriori di cui cinquanta lo segnano con un asterisco in segno di dubbio. San Girolamo, autore della Vulgata, annota che “il passo relativo alla donna adultera si trova in molti codici greci e latini” e Sant’Ambrogio, Sant’Agostino ed altri Padri del IV° secolo lo ammettono come autentico, supponendo che la sua assenza in alcune copie fosse dovuta al timore che la misericordia usata da Gesù alla donna in questione potesse far credere che il suo atto fosse immune dal peccato. Altro punto di interesse si trova nelle “Costituzioni apostoliche” raccolte da Clemente Romano (II° sec.) in cui viene fatta allusione all’episodio, fatto importante perché ci segnala che il racconto fosse già noto prima che venissero redatti i più antichi manoscritti oggi conosciuti.

Come affrontare quindi il brano? Ritenendolo autentico, ma allo stesso tempo segnalandone i dubbi senza ritenere infondato quando supposto da Sant’Agostino: se ci furono delle ragioni per non farlo entrare nel Vangelo di Giovanni, non pare possibile che ve ne fossero per includerlo se non fosse stato presente dal principio.

 

1 Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi. 2Ma al mattino si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui. Ed egli sedette e si mise a insegnare loro. 3Allora gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e 4gli dissero: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. 5Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?». 6Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo. Ma Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra. 7Tuttavia, poiché insistevano nell’interrogarlo, si alzò e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». 8E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra. 9Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani. Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo. 10Allora Gesù si alzò e le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». 11Ed ella rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù disse: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più».

 

            Il primo verso ci parla fondamentalmente di distanze o, se preferiamo, di livelli. Ricordiamo la conclusione del passo precedente quando abbiamo letto che, dopo il rimprovero alle guardie e alla questione posta da Nicodemo con relativa lite, “ciascuno tornò a casa sua”. I componenti del Sinedrio tornano alle loro case – e qui avevo fatto un appunto relativo alla temporaneità della loro quiete – e Gesù si avvia “verso il monte degli Ulivi” per cui possiamo raccordarci a Luca che, nel passo poc’anzi citato, ci ha scritto che lì “pernottava” coi discepoli. I dodici dormivano, Gesù credo molto meno. Comunque sia abbiamo tre distanze, o livelli, che denotano lontananza o vicinanza, esclusione o compartecipazione al piano di Dio per la salvezza dell’uomo, per essere o non essere Suoi strumenti, essere esclusi o rientrare nel Suo Piano: il Sinedrio, i dodici – tra i quali però vi era anche Giuda – e Gesù. In tutto questo contesto, cioè di quelle che abbiamo chiamato “distanze”, si inserisce un elemento neutro visto in “tutto il popolo” che “andava a lui”, cioè persone che venivano poste nelle condizioni di accogliere o rifiutare le Sue parole. Alcuni di questi sarebbero andati a Lui a bere.

Ora è in questo preciso momento, quello di Nostro Signore che insegna, che si inserisce l’intervento dei Suoi avversari, ma prima di parlarne occorre considerare cosa fossero la Festa dei Tabernacoli, a livello pratico, e l’adulterio; sono argomenti che entrambi sono stati affrontati in precedenza e che qui sorvoleremo con qualche aggiunta.

Il primo tema, quello della festa, è piuttosto semplice: sappiamo che durava sette giorni e che l’ottavo, definito in Levitico 23.36 come giorno di “santa convocazione e offrirete al Signore un sacrificio fatto con fuoco. È giorno di assemblea solenne, non farete in esso alcun lavoro servile”, non si svolgeva esattamente come ordinato da Dio. Per meglio dire, lo si osservava nella lettera, ma certo non nella sostanza poiché Plutarco, circa trent’anni dopo l’episodio, definirà quel giorno “la festa di Bacco presso i Giudei”, quindi una sorta di Carnevale in cui molti abbandonavano ogni ritegno per cui valeva l’adagio “semel in anno licet insanire”. Fu in quel contesto motivazionale che si verificò l’adulterio di cui parla Giovanni, reato che prevedeva la morte per entrambe le parti che lo commettevano. Leggiamo infatti in Deuteronomio 22.22: “Se un uomo viene trovato coricato con una donna maritata, moriranno entrambi: l’uomo che si è coricato con la donna e la donna. Così estirperai il male di mezzo a Israele”. In quel caso, invece, a pagare sarebbe stata solo colei che, a differenza della controparte, non era riuscita a fuggire.

C’è poi da considerare il motivo principe della pena di morte per un reato che, soprattutto oggi, nel mondo non è più considerato tale. L’adulterio, tanto nell’Antico che nel Nuovo Patto, era ed è inammissibile perché l’unione matrimoniale raffigurava la dedizione reciproca che avrebbe dovuto intercorrere tra Dio e il Suo popolo Israele. La stessa cosa è ora con la Chiesa, cioè amore che si caratterizza attraverso un’unione intima e stabile che non può venire inquinata da rapporti con estranei. Ricordiamo poi che esiste l’adulterio spirituale che si concreta nel momento in cui si scelgono altri dèi cui servire e adorare, o si mescolano e praticano elementi pagani nelle riunioni della Comunità dei credenti. Sappiamo che nella storia l’adulterio e la fornicazione spirituale è sempre stato un elemento scatenante di giudizi molto pesanti, primo fra i quali il diluvio. Sotto questo aspetto vale la pena citare l’esempio della chiesa di Tiatira di cui, in Apocalisse 2.20-23 leggiamo: “Ma ho da rimproverarti che lasci fare a Gezabele, la donna che si dichiara profetessa e seduce i miei servi, insegnando a darsi alla prostituzione e a mangiare carni immolate agli idoli. Io le ho dato tempo per convertirsi, ma lei non vuole convertirsi dalla sua prostituzione. Ebbene, io getterò lei in un letto di dolore e coloro he commettono adulterio con lei in una grande tribolazione, se non si convertiranno dalle opere che ha loro insegnato. Colpirò a morte i suoi figli e tutte le Chiese sapranno che io sono Colui che scruta gli affetti e i pensieri degli uomini, e darò a ciascuno di voi secondo le loro opere”.

Sono questi indubbiamente versi sui quali andrebbe effettuato uno studio a parte, ma vediamo che la “prostituzione” e l’ “adulterio” di cui si parla, per quanto possano alludere a quelli carnali, siano un sistema che confluisce in una pratica religiosa che si concreta in un rigetto della dottrina e di tutto quanto originariamente ricevuto attraverso un pericolosissimo aggiungere e togliere.

Per un popolo come quello di Israele in cui era fondamentale la genealogia e il procreare – pensiamo alla sterilità considerata come un castigo divino – l’adulterio era inammissibile anche perché in questo modo la paternità sarebbe stata impossibile da stabilire. Pensiamo ad esempio a Siracide 23.22-26 che spiega molto bene queste dinamiche: “…così anche la donna che tradisce suo marito e gli porta un erede avuto da un altro. Prima di tutto ha disobbedito alla legge dell’Altissimo, in secondo luogo ha commesso un torto verso il marito, in terzo luogo si è macchiata di adulterio e ha portato in casa i figli di un estraneo. Costei sarà trascinata davanti all’assemblea e si procederà a un’inchiesta sui suoi figli. I suoi figli non metteranno radici, i suoi rami non porteranno frutto. Lascerà il suo ricordo come una maledizione, la sua infamia non sarà cancellata”.

Ora, tornando al nostro testo per quanto riguarda i primi due versi, notiamo che dopo la riunione del Sinedrio abbiamo tre divisioni: i suoi membri tornano alle loro case (prima divisione) e per farlo devono separarsi l’uno dall’altro non certo in armonia (seconda) e infine Gesù si allontana andando al monte degli Ulivi (terza). Il giorno seguente, però, abbiamo un avvicinamento visto nel convergere al tempio del popolo desideroso di ascoltare e di Lui che li raggiunge, si siede e si mette “a insegnare a loro”, cioè da un lato parla di cose che non sapevano e dall’altro, fedelmente all’etimologia del termine, “in signo”, lo fa lasciando un segno profondo nri Suoi uditori.

È anche importante l’ “Allora” con cui inizia il verso terzo, che sta a indicare “a quel punto”, certo giunto non a caso, ma segno della volontà da parte degli oppositori di Gesù non solo di metterlo in difficoltà, ma di creare sconcerto e dubbio in quanti erano venuti lì ad ascoltarlo. Abbiamo una volontà di spettacolo cinica e brutale, come ha scritto un fratello: “il produrre quella donna in pubblico a quel modo era un atto di inutile crudeltà verso di lei ed un insulto a tutti gli spettatori di cuore generoso e modesto. Avrebbero potuto tenerla in carcere mentre riferivano il fatto a Gesù, senza contare l’indelicatezza brutale nei termini coi quali veniva pubblicata la sua colpa”.

Invece, quelli la presero non appena colta sul fatto, la condussero nel cortile del tempio e la gettarono “in mezzo”, cioè in quello spazio che si era venuto a creare tra Gesù e quanti lo desideravano ascoltare. Teniamo presente che ciò avvenne è di mattina, presumiamo presto, ad un orario in cui il Sinedrio, l’unica autorità che poteva decidere la morte di una persona, non era convocato. Leggendo poi la domanda posta a Nostro Signore è chiaro che non gli chiedono una sentenza di morte, ma un parere – “Tu, che ne dici?” – per cui abbiamo un ulteriore indizio sulla reale intenzione di turbare gli animi dei presenti: agli insegnamenti di grazia ed amore proposti da Lui, contrappongono la durezza implacabile della Legge di Mosè al riguardo.

Questo però fu solo l’aspetto più apparente e immediato, poiché in realtà ciò a cui miravano gli avversari di Gesù era di “metterlo alla prova e avere motivo di che accusarlo” (v.6): se Gesù avesse assolto la donna, si sarebbe ribellato alla Legge e così poteva essere accusato come impostore e falso Messia; se l’avesse condannata avrebbe agito in modo contrario alla compassione che sempre aveva dimostrato nei confronti dei pubblicani e peccatori in genere.

Poi, ragionamento ancora più sottile, se Gesù avesse assolto la colpevole, “sostituendosi a Dio”, sarebbe stato facilmente condannabile dal Sinedrio come bestemmiatore, ma se la condannava sarebbe entrato in conflitto con l’autorità romana che non puniva l’adulterio con la morte e per questo sarebbe stato denunciato a loro dagli scribi e farisei.

E sappiamo che la prima risposta di Nostro Signore sarà quella di scrivere col dito per terra.

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12.09 – MAI UN UOMO HA PARLATO COSÌ (Giovanni 7.40-53)

12.09 – Mai un uomo ha parlato così (Giovanni 7.40-53)

           

 

40All’udire queste parole, alcuni fra la gente dicevano: «Costui è davvero il profeta!». 41Altri dicevano: «Costui è il Cristo!». Altri invece dicevano: «Il Cristo viene forse dalla Galilea? 42Non dice la Scrittura: «Dalla stirpe di Davide e da Betlemme, il villaggio di Davide, verrà il Cristo?». 43E tra la gente nacque un dissenso riguardo a lui. 44Alcuni di loro volevano arrestarlo, ma nessuno mise le mani su di lui. 45Le guardie tornarono quindi dai capi dei sacerdoti e dai farisei e questi dissero loro: «Perché non lo avete condotto qui?». 46Risposero le guardie: «Mai un uomo ha parlato così!». 47Ma i farisei replicarono loro: «Vi siete lasciati ingannare anche voi? 48Ha forse creduto in lui qualcuno dei capi o dei farisei? 49Ma questa gente, che non conosce la Legge, è maledetta!». 50Allora Nicodemo, che era andato precedentemente da Gesù, ed era uno di loro, disse: 51«La nostra Legge giudica forse un uomo prima di averlo ascoltato e di sapere ciò che fa?». 52Gli risposero: «Sei forse anche tu della Galilea? Studia, e vedrai che dalla Galilea non sorge profeta!». 53E ciascuno tornò a casa sua.

 

            Quanto letto relativamente ai commenti della folla è la conseguenza dei discorsi sentiti fino ad allora nel cortile del Tempio di cui Giovanni ha riportato l’essenziale. Leggiamo però che l’apostolo ha scritto “All’udire queste parole”, quindi l’invito “Se qualcuno ha sete, venga a me e beva chi crede in me”, ma non possiamo escludere anche quelle altre dette due o tre giorni prima, quando da un lato abbiamo la volontà di arrestarlo e, dall’altro, la gente che si domandava “Il Cristo, quando verrà, compirà forse segni più grandi di quelli che ha fatto costui?”(v.31). Ebbene, questa domanda in un certo senso portò i presenti a due conclusioni più una risposta la prima delle quali fu che Lui fosse “davvero il profeta!”,in cui sottolineiamo l’articolo determinativo per cui Lo prendevano per Elia o per quel “profeta come me, in mezzo a te, fra i tuoi fratelli”a cui avrebbero dovuto “dare ascolto”citato in Deuteronomio 18.15. Sappiamo che non era chiaro, per l’interpretazione che davano a quel passo, se si trattasse del Messia o del Suo precursore, ma è certamente indicativo, in questa pericope, quanto fosse incisivo quel “davvero”e l’articolo “il”che andava dritto al cuore del problema. Fra la moltitudine c’era quindi chi si poneva nelle condizioni di approfondire la posizione di Gesù con successo.

La seconda conclusione è più specifica, “Costui è il Cristo”: anche qui abbiamo l’indicativo “è”,quindi privo di forma dubitativa, a conferma del fatto che Gesù non poteva essere altri se non il Messia promesso e questa portò ad un’osservazione, o replica, che rivela quanto il popolo ignorava e cioè le effettive origini di Colui che stava parlando: era opinione diffusa che Gesù venisse “dalla Galilea”(Nazareth e Capernaum), ma in realtà apparteneva tanto alla genealogia di Davide in quanto nato a Betlehem di Efrata. Aveva dunque tutte le credenziali per essere creduto. Quelli che allora parlavano in quel modo, dubitando che Gesù fosse effettivamente il Cristo perché secondo loro veniva da una regione estranea al casato di Davide, sbagliano per ignoranza. Sappiamo che i capi dei sacerdoti e gli scribi dissero ad Erode che il “Re dei Giudei”sarebbe nato a Betlehem e lo facevano su passi della Scrittura ben precisi.

Prima di tutto il Cristo non avrebbe potuto venire da nessun’altro, genealogicamente, se non da Davide secondo Salmo 89.4,5: “Ho stretto alleanza con il mio eletto, ho giurato a Davide, mio servo. Stabilirò per sempre la tua discendenza, di generazione in generazione edificherò il tuo trono”. In proposito possiamo ricordare le due genealogie di Matteo e Luca in cui vengono nominati i rappresentanti delle generazioni che si succedettero nel tempo fino a Gesù. Lo stesso dicasi per Salmo 132.11 “Il Signore ha giurato a Davide, promessa da cui non torna indietro: «Il frutto delle tue viscere io metterò sul tuo trono»”. Abbiamo poi Isaia 11.1 con “Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse– padre di Davide –, un virgulto spunterà dalle sue radici. Su di lui si poserà lo spirito del Signore, spirito di sapienza e di intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e di timore del Signore”. Geremia 23.5,6: “Ecco, verranno i giorni (oracolo del signore) nei quali io susciterò a Davide un germoglio giusto, che regnerà da vero re e sarà saggio ed eserciterà il diritto e la giustizia sulla terra. Nei suoi giorni Giuda sarà salvato e Israele vivrà tranquillo, e lo chiameranno con questo nome: Signore-nostra-giustizia”.

La provenienza da Betlehem sappiamo che fu predetta dal famoso passo di Michea 5.2, ma trova la sua base proprio in Iesse, quando viene così identificato in 1 Samuele 17.12: “Davide era figlio di un Efrateo di Betlemme di Giuda chiamato Iesse, che aveva otto figli”. E tutto torna perché chi indaga nella Scrittura, a prescindere dall’epoca in cui vive, non può venire confuso se guidato dallo Spirito e non si arrende (ricordiamo il cercare “come i tesori”).

Comunque, come accade anche oggi, abbiamo da una parte chi ha creduto in lui e chi no, con opinioni diverse e quel “volevano arrestarlo”, o “prenderlo”come traducono altri, ci può lasciar pensare che quella fu la volontà non solo dell’autorità religiosa che aveva mandato le “guardie”, ma anche di coloro che, tra la folla, vedevano in lui un impostore e il loro integralismo li spinse ad azioni violente contro di Lui. È importante sottolineare che il verso 44 ha senso ambivalente e riguarda anche gli inviati ad arrestarlo: erano le guardie del Tempio, che curavano l’ordine pubblico non solo lì, ma anche in città ed erano alle dipendenze del Sinedrio e in particolare del suo magistrato.

Ebbene quegli uomini andarono lì e, dopo averlo ascoltato, non furono in grado di eseguire l’ordine loro affidato per un motivo molto semplice, cioè furono toccati nel profondo della loro coscienza mentre gli altri, quelli della folla ostile, semplicemente non poterono. Giovanni non dice che le guardie credettero, ma solo che furono concordi nel dire “Mai un uomo ha parlato così”, frase che, detta da loro, ci dice molto perché conoscevano tutti i membri del Sinedrio, avevano ascoltato i loro discorsi, frequentavano la Sinagoga e conoscevano gli insegnamenti dei rabbini più autorevoli. Eppure, in quel momento, dichiarano di non avere mai sentito nessuno parlare in quel modo, cioè con quella conoscenza e autorità che ai sinedriti mancava nonostante gli studi severi che avevano intrapreso e la scienza scritturale che possedevano, ma in maniera umana. Dobbiamo tener presente che il mandato di arresto a quei tempi non era necessariamente immediato, ma poteva anche essere intesto come da eseguire alla prima occasione favorevole, poiché sappiamo che “i capi dei sacerdoti e gli scribi cercavano in ogni modo di toglierlo di mezzo, ma temevano il popolo”(Luca 22.2). Ecco perché le guardie inviate ebbero occasione di ascoltare Gesù mentre parlava, ricordando che Giovanni riporta una minima parte di ciò che disse. Lo stesso timore descritto da Luca emerge anche in Marco 11.32 quando annota, in un contesto diverso, che “…temevano la folla, perché tutti ritenevano che Giovanni– Battista – fosse veramente un profeta”.

“Mai nessuno parlò come quest’uomo”allora ci rivela che solo ascoltando le parole di Gesù, il Vangelo, l’uomo può riconoscere se sia il Figlio di Dio che dice di essere oppure no alla luce di quel “Tutto è compiuto”che riguarda non solo l’osservazione della Legge fin nello “iota”, ma nella presentazione del piano di Dio per l’uomo e nel fatto che solo ascoltandolo si può giungere ad una perfetta identità con Lui: “Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi”(Giovanni 14.3).

La risposta delle guardie del tempio adirò profondamente i membri del Sinedrio e li accusarono di essere stati sedotti, ricordando loro che nessuno dei capi o dei farisei aveva creduto in lui e definiscono “maledetta”la moltitudine perché ignorava la Legge, quella cui proprio loro avrebbero dovuto insegnare per portarli non tanto alla minuta osservanza, ma al suo senso spirituale fino a quando non sarebbe giunto il Cristo, il Messia promesso. Ora è chiaro che quel “maledetta”riflette tutto il disprezzo che quella classe religiosa provava per i propri simili, atteggiamento ben diverso da quello che la Legge stessa dava per naturale, cioè che tutti fossero fratelli e l’uno prossimo dell’altro. Impossibile infatti pascere un gregge che non si ama. Invece sappiamo che proprio loro parlavano degli ebrei che non avevano studiato nelle loro scuole ed erano ritenuti “fango che si calpesta”, “uomini di terra” e “vermi”.

A questo punto ecco intervenire un personaggio che aveva incontrato Gesù due anni prima, Nicodemo, figura del dubbio provato e del timore di manifestare la propria fede, ma anche della Parola che germina lentamente nel cuore. Certo, anche del tormento che prova un’anima quando è frenata dal prendere una posizione che avrebbe inevitabilmente generato sofferenza personale vista nell’esclusione dalla società cui apparteneva. Sappiamo che Nicodemo non era l’unico: pensiamo a Giuseppe d’Arimatea, “membro del sinedrio, buono e giusto, che non aveva aderito all’operato degli altri”(Luca 23.50) e a tutti quelli che “…anche tra i capi, credettero in lui, ma, a causa dei farisei, non lo dischiaravano per non essere esclusi dalla sinagoga”(Giovanni 12.42). Sono queste persone che provano su di sé gli effetti della Parola di Dio, “più tagliente di una spada a doppio taglio”, che sono coscienti di non appartenere al mondo di prima ed ora si trovano di fronte ad una scelta da affrontare. Vivere in una coscienza divisa è terribile, per lo meno fino a quando non si trova il coraggio per spiccare il volo verso l’Alto. Ebbene, Nicodemo prende la parola e lo fa in modo prudente, potremmo dire combattendo a modo suo affrontando i suoi pari grado in modo legale alla luce di tre passi: Deuteronomio 1. 16,17 “Ascoltate le cause dei vostri fratelli e decidete con giustizia fra un uomo e suo fratello o lo straniero che sta presso di lui. Nei vostri giudizi non avrete riguardi personali, darete ascolto al piccolo come al grande”, dove si parla di ascolto e decisione non offuscata da impressioni o sentimenti provenienti dalla carne.

Abbiamo poi 17.8: “Un solo testimone non avrà valore contro alcuno, per qualsiasi colpa e per qualsiasi peccato; qualunque peccato uno abbia commesso, il fatto dovrà essere stabilito sulla parola di due o di tre testimoni”e questo accadeva in presenza dell’accusato. In 19.16 infatti si parla dell’eventualità in cui “un testimone ingiusto si alzi contro qualcuno per accusarlo di ribellione”. E sappiano che l’accusato aveva diritto di replica, come dalle parole di Pilato a Gesù in Marco 15.4: “Non rispondi nulla? Vedi di quante cose ti accusano”. Secondo Nicodemo, quindi, proprio coloro che in quel frangente condannavano Gesù a priori e reputavano “maledetta”la folla, erano i primi a trasgredire la Legge. Lungo dal pensare a questo, lo esortano a studiare (ricordiamo il loro detto “va’ e impara”) le Scritture perché da esse veniva la verità in base al quale “dalla Galilea non sorge profeta”, ma sbagliavano: Giona nacque infatti a breve distanza da Cana (2 Re 14.25), Eliseo poco distante da Betlehem (1 Re 4.12; 19.16), e Nahum a El Kush, piccolo villaggio della Galilea.

L’episodio si concluse con un nulla di fatto:“Ciascuno tornò a casa sua”, temporaneamente al sicuro nelle proprie quattro mura.

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12.08 – SE QUALCUNO HA SETE (Giovanni 7.37-39)

12.08 – Se qualcuno ha sete (Giovanni 7.37-39)

           

37Nell’ultimo giorno, il grande giorno della festa, Gesù, ritto in piedi, gridò: «Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva 38chi crede in me. Come dice la Scrittura: Dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva». 39Questo egli disse dello Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui: infatti non vi era ancora lo Spirito, perché Gesù non era ancora stato glorificato.

 

            Sappiamo che la festa dei Tabernacoli durava sette giorni, ma siccome a quelli se ne aggiungeva uno di solenne convocazione, in realtà ne abbiamo otto. Fra i riti dell’ultimo giorno ve ne era uno, posteriore alla Legge di Mosé e di origine incerta quindi non comandato, che era più popolare degli altri: un sacerdote, accompagnato da una processione preceduta da un gruppo di suonatori, si recava alla piscina di Siloe, riempiva d’acqua un vaso d’oro che portava nel cortile del tempio e lo versava in due vasi d’argento posti sull’altare mentre gli altri sacerdoti e i leviti cantavano il grande Hallel (Salmo 113 e 118) seguito dalle parole di Isaia 12.3“Voi attingerete con gioia l’acqua dalle fonti della salvezza”. Questa parte della cerimonia commemorava con gratitudine la misericordia di Dio per aver provveduto d’acqua Israele mentre vagava nel deserto. Interessante è la simbologia di questo rito, con l’acqua che passava dal vaso d’oro, che rappresentava la Maestà di Dio, ai due d’argento, che avevano riferimento all’uomo, due a sottintendere entrambe le nature, quella terrena e quella spirituale? Oppure il numero era riferito all’essere umano nei suoi due elementi, uomo e donna? Si trattava di una simbologia interessante, ma non comandata e quindi aggiunta dalla tradizione.

Questo è il contesto in cui Gesù si alzò in piedi e, gridando, parlò rivolgendosi a chi si riconosceva assetato. Era impossibile a chi lo ascoltava non cogliere immediatamente il parallelismo tra quanto si stava celebrando in quel momento e gli elementi fondamentali del Suo messaggio: se la Festa delle Capanne parlava di un percorso nel deserto che gli antichi avevano fatto e di come fossero stati dissetati da Dio che non li aveva abbandonati, ora potevano avere un’acqua nuova, molto più preziosa di quella per la sopravvivenza del corpo. Accanto a questo accostamento immediato, ci sono poi le parole di Isaia 55.1-3:“O voi che siete assetati, venite all’acqua, voi che non avete denaro, venite, comprate e mangiate; venite, comprate senza denaro, senza pagare, vino e latte. Perché spendete denaro per ciò che non è pane e il vostro guadagno per ciò che non sazia? Su, ascoltatemi e mangerete cose buone e gusterete cibi succulenti. Porgete orecchio e venite a me, ascoltate e vivrete. Io stabilirò per voi un’alleanza eterna, i favori assicurati a Davide”.

Anche in questo passo c’è un invito agli assetati a bere; potrebbe sembrare un controsenso perché chi ha sete l’acqua la cerca da solo, ma qui è chiaro che si parla di provare un’arsura diversa che può essere soddisfatta porgendo orecchio, ascoltando. Anche in Isaia il messaggio è rivolto a “voi che non avete denaro”, cioè quanti sarebbero impossibilitati a comprare alcunché, tagliati fuori anche dal minimo necessario per vivere, ma che qui trovano “senza pagare vino e latte”cioè addirittura il di più, visto che chi ha sete trova nell’acqua il mezzo più idoneo a soddisfare il corpo. “Voi che non avete denaro”, più propriamente, allude all’impossibilità dell’uomo incompatibile con Dio a comprare ciò che è da Lui donato liberamente. Accanto al soddisfare questa necessità, poi si aggiungono “cose buone”e “cibi succulenti”, quindi il ristabilimento completo della persona come nella parabola del buon samaritano.

In questi versi c’è anche un inciso, una domanda che riguarda lo spendere “denaro per ciò che non è pane”e il “guadagno per ciò che non sazia”dove si vuol porre l’accento sul fatto che l’uomo si affatica e spende quanto ha da parte o ciò che guadagna quotidianamente per cose inutili e tralascia quell’unico nutrimento che porta alla vita eterna.

Quel “venite alle acque”di Isaia che poi si conclude con “ascoltate e vivrete”, prosegue con la promessa di un alleanza eterna, “i favori assicurati a Davide”dalla cui discendenza il Gesù uomo proveniva. Quali siano questi “favori”li troviamo in 2 Samuele 7.8-16 in cui, accanto al ricordo di quanto YHWH aveva fatto per lui, leggiamo una promessa che riguarda il futuro: “Quando i tuoi giorni saranno compiuti e tu dormirai con i tuoi padri, io susciterò un discendente dopo di te, uscito dalle tue viscere, e renderò stabile il trono del suo regno Egli edificherà una casa al mio nome e io renderò stabile il trono del suo regno per sempre”(vv.12-13). Ecco allora l’adempimento in Gesù, come disse Paolo nella Sinagoga di Antiochia: “Ora Davide, dopo aver eseguito il volere di Dio nel suo tempo. Morì e fu unito ai suoi padri e subì la corruzione. Ma colui che Dio ha risuscitato, non ha subito la corruzione. Vi sia dunque noto, fratelli, che per opera sua viene annunciato a voi il perdono dei peccato. Da tutte le cose da cui mediante la legge di Mosè non vi fu possibile essere giustificati, per mezzo di lui chiunque crede è giustificato”(Atti 13.36-40).

Ecco perché il passo di Isaia che abbiamo letto prosegue con la figura del Santo che non subì la corruzione: “Ecco, l’ho costituito testimone fra i popoli, principe e sovrano delle nazioni. Ecco, tu chiamerai gente che non conoscevi; accorreranno a te nazioni che non ti conoscevano”(Isaia 55.4,5) viste nei pagani.

Leggendo le parole di Gesù dei primi due versi, notiamo che racchiudono due fasi: in una prima abbiamo l’invito ad andare a lui “se uno ha sete”, quindi chi non la prova può benissimo evitare di farlo; la seconda è “beva chi crede”, cioè solo la persona che ha trovato e soprattutto constatato che il bere di cui parla Gesù produce un risultato che non può essere paragonato a nient’altro. Posso dire di avere conosciuto uomini dalla cultura molto profonda, versati nella scienza, nella storia e nella filosofia che hanno praticato con un amore profondo dissetandosi in esse, ma tutti si sono rivelati senza risposte di fronte a quelli che sono chiamati “i grandi miseri della vita” che tali non sono per chi beve alle fonti di Dio, avendo lo Spirito Santo come guida. Ed ecco perché “Chi crede in me– che la nostra traduzione non riporta – come dice la Scrittura, dal suo grembo usciranno fiumi d’acqua viva”, frase che oltre a una promessa è la descrizione di un percorso, di una crescita che produce quell’ “usciranno fiumi d’acqua viva”utile all’edificazione e alla conversione di chi deciderà di ascoltarli.

È doveroso sottolineare che Gesù parla di “grembo”, tradotto da altri “ventre”, quindi tanto ciò che genera, inteso come utero, quanto ciò che elabora il nutrimento ingerito e sappiamo bene che è la digestione, con l’assimilazione dei cibi, a tenere in vita il nostro corpo. La digestione è elaborazione, da essa dipende la salute o la malattia, ci si può intossicare oppure guarire.

Ricordiamo le parole alla donna samaritana, “Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna”(Giovanni 4.13,14): lì Gesù parlò di sorgente, qui di “fiumi”. Si tratta di figure che ampliano quanto già conosciuto, come ad esempio Proverbi 10.11, “Fonte di vita è la bocca del giusto”, o 18.4, “Le parole della bocca dell’uomo sono acqua profonda, la fonte della sapienza è un torrente che straripa”in cui vengono posti a confronto il parlare umano, frutto di una psiche molto complessa che solo Dio può conoscere, e un torrente che non può venire contenuto perché la Sapienza ha rivoli infiniti, è un torrente che scorre e non un fiume limaccioso.

La promessa che Gesù fa nel cortile del tempio, invitando l’assetato ad andare a lui e a bere una volta creduto, adempie quella che Dio fece a Giacobbe, chiamato anche Israele: “Io verserò acqua sul suolo assetato, torrenti sul terreno arido. Verserò il mio spirito sulla tua discendenza, la mia benedizione sui tuoi posteri”(Isaia 44.3).

In questa panoramica sui versi connessi all’acqua, credo vada citata la comparazione fra ciò a cui spinge la religione e il frutto dello Spirito a livello pratico: “Ecco, nel giorno del vostro digiuno curate i vostri affari, angariate i vostri operai. Ecco, voi digiunate fra litigi e alterchi e colpendo con pugni iniqui. Non digiunate più come fate oggi, così da fare udire il vostro chiasso. È forse come questo il digiuno che bramo, il giorno in cui l’uomo si mortifica? Piegare come un giunco il vostro capo, usare sacco e cenere per letto, forse questo vorresti chiamare digiuno e giorno gradito al Signore? Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo? Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti? Allora la tuo luce sorgerà come l’aurora, la tua ferita si rimarginerà presto. Davanti a te camminerà la tua giustizia, la gloria del Signore ti seguirà. Allora invocherai e il Signore ti risponderà: «Eccomi!». Se toglierai di mezzo a te l’oppressione, il puntare il dito e il parlare empio, se aprirai il tuo cuore all’affamato, se sazierai l’afflitto di cuore, allora brillerà fra le tenebre la tua luce, la rua tenebra sarà come il meriggio. Ti guiderà sempre il Signore, ti sazierà in terreni aridi, rinvigorirà le tue ossa; sarai come un giardino irrigato e come una sorgente le cui acque non inaridiscono”(Isaia 58.3-11).

Ecco gli elementi delle Scritture Antiche a disposizione dei presenti quando Nostro Signore gridò per farsi sentire: racchiudevano un universo di significati, di implicazioni pratiche che chi seguiva la religione e la Legge di Mosè non metteva in atto, per quanto uno studio spirituale li avrebbe facilmente svelati. Chi si distaccava dalla massa che osservava principi di apparenza, però, provava una sete profonda nonostante, quella stessa che fece dire a Simeone, un uomo giusto in Gerusalemme, “Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza”(Luca 2.29,30).

Concludendo, abbiamo quindi due letture di questo passo, una per il tempo in cui furono pronunciate e una per quello in cui viviamo: la prima è riferita alle conseguenze dell’andare a Gesù prima della Sua resurrezione e conseguente discesa dello Spirito Santo, in cui la guarigione e il perdono dei peccati costituiva l’effetto tangibile della grazia ricevuta; la seconda invece è quella che ha dato la possibilità agli uomini di parlare secondo lo Spirito e, come già accennato, contribuire alla crescita spirituale di coloro che necessitano di crescere e soprattutto sono consapevoli della necessità di provvedere ad un percorso che rifiuti la via “larga e spaziosa”che porta alla perdizione.

Il passo in esame, infine, si conclude con una nota di Giovanni: “Questo egli disse dello Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui: infatti non vi era ancora lo Spirito, perché Gesù non era ancora stato glorificato”, cosa che avvenne una volta adempiuto il proprio compito terreno con la morte, resurrezione e ascensione al cielo. Qui si parla dello Spirito Santo che si manifesta in una forma nuova, diversa da quella dell’Antico Patto in cui operava comunque; possiamo pensare a Giovanni Battista, ripieno di esso “fin dal ventre di sua madre”(Luca 1.15). Lo Spirito Santo è ora la Forza tesa a guidare, sostenere, consolare chiunque lo voglia davvero, cioè senza lasciarsi inquinare da quegli elementi carnali (e ciascun credente ha i propri) che gli impediscono di agire.

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12.07 – A GERUSALEMME, AL TEMPIO IV/IV ( Giovanni 7.32-36)

12.07 – A Gerusalemme: Al Tempio IV (Giovanni 7.32-36)

           

 

32I farisei udirono che la gente andava dicendo sottovoce queste cose di lui. Perciò i capi dei sacerdoti e i farisei mandarono delle guardie per arrestarlo. 33Gesù disse: «Ancora per poco tempo sono con voi; poi vado da colui che mi ha mandato. 34Voi mi cercherete e non mi troverete; e dove sono io, voi non potete venire». 35Dissero dunque tra loro i Giudei: «Dove sta per andare costui, che noi non potremo trovarlo? Andrà forse da quelli che sono dispersi fra i Greci e insegnerà ai Greci? 36Che discorso è quello che ha fatto: «Voi mi cercherete e non mi troverete», e: «Dove sono io, voi non potete venire»?».

 

            Con questi versi si conclude il racconto di ciò che avvenne nel tempio di Gerusalemme, quando Gesù si mise a insegnare. Giovanni, omettendo gli accadimenti dei circa due giorni successivi, riprenderà il racconto una volta giunto “…l’ultimo giorno, il grande giorno della festa” (v.37 e segg.). Il quadro che l’evangelista ci offre è molto indicativo sull’ostilità che si era venuta a creare non solo nei confronti di Nostro Signore, ma di chiunque fosse anche solo un Suo generico simpatizzante: infatti “i farisei udirono che la gente andava dicendo sottovoce queste cose di lui”, cioè quella constatazione che la gente faceva: “Il Cristo, quando verrà, potrà fare segni più grandi di quelli che ha fatto costui?” (v.31).

In pratica non era certo la prima volta che veniva minata l’autorità religiosa dei farisei (e con loro tutti gli altri), ma questa volta essi entrarono in fibrillazione perché parte del popolo iniziava a pensare che proprio Gesù fosse il Messia promesso. Ecco perché la loro reazione immediata fu quella di mandare “delle guardie per arrestarlo”. Quest’ordine fu dato dai farisei e dai “capi dei sacerdoti”, cioè quelli delle ventiquattro classi, o mute, nelle quali Davide aveva diviso i discendenti di Aaronne (1 Cronache 24.7-19) e che dopo di lui Giosia, Esdra e Nehemia avevano ricostituito. Ora cosa successe? Non è che come i Giudei si accorsero del mormorio del popolo inviarono le loro guardie, ma, anche se Giovanni non lo scrive, dovettero convocare con urgenza il Sinedrio che prese il provvedimento di procedere all’arresto di Gesù che si concreterà “l’ultimo giorno della festa”. Ecco perché quanto abbiamo letto ai versi 31 e 32 non trova immediata conclusione, che troveremo poi dal 44 a seguire, temporalmente circa due giorni dopo. Ecco cosa accadrà: “Alcuni di loro volevano arrestarlo, ma nessuno gli mise le mani addosso. Le guardie tornarono quindi dai sommi sacerdoti e dai farisei e questi dissero loro: «Perché non lo avete condotto?». Risposero le guardie: «Mai un uomo ha parlato come parla quest’uomo!»”.

Ora, rimandando le considerazioni su questi versi a un capitolo successivo, possiamo esaminare le parole di Gesù ai Suoi uditori a prescindere dalla posizione che avevano assunto: ciò che viene annunciato non è solo la Sua morte, ma soprattutto ricorda l’appuntamento che ogni essere umano da lì in poi avrebbe avuto con la fine in genere, morte compresa. E si tratta di un tema fondamentale, quello di quanti ritengono che tutto debba scorrere secondo le proprie aspettative: ogni mattina ci si alza, si affronta il giorno coi suoi problemi e le sue “gioie”, ci si accorda magari per il successivo dando per scontato che arrivi e venga vissuto senza pensare all’imprevisto più o meno grave che può sempre verificarsi o che tutto possa finire. Qui però Gesù parla di molto altro.

“Ancora per poco tempo sono con voi” possiamo dire che sia il primo annuncio di un tempo a finire dato a persone diverse dai suoi discepoli e, come per tutte le altre volte anche dai dodici, non fu capito. Si tratta di parole rivolte a tutti, quelli che stavano per credere in Lui o lo avevano già fatto e coloro che ne stavano architettando la morte. Qui Gesù esprime un concetto temporale raccordato agli uomini perché ne approfittasero perché quel “con voi” è ben diverso dall’analogo detto ai Suoi, “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Matteo 28.20): a loro promise e la Sua presenza incessante, mentre nel nostro caso il riferimento è alla Sua missione perché “poi vado da colui che mi ha mandato”. Sarebbero allora finiti quei giorni in cui l’Emmanuele, il “Dio con noi” sarebbe stato disponibile e pronto così come si era manifestato. Ricordiamo infatti come viene presentato Gesù dai Vangeli e come potevano vederlo i suoi contemporanei: come Re da Matteo, come Servo da Marco, Figlio dell’uomo da Luca, e Figlio di Dio da Giovanni.

Ebbene, incontreremo altre frasi che rappresenteranno il concetto espresso al Tempio, ad esempio in 12.35,36, sempre diretto alla folla: “Ancora per poco tempo la luce è con voi. Camminate mentre avete la luce, perché non vi sorprendano le tenebre; chi cammina nelle tenebre non sa dove va. Mentre avete la luce, credete nella luce, per diventare figli della luce”.

Leggendo il nostro testo sappiamo che i presenti non capirono le parole di Gesù, o meglio non si soffermarono sul “poco tempo”, ma si chiesero dove andasse, cosa volesse significare quel “dove sono io non potete venire”; lo fecero in modo del tutto cieco, usando il letteralismo cui erano abituati, ma in realtà tutti avrebbero potuto capire sia il concetto dell’urgenza di cercare e trovare il Signore, sia dove si sarebbe recato, nella regione dove si trova il Perfetto Spirito, come da Isaia 55. 6-9: “Cercate il Signore, mentre si fa trovare, invocatelo mentre è vicino. L’empio abbandoni la sua via e l’uomo iniquo i suoi pensieri; ritorni al Signore che avrà misericordia di lui e al nostro Dio che largamente perdona. Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie, oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri”.

Ora Gesù sarebbe andato là dove le vie di Dio sovrastano le loro e con le parole “vado da colui che mi ha mandato” dichiara la fine prossima della Sua missione, dove nulla di meno della perfezione era stato fatto per la salvezza dell’uomo, “Tutto è compiuto”. Quando guardo a ciò che ho fatto nella mia vita, nei molti compiti che mi sono stati affidati o nelle attività che ho svolto, trovo sempre dei punti che avrei potuto migliorare, sviluppare, elementi che ho tralasciato, mancanze, difetti nonostante il mio lavoro sia sempre stato apprezzato, per non parlare degli errori compiuti nella mia vita personale: ebbene, Gesù è l’unico che non sbagliò mai nonostante il suo crescere “in terra arida”, non fece nulla di meno e fu perfetto a tal punto da essere misurato così dal Padre non come Figlio, ma come Uomo. E fu definito, come sappiamo, “Ultimo Adamo” perché, con la sua vita terrena, rimediò agli errori del primo a tal punto da essere definito “Spirito che dà la vita”. E riuscì dove tutti gli altri uomini fallirono.

Il fatto che Nostro Signore fosse con loro “ancora per poco” è un’apertura temporanea che si conclude con “e non mi troverete”, spiega che il “mentre si fa trovare” di Isaia finisce senza che vi sia poi una possibilità per tornare indietro. Anche questo è un concetto che verrà ripetuto più avanti, ma in maniera molto più drammatica: “Io vado e voi mi cercherete, ma morirete nel vostro peccato. Dove vado io, voi non potete venire” (8.21). In 7.36 abbiamo “Dove io sono”, in 8.21 “Dove io vado” perché l’uno implica l’altro, perché Gesù, proceduto dal Padre, “Io sono”, a Lui ritorna. E ricordiamo quanto detto a Pietro: “Dove vado io per ora non puoi seguirmi; mi seguirai più tardi” (13.36): lui e tutti coloro che avrebbero creduto avrebbero seguito Gesù, non i suoi avversari, detrattori, negazionisti.

Occorre però sviluppare, per quanto brevemente, quel “mi cercherete, ma non mi troverete”, che trova un suo approfondimento nel “morirete nel vostro peccato” perché “se non credete che io sono, morirete nei vostri peccati” (8.24). In queste parole si potrebbe vedere una contraddizione con la promessa “cercate e troverete” che dà libero accesso all’anima alla sincera ricerca di Dio, ma così non è perché qui Gesù si rivolge a chi lo cerca non per risolvere il problema della propria identità e soprattutto destinazione finale, ma a chi agisce in tal senso per avere un aiuto unicamente materiale come hanno sempre fatto molti che cercano l’aiuto di Dio quando capiscono che per loro è impossibile mutare una situazione. Sono convinto che qui Gesù alluda alla catastrofe che da lì a un tempo prossimo avrebbe colpito la nazione giudaica e che, in quel frangente, avrebbe cercato non tanto Lui, ma un Messia che lo salvasse. “Mi cercherete” non per avere la salvezza dell’anima ed essere veramente uomini, ma perché avrete timore della distruzione e della morte. Quindi, “non mi troverete”. E leggere le cronache dell’assedio, conquista e distruzione da parte delle truppe romane comandate da Tito è angosciante anche perché quell’azione militare non riguardò soltanto la “santa città”, ma tutti i territori ebraici che si erano ribellati a Roma, quindi l’intera Palestina.

Il “Voi mi cercherete, ma non mi troverete” si può dire che sia uno dei molti avvertimenti di Gesù, o anticipazioni, dati sulla rovina della città e su quello che per gli ebrei rappresentava: ricordiamo quando pianse su di lei, le parole dette ai discepoli “Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta” (Luca 21.6), per non parlare del sermone profetico: “Allora quelli che sono in Giudea fuggano ai monti, chi si trova sulla terrazza non scenda a prendere roba di casa e chi si trova nel campo non torni indietro a prendersi il mantello. Guai alle donne incinte e a quelle che allatteranno in quei giorni”. Da notare che i morti, alla fine della distruzione, furono un milione, i deportati centomila e che il Tempio, che nelle intenzioni di Tito avrebbe dovuto essere risparmiato, fu distrutto dalla furia incontrollabile dell’esercito, diventata tale a seguito dell’esasperazione per il lungo assedio, la conquista estremamente difficoltosa di parti della città e le estenuanti imboscate degli zeloti. Se la cortina del tempio si divise in due dopo la morte di Gesù, qui ad essere distrutto quindi fu il Tempio, ritenuto la dimora di Dio e il centro dell’ebraismo.

Tutti questi avvenimenti, nel 32 circa, erano inconcepibili per tutti i presenti che sottovalutarono l’invito ad approfittare  della presenza di Nostro Signore “ancora per poco” per essere salvati, ma si preoccuparono di dove mai sarebbe potuto andare: “Dove potrà mai andare costui, che non potremo trovarlo?” è frase chiaramente detta dai rettori del popolo gli uni con gli altri a sottintendere che mai avrebbe potuto essere risparmiato dal loro potere. La seconda parte del loro chiedersi dove mai potesse andare, è ironica e dispregiativa al tempo stesso: “Andrà forse fra coloro che sono dispersi fra i Greci e insegnerà ai Greci?” è un riferimento a quegli ebrei che si erano stabiliti fuori dalla Palestina, in Africa, Asia minore e Siria o in tutto l’Oriente in genere ai quali, secondo loro, avrebbe potuto andare come ultima spiaggia pur di propagandare la sua dottrina.

In realtà, quella frase fu inconsapevolmente profetica perché ai Giudei dispersi Gesù si rivolgerà attraverso gli Apostoli, Pietro e Giacomo in particolare che dedicherà loro una lettera (Giacomo 1.1 “Alle dodici tribù che sono disperse nel mondo”). Sappiamo che lo stesso sommo sacerdote Caiafa (o Caifa) farà un’affermazione degna di nota nonostante la intendesse in modo diverso, “Voi non capite nulla e non considerate che conviene per noi che un solo uomo muoia per il popolo e non perisca tutta la nazione” (11.49,50) dove al verso successivo Giovanni annota che “non disse questo da se stesso, ma, essendo sommo sacerdote in quell’anno, profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione”.

Concludendo, vediamo l’interrogativo di prima ripetuto (v.36), segno che nonostante la derisione nei confronti di Gesù, i suoi dertrattori cercavano comunque di comprenderne il senso, ma rimase senza risposta.

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12.06 – A GERUSALEMME, AL TEMPIO III/IV (Giovanni 7.25-31)

12.06 – A Gerusalemme: Al Tempio III (Giovanni 7.25-31)

           

 

25Intanto alcuni abitanti di Gerusalemme dicevano: «Non è costui quello che cercano di uccidere? 26Ecco, egli parla liberamente, eppure non gli dicono nulla. I capi hanno forse riconosciuto davvero che egli è il Cristo? 27Ma costui sappiamo di dov’è; il Cristo invece, quando verrà, nessuno saprà di dove sia». 28Gesù allora, mentre insegnava nel tempio, esclamò: «Certo, voi mi conoscete e sapete di dove sono. Eppure non sono venuto da me stesso, ma chi mi ha mandato è veritiero, e voi non lo conoscete. 29Io lo conosco, perché vengo da lui ed egli mi ha mandato». 30Cercavano allora di arrestarlo, ma nessuno riuscì a mettere le mani su di lui, perché non era ancora giunta la sua ora. 31Molti della folla invece credettero in lui, e dicevano: «Il Cristo, quando verrà, compirà forse segni più grandi di quelli che ha fatto costui?».

 

            Giovanni, nei primi versi di questo passo, ci informa che quando Gesù si mise a insegnare nel Tempio aveva di fronte tre tipi di persone, cioè chi gli era avverso, coloro che venivano dalle campagne e capivano quanto potevano senza avere comunque una visione della realtà politica del luogo, e chi a Gerusalemme risiedeva e per questo aveva conoscenza delle intenzioni dei capi del popolo visti nel Sinedrio, quindi soprattutto degli scribi e farisei. Ora proprio il fatto di vedere Gesù lì a insegnare fece supporre a chi sapeva i loro piani che addirittura si fossero ricreduti e lo avessero accettato, o “sospettato” come Messia, aggiungendo però tutto lo scetticismo del caso: “Ma costui sappiamo di dov’è – cioè di Nazareth o Bethlehem –; il Cristo, invece, quando verrà, nessuno saprà di dove sia” (v.27). È questa affermazione sulla quale possiamo soffermarci perché pare contraddire quanto detto ad Erode sul Messia proprio dai sommi sacerdoti e gli scribi del popolo quando “…s’informava da loro sul luogo in cui doveva nascere” e “gli risposero: «A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta” (Matteo 2.3,4 che cita Michea 5.1).

Ricordiamo anche il dissenso che da lì a circa due giorni scoppierà tra i presenti, quando alcuni diranno “Il Cristo viene forse dalla Galilea? Non dice forse la Scrittura che il Cristo verrà dalla stirpe di Davide e da Betlemme, il villaggio di Davide?” (vv.41,42): quanto detto da alcuni nel nostro passo si riferisce alla credenza comune in base alla quale il Cristo, il Messia, sarebbe apparso prima di tutto in Betlehem, ma poi sarebbe stato rapito e nascosto fino a quando non avesse ricevuto l’unzione da Elia e quindi si avrebbe avuto la Sua manifestazione improvvisa senza che si potesse dire né quando, né come. Alcuni commentatori non escludono che fosse a questa credenza che Gesù si sia riferito quando disse ai Suoi “Allora, se qualcuno vi dirà: «Ecco, il Cristo è qui», oppure: «È là», non credeteci” (Matteo 24.23) e non penso abbiano torto. Infatti: “…non credeteci, perché sorgeranno falsi cristi e falsi profeti e faranno segni e portenti per ingannare, se fosse possibile, anche gli eletti. Voi però state attenti! Io vi ho predetto tutto” (Marco 13.22,23).

L’ignoranza, procedente sempre dall’Avversario, qui vuole indagare sulle “origini” del Cristo senza far caso a quanto da lui fatto e detto fino ad allora, accontentandosi cioè di una conoscenza esterna, quella cui Gesù fa riferimento quando, alzando la voce per farsi sentire ancor di più, dice “Certo, voi mi conoscete e sapete di dove sono”, stesso “conoscere” e “sapere” dei suoi concittadini di Nazareth che non arrivarono a nessun risultato spirituale giudicandolo nulla di più che uno di loro. In questo episodio, però, Nostro Signore ha un “eppure”, cioè un avversativo più forte di un semplice “ma”: “non sono venuto da me stesso, ma chi mi ha mandato è veritiero, e voi non lo conoscete” (v.28), frase che ci dà tre realtà, la prima che Gesù non è venuto sulla terra di propria iniziativa, ma è stato “mandato” da chi è “veritiero”, termini fondamentali per il discorso che sta facendo ai presenti e quindi anche a noi. Il “mandato” nella scrittura ha molti significati, ma qui penso vi sia un riferimento preciso alla parabola dei malvagi vignaioli che riassume da un lato le molte attenzioni di Dio verso il suo popolo e dall’altro quanto esso Lo considerasse: “Un uomo piantò una vigna, vi pose attorno una siepe, scavò un torchio, costruì una torre, poi la diede in affitto a dei vignaioli e se ne andò lontano. A suo tempo inviò un servo a ritirare da quei vignaioli i frutti della vigna. Ma essi, afferratolo, lo bastonarono e lo rimandarono a mani vuote. Inviò loro di nuovo un altro servo: anche quello lo picchiarono sulla testa e lo coprirono di insulti. Ne inviò ancora un altro, e questo lo uccisero; e di molti altri, che egli ancora mandò, alcuni li bastonarono, altri li uccisero. Aveva ancora uno, il figlio prediletto: lo inviò loro per ultimo, dicendo: Avranno rispetto per mio figlio!” (Marco 12.1-6). Sappiamo che però quei vignaioli, “afferratolo, lo uccisero e lo gettarono fuor della vigna”. L’essere mandato, poi, comporta l’essere un tutt’uno col Padre non solo perché costituiscono un “unico”, ma perché la perfezione dell’opera del Figlio sarà tale quando Lui stesso dirà “Tutto è compiuto”.

Il secondo punto su cui soffermarsi, per quanto brevemente, è il “veritiero” che nell’originale greco si riferisce a qualcosa di genuino, reale, originale in opposizione a ciò che è simile o rappresentativo. Lo stesso termine lo abbiamo in 15.1 “Io sono la vera vite”, quindi a escludere che ve ne siano altre alle quali l’uomo, come tralcio, possa essere unito per avere un nutrimento reale. Al di fuori di Cristo, quindi, tutto è un surrogato, qualcosa che dà l’idea di sfamare e alimentare il corpo, ma è in realtà nocivo esattamente come il “cibo spazzatura” che tanti danni fa al corpo terreno.

La terza realtà descritta da Gesù è umiliante per i Suoi uditori: è stato mandato dal Dio vero, unico, quello che nessuno fra i presenti conosceva nonostante professasse di credere in Lui: abbiamo letto “chi mi ha mandato è veritiero, e voi non lo conoscete” nonostante i vostri riti, la vostra scienza, il vostro indagare le Scritture da sempre perché ora “…nessuno conosce il Figlio se non il Padre e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo” (Matteo 11.27): capiamo? L’unico modo che i presenti, allora come oggi, avevano e hanno per ”conoscere” è ascoltare il Figlio, quello “diletto nel quale ho preso il mio compiacimento”. E sappiamo che dopo queste parole Dio aggiunge “Ascoltatelo” (Marco 9.7; Luca 9.35).

Gesù però nel nostro passo dice altro, cioè “Io lo conosco, perché vengo da lui e mi ha mandato”, nel senso che di più non poteva fornire come credenziali, visto che per Lui parlavano i miracoli fino ad allora operati e la dottrina fin lì esposta. E anche in questa frase abbiamo tre elementi che possono fronteggiarsi ai precedenti nel senso che da una parte abbiamo gli uomini e dall’altra il Figlio di Dio: in altri termini per gli uomini non è venuto da se stesso, ma è stato mandato da chi è veritiero (notare l’ “è” nel senso dell’ “Io sono”), ma quando parla di Lui dice “Lo conosco – a differenza di voi – perché vengo da lui – non nel senso di luogo, ma di sostanza – ed egli mi ha mandato – nel vostro interesse –”. E qui ogni ignoranza ha la possibilità di infrangersi perché si tratta solo di mettersi in ascolto non di noi stessi, ma del Figlio che ancora oggi si dona. Allora come oggi l’uomo non potrà andare da nessuna parte senza guardare all’Unico che può rivelare il Padre perché la stessa creatura proviene da Lui nel senso che siamo stati formati, tratti dalla polvere della terra e costituiti “anima vivente” dal Suo soffio. In realtà è proprio ascoltando il Figlio, da Lui mandato, che ci riappropriamo della nostra identità e, se lo rifiutiamo, non rinneghiamo tanto Lui quanto il nostro stesso esistere. È come per chi rinnega il proprio padre o madre naturali, o entrambi. E qui possiamo comprendere quanto imponente sia l’inganno di Satana che fin dal principio fa credere all’essere umano che solo negando Dio possa essere veramente libero perché così facendo sarebbe simile a Lui.

Ricordo che da giovane vedevo spesso scritte delle bestemmie sui muri e ne rimanevo chiaramente scandalizzato, ma recentemente mi è capitato di vedere scritto “Dio” con la “D” coperta da una “X”, dimostrazione eloquente tanto del rifiuto quanto della sostituzione umana a Lui. Molto più agghiacciante del semplice insulto dei tempi andati: e chi legge la scrittura sa che sarà perdonata qualunque bestemmia, ma non quella allo Spirito Santo che si concreta proprio con quella “X”.

Riprendendo, arriviamo al verso 30, “Cercarono allora di arrestarlo, ma nessuno riuscì a mettere le mani su di lui, perché non era ancora giunta la sua ora”. Si tratta di un verso importante perché esprime tutta la limitatezza dell’uomo, da solo o con altri, che crede sempre di essere e di potere, ma che qui si scontra non tanto con Dio, ma con il suo piano, e non riesce a fare nulla. Qui Giovanni non dice cosa avvenne, come fece in altre circostanze ad esempio in 8.59 quando “si nascose e uscì dal tempio”, “sfuggì dalle loro mani” (10.39) oppure, a Nazareth quando volevano gettarlo dal precipizio, ma “passando in mezzo a loro, se ne andò” (Luca 4.30). Semplicemente scrive “Non era ancora giunta la sua ora”, che si riferisce ad un momento preciso fissato perché fosse dato nelle mani degli uomini e non prima. Ricordiamo anche la risposta ai suoi fratelli che gli dicevano “Mòstrati al mondo”: “Il mio tempo non è ancora venuto. Il vostro, invece, è sempre pronto” (7.6), frase con la quale divise nettamente il tempo umano dal proprio.

Il “cercavano di arrestarlo, ma…” ancora una volta pone un confine tra la volontà dell’uomo e la realtà di ciò che deve affrontare: senza freni, disposto a tutto pur di concretare un progetto, non tollera alcuna sconfitta nel senso che, quando si trova impotente, non medita sulle ragioni del proprio fallimento. Nulla cambia rispetto ai tempi di Caino, quando Dio gli disse “Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto? Se agisci bene, non dovresti forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, e tu lo dominerai” (Genesi 4.6).

Nulla è cambiato da 6mila anni a questa parte e nulla cambierà, poiché la visione di Giovanni sull’umanità degli ultimi tempi, è senza possibilità di appello: “E gli uomini (…) bestemmiarono il nome di Dio che ha in suo potere tali flagelli, invece di pentirsi per rendergli gloria” (Apocalisse 16.9). Da notare anche i versi 10 e 11 “Gli uomini si mordevano la lingua per il dolore e bestemmiarono il Dio del cielo a causa dei loro dolori e delle loro piaghe, invece di pentirsi delle loro azioni”. Quando arriva la sconfitta, sempre e comunque causata da una mancata volontà di ascolto, la bestemmia, intesa come ribellione cieca, sembra essere da sempre l’unica soluzione praticata dalle menti cieche.

C’è a questo punto una nota positiva espressa al verso 31: nonostante questo clima ostile, “molti della folla credettero in lui” e questo avvenne proprio lasciando da parte le questioni che potremmo definire razionaliste sul fatto che “il Cristo, quando verrà, nessuno saprà di dove sia” (v.27): la frase addotta da quelli che tra la folla credettero, è semplice e incontestabile: “Il Cristo, quando verrà, compirà forse segni più grandi di quelli che ha fatto costui?”. Da notare che l’inizio delle due frasi è identico, “Il Cristo, quando verrà”, cioè si parte da un medesimo principio per giungere a conclusioni diametralmente opposte perché opposti sono i destini, le appartenenze, il mondo della vita e quello della morte. In pratica, chi non crede mormora, cerca spunti carnali e terreni per rifiutare il messaggio, chi crede semplicemente si arrende perché, onestamente, non riesce ad immaginare cosa potesse fare un Messia di più rispetto al Figlio di Dio presente in mezzo a loro.

La stessa cosa può fare l’uomo oggi, perché non è possibile trovare una logica spirituale diversa da quella annunciata da Gesù, l’unico a conoscere il Padre ed essere proceduto da Lui. Amen.

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12.04 – A GERUSALEMME. AL TEMPIO (I/IV) (Giovanni 7.11-19)

12.04 – A Gerusalemme: Al Tempio I (Giovanni 7.11-19)

          

14Quando ormai si era a metà della festa, Gesù salì al tempio e si mise a insegnare. 15I Giudei ne erano meravigliati e dicevano: «Come mai costui conosce le Scritture, senza avere studiato?». 16Gesù rispose loro: «La mia dottrina non è mia, ma di colui che mi ha mandato. 17Chi vuol fare la sua volontà, riconoscerà se questa dottrina viene da Dio, o se io parlo da me stesso. 18Chi parla da se stesso, cerca la propria gloria; ma chi cerca la gloria di colui che lo ha mandato è veritiero, e in lui non c’è ingiustizia. 19Non è stato forse Mosè a darvi la Legge? Eppure nessuno di voi osserva la Legge! Perché cercate di uccidermi?». 

 

            Siamo “a metà della festa”, quindi dopo tre giorni e mezzo  dopo l’episodio precedente in cui i Giudei cercavano Gesù per tendergli trappole dottrinali ed avere così degli elementi per accusarlo di eresia o bestemmia davanti al Sinedrio. Ebbene Nostro Signore “salì al tempio e si mise ad insegnare”. Un’occasione per metterlo alla prova si verificherà di lì a poco quando, sempre nel Tempio, gli porteranno una donna adultera chiedendogli un parere sulla sua lapidazione o meno (Giovanni 8).

Restando sul nostro episodio, l’Evangelista non ci ha riportato i contenuti esposti, anche se non lo nomina, nel Cortile dei Gentili che era uno spazio libero: lì trovavano posto, in occasione delle grandi feste che richiedevano sacrifici, i mercanti di animali e i cambiavalute, ma nel tempo ordinario si andava lì tanto per trattare affari quanto per incontrare sacerdoti o scribi e i rabbini tenevano le loro lezioni. Sappiamo che quello era uno spazio concesso ai pagani, che però non potevano superare una balaustra in pietra sulla quale un’iscrizione li avvisava che non avrebbero potuto andare oltre, pena la morte. Ecco perché Gesù scelse quel luogo, ritenendolo il più idoneo per comunicare il Suo insegnamento che certamente riguardò particolari propri rabbinici, con parole nuove comunque basate sulla Legge o i Profeti. Sappiamo, a proposito dei Suoi approfondimenti scritturali, che “Egli insegnava loro come uno che ha autorità, e non come i loro scribi” (Matteo 7.29) per cui fu proprio quella particolare modalità a stupire i presenti.

Giovanni scrive che “I Giudei ne erano meravigliati e dicevano “Come mai costui conosce le Scritture, senza avere studiato?” perché solo dopo molti anni di studio si permetteva a uno studente giudeo di insegnare e solo dopo quel lungo periodo veniva ammesso alla confraternita dei Dottori della Legge. Vero è che Gesù, come tutti gli altri ebrei, aveva ricevuto l’istruzione ordinariamente impartita nelle scuole annesse alle varie sinagoghe, ma non aveva mai frequentato le grandi istituzioni rabbiniche né aveva avuto un maestro umano.

Dall’esame del verso 15 rileviamo tre punti, il primo dei quali è “I Giudei ne erano meravigliati”, cioè provarono in loro un senso di stupore dopo aver seguito attentamente i Suoi discorsi: questo particolare è importante perché non lo attaccarono immediatamente quando videro che insegnava, ma ascoltarono, verificarono secondo la loro scienza scritturale le Sue parole e non vi trovarono nulla di biasimevole. Questo significa che quelli dovettero ammettere da un lato che Gesù conosceva le Scritture e che dall’altro dava luogo ad approfondimenti, connessioni e applicazioni alla vita reale andando molto più oltre quanto loro non facessero. Già nel sermone sul monte abbiamo avuto una prova di tutto questo, in particolare quando leggiamo “avete inteso che fu detto (…) ma io vi dico”, cui seguivano riferimenti alla condizione del cuore della persona e al fatto che nessuna religione, nessuna applicazione pedissequa della norma può indirizzare correttamente a Dio, ma la sola fede e amore per Lui.

I Giudei quindi, trovandosi di fronte alla conoscenza di Gesù, furono stupiti, ma in questo sentimento dobbiamo includere anche la reazione di fronte a ciò che non potevano capire e cioè le applicazioni spirituali che coinvolgono l’apparato recettore che solo lo Spirito può attivare. Andando un poco più oltre, dirà “Voi non credete perché non fate parte delle mie pecore” (Giovanni 10.26), quindi abbiamo un’esclusione, una divisione categorica che coinvolge tutta la persona, cioè un’anima e soprattutto uno spirito diversi. È bello considerare che quando Nostro Signore parla di pecore e di gregge coinvolge anche tutti quelli che proprio i Giudei disprezzavano (come oggi), cioè i pagani. Infatti: “E ho altre pecore che non provengono da questo recinto – Israele –: anche quelle devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore” (Giovanni 10.16).

Altro particolare del verso 15, secondo e terzo punto, è che, oltre alla meraviglia, “dicevano” evidentemente l’un l’altro, “Come mai costui – altro spregiativo assieme a “quel tale” incontrato nello scorso capitolo – conosce le scritture, senza avere studiato?”. Lasciamo in sospeso, per ora, la domanda e soffermiamoci sul “dicevano”: si chiesero l’uno con l’altro, ma non andarono a interpellare Gesù. L’uomo carnale si affiderà sempre ad un suo simile nel tentativo di avere una risposta a ciò che per lui è oscuro. Nicodemo, non trovandone, decise di andare da Lui, per quanto di nascosto, ma loro, convinti di essere le sole legittime guide del popolo, ma “cieche”, cercarono nel loro simile una risposta che non sarebbe mai potuta arrivare o, qualora giunta, sarebbe stata errata.

Se ci pensiamo, contrariamente a quanto possa apparire, non appartiene all’uomo dire “Io sono”; al massimo può affermare “Io esisto”, che contempla comunque un’espressione di sé, ma la convinzione di “essere” quanto a dignità e potenza è solo un inganno che, tanto più è presente, quanto più ci tiene ancorati al mondo e alla sua orizzontalità e facendoci agire in contrapposizione a Dio. Ma tutti gli uomini, “grandi e piccoli”, dovranno comparire davanti a Lui e rendere conto di come avranno gestito la loro vita e persona, in bene o in male.

Tornando al “dicevano”, sappiamo che alla domanda su come potesse Gesù conoscere le scritture senza avere studiato non riuscirono a dare una risposta, e non poteva essere altrimenti. È Lui stesso a prevenirli, e disse “La mia dottrina non è mia, ma di colui che mi ha mandato”; con queste parole Gesù ci qualifica come un tramite, ma non solo: si dichiara come la Parola perché nessun altro avrebbe potuto rivelare ciò che Dio è, era e sarà, in modo comprensibile agli uomini. Egli è l’inviato promesso dai Profeti che una parte degli Israeliti non si limitava a sapere che sarebbe venuto un giorno, ma aspettava e in Simeone ed Anna troviamo i loro più illustri rappresentanti (Luca 2. 33-38). La stessa Parola che in tempi enormemente lontani da noi disse “Sia la luce!”, nel Tempio insegnava ed era lì, davanti a tutti, Giudei compresi cioè la stessa categoria di persone che nei tempi antichi aveva tramandato, custodito e preservato la Scrittura e che, in quel momento storico, non aveva la capacità di intenderla. L’importante non era sapere “come mai” Gesù conosceva le Scritture senza avere studiato, ma ammettere che le Sue parole erano di vita e aprivano la mente ad una conoscenza superiore, quella che rende liberi, quella che consente di inquadrare correttamente gli accadimenti della vita, di capire, di dare una prospettiva e uno scopo che non finirà mai a differenza dei progetti terreni che ciascuno di noi può sempre avere e portare eventualmente a compimento.

Subito dopo abbiamo “Chi vuol fare la sua volontà – del Padre – riconoscerà se questa dottrina viene da Dio, o da me stesso”: qui viene chiamata in causa la capacità di scegliere, vista nelle parole “Chi vuol fare la sua volontà”, in cui il volere dell’uomo coincide con quello di Dio; perché ciò accada la creatura deve rinunciare al proprio “Io sono” di cui abbiamo parlato poc’anzi. E poiché l’essere dell’uomo è prima di tutto pensiero, ecco perché fu detto “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Marco 8.34 e rif.). Rinnegare se stessi significa prendere coscienza della nostra bassezza che ci porta inevitabilmente alla domanda “Che cosa è l’uomo, che tu ne abbia memoria? E il figlio dell’uomo, che tu ne prenda cura?” (Salmo 8.4). Il volere, per essere tale, non può rimanere nell’ambito della teoria, ma dare un risultato ed ecco perché, in senso spirituale, non può che portare al riconoscere “se questa dottrina viene da Dio” o da un semplice essere umano.

“Chi parla da se stesso, cerca la propria gloria; ma chi cerca la gloria di colui che lo ha mandato è veritiero e in lui non vi è ingiustizia” (v.18) è un altro verso profondamente indicatore del fatto che una persona possa essere o meno un impostore: parlare da se stessi implica il portare avanti ragionamenti e princìpi col solo fine di attuare un interesse personale e questo lo vediamo oggi nella politica e nel commercio, ma anche nelle varie, false istituzioni religiose, nei fondatori delle sette, nel profondo vuoto morale di un sistema falsamente solidale che lascia Cristo fuori dalla porta. Nel cercare “la propria gloria” c’è allora la volontà di porsi in opposizione a Dio, come avvenuto per Simone il mago in Atti 8. 9-21, che offerse del denaro agli apostoli perché gli fosse dato “…questo potere perché, a chiunque io imponga le mani, egli riceva lo Spirito Santo”.

Per chi “cerca la propria gloria” esiste una definizione particolare, che è quella che Pietro dirà proprio a Simone: “Ti vedo pieno di fiele amaro e preso nei lacci della tua iniquità” (Atti 8.23). E il fiele è un liquido secreto dal fegato indispensabile alla digestione e all’assorbimento dei grassi: consente l’eliminazione della bilirubina, colesterolo e altre sostanze tossiche. Essendo il fegato fondamentale nel metabolismo, quando è sano, spiritualmente, sta a significare una corretta assimilazione dei principi spirituali e della loro applicazione nella vita di tutti i giorni. Quando malato, abbiamo invece la totale intossicazione, addirittura visibile dal colore della pelle. L’essere “pieno di fiele amaro” è allora un riferimento alla totale estraneità alla vera esistenza che aveva Simone, cercando ancora la “propria gloria” nonostante avesse creduto e si fosse fatto battezzare, “stando sempre attaccato a Filippo” (8.13).

Gesù, tornando alle Sue parole e considerandole in senso orizzontale, cioè apparente e terreno quindi adatto ai Giudei, era chiaro che non cercasse la propria gloria perché di tutto il Suo predicare non ebbe alcun tornaconto, anzi, sappiamo che spesso, coi discepoli, “non potevano neppure mangiare” per la gente che lo cercava in tutte le ore né avere “ove posare il capo”.

Al verso 19, Nostro Signore si rivolge ai Suoi oppositori chiamando in causa la Legge data da Mosè, cui tanto facevano riferimento e che si vantavano di osservare, mentre era solo un pretesto per dar luogo alla propria giustizia umana: esteriormente erano inappuntabili, ma dentro di loro erano gli ipocriti e i religiosi di sempre, perché “la circoncisione è quella del cuore, nello spirito, non nella lettera; la sua lode non viene dagli uomini, ma da Dio” (Romani 2.29).

Con la frase “nessuno di voi osserva la Legge”, Gesù intendeva dire proprio questo: “Per mezzo della Legge si ha la conoscenza del peccato” (Romani 3.20), ma questa resta inutile se non viene trasformata dalla Grazia, “perché tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù” (3.23,24). Capiamo? Gesù, dal Cortile dei Gentili che faceva parte del Tempio, considerato la dimora di Dio, in cui ogni cosa si svolgeva secondo le prescrizioni date dalla Legge, afferma che in realtà questa non era osservata da nessuno perché l’abitudine, il rito, aveva preso il posto della partecipazione, del coinvolgimento profondo. Il cuore era messo da parte, stava lì, si limitava a un battere indifferente. Ecco perché nessuno la osservava. Anche oggi molti cristiani frequentano le assemblee senza alcuna partecipazione interiore, restando gli stessi, magari attratti dalla funzione che tanto più è emotivamente appagante quanto più soddisfa la loro carne, ma possono solo identificarsi in quei Giudei che Gesù rimprovera. “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il loro cuore è lontano da me”.

La nostra porzione di Scrittura si conclude con una domanda, “Perché cercate di uccidermi?”, destinata a far capire che il piano dei Giudei non gli era nascosto, segno che l’uomo deve rendere conto a Dio non quando commette il peccato, ma già da quando pensa di attuarlo, come sappiamo dalle parole dette a Caino migliaia di anni prima. Il concetto di prevenzione e prudenza è qualcosa di assolutamente distante dall’uomo, che ha la presunzione di riuscire sempre e che tutto ciò che di negativo possa accadere riguardi sempre gli altri. Con le Sue parole Gesù non intende tanto denunciare la reale intenzione dei Suoi oppositori, ma ne chiede la ragione dando loro un’opportunità per riflettere ancora una volta su di Lui. Il Suo omicidio, quando sarebbe avvenuto, avrebbe dovuto essere qualcosa di cui i Giudei dovessero assumersene pienamente la responsabilità, al contrario dei romani che non avrebbero avuto né la storia, né tantomeno la cultura per riconoscere in Lui il Figlio di Dio, e infatti alla croce pregherà per il loro perdono.

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12.03 – A GERUSALEMME: DOV’È QUEL TALE? (Giovanni 7.11-13)

12.03 – A Gerusalemme: “Dov’è quel tale?” (Giovanni 7.11-13)

          

11I Giudei intanto lo cercavano durante la festa e dicevano: «Dov’è quel tale?». 12E la folla, sottovoce, faceva un gran parlare di lui. Alcuni infatti dicevano: «È buono!». Altri invece dicevano: «No, inganna la gente!». 13Nessuno però parlava di lui in pubblico, per paura dei Giudei.”

 

            Ipotizzando che Gesù arrivasse con le varie carovane che giungevano in città in occasione della festa delle Capanne, tanto la gente comune quanto i Giudei lo cercavano. Questi vengono citati per primi e a loro viene attribuita la domanda dispregiativa “Dov’è quel tale?”: notiamo infatti che Nostro Signore non viene né chiamato per nome, né con la qualifica più immediata, quella di profeta. “Quel tale”, o “Quello”secondo altre traduzioni, rivela non un’opinione che la gente aveva di Lui – “Giovanni Battista, altri dicono Elia e altri uno dei profeti”(Marco 8.28) – ma quella dei rettori del popolo: Gesù costituiva un problema indipendentemente dai miracoli compiuti e soprattutto dai Suoi discorsi che più volte avevano messo in crisi le loro credenze e usanze religiose, parlando alla coscienza di fronte alla quale avevano rinunciato di dare ascolto.

“Quel tale”, allora è il riassunto dell’opinione che i Giudei si erano fatti di Colui che aveva, a Gerusalemme circa due mesi prima, guarito l’infermo alla piscina di Betesda (Giovanni 5.1-18), episodio che si conclude con le parole “Per questo i Giudei cercavano ancor di più di ucciderlo, perché non soltanto violava il sabato, ma chiamava Dio suo padre, facendosi uguale a Dio”. Sappiamo che questo fu un pretesto perché, nel suo discorso loro rivolto, Gesù fece emerge la vera posizione spirituale che avevano: “La sua parola– quella del Padre – non rimane in voi, perché non credete a colui che ha mandato”(v.39), “Voi non volete venire a me per avere vita”(v.40), in cui il non credere in Lui implica quindi una volontà strettamente personale e non il risentire dell’influenza di altri; “Voi ricevete la gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dall’unico Dio”(v.44) e infine il verso 47, “Se non credete ai suoi scritti– quelli di Mosè – come potete credere alle mie parole?”.

Anche se sono versi che sono già stati oggetto di riflessione (vol.10, cap.20), cerchiamo di analizzarli di nuovo per capire i Giudei, che avevano fondato la propria vita su un ruolo religioso, quello di tramandare la Scrittura e soprattutto le sue interpretazioni e spiegarle al popolo: costoro avevano la responsabilità di custodire e praticare la “sua parola”che, per quanto da loro conosciuta, “non rimaneva” cioè non metteva radici, non restava in maniera duratura e proficua. Nonostante la conoscenza dei Giudei fosse superiore a quella del popolo, non portava quel frutto che avrebbe dovuto perché non teneva conto del fatto che alla base di ogni azione del Dio che credevano di servire, di ogni Suo messaggio e decreto, c’era un amore immenso che non volevano né potevano capire. Ogni parola della Legge, dei Profeti e degli altri scritti veniva analizzata, sminuzzata, calcolata, teorizzata e raccordata con altre per costruire labirinti concettuali dai quali i Giudei non riuscivano a staccarsi per cui il vero sapere restava nascosto “ai savi e agli intelligenti”ma veniva “rivelato ai piccoli”che, non maliziosi né tantomeno orgogliosi, le capivano nella loro elementarità.

La ricerca della sapienza e della conoscenza allora veniva attuata in un modo non corretto, cioè distante dal primo gradino di una scala al quale c’è la consapevolezza del non sapere, di non poter pervenire a nulla senza l’intervento dello Spirito che può agire solo quando la persona si fa umile e si dichiara disponibile a mettersi alle sole dipendenze di Dio per qualunque cosa. Se “la parola”che i Giudei studiavano fosse rimasta in loro, avrebbero creduto “a colui chemiha mandato”, cioè non avrebbero incontrato problemi né ostacoli a riconoscerlo. Gesù quindi, con le parole del verso 39, va anche oltre questo principio annunciando che, se avessero creduto in Lui, la “parola”di quel Dio che professavano di servire li avrebbe trasformati, riscattati, sarebbe “rimasta” in loro.

Il secondo verso citato, “Voi non volete venire a me per avere vita”, chiama in causa la loro parte più interna, l’anima e lo spirito che l’orgoglio li aveva imprigionati, cioè la volontà. Venire a Lui per avere vita avrebbe implicato l’abbandono del loro stato, della reputazione che avevano presso gli altri, ma ancor più l’esclusione dalla Congregazione di Israele ed ecco perché, ad esempio Nicodemo, era così timoroso nel dichiararsi apertamente discepolo del Signore. Il “non volete venire a me per avere vita”è da leggersi sotto il profilo della scelta consapevole: di fronte alle parole di Gesù, meglio combatterlo e rimanere uniti anziché porre in discussione un metro, uno stile di vita fatto di regole e strutture atte a far sostare la coscienza in una falsa quiete e ancora oggi sono molti quelli che “non vogliono” abbandonare il loro “certo” per quello che, dentro di sé, sanno benissimo che “certo” non è.

In cosa consistesse quella che ho definito “quiete” e il “certo” di quei Giudei è descritta al verso 44, sempre del capitolo quinto, “Voi ricevete la gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dall’unico Dio”: ciascuno, guardando il proprio correligionario, lo osannava e viceversa come meglio descritto in un altro passo, “Legano fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito. Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente: allargano i loro filattéri e allungano le loro frange, si compiacciono dei posti d’onore nei banchetti, dei primi seggi nelle sinagoghe, dei saluti nelle piazze, come anche di essere chiamati «rabbi» dalla gente”(Matteo 23.4-7). E sappiamo che “questo è il premio che ne hanno”, cioè è qualcosa che finisce lì, che non dura altro spazio al di fuori di quello e così, di segmento in segmento, costruiscono una linea che è tutto tranne che continua, tranne che rivolta a una crescita spirituale perché la rinnega, perché “poco importa”. La religione esalta l’uomo, ma la fede, nel momento in cui si esprime correttamente non lo tiene in alcun conto: “Sono un nulla”, così Paolo diceva di sé in 2 Corinti 12.11), nonostante si dichiarasse, nello stesso passo, non inferiore agli altri apostoli.

L’ultimo verso è un’accusa totale, tesa a scalzare le loro convinzioni, “Se non credete ai suoi scritti, come potete credere alle mie parole?”, perché credere in questo caso richiede identificazione, immedesimazione e non, come comunemente accettato, ritenere vera una cosa. Da sottolineare che al verso precedente Gesù dice una frase eloquente: “Se credeste a Mosè, credereste anche a me, perché egli ha scritto di me”. Ecco allora che la fede in YHWH, se autentica e proveniente da un cuore in attesa del Liberatore promesso, non avrebbe avuto alcuna difficoltà ad accoglierlo, come fecero i discepoli e, prima di loro, Simeone ed Anna quando Lo riconobbero nato da pochi giorni.

Il “non volete”indica una ferma opposizione che implica una altrettanto ferma determinazione, un arroccarsi sulle proprie tradizioni e idee che trova il suo collegamento in Matteo 23.37 e Luca 13.34, curiosamente identici a conferma della estrema serietà e drammaticità delle parole di Gesù: “Gerusalemme, Gerusalemme, tu che uccidi i profeti e lapidi tutti quelli che sono mandati a te, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le ali, e non avete voluto! Ecco, la vostra casa è lasciata deserta”(Luca scrive “È abbandonata a voi”) là dove per “casa”si intende il Tempio che Dio non avrebbe più abitato come in passato: privato dalla Sua presenza, sarebbe stato gestito dagli uomini e dai loro riti vuoti e infine distrutto.

Volere andare a Dio implica rinunciare a tutto ciò che è riteniamo come nostro, quell’ Io che tende a prevaricare ed a imporsi sugli altri e, forse inconsapevolmente, a nostro danno e ci illude sul significato della vita che viene interpretato esclusivamente come realizzazione dell’Io. E questo è uno dei più grossi inganni di Satana, “sarete come Dio”. E chiunque abbia letto o anche solo sentito parlare di quanto avvenuto in Eden, ci creda o meno, sa come andò a finire.

“Non volete”significa, implica il ritenere il Cristo come qualcuno di cui non si ha bisogno, di non necessario, ritenerlo appunto “un tale”, qualcuno che propone un’alternativa al sistema costruito dall’uomo non solo per sentirsi a posto con la propria coscienza, ma per prendere gloria l’uno dall’altro escludendo l’Unico che quella gloria, eterna, può dare.

Non ci sono solo però i Giudei nel racconto di Giovanni, ma la folla, questa massa indistinta di persone ciascuna delle quali si era fatta un’idea di Gesù. La nostra traduzione ha “un gran parlare”, ma in realtà il termine originale fa riferimento piuttosto a un bisbigliare, un parlar confuso di questa gente di Gerusalemme, ma soprattutto venuta da fuori con le varie carovane. Che si ritenesse Gesù un uomo “buono”o uno che “No, inganna la gente”, non era prudente parlarne apertamente, stante la presenza dei Giudei che di lì a poco stabiliranno che, “se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga”(9.22). Ricordiamo anche 12.42,43: “…anche fra i capi, molti credettero in lui, ma a causa dei farisei, non lo dichiaravano, per non essere espulsi dalla sinagoga. Amavano infatti la gloria degli uomini più che la gloria di Dio”e qui torniamo a quanto detto poco prima sul “non volere” ed il ricevere la gloria gli uni dagli altri estromettendo YHWH.

Ebbene, va sottolineato che quel parlare sommesso della folla non restò ignorato e che quindi gli avversari di Gesù avevano delle spie perché leggiamo, più avanti nel nostro testo al verso 32, che “I farisei udirono che la gente andava dicendo queste cose di lui. Perciò i capi dei sacerdoti e i farisei mandarono delle guardie per arrestarlo”.

Concludendo, la domanda dei Giudei “Dov’è quel tale?”rivela anche le loro intenzioni omicide, perché è impossibile che non sapessero il Nome di colui che cercavano e in tal modo, inconsapevolmente, citano Geremia 11.19: “Abbattiamo l’albero nel suo pieno vigore, strappiamolo dalla terra dei viventi, nessuno ricordi più il suo nome”, nome che per loro sarà determinante in giudizio, anziché in salvezza per tutti quelli che in Lui avrebbero creduto. Amen.

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12.02 – LA MISIONE DEI SETTANTADUE (Luca 10.1-12)

12.02 – La missione dei settantadue (Luca 10.1-12)

1Dopo questi fatti il Signore designò altri settantadue e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi. 2Diceva loro: «La messe è abbondante, ma pochi sono gli operai! Pregate dunque il Signore della messe, perché mandi degli operai nella sua messe! 3Andate, ecco, vi mando come agnelli in mezzo ai lupi; 4non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada. 5In qualunque casa entriate, prima dite «Pace a questa casa!» 6Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi. 7Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché chi lavora ha diritto alla sua ricompensa. Non passate da una casa all’altra. 8Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà offerto, 9guarite i malati che vi si trovano e dite loro: «È vicino il regno di Dio!». 10Ma quando entrerete e non vi accoglieranno, uscite sulle piazze e dite: 11«Anche la polvere della vostra città, che si è attaccata ai nostri piedi, noi la scuotiamo contro di voi; sappiate però che il regno di Dio è vicino». 12Io vi dico che, in quel giorno, Sodoma sarà trattata meno duramente di quella città”.

            Episodio riportato dal solo Luca, ha una collocazione temporale incerta, ma siccome abbiamo dedicato le precedenti riflessioni al fatto che Gesù, prima di essere respinto da un villaggio Samaritano, aveva inviato “dei messaggeri davanti a sé” (9.52), ho pensato che l’invio dei settantadue discepoli possa essere avvenuto quando, lasciando la Samaria ed entrando nella Galilea, sapendo che avrebbe avuto un’accoglienza diversa, mandò appunto questi discepoli ad annunziarne l’arrivo e organizzare la sosta per il gruppo. Certo, tutto può essere, anche il fatto che questi settantadue siano partiti da Capernaum e avessero raggiunto i villaggi lungo il tragitto che Nostro Signore aveva prestabilito, che fossero anche loro stessi quei “messaggeri” di cui lo stesso evangelista ha scritto nello scorso episodio: semplicemente a lui non interessa la cronologia, ma ciò che avvenne e i discorsi di Gesù che furono letti per la prima volta dal sommo sacerdote Teofilo cui dedica il suo Vangelo.

Sappiamo che i settantadue vennero inviati e che, come poi esamineremo, “…tornarono pieni di gioia dicendo «Signore, anche i demoni si sottomettono nel tuo nome»” (10.17), ma non ci viene detto dove e quando si ritrovarono, per cui in questa ricostruzione temporale ci troviamo soli, essendo i periodi della vita di Gesù a volte tracciati con precisione, altre volte meno perché ciò che è veramente importante è appunto il contenuto, la descrizione e non un racconto biografico che, se lo si vuole ricostruire, avviene con tutte le lacune del caso. Anzi, si corre il rischio di far dire agli autori ciò che non hanno voluto: ecco perché sono prudente e avverto sempre che questo lavoro, portato avanti con fatica, va preso colo beneficio del dubbio là dove le difficoltà sono evidenti.

La stessa pericope “Dopo questi fatti” al verso uno è di interpretazione difficile, perché ci chiediamo quali siano: ammettendo il rifiuto samaritano e i tre incontri descritti in 9.57-62 già affrontati, verrebbe da sé che Gesù avesse inviato i discepoli appena entrato in Giudea, ma avrebbe dovuto dar loro il tempo di agire come ordinato; se invece la missione loro affidata ebbe luogo in Galilea, allora si potrebbe pensare che fu una parte di loro ad essere giunta in Samaria e che poi lo abbia preceduto in Giudea. È una questione credo tuttora aperta alla luce del fatto che l’importanza di quanto Luca racconta risiede in altri particolari, prima di tutto nel numero degli inviati, settantadue, spesso ridotti a settanta forse perché è una cifra più facile a memorizzarsi e interpretare. La stessa cosa si fa con gli anziani destinati ad essere di aiuto a Mosè e con la cosiddetta “tavola dei popoli” di Genesi 10. Inoltre, con riguardo al nostro episodio, alcune traduzioni hanno “ne mandò altri settanta”, dove quell’ “altri” allude al dopo i dodici cui aveva rimesso un mandato simile, ma non si può escludere che questi “altri” siano in aggiunta a quelli mandati nell’innominato villaggio samaritano, che non possiamo dimostrare essere stato gli apostoli, oppure altri. Ancora, per sottolineare la delicatezza del tema, vi è chi ha proposto una lettura diversa e cioè che l’invio di cui stiamo parlando sia avvenuto in un luogo imprecisato all’interno del “grande viaggio” che Luca riporta nei capitoli da 9.57 a 13.9.

La vera domanda allora è come debba essere interpretato il numero, o per meglio dire i numeri. Cominciando dal settanta, è immediato il richiamo alla perfezione e all’infinito, come visto nella quantità delle volte in cui Pietro avrebbe dovuto perdonare al fratello che mancava verso di lui. Probabilmente la domanda dell’apostolo fu rivolta a Gesù consapevole del rimprovero che aveva ricevuto quando gli disse “Ciò non ti accadrà mai” una volta che fu annunciata la Sua morte e risurrezione e di cui chiedeva perdóno. Il 70 è il risultato della moltiplicazione del 7, numero perfetto secondo Dio, con il 10, che in questo caso ha riferimento con ciò che Lui si aspetta dall’uomo e di cui i dieci comandamenti sono l’esempio. Diverso è il 72, ottenuto dalla moltiplicazione del 6, numero perfetto secondo l’uomo come abbiamo già visto, e il 12, altra cifra che allude al progetto di Dio per la Sua creatura di cui troviamo esempio nelle tribù di Israele e nel numero degli apostoli che ritroveremo nel 24 citato nell’Apocalisse a proposito degli anziani “seduti ai loro seggi nel cospetto di Dio” (11.16), 12 per la Grazia più altrettanti per la Legge, ma anche in altri passi.

Gesù quindi inviò in un primo momento i dodici, due a due, perché era ad Israele che si sarebbero dovuti rivolgere, ma qui ne manda settantadue quanti sono i popoli, vicini e lontani, citati in Genesi 10 e, a copertura generale del tutto, ricordiamo il 6×12 a significare che il Suo messaggio era a perfetta misura di ogni uomo a prescindere dalla sua nazione di appartenenza. I settantadue vengono inviati “in ogni luogo dove stava per recarsi”, ma per noi è facile capire, guardando al significato rivestito dal 6×12, che in tutto ciò ancora una volta il Perfetto e il Santo si piega verso l’imperfetto e il contaminato, conosce la sua natura vista nel 6 e si propone di guarirlo perché il 12 è già sinonimo di un piano, appunto visto nelle tribù prima e negli apostoli poi.

Ecco allora che il 70 si riferisce a qualcosa che l’uomo guarda da lontano consapevole di quanto è distante, la stessa sensazione che provò l’apostolo Pietro quando capì l’immensità del perdono che avrebbe dovuto praticare. Anche le 70 settimane riportate in Daniele 9, che danno il tempo fossato da Dio sul mondo, è qualcosa che è stabilita, un periodo assoluto che all’essere umano, piaccia o meno, deve compiersi, come la morte.

A Pietro viene detto “Settanta volte” (sette) e già lì è implicito un imperativo ed ecco perché il numero 70×7, 490 non si riferisce al numero massimo di volte in cui bisogna perdonare perché sarebbe ridicolo tenere la contabilità della remissione del debito e poi fermarsi. Con il 72 è però tutto diverso, non richiede adeguamento, ma abbandono perché così sarà possibile una pace duratura, prima col Dio che si china e poi anche con se stessi. È quella pace che dà Gesù, il Cristo, ben diversa da come la dà il mondo, temporanea, illusoria, ma soprattutto inevitabilmente destinata a non essere più. La “pace” che si raggiunge coi propri mezzi, è possiamo definirla fragile come un castello di carte, senza contare le attinenze con la casa costruita sulla sabbia.

Veniamo ora alle istruzioni che Gesù diede a questi discepoli, simili ma non identiche a quelle precedentemente impartite ai dodici: la prima cosa che ho notato è la mancanza di un componente, cioè il bastone che solo apparentemente ci fa pensare ad un’arma di difesa da eventuali animali o persone violente, o a qualcosa che garantisce sostegno. In realtà, sul “bastone” che gli israeliti portavano era incisa la storia della loro tribù e l’autorità che avevano in seno ad essa, di modo che chiunque avrebbe potuto verificare chi erano i dodici apostoli inviati ad annunciare il Vangelo e a guarire gli infermi. Era allora cominciato un periodo nuovo, diverso, testimoniato anche dalla mancanza di questo strumento oltre che dalla proibizione, come precedentemente detto ai dodici, “Non andate tra i pagani e non entrate nelle città dei samaritani” (Matteo 10).

Ancora, guardando alle istruzioni date nell’occasione dei primo invio e tornando sul bastone, abbiamo tra i testi un’apparente contraddizione: per Marco 6.7 Gesù disse di non portare “nient’altro che un bastone” mentre Luca 9 “Non portate nulla per il viaggio, né bastone, né sacco, né pane, né denari e non portate due tuniche”, dove abbiamo due usi diversi di questo attrezzo nel senso che avrebbe dovuto essere portato l’uno e non l’altro, dove vi sarebbe dovuta essere identità e non offesa.

Differenza fra i due episodi la si riscontra anche nella premessa, non fatta agli apostoli quando furono inviati, “La messe è abbondante, ma pochi sono gli operai! Pregate dunque il Signore della messe, perché mandi degli operai nella sua messe!” (v.2): è una frase non nuova (Matteo 9.37,38), un soggetto di preghiera che verrà rinnovato dall’apostolo Paolo in 2 Tessalonicesi 3.1 con le parole “Pregate per noi, perché la parola del Signore corra e sia glorificata” in quanto era fondamentale che il Vangelo della Grazia, allora sconosciuto, fosse rivelato e si sviluppasse, come effettivamente avvenne. Il pregare per “gli operai” non è azione che consiste in un ricordare a Dio di inviarli, ma l’espressione di una volontà di partecipazione al Suo piano: guardando al periodo storico in cui Gesù disse quelle parole, poi riprese da Paolo, c’era un intero mondo da evangelizzare, a differenza di oggi in cui esiste una Chiesa ufficiale che ha operato e opera scandali e sotto certi aspetti anche crimini, allontanando le persone anziché portare luce, ma in cui comunque il Vangelo è lì, alla portata di chiunque voglia leggerlo per poi capirlo e salvarsi. Si tratta di una Chiesa in cui comunque opera ed è presente un “rimanente fedele” nonostante tutto.

Credo che per i tempi bui in cui viviamo la preghiera del cristiano debba essere rivolta al Signore perché possa preservare e aiutare tutti coloro che ancora non hanno ancora fatto una professione di fede nell’Avversario, chiedendogli di essere noi stessi nelle condizioni di diventare degli strumenti idonei. La questione allora non è pregare dicendo “manda degli operai perché io non posso”, ma il pregare perché possiamo essere sempre di più strumenti per la testimonianza del Vangelo e la trasmissione ad altri di ciò che abbiamo ricevuto.

Le parole di Gesù, per i tempi che viviamo, non sono tanto quelle dette ai settantadue, ma piuttosto “Questo vangelo del regno sarà annunciato in tutto il mondo, perché ne sia data testimonianza a tutti i popoli, e allora verrà la fine” (Matteo 24.14) per cui è responsabilità del credente riconoscere i segni premonitori del ritorno e operare nei confronti del suo prossimo non attraverso una predicazione generalizzata allo scopo di far proseliti, ma una testimonianza diretta là dove incontra degli spiriti non ostili. E se vogliamo, velatamente, un discorso di questo tipo Gesù lo fece tanto ai dodici quanto ai settantadue dicendo loro “Non andate di casa in casa” come fanno i Testimoni di Geova. Al contrario, tanto gli uni che gli altri discepoli si sarebbero dovuti stabilire là dove la loro pace sarebbe stata accolta e scesa sui componenti della famiglia che avrebbe accolto il Vangelo e da lì avrebbe dovuto partire la diffusione del messaggio “il regno dei cieli è vicino”.

Altra raccomandazione data è quella di non fermarsi “a salutare nessuno lungo la strada”, quindi evitare accuratamente le perdite di tempo, parole analoghe a quelle che disse Eliseo a Giezi suo servo: “Se incontrerai qualcuno, non salutarlo; se ti saluta, non rispondergli” (2 Re 4.29), altra occasione in cui ogni secondo era prezioso (il figlio della sunamita in 2 Re 4.8-16).).

Ecco allora che, per il cristiano che si ritiene impegnato nel discepolato, è vitale “non salutare e non rispondere” nel senso di frequentare persone che gli farebbero perdere quel tempo che altrimenti potrebbe dedicare alle opere dello Spirito. Non è questa un’affermazione estremista, discriminatoria, ma va inquadrata da un lato sotto l’ottica del mandato (se ricevuto), dall’altro nel saper individuare il momento in cui agire e quello di fermarsi: i settantadue non avrebbero dovuto fermarsi a salutare per la durata dell’incarico e non a prescindere.

Guardando alla vita dell’uomo Salomone scrisse: “Per tutto c’è il suo tempo, c’è il suo momento per ogni cosa sotto il cielo: un tempo per nascere e un tempo per morire – quindi lo spazio che viviamo dalla culla alla bara di cui dovremo rispondere –, un tempo per piantare e un tempo per sradicare ciò che è piantato, un tempo per uccidere e un tempo per guarire, un tempo per demolire e uno per costruire; un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per far cordoglio e un tempo per ballare, un tempo per gettar via pietre e un tempo per raccoglierle, un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci, un tempo per cercare e un tempo per perdere, un tempo per conservare e un tempo per buttar via, un tempo per strappare e un tempo per cucire, un tempo per tacere e un tempo per parlare; un tempo per amare e un tempo per odiare, un tempo per la guerra e un tempo per la pace” (Qoèlet 3.1-8).

Sono questi versi molto significativi, che non necessariamente una persona sperimenta tutti assieme nella propria vita, ma che ci parlano, in qualunque situazione ci possiamo venire a trovare, che questo “tempo per” è inevitabile, va accettato e rispettato, che è impossibile provare la gioia senza il dolore, la vita senza la morte perché quello che conta è il percorso, che non può essere subìto, ma richiede una partecipazione attiva e, in ogni caso, questo “tempo” non va perso. Amen.

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12.01 – I SAMARITANI RESPINGONO GESÙ (Luca 9.51-56)

12.01 – I Samaritani respingono Gesù (Luca 9.51-56)

51Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, egli prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme 52e mandò messaggeri davanti a sé. Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per preparargli l’ingresso. 53Ma essi non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme. 54Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». 55Si voltò e li rimproverò. 56E si misero in cammino verso un altro villaggio.

            Concluso il “discorso ecclesiologico”, inizia un nuovo periodo della vita di Gesù, dalla ricostruzione cronologica non semplice e dove forse l’interpretazione si fa più opinione che dato incontrovertibile. Si tratta di un tempo ricco di episodi e insegnamenti particolari riportati in modo estremamente dettagliato che ci parlano quasi dell’urgenza, stante la vita umana di Gesù che stava per concludersi, di rivelare il maggior numero possibile di contenuti ai credenti che si sarebbero succeduti nella dispensazione della Grazia, ma anche dopo. E qui viene chiamata indirettamente in causa l’utilità e la funzione del Libro che ha guidato e guida gli uomini di Dio di ogni epoca; ricordiamo infatti che “Allora parlarono tra di loro i timorati di Dio. Il Signore porse l’orecchio e li ascoltò: un libro di memorie fu scritto davanti a lui per coloro che lo temono e che onorano il suo nome”(Malachia 3.16): questo Libro ha attraversato i secoli e durerà fino a quando non sarà più necessario, cioè con la creazione di quel mondo nuovo, con altri cieli e altra terra, più volte anticipato tanto negli scritti dell’Antico che soprattutto nel Nuovo patto.

Luca stesso, con “la ferma decisione”di Gesù sembra avvertire il suo lettore che ci fu un tempo preciso, un cambiamento, quasi che fosse stato premuto il tasto di un cronometro nella vita del Figlio dell’uomo, e il verso 51 ci dice che stavano “compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto”: viene posto quindi l’accento non sulla Sua morte, ma sulla resurrezione ed ascensione mediante la quale la vinse e con cui viene dimostrato ufficialmente che ogni cosa era stata messa in atto per la salvezza dell’uomo. Certo, anche il fatto che Satana era stato sconfitto perché nulla aveva potuto contro di Lui tranne che ferirlo al “calcagno”. Gesù quindi era entrato nella parte conclusiva del Suo Ministero, anche se da lì alla resurrezione passerà ancora un anno circa.

C’è poi, sempre nello stesso verso lucano, la “ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme”, traduzione piuttosto libera che indubbiamente rende il senso di quanto Gesù intendeva fare, ma che il testo originale descrive diversamente, cioè “fermò la sua faccia”, o “indurì il volto”. Pensiamo alla diversità con cui fu descritto il Suo volto alla trasfigurazione, quando “brillò come il sole”(Matteo17.2) che qui è “indurito”nel momento in cui la “ferma decisione”non implica lo stabilire una partenza per raggiungere in fretta un determinato luogo, ma il rinnovare l’accettazione del percorso che il Padre aveva stabilito per Lui sapendo che il tempo a lui dato stava per finire. Il “volto indurito”di Nostro Signore significa questo, è il volto dell’uomo consapevole delle sofferenze che dovrà affrontare, è il volto del Dio fatto uomo che avrebbe “tolto”, cioè preso su di sé, “il peccato del mondo”. Purtroppo la Chiesa ha fatto poco per chiarire il significato di questo “togliere” quando, mutando progressivamente la lingua italiana, è prevalso quello di“portare via qualcosa da un luogo, levare, rimuovere”.

Ma torniamo al volto qui descritto da Luca, che dà l’idea di un’inflessibile risoluzione: troviamo un corrispettivo ebraico del “fermò la faccia”in tre passi, il primo del quali è nei cantici del servo, in Isaia 50.7 “Il Signore mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro”, dal letterale, dopo “Il Signore mi ha aperto l’orecchio”, “ho reso la mia faccia simile ad un macigno, e so che non sarò svergognato”. Il secondo passo è reperibile in Geremia 21.10, nell’oracolo contro Gerusalemme: “Chi rimane in questa città morirà di spada, di fame e di peste; chi uscirà e si consegnerà ai Caldei che vi cingono d’assedio, vivrà e gli sarà lasciata la vita come bottino, perché io ho volto la faccia contro questa città, per il suo danno e non per il suo bene. Oracolo del Signore. Essa sarà data in mano al re di Babilonia, che la darà alle fiamme”. Infine il terzo lo abbiamo in Ezechiele 6.2: “Figlio dell’uomo, volgiti verso i monti d’Israele e profetizza contro di essi”, anche qui con l’originale “volgi la tua faccia”.

La descrizione del volto di Gesù, allora, da una parte rivela tutto il Suo impegno e dall’altra anticipa sempre di più la divisione netta tra ciò che è santo e ciò che non lo è, tra chi gli appartiene e chi no e infatti, dopo questo episodio secondo la mia lettura, vi saranno i guai profetizzati contro Betsaida, Capernaum e Corazin.

Sappiamo già che Nostro Signore non volle aggregarsi alla carovana coi suoi fratelli, e che partì poco dopo per Gerusalemme, ma troviamo un’azione mai riportata prima di allora, e cioè “mandò messaggeri davanti a sé”la cui identità è sconosciuta: possiamo pensare che fossero alcuni dei “settanta” che invierà di lì a poco tempo, ma non i dodici, per lo meno non Pietro, Giacomo e Giovanni. Il compito di questi inviati era quello di“preparargli l’ingresso”, letteralmente“preparare per lui”in quanto era necessario trattare coi samaritani, come sappiamo tradizionalmente avversi agli ebrei per ragioni che abbiamo già esaminato, per avere ospitalità e non essere confusi con gli altri coi quali c’era un rapporto di ostilità: ricordiamo infatti le parole della donna al pozzo di Giacobbe in Sichar, “Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?” (Giovanni 4.9).

Gesù e il Suo gruppo, però, erano “chiaramente in cammino verso Gerusalemme” (v.53): per quei samaritani il loro era un viaggio “religioso” data la festa in corso in quella città e, dal momento in cui era aperta la questione del legittimo Tempio, se quello “ufficiale” o il loro sul Gherizim, non acconsentirono ad accoglierli.

Saputo questo, mentre il loro Maestro taceva, Giacomo e Giovanni, soprannominati “Boanerges, cioè figli del tuono”, manifestarono il loro carattere, offesi dal diniego ricevuto, riferendosi all’episodio di 2 Re 1.11,12 quando leggiamo che, davanti a due compagnie di uomini mandati ad arrestarlo, Elia disse“Se sono un uomo di Dio, scenda un fuoco dal cielo e divori te e i tuoi uomini”, come effettivamente avvenne. Da notare che i due discepoli sembrano chiedere il permesso di agire in tal modo, ma in realtà si ergono a difensori di Gesù, volendo intervenire al Suo posto, quasi che fosse debole o, secondo loro, non avesse capito la portata dell’offesa. È in sostanza come se gli avessero detto “Vuoi che ci pensiamo noi?”, dimostrando di essere dominati da uno spirito carnale che, di fronte alla non reazione del Maestro secondo i loro parametri, si sente in dovere di intervenire. Giacomo e Giovanni avrebbero dovuto ricordarsi della reazione che avrebbero dovuto avere di fronte al rifiuto ad accoglierli: “E se alcuni non vi ricevono, uscite da quella città, e scuotete la polvere dai vostri piedi, in testimonianza contro di loro”(Luca 9.5). Con quel gesto, infatti, i discepoli avrebbero dichiarato da un lato la loro totale estraneità al rifiuto del messaggio che portavano, lasciando a quella gente l’intera responsabilità della loro opposizione al Vangelo.

Possiamo capire allora che non compete a chi porta il Vangelo chiedere un giudizio di Dio quando una persona gli si oppone, ma solo la consapevolezza del fatto che la pace che vorrebbe portare, una volta rigettata, ritorna a lui: “Se quella casa ne è degna, la vostra pace scenda su di essa; ma se non ne è degna, la vostra pace ritorni a voi”(Matteo10.13). Al contrario l’uomo naturale, quello che “non comprende le cose di Dio perché per lui sono follia”, quando si trova di fronte a una non accoglienza delle sue idee o proposte, si offende, si contraria, reagisce in malo modo come un bambino, cosa che appunto fecero Giacomo e Giovanni ed ecco perché Gesù disse loro “Voi non sapete di che spirito siete”, non riportata dalla nostra versione, ma da altre: non avevano capito nulla, confondendo l’intervento di Dio, autonomo, preciso e chirurgico, con il loro volere in quel momento estremamente distante da Lui. Ancora una volta emerge l’incapacità dell’essere umano di fare i raccordi opportuni per poter capire e avere una reazione proporzionata: i due fratelli, memori di aver visto Elia parlare con Gesù alla trasfigurazione, lo citano confondendo il fatto che l’uno apparteneva a una dispensazione e loro ad un’altra e quanto da Lui operato in quella della Legge non poteva trovare applicazione in quella della Grazia.

Il testo che utilizziamo, al verso 55, è generico perché leggiamo “Si voltò e li rimproverò”, ma altre versioni hanno “Voi non sapete di quale spirito siete, poiché il Figlio dell’uomo non è venuto per perdere le anime degli uomini, ma per salvarle”. Ecco allora – aprendo una breve parentesi – quanto è importante dotarsi di una traduzione affidabile operata da persone che tengano conto del testo antico e, sotto l’azione dello Spirito e non solo del tradurre critico come fosse un semplice scritto, possano aiutare chi legge a una comprensione maggiore, che non ometta o riassuma fatti o parole, non informi ma possa formare.

Giovanni, scrivendo il suo Vangelo, dimostrò di aver compreso molto bene le parole di Gesù, poiché leggiamo proprio che “Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui. Chi crede non è condannato, ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito figlio di Dio”(3.17,18). Ancora, in 3.36, “Chi crede nel Figlio ha la vita eterna; chi non obbedisce al Figlio non vedrà la vita, ma l’ira di Dio incombe su di lui”: possiamo sottolineare che abbiamo l’essere “già condannato”,ma è quell’ “incombe su di lui”, non “cade”, che costituisce al tempo stesso un pesante avvertimento e una speranza, poiché una cosa che “incombe” allude a un pericolo imminente, che grava ma può essere rimosso e ciò si verifica nel momento in cui una persona crede.

Il “salvare ciò che era– altrimenti – perito”, significa proprio questo: Gesù vuole salvare, cioè recuperare e la Sua azione è definita come uno strappare, “ha dato se stesso per i nostri peccati al fine di strapparci da questo mondo malvagio”(Galati 1.4). È sufficiente quindi che l’uomo si abbandoni a Lui ed in quel momento si verifica il Suo intervento. Paolo di Tarso scrisse nella sua prima lettera a Timoteo “Cristo è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io”(1.15). Gesù, come Dio, avrebbe potuto far scendere quel “fuoco”di cui gli parlarono Giacomo e Giovanni, ma non lo fece perché quell’avvenimento sarebbe stato incompatibile con la Sua funzione: a quei samaritani sarebbe stato concesso del tempo anche se il loro era “sempre pronto”. Gli abitanti di quel villaggio era impossibile non avessero sentito parlare di Gesù, poiché passare per la Samaria era la via più breve tra la Galilea e la Giudea, ma non Lo presero in considerazione, vedendo in Lui un Giudeo che andando a Gerusalemme, dimostrava di non tenere in alcun conto il loro Tempio né le loro tradizioni. Ma non si scompose e, semplicemente, “andarono in un altro villaggio”, non è detto quale, né se si trovasse in Samaria o in Giudea.

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11.41 – MÓSTRATI AL MONDO (Giovanni 7.2-10)

11.41 – Móstrati al mondo (Giovanni 7.2-10)

 

            2Si avvicinava intanto la festa dei Giudei, quella delle Capanne. 3I suoi fratelli gli dissero: «Parti di qui e va’ nella Giudea, perché anche i tuoi discepoli vedano le opere che tu compi. 4Nessuno infatti, se vuole essere riconosciuto pubblicamente, agisce di nascosto. Se fai queste cose, manifesta te stesso al mondo!». 5Neppure i suoi fratelli infatti credevano in lui. 6Gesù allora disse loro: «Il mio tempo non è ancora venuto; il vostro tempo invece è sempre pronto. 7Il mondo non può odiare voi, ma odia me, perché di esso io attesto che le sue opere sono cattive. 8Salite voi alla festa; io non salgo a questa festa, perché il mio tempo non è ancora compiuto». 9Dopo aver detto queste cose, restò nella Galilea. 10Ma quando i suoi fratelli salirono per la festa, vi salì anche lui: non apertamente, ma quasi di nascosto.

 

Dopo il discorso ecclesiologico, la lettura cronologica dei sinottici presenta non pochi problemi: Matteo scrive che “Terminati questi discorsi, Gesù lasciò la Galilea e andò nella regione della Giudea, al di là del Giordano. Molta gente lo seguì, ed egli li guarì” (19.1); Marco concorda con lui (10.1) e Luca, che esamineremo prossimamente, “Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, egli prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme e mandò messaggeri davanti a sé” (9.51), riportando una lunghissima serie di episodi che, se fossero tutti accaduti in quel viaggio, lascerebbero pensare che fosse durato molto. È Giovanni, coi versi oggetto di meditazione, che ci consente di ricostruire come si svolsero i fatti che portarono al salire di Gesù a Gerusalemme non per l’ultima volta, ma ad abbandonare la Galilea.

Viene qui menzionata “la festa dei Giudei, quella della Capanne”, detta anche “dei tabernacoli”, ultima delle tre grandi feste istituite nei libri di Mosè dopo la Pasqua, o “dei pani azzimi”, e quella “delle settimane” o “Pentecoste”. La festa delle Capanne viene ordinata in Levitico 23.33-36: “Il giorno quindici di questo settimo mese sarà la festa delle Capanne per sette giorni in onore del Signore. Il primo giorno vi sarà una riunione sacra; non farete alcun lavoro servile. Per sette giorni offrirete vittime consumate dal fuoco in onore del Signore. L’ottavo giorno terrete la riunione sacra e offrirete al Signore sacrifici consumati col fuoco. È giorno di riunione, non farete alcun lavoro servile”. Più dettagliata, giorno per giorno, è la versione reperibile in Numeri 29.12-30. Deuteronomio 16.13-15 dà la caratteristica dell’universalità, del “non riguardo per la qualità delle persone”, di questa festa: “Gioirai in questa tua festa, tu, tuo figlio e tua figlia, il tuo schiavo e la tua schiava e il levita, il forestiero, l’orfano e la vedova ce abiteranno le tue città. Celebrerai la festa per sette giorni per il Signore, tuo Dio, nel luogo che avrà scelto il Signore, perché il Signore, tuo Dio, ti benedirà in tutto il tuo raccolto e in tutto il lavoro delle tue mani, e tu sarai pienamente felice”.

La festa della Capanne era stata istituita per una duplice commemorazione, cioè quella della bontà di Dio verso Israele nel deserto, e quella della Sua misericordia per averlo arricchito durante l’anno corrente coi frutti della terra; per sette giorni i Giudei vivevano in capanne fatte con rami d’alberi costruite nei cortili, sui tetti delle case, nel recinto del Tempio e in tutte le strade più larghe di Gerusalemme. Infatti “Dimorerete in capanne per sette giorni; tutti i cittadini d’Israele dimoreranno in capanne, perché i vostri discendenti sappiano che io ho fatto dimorare in capanne gli Israeliti, quando li ho condotti fuori dal paese d’Egitto” (Levitico 23.42,43).

È importante sottolineare che questa era definita “la grande festa” perché celebrata dopo il raccolto del grano, dell’uva e dell’olio, i lavori più pesanti dell’anno si erano conclusi e forse per questo motivo i fratelli di Gesù, parlando con Lui, abbiamo letto che gli dissero “Parti di qua e va’ nella Giudea, perché i tuoi discepoli vedano le opere che tu compi. Nessuno infatti, se vuole essere riconosciuto pubblicamente, agisce di nascosto. Se fai queste cose, manifesta te stesso al mondo!” (vv.3,4).

Riflettendo su quanto detto a Gesù, commentato da Giovanni con le parole “Neppure i suoi fratelli credevano in lui”, va fatta rilevare la loro assoluta inopportunità perché si trattò di una frase pronunciata per dileggio nei confronti di una persona da loro ritenuta “fuori di sé” ( Marco 3.21) e della quale non avevano alcuna idea quanto a dignità e ruolo. I fratelli di Gesù, cioè “Giacomo, Ioses, Giuda e Simone” (6.3), lo sfidano ad andare a Gerusalemme perché così avrebbe potuto mostrarsi “al mondo” e perché i Suoi discepoli potessero “vedere le opere che tu compi” disprezzando completamente tutto quello che aveva fatto fino ad allora, incuranti dei miracoli e del contenuto della Sua predicazione incessante e delle Sue fatiche che proseguivano da circa due anni. Quelli che gli parlano sono gli stessi che, nel verso di Marco 3.21, “Sentito questo – la folla che si era radunata – uscirono per andare a prenderlo”: volevano rinchiuderlo da qualche parte pur di avere tranquillità?

Nelle loro parole, poi, c’è anche una non velata accusa di codardia, perché quel “nessuno, se vuole essere riconosciuto pubblicamente, agisce di nascosto” (v.4) vuole rimarcare il fatto che il loro fratello se ne stava in Galilea “perché i Giudei cercavano di ucciderlo” (v.1) e quindi, se era davvero chi diceva di essere, non poteva avere alcun timore. Abbiamo nelle loro parole anche la pretesa di dare un consiglio, perché la regione in cui aveva fino ad allora agito, dimenticando che a Gerusalemme Gesù aveva già operato, era di minore importanza rispetto alla Giudea, dove esistevano le scuole rabbiniche più importanti e là confluiva molta più gente: in pratica, Lo esortano a puntare sui numeri, a far proseliti, ad avere successo, a diventare quel Messia umano che tutti attendevano per conseguire il pieno riscatto sull’invasore romano.

Il modo di ragionare dei fratelli di Gesù non è nuovo, ma esiste da sempre ed accomuna tutti coloro che per il mondo sono e al mondo appartengono, certo fino a prova contraria: non capendo nulla degli àmbiti spirituali, pretendono di interpretarli e reagiscono con ragionamenti più o meno inconsistenti, ma che molto hanno di umanamente logico perché è la cecità vera a spingerli, come rivela la risposta che ebbero, “Il mio tempo non è ancora venuto; il vostro tempo invece è sempre pronto”, con cui Gesù istituisce una divisione netta fra il mondo cui apparteneva e quello dei suoi fratelli.

Una risposta simile Gesù la diede a Sua madre alle nozze di Cana quando volle ricordarle che non stava a lei interferire perché “la mia ora non è ancora giunta” (2.4) dove “la mia ora” e “il mio tempo” non si riferiscono alla Sua morte, ma a quello di qualunque Suo intervento che non poteva essere disgiunto da quanto concordato col Padre. Con le Sue parole, Nostro Signore dichiara: primo, che se gli altri uomini potevano fare ciò che volevano e seguire quanto la loro mente suggeriva loro, Lui veniva come inviato con un compito preciso in cui nulla poteva essere lasciato al caso e, secondo, prendendo “il mio tempo” in contrapposizione a “il vostro tempo”, Lui avrebbe potuto operare e morire (temporaneamente) nel corpo solo quando sarebbe stato concesso agli uomini di ucciderlo mentre i suoi fratelli, che nulla conoscevano del loro destino, avrebbero potuto concludere la loro esistenza in qualunque momento, cosa alla quale non pensavano neppure lontanamente come avviene anche oggi: l’uomo naturale rifugge l’idea della morte; sa che prima o poi verrà il momento in cui la vita finirà, ma nel momento in cui, quando non giunge all’improvviso e si annuncia con segnali inequivocabili, vorrebbe rimandarla. E cito una frase che Alessandro Meluzzi disse un giorno a un convegno sull’eutanasia: “Non ho mai conosciuto un solo morente che non pensasse di avere ancora un giorno da vivere. Non ho conosciuto un solo morente, neanche negli attimi estremi dell’agonia, che non pensasse di avere ancora un’ora da vivere”.

Ecco allora il senso delle parole di Gesù: sapeva che “il mio tempo non è ancora giunto” perché era l’unico a sapere quando e come il Suo corpo avrebbe ceduto, mentre gli increduli fratelli, così intenti a guardare il presente, no. Né si preoccupavano irresponsabilmente di questo. Ma poi va oltre: “Il mondo non può odiare voi, ma odia me, perché di esso io attesto che le sue opere sono cattive” (v.7). Il mondo è un sistema di vita, ragionamento, aspirazioni, metri di misura che non può che produrre “opere cattive” indipendentemente dalla valutazione e se tutti possono concordare nella valutazione negativa di un omicidio, non si pensa che – per dirne una – anche quelle strutture per dare rifugio e solidarietà alle persone, pur non facendo chiaramente del male, a nulla portano se non fatte “nel Nome” di Cristo: senza appartenergli tutte le opere umane, buone o cattive, si identificano in quella “torre” che gli uomini eressero in Babilonia allo scopo di acquistarsi fama, perché quell’edificio doveva giungere “fino al cielo” di cui vedevano l’azzurro, ma non ciò che questo rappresentava. Il mondo “odia me” come da Genesi 3.15 “Io porrò inimicizia tra te – Avversario – e la donna – qui Eva è vista come colei dalla quale nasceranno uomini di Dio, che troverà in Gesù il suo massimo rappresentante – fra la sua stirpe e la tua stirpe”. Il “mondo”, come sappiamo, non odiò solo il Figlio, ma anche tutti coloro che in lui hanno creduto. E ancora prima, combatté Abele e tutti i profeti, da quelli nominati a quelli no.

Tornando alla nostra traduzione, ancora una volta ne va sottolineata l’inadeguatezza perché Nostro Signore non dice “Non salgo a questa festa”, ma “Non salgo ancora a questa festa”, precisazione importante perché altrimenti, per come si svolsero poi i fatti, si potrebbe pensare ad un Suo ripensamento in proposito, quando rimandò la partenza per non salire coi fratelli e con tutta quella gente che avrebbe composto la carovana diretta a Gerusalemme, cioè la stessa, per struttura e composizione, che lo aveva visto dodicenne andare nella città santa con i suoi genitori.

L’ultimo verso di Giovanni rivela che “Quando i suoi fratelli salirono per la festa – quindi in carovana -, vi salì anche lui. Non apertamente, ma quasi di nascosto”: salì cioè privatamente, accompagnato dai discepoli a sottolineare l’estraneità dagli usi comuni e non perché non voleva essere riconosciuto perché, se così fosse stato, non lo troveremmo nel Tempio ad insegnare né leggeremo che, uscito dal territorio samaritano, “la folla accorse di nuovo a lui e di nuovo egli insegnava loro, come solito fare” (Marco 10.1). E possiamo dire che partì quando il Suo tempo iniziava a compiersi, termine col quale non viene indicata la morte, ma l’ultimo periodo della Sua vita terrena. La Sua partenza dalla Galilea si concluderà con due eventi, l’invio dei settantadue discepoli che lo avrebbero preceduto lungo la via, e le parole molto amare su Betsaida, Corazin e Capernaum.

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11.40 – IL DISCORSO ECCLESIOLOGICO 11: “CHI NON È CONTRO DI NOI, È PER NOI (Marco 9.38-41)

11.40 – Il discorso ecclesiologico 11, “Chi non è contro di noi, è per noi” (Marco 9.38-41)

 

38Giovanni gli disse: «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva». 39Ma Gesù gli disse: «Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: 40chi non è contro di noi è per noi. 41Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa».

 

            Con questi versi concludiamo il lungo esame del discorso ecclesiologico di Gesù. Anche se non si può stabilire con certezza chi fosse il personaggio in questione, è doveroso comunque chiederselo e sono state fatte diversi supposizioni in proposito: si è ipotizzato fosse uno dei tanti esorcisti giudei, un discepolo di Giovanni Battista, uno che aveva ascoltato Gesù predicare e aveva deciso di agire in modo indipendente, ma se così fosse quel “nel tuo nome” sarebbe stata una sorta di formula magica che non avrebbe portato ad alcun risultato. Con un margine di probabilità molto più alto, invece, quell’anonimo era una persona che aveva beneficiato di un intervento di Gesù e, dopo un’accurata riflessione su quanto gli era accaduto, aveva deciso di agire esercitando così la sua fede.

Certo sappiamo che Gesù invitò direttamente alcuni uomini a seguirlo – e i dodici, come altri, sono un esempio –, ma che ci furono persone cui parlò diversamente come nel caso dell’indemoniato gadareno di cui è scritto “Mentre entrava nella barca, colui che era stato indemoniato lo supplicava di poter restare con lui. Non glielo permise, ma gli disse: «Va’ nella tua casa, dai tuoi, annuncia loro ciò che il Signore ti ha fatto e la misericordia che ha avuto per te». Egli se ne andò e si mise a proclamare per la Decapoli quello che Gesù aveva fatto per lui e tutti erano meravigliati” (Marco 5.18-20). Possiamo ricordare anche l’episodio di quel discepolo che, prima di seguire il Maestro, non voleva abbandonare il proprio padre prima di seppellirlo: tutti ricordano la prima parte della risposta, indubbiamente forte, “lascia che i morti seppelliscano i loro morti”, ma non la seconda, “Ma tu va’, e annuncia il regno di Dio”.

Ho riportato i primi passi che mi sono venuti alla mente, ma credo bastino per far capire che Gesù volle chiamare i dodici ad essere apostoli, poi accolse un numero imprecisato di discepoli, uomini e donne che lo seguivano spontaneamente partecipando in modo attivo alla Sua predicazione, ma faceva affidamento anche sulla testimonianza di coloro che avevano ricevuto guarigioni da infermità, malattie e schiavitù dall’Avversario. Sappiamo che parte di costoro, una volta guariti, proseguirono la loro vita nell’indifferenza su quanto ricevuto, ma non molti altri e questo ci parla del fatto che, una volta incontrato Gesù lungo la via percorsa, anche oggi, per chi ha beneficiato del Suo intervento in salvezza la vita non può essere più la stessa e, nel modo più confacente alla loro posizione spirituale, danno la loro testimonianza ai loro simili.

L’anonimo rimproverato dai dodici – “volevamo impedirglielo” secondo Marco, “glielo abbiamo impedito” secondo Luca – non poteva essere un religioso perché sappiamo la fine che fecero i figli di Sceva (Atti 19.13-16), né un discepolo del Battista che, già decapitato da Erode Antipa, aveva concluso la sua funzione, né uno che aveva sentito parlare di Gesù, ma una persona che con Lui aveva vissuto un’esperienza profonda quale, secondo il mio parere, avrebbe potuto essere solo la liberazione da uno spirito impuro: una schiavitù di quel tipo priva la persona della libertà di pensare, scegliere, agire, gestire la propria dignità che, una volta ritrovata per intervento divino, non può che riconoscere in Gesù il Signore nel senso più ampio del termine. Credo che la reazione interiore di fronte alla liberazione dallo stato di “indemoniato” sia differente rispetto a quella dalla lebbra, o da una paralisi. Anche guardando alle donne che seguivano Gesù, fu Maria di Magdala, liberata da “sette demoni” quindi da una totalità di miseria e degradazione, quella che amò Gesù più di tutte.

L’anonimo cui i discepoli proibirono, o cercarono di proibire, di agire scacciando demoni quindi, dopo la gioia conseguente alla sua liberazione, aveva intrapreso un percorso personale che lo aveva convinto del fatto che la vita nuova ricevuta per grazia sarebbe stata veramente tale dedicandosi all’annuncio del Nome di Colui che lo aveva liberato: abbiamo letto “scacciava i demoni nel tuo nome”, non di altri. “Nome” in cui quella persona credeva totalmente perché aveva direttamente sperimentato per primo i Suoi effetti. E qui va da sé che non si può parlare di Dio senza conoscerlo e quindi essere parte di Lui, ragione per la quale Gesù proibiva agli spiriti impuri di parlare. Chiunque quindi ha davvero beneficiato dell’intervento del Signore, non può tacere secondo il principio in base al quale una luce, se è tale, non può che brillare. E chi rientra in questa categoria di uomini o donne, illumina anche tacendo.

In questo episodio però ci sono anche delle negatività, purtroppo da parte dei discepoli, proprio loro che avrebbero dovuto essere – ma lo sarebbero diventati – la “luce del mondo”: furono colti da un orgoglio corporativo e agirono autonomamente, presumendo di essere le sole autorità, ricordandosi di essere stati inviati due a due a predicare, compiere miracoli e cacciare i demoni. Commentando l’episodio su cui stiamo riflettendo, scrive un fratello: “Eccoci dunque di fronte allo spirito umano che agisce con atteggiamento che già nell’antichità aveva fatto deviare il popolo d’Israele mediante l’elezione di un re, come avevano altri popoli, rinunciando così al governo teocratico a vantaggio di quello monarchico di Saulle”. E il voler essere indipendenti, prendere decisioni d’istinto senza consultarsi o chiedere un confronto col Signore, non può che porci attori di scelte sbagliate. Ciò che i Dodici avrebbero dovuto chiedersi era se quel tale agiva secondo Dio oppure no e non impedirgli di agire a priori.

Questo episodio ci parla di spirito, quello che usava l’anonimo messo a tacere dai dodici, e di carne, quella che i Dodici esercitarono quando avrebbe dovuto essere – secondo logica – il contrario. Questo episodio dovrebbe insegnare molto ai credenti di tutte le Chiese cristiane, sempre convinti di essere nel giusto e migliori degli altri, che la Chiesa è Una – come in effetti è anche se non nel senso inteso da loro – e che le altre siano nell’errore. È importante la disposizione del cuore, non la forma, che viene confusa con il formalismo, stesso errore dei farisei e di qualunque opportunista. Certo che poi la dottrina dev’essere conforme a quella del Vangelo e degli Apostoli.

In questo episodio però, l’errore è proprio in mezzo ai Dodici: Giovanni parla perché Pietro, ancora mortificato dal rimprovero “Vattene da me Satana, perché tu non hai il senso alle cose di Dio, ma degli uomini”, taceva. Solo più avanti chiederà chiarimenti sul perdóno. Nessuno dei Dodici chiese spiegazioni all’annuncio della morte e resurrezione di Gesù, ma vollero ridurre al silenzio un testimone dell’amore di Dio e del Nome del Figlio. Non videro in quella persona un loro simile, ma un oppositore sulla base di un metro umano provando un sentimento di gelosia anche alla luce del fatto che poco prima non erano riusciti a guarire un epilettico, provocando per reazione le parole “O generazione incredula e perversa, fino a quando starò con voi? Fino a quando vi sopporterò?” (Matteo17.17).

C’è poi un episodio particolare, narrato al capitolo 11 del libro dei Numeri: quando Mosé chiese a Dio ai essere aiutato nella gestione del popolo, Egli rispose di radunare settanta uomini tra gli anziani di Israele sui quali avrebbe infuso parte dello Spirito che era su di lui. Leggiamo dal verso 26 che “…erano rimasti due uomini nell’accampamento, uno chiamato Eldad e l’altro Medad. E lo spirito di posò su di loro; erano fra gli iscritti, ma non erano usciti per andare alla tenda. Si misero a profetizzare nell’accampamento. Un giovane corse ad annunciarlo a Mosè. (…). Giosué, figlio di Nun, servitore di Mosè fin dalla sua adolescenza, prese la parola e disse: «Mosè, mio signore, impediscili!». Ma Mosè gli disse: «Sei tu geloso per me? Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore porre su di loro il suo spirito!». E Mosè si ritirò nell’accampamento, insieme con gli anziani di Israele” (26-30). Da notare il numero settanta, in realtà settantadue, come quello dei discepoli che Gesù invierà, episodio che esamineremo presto.

Quanto letto ci conferma, prima ancora della dispensazione della Grazia, che veramente “il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va: così è chiunque è nato dallo spirito” (Giovanni 3.8). Certo i discepoli non conoscevano ancora lo Spirito e, se questo episodio si fosse verificato più avanti, ad ipotesi nel libro degli Atti, avrebbero certamente accolto quella persona in mezzo a loro, tenendo presente che, come scritto ai Corinti, “Nessuno che parli sotto l’azione dello Spirito di Dio può dire «Gesù è anàtema», e nessuno può dire «Gesù è il signore!» se non sotto l’azione dello Spirito Santo” (1 Corinti 12.3). E abbiamo letto che Nostro signore qui dice “Non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me”.

C’è un ultimo problema da affrontare ed è rappresentato dalla frase “Chi non è contro di noi, è per noi”. In realtà i problemi sono due: il primo è rappresentato da come alcuni traducono il parallelo di Luca, come la versione della CEI che sostituisce al “noi” il “voi” affidandosi a manoscritti diversi, ma meno autorevoli. Il “noi” è riportato nel Codice Vaticano oltre che da diversi onciali, datati dal IV al X secolo. Se avesse usato il “voi”, Gesù si sarebbe estraniato dal gruppo, cosa impossibile perché la Chiesa non può essere che profondamente legata a Lui, pena il fallimento della testimonianza.

Il secondo problema è dato dalla apparente contraddizione esistente tra il “chi non è contro di noi, è per noi” e “chi non è con me, è contro di me”, ma è facilmente risolvibile perché si tratta di concetti che si adattano alle situazioni: il non essere “contro” può fare riferimento alla neutralità inteso come disinteresse (e in questo caso la contrarietà è evidente perché allude a un cuore impermeabile), oppure alla condizione di chi si mette da parte nell’attesa di capire e non si esprime. Un esempio in proposito lo abbiamo in Nicodemo, dottore della Legge, fariseo e membro dei Sinedrio, che prima ascolta l’insegnamento di Gesù e poi rimane “nell’ombra” fino a quando interviene timidamente in Sua difesa quando i suoi correligionari vorrebbero farlo arrestare (Giovanni 7.45-51) e infine, con Giuseppe d’Arimatea, depone il Suo corpo nel sepolcro (19.39-42). Altro esempio lo abbiamo con Giuseppe d’Arimatea, membro autorevole del Sinedrio, unico descritto come discepolo di Gesù, ma “di nascosto per timore dei Giudei” (17.38), persona che come la precedente ebbe il coraggio dopo molto tempo di manifestarsi come discepolo.

Ecco allora che ogni essere umano deve chiedersi, se “non è contro”, per quale ragione abbia questa posizione e se non sia il caso di intraprendere quel percorso che, un volta per tutte, lo possa porre nella condizione di “concittadino dei santi e membro della famiglia di Dio”. Amen.

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11.39 – IL DISCORSO ECCLESIOLOGICO 10: IL CREDITORE SPIETATO (Matteo 18.23-35)


11.39 – Il discorso ecclesiologico 10, Il creditore spietato (Matteo 18. 23-35)

 

23Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. 24Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. 25Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. 26Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: «Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa».27Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito. 28Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: «Restituisci quello che devi!». 29Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: «Abbi pazienza con me e ti restituirò». 30Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito. 31Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. 32Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: «Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. 33Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?». 34Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto. 35Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello».

 

            Si tratta di una parabola che abbiamo già affrontato, citato più volte e che qui cercheremo di inquadrare aggiungendo nuovi elementi per andare oltre la semplicità del racconto che, per come è esposto e soprattutto con la frase conclusiva “Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello”, non ha apparentemente bisogno di commenti.

La prima sottolineatura la possiamo fare sulla parola “re”, che tutti traducono in modo identico forse perché scrivere “uomo re”, o “re uomo” come nel testo originale, disorienterebbe. Gesù quindi, introducendo la parabola, usa “è simile ad un re (umano)”a sottolineare che, per la semplicità dell’esempio che andrà a narrare, tutti sono in grado di comprenderlo.

Ora questo “re”, che in quanto tale decide autonomamente e soprattutto senza che nessuno possa opporsi, leggiamo “volle fare i conti coi suoi servi”, termine che non va inteso in senso generale, ma specifico in quanto chiaramente riferito a persone altolocate, di corte, come ministri o responsabili degli affari regali; qui il riferimento potrebbe essere a schiavi emancipati che, presso i monarchi orientali, venivano spesso elevati a cariche di fiducia e responsabilità, come avvenne con Daniele, costituito “…governatore di tutta la provincia di Babilonia e capo di tutti i saggi di Babilonia”(Daniele 2.48).

Riflettendo su quel “volle”possiamo dire che esprime, a parte la non possibilità di opposizione, repentinità e sorpresa da parte dei “servi”interessati, alcuni di loro preparati a un controllo sul loro operato ed altri no. Se Dio non fosse tale non sarebbe imprevedibile, tanto in benedizione quanto nel giudizio: ricordiamo la manifestazione ai 120 in Atti 2.2 o l’esperienza di Saulo da Tarso quando “…avvenne che, mentre era in viaggio e stava per avvicinarsi a Damasco, all’improvviso lo avvolse una luce dal cielo”(9.3) o ciò che avvenne a Filippi: “D’improvviso venne un terremoto così forte che furono scosse le fondamenta della prigione; subito si aprirono le porte e caddero le catene di tutti”. D’altro canto, abbiamo la realtà degli ultimi tempi, “Quando la gente dirà: «Pace e sicurezza!», allora, d’improvviso la rovina li colpirà, come le doglie di una donna incinta, e non potranno sfuggire”(1 Tessalonicesi 5.3). Pensiamo anche alla pioggia, ai venti e ai torrenti che si abbattono sulla casa costruita sulla sabbia senza che il costruttore non sapesse quando, all’avvertimento “Fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati”(Marco13.36) e ancora Luca 21.34: “State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all’improvviso”.

A proposito dell’imprevedibilità di Dio va sottolineato che coglierà sempre impreparato chi sarà lontano da Lui, perché chi Lo frequenta può avere in mano gli elementi per capire le Sue dinamiche attraverso le promesse contenute nella Scrittura che contiene gli eventi passati, presenti e futuri. Ricordiamo che il diluvio colse di sorpresa tutti, ma non Noè e la sua famiglia, per non citare le parole di Dio in Genesi 18.19 prima della distruzione di Sodoma: “Terrò nascosto ad Abrahamo ciò che sto per fare?”. Anche gli eventi futuri descritti nell’Apocalisse, che riportano nei dettagli ciò che sta per accadere, sono qualcosa di chiuso per il mondo, ma non per coloro che appartengono a Dio.

Bene, il servo della parabola si trova scoperto: il re “Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti”. È già stato sottolineato che questa era una somma enorme, che qui Gesù consapevolmente pone all’attenzione dei discepoli per dare la misura prima del debito, e poi della grazia ricevuta tramite la sua remissione, entrambi – mi si passi il termine – irreali perché è al di fuori della comprensione umana sia che una persona possa distrarre così tanto senza che nessuno se ne possa accorgere, sia che un re possa lasciar passare impunito un simile affronto.

Quello che Gesù vuole qui mettere in risalto è la condizione di quel dignitario che, senza la remissione di quel debito chiesta con le parole “abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”, non avrebbe mai potuto rifondere l’intera somma coi suoi mezzi. La richiesta di pietà di quell’uomo è apparentemente qualcosa di inutile perché la Legge, tanto di Mosé che umana, stabiliva che il debitore potesse essere venduto come schiavo assieme ai suoi figli. Per il debitore insolvente che cadeva in quella misura, la Legge aveva poi il Giubileo, che ricorreva ogni cinquant’anni, con la quale questi veniva liberato, o l’anno sabatico ogni sette.

Questo “uomo re”, quindi, compie un gesto al di fuori della comprensione umana, rinunciando a rientrare in possesso della somma a lui sottratta o quanto meno ad avere soddisfazione mediante l’incarceramento del colpevole, dell’affronto ricevuto. E qui sta il motivo per cui Gesù parla di “uomo re”: quanto da lui raccontato è comprensibile a tutti, non c’è nessun mistero, ma una verità chiaramente rivelata, quella della pietà provata per una persona che non ne avrebbe avuto alcun diritto perché privo di attenuanti. Quel servitore, infatti, sapeva benissimo sia che avrebbe dovuto avere nei confronti del suo re un comportamento leale, quanto che presto o tardi vi sarebbe stato un momento in cui il suo operato, come quello degli altri, avrebbe subito una verifica. Viene infatti sempre, per un subordinato, il momento della valutazione del proprio lavoro.

La descrizione dell’atteggiamento di quell’uomo, “prostrato, lo supplicava”, indica tutto il suo sentimento: aveva il terrore di perdere tutto e arriva a fare una promessa che sapeva non avrebbe mai potuto mantenere perché quel “tutto”che prometteva di restituire era qualcosa di irrealizzabile. Ma fu perdonato anche se poi, come sappiamo, si comporterà nei confronti di un suo debitore con crudeltà e insensibilità ingiustificabili a fronte del trattamento che aveva ricevuto dal suo signore.

E qui abbiamo molti elementi da considerare, prima di tutto lo stato psicologico del personaggio: aveva sottratto una somma, aveva chiesto pietà e l’aveva ottenuta, ma poi tutto era tornato come prima, rimanendo completamente insensibile di fronte alla grazia ricevuta. A differenza di Dio, che legge nei cuori, quel re aveva agito per compassione, sentimento che porta chi lo prova ad immedesimarsi nella condizione di sofferenza e miseria in cui versa un suo simile. Compatire infatti significa “patire insieme”e quel re, di fronte al suo servo, lasciò la sua posizione di dominus assoluto, cui nulla era vietato, che tutto poteva perché tutto aveva, per immedesimarsi in suo sottoposto e nel sentimento che provava, poiché la paura di perdere ogni cosa – ricordiamo “ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva”– era assolutamente reale e aveva prodotto in lui un profondo sconvolgimento.

Avuto il perdono, però, tutto era tornato come prima, cioè quel servo era rimasto lo stesso di sempre, quindi stesse attitudini, stesso non senso del dovere, stessa insensibilità. Questo ci parla del fatto che quando un essere umano, convinto di peccato e quindi consapevole di avere un debito con Dio impossibile da rifondere se non chiedendo pietà, viene da Lui perdonato, solo il tempo darà dimostrazione del fatto che quanto ricevuto sarà stato compreso e avrà prodotto un cambiamento, trasformandolo in una persona diversa.

Ora il fatto che il servo infedele della parabola non fosse stato minimamente intaccato dall’eccezionalità rappresentata dalla remissione del debito ci porta a considerare che, in realtà, il suo invocare pietà era dettato dal fare di tutto per cercare di tamponare l’emergenza drammatica che si era venuta a creare, ma senza mettere minimamente in discussione la propria persona. Si tratta di un comportamento, un modo di essere comune, identico a tutti coloro che vivono per loro stessi, sempre pronti a individuare i torti, veri o presunti che subiscono, ma altrettanto disponibili a darli. Sono quelli che si impegnano con promesse e non le mantengono. Sono quelli che si rivestono di una giustizia che non hanno, che simulano, pronti a calpestare gli altri, ma a ribellarsi ad ogni minima ingiustizia che viene loro fatta, che chiedono sempre e non danno mai, forti con i deboli e deboli con i forti.

Leggiamo al verso 28 “quel servo trovò uno dei suoi compagni”, quindi un suo pari, ragione in più per cui avrebbe dovuto usare lo stesso comportamento che il re aveva avuto nei suoi confronti: non c’era la distanza tra suddito e sovrano, ma un rapporto paritario. Non solo, ma uno aveva distratto, l’altro aveva chiesto in prestito una somma che, per quanto importante, era assolutamente rifondibile qualora il creditore avesse avuto “pazienza”. E questo ci parla del fatto che, se fra Dio e l’uomo esiste una distanza incolmabile che viene appianata col perdóno, tra uomo e uomo c’è solo uguaglianza perché “tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio”, a meno che Lui stesso intervenga a rimuoverlo.

Vediamo nella parabola che, quando il servitore perdonato si mette ad affliggere il suo pari, ci sono altri pari grado che vanno ad informare il re dell’accaduto: non è difficile collegare questi a quei credenti, compagni di viaggio verso la “casa dalle molte stanze”, che nelle loro preghiere possono chiedere un intervento risolutore di Dio a fronte di comportamenti incompatibili con la funzione rivestita: come Gesù ha insegnato col “Padre nostro”, quando ci si presenta davanti al Signore, non necessariamente esiste solo la lode; anzi, conosciamo quel passo di Apocalisse 6.10 in cui le anime degli immolati per la Parola di Dio e la testimonianza che avevano resto dicono“Fino a quando, Sovrano, tu che sei santo e veritiero, non farai giustizia e non vendicherai il nostro sangue contro gli abitanti della terra?”. Quando un cristiano si accosta al Trono della Grazia, parla col Dio in ascolto che, per quanto sappia già cosa gli verrà detto, valuta ed esamina nel profondo ciò che è nel cuore e “sa di cosa abbiamo bisogno”, testimonia la Sua attenta valutazione di tutto ciò che chiediamo, altrimenti non troveremmo scritto di pregare incessantemente e rendere grazie “in ogni cosa”(1 Tessalonicesi 5.18). “Sa di cosa abbiamo bisogno”a differenza di noi. E ricordiamo che i discepoli parlavano col loro Maestro di tutto, perché tutto dev’essere vagliato secondo lo Spirito e non secondo la carne.

Tornando al re della parabola, leggiamo che “fece chiamare quell’uomo”: già qui abbiamo la previsione di un giudizio, questa volta inappellabile perché è l’uomo coi suoi atti che si condanna da solo e, nel nostro caso, lo fa dimostrando di disprezzare totalmente quanto ricevuto per grazia. La chiamata del re e le conseguenti disposizioni nei confronti di quel servo alludono chiaramente a qualcosa che si verifica dopo la morte, quando tutti si troveranno di fronte a Lui e non sarà possibile fare qualcosa per mutare ciò che si avrà fatto in vita: “Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto”. Se nell’antica Roma il debitore incarcerato era consegnato all’aguzzino per essere costretto al pagamento, in Oriente accadeva spesso che chi si dichiarava insolvente avesse dei tesori nascosti per cui la tortura veniva applicata per costringerlo a dichiarare dov’erano, o per suscitare la compassione degli amici affinché pagassero al suo posto. Sappiamo che, nel caso della parabola, quel “finché”non sarebbe mai arrivato perché “tutto il dovuto”non avrebbe mai potuto essere rifuso.

Su questa dinamica sono illuminanti le parole di 2 Tessalonicesi 1.6-9: “È proprio della giustizia di Dio ricambiare con afflizioni coloro che vi affliggono e a voi, che siete afflitti, dare sollievo insieme a noi, quando si manifesterà il Signore Gesù dal cielo, insieme agli angeli della sua potenza, con fuoco ardente, per punire quelli che non riconoscono Dio e quelli che non obbediscono al vangelo del Signore nostro Gesù. Essi saranno castigati con una rovina eterna, lontano dal volto del Signore e dalla sua gloriosa potenza”.

Arriviamo così al verso finale, che ci conferma quanto il perdono sia fondamentale perché è lì che si misura se ciò che ci è stato dato dal Signore è stato da noi assimilato realmente: “Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello”.Perdonare “di cuore”cioè non formalmente, senza mettendo da parte il ricordo del torto subito per poi farlo emergere al momento opportuno. Il vero perdóno dev’essere lo stesso di Dio, che disse “Io non mi ricorderò dei loro peccati”. Perdonare di cuore implica proprio coinvolgere quella parte di noi che il servo spietato si guardò bene da chiamare in causa, cioè procedere ad un esame di sé con riguardo specifico al vissuto e a quanto ricevuto. Perdonare di cuore significa essere imitatori di Dio, dimostrare di appartenergli, ma va sottolineato che va praticato nel momento in cui l’altro manifesta il proprio rincrescimento esattamente come nei due casi che abbiamo visto, perché quando interviene un’offesa – termine volutamente generico – viene interrotta una comunicazione fra persone che solo il responsabile dell’atto può ripristinare e non certo l’innocente coinvolto. Perché “il di più, viene dal maligno”. Amen.

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11.38 – IL DISCORSO ECCLESIOLOGICO 9: SETTANTA VOLTE SETTE (Matteo18.21,22)

11.38 – Il discorso ecclesiologico 9, settanta volte sette (Matteo 18. 21,22)

 

21Allora Pietro gli si avvicinò e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». 22E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.

 

            Leggendo anche velocemente i versi precedenti notiamo che i discepoli, pur ascoltando con attenzione le parole del loro Maestro, compresero l’importanza del perdóno, ma non quelle della preghiera comunitaria soprattutto riguardo l’ultima frase, “Perché dove due o tre sono riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro”. Infatti Pietro, colpito dal discorso sulla “colpa”commessa da un fratello e sulle iniziative da attuare per regolarla, si chiese se vi fosse un limite a questo, visto che Gesù non lo aveva specificato. Probabilmente l’apostolo aveva presente che il Talmud prescriveva che si dovesse perdonare non più di tre volte, deduzione tratta da Amos 2.4-6 e Giobbe 33.29,30: “Così dice il Signore: «Per tre misfatti di Giuda e per quattro non revocherò il mio decreto di condanna, perché hanno rifiutato la legge del Signore e non ne hanno osservato i precetti, si sono lasciati traviare dagli idoli che i loro padri avevano seguito. Manderò il fuoco a Giuda e divorerà i palazzi di Gerusalemme». Così dice il Signore: «Per tre misfatti d’Israele e per quattro non revocherò il mio decreto di condanna, perché hanno venduto il giusto per denaro e il povero per un paio di sandali, essi che calpestano come la polvere della terra la testa dei poveri, e fanno deviare il cammino dei miseri, e padre e figlio vanno dalla stessa ragazza, profanando così il mio santo nome»”. Qui vediamo che è il quattro a determinare l’irrevocabilità del “decreto di condanna”. Il passo citato di Giobbe poi parla dell’esperienza del giusto: “Egli si rivolgerà agli uomini e dirà: «Avevo peccato e violato la giustizia, ma egli non mi ha ripagato per quello che meritavo, mi ha scampato dal passare per la fossa e la mia vita contempla la luce». Ecco, tutto questo Dio fa due, tre volte per l’uomo, per far ritornare la sua anima dalla fossa e illuminarla con la luce dei viventi”.

Pietro, quindi, conoscendo il significato del numero tre e consapevole dell’importanza del perdóno quale metodo per il mantenimento della vita fraterna, spontaneamente interpreta la quantità di volte in cui una colpa può venire rimessa fino a sette, cifra che allude alla perfezione più del tre: tre è il numero di Dio, quattro è quello dell’uomo e sette è la loro somma dalla quale si deduce facilmente che è lì che si trova la completezza dei due elementi, poiché la creazione è stata fatta in funzione dell’essere umano e per la sua vita, che doveva essere eterna anche sul pianeta creato. L’apostolo aveva allora capito non solo l’importanza del perdóno, ma anche quanto fosse importante, fondamentale esercitarlo non alla luce degli scritti antichi, ma di quel periodo nuovo che sarebbe sfociato nella dispensazione della Grazia che il suo Maestro stava istituendo. Ricordiamo le parole in Luca 17.4, che completano le parole di Matteo in cui il sette è usato per indicare un numero indefinito di volte: “Se il tuo fratello commetterà una colpa, rimproveralo; ma se si pentirà, perdonagli. E se commetterà una colpa sette volte al giorno contro di te e sette volte ritornerà a te dicendo: «Sono pentito», tu gli perdonerai»”. Da notare anche i tre “se”, riferiti ad eventualità che portano colpa e pentimento, e il “ma”a lui connesso che modifica la posizione di chi ha agito male.

Nel racconto di Matteo, invece, è Gesù a intervenire con Pietro, e per riflesso su tutti gli altri. Lo fa rispondendo numericamente escludendo che il perdóno fosse qualcosa di cui tenere la contabilità: “settanta volte sette”dà come risultato 490, cifra non impossibile da annotare, ma il cui significato si comprende da ciò che il 70 e il 7 significano. Spesso accade, in questi scritti, di riflettere sui numeri per cui, essendo un tema trattato basilarmente, possiamo lavorare sul settanta, importante perché prodotto del 7×10, cioè della cifra della perfezione come 3+4 e, per il 10, di ciò che il Signore si aspetta dall’uomo. Ciò raffigurato dai comandamenti in cui, anche lì, abbiamo una cifra importante, essendovene 4 per la relazione con YHWH e 6 tra esseri umani, che diventano così dieci.

Il settanta è un numero non semplice a svilupparsi, perché contiene significati a volte opposti tra loro, implica tanto benedizione quanto un giudizio di Dio, oltre ad altri elementi: abbiamo infatti le parole di assurda rivendicazione di Lamec, figlio di Caino, che ponendosi in una posizione che non aveva dichiarò che “Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamec settanta volte sette”(Genesi 4.24), non “settantasette”come altri traducono. Ricordiamo sempre in proposito che il male è una forza che spinge chi lo commette a non fermarsi e questo si trasmette alla sua discendenza: l’omicida di Abele, accecato non tanto dall’invidia e dall’odio, ma a monte da un Io spropositato, generò un individuo che giungerà addirittura a voler rivaleggiare con Dio sulla terra.

Ricordiamo il settanta come numero di condizione perché il Signore lo moltiplichi, come nel caso della famiglia di Giacobbe che entrò in Egitto con questa quantità di persone che componevano la sua famiglia “tutte le persone della famiglia di Giacobbe che entrarono in Egitto, ammontano a settanta”(Genesi 47.27) e, a sottolineare l’importanza del lutto conseguente alla morte del patriarca, tali furono i giorni in cui lo piansero (50.3).

Ancora, da tenere presente Esodo 15.27 e Numeri 33.9 a proposito dell’oasi di Elim: lì il popolo si ritrovò dopo essere uscito dall’Egitto, quando “Partirono da Mara e giunsero ad Elim; ad Elim c’erano dodici sorgenti di acqua e settanta palme; qui si accamparono”. Qui alcuni intravedono gli apostoli e i settanta(due) discepoli inviati in missione da Gesù, anche se a mio parere con questi numeri vengono ricordati al tempo stesso l’amore e la potenza progettuale di Dio per il Suo popolo, che allora lo doveva rappresentare sulla terra, e quello che si sarebbe costituito un giorno.

Sempre restando negli scritti dell’Antico Patto, ricordiamo la risposta alla preghiera di Mosè quando, non riuscendo più a gestire efficacemente le questioni del popolo lui affidato – ricordiamo le sue parole, “Non posso io da solo portare il peso di tutto questo popolo, è troppo pesante per me”–  ebbe questa risposta: “Radunami settanta uomini tra gli anziani di Israele, conosciuti da te come anziani del popolo e come loro scribi, conducili alla tenda del convegno; vi si presentino con te. Io scenderò e lì parlerò con te; toglierò dello spirito che è su di te e lo porrò su di loro, e porteranno insieme a te il carico del popolo e tu non lo porterai più da solo”. Anche qui vediamo il settanta come premessa perché Dio – e non certo l’uomo – agisca.

Settanta è anche un limite, elemento su cui meditare per mettersi alla ricerca di ciò che è al di là, l’oltre, come in Salmo 90.10: “Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti; e il loro agitarsi è fatica e delusione; passano presto e noi voliamo via”. Guardando a questa cifra, allora, vediamo il limite severo all’esistenza orizzontale, riassunta nella “fatica e delusione”, nel passare “presto”, cosa che accadrebbe anche se gli anni venissero moltiplicati perché l’uomo, quando è incapace di misurare i propri giorni alla luce dello Spirito, di essi non sa che farsene e la prova concreta di ciò la vediamo nel fatto che rifiuta l’idea della morte.

Abbiamo parlato all’inizio del settanta come giudizio, ma in realtà questo termine così immediato si addice a lui solo in parte, comprendendo sì un provvedimento negativo di Dio – ricordiamo le parole di Geremia 25.11 “Tutta questa regione sarà distrutta e desolata e queste genti serviranno il re di Babilonia per settant’anni”–, ma anche il tempo fissato perché il Progetto del Regno si compia, con la gioia o la disperazione degli uomini a seconda di dove avranno scelto di collocarsi, come detto a Daniele dall’Angelo Gabriele in 9.24, “Settanta settimane sono fissate per il tuo popolo e per la tua santa città per mettere fine all’empietà, mettere i sigilli ai peccati, espiare l’iniquità, stabilire una giustizia eterna e suggellare visione e profezia e ungere il Santo dei Santi”.

Questi, in sintesi, sono i versi che mi sento di applicare al numero oggetto di riflessione. In realtà ce ne sono molti di più, ma tutti raggruppabili sotto le categorie base che abbiamo esaminato. “Settanta volte sette”è allora il tutto, il possibile, il finito che non ha un limite perché, sotto questo aspetto, esercitare il perdono equivale a entrare, se vogliamo, in un percorso circolare: “Se perdonerete agli altri le loro colpe– che avranno riconosciuto –, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche voi; ma se non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe”(Matteo 6.14,15). Anche qui, allora, torniamo ad un aspetto del “legare”e “sciogliere”, del “rimettere i peccati”oppure no, azioni che non hanno nulla a che vedere con la permalosità di un individuo che, se presente in lui, necessita di rivedere molti aspetti della sua vita perché, a prescindere dall’età che possa avere, non ha ancora abbandonato quegli elementi che lo caratterizzavano da bambino. Il concetto di Matteo 6, quindi appartenente al sermone di Gesù sul monte, fu da lui specificato in Marco11.25,26: “Quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro qualcuno, perdonate, perché anche il Padre vostro che è nei cieli perdoni a voi le vostre colpe”dove il “perdonate”significa porsi in attesa che la controparte si penta, pregando per lei, e non conservare astio o sentimenti di offesa nei suoi confronti.

Concludendo, il “settanta volte sette”dato da Nostro Signore in risposta alla domanda di Pietro, ci parla dell’atteggiamento naturale che deve avere il cristiano di fronte alla richiesta di perdóno, che va dato dimenticando l’accaduto, senza conservarlo per recriminazioni successive anche quando chi è stato già perdonato, eventualmente, ricommette lo stesso errore. Ricordiamo la frase in Isaia 43.25 “Io, io cancellerò i tuoi misfatti per amore di me stesso e non ricorderò più i tuoi peccati”.E chi porrà un punto fermo su tutto questo sarà l’apostolo Paolo che, scrivendo ai credenti della Chiesa di Roma, in 12.21, inviterà a provvedere in merito con le parole “Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene”. Amen.

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11.37 – IL DISCORSO ECCLESIOLOGICO 8: CONCORDIA E PRESENZA (Matteo18.18.20)

11.37 – Il discorso ecclesiologico 8, concordia e presenza (Matteo 18. 18-20)

 

18In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo. 19In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. 20Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro.

 

            Riportiamo il verso 18, affrontato nello scorso capitolo, perché strettamente connesso ai due successivi: qui Gesù mostra la Sua Chiesa come un organismo che agisce sotto un’autonomia responsabile, in Sua assenza fisica, fedele ai suoi compiti perché animato dal di Lui timore, termine che, più che alla paura, fa riferimento alla consapevolezza della Persona con la quale si ha a che fare: Gesù non si può ingannare e il fatto che “scruti i nostri pensieri”e dia “la giusta retribuzione”a seconda di come operiamo credo basti. Una Comunità i cui membri hanno cercato e trovato, hanno abbandonato gli elementi del mondo in modo tale che non ne sono più dominati, cui preme una fedeltà reale e non nominale alla Parola di Dio, potrà veramente “legare” e “sciogliere”, ma anche realizzare la promessa del verso successivo, sostenuta dall’Amen di Cristo: “In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà”.

Cercando ora di esaminare queste parole possiamo fare la prima sottolineatura, a parte sull’autorevolezza rappresentata dall’ ”amen”, sull’indicazione del luogo, “sulla terra”, qui usata per ricordare tanto la distanza quanto la vicinanza di Dio al Suo popolo nonostante le dimensioni che caratterizzano entrambi, la “terra”e il “cielo”, perché“In un luogo eccelso e santo io dimoro, ma sono anche con gli oppressi e gli umiliati, per ravvivare lo spirito degli umili e rianimare il cuore degli oppressi”(Isaia 57.15). E il ponte tra le due identità, uomo e Dio, è lo Spirito Santo. In un precedente capitolo, riguardo ai differenti luoghi in cui entrambe operano, è stato ricordato il verso “Non essere precipitoso con la bocca e il tuo cuore non si affretti a proferire parole davanti a Dio, perché Dio è in cielo e tu sei sulla terra; perciò siano poche le tue parole”(Ecclesiaste – o Qoèlet – 5.1).

Veniamo ora alla premessa espressa nel verso 19, purtroppo interpretata alla lettera da molti intendendo quel “qualunque cosa”come ciò che è a loro capriccio, riconoscendo a questa espressione un potere quasi magico, ma dimenticandosi che le parole di Gesù, non solo qui, vanno lette in senso spirituale, quello che allora gli Apostoli né i discepoli erano in grado di fare. Non è escluso che loro stessi, ascoltandole, le abbiano interpretate in questo modo, ma furono poi da loro inquadrate correttamente una volta disceso lo Spirito Santo.

Vediamo ora le promesse di Nostro Signore in tal senso, fermo restando che si tratta di un impegno preciso che Lui stesso si assume. Il primo passo è rivolto a tutti gli uomini e donne alla Sua ricerca: “Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve, e chi cerca trova, e a chi bussa sarà aperto”(Matteo 7.7). Si tratta di un appello a non desistere, a chiedere, cercare e bussare, tutte azioni che denotano uno stato di necessità dimostrato da chi lo compie. Soprattutto una volta trovato e che ci è stato aperto, ecco il chiedere come pratica costante, poiché tutto il verso è caratterizzato da una libertà incondizionata in quanto non viene indicato un limite massimo di volte in cui chiedere o bussare. Dio ha un ufficio, o un “negozio” dove comprare “senza denari e senza prezzo”che non è aperto “dalle – alle”, ma sempre.

Promesse importanti le troviamo in (Matteo) 21.22 “…e tutto ciò che chiederete con fede nella preghiera, lo otterrete”e in Giovanni 14.13, stretto parente del verso che stiamo esaminando: “Qualunque cosa chiederete nel mio nome, la farò, perché il Padre sia glorificato nel Figlio. Se mi chiederete qualcosa nel mio nome, io la farò”. Anche qui abbiamo “qualunque cosa”, ma anche “nel mio nome”, precisazione che sostiene la responsabilità che ci assumiamo nella preghiera che in molte assemblee cristiane si usa concludere così quasi come una forma rituale, purtroppo spesso dimenticando che “nel nome di Gesù” è compreso ciò che Lui approva ed è, quindi è riferita al cammino sotto la Sua guida. Infatti così scrive l’apostolo Giovanni nella sua prima lettera: “Se il nostro cuore non ci rimprovera nulla, abbiamo fiducia in Dio, e qualunque cosa chiediamo, la riceviamo da lui perché osserviamo i suoi comandamenti e facciamo quello che gli è gradito”. E qui troviamo delle prime tracce, delle indicazioni viste in quel “se”, che tante volte e non solo qui viene sottovalutato, quando in realtà un “se”nella vita del cristiano c’è sempre ed è quello che fa la differenza in tante circostanze che lo riguardano.

Cominciamo così a mettere a fuoco il significato di quanto promesso da Gesù anche in 5.14,15: “E questa è la fiducia che abbiamo in lui: qualunque cosa gli chiediamo secondo la sua volontà, egli ci ascolta. E se sappiamo che ci ascolta in tutto quello che gli chiediamo, sappiamo di avere già da lui quanto gli abbiamo chiesto”. Credo che qui sia quel “secondo la sua volontà”a determinare la risposta, che certo può valere anche per le nostre esigenze materiali, perché altrimenti la preghiera del “Padre Nostro”non sarebbe stata insegnata. In Giacomo 5.14-18 leggiamo “Chi tra voi è nel dolore, preghi; chi è nella gioia, canti inni di lode. (…) molto potente è la preghiera efficace del giusto”. Prima di pregare, quindi, è necessario un esame, per vedere se possiamo accostarci al Padre considerati come aventi diritto a farlo, secondo la Sua Parola oppure no, e in questo caso porvi rimedio. Giacomo poi passa a descrivere la preghiera del singolo citando un esempio illustre: “Elia era un uomo come noi: pregò intensamente che non piovesse, e non piovve sulla terra per tre anni e sei mesi. Poi, pregò di nuovo e il cielo diede la pioggia e la terra produsse il suo frutto”,anche qui riferita ad un fatto di testimonianza e non perché Elia si servisse di quel miracolo per fini personali.

Mi sono chiesto se, negli scritti del Nuovo Patto, fosse possibile trovare una conferma al verso in esame, vale a dire la promessa dell’esaudimento di una preghiera della Comunità concorde, caratteristica che aveva appunto la prima Chiesa come in Atti 1.14: “Tutti questi– a quel tempo gli undici – erano perseveranti e concordi nella preghiera, insieme ad alcune donne e a Maria, la madre di Gesù, e ai fratelli di lui”. Ebbene, leggiamo 12. 5-12 che riferisce un episodio avvenuto tempo dopo: “Mentre Pietro era in carcere, dalla Chiesa saliva incessantemente a Dio una preghiera per lui. In quella notte, quando Erode stava per farlo comparire davanti al popolo, Pietro, piantonato da due soldati e legato con due catene, stava dormendo, mentre davanti alle porte le sentinelle custodivano il carcere. Ed ecco, gli si presentò un angelo del Signore e una luce sfolgorò nella cella. Egli toccò il fianco di Pietro, lo destò e disse: «Àlzati, in fretta!». E le catene gli caddero dalle mani. L’angelo gli disse: «Mettiti la cintura e légati i sandali». E così fece. L’angelo disse: «Metti il mantello e seguimi!». Pietro uscì e prese a seguirlo, ma non si rendeva conto che era realtà ciò che stava succedendo per opera dell’angelo: credeva invece di avere una visione.Essi oltrepassarono il primo posto di guardia e il secondo e arrivarono alla porta di ferro che conduce in città; la porta si aprì da sé davanti a loro. Uscirono, percorsero una strada e a un tratto l’angelo si allontanò da lui. Pietro allora, rientrato in sé, disse: «Ora so veramente che il Signore ha mandato il suo angelo e mi ha strappato dalla mano di Erode e da tutto ciò che il popolo dei Giudei si attendeva». Dopo aver riflettuto, si recò alla casa di Maria, madre di Giovanni, detto Marco, dove molti erano riuniti e pregavano”.

 

Altra domanda che ci possiamo fare è se esista differenza fra la preghiera del singolo e quella comunitaria, e la risposta va inquadrata in modo direttamente proporzionale al progetto esistente, poiché ciascun credente è testimone dell’aiuto multiforme che riceve da Dio individualmente, ma la Chiesa, quindi tutti i suoi membri, hanno dovere di pregare per il suo sviluppo e perché possano testimoniare in modo efficace, più opportuno, per portare delle anime a Cristo. Ecco perché abbiamo letto recentemente che, dopo la preghiera Comunitaria, tremarono i muri del luogo in cui la Chiesa era ospitata.

Può essere di consolazione sapere che la preghiera ha una funzione temporanea, vale a dire fino a quando saremo presenti su questa terra, come dalle parole che Gesù disse ai Suoi: “Così anche voi, ora, siete nel dolore; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà, e nessuno potrà togliervi la vostra gioia. Quel giorno non mi domanderete più nulla”(Giovanni 16.22,23). E qui Nostro Signore parla tanto di quando si manifesterà a loro dopo la sua risurrezione, quanto dell’incontro finale dei credenti con Lui.

Veniamo così al verso 20 in cui Gesù espone una verità allora in forma embrionale, “dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”, che completa un altro passo, quello relativo alla missione data ai discepoli “Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”(Matteo 28.20.

Gesù è allora con il singolo, sempre, ma la Sua presenza si realizza nella Chiesa composta dai “due o tre”in poi. Sappiamo già della differenza con la Sinagoga, che di persone ne richiedeva almeno dieci, lasciando in tal modo sguarniti quei piccoli centri isolati dove gli israeliti non potevano riunirsi se in numero inferiore a quello prescritto, ma senza realizzare un’assemblea. E sappiamo che la Sinagoga non era un centro culturale, ma quello in cui le persone si riunivano per essere istruite dai Maestri nella Legge, nei Profeti e negli altri libri.

Ebbene, la Chiesa è tale anche con due persone, cui spetta la responsabilità di pregare perché il Signore voglia farla crescere, cosa che certamente avverrà se lo spirito di servizio e la concordia animeranno questo primo nucleo che sarà in grado non di far proseliti, ma di vivere, progredire e soccorrere quelle anime alla ricerca di Dio. Ecco allora che anche Marco 11.24, “Tutto quello che chiedete nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto e vi accadrà”, alla luce dello sviluppo che abbiamo fatto, implica la consapevolezza di cosa si chiede: la risposta del Padre non potrà mancare proprio perché la Chiesa avrà posto le premesse per la realizzazione dell’esaudimento. Sono convinto che questo, e non altro, rientri nel “qualunque cosa”che verrà ottenuto dal Padre. E che il resto, avendo cercato prima il “Regno di Dio”, verrà dato in aggiunta. Amen.

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11.36 – IL DISCORSO ECCLEIOLOGICO 7: IL RAPPORTO FRATERNO II (Matteo 18.15-18)


11.36 – Il discorso ecclesiologico 7, il rapporto fraterno II (Matteo 18. 15-18)

 

15Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; 16se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni.17Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano. 18In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo.

 

            Prima di affrontare questa seconda parte, che inizia dal verso 16, occorre ricordare che quanto esposto da Nostro Signore è solo in apparenza una procedura da seguire letteralmente perché, se si guardasse solo a quella, faremmo di queste parole un manuale di istruzioni e perderemmo di vista la sostanza, volta al recupero della persona che ha agito in maniera inopportuna nei confronti di un fratello, o sorella, oltre che a fare emergere lo spirito che la anima concretamente. Scopo di quanto descritto è quello di responsabilizzare il soggetto di fronte a un errore che solo la dinamica dell’episodio potrà determinare, ad esempio, come volontario o involontario, giustificato oppure no, come quell’ “adiratevi e non peccate”citato nel capitolo scorso in cui l’ira o lo sfogo in un determinato contesto non è visto come qualcosa di illegittimo, mentre lo è quando avviene in modo incontrollato.

Ricordiamo le parole del verso 11, “se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello”, collegabile a Proverbi 9.7-9 e 15.12: “Chi corregge il beffardo si attira insulti, chi riprende l’empio riceve affronto. Non riprendere il beffardo, per evitare che ti odi; riprendi il saggio, e ti amerà. Istruisci il saggio, e diventerà più saggio che mai; insegna al giusto e accrescerà il tuo sapere”. Spiega il principio il secondo passo, “Il beffardo non ama che altri lo riprenda; egli non va dai saggi”. Anche qui, oltre a venire rimarcato l’abisso che separa chi appartiene all’una o all’altra categorie di persone, abbiamo la possibilità di raccordarci alle parole di Gesù in esame, tese, come detto, a far emergere lo spirito della persona perché, in sostanza, “il saggio”è impossibile che non ascolti un’osservazione obiettiva e ragionata di un fratello, o di questo accompagnato dai “due o tre testimoni”qualora il primo tentativo non raggiunga il risultato sperato.

Le parole “prendi con te una o due persone”è poi un chiaro riferimento a Deuteronomio 19.15: “Un solo testimone non avrà valore contro alcuno, per qualsiasi colpa e per qualsiasi peccato; qualunque peccato uno avrà commesso, il fatto dovrà essere stabilito sulla parola di due o tre testimoni”ed ecco perché, prima di dirlo “alla comunità”, è necessaria la presenza di più persone al confronto con chi ha commesso l’errore. Possiamo osservare che la testimonianza di più persone, all’epoca della Legge, contribuiva a rendere il fatto concreto potendo ogni testimone nella possibilità di riferire particolari e dettagli che magari erano sfuggiti ad un altro; ciò avveniva in modo più o meno concorde, da valutarsi da parte di chi era chiamato a giudicare quanto realmente avvenuto.

Trasportando poi il verso di Deuteronomio alle parole di Gesù, la presenza dei testimoni non ci parla di un processo in atto, cioè del fatto che i “due o tre”svolgano una semplice presenza per poi riferire quanto accaduto, ma di un fatto costruttivo: la loro partecipazione è giustificata dal fatto che il primo tentativo di conciliazione non ha avuto l’esito sperato, ma è richiesta la presenza di persone mature, “abituate a discernere il bene dal male”e pertanto in grado di esprimere pareri e consigli tesi a redimere la questione. I “testimoni”in questione, quindi, non sono chiamati a registrare ogni parola tenendosi in disparte, ma a rendersi conto delle ragioni dell’uno e dell’altro, valutare lo spirito che muove entrambi senza parteggiare per nessuno dei due, chiamati a valutare anche in previsione di quanto verrà poi riferito alla Chiesa. Il fatto che i testimoni siano parte attiva in questa operazione è confermato dal verso 17, e cioè “se disdegna di ascoltarli, dillo alla Chiesa”: “ascoltarli”, non “riceverli”.

Credo sia importante sottolineare che questa procedura è ben lontana da quella prevista per una querela o a un processo per calunnia che si celebra nei nostri tribunali, ma a difesa di quell’equilibrio che, se viene a mancare in una Chiesa o Comunità, la rende inevitabilmente sterile e la porta poco a poco allo spegnimento, come dalle parole di Apocalisse 2.5 in cui leggiamo “Se non ti convertirai, verrò a te e toglierò il tuo candelabro dal suo posto”. Quando infatti una Chiesa è animata da spirito di parte e non da quello Santo, quando il compromesso e il portare avanti posizioni umane non viene combattuto in egual misura da tutti i suoi membri, ecco che arriva il fallimento, l’incapacità di testimoniare e predicare il Vangelo di Gesù Cristo. Ed ecco perché, quando una Chiesa si raduna, è richiesto che ogni suo componente si misuri alla luce di Esodo 23.15, 34.20, Deuteronomio 15.13 e 16.16, tutti riportanti il medesimo concetto – si noti che i versi sono quattro –: ”Non si dovrà comparire davanti a me a mani vuote”, cioè prive di un frutto che siamo chiamati a portare continuamente perché è nell’Assemblea che il Signore è presente secondo la Sua promessa e scruta i cuori per vedere chi si presenta a Lui degnamente.

L’Assemblea cristiana infatti non si concreta né si può realizzare, risolvere in un rito religioso, ma nel contributo spirituale che ciascuno porta, nel desiderio di incontro e sostegno tra fratelli e sorelle che non fanno parte di un ordine o un’associazione più o meno benefica, ma adorano “in spirito e verità”Dio Padre e Gesù Cristo. Purtroppo, molti oggi hanno perso di vista questo principio e così le Chiese poco a poco si spengono a livello non solo di comunione fraterna, ma soprattutto nei confronti della potenza del Vangelo. Ricordiamo quanto si verificò in Atti 4.31: “Quando ebbero terminato la preghiera, il luogo in cui erano radunati tremò e tutti furono ripieni di Spirito Santo e annunziavano la parola di Dio con franchezza”.E sottolineiamo che tale manifestazione avvenne dopo una preghiera molto particolare, in cui si richiedeva l’assistenza perché il Vangelo fosse annunciato: “E ora, Signore, volgi lo sguardo alle loro minacce– Erode, Pilato e Israele – e concedi ai tuoi servi di proclamare con tutta franchezza la tua parola, stendendo la tua mano affinché si compiano guarigioni, segni e prodigi nel nome del tuo santo servo Gesù”. I presenti, cioè, si preoccuparono del recupero di quanti avrebbero creduto grazie al porgere il Vangelo nei modi opportuni per ciascuno e non dei loro problemi personali, come sappiamo fece Salomone quando, guardando alla sua persona e riconoscendosi mancante di sapienza per reggere il governo del suo popolo, la chiese, come più volte ricordato.

Tornando al nostro testo, vediamo la terza ed ultima soluzione nel caso la questione tra i due interessati non possa venire risolta: “Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità, e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano o il pubblicano”. Anche qui la Chiesa, o Comunità, è vista non come un organismo che difende i torti o le ragioni, ma guarda al principio, valuta i pro e i contro in modo spirituale per rimuovere quanto si è venuto a creare nell’interesse non di una norma, ma delle ragioni che hanno portato alla sua istituzione. E la Comunità è qui vista non a livello di insieme completo, ma di quei credenti ancora una volta in grado di esprimere un giudizio maturo e responsabile, come raccomandato più volte nelle lettere di Paolo, già applicato dagli Apostoli nella primitiva Chiesa. Abbiamo parlato di offese, ma teniamo presente che queste comprendono uno spazio molto più ampio di argomenti, come possono essere delle posizioni dottrinali che una persona può assumere, in contrasto a quanto stabilito unitariamente; ricordiamo ad esempio Atti 15.6 quando, a fronte dell’affermazione in base alla quale la circoncisione dovesse essere applicata a chi si convertiva, leggiamo “Allora si riunirono gli apostoli e gli anziani per esaminare questo problema”.

Un verso che fa da “ponte” ed amplia la panoramica della “colpa”circa gli equilibri che la Chiesa è chiamata a difendere è da vedersi in Romani 16.17,18 “Vi raccomando poi, fratelli, di guardarvi da coloro che provocano divisioni e ostacoli contro l’insegnamento che avete appreso: tenetevi lontani da loro. Costoro, infatti, non servono Cristo Nostro Signore, ma il proprio ventre e, con belle parole e discorsi affascinanti, ingannano il cuore dei semplici”. “Belle parole e discorsi affascinanti”sono collegati a quei concetti che possono suscitare la curiosità istintiva umana e interpretano, altrettanto umanamente, contenuti spirituali servendo il realtà “il proprio ventre”, espressione che si riferisce a ciò che non ha a che vedere neppure con la semplice intelligenza. Questi ragionamenti, come scritto da Paolo, “ingannano il cuore dei semplici”, cioè di coloro che stanno imparando e sono molto più vulnerabili rispetto a chi ha già effettuato un percorso di fede e confronto con la Parola di Dio.

“Sia per te come il pagano e il pubblicano”è una frase forte, che non necessita di un gran commento, poiché sappiamo che per gli ebrei tanto l’uno che l’altro erano persone ritenute impure e con le quali nessuno aveva a che fare.

È invece meritevole di attenzione l’ultimo verso, il 18, perché stabilisce l’autorità data alla Chiesa, guidata dallo Spirito Santo nel “legare”o “sciogliere”, espressione che sta a significare rendere legale o illegale una cosa oltre che porre dei vincoli, aprire o chiudere una posizione dottrinale proprio come, ad esempio, fecero gli apostoli con l’esempio di Atti 15.6 che abbiamo citato, poi risolto ai versi 19 e 20. La Chiesa è allora chiamata a intervenire, come “colonna e sostegno della verità”, in tutte quelle questioni che ogni credente può sempre porre per i problemi più svariati, e dare delle risposte e provvedimenti perché altrimenti non sarebbe tale nel senso che, non agendo, dimostrerebbe di non avere un mandato. E qui si apre un discorso assolutamente vasto, credo impossibile a svilupparsi in poco né in molto spazio. “Legare”o “Sciogliere”è una responsabilità che possono assumersi in pochi, al contrario di quanto spesso avviene perché la vera sottomissione al Signore e allo Spirito è cosa rara e le “chiavi”verranno consegnate a Pietro solo dopo la discesa dello Spirito Santo e una sua provata maturazione, non prima. Ora, vediamo che queste vengono date anche alla Chiesa, ma quanti oggi sono in grado di usarle? Ricordiamo anche Giovanni 20.23, “A coloro cui perdonerete i peccati, saranno perdonati, a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati”che ha stretta attinenza con quanto esaminato e non può essere applicato alla confessione auricolare, ma rientra proprio con quanto fin qui esaminato. E il perdono è una cosa molto seria, che comprende tante situazioni che comportano il pentimento perché questo possa verificarsi perché altrimenti si cadrebbe “…sotto il potere di Satana, di cui non ignoriamo le intenzioni”(2 Corinti 2.11).

Concludendo: quando la Chiesa stabilisce che una persona debba essere considerata “come il pagano o il pubblicano”significa che quella, per le posizioni assunte di fronte a lei e non tanto di fronte a un fratello a seguito di una semplice contesa o torto, non è in possesso di quelle caratteristiche interne che portano inevitabilmente un frutto di amore, pace e fedeltà alla Parola.

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11.35 – IL DISCORSO ECCLESIOLOGICO 6: IL RAPPORTO FRATERNO I (Matteo 18.15-18)

11.35 – Il discorso ecclesiologico 6, il rapporto fraterno I (Matteo 18. 15-18)

 

15Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; 16se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni.17Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano. 18In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo.

 

            È la parola del verso 17, qui tradotta con “comunità”, letteralmente “assemblea”e da altri “Chiesa”che troviamo la giustificazione al titolo di queste riflessioni, “il discorso ecclesiologico”, perché qui, per la prima volta nei discorsi di Gesù riservati ai discepoli, si parla di qualcosa che va oltre alla Sinagoga ebraica, che mai avrebbe avuto il potere di“legare e sciogliere”correlato a ciò che è “in cielo”. Ricordiamo anche le due scuole rabbiniche di Hillel e Shammai, la prima più rigida e l’altra più elastica nell’interpretazione della Legge, che però non ebbero alcun potere in tal senso. Sempre per la prima volta, poi, viene descritta la comunità dei credenti come un organismo vivo, chiamato ad agire e operare anche al suo interno e non solo nella predicazione del Vangelo, in quanto composta da esseri umani che, nonostante la chiamata ad essere “santi”, possono sbagliare e non essere effettivamente liberati da quegli elementi tipici del mondo che li hanno caratterizzati prima della loro salvezza. Per molti queste parole possono costituire un controsenso, ma dobbiamo pensare che riguardano l’uomo nel profondo e dimenticano che, se Cristo li ha liberati dal peccato, non significa che di colpo hanno raggiunto la perfezione, ma sono stati posti nella condizione di perseguire un cammino di verità che richiede lo spogliarsi costante dell’ “uomo vecchio”con tutte le sue prepotenti esigenze.

Ricordiamo in proposito alcuni passi importanti, il primo dei quali già citato: “Celebriamo la festa – la Pasqua, quindi il memoriale– non con il lievito vecchio, né con lievito di malizia e di perversità, ma con azzimi di sincerità e di verità”(1 Corinti 5.8), invito rivolto a quei credenti che non si sono ancora liberati del “lievito vecchio”, ma ancor di più Efesi 4.17-32 che descrive in modo perfetto ciò che eravamo e ciò che siamo, o dovremmo essere, condizionale che non ammetterà scusanti quando ci troveremo davanti a Lui nel “rendiconto”: “Vi dico dunque e vi scongiuro nel Signore– notiamo l’appello accorato dell’Apostolo – : non comportatevi più– perché il ricordo di quelle azioni non è scomparso e neppure il loro richiamo – come i pagani con i loro vani pensieri, accecati nella loro mente, estranei alla vita di Dio a causa dell’ignoranza che è in loro e della durezza del loro cuore. Così, diventati insensibili, si sono abbandonati alla dissolutezza e, insaziabili, commettono ogni sorta di impurità. Ma voi– ecco l’identità nuova – non così avete imparato a conoscere il Cristo, se davvero gli avete dato ascolto e se in lui siete stati istruiti, secondo la verità che è in Gesù, ad abbandonare, con la sua condotta di prima, l’uomo vecchio che si corrompe seguendo le passioni ingannevoli, a rinnovarvi nello spirito della vostra mente e a rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità”.

In questa prima parte, allora, Paolo ricorda ciò che gli Efesi erano e ciò che sono, situazione che può dirsi ed essere stabile solo se la condotta dell’uomo vecchio viene abbandonata e si pone in opera il rinnovamento, azione che non finisce mai. Il testo prosegue: “Perciò, bando alla menzogna e dite ciascuno la verità al suo prossimo, perché siamo membra gli uni degli altri. Adiratevi, ma non peccate; non tramonti il sole sopra la vostra ira, e non date spazio al diavolo. Chi rubava non rubi più, anzi lavori operando il bene con le proprie mani, per poter condividere con chi si trova nel bisogno. Nessuna parola cattiva esca dalla vostra bocca, ma piuttosto parole buone che possano servire per un’opportuna edificazione, giovando a quelli che ascoltano. E non vogliate rattristare lo Spirito Santo di Dio, con il quale foste segnati per il giorno della redenzione. Scompaiano da voi ogni asprezza, sdegno, ira, grida e maldicenze con ogni sorta di malignità. Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato voi in Cristo”.

Ecco, quanto letto possiamo definirlo un appello,  un richiamo accorato a riconoscere i difetti ancora presenti in noi per operare alla loro eradicazione esattamente come quando, poco prima nel suo discorso, Nostro signore aveva parlato della necessità di amputare la mano, il piede e/o l’occhio a seconda della “concupiscenza”che attrae ciascun membro della Chiesa. E ricordiamo ancora Colossesi 3.10,11 che ricorda quanto avvenuto in noi un giorno: “Vi siete svestiti dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova– azione quindi che si sviluppa nel tempo e non subito – per una piena conoscenza, ad immagine di Colui che lo ha creato. Qui non vi è Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro, Sciita, schiavo, libero, ma Cristo è tutto e in tutti. Scelti da Dio, santi e amati, rivestitevi dunque di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità, sopportandovi a vicenda e perdonandovi gli uni gli altri, se qualcuno avesse di che lamentarsi nei confronti di un altro. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi. Ma sopra tutte queste cose, rivestitevi della carità, che le unisce in modo perfetto”.

Appare ora evidente che, nei passi dell’Apostolo citati, la divisione netta fra chi appartiene a Dio e chi no, quindi tra “uomo vecchio”e “uomo nuovo”, diventa tale solo nel momento in cui chi ha creduto sceglie di aderire al progetto di Dio in prima persona, cioè operando in sé affinché il Signore sia posto nella condizione di agire attraverso il suo Santo Spirito; viceversa, quanto viene letto e la partecipazione alle riunioni dell’Assemblea resteranno solo atti compiuti senza altro scopo che quello dell’apparenza e della soddisfazione della carne, di quella sua parte erroneamente definita “spirituale”.

 

Fatta questa importante premessa, possiamo affrontare quanto detto da Gesù ai discepoli che, in questo intervento, forse allude a quella discussione animata avvenuta poco prima, quando vi era stata la discussione tra chi di loro fosse “il maggiore”, cioè il più importante, il più atto a comandare sugli altri, o il preferito dal Maestro. Ancora, ricordiamo quando si erano rivolti accuse reciproche perché si erano ritrovati con un solo pane sulla barca, insufficiente a sfamarli. Possiamo dire che sicuramente quanto avvenuto nei due episodi era qualcosa di tipicamente, tristemente umano e altrettanto la è l’ipotesi formulata al verso 13, “Se un tuo fratello commetterà una colpa contro di te”, dove la “colpa”, originale dal greco “peccare contro, ingiuriare”, si riferisce a torti o a litigi di natura privata. Superficialmente c’è chi è convinto che certe cose, fra veri cristiani, sia impossibile che succedano, ma qui – e non solo – emerge l’esatto contrario, anzi, vi è un richiamo a Levitico 19.17-19 “Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello; rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai di un peccato per lui. Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore. Osserverete le mie leggi”. Ed è bello considerare che, se in questo passo abbiamo delle proibizioni ferme, nelle parole che troviamo negli scritti del Nuovo Patto il motore che muove i componenti della Chiesa è l’amore che portano in e per Cristo a spingerli, che non consente l’odio covato nel cuore. L’amore per il “prossimo”viene poi purtroppo generalizzata ed estesa a chiunque, mentre in realtà è riferita a chi è “vicino”, quindi al confratello, o consorella e non può essere applicata alle persone con le quali abbiamo a che fare quotidianamente, che non fanno parte della famiglia di Dio. Non si tratta di comportarsi come dei settari, ma di dare priorità e chi la deve avere tenendo sempre presente che coloro che non conoscono l’amore di Dio possono comunque diventare suoi figli in futuro, a meno che non abbiano uno spirito di opposizione.

Possiamo dire che l’offesa e il contrasto portato da chi appartiene al mondo è naturale e inevitabile ma quella portata da un fratello, per le dinamiche che si sono instaurate, è innaturale ma possibile, e allora occorre agire affinché si pervenga ad una soluzione proprio perché quello stato di inimicizia conseguente alla “colpa”contro la persona venga a cessare: esattamente come per le amputazioni di cui Gesù ha parlato poco prima di questi versi, tese ad impedire lo sviluppo di situazioni moralmente e spiritualmente incresciose, con il “va’, e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolta, avrai guadagnato il tuo fratello”, abbiamo la cura contro il rancore, “il rancido del cuore” come qualcuno lo ha definito, che sfocerebbe inevitabilmente in astio aperto facilmente riconoscibile dagli altri componenti della Chiesa che, ignorandone le cause, potrebbero venire scandalizzati ed interrogarsi in merito senza possibilità di comprendere.

“Avrai guadagnato il tuo fratello”è il risultato del “se ti ascolta”, cioè ammette il proprio torto e qui viene chiamata in causa l’intelligenza spirituale tanto dell’una quanto dell’altra parte, poiché l’eventuale offeso deve porre amorevolmente l’offensore nelle condizioni di ammettere il proprio errore; in altri termini non basta dire “tu mi hai fatto questo”, perché altrimenti la questione verrebbe posta nello stesso ambito in cui l’offesa è stata generata e la contesa si riproporrebbe identica. Piuttosto, qui vengono chiamate in causa la verità e la carità assieme affinché il fratello sia guadagnato, cioè che la contesa cessi a vantaggio dell’amore possibile solo nel momento in cui la parte colpevole comprenda – più che ammetta, perché quello viene da sé – il proprio errore. Anche qui possiamo citare ad esempio il profeta Natan che, quando dovette far riconoscere a Davide il peccato commesso con la moglie di Uria, non andò da lui accusandolo, ma gli narrò una parabola ponendolo nella condizione di autoaccusarsi, rivelandogli successivamente che era lui ad avere sbagliato e non il personaggio ipotetico presentato (2 Samuele 12.1-12): Vi erano due uomini nella stessa città, uno ricco e l’altro povero. Il ricco aveva bestiame minuto e grosso in gran numero; ma il povero non aveva nulla, se non una sola pecorella piccina che egli aveva comprata e allevata; essa gli era cresciuta in casa insieme con i figli, mangiando il pane di lui, bevendo alla sua coppa e dormendo sul suo seno; era per lui come una figlia. Un ospite di passaggio arrivò dall’uomo ricco e questi, risparmiando di prendere dal suo bestiame minuto e grosso, per preparare una vivanda al viaggiatore che era capitato da lui portò via la pecora di quell’uomo povero e ne preparò una vivanda per l’ospite venuto da lui». Allora l’ira di Davide si scatenò contro quell’uomo e disse a Natan: «Per la vita del Signore, chi ha fatto questo merita la morte. Pagherà quattro volte il valore della pecora, per aver fatto una tal cosa e non aver avuto pietà». Allora Natan disse a Davide: «Tu sei quell’uomo»”.

Ecco allora che, porgendo ai suoi discepoli questo insegnamento, Gesù non intende esporre soltanto una formale, corretta procedura, ma sottolinea l’obiettivo primario, il “guadagnare il tuo fratello”che, “se ti ascolta”, si troverà ad essere un debitore spirituale perché, grazie a quell’intervento, sarà stato posto nelle condizioni di crescere spiritualmente avendo rimosso un’importante pietra d’inciampo nel proprio cammino. Inoltre, chiamando in causa l’intelligenza dell’offeso, avrà posto quest’ultimo nelle condizioni di utilizzare una strategia tesa non al redimere ciò che di umano si era venuto a creare, ma al ristabilimento di un equilibrio tanto necessario quanto inevitabile per entrambi perché, nel culto, la presenza dell’inimicizia e della non comunione piena non sono ammessi. L’obiettivo finale è infatti posto in risalto da Giacomo, “fratello del Signore”: “…se uno di voi si allontana dalla verità e un altro ve lo riconduce, costui sappia che chi riconduce un peccatore dalla sua via di errore lo salverà dalla morte e coprirà una moltitudine di peccati”(5.19,20). Perché siamo esenti dall’errore fino a prova contraria. Amen.

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11.34 – IL DISCORSO ECCLESIOLOGICO 5: LA PECORA SMARRITA (Matteo 18.24-27)

11.34 – Il discorso ecclesiologico 5: la pecora smarrita (Matteo 18. 24-27)

 

12Che cosa vi pare? Se un uomo ha cento pecore e una di loro si smarrisce, non lascerà le novantanove sui monti e andrà a cercare quella che si è smarrita? 13In verità io vi dico: se riesce a trovarla, si rallegrerà per quella più che per le novantanove che non si erano smarrite. 14Così è volontà del Padre vostro che è nei cieli, che neanche uno di questi piccoli si perda.

 

            Chi legge questa parabola prova, tecnicamente, un sottile senso di smarrimento perché è indubbio che sia connessa a quella, dal racconto più esteso, inserita in un gruppo di tre che trattano il recupero della persona (Luca 15.4-7), che svilupperemo più avanti quanto a testo: “Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non ascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: «rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta». Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione”. Si tratta indubbiamente di un’esposizione più ricca di dettagli, dedicata a chi si era radunato per ascoltarlo, “i pubblicani e i peccatori”, oltre che “i farisei e gli scribi”che “mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”. Nel nostro testo, più stringato, Gesù parla ai suoi. In entrambi i racconti abbiamo però gli stessi numeri, il cento e il novantanove, che vanno esaminati per capire meglio ciò che Nostro Signore volle annunciare in entrambe le circostanze.

 

Il numero cento: già il fatto che sia il risultato della moltiplicazione di 10×10 ci dà l’idea che troviamo la figura di quanto basta agli occhi di Dio non dal punto di vista della sufficienza, ma del raggiungimento delle Sue aspettative, non di più né di meno, e quindi ci parla di ciò che Lo soddisfa. Il 100 è al tempo stesso rappresentazione di una cifra precisa, mi viene da raccordarla con “il giorno e l’ora” conosciuti solo dal Padre, vista nel massimo che l’uomo può dare, come leggiamo nel risultato della germinazione dei terreni: “Un’altra parte cadde nel terreno buono e diede il frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno”(Matteo 13.8), là dove la il “terreno buono”è identificato in “colui che ascolta la parola e la comprende”(v.23). Ascolto e comprensione formano quindi un tutt’uno e siamo responsabili dell’una e dell’altra azione perché altrimenti saremmo come colui che si guarda allo specchio in Giacomo 1.23,24: “Se uno ascolta la Parola e non la mette in pratica, costui somiglia a un uomo che guarda il proprio volto allo specchio; appena si è guardato, se ne va, e subito dimentica com’era”, descrizione che purtroppo si adatta a molti.

Ricordiamo poi, tornando al tema numerico, i cento denari di debito al “servo spietato”, indice questa volta di proporzione, cioè relativi alla fattibilità del rifonderlo, i gruppi “di cento e di cinquanta”visti nel miracolo della “moltiplicazione dei pani e dei pesci”. Possiamo anche definire questo numero come quello in cui Dio e l’uomo si incontrano, perché Gesù disse “Non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la ita eterna nel tempo che verrà”(Marco 10.30). Abbiamo poi gli anni di Abrahamo quando diventò padre di Isacco, appunto cento (Genesi 21.5), contrapposti agli 86 di quando ebbe Ismaele (16.16) e ai novantanove di quando gli fu promesso un figlio da Sara.

Stante ciò che il cento rappresenta va da sé che il novantanove sia un chiaro indice non tanto di inferiorità, ma di mancanza, incompletezza di fronte alla quale si rende necessario un diretto intervento di Dio perché questa venga a cessare: qui viene raccontato di un pastore che, dopo uno dei tanti conteggi di controllo durante la giornata, si accorge che una pecora manca. Rileviamo che qui Nostro Signore parla di “pecore”, cioè di un animale ben preciso affrontato già diverse volte, ma qui direi che è necessario sottolineare che la pecora in questione è già sua, quindi il riferimento è all’uomo chi gli appartiene tanto prima che dopo avere fatto la Sua conoscenza. E sono convinto che qui, a parte le riflessioni che faremo più avanti quando esamineremo la parabola nella sua forma “completa” in Luca 15, stia la totalità del principio: Gesù disse ai Giudei “voi non credete, perché non siete delle mie pecore”(Giovanni 10.26), cioè non lo erano né lo sarebbero mai stati perché il loro “padre”era un altro (8.44). Ora il discorso si fa più sottile, perché se il cristiano salvato appartiene a Dio ed è quindi una “pecora”, in un certo senso lo era anche prima pur non essendo ancora stato chiamato e salvato: se infatti i nomi scritti nel libro della vita lo sono “prima della fondazione del mondo”, va da sé che già mentre eravamo peccatori, senza rendercene conto, avevamo degli elementi in noi che sarebbero germogliati un giorno. Per non creare fraintendimento con queste mie frasi, era come se fossimo attesi ed ecco perché il nostro nome era già scritto, conosciuto.

Qui dobbiamo prestare attenzione perché ciò non ha nulla a che vedere con la predestinazione in quanto l’uomo è sempre libero di scegliere, si trova perennemente di fronte a un bivio anche solo ogni qualvolta pensa. La decisione sulla strada da percorrere viene fatta volontariamente dalla persona e senza nessuna influenza nonostante pesino le scelte fatte anzitempo dalla propria famiglia, che di lui porta tanto la responsabilità quanto gli trasmette elementi di cui farà tesoro in seguito, nel bene e nel male. La possibilità di mutare l’indirizzo della propria vita però c’è sempre, la chiamata di Dio è per ogni uomo e soprattutto è personale, per cui personalmente si accetta o personalmente si rifiuta. Poi, a rendere pratico il verso che abbiamo visto tempo fa, “Nessuno viene a me se il Padre non lo attira”, è la somma di un’infinità di elementi, tutti volontari e valutati da Colui che è.

Il pastore “lascia le novantanove sui monti”, dove non possono smarrirsi, in un recinto o sorvegliate dai cani, e va “a cercare quella che si (è) smarrita”: deve fare fatica, tornare indietro, chiedersi la direzione che un animale come la pecora, priva di orientamento, può avere preso. Deve controllare eventuali tracce sul terreno, guardare negli anfratti, fra i cespugli, tendere l’orecchio per sentire un eventuale belato. Notiamo anche come sia esclusa la possibilità che la pecora in questione sia stata rubata, ma l’esempio vale per quella che si è persa e anche qui intravediamo la verità in base al quale “nessuno può strapparle dalla mia mano”perché la pecora può perdersi, ma non morire.

Mi sono chiesto a questo punto il perché e come un uomo possa smarrirsi e qui possiamo aprire due discorsi, il primo riguarda la vita condotta prima dell’incontro col Signore Gesù: come la pecora, vagavamo cercando di nutrirci con quel poco che riuscivamo a trovare. E c’era un senso di incompletezza, più o meno dominante. Aspirazioni che si inseguivano, ideali di vita che a volte sembravano vicini, altre si allontanavano, ma la consapevolezza di essere persi non c’era e ci si limitava a rincorrere un vuoto lontanamente consapevole. E quando siamo stati trovati, tutto è cambiato, siamo stati portati in una dimensione prima sconosciuta.

L’essere credenti, però, non ci garantisce l’ingresso in una sorta di paradiso terrestre in cui “tutto è bellissimo” e si vive perennemente con “la pace nel cuore”, ma siamo sempre in un mondo che richiede adesione, che tenta, propone modelli di vita e ideali di fronte ai quali esiste sempre il rischio di soccombere, soprattutto se non si hanno conosciuto quegli spazi e sistemi che fanno maturare. E allora anche in questo caso è facile perdersi, come la pecora della parabola che, probabilmente, è rimasta indietro nel percorso del gregge. E qui si parla comunque di un animale preciso, quindi, in base a questa seconda classificazione, di un appartenente della Chiesa, di un salvato il cui nome è scritto nel libro della vita, perché altrimenti la classificazione sarebbe diversa (ricordiamo le parole su quelli che “se sono caduti, è impossibile rinnovarli una seconda volta portandoli alla conversione”in Ebrei 6.6). Ebbene, anche qui l’opera del pastore è la stessa, si mette a cercare.

Notiamo che al verso 11 Gesù non dà per scontato il fatto che la sua ricerca abbia un esito felice: “Se riesce a trovarla”perché trovare una pecora implica tanto la messa in atto degli accorgimenti citati poco prima, quanto il chiamarla e soprattutto che lei risponda, come in effetti avviene ancora oggi, fatto di cui troviamo traccia anche nelle parole che descrivono il rapporto del Pastore: “Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono”(Giovanni 10.27). Nel nostro caso, allora, quel “Se riesce a trovarla”implica il fatto che la pecora risponda, si metta a belare per farsi sentire e sappiamo che in quel caso il ritrovamento è inevitabile.

La parabola qui esposta credo abbia un significato diverso da quella che ritroveremo in Luca, poiché, ricordando le parole citate all’inizio, leggiamo che il pastore “va in cerca di quella perduta, finché non la trova. Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici, e dice loro «Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta»”(15.5,6).

In questa di Matteo leggiamo “…si rallegrerà per quella più che per le novantanove che non si erano smarrite”, e qui abbiamo qualcosa per noi umanamente poco comprensibile: novantanove pecore sono un bel numero e una in meno, dal punto di vista del profitto, è poca cosa soprattutto secondo la mentalità dell’allevamento moderno, ma il discorso di Gesù è distante anni luce da questo ragionamento perché qui la pecora è vista come valore per la vita che porta e per il fatto che è stata affidata a quel Pastore che considera le novantanove che ha già come un dato di fatto. Quella che si è persa, però, rappresenta una sconfitta nei confronti della totalità del gregge. E infatti non a caso il testo conclude con “Così è la volontà del Padre vostro, che nessuno di questi piccoli si perda”.

Dalle parole di Gesù, come in effetti è, sembra che la perduta ritrovata abbia un valore maggiore rispetto alle altre rimaste e così è perché la considerazione che fa il Pastore di quell’animale è simbolicamente la stessa che troviamo sul figlio prodigo tornato alla casa paterna: “…questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”(Luca 15.24). Lo stesso non poteva dirsi delle altre pecore che non si erano smarrite ed ecco perché è scritto che “vi sarà più gioia nel cielo per un peccatore che si converte, più che per novantanove giusti che non han bisogno di conversione”(Luca 15.7). È proprio per questa “gioia nel cielo”avvenuta nel momento in cui ci siamo arresi all’amore di Dio che abbiamo il dovere di perseverare nel cammino che ci è destinato. E siamo responsabili anche di quella gioia. Amen.

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11.33 – IL DISCORSO ECCLESIOLOGICO 4: LA MONETA D’ARGENTO (Matteo 17.24-27)

11.33 – Il Discorso Eccleiologico 4: La moneta d’argento (Matteo 17. 24-27)

 

24Quando furono giunti a Cafàrnao, quelli che riscuotevano la tassa per il tempio si avvicinarono a Pietro e gli dissero: «Il vostro maestro non paga la tassa?». 25Rispose: «Sì». Mentre entrava in casa, Gesù lo prevenne dicendo: «Che cosa ti pare, Simone? I re della terra da chi riscuotono le tasse e i tributi? Dai propri figli o dagli estranei?». 26Rispose: «Dagli estranei». E Gesù replicò: «Quindi i figli sono liberi. 27Ma, per evitare di scandalizzarli, va’ al mare, getta l’amo e prendi il primo pesce che viene su, aprigli la bocca e vi troverai una moneta d’argento. Prendila e consegnala loro per me e per te».

 

            Può sembrare strano che venga inserito, in mezzo al discorso ecclesiologico, un episodio che, in realtà avvenne poco prima. Credo che però, considerata la frase del verso 27, “per evitare di scandalizzarli”, sia giusto inserirlo dopo l’insegnamento sullo skàndalon, per poter fare alcune precisazioni-estensioni, nonostante quanto letto preceda la trattazione di Nostro Signore in merito.

I soggetti del racconto sono tre: “quelli che riscuotevano la tassa per il tempio”, Pietro che risponde prima a loro e poi a Gesù, ed infine Lui, che gli ordina di pescare un pesce per prendere la moneta d’argento, nel testo originale “statére” e consegnarla “a loro per te e per me”. La nostra versione interpreta correttamente il testo originale che scrive “quelli che raccoglievano le due dramme”, o “didramme” per distinguerli dai pubblicani che si occupavano di riscuotere la “moneta del censo”, cioè “un denaro”, tributo imposto dal governo romano menzionato in 22.17 e seguenti: quando i discepoli dei farisei chiesero a Gesù se era o meno lecito pagare il tributo a Cesare, la Sua risposta fu “«Perché mi tentate, ipocriti? Mostratemi la moneta del tributo». Quelli gli presentarono un denaro. E disse loro «Di chi è questa immagine e l’iscrizione?». Gli dissero: «Di Cesare». Allora disse loro: «Date dunque a Cesare le cose di Cesare e a Dio le cose di Dio»”.

Le due dramme, o mezzo siclo, circa sette grammi d’argento, erano la somma che doveva essere pagata da ogni maschio dai trent’anni in su per il mantenimento e il servizio nel Tempio. L’istituzione di tale offerta, che era obbligatoria ma in realtà tutti davano volontariamente, trae la sua origine in Esodo 30.12-14: “Quando per il censimento conterai uno per uno gli Israeliti, all’atto del censimento ciascuno di essi pagherà al Signore il riscatto della sua vita, perché non li colpisca un flagello in occasione del loro censimento. Chiunque verrà sottoposto al censimento, pagherà un mezzo siclo, conforme al siclo del santuario, il siclo di venti ghera – tradotto anche “il siclo contiene venti oboli” –. Questo mezzo siclo sarà un’offerta prelevata in onore del Signore. Ogni persona sottoposta al censimento, dai venti anni in su, corrisponderà l’offerta prelevata per il Signore. Il ricco non darà di più e il povero non darà di meno di mezzo siclo, per soddisfare all’offerta prelevata per il Signore, a riscatto delle vostre vite. Prenderai il denaro espiatorio ricevuto dagli Israeliti e lo impiegherai per il servizio della tenda del convegno – il Tempio non c’era ancora –. Esso sarà per gli Israeliti come un memoriale davanti al Signore, per il riscatto delle vostre vite”. Abbiamo letto che il testo parla di “censimento”, ma dopo il ritorno dalla deportazione a Babilonia sotto Nabucodonosor  tra il VII e il VI secolo a.C., diventò un tributo da pagare annualmente.

Ecco allora che gli ignoti riscossori delle due dramme, una volta presentatisi, furono molto meravigliati del fatto che, alla loro vista, Pietro e il suo Maestro non avessero messo le mani alla cassa per dare il tributo, che non veniva mai chiesto, ma dato spontaneamente stante il forte senso religioso allora presente. Il testo originale non recita “Il vostro maestro non paga la tassa”, ma “le didramme”, a sottolineare la sorpresa di quelli e non una frase pronunciata, come avvenuto per i farisei e gli scribi, per tentare Gesù. Questa disposizione d’animo è molto importante per le applicazioni che faremo.

Alla domanda Pietro risponde “Sì” dando per scontato che, appartenendo allo stesso popolo e conscio che il servizio al Tempio era comunque svolto per onorare il Padre, e rientra in casa per raccogliere le due dramme che ciascuno avrebbe dovuto dare agli incaricati. Viene però prevenuto dalla domanda del Maestro: “Che cosa ti pare, Simone? I re della terra da chi riscuotono le tasse e i tributi? Dai propri figli, o dagli estranei?”.

Qui Nostro Signore, con le sue parole “i figli sono liberi”, fa un parallelismo fra i re della terra ed il Re assoluto cui le due dramme andavano date, e il senso di ciò che spiega a Pietro è chiaro: se i figli dei sovrani del mondo non pagavano certo il tributo che davano le persone comuni, Lui, quale Figlio di Dio, era esente dal dare l’offerta, tanto più che avrebbe dato se stesso. Vediamo però che, a differenza di tutte le volte in cui si trovò a difendere un principio dottrinale senza mai cedere, diremmo con un’espressione popolare “di un millimetro”, qui si comporta diversamente, cioè: le persone che avevano chiesto a Pietro se Gesù non pagasse le due dramme lo avevano fatto esprimendo la loro meraviglia, anticipando il loro turbamento qualora ciò non fosse avvenuto e per questo, per non porre a loro un motivo di inciampo, acconsente a pagare anche se in un modo particolare.

Abbiamo allora da questo episodio un insegnamento preciso, parente stretto di quanto già osservato nel citare l’insegnamento di Paolo da Tarso a proposito dello scandalizzare i deboli su cose di poco conto: certo Gesù avrebbe potuto mettersi a spiegare a quegli esattori il motivo per cui non era tenuto a pagare il tributo, ma non avrebbero capito e sarebbero rimasti turbati e interdetti sul fatto che, proprio Lui che predicava ed era indubbiamente un profeta, non avesse dato quanto chiesto. Per questo motivo abbiamo qui un miracolo in un certo senso anomalo, che non viene mai in mente a nessuno quando si tratta di elencare quanto di soprannaturale fatto da Gesù in terra. Eppure è Lui il “figlio dell’uomo” di cui parla Davide in Salmo 8.6-10: “Davvero lo hai fatto poco meno di un dio, di gloria e di onore lo hai coronato. Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi: tutte le greggi e gli armenti e anche le bestie della campagna, gli uccelli del cielo e i pesci del mare, ogni essere che percorre le vie dei mari”.

Ecco perché Gesù sapeva quanto sarebbe successo: “Va’ al mare, getta l’amo e prendi il primo pesce che viene su, aprigli la bocca e troverai una moneta d’argento – il testo originale ha “statére” –. Prendila e consegnala loro per te e per me”. Va ricordato che lo statére era una moneta attica che valeva l’esatto quadruplo di una dramma, cioè di un siclo ebraico, quindi Pietro estrasse dal pesce due didramme.

Possiamo aprire anche una parentesi a proposito del pesce, che fu sicuramente il cosiddetto Chronis Simonis, dal ciclo vitale molto particolare: la femmina depone le uova tra la vegetazione sott’acqua e il maschio le raccoglie in bocca conservandole fino a quando i piccoli raggiungono la lunghezza di circa dieci millimetri. Per espellerli, il maschio incubatore introduce nella sua bocca un sassolino o un oggetto che provoca l’uscita dei piccoli, ma rimane nella sua bocca per qualche tempo. Nel nostro caso, quel pesce trovò uno statére che fece la stessa funzione del sasso, o del ciottolo.

“Prendile e consegnala a loro per te e per me”. E gli altri? Essendo una “tassa” riservata solo agli israeliti e tali essendo i discepoli, l’unica spiegazione possibile è che, stante il poco valore delle due dramme, undici di loro ne fossero in possesso, tranne Pietro. Potremmo anche supporre che gli altri undici non fossero ancora in casa, stante il fatto che gli evangelisti si preoccupano sempre del senso degli episodi e spesso non sono così minuziosi nel descrivere il contesto. Abbiamo letto infatti “Quando furono giunti a Capernaum”, ma non che tutti entrarono nella casa in cui Gesù abitava.

Tornando all’episodio, Nostro Signore, quand’anche avesse avuto le due dramme, non era tenuto a pagarle per cui nello statére raccolto dalla bocca del pesce vediamo Gesù come Figlio di Dio che, pur non dovendo dare nulla, pagò comunque ma solo da un punto di vista tecnico. Allo stesso modo Pietro qui è visto come figura della Chiesa nel senso che, come tutti gli altri e noi, sarebbe diventato un figlio di Dio assumendo in quanto tale l’identità del suo Maestro: “a quanti lo hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio”. Il cristiano infatti rientra nel Suo progetto, “Poiché quelli che ha sempre conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito di molti fratelli; quelli poi che ha predestinato li ha anche chiamati; quelli che ha chiamato li ha anche giustificati; quelli che ha giustificato, li ha anche glorificati” (Romani 8.29,30).

È allora chiaro che Gesù non era tenuto a dare nulla in quanto Figlio del Padre cui era dedicato il Tempio con le sue funzioni, ma se gli altri discepoli, rappresentati qui da Pietro, avessero dovuto osservare strettamente quella prescrizione dando anch’essi le due dramme, certamente in quel pesce si sarebbe trovato mezzo siclo e non uno intero. Nostro Signore non fa presente a Pietro che avrebbe dovuto restituirgli la parte eccedente, ma gli dice “consegnala loro per te e per me”, a conferma del fatto che considerava quell’apostolo come simbolo di tutti coloro che avrebbero creduto in Lui un giorno. E qui si potrebbe aprire un capitolo a parte sull’identità che hanno i credenti col Padre e il Figlio, ma credo non ve ne sia bisogno perché tutto il Vangelo è improntato su questa verità predicata, che emergerà in tutta la sua forza e potenza dopo la resurrezione e la discesa dello Spirito Santo.

Possiamo concludere anche evidenziando ciò che Gesù avrebbe potuto fare e non fece, a parte lo spiegare agli “esattori” il motivo per cui non pagava: non disse “voi non sapete chi sono io”. Non li cacciò, con le buone o le cattive non importa. Non disse “Guarisco muti, sordi, lebbrosi e paralitici e questo vi deve bastare”. Non si sottrasse al pagamento, dimostrando ai discepoli col miracolo del pesce che comunque era esente da quel tributo, come in effetti lo rimase, non mettendolo “di tasca propria”.

Invece, pensò a non turbare gli esattori, in buona fede, che si aspettavano di ricevere le due dramme da lui: ricevendole, avrebbero potuto testimoniare che Gesù, come tutti gli altri, aveva dato il proprio contributo al mantenimento del Tempio, quello stesso edificio che verrà distrutto nel 70 mettendo la parola “fine” ad un culto che non avrebbe avuto più ragione di essere stante l’apertura della nuova dispensazione voluta proprio da Dio Padre.

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11.32 – IL DISCORSO ECCLESIOLOGICO 3: NOTE SU MATTEO 18.9-11 (Prima parte)

11.32 – Il discorso ecclesiologico 3: note su Matteo 18. 9-11 (Prima parte)

 

9(…). È meglio per te entrare nella vita con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geènna del fuoco.10Guardate di non disprezzare uno solo di questi piccoli, perché io vi dico che i loro angeli nei cieli vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli. [ 11] Poiché il figlio dell’uomo è venuto a salvare ciò che era perduto.

 

            Quando si esamina un testo fondamentale del Vangelo, è naturale seguire e cercare di approfondire gli insegnamenti più immediati, ma così facendo vi sono dei particolari che sfuggono; ecco allora che è necessario esaminare gli ultimi tre versi, ma anche aprire un collegamento ancora sugli scandali, alla luce di un episodio avvenuto prima del discorso ecclesiologico cui abbiamo dedicato, per ora, due capitoli. La postilla è un’annotazione fatta a mano su un testo e così, figurativamente, voglio intendere questo intervento e il successivo.

Prima nota va apposta alla seconda parte del verso nono: si tratta di una considerazione importante per chi rimane perplesso a fronte della necessità, per quanto figurata, di amputare la mano o il piede o cavare l’occhio, nel senso che “entrare nella vita con un occhio solo”, vale più che “con due occhi essere gettato nella Geènna del fuoco”;l’attaccamento a ciò che siamo, quindi che ci caratterizza e ci fa muovere nella vita decidendo cosa e come fare ed agire, qui si ferma, chiede una spiegazione. Preso con le faccende dell’esistenza, alcune obbligatorie ed altre per il suo esclusivo piacere o benessere, l’uomo dà molte cose per scontate: pensa che il domani gli appartenga e prende appuntamenti e impegni, sceglie e programma magari dove trascorrere l’estate o le feste, è intento a soddisfarsi o cercare di farlo e per questo cerca di mantenersi in salute, ma il verso in esame, parente di quello che invita a considerare l’utilità di guadagnare il mondo a fronte della perdita dell’anima, avverte che due mani, due piedi e due occhi non servono se poi si viene “gettati nella Geènna del fuoco”, espressione forte che conosciamo perché la Geènna era la valle di Ennon fuori da Gerusalemme dove ardevano perennemente dei fuochi che bruciavano i rifiuti. Mi sento di sottolineare quel “gettato”, che conferma il fatto che coloro i quali subiranno tale sorte avranno perso quell’autonomia a lungo cercata: nonostante la loro opposizione, verranno “gettati nella Geènna”perché considerati, appunto, rifiuti. E il rifiuto è un materiale di scarto o avanzo che non può essere utilizzato in alcun modo, per cui viene distrutto, eliminato.

Pensiamo: da individuo che voleva essere al centro di tutto, convinto di valere, chi si perderà finirà per non contare più nulla, sarà così stimato da Colui che avrà l’ultima parola, Gesù Cristo. Si tratta di una descrizione che, pur non con le stesse parole, troviamo in molte parabole, parte delle quali sono state esaminate.

Arriviamo così al verso 10, in cui Gesù torna al bambino che aveva chiamato e posto in mezzo a loro. Nostro Signore parla di “piccoli”, ma in modo diverso perché il riferimento non è più a chi è innocente o senza diritti, ma a chi deve crescere, pervenire allo stato adulto, di persona responsabile. Il bambino, qui, è allora colui che ha ancora tutto un cammino da percorrere sul quale non bisogna interferire scandalizzandolo e il verso prosegue in modo impegnativo per il lettore: “io vi dico che i loro angeli nei cieli vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli”. Sono quindi angeli presenti alla Corte Celeste e questo verso potrebbe lasciar supporre, a livello immediato, che i “piccoli”godano di una protezione tutta particolare vista nell’opera dell’ “angelo custode”, ma questa idea andrebbe a scontrarsi con gli innocenti periti per la strage voluta da Erode il Grande e tutti quei bambini che da sempre muoiono nelle guerre, carestie o, purtroppo, per mano dei loro stessi genitori.

“I loro angeli”, invece, appare più un’espressione riferita a quegli esseri che Paolo, probabile autore della lettera agli Ebrei, definisce “spiriti amministratori mandati a servire coloro che lo temono”(Ebrei 1.14), diretti operatori attivi a seguito della venuta di Gesù profetizzata anche in Salmo 33.7 “Calerà l’Angelo del Signore attorno a coloro che lo temono, e li libererà”. Quella descritta in Ebrei 1.14 è una realtà difficile da enucleare, che va oltre l’assistenza ufficiale che troviamo negli annunci a Zaccaria, Elisabetta, Maria o Giuseppe, con gli inviati a sostenere Gesù dopo il digiuno nel deserto o, uscendo dal contesto dei Vangeli, con l’episodio in cui Pietro fu liberato quando era in carcere (Atti 12.6-12). Credo che il ruolo dell’angelo, tenendo presente comunque questi episodi, sia da connettere a quello descritto in Esodo 23.20-24 quando il popolo di Dio, Israele, era destinato ad entrare nella terra promessa, quella di Canaan, come oggi la Chiesa attende i “nuovi cieli e nuova terra”e i suoi componenti di incontrare il Dio Vivente e Vero dopo la morte del corpo.

Prima di leggere il passo di Esodo, teniamo presente che il popolo di Dio è sempre esistito ed è uno, Israele prima della venuta del Figlio, e la Chiesa da allora in poi che li comprende entrambi, pagani ed ebrei, perché sono stati “riconciliati tutti e due con Dio in un corpo unico mediante la sua croce, sulla quale fece morire la loro inimicizia”(Efesi 2.16) in quanto, per la carne, lontani. Vediamo allora quanto ci è stato tramandato, inframmezzandolo con un breve commento: “Ecco, io mando un angelo davanti a te per custodirti nel cammino e per farti entrare nel luogo che io ti ho preparato– notiamo il verbo “preparare” usato anche da Gesù quando disse ai suoi “vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto tornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io”(Giovanni 14.1-3) –. Abbi rispetto della sua presenza, dà ascolto alla sua voce e non ribellarti a lui”. Anche oggi quell’ “angelo”parla a noi attraverso la Scrittura e lo Spirito Santo, il Consolatore. Attenzione ora a come prosegue il testo: “Egli infatti non perdonerebbe la vostra trasgressione, perché il mio nome è in lui”: anche qui viene spontaneo, riguardo alle parole “perché il mio nome è in lui”, il collegamento con quanto detto da Gesù dopo la Sua risurrezione, “Ogni potere mi è stato dato in cielo e sulla terra”(Matteo 28.18) e altri, come il fatto che Lui e il Padre siano una cosa sola (Giovanni 10.30). Nel termine “Gli angeli loro”, quindi, si riassume tutto questo: promessa di assistenza e guida, presenze reali che spesso sottovalutiamo quali “spiriti amministratori”. Lo stesso velo, che le sorelle dovrebbero indossare nelle Assemblee cristiane, costituisce un segno distintivo da indossare per loro (1 Corinti 11.10 “Per questo la donna deve portare sul capo un segno della sua dipendenza a motivo degli angeli”).

Torniamo al testo: “Se tu dai ascolto alla sua voce e fai quello che io ti dirò, io sarò il nemico dei tuoi nemici e l’avversario dei tuoi avversari”. È quindi il comportamento dell’uomo, in positivo o in negativo, che determina il comportamento dell’ “angelo”, “Se fai quello che io ti dirò”. Abbiamo allora questo essere da una parte e l’uomo dall’altra che non può più agire, per l’elezione e le promesse ricevute, come se fosse indipendente, dando retta solo a se stesso e ai suoi progetti perché intimamente, indissolubilmente legato a Dio. E il “non separi l’uomo ciò che Dio ha unito”non vale solo per il matrimonio, ma per quel legame che il Signore stesso ha voluto, scegliendo la persona per farla sua. Nel nostro testo di Esodo 23, infatti, il credente è chiamato ad assumere una posizione netta, senza restare un punto di domanda di fronte agli altri: “Quando il tuo angelo camminerà alla tua testa e ti farà entrare presso l’Amorreo, l’Evveo, il Gebuseo e io– non tu – li distruggerò, tu non ti prostrerai davanti ai loro dèi e non li servirai; tu non ti comporterai secondo le loro opere, ma dovrai demolire e frantumare le loro stele”.

Ora questi versi, scritti riguardo a popoli che vivevano un’altra dispensazione così come un modo di vivere diverso, parlano anche a noi per il comportamento che dobbiamo adottare nei confronti di chi ha dèi estranei, allora come oggi, visti in uno stile di vita, modo di ragionare, agire, pensare al di fuori di quel Dio di cui magari hanno sentito parlare, ma che non vogliono conoscere per dar luogo all’amore della verità per essere salvati. A volte tendiamo a sottovalutare il fatto che “tu non ti comporterai secondo le loro opere”non si riferisce soltanto a rimanere influenzati da un modo di ragionare e fare, ma sia un errore anche solo il salutare una persona e quindi parlare con essa ponendola sul nostro stesso piano. Così infatti scrive l’apostolo Giovanni: “chi va oltre e non rimane nella dottrina del Cristo, non possiede Dio. Chi invece rimane nella dottrina, possiede il Padre e il Figlio. Se qualcuno viene a voi e non porta questo insegnamento, non ricevetelo in casa e non salutatelo, perché chi lo saluta partecipa alle sue opere malvagie”(2 Giovanni 1. 8-11).

Ricevere una persona in casa equivale a renderla partecipe del nostro mondo, condividere con lei pensieri e dati facendolo un nostro pari. Giovanni qui non parla di una separazione di tipo farisaico, cioè porsi su un piano di superiorità arrogante, ma del fatto che si è diversi perché tra luce e tenebre non esiste cosa in comune e chi appartiene a Dio sarà sempre oggetto di attenzione distruttiva da parte di chi non è come lui, esattamente come fu per Abele con Caino.

Il nostro verso 10, allora, ha riferimento agli angeli come testimoni dello sviluppo del “bambino”o del “piccolo”, identificato in chi ha creduto, più che a un’attività di custodia e protezione perché altrimenti, nel caso citato di Caino e Abele, questi avrebbero clamorosamente fallito mentre spettava a Caino, primogenito, la responsabilità di essere tanto d’esempio, quando di rispettare e in un certo qual modo proteggere il fratello. E infatti il giudizio su di lui non fu da poco e, per coloro che scandalizzeranno i “piccoli”, vale l’esempio della macina da mulino.

“Disprezzare uno solo di questi piccoli”significa sminuire la loro testimonianza e la loro fede, certo quando è portata con parole e comportamento appropriato perché“chi accoglie voi, accoglie me”.

Altra postilla riguarda il verso undicesimo, non citato nella nostra versione ma presente in altre, che è un parallelo di Luca 19.10: “È venuto infatti il figlio dell’uomo a salvare ciò che era perito”, utilizzato come ponte tra l’insegnamento sui piccoli e la parabola della pecora perduta che esamineremo a breve.

Per riallineare poi il racconto cronologico ed estendere un poco quanto già scritto a proposito dello scandalo, resta da considerare un episodio avvenuto prima dell’inizio del discorso ecclesiologico, che sempre Matteo riporta in 17.24-27: di questo ci occuperemo nel prossimo capitolo.

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11.31 – IL DISCORSO ECCLESIOLOGICO 2: MANO – PIEDE – OCCHIO (Matteo 18.8-11)

11.31 – Il discorso Ecclesiologico 2: mano – piede- occhio (Matteo 18. 8-11)

 

8Se la tua mano o il tuo piede ti è motivo di scandalo, taglialo e gettalo via da te. È meglio per te entrare nella vita monco o zoppo, anziché con due mani o due piedi essere gettato nel fuoco eterno. 9E se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, cavalo e gettalo via da te. È meglio per te entrare nella vita con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geènna del fuoco.10Guardate di non disprezzare uno solo di questi piccoli, perché io vi dico che i loro angeli nei cieli vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli. [ 11]

 

            Prima di iniziare a lavorare su questi versi, vale la pena ricordare la sintesi espressa da Gesù ai discepoli che verrà espressa da lì a poco: “In verità io vi dico, chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso”(Marco 10.15). È una frase che sconfessa la teoria universalista, che purtroppo ha trovato adesioni in diverse Chiese, che sostiene che Dio sia troppo buono per non accogliere tutti nel suo regno perché il vero inferno è qui, su questa terra.

L’accoglienza del regno di Dio, fatta con la semplicità e l’innocenza di un bambino perché tali si diventa nel momento in cui lo si accetta assieme a Gesù Cristo, è però correlata a versi che già conosciamo sono parole che abbiamo cercato di affrontare quando abbiamo visto il sermone sul monte e che pongono il bambino da una parte e l’uomo maturo dall’altra perché, spiritualmente parlando, non ci può essere l’uno senza l’altro.

Gesù, trattando il tema dello scandalo, prima ha parlato di quello provocato da terze persone ed ora qui passa ad esaminare ciò che può sempre sorgere all’interno di noi stessi riguardo la mano, il piede e l’occhio, organi che ci parlano delle scelte che la nostra persona compie quotidianamente. Per evitare di lasciare nei discepoli l’idea che la colpa possa sempre venire da altri, ecco che subito il tema si sposta sull’individuo, sul singolo che molto spesso è il vero nemico di se stesso, principio confermato dal possessivo “tua”e “tuo”. Esaminiamo allora le tre parti anatomiche citate da Nostro Signore.

 

LA MANO

Ha connessione con la volontà immediata, indica lo strumento con il quale concretiamo i nostri progetti, idee, intenzioni dirette. Compare per la prima volta in Genesi 3.22 con le parole “Poi il Signore disse: «Ecco, l’uomo è diventato come uno di noi quanto alla conoscenza del bene e del male– senza però essere in grado di portarla –. Che ora egli non stenda la mano e non prenda anche dell’albero della vita– diventato per lui incompatibile –, ne mangi e viva per sempre!»”. Ricordiamo poi Caino, che “alzò la mano contro il fratello Abele e l’uccise”(4.8), quella di Noè che, quando la colomba tornò all’arca, “stese la mano, la prese e la fece rientrare presso di sé”.

Si prende per mano in segno di protezione (21.18, “Àlzati, prendi il fanciullo per mano, perché io ne farò una grande nazione”) e la si può tendere per lo stesso motivo, ma qui deve essere la persona ad accettarla. La mano è quella che constata gli effetti dell’assistenza-esistenza di Dio e qui gli esempi sono innumerevoli, da Mosè con bastone tramutato in serpente e viceversa, per non parlare della lebbra (Esodo 4: “Il Signore gli disse ancora – a Mosè –: «Introduci la mano nel seno!». Egli si mise in seno la mano e poi la ritirò; ecco, la sua mano era diventata lebbrosa, bianca come la neve. Egli disse: «Rimetti la mano nel seno!». Rimise in seno la mano e la tirò fuori: ecco, era tornata come il resto della sua carne”) fino a Tommaso, che voleva metterla nel fianco di Gesù (Giovanni 20.25).

Arto delicato per l’ambivalenza che può assumere, veniva protetto per legge da cattive intenzioni: “Questi precetti che oggi ti do(…) te li legherai alla mano come un segno”(Deuteronomio 6.8). La mano rappresenta anche tutto ciò che potrebbe essere dato ad altri e invece viene tenuto per sé, quindi l’altruismo o l’egoismo: “Non chiuderai la mano al tuo fratello bisognoso, ma gli aprirai la mano e gli presterai quanto occorre alla necessità in cui si trova.(…) Dagli generosamente e, mentre gli doni, il tuo cuore non si rattristi. Proprio per questo, infatti, il Signore tuo Dio ti benedirà in ogni lavoro e in ogni cosa a cui avrai messo mano”(Deuteronomio 15.8-10).

In 1 Timoteo 2.8 l’apostolo Paolo scrive “Voglio dunque che in ogni luogo gli uomini preghino, alzando al cielo mani pure, senza collera e senza polemiche”dove abbiamo un importante insegnamento perché pregare con le “mani pure”implica un esame di coscienza preventivo, a ricordare che la preghiera viene elevata senza che vi siano peccati non confessati, a Dio o a un fratello o sorella, che la renderebbero vana. È scritto infatti che “Mosè stese le mani verso il Signore: i tuoni e la grandine cessarono e la pioggia non si rovesciò più sulla terra”(Esodo 9.33), cosa impossibile se non si fosse trovato in condizioni di purezza, nonostante la sua condizione di uomo. Ma era uno strumento di Dio e tale doveva rimanere.

La letteratura sapienziale, poi, collega quest’arto all’operosità o alla negligenza: ricordiamo Proverbi 21.25 (“Il desiderio del pigro lo porta alla morte, perché le sue mani rifiutano di lavorare”), Qoelet 10.18 (“Per negligenza il soffitto crolla e per l’inerzia delle mani piove in casa”, Siracide 2.12 (“Guai ai cuori pavidi e alle mani indolenti e al peccatore che cammina su due strade”).

 

 

IL PIEDE

Se la mano agisce nell’ambito del perimetro raggiungibile dalla persona ferma, il piede è quello che consente al corpo di spostarsi e quindi, all’occorrenza, amplia enormemente le possibilità della mano. Si tratta però di un’applicazione secondaria perché il piede è visto più come arto deputato alla stabilità, oltre che mobilità. La parola “piede” compare per la prima volta in Genesi 8.9 quando “la colomba, non trovando dove posare la pianta del piede, tornò a lui nell’arca, perché c’era ancora l’acqua su tutta la terra”. Al plurale, invece, abbiamo Genesi 18.2 quando alle querce di Mamre si presentarono ad Abrahamo “tre uomini che stavano in piedi presso di lui”. Prima che allo spostarsi, allora, il primo riferimento è all’equilibrio, che può essere stabile o precario. Anche questo è importante a tal punto da venire citato, assieme agli altri due oggetto di riflessione, nel famoso verso della Legge “Occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede”in Esodo 21.24.

La sua stabilità o meno è correlata all’ubbidienza a Dio: “Non permetterò più che il piede degli Israeliti erri lontano dal suolo che io ho dato ai loro padri, purché si impegnino ad osservare tutto quello che ho comandato loto, secondo tutta la legge che ha prescritto loro il mio servo Mosè”(2 Re 21.8); ricordiamo Salmo 26.12 “Il mio piede sta su terra piana; nelle assemblee benedirò il Signore”. Certo il piede è indispensabile per spostarsi, ma ha sempre riferimento al cammino spirituale, in bene o in male: “Poiché egli conosce la mia condotta; se mi mette alla prova, come oro puro io ne esco. Alle sue orme si è attaccato il mio piede, al suo cammino mi sono attenuto e non ho deviato”(Giobbe 23. 10,11).

Eloquente in proposito il libro dei Proverbi, “Allora camminerai sicuro per la tua strada e il tuo piede non inciamperà,(…) perché il Signore sarà la tua sicurezza e preserverà il tuo piede dal laccio.(…) Bada alla strada dove metti il piede e tutte le tue vie saranno sicure,(…) non deviare né a destra né a sinistra, tieni lontano dal male il tuo piede.(…) Quale dente cariato e quale piede slogato, tale è l’appoggio del perfido nel giorno della sventura”(3.23; 4.26; 25.19).

Da citare il calcagno, l’osso più voluminoso del tarso, che costituisce il tallone: conosciamo l’espressione “alzare il calcagno” contro qualcuno, che allude al ferire con frode, ma anche tendere delle trappole per neutralizzare. Il verso più noto in proposito è quello relativo al giudizio sul serpente, “Io porrò inimicizia fra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe – quindi figli di Dio e figli dell’Avversario –: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno”(Genesi 3.15): effettivamente Gesù fu dato in mano agli uomini che fecero di lui non quello che vollero, ma ciò che fu loro concesso. Lui stesso, parlando di Giuda ai Suoi, disse “…deve compiersi la Scrittura: Colui che mangia il mio pane ha alzato contro di me il suo calcagno”(Giovanni 13.18).

 

 

L’OCCHIO

Organo della vista, ne abbiamo parlato affrontando il sermone sul monte. Se mano e piede necessitano di comandi per lo più coscienti da parte del cervello, l’occhio spesso agisce autonomamente in base alla personalità, all’indole dell’individuo e va qui affrontato non sotto l’aspetto neurologico, ma psicologico perché la funzione visiva in un soggetto sano è costituita non solo dalle sue caratteristiche anatomo-funzionali, ma comprende anche processi percettivi, cognitivi ed emozionali. L’occhio allora è uno strumento di analisi, ma agisce anche in autonomia, istintivamente ed è su questa caratteristica che Gesù intende spostare l’attenzione dei suoi uditori, essendo nota la massima secondo la quale “l’occhio non si stanca mai di guardare né l’orecchio di udire”; può allora far cadere la persona in peccato non tanto senza che questa se ne accorga, ma innescando dei processi giustificativi dell’azione facendo che la mente, che dovrebbe controllarlo e dominarlo, venga messa in subordine.

Ricordiamo le parole che descrivono il primo peccato: “Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile per avere saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò”(Genesi 3.6). L’occhio fu responsabile di tutta una catena di processi che portarono al diluvio, quando leggiamo nella sua premessa “Quando gli uomini cominciarono a moltiplicarsi sulla terra e nacquero loro delle figlie, i figli di Dio videro che le figlie degli uomini erano belle e ne presero per mogli a loro scelta”(Genesi 6. 1,2); questo verso non pone l’accento sul fatto che costituisca un peccato sposare una bella donna, ma il sistema che si era venuto a costituire visto nel degrado dell’umanità. Rileggiamolo: “I figli di Dio– cioè quelli che avrebbero dovuto metterLo al centro della loro vita – videro– l’occhio – che le figlie degli uomini– cioè di persone che non avevano la loro stessa elezione – erano belle– cioè potevano costituire un’alternativa molto più immediata alla loro realizzazione, per quanto carnale – e se ne presero per mogli a loro scelta– cioè più di una, secondo il loro capriccio –“. “Figli di Dio” e “figlie degli uomini” sono termini che alludono alla mescolanza di due stirpi diverse. E dopo un certo tempo, che possiamo calcolare ma che non viene specificato, leggiamo che “Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che ogni intimo intento del loro cuore non era altro che male, sempre”(v.5).

L’occhio, allora, aveva preso il sopravvento sulla ragione quasi senza che quelle persone se ne rendessero conto e la concupiscenza non solo verso il corpo femminile, ma tutto ciò che poteva costituire attrattiva per essere posseduta, era diventato dominante, unica ragione di vita. Come oggi. L’occhio fu anche causa della rovina di Acan, personaggio davvero emblematico che non ho mai dimenticato dalla prima volta in cui ho letto di lui, e della sconfitta degli Israeliti nella battaglia contro “quelli di Ai”: dalla lettura dei capitoli 6 e 7 del libro di Giosuè apprendiamo che, contrariamente alla legge dello sterminio che proibiva a chiunque di impadronirsi degli averi del nemico, Acan non fu in grado di distogliere il suo occhio da un mantello, duecento sicli d’argento e un lingotto d’oro che prese per sé durante la presa di Gerico. Ricordiamo infine un altro episodio già citato, quello di Davide che vide nuda alla finestra la moglie di Uria e questo fatto, di per sé banale, non controllato, portò a un adulterio, a un omicidio e alla morte del bimbo da lei partorito.

 

Ho citato tre casi, quelli per me più degni di nota, che ci parlano del fatto che l’occhio può portare molta rovina se non viene gestito a monte dallo Spirito ed è proprio a questa realtà cui fa riferimento Gesù quando parla di tagliare, cavare e gettare via: sono azioni che alludono ad una procedura particolare vista nella costante vigilanza sulla carne riguardo ai tre organi citati, la cui cattiva gestione può portare a conseguenze imprevedibili anche perché, come esseri umani, saremo sempre pronti a giustificare ogni nostro comportamento negativo, a distrarci sottovalutando la rovina cui possono portare. Ecco la necessità di pregare il Solo che può preservarci, mantenerci vigili, aiutarci a combattere senza pietà – uso un’espressione forte – noi stessi, il nostro “uomo vecchio”.

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11.30 – IL DISCORSO ECCLESIOLOGICO 1: I BAMBINI E GLI SCANDALI (Matteo 18.1-7)

11.30 – Il discorso Ecclesiologico 1: i bambini e gli scandali (Matteo 18.1-7)

 

1 In quel momento i discepoli si avvicinarono a Gesù dicendo: «Chi dunque è più grande nel regno dei cieli?». 2Allora chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro 3e disse: «In verità io vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. 4Perciò chiunque si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli. 5E chi accoglierà un solo bambino come questo nel mio nome, accoglie me.6Chi invece scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, gli conviene che gli venga appesa al collo una macina da mulino e sia gettato nel profondo del mare. 7Guai al mondo per gli scandali! È inevitabile che vengano scandali, ma guai all’uomo a causa del quale viene lo scandalo!

 

            Per ragioni di spazio e per non appesantire queste letture che credo non facili, non è stato detto che la questione su chi fra i discepoli fosse il maggiore provocò un insegnamento molto più articolato di Gesù, rivolto strettamente a loro, noto come “discorso Ecclesiologico” che affronteremo in più parti. Prima di iniziare la prima di questo discorso, non possiamo ignorare la differenza fra il racconto di Marco, che abbiamo affrontato nel capitolo precedente, “Per la strada avevano discusso su chi di loro fosse il più grande”, e la narrazione di Matteo, che riporta un’apparente, analoga domanda a tal punto che verrebbe da chiedersi quali furono davvero le parole pronunciate da entrambe le parti. In realtà Gesù non disse una sola cosa, ma tante che ciascun evangelista riporta a seconda dell’accento che intende dare al discorso.

Marco, allora, riferendociallo scorso capitolo, riporta la prima risposta alla questione che i discepoli non osarono porre al loro Maestro, cioè chi tra loro fosse il più grande, mentre Matteo la inquadra secondo un contesto più ampio, “Chi dunque è più grande nel regno dei cieli?”: notiamo che viene omessa la parte che più riguardava i dodici da vicino, “di noi”, ma viene estesa anche al futuro, o se vogliamo al “non tempo” dell’eternità. “Regno dei cieli”come realtà presente, ma anche definita con la sua struttura eterna, con l’avvento dei “Nuovi cieli e nuova terra”. E qui la risposta di Gesù si rifà a quel particolare riferito alla nuova nascita nel senso pratico, quello di convertirsi e diventare come i bambini.

Nei versi che abbiamo letto il discorso verte su tre argomenti che nessuno può interpolare: la conversione coi suoi effetti, la mutazione della persona ad essa conseguente, gli scandali. Stupisce soprattutto la nuova descrizione della conversione, perché se Giovanni Battista la predicava come mezzo per andare verso Cristo, “ravvedetevi, perché il regno dei cieli è vicino”, quello che voleva dire Gesù sarà spiegato proprio da Pietro nel tempio: “Convertitevi dunque e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati e così possano giungere i tempi della consolazione da parte del Signore ed egli mandi colui che vi aveva destinato come Cristo, cioè Gesù”(Atti 3.19). La cancellazione dei peccati implica un rapporto nuovo con Dio, che prima si teneva lontano dal peccatore. Poiché il popolo, tramite i suoi capi, aveva già crocifisso Nostro Signore, questi non sarebbe stato potuto essere mandato se non con una rivoluzione interiore e non eclatante come si credeva: “vi mandi”nel senso che sarebbe stato inviato a ciascuno individualmente e non collettivamente, come popolo eletto. Scopo della conversione, allora, è quella di ricevere l’Unico Autore della salvezza, con lo Spirito Santo promesso.

Ricordiamo che, quando Nicodemo incontrò Gesù per la prima volta, riteneva il tornare bambino, il “rinascere”una cosa inconcepibile: vedeva infatti l’uomo come il risultato di un processo di crescita, in peso, statura e coscienza, ma dimenticava l’atteggiamento, l’essenza, le caratteristiche del bambino rapportate a Dio Padre. Davide, nonostante fosse uomo di guerra, re vittorioso, ma purtroppo anche adultero e omicida (perdonato) così parla in Salmo 131.1,2:“Signore, non si esalta il mio cuore né i miei occhi guardano verso l’alto; non vado cercando cose grandi né meraviglie più alte di me – come fanno tutti gli uomini che appartengono a questo mondo –. Io invece– cioè in opposizione alla corrente, al contrario degli altri che la seguono – resto quieto e sereno: come un bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è in me l’anima mia”. L’anima, il suo essere, in contrasto al suo aspetto di uomo di guerra e re d’Israele.

Non può sfuggire il fatto che siamo chiamati ad essere bambini solo di fronte a Dio, e non ai nostri simili che altrimenti ne approfitterebbero e ci sfrutterebbero, per quanto sappiamo che “i figli di questo mondo sono più avveduti di quelli della luce”;questo si verificherà, potenzialmente, sempre. Quello dell’essere o diventare bambini è un aspetto molto importante che verrà approfondito tanto da Pietro quanto da Paolo che mettono in guardia i credenti perché non lo impieghino unilateralmente: “Fratelli, non comportatevi da bambini nei giudizi– che richiedono maturità e la consapevolezza di trovarsi in un “terreno minato” –. Quanto a malizia, siate bambini, ma quanto a giudizi, comportatevi da uomini maturi”(1 Corinti 14.20). Pietro, poi, scrive “Come bambini appena nati, desiderate avidamente il genuino latte spirituale, grazie al quale voi possiate crescere verso la salvezza, se davvero avete gustato che buono è il Signore”(1 Pietro 2.2,3). Bambini da un lato, uomini dall’altro. E come un bambino si trova al sicuro e tranquillo nella propria casa coi propri genitori, così dovrebbe essere per il credente la Chiesa, sua nuova famiglia, cosa che purtroppo non sempre avviene; qui entriamo nel discorso degli scandali, cioè in quei sassi posti perché gli altri possano inciampare. E penso a certi pastori, anziani o sacerdoti che con il loro comportamento allontanano le anime anziché recuperarle e parlare amorevolmente con loro.

Ancora una volta è d’obbligo il confronto con il Dio Vivente: “Poiché così parla l’Alto e l’Eccelso, che ha una sede eterna e il cui nome è santo: «In un luogo eccelso e santo io dimoro, ma sono anche con gli oppressi e gli umiliati, per ravvivare lo spirito degli umili e rianimare il cuore degli oppressi. Poiché io non voglio contendere sempre né per sempre essere adirato; altrimenti davanti a me verrebbe meno lo spirito e il soffio vitale che ho creato”(Isaia 57.15,16).

Capiamo? Qui c’è la descrizione dell’irraggiungibilità di YHWH, “Alto”ed “Eccelso”che abita in un luogo dalle stesse caratteristiche, precluse all’uomo, che però è coi bambini visti nella figura degli “oppressi e umiliati”perché così sono, come abbiamo visto quando abbiamo parlato del bambino come essere privo di diritti. Se Dio fosse sempre adirato con la sua creatura “verrebbe meno lo spirito e il soffio vitale che ho creato”, cioè vi sarebbe un altro diluvio, per quanto con forme diverse, come sarà con la Grande Tribolazione e la fine del tempo che non vivremo.

E possiamo affermare che fino a quando l’uomo resterà sempre quello che è, penserà sempre alle cose basse e ad esse si dedicherà perché non potrà farne a meno, si porrà sempre come oppositore di Dio, precludendogli ogni intervento. Invece “Umiliatevi davanti al Signore, ed egli vi esalterà”(Giacomo 4.10) e, dopo questa esperienza personale, l’essere umano, una volta saputo che il proprio nome era scritto nel libro della vita e che farà parte della Chiesa, troverà ragione e scopo quanto scrive Pietro nella sua prima lettera, 5. 5,6: “Rivestitevi tutti di umiltà gli uni verso gli altri, perché Dio resiste ai superbi, ma dà grazia agli umili. Umiliatevi dunque sotto la potente mano di Dio, affinché vi esalti al tempo opportuno, riversando su di lui ogni vostra preoccupazione, perché egli ha cura di voi”. E l’umiliazione consiste nel confessare al Signore la propria bassezza, rinunciare a qualsiasi pretesa e affidarsi a Lui.

Solo il diretto interessato (e naturalmente Dio che vaglia, premia o riprende) può sapere se veramente si sarà fatto piccolo e notiamo che l’apostolo Pietro parla di “rivestirsi di umiltà”, quella vera che, essendo un vestito, può essere simulato, indossato da chi bambino non è; ecco perché si parla di individui “che vengono voi in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci”. Lupi che sbranano, ma anche pongono ostacoli nel cammino di fede anziché correggerlo e indirizzarlo correttamente. Qui viene chiamato il discernimento degli spiriti, che vanno provati “per vedere se sono da Dio”, e soprattutto l’indossare quell’armatura di cui abbiamo già parlato in un precedente capitolo, che abbiamo visto proteggere tutti gli organi vitali, reperibile in Efesi 6. Un’armatura che chiaramente un bambino non indossa, ma un uomo chiamato al combattimento certamente sì: “Indossate l’armatura di Dio per poter resistere alle insidie del diavolo”(Efesi 6.11). Il “bambino”non è in antitesi all’uomo maturo, ma ci parla dell’innocenza e dell’essere indifeso che trova nel Signore l’unico riparo e conforto possibile. Il “bambino”è anche quello che è appena “nato di nuovo”, che ha bisogno di un sostegno particolare da parte di chi gli ha presentato il Vangelo: portare infatti un’anima a Cristo implica un esempio e soprattutto  una guida dottrinale e spirituale che non può essere lasciata al caso, per cui “scandalo”non è solo ciò che incanala verso pratiche estranee al cristianesimo, il più delle volte importate dall’ambiente pagano, ma anche quella promiscuità che fa leva sulla carne, incompatibile con lo Spirito.

Abbiamo parlato dei “lupi rapaci”, ma guardando alle parole sugli scandali che riporta Luca troviamo un particolare importante e cioè in 17.1,2 Gesù dice “…è meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare, piuttosto che scandalizzare uno di questi piccoli. State attenti a voi stessi!”. L’ultima frase, la messa in guardia di Gesù, riguarda anche i discepoli ed è pronunciata proprio in vista del ruolo che avrebbero avuto, quello di pascere il gregge, compito impossibile a farsi senza una dedizione che nella Chiesa è reciproca. Ricordo, quando fui battezzato, che mi si avvicinò un fratello che mi disse “Adesso io sono responsabile di te, e tu sei responsabile di me”, a sottolineare che anch’io avevo una funzione da adempiere perché il mio comportamento, per quanto elementare, poteva edificare quanto distruggere, rallegrare spiritualmente quanto contristare. Ero chiamato alla maturità che avrei conseguito negli anni, ad un cammino, ad una crescita che si realizzasse attraverso il confronto con la Parola di Dio, ma anche con i fratelli.

La frase di Gesù “State attenti a voi stessi!”implica il procedere attraverso passi ponderati, come ad esempio il caso di quei credenti in Roma che, consapevoli di non peccare, mangiavano liberamente qualunque cibo, quando c’erano altri che si scandalizzavano di questo. Paolo scrive allora “Se per il cibo il tuo fratello resta turbato, tu non ti comporti secondo carità. Non mandare in rovina per il tuo cibo colui per il quale Cristo è morto!”(14.13-15).

Ancora, in 1 Corinti 8.9-13: “Non sarà certo un alimento ad avvicinarci a Dio: se non ne mangiamo, non veniamo a mancare di qualcosa e se ne mangiamo, non abbiamo un vantaggio. Badate però che questa vostra libertà non divenga occasione di caduta per i deboli. Se uno infatti vede te, che hai la conoscenza, stare a tavola in un tempio di idoli, la coscienza di quest’uomo debole non sarà forse spinta a mangiare le carni sacrificate agli idoli? Ed ecco, per la tua conoscenza, va in rovina il debole, un fratello per il quale Cristo è morto! Peccando così contro i fratelli e ferendo la loro coscienza debole, voi peccate contro Cristo. Per questo, se un cibo scandalizza il mio fratello, non mangerò più carne, per non dare scandalo al mio fratello”.

Entriamo qui allora in un ambito particolare, vale a dire ciò che è alla radice dell’animo di chi è in grado di discernere – seguendo l’esempio citato da Paolo – che il mangiare delle carni sacrificate a idoli pagani non è più un peccato, ma nel momento in cui questo è di intoppo per gli altri, allora questo gesto diventa dannoso perché ostacolo per un credente debole, “un fratello per il quale Cristo è morto”. Si tratta di un tema da trattare con attenzione, perché qui non si parla di fratelli pettegoli, chiusi e rigidi sempre pronti a giudicare, ma di persone la cui coscienza viene turbata realmente e nel profondo a fronte di argomenti di importanza del tutto secondaria, come dalle parole “se non ne mangiamo, non veniamo a mancare di qualcosa e se ne mangiamo, non ne abbiamo alcun vantaggio”.

Diverso fu il caso di quanto Pietro fu rimproverato dai Giudei con le parole “Sei entrato in casa di uomini non circoncisi e hai mangiato insieme con loro!”(Atti 11.2), evidentemente riferendosi a quanto avvenuto in casa del centurione Cornelio; quei Giudei, ascoltate le sue precisazioni, è scritto che “si calmarono e cominciarono a glorificare Dio dicendo: «Dunque anche ai pagani Dio ha concesso che si convertano perché abbiano la vita!»”(v.18).

L’avviso “State attenti a voi stessi”viene formulato da Gesù proprio perché spesso è la struttura del nostro essere umano che può portarci ad azioni avventate, come fu per Pietro che, lasciando agire il suo essere umano, ebbe per un certo periodo un comportamento poco corretto nella Chiesa: “Quando Cefa venne ad Antiochia, mi opposi a lui a viso aperto perché aveva torto. Infatti, prima che giungessero alcuni da parte di Giacomo, egli prendeva cibo insieme ai pagani; ma, dopo la loro venuta, cominciò ad evitarli e a tenersi in disparte, per timore dei circoncisi. E anche gli altri Giudei lo imitarono nella simulazione, tanto che pure Barnaba si lasciò attrarre nella loro ipocrisia. A quando vidi che non si comportavano rettamente secondo la verità del Vangelo, dissi a Cefa in presenza di tutti: «Se tu, che sei Giudeo, vivi come i pagani e non alla maniera dei Giudei, come puoi costringere i pagani a vivere alla maniera dei Giudei?”(Atti 2,11-14).

L’attenzione verso noi stessi è primo vero metodo se intendiamo prima progredire e poi essere d’aiuto per portare il Vangelo al nostro prossimo. Siamo chiamati a curarci, sempre, ed in questo vediamo l’impegno nel togliere la trave dal nostro occhio, le domande su cosa abbiamo fatto di giusto o sbagliato nel giorno che Dio ci ha mandato, i frutti portati, siano essi rappresentati dal trenta, sessanta o cento. Amen.

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11.29 – IL SECONDO ANNUNCIO DELLA PASSIONE (Marco 9.30-37)

11.29 – Il secondo annuncio della passione e chi sia il più grande (Marco 9. 30-37)

 

30Partiti di là, attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. 31Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà». 32Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo.

33Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?». 34Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande. 35Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti». 36E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: 37«Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato».

 

Esaurite le circostanze relative alla guarigione del ragazzo epilettico, tormentato da uno spirito muto e sordo, Gesù rimane solo coi discepoli e inizia un cammino che li porterà nuovamente a Capernaum, ma contrariamente a quanto avvenuto in passato il tempo che rimaneva era poco per cui la Sua attenzione non si sposta più sulla predicazione, che certo continuerà anche se in forme più dirette e individuali, ma sulla formazione dei dodici. Nostro Signore considera quindi concluso il suo operato nei confronti della folla e sceglie di dedicarsi ai Suoi, bisognosi di insegnamenti profondi che dessero i frutti non nell’immediato, ma al momento opportuno. Teniamo presente che tra questi c’era Giuda Iscariotha, che fu sempre testimone, al pari degli altri, dei miracoli e dei discorsi del suo Maestro, restandone impermeabile.

Proprio sotto la necessità della formazione si spiega quel “ma egli non voleva che alcuno lo sapesse”, che questa volta si concreta attraverso un viaggio in incognito. Qui la domanda su come ciò sia stato possibile diventa importante, perché sappiamo che ogni volta che Gesù approdava da qualche parte in barca o attraversava un villaggio veniva puntualmente riconosciuto attirando attorno a sé molta gente. Una prima risposta, la più umanamente ovvia, si riferisce ad una scelta che tutti noi avremmo fatto, cioè percorrere sentieri e strade poco frequentate fino alla destinazione, ma questo non regge perché il gruppo avrebbe dovuto prima o poi entrare in un villaggio per comprare da mangiare e sarebbero stati riconosciuti. La domanda al verso 33, “Di che cosa stavate discutendo per la strada?”, lascia intendere che il cammino dalla regione di Cesarea alla Galilea sia avvenuto per vie normali, non essendo nominati sentieri o mulattiere.

Credo che questa volta Gesù sia intervenuto personalmente perché Lui e i dodici non fossero riconosciuti, come avverrà per i due discepoli incontrati sulla strada tra Gerusalemme ed Emmaus, dove in Luca 24.16 leggiamo che “…i loro occhi erano impediti a riconoscerlo”: il cammino con il Maestro doveva essere caratterizzato dalla calma e dal silenzio e comunque non poteva avere interferenze di sorta. Il verso del nostro episodio, “Insegnava ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà»”, ci fornisce il soggetto principale dell’insegnamento di Gesù, ma non veniva compreso e, a differenza di quanto avvenuto nel caso delle parabole in cui i discepoli non avevano alcuna remora a chiedergli chiarimenti, qui rimasero zitti, non osando domandare spiegazioni.

I motivi di questa ritrosia non stanno solo nel fatto che “non capivano”, ma in tutta una serie di sentimenti e idee che li assalivano ogni qualvolta Gesù parlava della sua morte e resurrezione. Prima di tutto, vediamo la morte: per i dodici, o per meglio dire “gli undici” anche se Giuda era ancora tra loro, era assolutamente inconcepibile che Lui potesse morire. Egli era “Il Cristo, il figlio dell’Iddio vivente”: come avrebbe potuto venire ucciso o “patire molto” dagli altri uomini, Lui, così infinitamente potente e superiore? Ecco una delle ragioni per cui Pietro fu scandalizzato e Gesù altrettanto quando lo rimproverò chiamandolo “Satana” e dicendogli che aveva “il senso non alle cose di Dio, ma a quelle degli uomini”.

Non una confusione minore, poi, era provata riguardo al fatto che il loro Maestro sarebbe risorto, altro punto incomprensibile perché strideva con l’insegnamento che tutti avevano ricevuto fin dall’infanzia, coi Rabbi che insegnavano loro che sì, vi sarebbe stata la resurrezione, ma nell’ultimo giorno e, ad eccezione dei Sadducei, tutta la nazione ebraica riteneva quella dottrina per vera. E si può dire lo stesso valga anche per noi. Teniamo anche presente che di resurrezione i discepoli non solo ne avevano sentito parlare dai testi antichi, ad esempio con quella operata proprio da Elia, ma erano stati loro stessi testimoni di altre, pensiamo alla figlia di Giairo o al figlio della vedova di Nain. Ecco perché era inconcepibile che l’Autore di quelle resurrezioni fosse ucciso per poi – secondo loro –  resuscitare se stesso.

Altro punto grandemente oscuro per gli undici fu la frase esposta al verso 31, quel “Il figlio dell’uomo verrà consegnato nelle mani degli uomini”, frase cui non facciamo molto caso perché sappiamo che così doveva essere, ma per loro proprio quel “consegnato” costituiva motivo di angoscia in quanto il verbo greco impiegato implica la presenza del tradimento, per cui capirono – o sospettarono – che Gesù sarebbe stato consegnato a seguito di un’azione indegna. Quindi in loro si sommarono tutta una serie di dati ai quali ora si aggiungeva anche il tradimento.

Ora i discepoli furono grandemente afflitti perché, come precisa Marco, “non capivano queste parole e avevano timore a interrogarlo”, sapendo di trovarsi di fronte a qualcosa di ben più pesante a sopportarsi rispetto al fallimento con il ragazzo epilettico poc’anzi avvenuto: se le cose stavano veramente così, che ne sarebbe stato di loro? Dove avrebbero potuto andare e soprattutto, citando Pietro, “A chi ce ne andremo noi?”. Queste furono le ragioni che li indussero a non chiedere nulla, spinti da un sentimento e da una serie di pensieri sovrapposti che Gesù conosceva benissimo. E da qui farà anche di tutto perché quanto da lui enunciato fosse almeno capito in futuro: Luca infatti scrive “«Mettetevi bene in mente queste parole: il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini». Essi però non capivano queste parole: restavano per loro così misteriose che non ne coglievano il senso, e avevano timore di interrogarlo su questo argomento” (9. 43-45).

È molto importante sottolineare che gli apostoli, nonostante il loro entusiasmo per seguire il Maestro, il loro impegno, i sacrifici, le rinunce, erano sempre ancora privi della capacità di comprendere che avranno più avanti grazie allo Spirito Santo e che qui l’avvenimento da Lui annunciato è estraneo alla logica quotidiana “spezzando – come scrive un fratello – la trama abituale dell’esperienza costruita in base ai desideri e alle previsioni umane”. Pensiamo: quegli uomini con Gesù si sentivano sicuri, protetti e il fatto che venga annunciato loro che fra non molto ne sarebbero stati privati non può aver che provocato uno sconforto tale da fargli dimenticare quelle parole, talché si misero a discutere su chi fra loro fosse il più grande. Un modo infantile per cacciare il problema? Forse, ma era anche, stante le loro condizioni, l’unico ed ecco perché i due episodi sono collegati fra loro.

Ed ecco anche perché, anche qui, i discepoli tacciono: “«Di che cosa stavate discutendo per la strada?». Ed essi tacevano.” (vv 33,34). Curiosamente, abbiamo a distanza di poco tempo due domande dirette; ricordiamo la prima, quando viene chiesto agli scribi “Di che cosa discutete con loro?”: è Gesù che interviene per correggere, chiarire, ma anche fare emergere quelli che sono i pensieri (o le azioni anche se non è questo il caso) che non Gli vorremmo far sapere. E a quella discussione avevano partecipato tutti, Giuda Iscariotha compreso, che dato il carattere carnale della discussione si sentì coinvolto. La discussione fu certo animata, perché ciascuno di loro avrà portato agli altri il proprio curriculum di esperienze, primi fra tutti Pietro, Giacomo e Giovanni. Ora teniamo ben presente che se Pietro fosse stato destinato ad essere il “capo della Chiesa”, quella sarebbe stata certamente l’occasione giusta per rivelarlo, dando così seguito alla curiosità dei discepoli e risolvendola una volta per tutte.

Ma la risposta di Gesù, alle parole che abbiamo letto, “Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti”, aggiunge un gesto denso di significati, cioè prende un bambino, lo pone in mezzo a loro e lo abbraccia: sulla figura del bambino abbiamo già parlato dicendo che è simbolo dell’innocenza, che ha bisogno dell’adulto che gli insegni e lo guidi, etc.; tutte certo cose vere, ma in questo caso il bambino è la figura dell’ultimo perché ai tempi di Gesù, come in altri più o meno antichi, era un essere privo di diritti. Su questo dovrebbero meditare quelli che affermano “la strage degli innocenti” non essere mai esistita perché Giuseppe Flavio ne sarebbe stato indignato e l’avrebbe certamente citata. Il bambino allora era un essere considerato insignificante, condannato a subire l’autorità paterna che spesso si manifestava con battiture e umiliazioni. Ed ecco perché Nostro Signore lo pone al centro e lo abbraccia. Chissà se, una volta cresciuto, se ne sarebbe ricordato. Chissà se poi, col passare del tempo, avrà fatto delle scelte che lo avranno caratterizzato, qualificato come figlio di Dio. Non lo sappiamo.

Ciò che emerge come dato incrollabile è che la Chiesa non può essere un’organizzazione umana basata sul potere umano. “Voi sapete che i governanti delle nazioni dominano su di esse e i capi le opprimono. Tra voi non sarà così, ma chi vuole diventare grande tra voi, sarà il vostro servitore e chi vuole essere il primo tra voi, sarà vostro schiavo. Come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Matteo 20.25-28).

Gesù quindi prende come esempio un bambino, un essere privo anche di prestigio non potendo ancora caratterizzarsi in bene o in male, dimostrando così di non volere un successore negli uomini né un Vicario; al contrario incarica lo Spirito Santo di tutto questo: “Io pregherò il Padre ed Egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi sempre: lo Spirito di verità che il mondo non può ricevere, perché non lo vede e non lo conosce” (Giovanni 14.23).

E arriviamo così alle ultime parole di Gesù in questo episodio,  “Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome:  ci vuole un bambino, quindi un innocente ultimo, come può essere un uomo appena “nato di nuovo”, ma questo a nulla serve se questo non viene fatto “nel nome di Gesù Cristo” perché la persona che viene aiutata, sollevata, di cui la persona curata deve sapere il motivo per cui questo avviene. Accoglie me – prima identità con Gesù –. E chi accoglie me non accoglie me, ma Colui che mi ha mandato – quindi la reciprocità di Gesù col Padre, che ha parlato agli uomini per mezzo dei profeti e, in questi ultimi giorni, per mezzo della Sua Parola –.

Ecco, credo che un essere umano non possa ricevere onore più grande, tanto nel dare, che nel ricevere. Amen.

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11.28 – IL FANCIULLO EPILETTICO II (Marco 9.20-29)

11.28 – Il fanciullo epilettico, II (Marco 9. 20-29)

 

20E glielo portarono. Alla vista di Gesù, subito lo spirito scosse con convulsioni il ragazzo ed egli, caduto a terra, si rotolava schiumando. 21Gesù interrogò il padre: «Da quanto tempo gli accade questo?». Ed egli rispose: «Dall’infanzia; 22anzi, spesso lo ha buttato anche nel fuoco e nell’acqua per ucciderlo. Ma se tu puoi qualcosa, abbi pietà di noi e aiutaci». 23Gesù gli disse: «Se tu puoi! Tutto è possibile per chi crede». 24Il padre del fanciullo rispose subito ad alta voce: «Credo; aiuta la mia incredulità!». 25Allora Gesù, vedendo accorrere la folla, minacciò lo spirito impuro dicendogli: «Spirito muto e sordo, io ti ordino, esci da lui e non vi rientrare più». 26Gridando e scuotendolo fortemente, uscì. E il fanciullo diventò come morto, sicché molti dicevano: «È morto». 27Ma Gesù lo prese per mano, lo fece alzare ed egli stette in piedi.28Entrato in casa, i suoi discepoli gli domandavano in privato: «Perché noi non siamo riusciti a scacciarlo?». 29Ed egli disse loro: «Questa specie di demòni non si può scacciare in alcun modo, se non con la preghiera».

 

Prima di iniziare l’analisi del testo, vanno ricordate le parole del padre del giovane a Gesù: “Dovunque lo afferri, lo getta a terra ed egli schiuma, digrigna i denti e si irrigidisce”, descrizione dell’epilessia. Il nome “epilessia” deriva dal greco epi-lambano, cioè cogliere di sorpresa. È una malattia caratterizzata da crisi improvvise dovute ad una scarica abnorme del nostro cervello dovute a cause più varie, come predisposizione genetica, lesioni cerebrali, ma un 40% è dovuto anche a predisposizioni costituzionali. La malattia si esprime con varie manifestazioni, a seconda della zona del cervello interessate dalla scarica e questa, una o più, partono autonomamente, non sono prevedibili. In un terzo dei casi le crisi continuano e in questo caso i pazienti sono a rischio di SUDEP, cioè a morte improvvisa, non prevedibile. Molto spesso l’epilessia compare in età giovanile e con lo sviluppo della persona scompare; chi è predisposto ha una fase in cui le crisi si manifestano e poi, in alcuni, la tendenza alla crisi diminuisce spontaneamente non tanto per i farmaci, ma perché l’epilessia si scontra fra la predisposizione e lo sviluppo cerebrale. Ci sono dei pazienti che nonostante la terapia continuano a presentare le crisi che solitamente rientrano sotto controllo nel momento in cui viene usato il farmaco più adatto. Individuato il farmaco giusto, dopo un certo tempo si diminuiscono gradualmente le dosi per verificare se le crisi ritornano o meno; in questo caso, se il paziente sta bene con una dose bassa, significa che la possibilità dell’insorgere di crisi ulteriori diminuiscono.

Questa è l’epilessia moderna, che in comune con quella descritta da Marco e dagli altri ha il “cogliere di sorpresa”, ma qui le “scariche cerebrali” insorgono proprio alla vista di Gesù: coincidenza? Non credo, perché Matteo, Marco e Luca non scrivono autonomamente, ma spinti dallo Spirito Santo che, se quella malattia fosse dovuta alle cause illustrate dalla medicina, avrebbero parlato di un ragazzo infermo, e non epilettico e indemoniato. Non tutti gli epilettici, dunque, sono indemoniati. Alla luce delle conoscenze mediche in merito, sappiamo che quel giovane, senza l’intervento di Gesù, sarebbe morto di SUDEP, cioè per arresto cardiaco causato dall’apnea prolungata per le manifestazioni motorie che impediscono alla persona di respirare.

Quel ragazzo sarebbe morto, ucciso apparentemente dalla malattia, ma in realtà dallo spirito che lo abitava e lo possedeva a suo piacimento, caratterizzandolo anche col mutismo e la sordità. Assistiamo però a un fatto per così dire anomalo, e cioè che Nostro Signore, chiamato dal padre del ragazzo “Maestro”al verso 17 (titolo onorifico solitamente impiegato per gli esorcisti che erano scribi e farisei), a fronte della richiesta “se tu puoi qualcosa, abbi pietà di noi e aiutaci”, non interviene prontamente, ma lascia il giovane in balia dello spirito immondo che, sapendo che stava per essere sconfitto, lo straziava.

Il ragazzo, innominato come il padre, era tormentato fin dall’infanzia, quando la persona è più indifesa e questo ci parla del fatto che l’Avversario e il peccato non hanno pietà di nessuno: da bambino, il demone lo aveva “spesso buttato nel fuoco e nell’acqua per ucciderlo”, due elementi opposti, ma ugualmente letali a significare che non esiste un luogo sicuro per nessuno, a meno che non si eserciti la fede. Acqua e fuoco sono elementi utili perché l’uno riscalda e l’altra disseta ma che, se usati in modo sbagliato, uccidono.

A questo punto avviene qualcosa di molto singolare perché c’è una trasformazione nel cuore di quel padre dopo aver detto “Se tu puoi qualcosa, abbi pietà di noi e aiutaci”. Si tratta di una frase che non può essere in alcun modo paragonata al “Se tu vuoi, puoi guarirmi”espressa dal lebbroso in Matteo 8.1-4: mentre infatti per quest’ultimo c’era la certezza che se Gesù avesse voluto avrebbe risolto la malattia, qui abbiamo “se tu puoi qualcosa”, quasi a dire “le ho provate tutte e adesso sono qui”. Forse quell’uomo metteva Gesù sullo stesso piano di altri che aveva consultato, ma non sapeva fino a che punto arrivasse il suo potere. E quel ragazzo, come scrive Luca, era figlio unico.

È bello vedere che Nostro Signore qui non assume le vesti del pronto soccorritore, ma aspetta ad intervenire perché, nonostante l’urgenza della situazione, era più importante portare quell’uomo alla fede, e infatti gli risponde “Se puoi! Tutto è possibile per chi crede”, a sottolineare che la richiesta, per come gli era stata presentata, non era corretta e che la guarigione dipendeva dalla fede riposta in Lui. E qui abbiamo una confessione particolare, perché la risposta fu ad alta voce in modo che tutti sentissero: “Credo; aiuta la mia incredulità”. In questa versione manca “Signore”, dopo il “Credo”, che ci rivela come il concetto su Gesù fosse cambiato: non è più chiamato “Maestro”, ma “Signore”. In più, con la richiesta di venire aiutato nella sua incredulità, quel padre manifesta tutta la consapevolezza dell’avere poco dentro di sé e la certezza di venire aiutato nel suo credere.

E questo dialogo è stato riportato da Marco proprio per tutti quelli che, guardando dentro di loro, non possono far altro se non ammettere la loro poca fede; è lì, qui, che la porta che Dio può aprire non resta chiusa: se mai siamo noi a temere forse perché abbiamo qualcosa da abbandonare, o perché dubitiamo di saper gestire correttamente quanto ci verrebbe dato. I problemi del vivere la fede sono tanti, a cominciare da noi stessi e infatti quel padre chiede a Gesù di aiutare la “mia”incredulità, cioè tutta quella zavorra che lo tiene attaccato al contingente senza sapere come liberarsene. Allora, accanto alla consapevolezza del potere di guarigione verso il figlio, si aggiunge anche quella della liberazione dal poco credere: la richiesta è quella di arrivare a una fede compiuta nel Signore. E notiamo che Marco scrive che quelle parole furono pronunciate di getto, e sono proprio le reazioni immediate che testimoniano di ciò che alberga nel cuore e nella mente di un uomo.

Al verso 25 leggiamo che Gesù agisce“vedendo accorrere la folla”che evidentemente si stava avvicinando attratta dalle parole di quell’uomo pronunciate ad alta voce. Certo, senza la preghiera di aiuto in campo spirituale, “aiuta la mia incredulità”, non avrebbe fatto nulla. Abbiamo allora l’ordine: “Spirito muto e sordo, io ti ordino, esci da lui e non vi rientrare più”. Sono parole importanti, unitamente alla descrizione di come questo reagì, perché quel giovane non era neppure in grado di parlare e udire. “Esci da lui”è un imperativo riferito al presente, “e non vi rientrare più”rappresenta la garanzia della continuità della guarigione, suggerisce il fatto che quando Dio interviene in una persona è per sempre, come lo stesso accade in tutti coloro che hanno creduto dopo essere stati realmente convinti di peccato, giustizia e giudizio: sanno che, senza l’intervento del Signore che li ha salvati, sarebbero destinati alla morte eterna, al pianto e allo stridore dei denti.

Altro dato importante, ma di cui abbiamo già parlato nell’affrontare l’indemoniato nella Sinagoga di Capernaum, è il modo con cui lo spirito immondo tratta quel ragazzo, cioè “gridando e scuotendolo fortemente, uscì. E il fanciullo diventò come morto, sicché molti dicevano: «È morto»”.Così uno “spirito immondo”tratta una persona prima di lasciarlo definitivamente, come già visto in altri casi, come gli indemoniati gadareni, con la differenza che qui sostenere l’ipotesi della possessione come risultato di una serie di peccati consapevoli non regge, ma è sostenibile quella relativa all’azione di Satana sul territorio, su una condizione della lontananza da Dio dell’umanità che, a quei tempi, doveva constatare la differenza tra gli interventi del Messia promesso e la realtà in cui viveva, oggi apre le porte all’avversario con le sostanze stupefacenti, gli alcoolici e soprattutto i falsi profeti che vorrebbero imporre uno stile di vita a tutti, giovani e vecchi, “piccoli e grandi”.

Tornando al nostro episodio, vediamo che nessuno salvo Gesù ha contatti col ragazzo, questo perché i presenti non osavano avvicinarsi per non incorrere nell’impurità che contraeva chiunque avesse toccato un cadavere. Leggiamo “Ma– perché c’è un “ma” di Dio nella storia di ciascuno – Gesù lo prese per mano, lo fece alzare ed egli stette in piedi”. Tre azioni, le prime due fatte da Lui: prende per mano, una mano che rassicura e promette ogni intervento e guida, lo fa alzare in quanto Signore anche del corpo umano, al che il giovane non può fare a meno che stare in piedi, questa volta senza nessun aiuto, autonomamente. E Luca aggiunge un gesto di una carità e amore unico, cioè “…guarì il fanciullo e lo consegnò a suo padre. E tutti restavano stupiti di fronte alla grandezza di Dio”.

Nostro Signore non si limitò a guarire, ma consegnò personalmente quel ragazzo al proprio padre ed evidentemente i loro sguardi si incrociarono. In pratica, quell’uomo fu esaudito due volte, prima con l’aiuto al soccorso della sua poca fede, poi con la guarigione del figlio.

Sappiamo che poi i nove domandarono a Gesù le ragioni del loro insuccesso, e qui le versioni di Marco e Matteo si completano: il primo pone l’accento sulla preghiera, il secondo sulla poca fede. Ora chiaramente le domande che ci dobbiamo porre sono due, la prima delle quali è se sia necessaria una preghiera specifica per quella possessione, oppure se questa debba rientrare nell’orazione come metodo, chiedendo al Padre la capacità di gestire quell’autorità che come credenti abbiamo o dovremmo avere, poiché se come uomini siamo poca cosa, come cristiani siamo chiamati a gestire lo Spirito e così il discernimento e l’autorità, se abbiamo dei doni.

Matteo, come visto, pone l’accento sulla poca fede dei discepoli: “In verità io vi dico: se avrete fede pari a un granello di senape, direte a questo monte– l’Hermon – «Spostati da qui a là», ed esso si sposterà, e nulla vi sarà impossibile”(17.20). Possiamo concludere chiedendoci, alla luce di queste parole, quale sia la nostra fede e quanto preghiamo il Padre perché, come uno dei protagonisti del nostro episodio, ci sia dato un aiuto nell’esercitare la fede. Quella poca che abbiamo. Amen.

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11.27 – IL FANCIULLO EPILETTICO, I (Marco 9.14-19)

11.27 – Il fanciullo epilettico, I (Marco 9. 14-19)

 

14E arrivando presso i discepoli, videro attorno a loro molta folla e alcuni scribi che discutevano con loro. 15E subito tutta la folla, al vederlo, fu presa da meraviglia e corse a salutarlo. 16Ed egli li interrogò: «Di che cosa discutete con loro?». 17E dalla folla uno gli rispose: «Maestro, ho portato da te mio figlio, che ha uno spirito muto. 18Dovunque lo afferri, lo getta a terra ed egli schiuma, digrigna i denti e si irrigidisce. Ho detto ai tuoi discepoli di scacciarlo, ma non ci sono riusciti». 19Egli allora disse loro: «O generazione incredula! Fino a quando sarò con voi? Fino a quando dovrò sopportarvi? Portatelo da me». 

 

Ho scelto la narrazione di Marco, rispetto a quella di Matteo e Luca, perché molto più ricca di particolari e connessioni a tal punto di rendere necessaria una suddivisione in due parti. Ricordiamo che quanto avvenne è collocato da Luca il giorno successivo alla trasfigurazione, che infatti fu di notte, e qui possiamo fare la prima nota sulla enorme distanza tra quanto avvenuto poche ore prima, cioè quei momenti spirituali così intensi da mutare l’aspetto di Gesù (“Il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce”), e il ritorno nella sua dimensione di uomo fra gli uomini, con gli scribi che questionavano con gli altri nove discepoli che non erano riusciti a guarire un indemoniato. Cessò allora la sublimità di quegli istanti, in cui per poco tempo Gesù aveva potuto vivere un episodio così estraneo alla vita quotidiana; dopo la trasfigurazione e aver parlato con Mosè ed Elia del passato, presente e futuro raccordato all’eternità, “arrivando presso i discepoli”, viene in un certo senso proiettato violentemente a terra, constatando ancora una volta gli effetti del peccato e della miseria umana.

Ricordiamo che anche il tragitto dal monte a dove si trovava il resto dei Suoi fu caratterizzato dalla sopportazione, perché i Pietro, Giacomo e Giovanni non avevano capito le parole più importanti, “anche il Figlio dell’uomo dovrà soffrire per opera loro”, ma si concentrarono sul perché gli scribi sostenevano “che prima deve venire Elia”. E credo che qui possano essere date due letture, una umana che vede nei dodici delle persone lente a capire – e senza lo Spirito Santo ogni recepimento delle cose di Dio è impossibile – e una spirituale che vede l’Avversario impegnato a distogliere la loro attenzione da ciò che è alto e da approfondire, per ciò che riveste un importanza secondaria: non era così necessario sapere “perché dicono gli scribi che prima deve venire Elia”, ma, a fronte di quanto detto ai discepoli, cosa avrebbe implicato il fatto che il loro Maestro fosse “dato in mano agli uomini e patire molte cose per opera loro”.

Esaminiamo ora i versi 14 e 15: Gesù arriva al luogo dove aveva lasciato gli altri discepoli e trova una situazione particolare, e cioè i nove intenti a discutere con degli scribi, circondati da “molta folla”che, quando Lo vide, “fu presa da meraviglia e corse a salutarlo”. Ora il motivo di quella discussione non ci viene detto chiaramente, ma è facile immaginare che riguardasse il fatto che i discepoli non erano riusciti a scacciare il demonio che affliggeva il giovane epilettico; di qui derivarono tutta una serie di questioni dottrinali che sicuramente quei sapienti avranno eruditamente esposto, soddisfatti di mettere i discepoli in difficoltà per il loro fallimento.

C’è però un particolare sul quale è necessario spostare la nostra attenzione, e cioè che la folla “fu presa da meraviglia”: perché? Cosa poteva esservi di straordinario nel vedere Gesù, che era noto che raramente si separava dai dodici, o nel vederlo arrivare? Non poteva che essere nei paraggi. Evidentemente, come avvenne nel caso di Mosè, gli effetti visibili della trasfigurazione non erano svaniti. Leggiamo in Esodo 34.30 che “Quando Mosè scese dal monte Sinai, le due tavole della Testimonianza si trovavano nelle sue mani mentre egli scendeva dal monte. Non sapeva che la pelle del suo viso era diventata raggiante, perché aveva conversato con lui”. Pensiamo all’esperienza che provò Mosè e possiamo dire che ogni volta che il credente si ritrova a conversare con Dio, a pregare, a interrogare la Scrittura, insomma entrare in un ambito spirituale, fa un’esperienza di consolazione e rivelazioni entrando in uno stato d’animo non definibile a parole. Certo la sua pelle non si trasforma, ma come torna nel mondo normale prova questo senso di enorme distanza tra le due dimensioni, soprattutto quando ha a che fare con i propri simili, quando ritorna alla vita nel mondo naturale.

In proposito possiamo anche sottolineare che se un figlio di Dio resta spesso in comunione con il Padre attraverso lo Spirito, questo sarà inevitabilmente notato dagli altri perché avrà modi e comportamenti che rifletteranno il suo rapporto con Lui. Ecco perché, spesso, i credenti si riconoscono tra loro anche senza necessariamente parlare di Cristo. Nella seconda lettera ai Corinti, Paolo parla della trasformazione operata in chi crede: “E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito nel Signore”(3.18). È una trasformazione lenta, profondamente interna, che viene data a chi cerca ed è disposto ad abbandonare i suoi perni umani perché destinati a crollare in un modo o in un altro. E ricordiamo anche il verso di Salmo 34.5 “Guardate a lui e sarete raggianti, non saranno confusi i vostri occhi”: si parla non di felicità incontenibile, ma dell’irradiazione della luce di Dio, mentre quel “non saranno confusi i vostri occhi”ci parla degli effetti insiti nella rivelazione di Gesù Cristo, che Giovanni descrive in 1.9, “Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo”, certo disposto ad accettarla, altrimenti è e rimarrà per sempre cieco.

La folla dunque corre a salutare Gesù, ma  immediatamente Marco sposta l’attenzione del lettore sulla Sua domanda che, dalla nostra traduzione, non è chiaro a chi fu rivolta, se ai discepoli rimasti ad attenderlo, o agli scribi: “di che cosa discutete con loro?”. Certo Gesù era l’Onnisciente e conosceva tutti i discorsi avvenuti, ma voleva una risposta. Sono convinto che anche noi, se ci fosse rivolta la stessa domanda quando discutiamo col nostro prossimo, a volte ci troveremmo in imbarazzo, ma qui il contesto è differente perché i discepoli diventano timorosi di confessare un fallimento, non essendo riusciti a guarire un epilettico indemoniato. I nove non sanno cosa rispondere e così interviene una terza persona, estranea al gruppo, che afferma “…ho detto ai tuoi discepoli di scacciarlo, ma non ci sono riusciti”(v.18). Per inciso, altre versioni riportano correttamente il testo, cioè “Egli domandò agli scribi: «Di che questionate tra voi?»

In altre parole, quei discepoli avevano certamente vivo in loro il ricordo di quanto avvenuto nell’occasione del loro invio in missione: “Chiamati a sé i suoi dodici discepoli, diede loro potere sugli spiriti impuri per scacciarli e guarire ogni malattia e ogni infermità”(Matteo 10.1). Questo è il preambolo, poiché dopo troviamo scritto l’ordine “Guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demòni”(v.8). Ritennero quindi quel mandato ancora valido e sopravvalutarono le loro forze. Gesù allora, quando tornò dai suoi, dalla folla e anche dagli scribi, si scontrò ancora una volta con l’ignoranza: la pretesa di essere quando non si è, di sapere quando non si sa, dell’aver bisogno senza conoscere di chi o di che cosa, tutti elementi correlati tra loro che caratterizzano l’uomo vecchio, sempre convinto di potere e volere.

 

Essere quando non si è.

L’uomo solitamente, dall’infanzia in poi, cerca di caratterizzarsi in modo tale da avere un ruolo, nella famiglia e poi gradualmente nel contesto sociale in cui fa il suo ingresso; che sia una persona di valore oppure no, assumerà un ruolo di comodo, tanto più marcato quanto più sarà il proprio orgoglio a spingerlo. Combatterà chi è al suo pari e disprezzerà i deboli, non importa se fisicamente, finanziariamente o anche solo persone a lui sottoposte. Non ammetterà critiche o rimproveri ed attribuirà i suoi eventuali insuccessi agli altri. E i discepoli non avevano capito che il mandato ricevuto era temporaneo perché avevano ancora tanto da imparare e, senza lo Spirito Santo non ancora disceso su di loro, non avevano ancora acquisito quel discernimento spirituale atto ad orientarli anche nelle situazioni più oscure.

 

Sapere quando non si sa.

Anche qui, senza lo Spirito di Dio, si costruisce sul nulla, o meglio si lavora sulla sabbia. Le conoscenze acquisite – e qui il riferimento è agli scribi – autorizzavano al pronunciarsi sulle cose inerenti alle Scritture, che però erano da loro interpretate e distorte, come sappiamo, a loro vantaggio o in funzione di una religione. Agli scribi non pareva vero trovarsi di fronte all’insuccesso dei discepoli di Gesù e di attribuirGli il loro fallimento. I discepoli, e con loro oggi i cristiani, erano e sono i suoi rappresentanti per cui, come noi, avrebbero dovuto prestare attenzione a ciò che facevano o dicevano. Per il cristiano l’attenzione va anche rivolta a chi frequenta, a come si pone di fronte agli altri per non avere atteggiamenti contraddittori rispetto alla fede che professa. Se fossero stati accorti, i nove avrebbero dovuto attendere prudentemente il ritorno del Maestro, non essendo ancora compiuta la loro formazione. Più avanti infatti, interrogandolo in proposito, si sentirono rispondere: “Questa specie di demòni non si può scacciare in alcuno modo, se non con la preghiera”, oppure “Per la vostra poca fede”secondo Matteo 17.20. Ricordiamo che, nel caso di questo episodio, erano molti che pretendevano di cacciare gli spiriti impuri, come quegli esorcisti giudei che a volte menzioniamo in Atti 19.13 che si sentirono rispondere “Conosco Gesù e so chi è Paolo, ma voi chi siete?”, e uscirono dallo scontro con l’indemoniato “nudi e feriti”. Anche per quegli esorcisti vale il principio della pretesa di essere quando non si è. Per i discepoli quell’insuccesso  fu sicuramente motivo di vergogna, l’esatto contrario di quanto avvenuto tempo prima, quando “Al loro ritorno, gli apostoli raccontarono a Gesù tutto quello che avevano fatto”(Luca 9.10). Allora, non avevano certo motivo di tacere.

L’aver bisogno senza sapere di chi o di cosa lo vediamo in particolare nella folla, che corre da Gesù per meglio vederlo, stante le caratteristiche avute in quel momento, che lo saluta forse con la parola “Shalom”, ma di circostanza. Una folla che era lì in gran parte per vedere e stupirsi, ma non per credere. Così è l’uomo anche oggi che preferisce, quando raggiunge la consapevolezza delle sue imperfezioni, affidarsi ad attività estranee come lo Yoga o molte altre pratiche anziché andare a bussare a quella porta di cui è promessa l’apertura.

Tornando al nostro testo, vediamo che la domanda “di cosa discutevate con loro?”resta senza risposta. O, meglio, questa la dà il diretto interessato, il padre del ragazzo epilettico: “Maestro, ho portato da te– ecco l’identificazione di Lui coi discepoli e della prudenza che questi avrebbero dovuto esercitare – mio figlio, che ha uno spirito muto. Dovunque lo afferri– quindi in modo imprevedibile senza distinzione per il luogo – , lo getta a terra ed egli schiuma, digrigna i denti e si irrigidisce. Ho detto ai tuoi discepoli di cacciarlo, ma non ci sono riusciti”(vv.17-18). Mi sono chiesto se quel “ma”,che suona con un rimprovero prima di tutto ai nove, fosse rivolto anche a Gesù, che secondo quell’uomo non li aveva formati abbastanza. Ecco l’ignoranza con la quale si scontrò Nostro Signore, che ebbe una reazione particolare, dicendo “O generazione incredula– Matteo aggiunge “e perversa”–; fino a quando starò con voi? Fino a quando dovrò sopportarvi? Portatelo da me”.

Il rimprovero di Gesù qui è universale e non esclude nessuno. Come ha scritto un fratello, «è un rimprovero che, seppure con altri termini, ricorre sovente nei Vangeli per mettere in evidenza che l’uomo, chiunque esso sia, non può avere un comportamento corretto, in parole e in opere, senza la guida dello Spirito Santo. Tutto ciò che gli uomini desiderano compiere al di fuori di tutto ciò che Dio ha predisposto è da Lui considerato “un panno sporco”. E i verbi utilizzati, “stare” e “sopportare” sono indicativi di un tempo che stava per concludersi perché il Suo sacrificio stava per compiersi».

“Portatelo da me”, è un imperativo rivolto a tutti con cui Gesù si pone tanto come riparatore all’errato atteggiamento dei suoi discepoli, quando una promessa di intervento. L’unico possibile, risolutore, vincitore su ogni elemento terreno o negativamente spirituale.

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11.26 – IL PROFETA ELIA IV/IV: DINAMICHE PROFETICHE (Apocalisse 11.1-14)

11.26 – Elia  IV: dinamiche profetiche (Apocalisse 11.1-14)

 

1 Poi mi fu data una canna simile a una verga e mi fu detto: «Àlzati e misura il tempio di Dio e l’altare e il numero di quelli che in esso stanno adorando. 2Ma l’atrio, che è fuori dal tempio, lascialo da parte e non lo misurare, perché è stato dato in balìa dei pagani, i quali calpesteranno la città santa per quarantadue mesi. 3Ma farò in modo che i miei due testimoni, vestiti di sacco, compiano la loro missione di profeti per milleduecentosessanta giorni». 4Questi sono i due olivi e i due candelabri che stanno davanti al Signore della terra. 5Se qualcuno pensasse di fare loro del male, uscirà dalla loro bocca un fuoco che divorerà i loro nemici. Così deve perire chiunque pensi di fare loro del male. 6Essi hanno il potere di chiudere il cielo, perché non cada pioggia nei giorni del loro ministero profetico. Essi hanno anche potere di cambiare l’acqua in sangue e di colpire la terra con ogni sorta di flagelli, tutte le volte che lo vorranno. 7E quando avranno compiuto la loro testimonianza, la bestia che sale dall’abisso farà guerra contro di loro, li vincerà e li ucciderà. 8I loro cadaveri rimarranno esposti sulla piazza della grande città, che simbolicamente si chiama Sòdoma ed Egitto, dove anche il loro Signore fu crocifisso. 9Uomini di ogni popolo, tribù, lingua e nazione vedono i loro cadaveri per tre giorni e mezzo e non permettono che i loro cadaveri vengano deposti in un sepolcro. 10Gli abitanti della terra fanno festa su di loro, si rallegrano e si scambiano doni, perché questi due profeti erano il tormento degli abitanti della terra.
11Ma dopo tre giorni e mezzo un soffio di vita che veniva da Dio entrò in essi e si alzarono in piedi, con grande terrore di quelli che stavano a guardarli. 12Allora udirono un grido possente dal cielo che diceva loro: «Salite quassù» e salirono al cielo in una nube, mentre i loro nemici li guardavano. 13In quello stesso momento ci fu un grande terremoto, che fece crollare un decimo della città: perirono in quel terremoto settemila persone; i superstiti, presi da terrore, davano gloria al Dio del cielo.
14Il secondo «guai» è passato; ed ecco, viene subito il terzo «guai».

 

Veniamo ora al nostro testo, dopo aver brevemente cercato di inquadrare l’ambito nello scorso capitolo: a Giovanni viene detto, non scrive da chi, di misurare il tempio di Dio e l’altare, il numero di quelli che adoravano in esso, ma di tralasciare l’atrio: nessuno prende le misure di qualcosa se non ha un progetto che le richiede. Qui, oltre al tempio nella sua parte più sacra, viene detto di contare quelli che adorano, altro indice progettuale non più rivolto a una struttura, ma alle persone. “L’atrio fuori dal tempio” non viene calcolato e quindi, se nell’Antico Patto era figura della benevolenza e del futuro accoglimento dei pagani nel popolo di Dio perché chiunque poteva accedervi, qui è indice di esclusione: nelle parole rivolte a Giovanni si dice che quella porzione del tempio “è stato dato in balìa dei pagani, che calpesteranno la città santa per quarantadue mesi”, lo stesso tempo in cui la bestia eserciterà il suo potere. Nel verbo qui usato, calpestare, abbiamo un riferimento alla profanazione, all’indifferenza, all’ostilità verso tutto ciò che è sacro, a maggior ragione verso la Parola di Dio. Ma il tempio, nella sua parte più vera, viene misurato, reso inattaccabile, a differenza di quello naturale distrutto nel 70 dalle truppe romane. E quando il periodo dato all’uomo per ravvedersi scade, se non ha è provveduto diversamente, porta inevitabilmente con sé una grande rovina.

Gerusalemme quindi sarà il teatro di questi avvenimenti e diventerà un centro di potere perché l’Avversario, nella sua volontà di onnipotenza e oltraggio, mira proprio a considerare la città che più di tutte è stata testimone degli avvenimenti profetizzati e adempiuti, della sofferenza e delle benedizioni di Israele, come sua. O, meglio, vorrà toglierla dalle mani di Dio, conoscendo i Suoi progetti, altrimenti non sarebbe il Distruttore.

A questo punto, al verso tre, vengono nominati i due testimoni, che non possono essere che Elia ed Enoc nonostante siano stati proposti altri nomi, ma tutti di uomini che, a parte il loro valore e funzione avuta in determinati tempi storici, hanno conosciuto la morte. Posto che Dio può sempre fare come vuole e quindi far risorgere Mosè, Giosuè o Zorobabele, questi ultimi citati in Zaccaria 4 nella visione del candelabro e dei due olivi, non si capisce perché debba agire in tal senso quando Elia ed Enoch vennero rapiti nel corpo a voler sottolineare un mettere da parte per un ritorno, come fu e sarà per Nostro Signore. Non si tratta qui di avere la pretesa di capire i piani di Dio stante la limitatezza della mente umana, ma di un processo logico molto semplice visto nel “prendere” che, per il Signore, non è mai per sé, ma per dare. Noi stessi, quando prendiamo qualcosa e lo mettiamo da parte, è perché sappiamo che verrà un momento opportuno perché questo venga utilizzato.

Inoltre va tenuto presente che la morte sancisce per tutti il compimento, la fine di tutto quanto si poteva fare e si è fatto oppure no: il concluso e il sospeso rimangono e il finito incontra l’infinito in salvezza o in condanna, ma Elia ed Enoch? La loro vita non conclusa come tutti gli altri uomini implica che debba ancora risolversi con altri compiti e che solo quando questi saranno esauriti potrà avvenire la loro morte, come sarà e di cui leggiamo al verso 7: “E, quando avranno compiuto la loro testimonianza, la bestia che sale dall’abisso li vincerà, e li ucciderà”. Uno degli ultimi poteri dategli.

Elia ed Enoch “sono i due olivi e i due candelabri che stanno davanti al Signore della terra” (v.4), qui descritti nella loro funzione: l’olivo dà frutti che producono olio, figura dello Spirito Santo oltre che del conferimento di un ruolo spirituale che non può scadere. “Due olivi davanti al Signore della terra”, così chiamato perché è Lui che dirige e ordina, stanno a significare la funzione produttiva dei due profeti: al tempo opportuno daranno e olive e l’olio puro. Il candeliere, o candelabro, è la prima cosa che vede Giovanni al capitolo 1, quando si volta “per vedere la voce che parlava con me” (1.12); se, come gli spiega lo stesso Gesù glorificato, “i sette candelabri sono le sette Chiese”, è facile comprendere l’importanza che hanno i due testimoni: faranno luce, illumineranno prima di tutto i credenti di quella dispensazione che li riconosceranno, ma anche gli altri uomini che proprio per questo li combatteranno. Gli uni da quella luce riceveranno calore e guida, gli altri fastidio e “tormento” perché non potranno negare quanto verrà loro dimostrato, cioè la profonda falsità del loro stile di vita, e per questo gioiranno alla loro morte giungendo addirittura a “scambiarsi doni” come a Natale o a Pasqua, festività che oramai hanno totalmente perso il loro significato, se mai ne hanno avuto uno.

Occorre prestare attenzione a un elemento molto importante e cioè che i grandi miracoli, che caratterizzarono le antiche dispensazioni torneranno perché fonte di richiamo al ravvedimento diverso da come oggi opera il Vangelo: “uscirà dalla loro bocca un fuoco che divorerà i loro nemici” è frase che parla dell’azione dello Spirito Santo, paragonato a “un fuoco” che non può esprimersi altrimenti se non divorando, vale a dire rendendo al nulla tutti quanti sono a Lui contrari; costoro combatteranno i due testimoni in quanto Sua chiara emanazione, personificazione, strumento.

C’è poi il richiamo ad Elia, che faceva la stessa cosa (vedi i versi di 1 Re che abbiamo ricordato), mentre di Enoc sappiamo molto meno: “essi hanno potere di chiudere il cielo, perché non cada pioggia nei giorni del loro ministero profetico. Essi hanno anche potere di cambiare l’acqua in sangue e di colpire la terra con ogni sorta di flagelli tutte le volte che vorranno” (v.6). L’unica cosa che sappiamo del secondo testimone è che “Enoc camminò con Dio, poi scomparve perché Dio lo aveva preso” (Genesi 5.24), reputandolo utile al pari di Elia, sicuramente per come aveva vissuto.

L’autorità che Dio concederà loro sarà quindi totale in quanto “ulivi” e “candelabri”. Teniamo presente questo secondo termine, “candelieri” o “candelabri”, perché non allude solo a degli strumenti che illuminano, ma la cui luce proviene dal creatore: dobbiamo infatti pensare alla “Menorah”, il vero candelabro ebraico a sette braccia, che ardeva con olio puro. Le sue braccia simboleggiano la luce divina che si diffonde, ma anche i sette giorni della Creazione con il sabato come luce centrale così come, secondo altre interpretazioni, il sistema planetario col sole al centro, o l’alfabeto ebraico, quindi la capacità di parlare in modo appropriato con Dio e tra uomini e uomini.

I due testimoni costituiranno per la Bestia e il falso profeta un problema molto serio perché, al verso 10, “questi due profeti erano il tormento degli abitanti della terra” e riusciranno ad ucciderli, lasciano i loro corpi esposti a sostegno della vittoria ottenuta su di loro. La “grande città”, Gerusalemme, al contrario di tutti i significati che riveste negli scritti dell’Antico e del Nuovo Patto, è qui chiamata “simbolicamente Sodoma ed Egitto”, sinonimo di tutte le forme di libertà umane nel peccato che si concreteranno da un lato nella totale e sfrenata “libertà sessuale” – vedi i movimenti per la libera espressione dell’omosessualità, la liberalizzazione della droga etc. – e dall’altro nella schiavitù in cui verranno tenuti da una parte i santi consapevolmente, e gli altri uomini senza rendersene conto in quanto dipendenti in tutto dal proprio Io e dal sistema cui avranno aderito. Fondamentalmente, il “tormento degli abitanti della terra” che i due testimoni avranno esercitato prima del loro venire uccisi, sarà consistito nel richiamo al ravvedimento e allo smascherare gli inganni della struttura satanica che fino ad allora sarà stata impotente contro di loro. Abbiamo letto del tramutare l’acqua in sangue, miracolo che anche i magi d’Egitto furono in grado di riprodurre, ma non in senso inverso, non potendo cioè far tornare il sangue in acqua, a tal punto che “Tutti gli egiziani scavarono allora nei dintorni del Nilo per attingervi acqua da bere, perché non poterono bere le acque del Nilo” (Esodo 7.24). Satana è in grado di essere imitatore di Dio, mai però in senso costruttivo. È un riproduttore astuto al di là di qualsiasi immaginazione, ma resta sempre un ignorante.

Altra riflessione possibile può essere fatta al verso 9, quando leggiamo che “uomini di ogni popolo, lingua e nazione vedono i loro cadaveri per tre giorni e mezzo e non permettono che i loro cadaveri vengano deposti in un sepolcro”: abbiamo qui una divisione formale molto netta, perché gli uomini che “vedono i loro cadaveri” non sono gli stessi che “non permettono che i vengano esposti in un sepolcro”. I primi sono gli abitanti della terra, che potranno seguire l’avvenimento attraverso la televisione, Internet e sui propri smartphone ciascuno nella propria lingua, i secondi saranno i rappresentanti delle varie nazioni e popoli che avranno un potere legislativo tale da vietare la sepoltura dei due corpi.

“Tre giorni e mezzo” è un’espressione che troviamo solo qui. È in contrapposizione ai tempi della triade satanica, che ci ha messo millenni per realizzare il suo progetto, da Babilonia all’epoca degli avvenimenti illustrati, e quarantadue mesi per gestire la terra quando ogni cosa sarà sotto il suo potere. Ora, dopo quei tre giorni e mezzo, la metà di sette, i due testimoni non solo risorgono, ma salgono al cielo dopo “un grido possente dal cielo che diceva: «salite quassù» e salirono al cielo in una nube, mentre i loro nemici li guardavano”. Un altro “rapimento”, dunque, che nella memoria dei loro avversari sarà troppo vicino all’altro, quello della Chiesa, per non fare le necessarie connessioni.

Penultima considerazione è sui superstiti del terremoto che, “presi da terrore, davano gloria al Dio del cielo”: non credo questa sia un’espressione, dare gloria, vada letta in senso positivo. Il vedere i due testimoni ascendere al cielo e il terremoto con le relative vittime non portò ad alcun risultato spirituale, anzi in quattro passi (9.20; 9.21; 16.9; 16.11) leggiamo che “non si ravvidero delle loro opere”. Piuttosto, quel “dare gloria al Dio del cielo” implica l’ammissione del fatto che quanto stava avvenendo era vero, ma senza che possa scoccare la scintilla della conversione, di quel profondo esame che segue l’obiettiva constatazione di un percorso sbagliato. Un parallelo possibile è col pentimento di Giuda Iscariotha, che come sappiamo fu “secondo il mondo”, non certo secondo Dio.

E giungiamo così alla fine di questo nostro breve percorso, la nota che Giovanni pone a metà del capitolo undicesimo, “Il secondo «guai» è passato; ecco, viene subito il terzo «guai»”: non “guaio” come ci si aspetterebbe, ma indicazione relativa alle parole dell’aquila “che gridava a gran voce: «Guai, guai, guai agli abitanti della terra, al suono degli ultimi squilli di tromba che i tre angeli stanno per suonare” (8.13).

Qui credo sia giusto fermarsi: sono tempi imminenti, non nostri, per quei “servi” che li vivranno e che era giusto osservare, da lontano ma al tempo stesso vicini, perché credo che il ruolo di Elia non dovesse essere lasciato in sospeso. Per noi, vale quanto scrive l’apostolo Paolo in 1 Tessalonicesi 4.16,17: “…il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i mirti in Cristo; quindi noi, che viviamo e che saremo ancora in vita, verremo rapiti insieme con loro nelle nubi, per andare incontro al Signore in alto, e così saremo per sempre col Signore”. Amen.

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11.25- IL PROFETA ELIA III/IV: IL TEMPO A VENIRE (INTRO) (Apocalisse 11.1-14)

11.25 – Elia  III: il tempo a venire, introduzione (Apocalisse 11.1-14)

 

1 Poi mi fu data una canna simile a una verga e mi fu detto: «Àlzati e misura il tempio di Dio e l’altare e il numero di quelli che in esso stanno adorando. 2Ma l’atrio, che è fuori dal tempio, lascialo da parte e non lo misurare, perché è stato dato in balìa dei pagani, i quali calpesteranno la città santa per quarantadue mesi. 3Ma farò in modo che i miei due testimoni, vestiti di sacco, compiano la loro missione di profeti per milleduecentosessanta giorni». 4Questi sono i due olivi e i due candelabri che stanno davanti al Signore della terra. 5Se qualcuno pensasse di fare loro del male, uscirà dalla loro bocca un fuoco che divorerà i loro nemici. Così deve perire chiunque pensi di fare loro del male. 6Essi hanno il potere di chiudere il cielo, perché non cada pioggia nei giorni del loro ministero profetico. Essi hanno anche potere di cambiare l’acqua in sangue e di colpire la terra con ogni sorta di flagelli, tutte le volte che lo vorranno. 7E quando avranno compiuto la loro testimonianza, la bestia che sale dall’abisso farà guerra contro di loro, li vincerà e li ucciderà. 8I loro cadaveri rimarranno esposti sulla piazza della grande città, che simbolicamente si chiama Sòdoma ed Egitto, dove anche il loro Signore fu crocifisso. 9Uomini di ogni popolo, tribù, lingua e nazione vedono i loro cadaveri per tre giorni e mezzo e non permettono che i loro cadaveri vengano deposti in un sepolcro. 10Gli abitanti della terra fanno festa su di loro, si rallegrano e si scambiano doni, perché questi due profeti erano il tormento degli abitanti della terra.11Ma dopo tre giorni e mezzo un soffio di vita che veniva da Dio entrò in essi e si alzarono in piedi, con grande terrore di quelli che stavano a guardarli. 12Allora udirono un grido possente dal cielo che diceva loro: «Salite quassù» e salirono al cielo in una nube, mentre i loro nemici li guardavano. 13In quello stesso momento ci fu un grande terremoto, che fece crollare un decimo della città: perirono in quel terremoto settemila persone; i superstiti, presi da terrore, davano gloria al Dio del cielo.
14Il secondo «guai» è passato; ed ecco, viene subito il terzo «guai».

 

Con questo terzo capitolo su Elia ci attende un compito arduo, cioè cercare di capire il suo ruolo in un tempo futuro che va inquadrato; quando infatti Gesù disse ai suoi “Elia è già venuto”si riferiva alla funzione di Giovanni Battista in quanto precursore e non al profeta propriamente vissuto nel IX secolo prima di Lui. Stante il poco spazio a disposizione e il fatto che questa parentesi su Elia viene fatta nel contesto dei Vangeli, darò solo delle aperture comprensibili per dare a chi legge l’opportunità di espanderle.

Anche a Giovanni, Autore del libro dell’Apocalisse, è affidato un incarico difficile: gli viene mostrato il piano di Dio e gli avvenimenti che caratterizzeranno un’epoca da lui enormemente distante e così si ritrova a dover descrivere situazioni e realtà di fronte alle quali gli mancano le parole. Il lessico cambia col tempo, si coniano vocaboli che prima non c’erano e si adattano al nuovo contesto che si viene a creare. Per un qualsiasi uomo dell’epoca di Giovanni sarebbe difficile descrivere anche una bicicletta, figuriamoci un carro armato, un aereo, un drone, un bombardamento, un computer e così via: non gli resta così altro modo che fare riferimenti a ciò che conosce impiegando una terminologia spirituale nota e riconoscibile da chi ama e legge le Scritture consapevole che sia l’unico modo, una volta ricevuto lo Spirito Santo, di comunicare attraverso il tempo. Ecco una delle ragioni per cui “Beato chi legge e beati coloro che ascoltano le parole di questa profezia e custodiscono le cose che vi sono scritte: il tempo infatti è vicino”(1.3). “Leggere” – prendere atto – “ascoltare” – riflettervi sopra, studiare, comprendere – e “custodire” – cioè conservare per il tempo opportuno, ritenere per riconoscere – sono quindi i verbi impiegati da Giovanni per un utilizzo responsabile del messaggio datogli dal Cristo glorificato. L’Apocalisse, infatti, è un libro dato alla cristianità di ogni tempo, a partire dall’anno 100, contenendo avvenimenti che si verificheranno da lì in poi, anche dentro la stessa Chiesa.

Tornando al nostro capitolo 11, la cornice temporale è quella della Gran Tribolazione, cioè quel periodo, della durata di tre anni e mezzo, a cavallo tra il rapimento della Chiesa e il Millennio. Se 1.260 giorni sembrano poca cosa, in realtà costituiranno il periodo più buio di tutta la storia umana e sembreranno trascorrere con una lentezza estrema. Questi giorni partiranno dal rapimento della Chiesa, segnale molto importante dell’amore di Dio per coloro che gli appartengono: i credenti di allora verranno infatti risparmiati dalla Gran Tribolazione, mentre tutti gli altri uomini vi resteranno coinvolti e nulla sarà loro risparmiato. Il rapimento della Chiesa infatti avverrà per toglierla dagli avvenimenti terribili che si verificheranno sulla terra; a ben vedere, questo è sempre stato il metodo di Dio per evitare che la tentazione “oltre le nostre forze”avvenga. L’intervento in proposito lo abbiamo visto con Noè e la sua famiglia ai tempi del diluvio, con il sangue spruzzato sulle porte in Egitto perché il popolo fosse risparmiato dalla strage dei primogeniti, con Lot e i suoi, fatti uscire da Sodoma prima della sua distruzione.

Un piccolo appunto sul “tentati oltre le nostre forze”: molto spesso si applica questo verso a ciò che ci spingerebbe a infrangere il decalogo, ma in realtà, come dimostra il libro di Giobbe, l’Avversario tenta anche con la sofferenza fisica e morale, senza contare quella provocata da coloro che vorrebbero aiutarci attraverso sentenze morali o falsamente spirituali.

Col rapimento della Chiesa verrà quindi a cessare la testimonianza, ma resterà ancora la Scrittura e sarà ancora possibile la conversione, ma senza l’aiuto della predicazione e del riferimento del “Corpo di Cristo”. Di fronte al rapimento, infatti, ci sarà chi lo riterrà un evento inspiegabile e chi ne cercherà le ragioni, non volendo essere coinvolto nel nuovo sistema politico satanico che sarà riconoscibile, per quanto a pochi.

Il periodo dei tre anni e mezzo (42 mesi o 1.260 giorni) vedrà l’opera di due personaggi principali, l’anticristo e il falso profeta, oltre che ad un sistema che Giovanni chiama “bestia”e che rivela in varie forme e modi. La persona dell’Anticristo non è frutto della fantasia di registi e sceneggiatori, ma è “colui che nega il Padre e il Figlio”(1 Giovanni 2.22) e che più precisamente va identificato in 4.3, sempre della stessa epistola: “Ogni spirito che non riconosce Gesù, non è da Dio. Questo è lo spirito dell’anticristo che, come avete udito, vieni, anzi è già nel mondo”.

L’anticristo allora è la sublimazione, l’incarnazione del principio in base il quale il Dio predicato dal cristianesimo è un’invenzione, quindi non esiste, e a Lui va sostituito l’uomo, l’Io nelle sue multiformi espressioni. Non vi è motivo per dubitare che questo personaggio, un politico, costruirà il suo potere sul mondo grazie ad un sistema che raccoglierà in sé tutti gli Stati sotto un’unica legge, la sua. Già ad esso abbiamo una Chiesa che predica l’ascolto dell’ “altro”, ma non quello di Dio.

Attenzione a non prendere il discorso dell’Anticristo alla lettera nel senso che questo personaggio non salirà al potere “umanamente”, cioè con le sue forze, ma con quelle di Satana che preparerà il sistema adatto affinché, almeno all’inizio, si possa instaurare una dittatura morbida, vale a dire una democrazia apparente: l’Anticristo non salirà al potere con una cospirazione, ma sarà acclamato da tutti, Israele compreso che individuerà in lui il Messia, per cui un altro dato certo che abbiamo è che questo personaggio sarà un ebreo.

Se quindi, come abbiamo letto e sappiamo, “lo spirito dell’anticristo è già nel mondo”, va da sé che gli eventi narrati nell’Apocalisse relativamente ai personaggi e strutture che la caratterizzeranno non compariranno tutto a un tratto, ma saranno il risultato di un’evoluzione che, in realtà, iniziò con la costruzione della torre babilonese, simbolo dell’indipendenza dell’uomo da Dio. Dopo di quella, tanti imperi si sono succeduti, anche in tempi a noi vicini. Non a caso Giovanni vede “una bestia salire dal mare”(13.1) e un’altra “che saliva dalla terra”(13.11), entrambe caratterizzate da un verbo, “salire”, che dà proprio l’idea di una progressione; viceversa Giovanni avrebbe scritto “comparire”, “apparire”. La prima bestia “sale”dalla confusione, raffigurata dal mare, la seconda dal profondo dell’orgoglio umano, visto nella “terra”. Non a caso la bestia che sale dal mare riceverà l’ammirazione dell’umanità che vorrà identificarsi in lei a tal punto dall’aderirvi completamente; in 12.4 leggiamo “…e adorarono la bestia dicendo: «Chi è simile alla bestia, e chi può combattere con lei?»”e al verso 8 “E l’adorarono tutti gli abitanti della terra, i cui nomi non sono scritti nel libro della vita dell’Agnello, che è stato ucciso fin dalla fondazione del mondo”.

Allora, con questi due versi, abbiamo un aggiornamento del verbo “adorare”, da noi istintivamente inteso in senso univoco, vale a dire con gente che si prostra, magari pregando o con altre manifestazioni; piuttosto l’adorazione di cui qui si parla consiste, ampliato e in modo ancora più marcato, a quanto da noi già visto quando abbiamo studiato o letto sulle strutture imperialiste come il Comunismo, il Fascismo o il Nazismo, sul tesseramento politico, la fede nei raduni, negli ideali, nei progetti dei vari dittatori. Lenin, Stalin, Mao, Mussolini, Pol Pot, Hitler e tanti altri, furono anche “adorati”, incensati, osannati attraverso non solo la partecipazione straordinaria di masse acclamanti, ma attraverso ritratti, statue e templi che in un certo qual modo personalizzavano, stigmatizzavano il regime. Con la Bestia, avverrà la stessa cosa, ma in modo più subdolo nel senso che sarà necessario escogitare una forma simile, ma non identica, non riconoscibile se non quando sarà, come si dice, “troppo tardi”.

Qui, con la prima bestia che formerà un tutt’uno con la seconda, abbiamo le coscienze umane compresse da ogni parte, indirizzate per non poter fare altrimenti dopo innumerevoli forme di appiattimento mentale e condizionamento di cui già oggi possiamo constatare gli effetti anche senza basarci sulla nostra esperienza di fede: se ai giovani di quaranta, trenta o anche venti anni fa si cercava di far sentire l’individuo come unico e il cinema, la televisione, insomma i media salvo rari casi indirizzavano all’espressione di un sé, per quanto discutibile, oggi tutto questo non esiste più, ma abbiamo una tecnologia che rende schiavi e atrofizza la mente, oltre a tutta una serie di input come la musica, i film, la pubblicità, che portano il giovane a identificarsi con e in modelli assolutamente vuoti, privi di un perché, di un come, di un dove. Anche gli stessi navigatori satellitari, usati come unica fonte di orientamento, impediscono alla persona di sapersi collocare consapevolmente nello spazio orizzontale, a differenza di quanto avveniva con le carte stradali. Tra l’altro tutta questa tecnologia è in grado di funzionare “fino a quando tutto va bene”, ma in caso di guasto, o per meglio dire di guerra, saranno le prime ad essere inutilizzabili. E la gente comune non saprà più come fare perché non in grado di orientarsi al di là di un raggio di 100 chilometri, ed è già una stima elevata. Potremmo continuare, ma ne uscirebbe un libro e non un capitolo.

Se la prima bestia attirerà a sé la parte istintiva-terrena delle persone, la seconda agirà in modo diverso: “esercitava tutta l’autorità della prima bestia davanti a lei e faceva sì che la terra e i suoi abitanti adorassero la prima bestia”(13.12). Il terribile è che “faceva sì che tutti coloro che non adoravano l’immagine della bestia fossero uccisi”, quindi coloro che, nonostante la Chiesa assente, crederanno.

Lo scenario sarà tale che “faceva sì che a tutti, piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e servi, fosse posto un marchio sulla loro mano destra o sulla loro fronte, e che nessuno potesse comperare o vendere, se non chi aveva il marchio o il nome della bestia o il numero del suo nome”(13.16,17). Ora non è difficile connettere la seconda parte del verso a quelle che per il momento sono schede elettroniche come Bancomat, Carte di Credito o di Identità, ma che in futuro – e se ne parla già da tempo – convergeranno tutte in un unico microchip che si pensa di inserire – e così oggi avviene per gli animali domestici o a esseri umani volontari in alcune aziende – proprio nella mano destra o sopra una delle due sopracciglia (per gli esseri umani). Non è un caso se, al momento in cui scrivo queste pagine, i Governi stiano facendo forti pressioni per eliminare il consumo del denaro contante. Anche qui, ciò avviene per gradi ma, se ci voltiamo indietro anche oggi, non possiamo che prendere atto del numero di libertà che abbiamo perso anche sulle cose minime: tutto dev’essere registrato o registrabile, tracciato o tracciabile, compresi non solo i nostri spostamenti, ma ciò che mangiamo, cosa consumiamo, quali siti visitiamo in Internet.

Ora questo sistema convergerà in uno solo, sotto il controllo dell’anticristo (capo politico) e di un personaggio religioso, il falso profeta che, identificandosi nella bestia che “sale dalla terra”, ha “due corna, simili a quelle di un agnello, ma parlava come un dragone”(13.11), quest’ultima figura dell’Avversario. Il falso profeta è caratterizzato dal numero 666, oggetto di interpretazioni innumerevoli da quando il libro dell’Apocalisse è stato divulgato e sul quale non mi soffermo, a parte una sottolineatura della triade del 6 e un rimando a quanto già scritto su questo numero. È importante tener presente che quanto troviamo scritto sulla Gran Tribolazione è fondamentalmente per quei credenti che, attraverso le parole di Giovanni, riconosceranno inequivocabilmente il loro tempo e avranno modo di orientarsi in quel periodo così terribile, traendone consolazione per il premio a loro riservato. Avranno, in poche parole, un’identità certa a differenza di tutti gli altri, come accade da sempre, ma che lì sarà ancora più accentuato.

Va sottolineato che tutto quanto fin qui ho riferito, purtroppo, riporta una visione molto limitata di quello che sarà la vita nella Gran Tribolazione; la mia descrizione non tiene conto degli avvenimenti, come le catastrofi naturali, che caratterizzeranno questo periodo di cui Gesù, aprendo una finestra temporale nel suo complessissimo sermone profetico, dice “Se quei giorni non fossero abbreviati, nessun vivente si salverebbe; ma a causa degli eletti, quei giorni saranno abbreviati”(Mt 24.21).

Ed eccoci, fatta questa premessa, giungere ai due testimoni, di cui abbiamo letto al verso 3 che sarà dato loro di “profetizzare milleduecentosessantagiorni”, lo stesso tempo, più o meno, dei 42 mesi (42×30=1260) dati alla “bestia che sale dal mare”. Siccome però non esistono mesi di 30 giorni uno dopo l’altro, ma anche di 31 e febbraio di 28 (o 29 se cade in un anno bisestile), i giorni dati alla bestia sono, o sarebbero, poco di più. Il contesto della Gran Tribolazione sarà terribile perché, a parte il regime che si instaurerà, vi saranno eventi climatici e astronomici che sconvolgeranno la terra provocando miliardi di morti; ricordiamo ad esempio 9.15 “Furono liberati i quattro angeli, pronti per l’ora, il giorno, il mese d l’anno, al fine di sterminare un terzo dell’umanità”, oppure i flagelli del fumo, del fuoco e dello zolfo al verso 18: inquinamento? Guerra nucleare? Noi lo possiamo ipotizzare, ma chi vivrà il tempo di quelle manifestazioni le riconoscerà con certezza.

Così infatti si apre il libro scritto da Giovani; “Rivelazione di Gesù Cristo, al quale Dio la consegnò per mostrare ai suoi servi le cose che dovranno accadere tra breve”(1.1): noi, per le condizioni in cui versa la terra e gli uomini, per il degrado delle menti e dei cuori che vediamo, possiamo solo capire che gli ultimi tempi li stiamo vivendo, e che il ritorno del Signore Gesù Cristo è veramente vicino. Nel prossimo capitolo, l’ultimo su Elia, cercheremo di concludere la lettura dei dati che l’apostolo Giovanni ha lasciato per il nostro, e soprattutto l’altrui, orientamento. Amen.

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11.24 – IL PROFETA ELIA II/IV: L’INTERPRETAZIONE (Matteo 17.3-8)

11.24 – Elia  II: l’interpretazione (Matteo 17. 3-8)

 

10Allora i discepoli gli domandarono: «Perché dunque gli scribi dicono che prima deve venire Elia?». 11Ed egli rispose: «Sì, verrà Elia e ristabilirà ogni cosa. 12Ma io vi dico: Elia è già venuto e non l’hanno riconosciuto; anzi, hanno fatto di lui quello che hanno voluto. Così anche il Figlio dell’uomo dovrà soffrire per opera loro». 13Allora i discepoli compresero che egli parlava loro di Giovanni il Battista.

 

Redatta, per quanto brevemente, la “carta di identità” di Elia, cercheremo di affrontare un problema piuttosto ostico, e cioè la domanda dei discepoli, “perché dunque gli scribi dicono che prima deve venire Elia?”che riflette l’opinione degli ebrei del tempo. La risposta di Gesù è lapidaria, va al nocciolo della questione e presenta ciò che i dodici dovevano sapere per non sviarsi, e cioè “Elia è già venuto e non l’hanno riconosciuto; anzi, hanno fatto di lui quello che hanno voluto”, con chiaro riferimento alla persona e all’opera di Giovanni Battista. Qui Gesù dà ai suoi discepoli l’interpretazione corretta a fronte di una quantità di opinioni che li disorientavano, cosa che per noi non è perché, a differenza di loro, possiamo contare sulla totalità del Vangelo scritto e delle Epistole.

Per avere un quadro generale delle opinioni attorno a Elia a quel tempo occorre prendere in esame gli scritti di allora, come la letteratura intertestamentaria, cioè quella costituita dagli scritti non ritenuti sacri oltre i libri non accettati dal canone ebraico (Giuditta, Tobia, I e II Maccabei, Sapienza, Siracide, Baruc e la versione greca del libro di Ester). Accanto a questi ve ne sono altri che, nonostante non accolti e posti sullo stesso piano degli altri, forniscono comunque testimonianza non della Verità, ma di quella che era l’opinione dell’autore e di quanti la condividevano.

Si riteneva ad esempio che Elia, con Mosè, Isacco, Giacobbe, Giosuè e Daniele, sarebbe tornato con tutti gli altri profeti che il popolo aveva ucciso oppure che, giungendo su un carro di fuoco, quel profeta avrebbe comunicato i segni che avrebbero annunciato la fine del mondo, come tenebre, fuoco e caduta delle stelle. Potrebbe sembrare un estensione  di Malachia 3.23, (“Ecco, io invierò il profeta Elia prima che giunga il giorno grande e terribile del Signore”), ma in realtà era interpretato come evento autonomo. Del I sec. a.C. è il libro di Enoch, che collega Elia strettamente al Messia in una visione nella quale agisce prima del giorno del giudizio come Suo precursore ma, nonostante questo, pare essere considerato come figura salvifica autonoma.

Abbiamo poi la letteratura di Qumran, nella quale il profeta è presente in un solo frammento in aramaico in cui leggiamo “Vi manderò prima Elia” senza specificare di cosa. L’ attesa di un precursore, comunque, non si era interrotta, ma continuava in molti ambienti, compreso quello degli Esseni che gli attribuivano un ruolo di riconciliazione visto nella frase “In verità i padri vanno dai figli”. Si tratta di due frammenti importanti, perché testimoniano che nella Palestina in cui poi operò Gesù c’era effettivamente questa attesa elianica prima di un evento che avrebbe risollevato il popolo d’Israele. Una visione certo confusa, ma corretta se interpretata alla luce dei dati che abbiamo oggi.

Nella letteratura Targumica, cioè quella inerente la versione aramaica della Bibbia, andando l’ebraico progressivamente in disuso, Elia è raccordato a Fineas, uno dei capi delle casate dei leviti secondo Edodo 6.25. Fineas uccise con una lancia Zimbri con la moglie Cozbi, madianita, perché la loro unione aveva violato il divieto di Dio di unirsi con pagani; successivamente, in Numeri 13.6-7, Fineas è citato come uno dei capi nella spedizione contro i madianiti, rei di aver portato il popolo di Israele all’idolatria. Fineas, che nella tradizione dell’Antico Patto ricopre il ruolo di chi punisce l’idolatria e la contaminazione coi pagani,  è definito in un manoscritto “l’altro sacerdote Elia, che alla fine dei giorni sarà mandato dagli esuli di Israele”, identificazione fatta perché le parole “messaggero” e “alleanza” vengono usate nella Scrittura per entrambi, Elia e Finees.

Abbiamo infine gli scritti rabbinici che presentano il tema del ritorno di Elia molto frequentemente: nella maggioranza di questi testi il fatto che avrebbe convertito “il cuore dei padri ai figli”e viceversa era interpretato col fatto che avrebbe risolto tutte le dispute al fine di costruire la pace nel mondo, ma anche tutte quelle questioni teologiche sulle quali i rabbini non erano d’accordo o non in grado di fornire delle risposte. Elia sarebbe stato l’arbitro definitivo, decidendo sulle questioni genealogiche, regolarizzando i matrimoni misti in vista della purità rituale e, in altri passi, sarebbe stato anche responsabile della resurrezione dei morti.

Riassunto, forse banale ma stringato di tutte le convinzioni, è che il riferimento al Messia era secondario e la convinzione più forte era quella che Elia avrebbe caratterizzato l’era messianica, anche se non si sapeva bene come. Una forte traccia di questa confusione la vediamo alla croce, quando in Matteo 27.47-49, al grido “Elì, Elì, lemà sabactàni?” udendo questo, alcuni dei presenti dicevano: «Costui chiama Elia».(…) Gli altri dicevano: «Lascia! Vediamo se Elia viene a salvarlo!»”.

Tenendo presente il principio rivelato da Gesù “Elia è già venuto e non l’hanno riconosciuto, anzi hanno fatto di lui ciò che hanno voluto”, in un manoscritto del III secolo d.C., ci si chiede se si può bere vino nel giorno della venuta del Messia e si risponde che è vietato “perché Elia non è ancora venuto”.

È indubbio che in molti scritti giudei del I secolo a.C. era radicata la convinzione che Elia sarebbe venuto prima del “giorno del Signore”e, di conseguenza, era facile considerarlo come precursore del Messia.

“Prima”, quindi riprendendo la domanda dei discepoli, “deve venire Elia”: è un’opinione alla quale dovevano aver creduto e sarebbe rimasta latente in loro se non lo avessero visto – e sentito – parlare con Gesù alla trasfigurazione; da quella visione sul monte, allora, derivò un disorientamento perché non riuscivano a capire come mai proprio quell’Elia, presente fisicamente a poca distanza da loro, non fosse venuto “prima”, ma si fosse rivelato solo in quella circostanza.

A questo punto Gesù fuga ogni dubbio, e cioè che l’insegnamento degli scribi era corretto, perché “Sì, verrà Elia e ristabilirà ogni cosa”, oppure “Veramente deve prima venire Elia”(Marco 9.13) dove quel “prima”si riferisce proprio a “prima”di Gesù. Per inquadrare correttamente i due versi, in cui il “venire” è messo da Matteo al futuro perché gli preme collegarsi a Malachia, occorre rifarsi alle nozioni che già possediamo su Giovanni Battista e andare a quegli episodi che abbiamo già esaminato, dall’annuncio a Zaccaria alle sue risposte alla delegazione venuta a Gerusalemme per interrogarlo. Il “ristabilirà ogni cosa”detto da Gesù non vuol dire che la predicazione dell’Elia che lo aveva preceduto avrebbe avuto un effetto immediato negli uomini, ma rivela le intenzioni di Dio riguardo ad Israele, cioè che avrebbe potuto convertirsi. Il “ricondurre il cuore dei padri verso i figli”e viceversa è una verità riferita alla connessione fra l’Antico e il Nuovo patto in un legame indissolubile di continuità e aggiornamento, rivelazione. E il “ristabilirà”di Elia-Giovanni Battista non si riferisce ad una sorta di edificazione miracolosa, ma al verificarsi di una serie di eventi riconoscibili da chi avrebbe voluto davvero accogliere il Cristo e non altri. Giovanni, infatti, sappiamo che è l’ultimo profeta della dispensazione della Legge, il ponte fra la vecchia e la nuova, e il primo della Grazia.

Come la storia di ogni uomo è costituita da piccoli, ma incessanti passi e tappe, così avviene per il popolo di Dio, sia questo Israele oppure la Chiesa. Ricordiamo le parole di Gabriele: “Ricondurrà molti figli di Israele al Signore loro Dio”, cioè porrà le basi perché questo possa avvenire. Nel suo ministero, Giovanni Battista fece proprio questo, cioè predicò il ravvedimento, in vista del Salvatore. Nel “ristabilirà ogni cosa”possiamo così discernere tutti i tentativi possibili perché gli uomini potessero porsi nelle condizioni di accogliere il Cristo e, se leggiamo gli episodi in cui Giovanni fu protagonista, vediamo che ebbe sempre una funzione perché il cuore degli uomini fosse mosso all’accoglimento del Figlio di Dio: predicò, battezzò, quando venne il momento indicò in Gesù “l’Agnello di Dio”e si mise da parte con le parole “Lui deve crescere; io, invece, diminuire”(Giovanni 3.30), a conferma del fatto che la sua opera stava per concludersi.

Il “ristabilire” di Elia-Giovanni è poi collegato a quello di Gesù Cristo, secondo il discorso di Pietro nel Tempio: “Convertitevi dunque e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati e così possano giungere i tempi della consolazione da parte del Signore ed egli mandi – nei vostri cuori – colui che vi aveva destinato come Cristo cioè Gesù. Bisogna che il cielo lo accolga fino ai tempi della ricostituzione di tutte le cose, della quali Dio ha parlato per bocca dei suoi santi profeti fin dall’antichità” (Atti 3. 19-21). Questa è stata la funzione di Giovanni Battista-Elia, un tassello importante in vista della realizzazione di quel progetto, di respiro ben più ampio, che è la nuova creazione in cui vivranno tutti coloro che hanno creduto e agito secondo quanto è a loro stato dato.

“Elia è venuto e non l’hanno riconosciuto”: c’è una chiara accusa in queste parole, riferita alla cecità della mente e del cuore che il Battista stesso aveva denunciato con la frase “Razza di vipere, chi vi ha insegnato a fuggire l’ira futura?”(Marco 1.15), domanda che viene rivolta perché lì il loro “maestro” non poteva essere che l’Avversario cui gli scribi e i farisei davano ascolto.

“Anzi, hanno fatto di lui ciò che hanno voluto”, chiaro riferimento da un lato alla congiura dei due gruppi perché fosse arrestato da Antipa, e allo stesso re che non diede ascolto alle sue parole e a quel senso di timore che queste generavano il lui. “Ciò che hanno voluto”, cioè consapevolmente, per quell’ “ignoranza” che non è frutto di un non sapere, ma di un non voler distinguere i segni dei tempi non accogliendo le Parole di vita eterna. “Tu solo hai parole di vita eterna”.

Gesù conclude il suo intervento con parole semplici, “così anche il figlio dell’uomo dovrà soffrire per opera loro”: la Parola che “si è fatta carne e venne ad abitare in mezzo a noi”, che avrebbe dovuto suscitare la conversione del Suo popolo, verrà da lui condannata a morte e uccisa; così fanno tutti coloro che hanno uno spirito contrario. È probabile che Matteo qui riporti questa frase impiegata nel tentativo di far comprendere ai discepoli un principio che per loro rimase incompreso e che Marco ci consente di identificare: “Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti. Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti”(9. 9,10).

Con l’espressione “soffrire molte cose”, Gesù allude poi alle sofferenze morali e spirituali che il Suo Sacrificio avrebbe comportato, condizione che Marco descrive col termine “annichilito”, più corretto rispetto a “disprezzato” che altri riportano. “Annichilire” ha infatti tra i suoi sinonimi “annientare”, “ridurre al nulla”, distruggere”. E qui sempre l’apostolo Pietro dice “Voi, per mano di pagani, l’avete crocifisso e l’avete ucciso. Ora Dio lo ha risuscitato, liberandolo dai dolori della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere”(Atti 2.23,24). La volontà degli iniqui a fronte di quella di Dio. “Voi avete rinnegato il Santo e il Giusto, e avete chiesto che vi fosse consegnato un assassino. Avete ucciso l’autore della vita, ma Dio lo ha risuscitato dai morti”(3.14).

Il verso che conclude l’episodio in cui Gesù scendeva dal monte coi suoi, testimonia quanto sia distante l’insegnamento dello Spirito da quello della carne: “Allora essi compresero che parlava di Giovanni Battista”: per loro era importante capire “Perché dicono gli scribi che prima deve venire Elia”, lasciando in secondo ordine la morte del loro Maestro. È bello però vedere che, dalle parole di Pietro citate poco prima in Atti, parlò proprio di quella morte salvifica facendo riferimento alle verità infinite contenute nella morte e resurrezione di Gesù. La rivelazione pose lui e gli altri undici in un altro ambito di conoscenza ed esperienza oggi a portata di ogni cristiano, ma cui ben pochi pensano. Amen.

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11.23 -IL PROFETA ELIA I/IV: LA VITA (MATTEO 17.3-8)

11.23 – Elia I/IV: la vita (Matteo 17. 3-8)

 

10Allora i discepoli gli domandarono: «Perché dunque gli scribi dicono che prima deve venire Elia?». 11Ed egli rispose: «Sì, verrà Elia e ristabilirà ogni cosa. 12Ma io vi dico: Elia è già venuto e non l’hanno riconosciuto; anzi, hanno fatto di lui quello che hanno voluto. Così anche il Figlio dell’uomo dovrà soffrire per opera loro». 13Allora i discepoli compresero che egli parlava loro di Giovanni il Battista.

 

La domanda dei discepoli a Gesù “Perché dunque gli scribi dicono che prima deve venire Elia”sappiamo che fu rivolta a Gesù dopo la proibizione di parlare a chiunque dell’evento di cui erano stati testimoni, la Sua trasfigurazione. Notiamo che non viene chiesto il motivo del divieto, ma che l’attenzione dei discepoli si sposta sull’identità di Elia che avevano visto poco prima parlare con Lui: Pietro, Giacomo e Giovanni, infatti, probabilmente non avevano ancora capito che Mosè, a parte il ruolo fondamentale da lui avuto, rappresentava ormai il passato pur nella sua continuità e grandissima importanza, ma attorno ad Elia avevano certamente delle conoscenze confuse, al pari dei loro conterranei. Credo allora sia necessario aprire una parentesi in questi nostri studi che hanno la persona e l’opera di Gesù al centro, e compilare una carta d’identità di questo profeta così importante, inquadrandolo tanto per la vita che ebbe, quanto riportando le credenze attorno a lui, per poi finire sviluppando il ruolo che gli è riservato nel tempo futuro. Molti versi che riporterò sono solo la parte indispensabile, riassuntiva.

Elia è detto “il tisbita”perché originario di Tisbah, nel paese di Galaad; apparteneva alla tribù di Beniamino e visse nel IX secolo a.C.; nulla si sa della sua formazione né della sua vita fino al momento in cui il suo nome irrompe nel primo libro dei Re al capitolo 17 quando si presenta davanti al re Acab di cui è detto, al capitolo 16, che “fece ciò che è male agli occhi del Signore più di tutti quelli prima di lui. Non gli bastò imitare il peccato di Geroboamo– l’idolatria –, figlio di Nebat, ma  prese anche in moglie Gezabel, figlia di Etbàal, re di quelli di Sidone, e si mise a servire Baal e a prostrarsi davanti a lui. Eresse  un altare a Baal nel tempio di Baal, che aveva costruito a Samaria. Eresse anche il palo sacro – tradotto anche con “bosco” inteso come luogo per i sacerdoti e i riti esterni –e continuò ad agire provocando a sdegno il Signore, Dio di Israele, più di tutti i re di Israele prima di lui”(vv.31-33). È importante tenere a mente le parole di Elia ad Acab: “Per la vita del Signore, Dio di Israele, alla cui presenza io sto, in questi anni non ci sarà né rugiada, né pioggia, se non quando lo comanderò io”(17.1).

Nello stesso capitolo abbiamo il miracolo della farina e dell’olio della vedova di Sarepta, citato a proposito di quello dei pani e dei pesci operato da Gesù, donna presa da Lui ad esempio quando disse “C’erano molte vedove in Israele al tempo di Elia, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elia, se non a una vedova a Sarepta di Sidone”(Luca 4. 25.26). Oltre ai due miracoli citati, Elia fu anche protagonista della resurrezione del figlio di quella vedova.

Proseguendo, al capitolo 18, abbiamo il famoso incontro coi profeti di Baal che, nonostante i loro riti prolungatisi per ore, non riuscirono a compiere il miracolo richiesto, cosa che invece fece Elia, ed il loro sterminio. Il capitolo successivo, il 19, dà dei cenni sulla psicologia e le azioni di Gezabel, ma soprattutto fornisce dati fondamentali sull’esperienza del profeta: mentre dormiva nel deserto in cui si era rifugiato, fu svegliato da un angelo che gli aveva portato da mangiare “una focaccia cotta su pietre roventi e un orcio d’acqua”(1 Re 19.5): ricordiamo la presenza degli angeli quando Gesù terminò il suo digiuno, che  quando “il diavolo lo lasciò, ecco, degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano”(Matteo 4.11).

Elia, al pari di Mosè – e qui c’è un’altra connessione interessante con l’episodio della trasfigurazione appena esaminato – “camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb”, sul quale erano state consegnate le Tavole. E qui abbiamo un episodio particolarissimo: “Là entrò in una caverna per passarvi la notte, quand’ecco gli fu rivolta la parola del Signore in questi termini: «Che cosa fai qui, Elia?». Egli rispose: «Sono pieno di zelo per il Signore, Dio degli eserciti, poiché gli israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi cercano di togliermi la vita». Gli disse: «Esci e fèrmati sul monte alla presenza del Signore». Ed ecco, il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento, un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto, un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera. Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna”(vv.9-13).

Confrontando ora ciò di cui Elia fu testimone col racconto del libro dell’Esodo riferito a Mosè, abbiamo delle differenze sostanziali: “Il terzo giorno, sul far del mattino, vi furono tuoni e lampi, una nube densa sul monte e un suono fortissimo di corno: tutto il popolo che era nell’accampamento fu scosso da tremore.(…) Il monte Sinai era tutto fumante, perché su di esso era sceso il Signore nel fuoco, e ne saliva il fumo come il fumo di una fornace: tutto il monte tremava molto. Il suono del corno diventava sempre più intenso: Mosè parlava e Dio gli rispondeva con una voce”(Esodo 19. 16-19).

Quando allora è il popolo a venire chiamato a seguire il Signore, questi si rivela con potenza, ma quando ad essere chiamato è il singolo, allora abbiamo una manifestazione molto più particolare, che punta dritto alla persona nel modo più naturale possibile. Ricordiamo come Iddio si presentò a Mosè la prima volta: con il pruno ardente. Non vi erano terremoti o vento, ma lo stesso monte, l’Oreb, e una fiamma di fuoco in mezzo al pruno, o “roveto” come altri traducono. Per Elia in particolare la brezza leggera fu un insegnamento che andò al di là del messaggio che Dio aveva per lui, preceduto dalla domanda “Che cosa fai qui, Elia?”, alla quale anche noi dovremmo dare una risposta ogni qualvolta ci avviciniamo a Lui.

“Cosa fai qui”è una domanda molto impegnativa perché coinvolge tutta la persona: deve dare ragione della sua presenza davanti a Dio, di quello che ha fatto, pensato. Si trova di fronte al Dio in ascolto che automaticamente lo valuta: siamo lì per chiedere o per ascoltare? Quanto portiamo della nostra umanità carnale davanti a Lui? Ci presentiamo a mani vuote?

Tornando al modo con cui il Signore si rivelò, se terremoto, fuoco, vento impetuoso, tuoni e fulmini sono elementi che spaventano, che ci parlano di giudizio, vaglio, potenza, la brezza certamente no: questa si riferisce alla tranquillità di Dio, che ricordiamo “passeggiava nel giardino alla brezza del giorno”(Genesi 3.8). Mosè ed Elia, quindi, avevano bisogno di conoscere, attraverso il modo con cui si rivelò, un altro aspetto di Dio, che contempla anche le cose minime, del tutto naturali e sommesse, che non suscitano ammirazione o timore per la loro fragorosità e imponenza, che non lo fanno conoscere come giusto giudice, ma come Padre prima di tutto amorevole. Non a caso la “brezza”, a parte questi due versi, è impiegata nella Scrittura nel Cantico, dove in 2.17 leggiamo “Prima che spiri la brezza del giorno e si allunghino le ombre, ritorna, amato mio, simile a gazzella o a cerbiatto, sopra i monti degli aromi”. Ancora in 4.6, “Prima che spiri la brezza del giorno e si allunghino le ombre, me ne andrò sul monte della mirra e sul colle dell’incenso”. E il Cantico ci parla di un amore senza errori né fine, in cui la visuale dell’Altro non è inquinata da un sentimento generico, ma dall’unicità della Sposa e dello Sposo visto nella frase “Come un giglio fra i rovi, così l’amica mia fra le ragazze. Come un melo fra gli alberi del bosco, così l’amato mio fra i giovani”.

Elia, proseguendo nei suoi dati biografici, chiamò Eliseo gettandogli il suo mantello. Poi fu al tempo stesso strumento di Dio perché Acab si pentisse: nonostante le parole “In realtà nessuno si è mai venduto per fare il male agli occhi del Signore come Acab, perché sua moglie Gezabel l’aveva istigato”(21.25), ai versi 27-29 leggiamo “Quando sentì tali parole– quelle che Elia gli rivolse per ordine di YHWH –, Acab si stracciò le vesti, indossò un sacco sul suo corpo e digiunò; si coricava con il sacco e camminava a testa bassa, La parola del Signore fu rivolta a Elia, il Tisbita: «Hai visto come Acab si è umiliato davanti a me? Poi ché si è umiliato davanti a me, non farò venire la sciagura durante la sua vita; farò venire la sciagura sulla sua casa durante la vita di suo figlio”, Achazia, anch’egli idolatra e col quale Elia avrà a che fare.

Elia, per il potere datogli da Dio, fece piovere fuoco dal cielo per una volta (1 Re 18.38) più due (2 Re 1.10), uccise i profeti di Baal, percosse le acque del Giordano col proprio mantello arrotolato “che si divisero di qua e di là”(2 Re 2.8), altro riferimento a Mosè, e infine, quando era in compagnia di Eliseo, “mentre continuavano a camminare conversando, ecco un carro di fuoco e cavalli di fuoco si interposero fra loro due. Elia salì nel turbine verso il cielo”(Re 2.11).

Questo breve excursus sul profeta altro scopo non ha se non quello di raccogliere dei dati strettamente inerenti al piano che ho previsto per lo studio su di lui e non può in alcun modo sostituire la lettura individuale, ma possiamo comunque raccogliere in sintesi ciò che effettivamente fu: un uomo di Dio da Lui chiamato. Con questa qualifica, che non scelse ma evidentemente accettò, fu un uomo che riprese comportamenti volutamente errati e devianti altrui in quanto la Legge esisteva ed era nota. I suoi miracoli da sottolineare, non perché più importanti, ma perché verranno utili più avanti, sono quelli della siccità e della pioggia, ed infine il fuoco che divorò per due volte gli inviati di Achazia, in altrettanti gruppi di cinquanta più il loro comandante, oltre che l’olocausto che i profeti di Baal non riuscirono a bruciare. Inoltre, fu rapito da Dio, azione avvenuta certamente non senza scopo.

Se Gesù era disceso dal cielo, cioè quella dimensione a noi inaccessibile, e al cielo tornava, non così può dirsi di Elia e, prima di lui, Enoch, che vennero dalla terra, ma a lei non tornarono come tutti gli altri uomini. E poiché Iddio non fa nulla senza uno scopo, il loro rapimento ci parla di un essere messi da parte per uno scopo preciso, unico, che è stato rivelato nel capitolo 11 dell’Apocalisse, ma che non si è ancora compiuto perché i tempi non sono ancora quelli in cui dovranno operare. Tra l’altro, proprio la vicenda del rapimento di Elia sarà quella su cui si interrogheranno e Maestri per secoli, basandosi su Malachia 3.23 già citato in altro studio: “Ecco, io invierò il profeta Elia prima che giunga il giorno grande e terribile del Signore”.

Ultimo riferimento possibile è al libro del Siracide, deuterocanonico, che nel capitolo 48 parla di Elia (e poi Eliseo) con parole molto importanti soprattutto al verso 10 in cui è impossibile non discernere l’opera dello Spirito Santo nella rivelazione: “Tu sei stato assunto in un turbine di fuoco, su un carro di cavalli di fuoco; tu sei stato designato a rimproverare i tempi futuri, per placare l’ira prima che divampi, per ricondurre il cuore del padre verso il figlio e ristabilire le tribù di Giacobbe”.

Questo verso allora esprime tre periodi: il primo è quello della storia passata, di cui molto abbiamo letto. Il secondo, contrariamente ad ogni logica o possibilità carnale, anticipa l’impiego di Elia nei tempi a venire, per noi e per l’autore del libro, mentre il terzo ha connessione con l’opera di Giovanni Battista e del Signore Gesù Cristo perché le parole dell’Angelo a Zaccaria furono, tra le altre “Egli camminerà innanzi a lui con lo spirito e la potenza di Elia, per ricondurre i cuori dei padri verso i figli e i ribelli alla saggezza dei giusti e preparare al Signore un popolo ben disposto”(Luca 1.13). Attenzione che Gabriele non disse che suo figlio ed Elia sarebbero stati la stessa persona, ma che Giovanni, che avrebbe avuto il suo stesso “spirito e potenza”, avrebbe potuto essere a lui assimilabile. Per Gesù Cristo, invece, valgono le parole del cantico di Paolo nella lettera agli Efesi sullo scopo del piano di salvezza per ogni credente: “Egli l’ha riversata in abbondanza su di noi – la grazia – con ogni sapienza e intelligenza, facendoci conoscere il mistero della sua volontà, secondo la benevolenza che in lui si era proposto per il governo della pienezza dei tempi: ricondurre al Cristo, unico capo, tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra”. Amen.

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11.22 – LA TRASFIGURAZIONE III/III: MOSÈ ED ELIA

11.22 – La trasfigurazione III: Mosè ed Elia  (Matteo 17. 3-8)

 

3Ed ecco, apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui. 4Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». 5Egli stava ancora parlando, quando una nube luminosa li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce dalla nube che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo». 6All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. 7Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: «Alzatevi e non temete». 8Alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo. 9Mentre scendevano dal monte, Gesù ordinò loro: «Non parlate a nessuno di questa visione, prima che il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti».

 

L’estrema particolarità del racconto si apre con “Ed ecco”, riferita al momento in cui il volto e il vestito di Gesù raggiunsero il massimo del loro splendore. Solo allora “apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui”. A questo punto è spontaneo chiedersi come abbiano fatto i tre testimoni a sapere chi fossero i “due uomini” (Luca 9.30) che apparvero e parlarono con Lui. Il fatto che Luca li descriva così, “due uomini” e che solo dopo precisi la loro identità ci dice che, quando apparvero, i discepoli non sapevano chi fossero, per cui solo ascoltando le parole che si dissero Gesù, Mosè ed Elia, arrivarono a scoprirne l’identità.

Matteo e Marco tacciono sull’argomento, ma Luca, evidentemente dopo avere interrogato Pietro sullo specifico, scrive “…parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme” (v.31): il rappresentante della Legge, in quando fu Mosè a darla al popolo per ordine di Dio, e quello dei profeti, ci parlano di perfetta congiunzione, continuità perché tanto l’una che l’altra – Legge e Profezia – convergevano in un unico punto, il Figlio di Dio fattosi uomo. È molto importante la presenza di Elia perché, come Enoch, non conobbe la morte venendo rapito mentre era ancora in vita.

Ciò a cui i tre discepoli assistevano, era proprio questo: Mosè ed Elia parlano con Gesù del suo “esodo”, cioè della morte che avrebbe affrontato ed è singolare il termine usato, “exodos”, non confondibile con “exitus” perché qui Luca usa lo stesso termine impiegato per descrivere l’uscita degli Israeliti dall’Egitto per la terra di Canaan. L’ “exodos”, che qui ci dà l’idea della morte, in realtà allude alla Sua resurrezione ed ascensione al cielo con cui Gesù abbandonerà – come uomo – fisicamente per sempre la Terra.

Mosè incontrava di persona Colui del quale aveva profetizzato, “il fine – cioè lo scòpo – della Legge”, Elia Colui che nei tempi antichi gli aveva parlato e la sua presenza lì, ad esempio al posto di Isaia, Daniele, Geremia o altri profeti illustri, trova la sua ragione nel fatto che la sua persona, unitamente a quella di Enoch, è conservata per il tempo della fine quando torneranno entrambi sulla terra per esercitare la loro testimonianza. Ricordiamo sempre che Gesù è al tempo stesso punto di arrivo per le profezie dell’Antico Patto, per lo meno di molte, e di partenza per la Nuova Creazione, avvenuta o che si sta costruendo spiritualmente, ma non ancora materialmente nel senso di manifestazione chiara, ufficiale, come verrò definitivamente sancito con l’avvento dei “Nuovi cieli e nuova terra dove dimora stabile la giustizia”.

Sull’opera dei due testimoni, va detto che sarà talmente grande e importante da rendere impossibile riferimenti diversi al di fuori di Elia ed Enoch proprio perché il loro rapimento, avvenuto nell’antichità, non avrebbe altrimenti senso. Leggiamo ciò che scrive di loro Giovanni, tenendo presente che usa un linguaggio figurato, compatibile con le sue conoscenze di uomo del primo secolo: “Questi sono i due olivi – simbolo di giustizia e sapienza – e i due candelabri – simbolo di luce – che stanno davanti al Signore della terra. Se qualcuno pensasse di far loro del male, uscirà dalla loro bocca un fuoco che divorerà i loro nemici. Così deve perire chiunque pensi di far loro del male. Essi hanno potere di chiudere il cielo, perché non cada pioggia nei giorni del loro ministero profetico. Essi hanno anche potere di cambiare l’acqua in sangue e di colpire la terra con ogni sorta di flagelli, tutte le volte che lo vorranno. E quando avranno compiuto la loro testimonianza, la bestia che sale dall’abisso farà guerra contro di loro, li vincerà e li ucciderà. I loro cadaveri rimarranno esposti sulla piazza della grande città, che simbolicamente si chiama Sodoma ed Egitto, dove anche il loro Signore fu crocifisso. Uomini di ogni popolo, lingua e tribù, lingua e nazione vedono i loro cadaveri – televisione satellitare o internet – per tre giorni e mezzo e non permettono che i loro cadaveri vengano deposti in un sepolcro. Gli abitanti della terra fanno festa su di loro, si rallegrano e si scambiano doni, perché questi due profeti erano il tormento degli abitanti della terra. Ma dopo tre giorni e mezzo un soffio di vita che veniva da Dio entrò in essi e si alzarono in piedi, con un grande terrore di quelli che stavano a guardarli. Allora udirono un grido possente dal cielo che diceva loro: «Salite quassù» e salirono in cielo in una nube, mentre i loro nemici li guardavano. In quello stesso momento ci fu un grande terremoto che fece crollare un decimo della città: perirono in quel terremoto settemila persone; i superstiti, presi da terrore, davano gloria al Dio del cielo” (Apocalisse 11.6-13).

Ho voluto aprire questo squarcio sul futuro per non lasciare un vuoto sulla funzione di Elia, che come quella di Enoch deve ancora concludersi non essendo entrambi passati attraverso la morte del corpo, ma l’oggetto della sua conversazione con Gesù fu comunque imperniata sul Suo “esodo” perché solo grazie alla Sua morte e resurrezione sarebbe stata rivelata in modo inequivocabile l’immortalità di tutti coloro che a Cristo sarebbero appartenuti: la loro vita non cesserà con la morte del corpo, ma il nostro spirito e anima torneranno a Dio.

Non avendoci lasciato le parole che si dissero Gesù, Mosè ed Elia, non possiamo ipotizzare quanto tempo durò il loro dialogo; fatto sta che, avuta l’occasione, Pietro non esitò a caratterizzare la propria natura con un intervento inopportuno, dovuto alla paura irrazionale per tutto ciò di cui non riusciva a capacitarsi, oltre al sopravvalutare la sua persona. Marco dice che Pietro “non sapeva cosa dire, perché erano spaventati”, Luca “Egli non sapeva quello che diceva” e ricordiamo che Mosè stesso, quando si trovò sul Sinai, è scritto che “Lo spettacolo era così terrificante che Mosè disse «Ho paura e tremo»” (Ebrei 12.21).

Nel nostro caso Pietro, spaventato, non sa cosa fare – ma non sarebbe stato sufficiente ascoltare, dato che era protetto comunque dal suo Signore? – e si indirizza verso un gesto teso a trattare tutti grossolanamente nello stesso modo, pur rivolgendosi a Gesù per primo: “Signore, è bello per noi essere qui! – e “bello” non ha nulla a che vedere con la paura, per cui pronuncia una frase di circostanza – Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia”. Era la sua reazione di fronte a ciò che non comprendeva, ponendo comunque se stesso e Giacomo con suo fratello in secondo piano, perché le tende per loro non le menziona.

Pietro s’inserisce così a sproposito in un contesto di una tangibilità spirituale unica, ma provoca un evento teso a distruggere qualunque attività superstiziosa o comunque fuori luogo, estranea dalla logica ed aspettative di Dio Padre: “Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!”. I traduttori del nostro testo, però possono generare confusione con quel “li”, poiché non è chiaro se si riferisca ai discepoli o a Gesù, Mosè ed Elia. Luca scrive “Mentre parlava così, venne una nube e li coprì con la sua ombra. All’entrare nella nube, ebbero paura”. La traduzione Diodati, meno interpretativa, riporta “Mentre egli diceva queste cose, venne una nuvola che adombrò quelli, e i discepoli temettero, quando quelli entrarono nella nuvola”.

Va prestata attenzione al tipo di nube, che Matteo non a caso è l’unico a specificare poiché parla di “una nube luminosa” affinché i suoi lettori ebrei potessero identificarla con la Sekinah, la stessa che indicava al popolo che Dio era presente in mezzo a loro, quella che lo condusse nel deserto, che prese possesso nel tempio di Salomone e che accolse Cristo nella sua ascensione. La nube copre Gesù, Mosè ed Elia e la voce del Padre esorta i testimoni, e quindi noi, ad ascoltare “il Figlio mio, l’amato, in cui ho preso il mio compiacimento”, non altri, non i presenti all’incontro con Gesù nonostante la loro autorevolezza. Allo stesso modo il cristiano si deve ben guardare dall’ascoltare altri voci che non siano quelle del Cristo e soprattutto non farle ascoltare, come fa la Chiesa di Roma promuovendo, fortunatamente non sempre, un politeismo anomalo o, meglio, inserendo degli dèi minori quali coadiutori del Padre e del Figlio.

Eppure, il concetto dell’Unicità e Identità di Dio risiede nel concetto stesso della nuvola che significava la presenza dell’Eterno agli occhi degli uomini dell’Antico Patto, che qui avvolge Gesù, Mosè ed Elia e, dopo l’invito ad ascoltare il Figlio, si dissolve lasciandolo solo, non più trasfigurato. Pietro, Giacomo e Giovanni udirono la voce di Dio, e “caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore”: fu una voce diversa da quella di Gesù, che parlava con un timbro umano quindi rapportata al loro udito limitato.

Mi sono chiesto perché gli apostoli furono presi da timore e credo che la risposta risieda nel fatto che capirono sia cosa fosse quella nube, sia che la voce di Dio aveva nelle sue corde il passato, il presente e il futuro oltre che la stesa eternità. Il loro timore fu provocato, come fu per altri che li avevano preceduti, dalla limitatezza che ogni essere umano ha a prescindere perché di fronte alla perfezione e alla santità di YHWH nessuna imperfezione può esistere. La paura che sorse provenne da questo e Gesù dovette fare due cose per risollevare quelle persone impaurite, toccarli e parlare loro dicendo di non temere, rivelandosi ancora una volta come tramite fra la potenza e l’infinito assoluto del Padre e l’uomo. Perché dove interviene Nostro Signore non esiste più timore, né angoscia, né soprattutto l’ignoto e lo fa “toccando”, dimostrando la propria identità corporea, e parlando, la via più diretta per la comunicazione, per lo meno in quel caso.

Abbiamo infine la proibizione al parlare a chiunque di quanto avevano ascoltato e visto, se non dopo la Sua resurrezione, cioè quando lo Spirito Santo avrebbe consentito la comprensione di quell’evento, anch’esso avvenuto perché il Signore non ha lasciato nulla, “neppure uno iota” perché l’essere umano da Lui salvato rimanesse privo di elementi per la propria salvezza e cammino. Amen.

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11.21 – LA TRASFIGURAZIONE II/II (Matteo 17.2)

11.21 – La trasfigurazione II: connessioni  (Matteo 17. 2)

 

 2E fu trasfigurato davanti a loro; il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce”.

 

Prima di affrontare quanto narrato dai sinottici sulla trasfigurazione, vanno ricordate le circostanze precedenti l’episodio, avvenuto di notte, quando Pietro, Giacomo e Giovanni giunsero stremati su quella che era probabilmente la cima maggiore dell’Hermon, a 2.815 metri. Sappiamo che Luca ha aggiunto un particolare, “Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; ma, quando si svegliarono, videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui”. Vi fu dunque qualcuno dei tre che nonostante la stanchezza era in dormiveglia, stante il fatto che, sempre Luca, al verso 29 scrive “Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante”: se non ci fosse stato almeno un testimone oculare, quel “mentre” non avrebbe senso. Uno di loro, probabilmente due secondo la Legge, fu allora testimone della progressività dell’evento. Matteo scrive che “Il suo volto brillò come il sole”, l’unica parola a sua disposizione per fare un paragone con quanto visto.

Anche Giovanni, cercando di descrivere il volto del Cristo glorificato in Apocalisse 1, riporta “Mi voltai per vedere la voce che parlava con me, e appena voltato vidi sette candelabri d’oro e, in mezzo ai candelabri, uno simile a un Figlio d’uomo, con un abito lungo fino ai piedi e cinto al petto con una fascia d’oro. I capelli del suo capo erano candidi, simili a lana candida come neve. (…) e il suo volto era come il sole quando splende in tutta la sua forza” (vv.12-16). Il sole, però, è anche un riferimento sottile a qualcosa di temporaneo, a sostegno del fatto che il paragone fatto è limitato, perché l’eternità sarà diversa: “Non vi sarà più notte, e non avranno più bisogno di luce di lampada né di luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà. E regneranno nei secoli dei secoli” (22.5).

Possiamo anche fare queste quattro connessioni che troviamo nel libro dei Salmi: in 49.6 leggiamo “Molti dicono: Chi ci fa vedere il bene? Risplenda su di noi, Signore, la luce del tuo volto”, che comporta quel bene o prosperità spirituale che l’uomo ha assoluto bisogno di ricevere dopo essere stato spogliato, privato della comunione con Dio a causa del peccato di Adamo ed Eva.

Seconda connessione in Salmo 16.11: “Tu mi mostrerai il sentiero della vita; sazietà di ogni gioia è sul tuo volto; ogni diletto è nella tua destra in sempiterno”, dichiarazione profetica fatta propria da Gesù come Figlio dell’uomo che, posto nel sepolcro nuovo di Giuseppe d’Arimatea, sapeva che la morte non lo poteva trattenere. Dio, allora, si riserva la sovranità di salvare l’uomo per la sua parola e, con l’apparizione nelle nuvole, noi che abbiamo sperato in lui saremo trasformati in un batter d’occhio e lo vedremo nella sua realtà.

Terza, in Salmo 21.6: “Poiché tu lo ricolmi di benedizioni in perpetuo, lo riempi di gioia nella tua presenza. Contrariamente sarà per coloro che non avranno amato la sua apparizione, perché temeranno il suo giudizio”, verso che parla della vittoria che il Signore ha riportato sul peccato e sulla morte e del giudizio verso coloro che non si identificano in Lui.

Quarta ed ultima in Salmo 31.16: “Fa risplendere il tuo volto sul tuo servitore; salvami, per la tua benignità”, frase che ci accomuna, della quale ci possiamo appropriare a pieno titolo. La luce che brilla è per il “servitore” quella dello Spirito che guida, chiama  e richiama chi ha creduto in Lui.

 

Prima di esaminare un altro particolare, quello della veste di Nostro Signore, va fatta anche una precisazione sui tre testimoni dell’evento: è stato scritto nel capitolo precedente che Gesù scelse Pietro, Giacomo e Giovanni per salire con sé sul monte e della fatica che fecero, essendo uomini di lago o di pianura, ma non di montagna. Non erano abituati a quel tipo di fatica e per loro quella salita rappresentò sicuramente uno sforzo notevole, ma comunque alla loro portata perché altrimenti sarebbero stati scelti altri, che però non c’erano stante il fatto che erano loro i prescelti ad essere testimoni di quell’avvenimento. Gesù però non li costrinse a compiere un percorso che avrebbe comportato per loro un rischio – ad esempio – cardiaco o di altra natura. Camminarono patendo, ma anche sicuri, consapevoli chi era Colui che li guidava e che probabilmente li precedeva nel percorso. Credo che questo fatto possa essere messo in relazione, per ciò che riguarda il nostro cammino,  con quei carichi di pena o di responsabilità che ciascuno di noi porta e che può venire individuato nel fatto che “non siamo mai tentati oltre le nostre forze”. Ciò a meno che non sia un percorso in cui ci troviamo invischiati per la nostra defettibilità umana e incapacità di valutare correttamente situazioni destinate a sovrastarci e coprirci di sofferenza. Apriamo allora questa breve parentesi ricordando Proverbi 6.1-5: “Figlio mio, se hai garantito per il tuo prossimo, se hai dato la tua mano per un estraneo, se ti sei legato con ciò che hai detto e ti sei lasciato prendere dalle parole della tua bocca, figlio mio, fa’ così per liberartene; poiché sei caduto nelle mani del tuo prossimo, va’, gettati ai suoi piedi, importuna il tuo prossimo; non concedere sonno ai tuoi occhi né riposo alle tue palpebre, così potrai liberartene come la gazzella dal laccio, come un uccello nelle mani del cacciatore”. Anche qui è promesso l’intervento di Dio perché “Chi abita al riparo dell’Altissimo, passerà la notte all’ombra dell’Onnipotente. Io dico al Signore: «Mio rifugio e mia fortezza, mio Dio in cui confido». Egli ti libererà dal laccio del cacciatore, dalle peste che distrugge” (Salmo 91.1-3).

A Pietro, Giacomo e Giovanni fu quindi chiesto uno sforzo che, nonostante la sua pesantezza, era alla loro portata e non si lamentarono; il testo dice soltanto che, giunti a destinazione, la loro stanchezza di manifestò con forza, facendoli addormentare, a differenza di Gesù che, mettendosi a pregare, ancora una volta si qualificò come loro punto di riferimento, oltre che garante delle loro vite. E qui ciascuno può fare le proprie considerazione sul cammino da lui percorso, sulle cose cui dà continuità e importanza, ma anche su come si caratterizzano i suoi passi: spediti, incerti, impacciati, ondivagamente, a scatti, variando il passo, a tentoni, responsabilmente o irresponsabilmente.

 

Ultimo elemento, almeno per quelle che sono le mie possibilità, è costituito dalla veste di Gesù, cronologicamente la terza delle sette da lui vestite nei Vangeli, che credo sia necessario esaminare, per quanto brevemente: la prima fu costituita dalle fasce con le quali fu avvolto, neonato, da Maria prima di porlo nella mangiatoia, avvenimento che ci parla della perfetta identità di Gesù, nella sua incarnazione, con l’uomo. Come tutti, venne al mondo, provò il trauma del passaggio dal ventre materno al mondo e pianse. L’autore della lettera agli Ebrei scrive “…entrando nel mondo, Cristo dice: «Tu non hai voluto sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato»” (10.4): un corpo “preparato” per una vita di luce, testimonianza, operosità e, infine, sacrificio come l’Agnello di Dio che non poteva che prendere su di sé “il peccato del mondo”.

La seconda veste fu la tunica che portava nei suoi viaggi e con la gente, il cui orlo fu toccato dalla donna emorroissa. Abbiamo parlato dei filatteri, per ricordarsi “tutti i miei comandi, li metterete in pratica e sarete santi per il vostro Dio”, “comandi” che furono interamente osservati da Gesù al punto che leggiamo “Ora il termine della Legge è Cristo, perché sia data giustizia a chiunque crede” (Romani 10.4).

Terza veste fu proprio quella della trasfigurazione in cui emerge per la prima volta il fatto che nessun abito avrebbe mai potuto trattenere né velare lo splendore della Sua gloria, visione che stiamo cercando di affrontare e che rimase impressa nel cuore e nella mente dei tre apostoli. E abbiamo visto che ne parlarono a distanza di anni istruendo la Chiesa.

Quarta veste fu quella del servizio, quando Gesù lavò i piedi dei discepoli, episodio che dobbiamo ancora affrontare, ma dal quale emerge la Sua benedizione e la carità. In proposito è scritto che “Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita” (Giovanni 13.3,4).

Quinta veste fu la tunica dell’innocenza, ma anche dello scherno quando “…anche Erode – Antipa – coi i suoi soldati, lo insultò, si fece beffe di lui, gli mise addosso una splendida veste e lo rimandò a Pilato” (Luca 23.11). Quando Pilato vide tornare Gesù, disse “Ecco, io l’ho esaminato davanti a voi, ma non ho trovato in quest’uomo nessuna delle colpe di cui lo accusate, e neanche Erode: infatti ce l’ha rimandato”. Il termine “splendida veste”, che altri traducono “veste bianca”, colore non dell’innocenza come saremmo portati a supporre, ma dei re giudei. Anche la “splendida veste” ha comunque un significato analogo, vale a dire la derisione della persona di Gesù, che Erode vestì come lui.

Sesta fu la tunica di porpora che i soldati di Pilato, anche qui come scherno, gli misero addosso prima di percuoterlo: se Erode Antipa lo aveva vestito di bianco, o “splendidamente” alludendo ai re, i romani fecero lo stesso a modo loro, ad imitazione della porpora imperiale, mettendogli in mano una canna a simboleggiare lo scettro e una corona di spine ad imitazione della corona.

Settima veste furono i teli coi quali Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo avvolsero il corpo di Gesù prima di coprirlo con un lenzuolo nuovo, nell’altrettanto  nuovo sepolcro di Giuseppe: “Essi presero allora il corpo di Gesù e lo avvolsero con teli, insieme agli aromi, come usano fare i Giudei per preparare la sepoltura. Ora, nel luogo dove era stato crocifisso, vi era un giardino e nel giardino un sepolcro nuovo, nel quale nessuno era stato posto” (Giovanni 19.40,41). Matteo parla di Giuseppe che, con Nicodemo “lo avvolsero in un lenzuolo nuovo” – non “pulito” come altri traducono – e lo depose nel suo sepolcro nuovo, che si era fatto scavare nella roccia” (27.59,60). Per Marco, Giuseppe, “comprato un lenzuolo, lo depose dalla croce, lo avvolse con il lenzuolo e lo mise in un sepolcro scavato nella roccia” (15.46).

Ognuna di queste vesti, qui brevemente accennate, ha un suo significato, ma quella di Gesù nella trasfigurazione ci parla di presente e di eternità futura: Egli, da Figlio dell’uomo, quindi nell’esteriore in tutto simile a noi, s’illumina – Lui sì – d’immenso visibile ai tre apostoli. Sappiamo che subito dopo appaiono Mosè ed Elia a conversare con Lui, ma senza possedere le caratteristiche di luce di Gesù, venendosi così a stabilire una sorta di scala gerarchica, pur in un confronto denso di significati che esamineremo nel prossimo capitolo.

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11.20 – LA TRASFIGURAZIONE I/III (Matteo 17.1,2)

11.20 – La trasfigurazione I/III (Matteo 17. 1,2)

 

 1Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. 2E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. 

 

È giusto portare la nostra attenzione sullo spazio temporale intercorso tra le parole di Gesù rivolte ai presenti sulle implicazioni del discepolato e l’episodio della trasfigurazione, “sei giorni” secondo Matteo e Marco, “circa otto giorni” secondo Luca dove quel “circa” non esclude il “sei” degli altri due che lo indicano con sicurezza. Essendo Matteo e Pietro presenti, possiamo quindi prendere come esatta la cifra da loro indicata.

Riferendoci ai significati del numero sei esposti in un precedente capitolo, possiamo fare gli stessi collegamenti, aggiungendo però un’applicazione specifica: tanto i discepoli che il loro Maestro stavano vivendo un tempo nuovo, quello dell’istruzione specificamente dedicata alla Sua morte, che prima non era stata affrontata. Ecco allora che quei “sei giorni”, in cui non sappiamo cosa avvenne, possono essere paragonati a quelli della creazione in cui Iddio, “giorno dopo giorno” costituisce i presupposti per la realizzazione di qualcosa che prima non c’era: non si trattò di rendere i discepoli testimoni di miracoli e guarigioni, di aggiornare la conoscenza imperfetta che avevano delle Scritture, ma di entrare nella Sua Identità di Figlio di Dio che avrebbe dovuto “soffrire molto ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e dopo tre giorni risorgere” (Marco 8.31). Accanto al significato profondo di questa morte, pensiamo che Giuda, che aveva già in animo di tradire il suo Maestro, si ritenne autorizzato ad agire con un ragionamento assolutamente basso, del tipo “Se deve morire, tanto vale che io contribuisca a questo, guadagnando del denaro”.

Ai discepoli, una volta compreso che Gesù era “il Cristo, il Figlio dell’Iddio vivente” furono allora impartiti insegnamenti particolari che nessuno riportò, tranne pochi cenni come quelli di Marco 8.31 che abbiamo appena letto. È ancora Marco, ad esempio, a scrivere le dirette parole di Gesù: “Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma una volta ucciso, risorgerà” (9.31). Possiamo, riguardo al silenzio dei Vangeli su quanto avvenuto nei “sei giorni”, fare una connessione a quanto si sentì dire l’apostolo Giovanni in Apocalisse 10.4: “Dopo che i sette tuoni ebbero fatto udire la loro voce, io ero pronto a scrivere, quando udii un voce dal cielo che diceva: «Metti sotto sigillo quello che hanno detto i sette tuoni e non scriverlo».

Quei sei giorni di istruzione, quindi, si conclusero, o “iniziarono” nuovamente, con la manifestazione di Gesù trasfigurato alla quale ebbero il privilegio di assistere Pietro, Giacomo e Giovanni, i testimoni più attendibili sui quale Nostro Signore poteva contare, come prescritto dalla legge che richiedeva, perché un fatto fosse accettato come vero, la parola di “due o tre testimoni”, lo stesso numero perché una Chiesa sia formata. È allora probabile che Luca, visto che la trasfigurazione avvenne solo una volta e in un momento preciso, abbia utilizzato il numero otto – ci parla di “otto giorni dopo” – perché indice di un periodo nuovo: i discepoli avrebbero dovuto iniziare ad avere una visione sempre più dettagliata di Gesù che proprio da lì iniziò ad ampliarsi, a prescindere dall’ordine “Non parlate a nessuno di questa visione, prima che il Figlio dell’uomo sia risorto dai morti”. Pietro, Giovanni e Giacomo, erano stati comunque presenti. Certo, ad accettare che il loro Maestro sarebbe morto e poi risorto ci volle molto tempo.

I tre Apostoli furono condotti “in disparte”, espressione che allude sempre a un fatto privato, a un discorso, all’espressione di uno stato d’animo o un avvenimento cui persone estranee non devono assistere perché a nulla gioverebbe, non lo capirebbero, non lo saprebbero valutare. “Su un alto monte”, poi, pur parlandoci di un percorso di fatica, simbolo anche di un percorso spirituale, attesta la completa fiducia che riposero il Lui i tre discepoli, che accettarono di affrontare quella saluta senza chiedergli nulla, forse soltanto informati del fatto che lo scopo di recarsi là era di pregare. Ricordiamo che quel monte fu l’Hermon, non il Tabor come molti hanno sostenuto, formato da tre cime – numero certamente non casuale – la più alta delle quali raggiunge i 2.800 metri circa, sicuramente tanti calcolando che, sei giorni prima, Gesù e i suoi si trovavano nella zona di Cesarea, che si trova alle prime pendici di quel monte. Gente di lago, tutt’al più di pianura, si trovò così nella necessità di affrontare un percorso di montagna che fu sicuramente lungo e faticoso, come avvenne per Mosè, quando salì sul monte Horeb per ricevere le tavole della Legge; ricordiamo Esodo 24.13 “Il Signore disse a Mosè: «Sali, verso di me sul monte e rimani lassù: io ti darò le tavole di pietra, la legge e i comandamenti che io ho scritto per istruirli»”. Anche in questo caso abbiamo una fatica, ma doppia perché quando Mosè scese, portava le tavole di pietra scritte dal dito di Dio.

Nostro Signore quindi salì sul monte con uno scopo preciso: Luca scrive “per pregare” (9.28) quindi è probabile che fu quello il motivo che spinse i tre discepoli a seguire Gesù e forse avvertirono meno la fatica del percorso, certi che avrebbero imparato per lo meno qualcosa; ricordiamo infatti la loro richiesta, “Signore, insegnaci a pregare”, sgorgata spontaneamente dai loro cuori quando videro il loro Maestro intento nell’orazione. Luca 11.1: “Gesù si trovava in un luogo a pregare. Quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli»”.

A questo punto è facile supporre quanto avvenne una volta arrivati: Gesù lascia i suoi tre testimoni e si scosta da loro qualche metro, come farà anche nel Getsemani: lì lasciò gli altri discepoli in un luogo scostandosi poi con Pietro, Giovanni e Giacomo, per poi andare da solo “un poco più avanti” (Matteo 26.39) dopo aver detto loro “restate qui, e vegliate con me” (v.41). Anche qui, nell’episodio della trasfigurazione come al Gestemani, abbiamo la stanchezza che s’impossessò di Pietro, Giovanni e Giacomo; Luca scrive “Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno” (9.32).

Mi sono chiesto quale fu, o furono, il soggetto/i della preghiera di Gesù sul monte: pur non avendo la pretesa di elencarli tutti, certo Nostro Signore presentò al Padre i discepoli e le Sue imminenti sofferenze perché, certo solo come uomo, si sentiva prigioniero del tempo che si avvicinava inesorabilmente verso la croce. Un Dio perfetto scelse volontariamente di vivere prigioniero in un corpo umano. E qui vediamo il confitto che provò tra l’essere uomo e l’essere Dio: è qualcosa di enormemente grande il fatto che come Dio potesse ogni cosa, ma come uomo fosse subordinato al Padre di cui cercava continuamente la comunione.

È a questo punto che avviene qualcosa di spiazzante, totalmente diverso dal sudare sangue che si verificherà da lì a un anno circa: qui “il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce”, Marco aggiunge “bianchissime, nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche” (9.3).

La trasfigurazione di Nostro Signore fu questa e tutto converge su due punti basilari: primo, Gesù è il nuovo Mosè descritto in quel passo già citato “Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, fra i tuoi fratelli, un profeta pari a me – nell’esteriore –; a lui darete ascolto”; secondo, abbiamo una descrizione simile a quella riportata in Daniele 7.13-15: “Guardando nelle visioni notturne ecco apparire, sulle nubi del cielo, uno simile a un figlio dell’uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui, che gli diede potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano; il suo potere è un potere eterno che non tramonta mai e il suo regno è tale che non sarà mai distrutto”.  Gesù si trasfigura non in una maschera di morte, ma nella luce, nella Vita assoluta e soprattutto potente e gloriosa. Quello che i tre discepoli videro, non era un uomo incamminato verso Gerusalemme per morire, ma appunto il Signore che avrebbe vinto la morte nell’attesa di sedere alla destra del Padre, Unico a poter aprire il libro della vita.

Ecco perché, idealmente assieme ai tre apostoli, ci troviamo di fronte a qualcosa che ribalta profondamente, da un punto di vista umano, il concetto del Cristo che sta per essere condannato a morte, quindi provando orrore e tristezza: Gesù va incontro ad essa sapendo che le sofferenze che gli verranno inflitte, anziché preludere alla fine, costituiranno il veicolo verso la Gloria definitiva e solo dopo averla acquisita verrà definito “il primogenito di molti fratelli”. Come anticipato poco prima a proposito dell’ “otto” citato da Luca, la trasfigurazione va letta non come punto di arrivo, ma come un anticipo, un accenno del futuro e la via da percorrere doveva essere la croce, non altre. Scrive un fratello: ”La trasfigurazione non è il segno conclusivo né per Gesù, né per i discepoli: da questo momento in poi la narrazione evangelica non descriverà più momenti come questo, ma scorrerà senza intoppi verso la croce”.

La trasfigurazione, al di là di questi significati, ebbe però uno scopo, cioè quello di formare i tre sui quali Gesù faceva affidamento nel senso che a loro affiderà la costruzione della prima Chiesa. Se molto sappiamo di Pietro e Giovanni, non possiamo non attribuire anche a Giacomo un ruolo determinante perché fu il primo dei dodici a subire il martirio sotto Erode Agrippa nell’anno 44, alcuni dicono al ritorno da un viaggio in Spagna dove si era recato a portare il Vangelo, ma questo è attestato da fonti del 600 (Isidoro di Siviglia) e da due del 1600, per questo poco credibili (Maria di Ágreda e Anna Katarina Emmerick). La morte di Giacomo, a parte l’indubbio dolore per la perdita nelle Comunità cristiane, fu un esempio da un lato e dall’altro stravolse il principio in base al quale davanti a Dio esista una scala di preferenze per cui tanto più si è vicini a lui, quanto più si è protetti nel senso umano del termine. Il problema è che la sofferenza è l’unico modo per acquistarsi un premio, e questo vale per tutti, in un modo o in un altro, perché corpo e anima si muovono su percorsi diversi, anche se spesso paralleli.

Per certo quello della trasfigurazione fu un episodio che Pietro e Giovanni compresero molto bene quando diventarono portatori della Parola di Dio al mondo; il primo, nella sua seconda lettera, riporta le parole udite proprio in quella circostanza: “Egli ricevette onore e gloria da Dio Padre quando giunse a lui questa voce dalla maestosa gloria: «Questi è il Figlio mio, l’amato, nel quale ho posto il mio compiacimento». Questa voce noi l’abbiamo udita discendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte” (1.17.18.

Giovanni, invece, lascia traccia anche di questo episodio quando afferma in 1.14 “Noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come unigenito dal Padre”, o ancora nella sua prima lettera in 1.1-3 quando scrive “Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita, (…) quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi state in comunione con noi”.

Così parlarono questi due testimoni del nostro episodio, una volta che fu compreso, a tal punto che furono in grado di istruire perfettamente e senza esitazioni coloro che si univano alla Chiesa, risollevando vite affaticate, stremate dal peccato, che altro non è se non il vivere lontani da Dio, in modo deliberato o perché affetti da una forma di cecità dalla quale, volendolo, si può sempre guarire.

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11.19 – RENDERÀ A CIASCUNO SECONDO LE LORO AZIONI II/II (Matteo 16.27.28)

11.19 – Renderà a ciascuno II (Matteo 16. 27,28)

 

 27Perché il Figlio dell’uomo sta per venire nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e allora renderà a ciascuno secondo le sue azioni28In verità io vi dico: vi sono alcuni tra i presenti che non moriranno, prima di aver visto venire il Figlio dell’uomo con il suo regno».

Il tema del rendiconto, cioè quel momento in cui l’uomo dovrà rispondere delle sue azioni, è stato accennato diverse volte nel corso di questa serie di studi. Gesù lo ha presentato anche attraverso le parabole, cioè quei messaggi figurati studiati appositamente perché rimanessero nella mente delle persone semplici molto meglio dei discorsi dedicati a chi della Legge e degli altri scritti aveva una conoscenza più approfondita. Qui, dopo aver parlato di rinnegamento di sé, di fare attenzione a come si considera la propria vita, della necessità di appartenergli perché altrimenti non avremmo nulla da dare in cambio per la nostra salvezza, ecco presentarci il motivo di tutta questa serie di esortazioni: la venuta del “Figlio dell’uomo nella gloria del Padre suo” è imminente. “Sta per venire” e “verrà” sono i modi con cui l’espressione originale è tradotta ed è da sottolineare che Gesù, allora sottomesso come tutti gli uomini anche allo scorrere del tempo, qui si apre ad una visione che gli appartiene come Dio. E qui l’apostolo Pietro, spinto dallo Spirito Santo, scrive “Carissimi, c’è una cosa che non dovete dimenticare: per il Signore, lo spazio di un giorno è come mille anni e mille anni sono come un giorno solo. Il Signore non ritarda a compiere la sua promessa: alcuni pensano che sia in ritardo, ma non è vero. Piuttosto egli è paziente con voi, perché vuole che nessuno di voi si perda e che tutti abbiate la possibilità di cambiare vita. Il giorno del Signore verrà all’improvviso, come un ladro. Allora i cieli spariranno con grande fracasso, gli astri del cielo saranno distrutti dal calore e la terra, con tutto ciò che essa contiene, cesserà di esistere” (1 Pietro 3.1-10).

A parte che questi versi aprono varie prospettive sulle quali torneremo, è la proporzione tra i “mille anni” e “un giorno” a dirci che qui Gesù parla come Dio all’uomo, per cui non possiamo aspettarci un avvenimento imminente secondo il nostro metro valutativo e soprattutto in base quell’istinto che ci spinge a considerare procedente in un tempo misurabile ciò che il Signore classifica come “breve”. E infatti per questo abbiamo letto “Il Signore non ritarda a compiere l’adempimento della sua promessa, come alcuni credono”.

Su questo “Sta per venire”, o “verrà”, possono valere le stesse considerazioni fatte quando Nostro Signore operò una rilevante distinzione fra “L’ora viene, ed è questa, in cui i morti udranno la voce del Figlio di Dio e quelli che l’avranno ascoltata vivranno”, e “Viene l’ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce e ne usciranno” (Giovanni 5.25-28) in cui due periodi per noi distanti nel tempo vengono da Lui divisi dalla specificazione “ed è questa”, ma utilizzando lo stesso tempo, al presente. Una cosa sono i nostri tempi, un’altra i Suoi.

Studiando i versi in esame occorre distinguere il 27 dal 28, poiché il termine “regno” implica la presenza di più significati. “Il Figlio dell’uomo sta per venire nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e allora renderà conto a ciascuno secondo le sue azioni” si riferisce all’ultima fase della storia umana, quando avranno avuto fine tutti gli eventi che caratterizzeranno il periodo dato all’umanità per salvarsi tra cui vengono annoverati, oltre alla Grazia e il rapimento della Chiesa, la Gran Tribolazione e il Millennio. Gesù, che qui non parla di questi eventi, va dritto al nocciolo della questione visto nel giudizio finale, chiaramente collegato alla retribuzione, al “rendere a ciascuno secondo le sue opere”, principio noto dai tempi antichi quando Salomone, in Proverbi 24.12 scrive “Se tu dicessi: «Io non lo sapevo», credi che non l’intenda colui che pesa i cuori? Colui che veglia sulla tua vita lo sa; egli renderà a ciascuno secondo le sue opere”.

Ora è stato detto da molti, me compreso, che gli uomini dell’Antico Patto potevano constatare la maledizione o benedizione su di loro in base alla qualità di vita, per cui la presenza di malattie era sintomo di un peccato, così come la prosperità rivelava loro il premio per l’osservanza alla Sua Legge; eppure, qui abbiamo la conferma che il verbo “rendere” espresso al futuro non si riferisce necessariamente a qualcosa di immediato, come la diretta constatazione dell’essere benedetti. È un futuro che riguarda l’anima. Da sottolineare anche il vegliare di Dio sull’uomo perché “Io, il Signore, scruto la mente e saggio i cuori, per dare a ciascuno secondo la sua condotta, secondo il frutto delle sue azioni” (Geremia 17.10): qui il Signore va oltre a ciò che facciamo, ma ne guarda il “frutto” con gli occhi della Sua Santità e Onniscienza. Stessa cosa in 32.19 in cui Geremia parla degli occhi di Dio “aperti su tutte le vie degli uomini, per dare a ciascuno secondo la sua condotta”, ancora “secondo il frutto delle sue azioni”, per cui quando Gesù parla di un rendiconto futuro sa bene di essere capito. Teniamo anche presente che gli Autori dei Vangeli scrivono un riassunto anche dei discorsi fatti alle persone sapendo che, attraverso lo Spirito Santo, sarebbero stati compresi dai loro lettori.

Nel Nuovo Patto il principio del rendiconto non viene ampliato come in molti casi, ma confermato perché l’uomo rimane sempre lo stesso: lo vediamo dal comportamento crudele e prevaricatore che ha in guerra, sempre lo stesso nonostante passino gli anni a migliaia, nel giudicare frettolosamente, nel compiere sempre le stesse trasgressioni davanti a Dio. Se c’è un progresso, questo è tecnologico, mai interiore. Ecco perché “Tu, con il tuo cuore duro e ostinato, accumuli collera su di te per il giorno dell’ira e della rivelazione del giusti giudizio di Dio, che renderà a ciascuno secondo le sue opere – stesse parole rivolte agli antichi -: la vita eterna a coloro che, perseverando nelle opere di bene, cercano gloria, onore, incorruttibilità; ira e sdegno contro coloro che, per ribellione, disobbediscono alla verità e obbediscono all’ingiustizia” (Romani 2.6), dove “cercare”, “disobbedire” e “obbedire” sono i cardini di tutto il discorso.

Per fugare ogni dubbio va precisato che esiste un giudizio di Dio che sarà rivolto agli uomini che non lo avranno posto nelle condizioni di agire perché a lui “ribelli”, ma che non riguarderà i credenti, poiché – parole di Gesù – “chi ascolta la mia parola e crede in Colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita” (Giovanni 5.24). Questo però non esime dal comparire “davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno – perché individuale è il messaggio di Dio come individuale la risposta – la ricompensa dalle opere compiute quando era nel corpo, sia in bene che in male” (2 Corinti 5.10). Questo è imbarazzante per quelli che predicano unicamente la salvezza di chi crede vedendo il cristiano come un privilegiato dall’amore di Dio, fatto indubbio, ma a scapito delle responsabilità che occupa come tale. È un ripetersi della dottrina che alcuni predicavano nella Chiesa di Corinto.

In pratica, ogni credente scamperà al Giudizio, perché “passato dalla morte alla vita”, come descritto in 2 Tessalonicesi 1.7-9: “…quando si manifesterà il Signore Gesù dal cielo, insieme agli angeli della sua potenza, con fuoco ardente, per punire quelli che non riconoscono Dio e quelli che non obbediscono al vangelo del Signore nostro Gesù. Essi saranno castigati con una rovina eterna, lontano dal volto del Signore – che è calore e luce – e dalla sua gloriosa potenza. In quel giorno egli verrà per essere glorificato dai suoi santi ed essere riconosciuto mirabile da tutti quelli che avranno creduto, perché è stata accolta la nostra testimonianza in mezzo a voi”.

Ma c’è di più, come leggiamo nel libro dell’Apocalisse: in tutte le lettere alle sette chiese si leggono elogi e rimproveri, ma a tutte loro, quindi a ogni cristiano, viene detto “Ecco, io vengo presto – ecco perché “il Figlio dell’uomo sa per venire” – e ho con me il mio salario per rendere a ciascuno secondo le sue opere” (22.12): di qui la responsabilità che abbiamo, correlata a quel verso più volte ricordato in base al quale “il fuoco darà la prova dell’opera di ciascuno”, cioè il passaggio di tutto ciò che abbiamo fatto attraverso la visione di Colui che ha “gli occhi di fuoco”, Gesù Cristo glorificato e il solo ad avere diritto di valutazione sull’operato dei credenti.

 

Tutte queste parole sono e furono considerate dagli uomini, quindi allora come oggi, solo come teoriche e per questo il verso successivo fornisce un elemento fonte di accurata meditazione: “In verità io vi dico: vi sono alcuni tra i presenti che non moriranno, prima di aver visto venire il Figlio dell’uomo con il suo regno”. Qui purtroppo la traduzione è errata perché non si tratta di “con il suo”, ma “nel suo”, dove Luca precisa per i non ebrei “prima di aver visto il regno di Dio”: è un verso che ha fatto inciampare molti che hanno sostenutoo che qui non è stato detto il vero, fraintendendo il regno di Dio con il ritorno di Gesù per giudicare. “Vedere il regno” ha qui il significato delle Sue manifestazioni a prescindere dal tipo, perché sono multiformi, ma va precisato che la traduzione del verso 28 “con il suo regno” è frutto di interpretazione.

In proposito ricordiamo le parole di Gesù in Matteo 12.28: “Ma se io scaccio i demòni per mezzo dello Spirito di Dio, allora è giunto a voi il regno di Dio”. Se allora l’espressione “regno di Dio” comprende molte realtà, qui abbiamo un riferimento alla Sua resurrezione, con la relativa ascensione con la quale Nostro Signore abbandonò questa terra perché ogni cosa era stata compiuta e adempiuta per la salvezza dell’uomo, ma anche alle altri avvenimenti, come tutto ciò che caratterizzò la Sua morte, e qui possiamo pensare sicuramente all’oscurità che cadde sulla terra, al terremoto, alla resurrezione di molti, ma soprattutto alla cortina del tempio che si crepò in due lasciando aperta la visione del luogo santissimo, a conferma dell’abolizione del Vecchio Patto con il popolo di Israele. Ancora, pensiamo alla discesa dello Spirito Santo sui centoventi e alla distruzione di Gerusalemme e del suo Tempio ad opera delle truppe romane di Tito, avvenuta nel 70 d.C.

C’è anche però un altro riferimento, molto più immediato, che quanto avverrà davvero “a breve” secondo il metro umano, ed è quello alla trasfigurazione di Gesù, evento al quale Pietro, Giacomo e Giovanni avranno il privilegio di essere testimoni, che sii verificherà sei giorni dopo queste parole.

Ecco allora che le parole di Gesù qui esaminate ci parlano dell’assoluta necessità di recepirle: a un avvenimento allora lontano del rendiconto così come espresso al verso 27, ne fa da contrappunto un altro, quello del “Figlio dell’Uomo venire nel suo regno” a garanzia del primo, qui enunciato, che ogni vero cristiano attende.

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