12.28– Il cieco nato I (Giovanni 9.1-3)
1 Passando, vide un uomo cieco dalla nascita 2e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?». 3Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio».
Ci troviamo di fronte ad un episodio particolare della vita di Gesù e delle Sue guarigioni nei confronti dei ciechi, complessivamente sei, perché a differenza delle altre opera su un uomo che era così dalla nascita. Fu un avvenimento che destò una reazione ancor più ferma nei testimoni all’avvenimento che dissero (v.32) “Da che mondo è mondo, non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a uno cieco dalla nascita”. La cecità, in Israele e non solo, era dovuta principalmente alla cataratta e al glaucoma, quindi agli effetti dell’esposizione prolungata ai riflessi del raggi solari e alla polvere. Il fatto che quest’uomo fosse così “dalla nascita” potrebbe far pensare a una malattia genetica, come l’amaurosi congenita di Leber che colpisce la rétina dall’infanzia, oppure a un incidente durante il parto; fatto sta che il cieco in questione era conosciuto in città e, come molti altri infermi, non aveva alternativa per il proprio sostentamento se non quella di chiedere l’elemosina nei pressi del Tempio.
“Passando” e “vide” sono i verbi che Giovanni usa per descrivere le azioni di Gesù; il primo potrebbe lasciarci supporre che l’episodio avvenne poco dopo essere uscito dal Tempio dopo che “si nascose” alla vista di quanti lo volevano lapidare per bestemmia ed ecco la ragione dei dubbi espressi a proposito del collocare il ritorno dei settantadue in questo contesto. D’altro canto però abbiamo la presenza dei discepoli, citati qui e non prima. Il secondo verbo è più interessante perché quel “vide” sottintende un Suo sguardo prolungato che fu notato dai discepoli provocando una domanda che trovava la sua ragione nella credenza profondamente radicata negli ebrei in base alla quale tutte le sofferenze fisiche erano la conseguenza diretta di un peccato. Dal tono della domanda del verso 2 è chiaro che i discepoli erano fermamente convinti che quell’uomo patisse o per peccati commessi anteriormente alla nascita, o per altri da parte dei suoi genitori prima che venisse al mondo.
Certo questa credenza non era sorta da sé né aveva radici superstiziose, ma trovava la sua base in alcuni passi proprio dei libri della Legge di Mosè: ad esempio l’infrazione al secondo comandamento relativa agli idoli aveva come spiegazione “Perché io, il Signore tuo Dio, sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padre nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra la sua bontà fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti” Esodo 20.5,6; 34.7). Anche Geremia 32.18, “Tu usi bontà con mille generazioni e fai scontare l’iniquità dei padri in seno ai figli dopo di loro” conferma le parole della Legge, che comunque sono riferite a un comportamento impenitente e ad un’ostinata volontà di rimanere in un peccato. Ricordiamo anche l’affermazione davvero suicida del popolo a Pilato “Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli”.
Riguardo però al concetto comune sulla malattia e le sofferenze come causa di un peccato anteriore, Gesù interverrà più avanti in Luca 13 quando, commentando il fatto dei Galilei uccisi da Erode nel Tempio (il cui sangue fu mescolato a quello dei sacrifici) e degli uomini sui quali era caduta la torre di Siloe, dirà “Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quelle diciotto persone sulle quali crollò la torre di Siloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo” (vv.2-5). Alla supposizione di un peccato altrui, Gesù oppone la certezza del “perire” salvo intervenga una conversione, vale a dire un ribaltamento del proprio operare e ragionare umano.
Tornando ora al secondo verbo, il “vide” di Gesù, ha il sapore di un’osservazione prolungata, della lettura di tutta la storia di quel cieco, entrato come tutti nella vita naturale senza volerlo e costretto a sopravvivere senza possibilità di realizzarsi umanamente, riconoscendo le persone dalla voce e non dai volti, dalle possibilità di spostamento molto limitate, salvo che qualcuno lo accompagnasse, in un costante buio comunque. Sulla sua reale situazione dà però ai discepoli una rivelazione opposta: “Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio”. Questo non vuol dire che la ragione della cecità di quell’uomo fosse quella di fare da cavia ad un esperimento, ma ha connessione col piano di Dio nei confronti dell’uomo e al significato della sofferenza. Inoltre, ci parla del fatto che il Signore, per quelli che sono suoi, ha dato un appuntamento per incontrarlo in salvezza. Nostro Signore, guardando quel cieco, era come se lo riconoscesse perché era lui e solo lui che doveva essere guarito per diventare un Suo strumento di testimonianza, come infatti poi avverrà.
Giovanni non ci dice l’età di quell’uomo, ma a prescindere i giorni passavano tutti uguali, senza alcuna possibilità di migliorare il proprio stato e qualunque evento avrebbe comportato il dipendere da altri, bene o male intenzionati nei suoi confronti. Ora il “perché siano manifestate in lui le opere di Dio” ci parla del fatto che esiste una terza possibilità sul fatto che quell’uomo fosse così: non perché lui avesse peccato – come avrebbe potuto, prima di nascere e avere passato ‘età dell’innocenza? – né suo padre né sua madre, ma perché Dio potesse manifestarsi in lui. E questo ci parla dell’ignoranza dell’essere umano o per lo meno delle sue scarse capacità di comprensione. Ricordiamo che, quando Marta e Maria mandarono a dire a Gesù che Lazzaro era malato, rispose loro “Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato“ (Luca 11.4). Sappiamo molto bene che Lazzaro morì, ma fu risuscitato.
Ecco allora che la terza possibilità, quella del “siano manifestate in lui le opere di Dio”, è quella finale, definitiva: Gesù guarisce o, per noi oggi, dà la forza per sopportare malattie o condizioni di tensione anche molto forti per poi liberare chi ne è afflitto. E posso testimoniare di avere sperimentato questo Suo intervento nei miei confronti e come me molti altri credenti che hanno portato e portano pesi anche maggiori, trasformando in testimonianza la reazione al dolore in qualunque forma si presenti. L’unica risposta al perché della sofferenza è nel peccato dei nostri progenitori e l’unica reazione ad essa non può che risiedere nell’abbandonarsi al Cristo vivente. Allora, e solo allora, potrà esservi una guarigione e che si tratti di una soluzione radicale a un problema spirituale è evidente: quell’uomo “cieco dalla nascita” ci accomuna spiritualmente tutti perché tutti, prima di incontrare Gesù nella nostra vita, tali eravamo. Ma, soprattutto, come lui vivevamo di espedienti: per sconfiggere la noia, l’ansia, il voler condurre una vita “dignitosa” – ma cosa significhi “dignitosa” è sempre stato per me un mistero –, non soffrire. E viviamo in una società che vorrebbe tanto abolire la sofferenza, ma più la rifugge più cade in essa e si allontana da Dio.”.
La ricerca ossessiva dell’autonomia e della liberazione dal dolore è visibile dal cosiddetto “credo delle sostanze”: basta passare qualche ora davanti alla televisione per accorgerci che l’esistenza umana ha bisogno di soluzioni che si riducono a una pillola per dormire, per non provare acidità di stomaco, reflusso gastrico, contro il mal di testa, i dolori mestruali prima, durante e dopo, per la stitichezza, gambe gonfie, dolori articolari e osteoarticolari di ogni tipo: tutto è pronto, lì per eliminare il sintomo ma non il problema e nessuno si sogna di suggerire alle persone di andare al perché, indagare le cause, nemmeno i cosiddetti Ministeri della Sanità o l’OMS. Altro problema enorme della nostra società è costituito dagli psicofarmaci, dal blando tranquillante a sostanze molto più serie, che molti prendono non perché malati, ma perché incapaci di affrontare determinate situazioni.
È la costante fuga dal dolore e dal disagio che caratterizza il nostro consorzio umano ma, per quanto spiacevoli, sono le uniche a poter formare l’individuo e sono fortemente convinto che il dolore non vada tanto evitato, quanto custodito quale unico strumento di crescita, altrimenti Gesù avrebbe potuto perdonare tutti senza scendere sulla terra e patire la nostra esistenza fino alla morte.
La società di oggi, se grazie alla Medicina può alleviare le sofferenze di chi è gravemente malato, subisce operazioni chirurgiche severe ed accompagnarlo alla morte senza farlo soffrire, non è più in grado di tollerare neppure un semplice fastidio e possiamo dire che fino a quando il dolore, di un’esistenza o localizzato nel corpo, andrà visto solo come qualcosa da eliminare per “vivere bene”, l’uomo sarà ovunque tranne che nei piani di Dio. Perché la sofferenza è necessaria affinché “sino manifestate in lui – noi – le opere di Dio”.
Cosa accomuna quel cieco nato all’uomo di oggi? Il fatto che la vista era assente dalla nascita: per lui si trattava di non vedere cose, animali e persone, per noi di essere limitati alla ricezione delle frequenze di ciò che obiettivamente è, ma vi è altro che non riusciamo a vedere. Se la vista è un senso fondamentale perché grazie ad essa ci muoviamo e decidiamo dove andare e come muoverci, se manca quella spirituale non potremo compiere altro se non scelte nocive per noi, per lo sviluppo del nostro essere spirituale che solo se guarito da Cristo potrà avere un domani. Gesù ha visto noi così come quell’ignoto che mendicava in qualche strada che portava al Tempio.
Le “opere di Dio” si manifestano proprio quando e là dove nessun intervento umano può risolvere e non necessariamente possono rivelarsi conformi alla nostra speranza o volontà, come sappiamo imparò l’apostolo Paolo che, pregando perché potesse guarire da “una spina nella carne” – un’invalidità che si portava dietro a seguito di percosse ricevute – si sentì rispondere “la mia grazia ti basta; la mia forza infatti si manifesta pienamente nella tua debolezza” (2 Corinti 12.9).
La presenza di quel cieco nelle vicinanze del Tempio era perché “in lui siano manifestate le opere di Dio”, ma quali? Certo la Sua potenza che portò alla guarigione, ma anche e soprattutto ciò che avvenne in conseguenza di essa, perché sarà un miracolo che farà scalpore, incontestabile, di fronte al quale i presenti reagiranno positivamente o (molto) negativamente, qualificandosi come futuri figli di Dio o reali figli dell’Avversario. Addirittura, considerando la frase di Gesù al verso 39 di questo capitolo, abbiamo una piena ed esaustiva descrizione della vera cecità: “È per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi”. Ecco il significato della guarigione di quest’uomo: da cieco divenne prima vedente – ma solo osservando le istruzioni che Gesù gli darà – e poi passerà dalla Sua parte, adorandolo.
Ci chiediamo comunque chi, tra il nato cieco e i Giudei, fosse più nelle condizioni di non vedere: si appelleranno al fatto che il miracolo era avvenuto di sabato, che era per loro impossibile che un cieco dalla nascita potesse ora vedere e apriranno un’inchiesta di fronte al risultato della quale non credettero comunque. Indicativa poi la conclusione dell’episodio da parte dei Giudei alla logica elementare prodotta dal cieco: “«Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto far nulla». Gli replicarono: «Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?». E lo cacciarono fuori” (vv.33 e 34).
Siamo allora alla fine delle riflessioni sui primi tre versi dell’episodio: se “le opere di Dio” saranno “manifeste in lui”, altrettanto quelle dei servi dell’Avversario che ne ostacoleranno in ogni modo l’accoglimento. Luce e tenebre contrapposte, dunque, e sappiamo che “Dio è luce e non vi sono in lui tenebre alcune”. Amen.
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