07.19 – CINQUE CANTICI III/V (Isaia50.4-6)

7.19 – Cinque cantici III/V (Isaia 50.4-6)

 

TERZO CANTICO

 

4Il Signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo, perché io sappia indirizzare una parola allo sfiduciato. Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come i discepoli. 5Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro. 6Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi. 7Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso. 8È vicino chi mi rende giustizia: chi oserà venire a contesa con me? Affrontiamoci. Chi mi accusa? Si avvicini a me. 9Ecco, il Signore Dio mi assiste: chi mi dichiarerà colpevole? Ecco, come una veste si logorano tutti, la tignola li divora. 10Chi tra voi teme il Signore, ascolti la voce del suo servo! Colui che cammina nelle tenebre, senza avere luce, confidi nel nome del Signore, si affidi al suo Dio. 11Ecco, voi tutti che accendete il fuoco, che vi circondate di frecce incendiarie, andate alla fiamme del vostro fuoco, tra le frecce che avete acceso. Dalla mia mano vi è giusto questo; voi giacerete nel luogo dei dolori.”.

 

L’esame dei quattro (o cinque a seconda  di come li si vuol suddividere) canti del servo è scaturito dalla domanda dei discepoli a seguito dell’episodio della tempesta sedata in cui dissero “Chi è costui, cui anche il mare e i venti obbediscono?”. Commentando ciò che quegli uomini si chiedevano, è stato sottolineato che i discepoli avevano a portata di mano tutti gli elementi per darsi una risposta, se non altro per i riferimenti al Dio che era intervenuto, ai tempi dell’Antico Patto, sugli elementi della natura servendosi di loro e dominandoli. I discepoli però non erano dottori della Legge, anche se non possiamo escludere che tra loro ve ne fossero, e difficilmente avrebbero potuto collegare i canti del Servo al loro Maestro, cosa che fecero successivamente, come dimostrato da Matteo che cita costantemente le profezie che Lo riguardavano. Questi canti possono essere letti e interpretati oggi e sono in grado di rispondere alla domanda sorta sulla barca a tempesta sedata, “Chi è costui?” sotto l’aspetto profetico.

Il terzo canto espone sinteticamente, da un punto di vista “morale”, la vita del Servo da quando iniziò a insegnare e predicare alla morte sulla croce. Il quarto verso ne spiega la condizione, lo scopo: gli è stata data “una lingua da discepolo” e, secondo questa traduzione, ha avuto come Maestro direttamente il Padre; disse infatti un giorno “Tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi” (Giovanni 15.15). Diodati, tralasciando altre versioni che usano termini intermedi, come ad esempio “da iniziati”, riporta “Mi ha dato la lingua degli uomini dotti” con riferimento non ai sapienti di questo mondo, ma di coloro che erano in grado di esporre la Legge allo stesso popolo che attribuiva Gesù che la spiegava un’autorità vera, superiore a quella degli Scribi e Farisei. Ricordiamo in proposito l’annotazione a commento di quando, dodicenne,  era in mezzo ai dottori: “Tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte”. “Lingua dei dotti” vista nel suo significato più alto che è quello di essere in grado di parlare a chiunque, con concetti semplici o comunque adatti alla persona che ascolta perché lo scopo di quel parlare era “saper indirizzare una parola allo sfiduciato”, tradotto anche con “afflitto” che ci collega alla seconda beatitudine, quella di coloro che “saranno consolati”. Dare una parola che porti sollievo non è facile se ci si vuole immedesimare in chi ne ha bisogno e il libro di Giobbe, con gli interventi dei suoi “amici” venuti a consolarlo con frasi fatte moralmente condivisibili nei contenuti, ma per nulla rapportate al suo caso, testimonia che parole sbagliate e di giudizio portano all’effetto opposto e aumentano la sofferenza dell’interessato.

Le parole di Gesù, invece, indicarono sempre una via d’uscita, l’unica possibile per determinare una soluzione spirituale del problema, dell’origine del dolore, a volte accettata e altre, più spesso, rifiutata. La via spirituale è infatti opposta a quella della carne e una persona, di fronte a una situazione o a uno stato che gli dà pena, se non ne cerca le ragioni e i rimedi spirituali per uscirne, resta coinvolto in essa. È il “laccio” di cui più volte troviamo citazione nelle Scritture. Sono concetti che si collegano al verso 10 che nella sua prima parte dice: “Chi tra voi teme il Signore, ascolti la voce del suo servo!”. Chi “teme il Signore”, cioè lo conosce od è cosciente della Sua esistenza, non deve ascoltare altre voci se non quella di chi è stato “fatto e formato” per rappresentarLo, portare la Sua parola agli uomini perché temere il Signore non è sufficiente, non dà garanzie di riuscita se non ci si appella al Servo. Ricordiamo le parole “Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (Giovanni 14.6) e “Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò” (Matteo 11.28). A me e non ad altri.

I più grandi profeti, da Mosè in poi, nonostante il ruolo determinante che ebbero nella conduzione del popolo oppure nel trasmettere il messaggio di JHWH, ebbero dei punti di fallimento e non poteva essere diversamente in quanto uomini. Così non per Gesù, attento “ogni mattina”, di cui i vangeli attestano lunghe preghiere in cui non solo presentava i suoi perché fossero preservati dal male, ma perché nessuna Sua parola andasse sprecata: “Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme a chi semina e il pane a chi mangia, così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata” (Isaia 55.10,11). La parola di Dio infatti non torna senza un risultato, in salvezza o in giudizio.

Il verso quinto, “il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro”, testimonia l’instancabilità del Servo, fedele in tutto tanto nel poco che nel grande, dagli spostamenti per le varie regioni del territorio al punto più alto e per noi determinante della Sua vita, quello dell’arresto, del processo fino alla crocifissione. Rileviamo il non opporre resistenza alla volontà del Padre – che aveva accettato responsabilmente – nelle tre azioni viste nel dare il dorso ai flagellatori, le guance a chi gli strappava la barba, il non sottrarre la faccia agli sputi, tutti eventi che rientravano in ciò per cui era venuto al mondo. Gesù infatti non nacque per risolvere problemi umanamente contingenti come nella visione messianica ebraica, ma dare la sua vita per gli uomini quale “Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo”.

Nel verso settimo ci troviamo di fronte a un interessante parallelo con Luca 9.51 che non tutti traducono allo stesso modo: “Avvenne, nel compiersi dei giorni della sua assunzione, che egli indurì il volto– letteralmente “fermò la faccia” – per andare a Gerusalemme”; altri, preoccupati di dare il significato più immediato, riportano “prese la ferma decisione di”, impedendo però di fatto la connessione col cantico. L’indurimento del volto come la pietra può essere visto effettivamente con la risolutezza: Gesù sapeva che, a Gerusalemme, avrebbe dovuto affrontare il combattimento più grande di tutta la sua vita terrena che iniziava proprio col mettersi in viaggio recandosi al Golgotha.

Il Servo indurisce il volto, prende ferma determinazione in quanto cosciente dell’assistenza del Padre e sa che non resterà confuso: ciò testimonia la piena coscienza del Suo ruolo, ma è anche sinonimo di resistenza addirittura maggiore rispetto alle violenze e agli oltraggi che gli verranno fatti. Anche qui possiamo fare una connessione importante: si tratta di Ezechiele 3.8,9 quando Dio dice al profeta “Ecco, io ti do una faccia indurita quanto la loro faccia e una fronte dura quanto la loro fronte. Ho reso la tua fronte come diamante, più dura della selce. Non li temere, non impressionarti davanti a loro; sono una genìa di ribelli”. È compito del profeta, quindi dell’uomo di Dio, non avere timore dei suoi simili né del destino che gli prospettano, avendo fondato e costruito la loro esistenza su un terreno diverso, destinato a crollare perché non vedono che il loro presente illudendosi che resti immutabile. Chiariscono bene il concetto le parole dell’apostolo Paolo “A me poco importa venire giudicato da voi o da un tribunale umano;(…) il mio giudice è il Signore” (1 Corinti 4.3,4).

Paolo è quindi conscio non solo dell’abisso che separa il metro valutativo umano da quello di Dio, ma che l’uomo può arrivare solo fino a un certo punto: “Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno il potere di uccidere l’anima; temete piuttosto colui che ha il potere di far perire l’anima e il corpo nella Geenna” (Matteo 10.28). Ancora Paolo spiegherà il concetto in Romani 8.31-39, le cui parole su rifanno anche al volto e alla fronte duri letti in Ezechiele: “Se Dio è con noi, chi sarà contro di noi?(…) Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è quel che giustifica! Chi condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risorto alla destra di Dio e intercede per noi. Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?(…) Io infatti sono persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Gesù Cristo, nostro Signore”.

Penso che questi versi siano un ideale collegamento con l’ottavo e nono del cantico, quando leggiamo “Chi oserà venire a contesa con me?(…) Chi mi accusa?(…) Chi mi dichiarerà colpevole?”; sappiamo che furono necessari falsi testimoni contro di Lui e che Gesù fu dichiarato colpevole dagli uomini, non certo dal Padre. La morte stessa, data la forza totale della Sua innocenza, non poté trattenerlo. Una delle vere ragioni della resurrezione di Nostro Signore non fu tanto perché era onnipotente e in grado di sconfiggere la morte, ma perché lei stessa era la conseguenza del peccato per cui, se il Cristo non ne aveva commessi, anzi aveva adempiuto la legge punto per punto, era impossibile avesse potere su di lui, neppure sul suo corpo. Per concludere questo breve inserto, Isaia 51.7,8 riporta un appello: “Non temete l’insulto degli uomini, non vi spaventate per i loro scherni; poiché le tarme li roderanno come una veste e la tignola li roderà come la lana, ma la mia giustizia dura per sempre, la mia salvezza di generazione in generazione”.

Tornando al cantico, la frase “Come veste si logorano tutti, la tignola li divora” mostra la reale condizione in cui versano gli accusatori: da un lato Lui, attaccabile solo nel corpo, dall’altro loro, che si logorano “come veste” – e sappiamo che lo stesso è scritto anche per la terra – quindi poco a poco, quasi senza che se ne accorgano e, in questo accadere, non esiste rimedio. “La tignola” che il vestito corrode, poi, è figura di quel processo che porta il corpo esanime a decomporsi lasciando solo alla polvere il compito di testimoniare quel che resta di una vita coscientemente spesa ad opporsi all’amore di Dio. Perché anche la loro anima verrà ridotta al nulla: “Ecco, tutte le vite sono mie:(…) chi pecca morirà” (Ezechiele 18.4).

Il cantico, per quel che ci compete, si conclude con un invito a due categorie di persone, “Chi teme il Signore” e “Chi cammina nelle tenebre”: i primi, pur avendo un atteggiamento corretto, devono “ascoltare la voce del Suo servo”, l’unico in grado di condurli correttamente lungo quei “pascoli erbosi” figura della fede e della dottrina. Senza questo ascolto, si rischia di essere sterili e di possedere convinzioni errate destinate ad ostacolare il rapporto con il Padre. I secondi, sono quelli che sono coscienti di andare a tentoni, senza una luce che ne rischiari cammino: anche per loro, proprio perché consapevoli della condizione in cui versano, è detto di “confidare nel nome del Signore”, quindi non in un Dio generico, costruito per appagare il vuoto interiore.

Resta il verso undicesimo in cui vediamo non solo gli accusatori, i detrattori e i responsabili della morte del corpo del Servo per eccellenza, ma tutti quelli che combattono gli altri servi, coloro che hanno creduto e testimoniano: “Voi tutti che accendete il fuoco– figura di un’idea, di un progetto per distruggere –, che vi circondate di frecce incendiarie– chi si circonda di qualcosa è per rafforzarsi anche psicologicamente –, andate alle fiamme del vostro– la responsabilità – fuoco, tra le frecce che avete acceso– altro rafforzativo della responsabilità –. Dalla mia mano– figura della volontà e del potere – vi è giunto questo: voi giacerete nel luogo dei dolori”. Sicuramente da porre una sottolineatura sul fatto che i nemici del Servo (e dei suoi fratelli) non confluiranno in un luogo di dolore generico, ma “nel luogo”, quindi in un posto preciso in cui possiamo identificare quello “stagno ardente di fuoco e zolfo” in cui verrà gettato Satana con i suoi angeli. Angeli ribelli, ma anche tutti coloro che gli avranno dato ascolto e obbedienza. Amen.

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07.18 – CINQUE CANTICI II/V (Isaia 49.1-6)

7.18 – Cinque cantici II/V (Isaia 49.1-6)

 

 

SECONDO CANTICO

 

1Ascoltatemi, o isole, udite attentamente, nazioni lontane; il signore dal seno materno mi ha chiamato, fino dal grembo di mia madre ha pronunciato il mio nome. 2Ha reso la mia bocca come spada affilata, mi ha nascosto all’ombra della sua mano, mi ha reso freccia appuntita, mi ha riposto nella sua faretra. 3Mi ha detto: «Mio servo tu sei, Israele, sul quale manifesterò la mia gloria». 4Io ho risposto: «Invano ho faticato, per nulla e invano ho consumato le mie forze. Ma, certo, il mio diritto è presso il Signore, la mia ricompensa presso il mio Dio». 5Ora ha parlato il Signore, che mi ha plasmato suo servo dal seno materno per ricondurre a lui Giacobbe e a lui riunire Israele – poiché ero stato onorato dal Signore e Dio era stato la mia forza – 6e ha detto: «È troppo poco che tu sia mio servo per restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti d’Israele. Io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra.”.

 

Il secondo cantico, a differenza del primo, inizia come un appello proprio alle “isole” e “nazioni lontane” di cui in altro passo (Isaia 42.4) si dice che “attendono il suo insegnamento” perché la risposta alle domande di ogni uomo circa la propria origine e fine sarebbe giunta un giorno anche a loro. Se le “nazioni lontane” sono tali sia per distanza, ma soprattutto per mentalità, usi e costumi, sono accomunate dall’essere composte da uomini che, a differenza degli animali, hanno la possibilità di scegliere consapevolmente e determinare il loro destino.

Nel nostro passo questi popoli sono invitati a “udire attentamente”, quindi con cura, diligenza, cautela, sinonimi che escludono imprudenza, sbadataggine, distrazione. In pratica il testo tende a responsabilizzare e ad invitare, avvertire che il messaggio che sta per essere recapitato è fondamentale per la vita della persona. Ogni essere umano è chiamato a mettere alla prova, verificare, porsi delle domande su quanto verrà annunciato: “Venite, e discutiamone insieme”, com’è scritto (Isaia 1.18). Non si tratta quindi di un qualcosa che deve venire imposto, un indottrinamento forzato, non si richiede una conversione di massa come purtroppo avvenuto nella storia con effetti devastanti, ma piuttosto le parole del secondo cantico sono un annuncio rivolto ai pagani, quelli che Israele disprezza.

Occorre fare attenzione al “seno materno” qui menzionato per due volte, ai versi 1 e 5: dando un brevissimo sguardo a come è usata quest’espressione nella Scrittura, la vediamo citata nel Nuovo Testamento a proposito di Giovanni Battista e dell’apostolo Paolo: del primo è detto “sarà colmato di Spirito santo fin dal seno di sua madre” (Luca 1.15), del secondo è lui stesso a scrivere “mi scelse fin dal seno di mia madre” (Galati 1.15). Per quanto riguarda l’Antico Patto va ricordato Geremia a cui viene detto in 1.4,5: “Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto, prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato; ti ho stabilito profeta delle nazioni”. A questo profeta fu rivolto un messaggio particolare oltre che un’autorità precisa “sopra le nazioni e sopra i regni per sradicare e demolire, per distruggere e abbattere, per edificare e piantare” (v.10), eppure nessuno di questi uomini, per quanto tutti profeti e quindi con un incarico preciso e unico da parte di Dio, fu mai in grado di salvare un’anima. Il profeta, per quanto unico per messaggio, compito e appartenenza, non sarà mai paragonabile a Gesù, il Cristo, di cui l’angelo disse in sogno a Giuseppe “Il bambino che è generato in lei(Maria) viene dallo Spirito Santo; (…) egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati” (Matteo 1.20,21). Nessuno dei profeti dei due patti non solo non “venne dallo Spirito Santo”, ma neppure nacque da una vergine a conferma che solo Gesù venne al mondo senza concorso umano da parte maschile; se così fosse non avrebbe potuto avere un’origine divina e sarebbe stato soltanto una semplice creatura che, per quanto originale nel suo messaggio e grande maestro nelle Scritture, si sarebbe identificato in tutto e per tutto nella definizione di Giobbe 14.1 che accomuna ogni essere umano, nessuno escluso: “L’uomo, nato di donna, breve di giorni e sazio d’inquietudine, come un fiore spunta e avvizzisce, fugge come l’ombra e mai si ferma”.

Il primo verso del nostro cantico parla di chiamata e di nome pronunciato – “Lo chiamerai Gesù”, detto a Maria in Luca 1.31 e a Giuseppe in Matteo 1.21 –, ma il quinto riporta il “plasmare”, cioè modellare una materia malleabile dandole la forma voluta, quindi perfezione, essendo stato il Padre in persona ad agire sulla materia del Figlio per dargli la “forma” voluta quindi carattere, la funzione, la totalità dello scopo. Se allora sommiamo i dati fin qui ottenuti, cioè la chiamata, la pronuncia del nome e l’essere stato plasmato, ne abbiamo tre che testimoniano come nulla sia stato trascurato per porre in grado di operare secondo la Sua volontà quel “Figlio diletto nel quale mi sono compiaciuto” di cui è profetizzato “Ecco, io vengo, poiché di me sta scritto nel rotolo del libro, per fare la tua volontà” (Ebrei 10.7). Diversamente, come già rilevato, Gesù sarebbe stato un uomo come gli altri, impossibilitato a sconfiggere la sua stessa morte, operando miracoli apparenti, magari mettendosi d’accordo prima con qualcuno disposto a fingere di essere paralitico, lebbroso, cieco e indemoniato. Avrebbe poi plagiato dodici poveri ignoranti che, per qualche assurdo motivo, avrebbero imbastito la truffa più colossale della storia. C’è chi sostiene questo e un giorno, purtroppo per lui, dovrà assumersene la responsabilità.

Il secondo verso del cantico parla dell’opera del “servo”: alla “bocca come spada affilata” è immediato l’abbinamento con la Parola, spada a doppio taglio descritta dall’apostolo Paolo in un passo molto conosciuto di Ebrei 4.12, ma ancora di più in Apocalisse 1.16 dove leggiamo, nella visione del Cristo glorificato che parla a Giovanni, “dalla sua bocca usciva una spada a doppio taglio”.

Il “Mi ha nascosto all’ombra della sua mano” ha riferimento con il fatto che Gesù fu costantemente sotto la protezione del Padre per quanto riguarda gli interventi esterni degli uomini che poterono prenderlo, processarlo, umiliarlo e crocifiggerlo solo in un momento preciso e non prima, ma non fu da Lui agevolato nelle prove a cominciare dalla tentazione nel deserto in poi. E penso alle fatiche dei viaggi missionari e alle angosce al Getsemane, al fatto che, in croce, non vennero legioni di angeli a liberarlo.

Mi ha reso freccia appuntita”: in mano a un valido arciere, la freccia centra subito il bersaglio a una velocità stimata di circa 250 km/h. Se il maligno tira “dardi infuocati” che hanno per scopo la distruzione indiscriminata, la “freccia appuntita” è selettiva, va dritta al punto interessato: in questo caso possiamo individuare tutte le volte in cui Gesù puntualmente demolì le false costruzioni degli Scribi e Farisei con l’interpretazione di quella Legge che si vantavano di osservare e che in realtà avevano svuotato di qualsiasi significato. Si tratta di una freccia che va dritta al cuore come nel caso in cui, dopo che Pietro predicò a Gerusalemme leggiamo che i suoi uditori “si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: «Fratelli, che cosa dobbiamo fare?»” (Atti 2.37). Non possiamo però trascurare il significato profetico del Salmo 64.7-9 da cui emerge come il rifiutare la proposta del Messaggero di Dio per eccellenza sia sufficiente a provocare un giudizio: “Tramano delitti, attuano le trame che hanno ordito; l’intimo dell’uomo e il suo cuore: un abisso! Ma Dio li colpisce con le sue frecce: all’improvviso sono feriti, la loro stessa lingua li manderà in rovina, chiunque, al vederli, scuoterà la testa”. L’intimo dell’uomo non rigenerato, ciò di cui ha più prezioso perché è la sua stessa vita, l’anima, il tutto è considerato un abisso, quindi tenebre che vanno illuminate dall’unica luce in grado di mostrargli ciò che veramente è.

Mi ha riposto nella sua faretra” sta a indicare che la freccia è ben custodita nell’attesa di venire utilizzata, scoccata. Questa frase sta a significare quindi che, al tempo in cui Isaia scriveva, non era ancora giunto il momento per cui il “servo” si sarebbe dovuto manifestare. E qui, personalmente, si apre un collegamento davvero illuminante con l’apertura del primo sigillo nel libro dell’Apocalisse quando nessuno poteva aprire quel libro “scritto sul lato interno e su quello esterno, sigillato con sette sigilli” (5.1). Il libro della vita, su cui sono scritti i nomi dei salvati, non poteva essere aperto se non dall’Agnello immolato dopo l’apertura dei sigilli, cioè eventi precisi che interessano la storia dell’umanità. Ebbene il primo riguarda proprio la visione di “…un cavallo bianco. Colui che lo cavalcava aveva un arco; gli fu data una corona ed egli uscì vittorioso per vincere ancora” (6.1,2). Su questo passo si sono scritti davvero “fiumi d’inchiostro”, la maggioranza dei quali a sproposito; ma il colore del cavallo, l’arco, la corona e le due vittorie, una conseguita e l’altra futura non lasciano dubbi sul fatto che si tratti della venuta di Gesù sulla terra, la prima quale Figlio dell’uomo vincitore sul peccato e la morte e la seconda come trionfatore definitivo sul sistema satanico perverso e il suo artefice, sull’inferno e gli abissi degli uomini perversi.

Il terzo verso, in cui sembra si parli di Israele come popolo “servo” e quindi possa essere identificato col servo stesso, costituisce un problema solo apparente perché è indubbio che sia lui il popolo eletto fin dai tempi antichi ed è altrettanto innegabile che, rinnegando per ora il Cristo, si trovi nelle condizioni descritte dall’apostolo Paolo in 2 Corinti 3.12-15 quando, parlando degli ebrei, scrive “…e non facciamo come Mosè che poneva un velo sul suo volto, perché i figli di Israele non vedessero la fine di ciò che era solo effimero– tornando dal Sinai, quando il suo volto era splendente-. Ma le loro menti furono indurite; infatti fino ad oggi quel medesimo velo rimane, non rimosso, quando si legge l’Antico Testamento, perché è in Cristo che esso viene eliminato. Fino ad oggi, quando si legge Mosè, un velo è steso sul loro cuore; ma quando vi sarà la conversione al Signore, il velo sarà tolto”. Sarà proprio con la conversione di Israele che si manifesterà la gloria di Dio. È un percorso a tappe verso la realizzazione del piano di salvezza in cui ogni successo può essere paragonato a tanti mattoni che vengono posti uno accanto all’altro, uno sopra l’altro per la costruzione dell’edificio di Dio, del Regno, della totalità nella comunione dei santi con Lui.

Tornando al nostro testo, anche la risposta del servo è profetica, perché quel “Invano ho faticato, per nulla e invano ho consumato le mie forze” si riferisce alla constatazione umanamente immediata del risultato delle fatiche di Nostro Signore: i discepoli che si dispersero al suo arresto, la loro difficoltà a credere alla Sua risurrezione e poi via fino ai 120 a Gerusalemme, il cui numero tuttavia crebbe in fretta, come leggiamo nel libro degli Atti.

Infine, nel verso sesto che fa da contrapposizione al quinto, gli appartenenti alle “isole” e alle “nazioni lontane” sono invitati a considerare ciò che li riguarda direttamente: l’opera perfetta del “servo”, che apparentemente non ha ottenuto il risultato sperato della conversione dell’intero popolo, viene ampliata ed elargita anche a quelli che ad Israele non appartengono: “È troppo poco che tu sia mio servo per restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti d’Israele. Io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra”.

Alla nascita di Gesù è scritto che  “Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una gran luce”: quella stessa luce è oggi alla portata di tutte quelle genti che a quei tempi, pur esistendo, non erano state coinvolte. Persone che avrebbero vissuto in modi diversi da quel popolo, parlato lingue allora sconosciute, nazioni entro le quali sarebbero nati (di nuovo) e vissuti dei figli di Dio. Persone salvate, concittadine dei santi e membri della famiglia di Dio. Amen.

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07.17 – CINQUE CANTICI I/V (Marco 4.41 – Isaia 42.1-4)

7.17 – Cinque cantici I/V (Marco 4.41 – Isaia 42.1-4)

41E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?»”.

Abbiamo citato nel capitolo precedente alcuni episodi dell’Antico Patto in cui l’Iddio vivente intervenne di persona in giudizio o per soccorrere e guarire, considerando che la domanda “Chi è costui…” dei discepoli, in realtà, non aveva senso. Poiché non esiste un solo verso della Scrittura che non abbia qualcosa da dire all’uomo indipendentemente del tempo in cui vive, credo a questo punto sia giusto esaminare la persona di Gesù sotto l’aspetto profetico in particolare basandoci sui quattro (o cinque a seconda delle interpretazioni) cantici sul “Servo del Signore” di Isaia il cui compito era fornire degli indizi importanti affinché quelli che lo attendevano potessero riconoscerlo quando fosse venuto in terra.

Riguardo al numero dei cantici se ne considerano quattro se si prende il testo del profeta come libro, rotolo originario in cui non c’era una suddivisione in capitoli. Accademicamente parlando, questo è il loro numero. Considerando però Isaia in quanto testo diviso in capitoli come pervenuto a noi oggi (Stephen Langton, 1214 circa), essendo il quarto spezzato, per pura comodità strutturale se ne possono contare cinque. Entrambi sono numeri importanti: alla stabilità perfetta del numero quattro, si affianca il cinque, che in questo caso rappresenta una sottolineatura del precedente che reca in sé il concetto di chiusura, fine, elemento ciò a cui nulla può essere aggiunto. Non a caso, in un precedente studio, è stato associato al cinque il numero delle pareti di una casa più il tetto.

 

PRIMO CANTICO (Isaia 42.1,4) 

“Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto in cui mi compiaccio. Ho posto il mio spirito su di lui; egli porterà il diritto alle nazioni. Non griderà né alzerà il tono, non farà udire in piazza la sua voce, non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta: proclamerà il diritto con verità. Non verrà meno e non si abbatterà, finché non avrà stabilito il diritto sulla terra, e le isole attendono il suo insegnamento”.

Molti sostengono che il “servo” sia Israele anche perché, nel capitolo 41, di lui si parla utilizzando lo stesso termine: “Ma tu, Israele, mio servo, tu Giacobbe, che ho scelto, discendente di Abramo mio amico, sei tu che io ho preso dall’estremità della terra e ho chiamato dalle regioni più lontane e ti ho detto: «Mio servo tu sei, ti ho scelto, non ti ho rigettato!». Non temere, perché io sono con te; non smarrirti, perché io sono il tuo Dio. Ti rendo forte e ti vengo in aiuto e ti sostengo con la destra della mia giustizia”. Si tratta di un passo molto bello che però non ritrae il servo come uomo, l’eletto di Dio  unico che, nel primo cantico, appare come persona che comparirà in un momento preciso come conseguenza dell’aver scelto Giacobbe e dell’amicizia con Abramo.

Sinceramente, ogni volta che leggo o penso alle parole “Abrahamo mio amico” resto stupito e commosso nel contemplare il Dio Onnipotente chiamare così un uomo, una creatura talmente imperfetta di fronte a Lui. Eppure gli parlava, eppure nel caso della distruzione di Sodoma assistiamo a un dialogo di esseri tra i quali intercorreva una rispettosa confidenza; addirittura leggiamo le parole di JHWH che, prima di agire in giudizio, dice “Dovrò forse nascondere ad Abrahamo quanto sto per fare?” (Genesi 18.17). E così, di fronte a questo scritto, la memoria va a Gesù e all’estensione enorme che diede ai suoi e che a volte dimentico: “Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici perché tutto ciò che io ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi” (Giovanni 15.14,15).

Veniamo al Cantico: lo abbiamo già trattato nel capitolo 3.12 intitolato “Il servo che ho scelto”, ma cercheremo di ampliarlo, affrontarlo in modo differente. Colpisce l’inizio, “Ecco”, che si utilizza quasi unicamente per indicare un momento preciso in cui cambiano le cose oppure per confermare una realtà oggettiva dopo un’attenta verifica: ricordiamo ad esempio quando, alla fine del sesto giorno della creazione, leggiamo “Dio vide quanto aveva fatto ed ecco, era cosa molto buona” (Genesi 1.31) oppure, in negativo, la constatazione prima del giudizio tramite il diluvio: “Iddio guardò la terra ed ecco, essa era corrotta, perché ogni uomo aveva pervertito la sua condotta sulla terra” (6.12). Molto usato in tutta la bibbia, a questo avverbio le concordanze dedicano circa cinque pagine molto fitte, tra le quali spiccano molti riferimenti non solo alla venuta del Cristo, ma anche a momenti particolari come al Suo ingresso in Gerusalemme, “Ecco, viene il tuo re”, alla “Vergine che concepirà e darà alla luce un figlio” e tanti altri.

L’ “Ecco” con cui si apre il primo cantico allude allora a un momento in cui il piano di Dio si raccorda alla storia umana e lo possiamo individuare tanto con la nascita di Gesù rivelata ai pastori, “Ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo” (Luca 2.10), quanto con l’inizio del Suo Ministero pubblico di cui Luca scrive “Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento»” (3.21,22).

Proseguendo nel cantico, il “servo” sarebbe stato sostenuto e l’ “eletto” avrebbe ricevuto il compiacimento del Padre. Ai due termini, “servo” ed “eletto”, viene anteposto il possessivo “mio”, quindi sta a qualificare un’appartenenza precisa, esclusiva, perché proprio quel popolo che avrebbe dovuto rappresentarlo sulla terra di fronte agli altri, testimoniando di Lui con una condotta santa, fallì preferendo portare la quotidianità al centro della propria vita come leggiamo dalle parole “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me” (Isaia 29.13). Certo, la stessa cosa la fanno molti nella Chiesa là dove il Nome di Cristo non è predicato correttamente e vengono a mancare uomini in grado di guidare, insegnare, ricordare che quella Parola “viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio” è la sola che può condurre alla vita eterna.

Così scrisse San Gregorio nel 300 circa: “Cos’è la Scrittura se non la lettera di Dio onnipotente alla Sua creatura? Cerca dunque di meditare ogni giorno la Parola del tuo Creatore. Impara a conoscere il cuore di Dio nelle parole di Dio. Così tu bramerai le realtà celesti con maggior desiderio e il tuo animo sarà preso con più ardore dalle gioie invisibili. Che lo Spirito riempia della Sua presenza la tua anima e riempiendola la renda più libera”. Parole importanti che rivelano, come molti passi, che non avendo la Chiesa nessun potere di salvare, ma solo quello di portare il Vangelo, se al suo interno lascia agire degli usurpatori, non solo fallisce nel proprio mandato, ma può scandalizzare e portare gli altri all’ateismo e all’abbandono. Non è un fatto nuovo, ma una realtà che si verificava già ai tempi antichi: “Per causa vostra, il nome di Dio è bestemmiato fra le genti” (Romani 2.24). Anche Tito 2.6-8 mette in risalto il fatto che la condotta fuori luogo di quanti si definiscono cristiani, causa lo screditamento del Vangelo: “Esorta ancora i più giovani ad essere prudenti– qualità che a loro manca quasi per natura – offrendo te stesso come esempio in opere buone: integrità nella dottrina, dignità, linguaggio sano e irreprensibile, perché il nostro avversario resti svergognato, non avendo da dire nulla di male contro di noi”.

Se la Chiesa non guarda a Cristo, di cui è detto nel passo in esame “Ho posto il mio Spirito su di lui”, fallirà inesorabilmente sostituendo alla carità e all’amore il potere, la tradizione, il rito, il denaro senza alcuna possibilità di poter riconoscere la presenza di Gesù nei suoi membri.

Altra caratteristica del “servo” e dell’ “eletto” è la discrezione con la quale opererà nel corso del Suo ministero terreno: la frase “Non griderà né alzerà il tono, non farà udire in piazza la sua voce” lo distacca immediatamente dalla metodologia dell’arrogante, vuoto e presuntuoso che, allora come oggi, cerca di farsi seguire dal prossimo ricorrendo alla cosiddetta arte oratoria, alla retorica, al convincere gli altri quasi fosse un venditore, tutte attività praticate dai Farisei. La mente umana cerca spesso l’effetto, le grandi manifestazioni, è convinta che la potenza di Dio debba sempre essere accompagnata, in quanto tale, da qualcosa di stupefacente. Ricordiamo che il profeta Elia non usò lo stesso metro valutativo quando, in 1 Re, leggiamo “Ed ecco che il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento, un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto, un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera. Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna” (19.11-13).

Nel non spezzare “la canna incrinata né la fiamma smorta”, che nel linguaggio simbolico allude alla misericordia, vediamo l’opera di soccorso del Figlio sull’uomo perché, invece di infierire su elementi deboli, al contrario li raddrizza, cura e ravviva. Perché non sono i sani ad avere bisogno del medico. Il “servo” avrebbe allora compiuto la sua missione con modestia e pacatezza, non sferzando il popolo per indurlo a conformarsi a nuove regole, ma trasformando interiormente chi si lascia trasformare. Perché si possono insegnare tante cose, ma non l’amore.

Proclamerà il diritto con verità”, compito riservato ai re, ai sacerdoti e magistrati se inteso da un punto di vista giuridico, ma se interpretiamo “diritto” come dottrina (Torah), allora si tratta di compito riservato ai profeti per cui l’ “eletto” assolverà a queste quattro funzioni. Egli “non verrà meno e non si abbatterà, finché…” cioè esiste un’opera incessante da parte sua, quel non aver “dove posare il capo” per tutto il periodo del ministero terreno. L’opera del Servo vediamo avrà un termine che verrà espresso nelle parole “Tutto è compiuto” con cui Gesù si riferisce tanto al fatto che non aveva trascurato nulla nella Sua opera che si concludeva alla croce, quando al futuro, alle conseguenze che la Sua morte avrebbe portato: Agnello di Dio innocente che toglie il peccato del mondo, ma anche apertura della porta in cielo per quanti avrebbero voluto varcarla credendo in Lui.

Si può quindi citare Colossesi 2.9-14: “È in lui che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità, e voi partecipate della pienezza di lui, che è il capo di ogni Principato e di ogni Potenza.  (…) Con lui Dio ha dato vita anche a voi, che eravate morti a causa delle colpe e della non circoncisione della vostra carne, perdonandoci tutte le colpe e annullando il documento scritto contro di noi che, con le prescrizioni, ci era contrario: lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce”. Eppure gli ebrei, per i quali fondamentalmente il Servo è venuto, ne rifiutano il sacrificio in quanto la Bibbia non ammette il sacrificio umano, confondendo il Gesù uomo con l’Agnello di Dio.

Quindi, tornando a noi: chi crede, ha fatto proprio il Vangelo credendo in Gesù Cristo, è partecipe della Sua pienezza. Con la Sua risurrezione ha dato vita anche a noi, morti per le colpe e la nostra non appartenenza al popolo eletto. “Il documento scritto contro di noi” è la Legge nel suo complesso, annullata quanto a potere di condannare l’uomo privandolo della possibilità di essere vivificato da Dio: “Anche voi eravate morti per le vostre colpe e i vostri peccati, nei quali un tempo viveste alla maniera di questo monto, seguendo il principe delle potenze dell’aria, quello spirito che opera negli uomini ribelli.(…) Ma Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo. Per grazia infatti siete stati salvati” (Efesi 2.1.2; 4,5). Ebbene questo documento scritto è stato “tolto di mezzo, inchiodandolo sulla croce” cioè:  Gesù è stato tolto dalla croce per essere deposto nel sepolcro ed è risuscitato dopo tre giorni, ma la Legge è ancora là, su quel legno, senza più alcun potere. I dieci comandamenti certo restano l’eterna misura del bene e del male, ma non sono più causa di morte come un tempo; se mai di responsabilità perché dal loro rispetto dipenderà la posizione che avremo nel Regno, le “molte” o “poche battiture”, la comunione con Lui nel cammino terreno, l’essere salvati “come attraverso il fuoco” oppure no.

Ecco, anche questo fa parte di quell’ “insegnamento” che le “isole” aspettano: il Vangelo, potenza di Dio per chiunque crede. Amen.

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07.16 – CHI È COSTUI? (Marco 4.41)

7.16 – Chi è costui (Marco 4.41)

 

41E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?»”.

 

In questo capitolo ci occuperemo della domanda riportata nel verso 41. Se ci interrogassimo sui dati che i discepoli potevano avere a disposizione dalle Scritture e dalla loro esperienza personale per rispondere, potremmo circoscriverli all’interno di due gruppi: uno riguarda alcune manifestazioni di Dio prima di quell’episodio, un altro è costituito da cinque cantici presenti nel libro del profeta Isaia che affronteremo nei capitoli successivi. Abbiamo quindi due gruppi di argomenti da affrontare, uno semplice che teoricamente sarebbe stato alla loro portata, un altro più complesso, forse più di competenza di uno scriba o un dottore della Legge.

Abbiamo letto che dopo il miracolo della tempesta sedata i discepoli si chiesero chi Gesù fosse alla luce di ciò che sapevano di lui, ma quali erano gli elementi di cui potevano disporre per darsi una risposta? Teniamo presente che non era stata ancora rivolta a loro la domanda “La gente chi dice che io sia? (…) e voi chi credete che io sia?”, fatta in un momento preciso per verificare l’idea che loro, e non la gente comune, si erano fatti di lui.

Facciamo allora mente locale: quegli uomini si erano trovati di fronte a un personaggio che guariva da ogni infermità, possessioni demoniache comprese. Avevano ascoltato con indubbio interesse le dispute coi farisei e gli scribi sul fatto che gli uni sostenevano che cacciasse i demoni con l’aiuto del loro principe e la confutazione di questa teoria, e ora scoprono di avere a che fare con uno che viene obbedito anche dal vento e dal mare. Nonostante questo si chiedono chi sia. Lasciamo stare il nostro punto di vista al riguardo e andiamo al loro perché il popolo di Israele sapeva che solo Dio poteva dominare gli elementi naturali e usarli come avesse voluto. E teniamo presente che la stessa cosa la può fare Satana, se gli è concesso: ricordiamo che nel caso di Giobbe, prima di intervenire a suo danno, chiese il permesso a YHWH e, cronologicamente, fu il responsabile di questi eventi: come gli comunicarono i suoi servi, “I Sabei hanno fatto irruzione, li hanno portati via e hanno passato a fil di spada i guardiani. Sono scampato soltanto io per raccontarlo” (1.15); poi “Un fuoco divino – perché allora si riteneva che solo Dio potesse agire così – è caduto dal cielo: si è appiccato alle pecore e ai guardiani e li ha divorati. Sono scampato solo io per raccontartelo” (v.16). Infine al verso 18 “I tuoi figli e le tue figlie stavano mangiando e bevendo vino in casa del loro fratello maggiore, quand’ecco un vento impetuoso si è scatenato da oltre il deserto: ha investito i quattro lati della casa, che è rovinata sui giovani e sono morti”.

Le forze ostili che possono riversarsi sui credenti, dalle persecuzioni, alla malattia fino agli elementi naturali, trovano così la loro origine in questo personaggio che può scatenarsi su di loro per combatterli come poi per la cristianità è avvenuto tramite un potere religioso (gli ebrei che aizzarono le persecuzioni della Chiesa nella Roma antica e nell’Asia Minore) o politico (la Roma imperiale). La stessa cosa accade anche oggi in molte parti del mondo, per quanto non (ancora) in Europa.

Se il caso dei discepoli non ha nulla a che vedere con quello di Giobbe, citato per descrivere le possibilità che ha l’Avversario, gli scritti dell’Antico Patto hanno precisi riferimenti agli interventi di Dio sugli elementi naturali: ricordiamo il primo, il diluvio, quando “si ruppero tutte le sorgenti del grande abisso e le cateratte del cielo si aprirono. Cadde la pioggia sulla terra per quaranta giorni e quaranta notti” (Genesi 7.11,12). Abbiamo poi la distruzione delle città di Sodoma e Gomorra in cui “Il Signore – non Satana – fece piovere fece piovere dal cielo fuoco e zolfo proveniente dal Signore” (19.23). Ricordiamo che Dio intervenne nella fisiologia di Sara, Rachele, Anna ed Elisabetta rendendole fertili, la discesa della manna dal cielo per sfamare il popolo di Israele in cammino verso la terra promessa (Esodo 16), prima ancora il giudizio sull’Egitto tramite le dieci piaghe, la divisione delle acque del Mar Rosso per far passare il popolo cui si contrappose l’annientamento dell’esercito del faraone che lo seguiva, l’esaudimento della preghiera di Giosuè quando non tramontò il sole in modo che i Gabaoniti fossero sconfitti.

Per intervento di Elia, profeta che pregò il Signore perché così avvenisse, non piovve sul regno d’Israele per tre anni e sei mesi a causa del comportamento del re Acab, marito di Gesabel, che “…fece ciò che è male agli occhi dell’eterno più di tutti quelli che l’avevano preceduto” (1 Re 16.29-33).

Abbiamo così tre soggetti che possono intervenire sugli elementi naturali: partendo dal basso verso l’altro abbiamo visto Satana, ma deve essergli permesso e soprattutto non si ferma nel suo intento distruttivo per cui non può cacciare se stesso, in altre parole smettere. Per farsi ubbidire dal vento e dal mare, quindi, Gesù non poteva certo utilizzare il “principe dei demoni” come sostenevano i suoi avversari.

Il secondo soggetto è un profeta o un re benedetto dal Signore: ricordiamo i molti miracoli operati da Elia ed Eliseo o, per andare a tempi più remoti, dallo stesso Mosè; ma se Gesù aveva definito Giovanni Battista come il profeta più grande e non miracoli non ne compì, che pensare? Nostro Signore, se fosse stato un profeta, avrebbe potuto intervenire sulla barca in mezzo al lago, come fece. Ma la domanda dei discepoli rimase: chi è costui? Quindi non fecero la connessione tra l’essere profeta e sedare la tempesta.

Restava allora il potere che Dio ha, come abbiamo visto brevemente, di intervenire. E qui non solo avrebbe dovuto entrare in gioco la memoria relativa agli eventi narrati nei rotoli della Bibbia, ma soprattutto quella di ciò che fu udito al battesimo di Gesù: “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento” (Matteo 3.17). Chi quindi poteva essere, se non il Figlio di Dio, quindi Dio stesso?

Credo si tratti di un’associazione elementare che chiunque oggi può fare se in possesso degli elementi basilari che abbiamo visto, ma loro erano lì, terrorizzati, con le onde che si versavano sulla barca facendola affondare, un evento che forse non avevano mai sperimentato in quel modo e quando, venuta la calma all’improvviso, tutto il loro timore svanì, fu come se si fossero svegliati da un incubo che però tale non era perché erano coscienti di cosa avevano vissuto, per cui non furono in grado di ragionare correttamente. La loro natura li aveva dominati e la paura si impadronì di loro quando capirono che tutta l’esperienza e perizia che avevano acquisito negli anni a pilotare barche facendo fronte a venti e correnti, non sarebbe servita a nulla. In quel momento scoprirono che l’uomo, quando esaurisce le sue competenze a fronte delle difficoltà, senza l’aiuto di Dio non può che cedere con angoscia senza alcuna possibilità di riuscita.

I discepoli avevano con loro sulla barca una persona importante che tante volte li aveva rassicurati: orgogliosi di seguirlo, non avevano dato peso alla fatica del cammino lungo le strade di Israele, del disprezzo delle autorità religiose e dei loro conoscenti osservanti la Legge; avevano visto miracoli, sentito tanti insegnamenti e aggiornamenti sulle Scritture, ma lì il pericolo di morire era quanto mai reale e, compreso che tutta la loro esperienza non li avrebbe portati da nessuna parte, lo svegliarono senza pensare che, se l’Emanuele, il “Dio con noi” dormiva, in realtà di pericolo non ce n’era. Già avere con loro Gesù avrebbe dovuto essere sufficiente.

A questo punto il rimprovero che fu mosso ai discepoli presenti lo vedo appartenente al loro passato – ma allora non potevano saperlo – poiché dalle notizie storiche o dal libro degli Atti in cui compaiono Pietro, Giacomo e altri, sappiamo che la paura incontrollata non rientrò più nelle loro esperienze, anzi. Dall’altra, nella paura, vedo la vera disperazione che si impossesserà degli uomini della “gran tribolazione” quando vedranno sgretolarsi tutte le loro sicurezze all’apertura del sesto sigillo: “Allora i re della terra e i grandi, i capitani, i ricchi e i potenti, e infine ogni uomo, schiavo o libero, si nascosero tutti nelle caverne e fra le rupi dei monti; e dicevano ai monti e alle rupi: «Cadeteci addosso, nascondeteci dalla presenza di colui che siede sul trono e dall’ira dell’Agnello; perché è venuto il giorno della sua ira. Chi può resistere?» (Apocalisse 6.15-17).

Proviamo ad esaminare brevemente questi versi: appartengono ad un tempo in cui vi sarà una distruzione materiale che rientra nei giudizi di Dio che si manifestarono in passato – ma qui sono futuri, vicini al tempo dichiarato della fine – ai quali i credenti, come Noè ai tempi e poi Lot e la sua famiglia, scamparono sempre. Vediamo i profili menzionati degli uomini che cercheranno di nascondersi: saranno “tutti” indipendentemente dal loro ruolo nella società, ma emergono capi di stato, visti nei “re della terra”, i dispensatori di morte e ogni sorta di crimine legalizzato (“i capitani”), i cinici detentori degli imperi finanziari dai quali ogni senso di pietà è assente e tutti coloro che hanno basato la loro prosperità ingannando e facendo soffrire gli altri (“i ricchi e i potenti”). Certo, anche persone comuni, “ogni uomo, schiavo o libero”.

L’apertura del sesto sigillo è descritta così: “…e si fece un gran terremoto; il sole diventò nero come un sacco di crine, e la luna diventò tutta come sangue; le stelle del cielo caddero sulla terra come quando un fico scosso da un forte vento lascia cadere i suoi fichi immaturi. Il cielo si ritirò come una pergamena che si arrotola e ogni montagna e ogni isola furono rimosse dal loro luogo” (v. 12-14). Non ci sarà la presenza di Gesù, addormentato da svegliare; l’unica preghiera possibile sarà quella pagana, rivolta a soggetti che non possono sentire né rispondere: “Cadeteci addosso”. Perché, come leggiamo in Gioele 2.11 “Il giorno del Signore è grande e assai terribile; chi potrà sostenerlo?”.

Ho usato un termine, “preghiera pagana”, qui usata nel suo senso peggiore perché non ci troviamo di fronte ai pagani “storici” che, privi di rivelazione, si inventano un dio, ma a uomini e donne che hanno deliberatamente rifiutato quello vivente e vero. Troviamo infatti altrove: “Il resto dell’umanità che non fu uccisa da questi flagelli, non si convertì dalle opere delle sue mani; non cessò di prestare culto ai demoni e agli idoli d’oro, d’argento, di bronzo, di pietra e di legno, che non possono né vedere, né udire, né camminare; e non si convertì dagli omicidi, né dalle stregonerie, né dalla prostituzione, né dalle ruberie” (9.20).

I discepoli, nella loro pochezza di allora, conobbero la paura in un ambiente che, senza la presenza di Gesù, li avrebbe sopraffatti e gli si rivolgono per avere aiuto usando parole che forse non avrebbero mai impiegato in altre circostanze. Allora il Maestro era presente: riportò la calma non senza averli rimproverati per la loro mancanza di fede, il non aver compreso che non può esservi timore se l’Emmanuele ci è vicino. La stessa cosa non avverrà per gli uomini accecati dal proprio orgoglio al tempo della fine.

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07.15 – LA TEMPESTA SEDATA (MARCO 4.35-41)

7.15 – La tempesta sedata (Marco 4.35-41)

 

 

35In quello stesso giorno, venuta la sera, disse loro: «Passiamo all’altra riva». 36E, congedata la folla, lo presero con sé nella barca. C’erano altre barche con lui. 37Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. 38Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?». 39Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. 40Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?» 41E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?»”.

 

Episodio raccontato a Marco da Pietro che era presente, avviene subito dopo (o quasi) le parole dette al discepolo irrisoluto che voleva, prima di seguire Gesù, andare a salutare quelli di casa sua. Quanto si verificò sulla barca nella traversata può essere affrontato sotto molti aspetti e poiché molti lo hanno già sviluppato sotto quello della fede che i discepoli non riposero sufficientemente sul loro Maestro, sul mare e la tempesta figura delle difficoltà anche apparentemente insormontabili che capitano nella vita (ma non solo), preferisco soffermarmi sulle conoscenze che avevano quanti erano al seguito di Nostro Signore, sulle dinamiche che portarono al rimprovero per la mancanza di fede nei discepoli e sul verso 41 col quale Marco conclude la sua cronaca.

Dalle parole “In quello stesso giorno” e “venuta la sera” possiamo rilevare l’instancabilità di Gesù perché ci obbligano a considerare cosa fosse avvenuto: ricordiamo che al mattino Nostro Signore aveva ricevuto i discepoli di Giovanni Battista e parlato alla folla, poi aveva pranzato a casa di Simone il fariseo, quindi aveva esposto le parabole del regno spiegandole ai discepoli; poi, sentito che la madre e i fratelli lo cercavano, ne aveva approfittato per dichiarare il nuovo stato di parentela che avrebbero avuto con lui tutti coloro che avrebbero fatto la Sua volontà. Stando al racconto di Marco, ricollegandoci all’intervento dei suoi parenti, vi fu anche una discussione con alcuni farisei “scesi da Gerusalemme” che lo accusavano di cacciare i demoni tramite il loro capo e avevano concluso che fosse “posseduto da uno spirito impuro”. Veramente, con quelle azioni, Gesù confermava al discepolo desideroso di seguirlo, salvo prima salutare quelli di casa sua, che il Figlio dell’uomo non aveva “dove posare il capo”. Allo stesso modo possiamo dire che Lui era quello che aveva “messo mani all’aratro” per primo e non poteva distrarsi né voltarsi indietro pensando alle Sue esigenze materiali: nonostante fosse stanco al punto da addormentarsi lungo il tragitto per l’altra riva del lago, volle partire.

Ecco, qui va fatta una prima precisazione sulla sua scelta di attraversare il mare di Galilea recandosi per la prima volta in un territorio che potremmo definire anche pagano abitato da Nabatei, Aramei (ma anche Ebrei), le cui città principali erano centri di cultura greca e romana. Si trattava di un territorio misto, poiché la radice di “Gadara”, come vedremo anche nell’episodio degli indemoniati, richiama la tribù di Gad che, assieme a quella di Ruben e alla metà di quella di Manasse, chiese a Mosè di non fargli passare il fiume Giordano, ma che gli fosse assegnato il paese di Galaad, ricco di pascoli, perché possedevano parecchio bestiame (Numeri 32).

Gesù poi sapeva che aveva un appuntamento con due indemoniati in quel territorio, ma ancora di più era necessario che i suoi discepoli capissero meglio chi Lui fosse. È infatti importante sottolineare che quelli che Lo seguivano, nonostante i Suoi interventi che ascoltavano nella Sinagoga, non sapevano spiegare le guarigioni dei ciechi, degli indemoniati, dei sordi e degli zoppi avendo di Lui una visione limitata dalla loro umanità. Per meglio dire, guardando solo il Vangelo di Marco, precedentemente Gesù aveva operato miracoli di guarigione sull’indemoniato di Capernaum (1.13), guarito la suocera di Pietro (1.29) ed altri ammalati e indemoniati in Betsaida (1.32), del primo lebbroso (1.40) ma, come scrisse un fratello, «tutti quei miracoli non convinsero comunque i suoi discepoli perché, per loro, il Messia doveva ripetere le gesta di Davide, come rileviamo dalle parole che gli dissero i due incamminati per Emmaus, “noi speravamo che fosse lui a liberare Israele”: Gesù doveva liberare il popolo dal dominio romano e diventare il risolutore di tutti i suoi problemi esistenziali, regnare con lui.

Se quindi i discepoli avevano del loro Maestro un’opinione imprecisa, dall’altro erano persone, se non tutti molti di loro, che con l’acqua avevano esperienza essendo pescatori e possiamo supporre che, conoscendo essi il territorio, nulla lasciasse presagire l’avvicinarsi di una tempesta, evento comunque non insolito in quel lago perché non era raro che si sprigionassero delle violente correnti di vento provenienti dai monti circostanti, causando seri problemi ai naviganti. La partenza avvenne così: “Gesù salì su una barca con i suoi discepoli (…) e presero il largo” (Luca 8.22) quindi le barche furono diverse, così come sappiamo molte essere le persone al Suo seguito. È facile dedurre che la barca con Gesù fosse in testa alle altre e che a un certo punto il vento cominciò a soffiare, ma la cosa singolare fu che tutti i sinottici concordano nel riportare che la tempesta si abbatté solo su quella in cui stava Nostro Signore, che dormiva a poppa, e non sulle altre. Scrive un fratello in proposito che “alla tranquillità di Gesù fa contrasto la paura che prende i discepoli, benché fossero abili nuotatori, incontrollati e aggressivi: “Maestro, non t’importa che siamo perduti?”, frase che suona come un rimprovero perché, se Gesù fosse morto, anche il loro sogno di gloria sarebbe svanito”. E tutti i testi dei tre evangelisti concordano su come andò a finire l’episodio; a parte Marco, gli altri scrivono “Minacciò i venti e il mare e ci fu grande bonaccia” (Luca 8,24 praticamente identico in Matteo).

A questo punto occorre considerare più approfonditamente gli elementi che avrebbero avuto i discepoli per capire chi fosse realmente il loro Maestro, e la frase finale, la loro “grande domanda” “Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli ubbidiscono?” (v. 25), tutti compresi nel rimprovero “Dov’è la vostra fede?”.

Per iniziare è bello considerare che il miracolo appena avvenuto fu profetizzato nel Salmo 107.25-29: “Egli parlò e fece levare un vento burrascoso che sollevava flutti – quindi il primo scopo di quel viaggio fu rivelarsi ai discepoli in una forma che non conoscevano –. Salivano fino al cielo, scendevano negli abissi, la loro anima languiva nell’affanno. Ondeggiavano e barcollavano come ubriachi, la loro perizia era svanita. Nell’angoscia gridarono al Signore ed Egli li liberà dalle loro angustie. Ridusse la tempesta alla calma, tacquero i flutti del mare. Si rallegrarono nel vedere la bonaccia ed Egli li condusse al porto sospirato. Ringraziarono il Signore per la sua misericordia e per i suoi prodigi a favore degli uomini”.

Possiamo poi confrontare il comportamento di questi discepoli (mi chiedo se ci fossero tutti i dodici sulla barca) con quello tenuto dall’apostolo Paolo quando, condotto prigioniero a Roma, subì il naufragio della barca che lo trasportava. In Atti 27 leggiamo di una tempesta durata diversi giorni: “Eravamo sbattuti violentemente dalla tempesta e il giorno seguente cominciarono a gettare in mare il carico, il terzo giorno con le proprie mani buttarono via l’attrezzatura della nave. Da vari giorni non comparivano più né sole né stelle e continuava una tempesta violenta, ogni speranza di salvarci era ormai perduta” (vv.18-20). Paolo disse all’equipaggio “…mi è apparso un angelo di Dio al quale appartengo e che servo, dicendomi: «Non temere, Paolo: tu devi comparire davanti a Cesare ed ecco, Dio ti ha fatto grazia di tutti i tuoi compagni di navigazione. Perciò non perdetevi di coraggio, uomini; ho fiducia in Dio che avverrà come mi è stato annunciato. Ma è inevitabile che andiamo a finire su qualche isola. (…) Finché non spuntò il giorno, Paolo esortava tutti a prendere cibo. (…) Ciò detto prese il pane, rese grazie a Dio davanti a tutti, lo spezzò e cominciò a mangiare”.

Prima di esaminare ciò cui i discepoli non avevano pensato, è importante soffermarsi sul vento, figura di dottrine estranee alla Parola che nuocciono gravemente alla salute spirituale del credente: è importante formarsi stabilmente “…affinché non siamo più come fanciulli sballottati dalle onde e portati qua e là da qualsiasi vento di dottrina secondo l’inganno degli uomini con quell’astuzia che tende a trarre nell’errore” (Efesi 4.4).

Giacomo poi aggiunge “Se qualcuno di voi manca in sapienza, la domandi a Dio che dona a tutti generosamente e senza rinfacciare, e gli sarà data. La domandi però con fede, senza esitare, perché chi esita somiglia all’onda del mare mossa e agitata dal vento. Non pensi di ricevere qualcosa dal signore un uomo che ha l’animo oscillante e instabile in tutte le sue azioni” (1.6)

Inevitabile poi il confronto con la parabola delle due case, quella costruita sulla sabbia e sulla roccia: “Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti che si abbatterono su quella casa, ed essa non cadde, perché era fondata sulla roccia. Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, è simile ad un uomo stolto che ha costruito la sua casa sulla sabbia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa cadde, e la sua rovina fu grande” (Matteo 7.27). Sono due costruzioni identiche, ma su una diverso terreno, fondamento, in una parola: fede. La prima domanda, implicita dalla lettura di questo episodio, è appunto questa: su quale terreno stiamo costruendo e quale sia il nostro destino, rovina o scapato pericolo.

La seconda domanda invece è propria, relativa a quanto abbiamo letto ed è Gesù stesso a porla. C’è chi ha annotato in proposito che “i discepoli, dopo lo scampato pericolo, credevano che tutto fosse tornato come prima, ma non fu così per Gesù che disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?»” oppure, secondo Luca 8.25, “Dov’è la vostra fede?”.

Timore e paura sono emozioni che fanno parte del quadro della vita come sorte naturale che Adamo ed Eva trasmisero a tutti gli uomini, come leggiamo quando Adamo rispose “Ho udito il tuo passo nel giardino e ho avuto paura perché sono nudo e mi sono nascosto”. Avere paura significa essere dominati da ogni situazione, da ogni circostanza incognita, mentre la fede riesce a dominare ogni avvenimento perché non fa affidamento sull’uomo, ma su Dio che lo ha creato. Pensiamo ai problemi che incontriamo ogni giorno, a quelli del lavoro, della malattia, alla morte stessa. Adamo dunque, conobbe questo sentimento a seguito del peccato commesso e mai l’aveva provata prima, parlando con Dio faccia a faccia.

Tornando al nostro episodio, non rileviamo dai sinottici che i discepoli risposero; in compenso emerge uno stupore immenso, fuori luogo: si domandano chi fosse quell’uomo cui obbedivano persino il vento ed il mare. In compenso, dopo quest’episodio, le persone al seguito di Gesù iniziarono a capire e a trattenere nel loro cuore e nella loro mente che Lui era il Figlio dell’Iddio vivente, perché furono concordi con la frase di Pietro “Tu solo hai parole di vita eterna” (Giovanni 6.66).

Restano alcune cose da esaminare, come i paralleli negli scritti dell’Antico Patto sulla figura di Gesù e le volte in cui YHWH si rivelò padrone sugli elementi del creato, che rimandiamo a un prossimo capitolo.

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07.14 – I FACILI ENTUSIASMI DI FRONTE AL VANGELO: TRE PERSONAGGI (3/3) (Luca 9.61-62)

7.14 – I facili entusiasmi di fronte al Vangelo 3/3: il discepolo irrisoluto (Luca 9.61-62)

61Un altro disse: «Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia». 62Ma Gesù gli rispose: «Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio».”

Con questi versi di Luca terminano tre ritratti di discepoli che, secondo una mia classificazione, ho ritenuto dedicati ai facili entusiasmi. Scriba a parte abbiamo avuto il discepolo “temporeggiatore” che si era appellato alla pietas nei confronti del proprio padre, ora è il turno di quello “irrisoluto”, che in comune al precedente ha il voler anteporre qualcosa a Gesù: uno si appella al comandamento “Onora tuo padre e tua madre” dandone un’interpretazione personale e l’altro, se come credo frequentasse la Sinagoga e ne fosse quindi a conoscenza, all’episodio in cui Elia chiama Eliseo a seguirlo di cui troviamo testimonianza in 1 Re 19.19-21: “Partito di lì(dopo un colloquio con Dio sul monte Oreb), Elia trovò Eliseo, figlio di Safat. Costui arava con dodici paia di buoi davanti a sé, mentre egli stesso guidava il dodicesimo. Elia, passandovi vicino, gli gettò addosso il suo mantello. Quello lasciò i buoi e corse dietro a Elia, dicendogli: «Andrò a baciare mio padre e mia madre, poi ti seguirò». Elia disse: «Va’ e torna, perché sai che cosa ho fatto per te». Allontanatosi da lui, Eliseo prese un paio di buoi e li uccise; con la legna del giogo dei buoi fece cuocere la carne e la diede al popolo, perché la mangiasse. Quindi si alzò e seguì Elia, entrando al suo servizio”.

Capire questo episodio, che presenta una richiesta molto simile a quella raccontata da Luca, è molto importante, non senza sottolineare che in entrambi gli àmbiti viene nominato l’aratro. Prima di tutto Elia non incontrò Eliseo a caso, ma Dio stesso gli aveva parlato di lui: “Ungerai Eliseo (…) come profeta al tuo posto” (Ibid., v.16).

Dal numero dei buoi, importante perché abbiamo il dodici e il ventiquattro, deduciamo che Eliseo apparteneva a una famiglia facoltosa ed era intento nel proprio lavoro, particolarmente impegnativo perché per utilizzare quella quantità di animali l’aratro doveva rivoltare il terreno molto in profondità, altrimenti sarebbero stati sufficienti uno o due animali.

Elia, passando e proseguendo il cammino, getta il proprio mantello su Eliseo che capisce immediatamente il significato di quel gesto: il mantello simboleggiava la personalità e i diritti di chi lo possedeva; quello di pelo dei profeti era il loro abito ufficiale (2 Re 1.8; Zaccaria 13.4) e il gettarlo su un altro costituiva una specie di investitura e iniziazione. Ciò fu subito capito da quel giovane, che fu costretto a lasciare i buoi e correre dietro ad Elia, fermarlo e dirgli che, prima di seguirlo, sarebbe andato a baciare suo padre e sua madre. La risposta del profeta non è tradotta da tutti traducono allo stesso modo: la nostra versione, tratta dalla Bibbia di Gerusalemme, interpreta il senso, “Va’ e torna, perché sai cos’ho fatto per te”, alludendo al gesto del mantello e a ciò che implicava; altri invece hanno:

 

  1. Ricciotti: “Va’ e torna, perché quello che toccava a me io l’ho fatto”;
  2. Luzzi: “Va’ e torna, ma prima pensa a quel che t’ho fatto”;
  3. Diodati 1607:“Va’ e torna, perciocché che t’ho io fatto?”;
  4. Diodati Riv.: “Va’ e torna, perché sai che ti ho fatto?

 

Deduciamo allora dal testo che Eliseo abbia ottenuto il permesso da Elia a recarsi dai suoi, ma tenendo presente l’elezione che aveva appena ricevuto. Elia non aveva gettato il suo mantello a caso, ma in obbedienza a un ordine ricevuto e leggiamo che Eliseo andò non solo ad accomiatarsi dai suoi, ma che sacrificò due buoi, distrusse i suoi attrezzi da lavoro bruciandoli per cuocere le carni degli animali dandole al popolo perché mangiasse, tutti segni inequivocabili coi quali rinunciava alla sua vita passata, ricchezza della sua famiglia compresa, non avendo una moglie e dei figli a cui provvedere.

Sappiamo che anche Matteo, dopo la chiamata di Gesù, offrì un banchetto attraverso il quale dava l’addio alla vita che aveva fino a quel momento condotto. Andrea, Pietro, Giacomo e Giovanni, prima di venire chiamati da Gesù a seguirlo definitivamente, ebbero del tempo per trarre le loro conclusioni su di Lui come del resto il nostro Evangelista, che prima di seguirlo ne sentì molto parlare.

Tornando a Eliseo, un segno eloquente del fatto che avesse compreso l’onore di avere il mantello lo vediamo dalla prontezza con la quale, ricevutolo, abbandonò i buoi: già lì capiva che l’aratura apparteneva ormai al suo passato. Eliseo prese commiato dai suoi non sapendo se avrebbe potuto far ritorno a loro o se per lui ci sarebbero potuti essere altri piani, per cui possiamo notare la docilità e la flessibilità con la quale offerse la propria vita non ad Elia, quanto a Dio che in quel momento era da lui rappresentato. Se ad Eliseo fu concesso di andare a salutare i suoi genitori, ci chiediamo perché Gesù non rispose consentendo a quel discepolo di fare altrettanto.

Evidentemente, conoscendo quello che realmente risiedeva nel cuore dell’uomo, Gesù sapeva che quella persona aveva ancora dei conti in sospeso con il suo passato, non era disposto ad abbandonare ciò che aveva e il desiderio di avere un ultimo contatto coi suoi famigliari era indice di un attaccamento dal quale difficilmente si sarebbe liberato. E il fatto che Nostro Signore stesse per salire sulla barca o andasse verso Gerusalemme secondo Luca, è irrilevante, non c’era tempo: il discepolo irrisoluto era “inadatto al regno di Dio” per tutto questo insieme di motivi.

Ogni vero cristiano ha avuto una chiamata, profondamente diversa l’uno dall’altro e allo stesso tempo comune: un giorno, ha incontrato Gesù e gli ha risposto e subito ha dovuto lasciare qualcosa perché ha scoperto di non essere più quello di prima. Il nocciolo è tutto qui e il resto, l’abbandono di metodi di comportamento, reazioni, azioni che in precedenza erano comuni a tutti gli altri esseri umani, viene col tempo, con la maturità e la pratica perché il credente non è catapultato in un mondo nuovo in cui tutto risulta facile, ma al contrario cresce, come abbiamo visto nella parabola del seminatore, “con sofferenza”. Per questo coloro che hanno compiti di responsabilità nella Chiesa dovrebbero mettere in pratica il discernimento, cercando di raffreddare gli entusiasmi dei giovani anziché agevolarli, invitandoli a tenere i piedi accuratamente per terra affinché possano verificare prima di tutto la loro eventuale vocazione. Ricordiamo l’esortazione, valida per tutti sempre e comunque, ad essere sì “Semplici come colombe”, ma “Prudenti come serpenti” (Matteo 10.16).

Esaminiamo ora le parole di Gesù a quel discepolo, “Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto al regno di Dio”: l’aratura è un’operazione più complessa di quanto si creda. Non può essere fatta in qualsiasi stagione, richiede condizioni precise del terreno che non può essere troppo secco, né troppo umido. L’aratura, a prescindere dalla profondità con la quale l’aratro deve scavare, dev’essere uniforme, cosa possibile solo se chi a quell’epoca guidava gli animali non si distraeva perché, lasciando delle zone vuote o irregolari, ne avrebbe risentito la semina successiva. Chi arava il campo poteva fermarsi a riposare, ma poi doveva riprendere dal punto di sosta con la stessa intensità e proseguire.

Notiamo che qui Gesù non parla di distrazione, ma di voltarsi indietro: chi si comporta così è perché rimpiange qualcosa, perché ciò che ha lasciato è ancora per lui vincolante. Voltarsi, significa perdere di vista ciò che è davanti. Se ciò si verifica non sta a significare che alla persona sia preclusa la grazia, ma che questa non è ancora pronta per il discepolato che richiede abnegazione. L’aratro rappresenta ciò che c’è da fare, la missione, il compito che ogni credente ha, fosse anche “solo” quello di pregare, di ascoltare, di frequentare i radunamenti della Comunità alla quale appartiene. In poche parole, compiere il proprio pellegrinaggio.

Spesso mi capita di analizzare ciò che ho fatto: vedo cose positive e negative, gli errori anche gravi che ho commesso per immaturità e perché ciò che il mondo insegna quando si proviene da ambienti non veramente cristiani, penalizza; ho avuto esempi positivi e negativi e spesso ho seguito i secondi anziché i primi. Ma ringraziando il Signore questi appartengono a un passato che non mi è consentito rivisitare a livello nostalgico perché non mi posso voltare indietro, come tutti i miei fratelli e sorelle. O meglio, se lo facessi, rimpiangendo ambienti e persone, perderei quello che ho costruito e poi dovrei ricominciare da capo ritrovandomi profondamente umiliato. Mi rendo conto della complessità del ragionamento e, fortunatamente, non tutti hanno avuto le mie esperienze, frutto comunque di mancati calcoli e irresponsabilità giovanile. E colossali fraintendimenti. Anch’io, quando il Signore mi ha chiamato a seguirlo, penso di aver risposto in modo non adeguato, di non aver lasciato quanto dovevo e di avere fatto dei compromessi. Dico questo per non dare di me, eventualmente, l’impressione di colui che condanna i personaggi negativi narrati nel Vangelo.

Voltarsi indietro è spesso un’azione che implica quella di tornare a ciò che si era, come in Ebrei 10.37,38: “Ancora un poco, un poco appena, e colui che deve venire verrà e non tarderà. Il mio giusto per fede vivrà, ma se cede, non porrò in lui il mio amore”. Sono parole pesanti, rivolti a quelli che “cedono” nel senso di abbandonare volontariamente il percorso stabilito per loro. Si può tornare a vecchie abitudini, usi, modo di ragionare anche solo rimpiangendoli, come fu per la moglie di Lot, evento facile da connettere all’episodio, che nonostante fosse stata avvertita, si voltò indietro quando Sodoma e il suo territorio venivano distrutti. Perché voltarsi è il primo passo, rivelatore di una mancata realizzazione di uno stato, come quello della liberazione dal peccato, dando retta alla carne.

Posso dire che questo episodio parla comunque a tutti i cristiani, indipendentemente dal fatto che siano discepoli, o semplici credenti: quello che abbiamo da compiere, dobbiamo farlo per non venire rimproverati, tenendo sempre a mente le parole di Gesù, “Chi mette mano all’aratro– cioè inizia un cammino di lavoro e fatica per il Signore – e si poi volta indietro, non è adatto al regno di Dio”. Direi che la Scrittura è piena di esempi, positivi e negativi in proposito, ed è bello considerare Romani 15.4: “Tutto ciò che è stato scritto prima di noi, è stato scritto per nostra istruzione perché, in virtù della perseveranza e dalla consolazione che provengono dalle Scritture, teniamo viva la speranza”. Perché non c’è prova, sofferenza o situazione che altri non abbiano provato prima di noi: “Siate sobri, vegliate. Il vostro nemico, il diavolo, come un leone ruggente va in giro cercando chi possa divorare. Resistetegli saldi nella fede, sapendo che le medesime sofferenze sono imposte ai vostri fratelli sparsi per il mondo” (1 Pietro 5.8,9). È la vita. Sono scelte fatte sulla terra. Amen.

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07.12 – I FACILI ENTUSIASMI DI FRONTE AL VANGELO: TRE PERSONAGGI (1/3) (Matteo 8.18-22)

7.12 – I facili entusiasmi di fronte al Vangelo (1/3) (Matteo 8.18,22)

 

18Vedendo la folla attorno a sé, Gesù ordinò di passare all’altra riva. 19Allora uno scriba si avvicinò e gli disse: «Maestro, ti seguirò ovunque tu vada». 20Gli rispose Gesù: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo». 21E un altro dei suoi discepoli gli disse: «Signore, permettimi prima di andare a seppellire mio padre». 22Ma Gesù gli rispose: «Seguimi e lascia che i morti seppelliscano i loro morti».

 

            Questo episodio è riportato da Matteo e da Luca, per quanto in contesti differenti: il primo lo colloca poco prima che Gesù partisse alla volta del territorio di Gadara, il secondo nel corso del Suo ultimo viaggio verso Gerusalemme. Il racconto di Luca è interessante perché, pur riportando le stesse parole di Matteo, aggiunge l’intervento di un terzo discepolo, o aspirante tale (cap. 9).

 

61Un altro disse: «Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia». 62Ma Gesù gli rispose: «Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio».”

 

Se è facile pensare che l’incontro con questi tre personaggi sia effettivamente avvenuto lungo la strada per Gerusalemme come raccontato da Luca, non è neppure da escludere che, tra la folla presente alla partenza di Gesù per “l’altra riva” corrispondente al territorio della Decapoli, quindi Hippos, fossero stati presenti questi uomini che gli si avvicinarono. Il primo è uno scriba, il secondo un discepolo, del terzo non ci è detto quale posizione avesse, ma di certo non era rimasto indifferente al messaggio e allo stile di vita di Gesù a tal punto da dirgli “Ti seguirò, Signore”, frase espressa al futuro, quindi già sottintendendo che prima aveva qualcosa da fare.

 

LO SCRIBA

Abbiamo già avuto modo di parlare di questa categoria di persone: istruivano il popolo nella Legge, rappresentavano accanto ai farisei il potere religioso e, tutti loro assieme sadducei, quello politico nel Sinedrio. Chi di loro si fosse apertamente schierato dalla parte di Gesù, sarebbe stato estromesso dalla Congregazione di Israele e non avrebbe potuto partecipare alle assemblee della sinagoga, nessuno gli avrebbe più parlato, né lo avrebbe salutato, né instaurato rapporti di qualsiasi tipo con lui. “Ti seguirò ovunque tu vada”, era quindi una frase molto impegnativa anche sotto questo aspetto, oltre che rappresentare una confessione esplicita del fatto di non sapere, di voler lasciarsi alle spalle credenze religiose magari belle nella forma, ma inutili per la salvezza.

La risposta di Gesù, “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”, è illuminante: dichiarandosi “Figlio dell’uomo”, Gesù, sapendo con chi parlava, ricorda allo scriba la definizione che Daniele diede di Lui in 7.13,14: “Ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d’uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui. Gli furono dati potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano: il suo potere è eterno, che non finirà mai e il suo regno non sarà mai distrutto”. Quindi a quello scriba viene data una rivelazione e al tempo stesso una conferma, nel senso che viene avvisato prima di tutto – o gli si conferma a seconda di come vogliamo interpretare la frase – che Colui che desiderava seguire era il “Figlio dell’uomo” visto da Daniele. Non si dichiarò così solo a lui, ma fu una definizione che usò molto spesso: addirittura, parlando coi Giudei e definendosi in tal modo, quelli non capendolo gli dissero “Noi abbiamo appreso dalla Legge che il Cristo rimane in eterno; come puoi dire che il Figlio dell’uomo dev’essere innalzato? Chi è questo Figlio dell’uomo?” (Giovanni 12.34). Rivelavano così la loro ignoranza.

Con la frase “…mail Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”, allora, Gesù avverte quello scriba che, seguendolo “ovunque” lui fosse andato, avrebbe dovuto accettare di condurre la Sua stessa vita, come avevano fatto i dodici, che ne condivisero l’incessante attività missionaria. Tutto lascia supporre che, dopo quelle parole, anziché montare su una delle barche, se ne sia tornato a casa.

Mi sono chiesto cosa vogliono dire per noi oggi queste parole, “non ha da posare il capo”, partendo dal presupposto che gli evangelisti riportano i detti di Gesù in modo tale che parlino ai credenti di ogni tempo. Vero è che l’attività missionaria non si può fermare, ma va tenuto conto dei doni ricevuti e soprattutto bisogna chiedersi se seguire Cristo debba per forza consistere nel girare il mondo a predicare, oppure non si tratti di perseguire un’attività incessante che consista nell’essere presenti dove occorre e assenti quando la nostra presenza è inutile; in altri termini, selezionare le attività, gli impegni, le compagnie, gli interventi. Chiederci se, dove andiamo o mentre facciamo qualcosa, possiamo portare Cristo con noi o sarebbe “meglio” lasciarlo da parte, anche nei nostri pensieri. Credo che anche questo sia un impegno totale, perché “svestire l’uomo vecchio con i suoi atti e rivestire il nuovo” (Colossesi 3.10) non sempre è facile. Non è poco, nessuno ci obbliga a farlo, è una libera scelta, una pratica che si sviluppa negli anni e dura tutta la vita. È un’attività che conosce successi ed insuccessi.

Per far questo alcuni scelgono di chiudersi in un monastero, altri si fanno eremiti, ma si può sempre portare i germi del mondo dentro di sé e non risolvere nulla, finendo per creare delle comunità, grandi o piccole, in cui si pensano e si fanno le stesse cose degli “altri”, per quanto in pochi. L’apostolo Paolo in 1 Corinti 5.9,10 scrive “Vi ho scritto nella lettera precedente– c’è chi sostiene sia andata perduta – di non mescolarvi con gli impudichi. Non mi riferivo però agli impudichi di questo mondo o agli avari, al ladri o agli idolatri: altrimenti dovreste uscire dal mondo!”. È quindi necessario mantenere il proprio equilibrio, assimilare realmente il concetto del pellegrinaggio, contrastare la carne conoscendo i nostri limiti e andando a combattere là dove siamo sensibili perché, nonostante il mondo sia fondato sul trinomio soldi – sesso – potere, non tutti subiamo le stesse tentazioni.

Infatti Giacomo 1.14 scrive “Ciascuno è tentato dalla propria concupiscenza che lo attrae e lo seduce”. E l’attrazione è una forza naturale che spinge al contatto, mentre la seduzione consiste nell’indurre una persona a fare qualcosa quasi senza che questa se ne renda conto. Contrastare la “propria concupiscenza” credo sia un’attività incessante come quella di chi deve tenere pulita una casa che si trova a ordinare e togliere una polvere che si riformerà continuamente. Eppure, nonostante la si possa considerare come una battaglia sotto certi aspetti persa in partenza, lo si fa per non avere magari allergie, problemi respiratori, per igiene.

Ancora in 1 Corinti leggiamo “…anzi tratto duramente il mio corpo e lo riduco in schiavitù perché non succeda che, dopo aver predicato agli altri, io stesso venga squalificato” (9.27). Nemmeno Paolo aveva “dove posare il capo”. Nessuno che voglia applicarsi seriamente nelle cose di Dio lo ha, e infatti nei versi precedenti viene fatto il paragone con l’atleta che si allena “per ottenere una corona che appassisce, noi invece una che dura per sempre” (v.25).

Per il cristiano non avere “dove posare il capo” è leggere la propria vita alla luce della Parola, porre una scala di valori, usare il setaccio, accogliere o separare, gettare o mettere da parte, fondare la propria casa su Cristo perché non crolli quando verranno le piogge, strariperanno i torrenti o soffieranno i venti.

Alla luce della frase “Il figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”, non sarebbe giusto parlare solo dell’essere umano perché Gesù accentra prima di tutto quella definizione su di lui ed è rivolta allo scriba – e quindi a noi – per riflesso. Egli infatti era “…cresciuto come un virgulto davanti a lui e come una radice in terra arida. Non ha apparenza né bellezza da attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia; era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima. Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori; e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti” (Isaia 53.2,5).

Tutto il capitolo sarebbe da studiare, e lo faremo tra breve, ma quanto riportato può bastare ai nostri scopi: Gesù è cresciuto davanti al Padre come un virgulto, cioè un ramoscello sottile, oppure un arbusto; quindi, andando alle parabole, fu anche lui una piantina, una “radice” che dovette crescere e svilupparsi non in un “buon terreno”, ma in una “terra arida”, quindi con sofferenza, patimenti, difficoltà, avversità. Contrariamente alle rappresentazioni che il mondo religioso-pagano ha dato di Lui, non era una persona che si distinguesse per aspetto e fu “disprezzato e reietto dagli uomini” per le realtà così distanti da loro che predicava. Ciò nonostante, non obbligato da qualcuno, ma per libera scelta, si fece carico della nostra condizione di peccato subendone le conseguenze come se ne fosse stato l’agente, il responsabile, portandone il castigo sulla morte infamante della croce.

Conoscete la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà” (2 Corinti 8.9): con la sua morte, Gesù ha trasmesso quindi a tutti quelli che avrebbero creduto in Lui la sua ricchezza, rinunciandovi per tutta la sua vita terrena. Un Dio che muore è, per gli ebrei e teoricamente per gli uomini tutti, un controsenso: non credendo alla resurrezione, si fermano alla sua morte, che senza il non risorgere sarebbe stata totalmente inutile come i miracoli, la predicazione, le promesse.

Ecco, fino alla morte Gesù non ebbe dove posare il capo, tutto questo solo per l’interesse degli uomini che in lui avrebbero creduto, perché viceversa i loro nomi non sarebbero mai stati scritti nel libro della vita che non avrebbe mai potuto essere aperto. E qui rimango muto perché trovare le parole è impossibile. Posso solo pensare al silenzio “per circa mezzora” che si fece in cielo “quando l’Agnello aprì il settimo sigillo”, l’ultimo, quello che consentirà la lettura di quel libro (Apocalisse 8.1). Quel “cielo” che fino ad allora si era riempito di lodi, di vita, di anime, di parole, di eventi, di angeli e creature celesti, allora tacque perché l’eternità stava per incontrarsi con il tempo. Perché questo potesse realizzarsi il Figlio dell’uomo non aveva ove posare il capo. Amen.

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07.11 – I PARENTI DI GESÙ (Luca 8.19-21)

7.11 – I parenti di Gesù (Luca 8.19,21)

 

“19E andarono a lui la madre e i suoi fratelli, ma non potevano avvicinarlo a causa della folla. 20Gli fecero sapere: «Tua madre e i suoi fratelli stanno fuori e desiderano vederti» 21Ma egli rispose loro: «Mia madre e i miei fratelli sono questi: coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica»”.

 

            Si tratta di un episodio difficilmente collocabile nel tempo: alcuni commentatori che hanno preso in esame il Vangelo da un punto di vista cronologico, prudentemente lo omettono, mentre l’abate Ricciotti lo pone all’interno del capitolo dedicato al “ministero spicciolo” in cui prende in esame le donne al seguito di Gesù, prima della tempesta sedata e dell’indemoniato di Gadara e dell’esposizione delle parabole del regno. La lettura dei sinottici per collocare l’episodio, in effetti, non ci aiuta: Matteo scrive che avvenne dopo una disputa coi farisei, quando “mentre parlava alla folla, ecco, sua madre e i suoi fratelli stavano fuori e cercavano di parlargli. Qualcuno gli disse: «Ecco, tua madre e i tuoi fratelli stanno fuori e cercano di parlarti». Ed egli, rispondendo a chi gli parlava, disse: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». Poi, tendendo la mano verso i suoi discepoli, disse: «Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, egli è per me fratello, sorella e madre».” (12.46-50). Anche Marco ci presenta un contesto simile, che ci potrebbe far pensare al pranzo a casa del fariseo Simone, ma non ciò può essere per un particolare: “Entrò in una casa e di nuovo si radunò una folla, tanto che non potevano neppure mangiare. Allora i suoi, sentito questo, uscirono per andare a prenderlo; dicevano infatti: «È fuori di sé»” (3.20,32). Qui l’evangelista Marco prosegue con il principio dell’impossibilità, da parte di Satana, di cacciare se stesso e poi riferisce della madre e dei fratelli di Gesù con parole simili. Luca, come abbiamo letto, pone quest’intervento tra l’ultima parabola del regno e l’ordine ai discepoli di passare “all’altra riva”. Personalmente ritengo che questa collocazione temporale sia preferibile, più agevolmente inquadrabile, poiché all’umanissimo, carnale tentativo da parte dei parenti di Gesù di “farlo ragionare” corrisponde l’inizio del Suo viaggio missionario al seguito degli apostoli e dei discepoli.

Secondo la mia lettura, quindi, avremmo una giornata in cui vi fu il pranzo da Simone con l’episodio della peccatrice innominata, il discorso alla folla in parabole, la spiegazione di esse e l’esposizione di altre in una casa, in privato ai discepoli, l’arrivo dei suoi parenti che lo volevano far desistere dalla sua attività e quindi la partenza verso l’altra riva del mare di Galilea, verso sera. Ciò confermerebbe, a proposito delle giornate molto impegnative di Gesù, quanto avvenne poco prima della loro partenza: “Vedendo la folla attorno a sé, Gesù ordinò di passare all’altra riva. Allora uno scriba gli si avvicinò e gli disse: «Maestro, ti seguirò ovunque tu vada». Gli rispose Gesù: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo»” (Matteo 8.18,20).

Venendo all’episodio ed armonizzando i tre racconti, è Marco a rivelarci che la madre e i fratelli di Gesù si mossero quando seppero della folla radunata per ascoltarlo e che lui predicava e insegnava instancabilmente: per la seconda volta abbiamo così una reazione umana soprattutto da parte di Maria nei confronti di un figlio da cui si aspettava un comportamento umanamente comune a quello di tutti gli altri. Ricordiamo quando, dodicenne, lo aveva cercato con seria preoccupazione con Giuseppe quando seppe che non era con la carovana al rientro da Gerusalemme e lo aveva trovato, “dopo tre giorni” di ricerche, “in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava” (Luca 2.46). Già allora, se le avesse realmente acquisite, Maria avrebbe dovuto ricordarsi delle parole dell’angelo Gabriele e delle profezie dell’Antico Patto che riguardavano suo figlio. Ricordiamo le parole: “Rallegrati, o favorita dalla grazia, il Signore è con te.(…) Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio (YHWH)gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine” (Luca 1.28-33). Tutto questo senza contare l’assistenza avuta in Egitto, quando lei, Giuseppe e Gesù scamparono dal progetto omicida di Erode il Grande grazie all’angelo in sogno che li avvertì.

Maria quindi, tornando all’annunciazione, era stata destinataria di un messaggio assolutamente esclusivo da parte di Dio: aveva “trovato grazia” presso di Lui ed era stata “favorita”. Le era stato detto “Non temere” e spiegato chi sarebbe diventato colui che avrebbe partorito, eppure nonostante tutto era stata in angoscia perché non lo trovava, cercandolo sempre più ansiosamente per tre giorni, e adesso chiede aiuto agli altri figli ritenendo Gesù “fuori di sé”. Quindi tutti loro, col comportamento adottato, confermano la nota di Giovanni 7.5 “Neppure i suoi fratelli credevano in lui”, ma non solo: nonostante molti commentatori del ramo cattolico romano abbiano cercato di attenuare il significato della definizione “è fuori di sé”, qui imbarazzante soprattutto perché Maria la condivideva, lo troviamo solo nell’episodio in cui fu definito nello stesso modo dai Giudei: “Molti di loro dicevano: «È indemoniato ed è fuori di sé; perché state ad ascoltarlo?». Altri dicevano: «Queste parole non sono di un indemoniato; può forse un demonio aprire gli occhi ai ciechi?»” (Giovanni 10.20,21).

Ciò che pensavano Maria e i fratelli di Gesù era quindi frutto di un ragionamento umano, di un metro valutativo che evidentemente aveva concluso che quanto stava avvenendo, cioè tutta quella massa di gente e l’ennesimo predicare, andava fermato o quanto meno ridotto: erano stanchi di quella notorietà, consideravano tutto quanto Gesù faceva come qualcosa di inopportuno perché non si comportava come gli altri, non pensava a condurre quella vita tranquilla e semplice fatta di lavoro e famiglia che conducevano tutti in paese. Omologazione, insomma, sottintendendo che, se proprio voleva, poteva anche predicare e far miracoli, ma a tutto c’era un limite. L’omologazione, il livellarsi alle usanze del “mondo” è però il ragionamento tipico di chi non crede né ha idea di cosa significhi avere un preciso mandato da Dio. L’apostolo Paolo lo evidenzia in una breve frase: “Se siamo stati fuori di senno, era per Dio; se siamo assennati, è per voi” (2 Corinti 5.13), cioè il confronto “fuori di senno” – “assennati” sottolinea la differente lettura tra ciò che viene reputato dal mondo che non ha la minima conoscenza della sfera spirituale e chi invece sì. Al verso successivo infatti leggiamo “L’amore del Cristo ci possiede”.

È infatti l’amore del Cristo, quindi quello che ha provato lui per noi, che spinge inevitabilmente chi crede a comportarsi in modo naturalmente diverso da quello che ha chi non lo conosce. Quanti hanno provato gli effetti della Parola di Dio non possono che testimoniare quanto leggiamo in Ebrei 4.12,13: “…è viva, efficace e più tagliente di una spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture delle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore. Non vi è creatura che possa nascondersi davanti a Dio, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi di colui al quale noi dobbiamo rendere conto”.

Ebbene Gesù, quale Dio Onnisciente, sapendo della presenza di madre e fratelli prima che una persona premurosa lo informasse, non poteva che rimarcare la divisione tra ciò che appartiene al mondo materiale e a quello spirituale: non caccia via i suoi parenti, non li umilia sgridandoli, ma è cosciente del fatto che, al momento, la loro realtà è quella che è sapendo che alcuni, fra i quali proprio la madre, lo avrebbero in seguito accettato in piena coscienza come loro salvatore. Fino a quando le relazioni umane di parentela avrebbero preso il sopravvento su quelle spirituali, non avrebbero avuto alcun senso, cioè sarebbero state fuori luogo per la vera realtà, per l’essenza, la struttura del rapporto che avrebbe dovuto intercorrere fra creatura e Creatore o, meglio, tra quelli “nati da Dio” e Colui che li ha generati.

Ricordiamo il dialogo con Nicodemo? Fu il primo in cui Gesù pose chiaramente il confine, la netta separazione tra la nascita umana in cui si trasmette la vita “per volontà di carne” e quella nuova, “d’acqua e di spirito” in cui davvero si nasce chiedendolo e non senza subire l’ingresso in un mondo di cui, almeno per quanto mi riguarda, avrei sotto certi aspetti fatto volentieri a meno. Prima di nascere di nuovo, non sapevo che la mia vita poteva avere un senso, una strada, venire costruita su un progetto non transitorio, destinato ad esaurirsi con la mia morte.

Tornando al testo è chiaro che l’ignoto che informò Gesù della presenza dei parenti che volevano parlargli, lo fece ad alta voce, ascoltato dai presenti; questo Gli diede l’occasione per un altro insegnamento: la domanda “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?” viene formulata per avere una risposta che sarebbe stata logica per i suoi uditori. Invece Nostro Signore risponde con un atteggiamento particolare: guarda tutte quelle persone sedute girando lo sguardo (Marco), tende la mano verso i discepoli (Matteo) e dice “Ecco mia madre e i miei fratelli!”, parole che fanno irruzione nella mente perché  tradizionalmente si vede nel vincolo famigliare qualcosa di assolutamente preferenziale, riservato, intimo perché in famiglia si cresce, non è detto nell’amore e nella comprensione reciproca, ma comunque a lei si appartiene.

Le parole successive di Gesù spiegano il concetto: “Mia madre e i miei fratelli sono questi: coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica”, le due fasi della vita cristiana, ascoltare (ritenendo) e mettere in pratica, impossibile l’una senza l’altra.

Fra l’altro la risposta di Gesù credo risolva una volta per tutte la controversia sul termine “fratello”, con la quale nel mondo antico potevano indicarsi anche i cugini, che poi è “il cavallo di battaglia” di coloro che sostengono che Maria sia rimasta vergine dopo il parto – ma perché avrebbe dovuto, anche dottrinalmente parlando? – e che non abbia avuto altri figli: Gesù è detto spiritualmente “il primogenito di molti fratelli” (Romani 8.29), non cugini che renderebbe il verso assurdo, così come non avrebbe senso che chi ascolta e mette in pratica la Parola sia un cugino del Signore.

Dicotomia ancora maggiore fu espressa in un altro episodio in cui una donna espose un altro concetto che lasciava trasparire un orgoglio tipicamente femminile: “«Beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha allattato!» Ma egli disse: «Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano»” (Luca 11.27,28).

Cosa significhi “osservare” lo troviamo spiegato in Romani 12.2: “Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto”. Abbiamo qui le due basi dalle quali partire per una vita cristiana florida: non conformarsi, cioè “non rendersi come”, quindi non essere quelli di prima, e “lasciarsi trasformare”, cioè seguire senza resistenza quella naturale corrente che Dio attiva in modo naturale col canale dello Spirito. È una corrente che possiamo rallentare e fermare solo noi, e purtroppo lo facciamo quando agiamo più o meno consciamente volendo essere noi a guidare. Se però ci lasciamo condurre dove Lui vuole, il risultato sarà il discernimento tra ciò che è buono oppure no e la sua messa in pratica. Amen.

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07.10 – LE PARABOLE DEL REGNO 9: IL SEME (MARCO 4.26-29

7.10 – Le parabole del regno 9 (Il seme, Marco 4.26-29)

 

“26Diceva: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; 27dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non sa. 28Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; 29e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura».

 

            Così come avvenuto per le parabole del granello di senape e del lievito, anche l’ottava e la nona di Marco sono strettamente collegate fra loro perché parlano una dell’opera dello Spirito (la lampada) e la seconda (il seme gettato sul terreno) di come questo agisce, indipendentemente dalla volontà umana, da quando l’uomo riceve il seme della Parola. Anche questa parabola è complessa perché è suscettibile a più interpretazioni anche se dai termini impiegati, seme – terreno – spiga – mietitura, possiamo riferirla prima di tutto al fatto che il Regno è presente e cresce comunque: non sono gli uomini che gli danno forza, né le resistenze che possono opporgli, viste nelle persecuzioni e gli ostacoli, sono in grado di indebolirne lo sviluppo. C’è infatti un percorso stabilito, inevitabile perché la crescita del seme nel terreno avviene a prescindere dal fatto che sia giorno, quando gli uomini si affaccendano, o notte, quando solitamente dormono. Non si ferma mai.

E la chiave della parabola la troviamo nel “Come, egli stesso non sa”, che si riferisce chiaramente ai limiti della conoscenza dell’essere umano e al fatto che la sua vita è comunque circoscritta nei limiti della sua stessa esistenza: possiamo studiare, cercare di capire l’universo, i meccanismi della biologia, della chimica, indagare, clonare, arrivare alla realizzazione di strutture artificialmente intelligenti come nel nostro tempo, ma sempre senza poter oltrepassare, appunto, i limiti che ci sono stati dati. Consideriamo attentamente le parole “L’orgoglio del tuo cuore ti ha ingannato, o tu che abiti nei crepacci delle rocce e stabilisci la tua dimora in alto: tu dici in cuor tuo «Chi potrà farmi precipitare a terra?» Anche se tu ponessi il tuo nido fra le stelle, di lassù ti farei precipitare”. (Abdia 1.3,4).  Certo quello del non sapere come un seme si sviluppa oggi è un dato superato, ma va inquadrato nel tempo in cui quelle parole furono pronunciate.

Nella parabola ci sono due soggetti, l’uomo che getta il seme, ma non sa come cresca, e il seme stesso che si sviluppa da sé fino alla maturazione e mietitura.

Personalmente ritengo che sia sul “non sapere” che debba essere posta la prima sottolineatura, perché, come detto prima, indica un limite. E di limiti l’uomo ne ha tanti. Alcuni sono delle pareti di carta che riesce a sfondare con poco sforzo, altre di materiale più robusto, ma con costanza e gli strumenti adatti possono venire abbattute, ma altri confini sono invalicabili; l’intelligenza umana stessa non può andare oltre un punto stabilito e così la vista, la conoscenza e quant’altro possiamo fare. Se i versi che esamineremo fra breve si rifanno alla limitata conoscenza che avevano gli uomini nel tempo in cui sono stati scritti, bisogna tener presente che al sapere oggi raggiunto non corrisponde una risposta morale soddisfacente, vista ad esempio nel cercare e trovare conferme alle verità contenute nella Scrittura, ma alla presa di un ascensore per l’orgoglio e una spietata volontà di autonomia.

Salomone in Ecclesiaste 11.5 scrive “Come tu non conosci la via del soffio vitale né come si formino le membra nel grembo di una donna incinta, così ignori l’opera di Dio che ha fatto”. Ancora Giovanni 3.8 quando, parlando con Nicodemo, Gesù gli disse “Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene, né dove va”. In Proverbi 27.1 leggiamo “Non vantarti del domani, perché non sai neppure cosa genera l’oggi”.

Tre citazioni, tre ignoranze: se allora non si sapeva come si sviluppava un feto, oggi la scienza non ti può spiegarne il perché ultimo. Se oggi si conoscono le correnti e come si formano i venti, il linguaggio dello Spirito che del vento è figura resta incomprensibile a chi non lo possiede o non si sente attratto da Lui. E per il domani, visto come ciò che avverrà alla persona, nessuno è in grado di prevederlo. Ecco perché mi riferivo al limite che l’uomo non può superare: può solo realizzare, a volte, dei grandi effetti speciali, ma non pervenire all’essenza delle cose, al loro significato spirituale che poi è l’unico in grado di resistere, di far passare dalla dimensione del tempo a quella dell’eternità. E questo è un principio che solo chi crede davvero, chi è “nato di acqua e di spirito” può condividere. E riguardo all’ignoranza umana, credo che il capitolo 38 del libro di Giobbe, che non riporto per ragioni di spazio ma suggerisco di leggere attentamente, sia un monumento al riguardo.

Partendo dagli scritti dell’Antico Patto, vediamo un primo aspetto della conoscenza che Dio ha nei confronti dell’essere umano: “Signore, tu mi scruti e mi conosci, tu sai quando mi siedo e quando mi alzo, intendi da lontano i miei pensieri, osservi il mio cammino e il mio riposo, ti sono note tutte le mie vie” (Salmo 139.1,3). “Scrutare” è il primo verbo impiegato dal salmista; è molto impegnativo perché significa “Guardare, esaminare attentamente per scoprire o comprendere ciò che non si manifesta o non si capisce a uno sguardo o a un esame affrettato o superficiale”, o anche “Indagare, esaminare a fondo per cogliere aspetti difficili da penetrare”. Questa è la cura che Dio ha nei confronti degli uomini per vagliarli e provvedere a loro. “Conoscere”, secondo verbo, equivale ad “Avere una cognizione ampia e approfondita di qualcosa”. Dio quindi scruta e conosce la persona nel proprio intimo, nelle sue profondità, sa le nostre azioni una per una.

Più avanti, verso spiegato con le parole “Dio è luce e in lui non ci sono tenebre” (1 Giovanni 1.5), troveremo “Nemmeno le tenebre per te sono tenebre e la notte è luminosa come il giorno; per te le tenebre sono come luce” (Salmo 139.12).

Infine, da Geremia 15.15 “Tu sai tutto, o Eterno, ricordati di me” a Giovanni 2.25 “Lui stesso conosceva quello che era nell’uomo”, credo che possiamo avere un quadro sufficiente di quello che può essere la risposta al tema di ciò che l’uomo ignora contrapposto alla vera, assoluta scienza di Dio: in lei è la perfezione, la luce, l’assoluto, ma anche una sorprendente apertura a un essere imperfetto, spesso ricco di ombre, minimo come l’uomo che tuttavia, quando passa dallo stato di semplice creatura a quello di figlio di Dio, viene posto in una condizione della quale non può non approfittare: “Chi infatti conosce i segreti dell’uomo se non lo spirito dell’uomo che è in lui? Così i segreti di Dio nessuno li ha mai conosciuti se non lo Spirito di Dio. Ora, noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per conoscere ciò che Dio ci ha donato” (1 Corinti 2.11,12). Capiamo? Le due realtà contrapposte, quella umana e quella divina, s’incontrano nel momento in cui l’uomo riceve lo Spirito di Dio per “conoscere” ciò che Lui ci ha donato. Qui sta la scienza, l’unica che valga davvero la pena di sviluppare, indagare, “scrutare” secondo il senso che abbiamo visto poc’anzi.

Sapere e non sapere, dunque. Un sapere che non genera orgoglio o presunzione, ma è attento e non si dà pace fino a quando ciò che non si sa non viene alla luce. E a volte ci vogliono anni perché questo avvenga, se in noi vi è l’onestà di chi è veramente semplice e non dà per scontato ciò che impara da letture più o meno buone. Mi viene in mente Socrate e il suo “So di non sapere”; chissà come avrebbe reagito di fronte a Gesù sentendolo parlare, lui che probabilmente era un onesto.

E a proposito di questo, “sapere” e “non sapere” sono aspetti importanti della nostra vita più profonda perché indicano anch’essi il nostro limite umano e spirituale: come credenti, dovremmo conoscerli, dovremmo sapere fino a che punto possiamo spingerci con noi stessi e con gli altri, per non tradire entrambi e fallire assumendo inevitabilmente atteggiamenti non nostri che finirebbero per ingannare e illuderci per primi. Una casa costruita sulla sabbia. E finiremmo per diventare sterili. E tornano i versi che a volte citiamo indirizzati alla Chiesa di Laodicea, convinta di essere ricca: “Non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo” (Apocalisse 3.17). Tra l’altro, a conferma della nostra impotenza assoluta senza la presenza dello Spirito Santo, l’apostolo Paolo dice che non saremmo nemmeno in grado di pregare, cioè parlare con Dio: “Noi – cioè il nostro uomo naturale –non sappiamo pregare come si conviene, ma lo Spirito interviene per noi con sospiri ineffabili” (Romani 8.26).

Sviluppato a grandi linee il tema del “Come, egli stesso non sa”, possiamo fare altrettanto con quello del seme, anch’esso dai molti significati: di base possiamo dire che questo si riferisce, nella dispensazione della Grazia, al Vangelo, alla Parola di Dio che germoglia nel cuore dell’uomo che lo accoglie e in questo caso porta un frutto buono e accettato dal Creatore. Il seme è anche la Parola stessa, che cresce indipendentemente, come detto all’inizio, dalle persecuzioni e dagli ostacoli che forze avverse gli frappongono per impedirne la crescita. In questo seme vediamo prima di tutto, alle origini, Nostro Signore stesso che, poco prima del suo arresto, disse ai suoi “L’ora è giunta che il Figlio dell’uomo dev’essere glorificato. In verità, in verità vi dico che se il granello di frumento, caduto in terra, non muore, rimane solo; ma, se muore, produce molto frutto” (Giovanni 12.24,25).

C’è una stretta, indispensabile relazione fra la morte (e resurrezione) di Cristo e la vita di chi in lui ha creduto: anch’esso prende vita e si sviluppa e la sua crescita non dipende tanto dai suoi sforzi, ma da Dio che lo guida; è un tema che l’apostolo Paolo sviluppa coi credenti della Chiesa di Corinto, afflitta da fazioni e dottrine varie che, in quanto greci, influivano nella loro vita: “Ciò che tu semini non prende vita se prima non muore– cioè cessa di essere una parola, un messaggio astratto per diventare vivo e stimolante –. Quanto a ciò che semini, non semini il corpo che nascerà, ma un semplice chicco di grano o di altro genere, e Dio gli dà un corpo come ha stabilito, e a ciascun seme il proprio corpo” (1 Corinti 15.36,37): la diversità è quindi una caratteristica che hanno i membri di una Chiesa, ciascuno differente. Un amico un giorno mi disse “Dio non ci vuole tutti uguali”, alludendo al fatto che, se fossimo tutti identici nei doni e nel pensare, la Chiesa sarebbe un corpo deforme, fatto di “telecomandati”, che dicono le stesse cose come accade per una setta religiosa che non è in grado di predicare cose diverse dalla propria dottrina, norme di comportamento, “verità” e dogmi. Perché il dio dell’uno è sempre migliore di quello dell’altro. E con la frase “A ciascun seme il proprio corpo” certo si stabilisce l’unitarietà di genere, ma non l’identità uniforme del dettaglio di un credo o di usanze, perché la fedeltà alle istruzioni che Gesù e gli apostoli ci hanno lasciato sono un tesoro di cui ciascuno è responsabile.

Ciò che compete all’uomo è valutare attentamente, pensare a ciò che fa di quel “chicco di grano o di altro genere” che in lui è seminato e cercare in tutti i modi di assecondare la sua crescita. Guardarsi dentro, valutarsi, pregare, constatare cosa avviene.

Quando il frutto è maturo, subito viene la falce”: anche qui per frutto si intende il regno sulla terra, la messe pronta per la mietitura finale più che la chiamata individuale, come altri interpretano pensando che Dio chiami quando abbiamo fatto tutto ciò che potevamo e abbiamo quindi finito il nostro compito: piuttosto ci è stato dato un tempo per agire di cui non conosciamo la durata né tantomeno la fine; sappiamo che “il giorno del Signore viene come un ladro di notte”, quindi che Lui torna quando il servo meno se lo aspetta e ne verifica l’operato.

Possiamo quindi concludere queste riflessioni con il Salmo 126.6: “Chi semina nelle lacrime, mieterà con gioia. Nell’andare se ne va piangendo, portando la semente da gettare, ma nel tornare, viene con gioia, portando i suoi covoni”. Amen.

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07.09 – LE PARABOLE DEL REGNO 8: LA LAMPADA (Marco 4.21-25(

7.08 – Le parabole del regno 8 (La lampada, Marco 4.21-25)

 

“21Diceva loro: «Viene forse la lampada per essere messa sotto il moggio o sotto il letto? O non invece per essere messa sul candelabro? 22Non vi è infatti nulla di segreto che non debba essere manifestato e nulla di nascosto che non debba essere messo in luce. 23Se uno ha orecchi per ascoltare, ascolti!». 24Diceva loro: Fate attenzione a quello che ascoltate. Con la misura con la quale misurate sarà misurato a voi; anzi, vi sarà dato di più.25Perché a chi ha, sarà dato; ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha.

 

            Prima di affrontare questa parabola è necessario considerare gli scopi che si prefigge ciascun evangelista: se da Matteo abbiamo saputo che le parabole del regno furono sette, non è detto che fossero in realtà di più e che abbia riportato quelle che, secondo lui, rappresentassero la totalità che poteva interessare i suoi lettori ebrei. Infatti, guardando alle parabole citate da Matteo, vediamo che parlano di tutto ciò che avviene nel cuore umano dal momento in cui viene eventualmente ricevuto il buon seme, diventando figlio di Dio, alle difficoltà e benedizioni che si scoprono fino alla costituzione del regno. Marco, dietro indicazioni di Pietro allora presente con gli altri agli insegnamenti di Gesù, aggiunge questa parabola e quella del seme informandoci che “Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa” (4.33) e sappiamo che più volte è riportato che erano i discepoli stessi a chiedergli spiegazioni in merito, sintomo di un interesse che gli altri uditori non avevano.

Abbiamo così la lampada, figura a noi già famigliare perché presa come esempio nel sermone sul monte quando si legge “…né si accende la lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono in casa” (Matteo 5,15). La lampada illumina, metterla “sotto un vaso o un letto”, come riporta Luca, non avrebbe senso e così è della fede, ma qui la lampada è impiegata con un significato più esteso. Alla luce delle parole del verso 22, vediamo qui la figura dello Spirito Santo e i suoi effetti, facendo luce all’ambiente che lo circonda. Nel buio, se ci pensiamo, è la luce la prima che vediamo per quanto, dando la sua presenza per scontata, ci soffermiamo su ciò che ci circonda. La lampada è necessaria per vedere nell’oscurità indipendentemente dal fatto che conosciamo o meno l’ambiente in cui ci dobbiamo muovere e, senza di lei, sarebbe facile inciampare, urtare, farci male.

Scrivendo ai Filippesi l’apostolo Paolo scrive “Fate tutto senza mormorare e senza esitare, per essere irreprensibili e puri, figli di Dio innocenti in mezzo a una generazione malvagia e perversa” (Filippesi 2.14,15). Il cristiano che quindi è tale non per un atteggiamento assunto allo scopo di darsi un contegno o aderire ad una religione, ma perché sa di avere trovato una ragione per vivere ed amare, si ritrova innocente “in mezzo a una generazione malvagia e perversa” che vive nelle tenebre, priva di luce. L’aggettivo “malvagio”, dal tardo latino “malifatius” cioè “che ha cattivo fato”, è riferito sia alle persone che operano il male compiacendosene, restando indifferenti alle conseguenze che esso provoca, ma anche a individui cattivi, avversi. Il termine “perverso”, poi, è un aggettivo tipico ad indicare chi è intimamente e ostinatamente incline a fare il male, provandone compiacimento, chi è mosso o improntato dalla volontà di farlo.

La lampada, quindi, che illumina gli ambienti bui, è la figura dello Spirito Santo che sarebbe un controsenso mettere sotto il moggio, recipiente che veniva usato come unità di misura per il volume del grano o simili, impedendole di fare luce.

Sempre Paolo, parlando dello Spirito, scrivendo ai Corinti dice che “A ciascuno è stata data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune: a uno infatti, per mezzo dello Spirito, viene dato il linguaggio di sapienza; a un altro invece, dallo stesso Spirito, il linguaggio di conoscenza; a uno, nello stesso Spirito, la fede; a un altro, nell’unico Spirito, il dono delle guarigioni; a uno il potere dei miracoli; a un altro il dono della profezia; a un altro il dono di discernere gli spiriti; a un altro varietà delle lingue; a un altro l’interpretazione delle lingue. Ma tutte queste cose le opera l’unico e medesimo Spirito, distribuendole a ciascuno come vuole” (1 Corinti 12.7,8).

Dalle parole “A ciascuno è stata data” vediamo che non esistono credenti che, se onesti, non abbiano ricevuto un dono di cui l’apostolo elenca i maggiori: di fatto, ognuno di loro ha una lampada, la stessa che ebbero le “dieci vergini” di un’altra parabola, con la quale illuminare il proprio cammino, portare luce e custodirla per l’arrivo dello Sposo; ecco perché nessuno può metterla sotto il moggio, ma deve averne cura e porla sul candelabro. Sarà poi il tempo a dimostrare se alla lampada, considerata la sua insostituibile funzione, verrà data la manutenzione necessaria “…per essere irreprensibili e puri, figli di Dio innocenti in mezzo a una generazione malvagia e perversa. In mezzo a loro voi risplendete come astri nel mondo, tenendo salda la parola della vita” (Filippesi 2.15).

Il fatto poi che la lampada non sia fissa, ma portatile, ci parla del fatto che è in grado di illuminare anche gli angoli che altrimenti resterebbero bui: chiarezza, onestà e trasparenza escludono allora l’ipocrisia, quindi la recitazione, l’assunzione di un ruolo o posizione davanti agli altri che in realtà non si ha, o ciò che viene fatto in segreto, quelle azioni o trame che gli altri non devono sapere. In poche parole, il “lievito dei farisei, che è ipocrisia” perché “non c’è nulla di nascosto che non sarà svelato, né di segreto che non sarà conosciuto” (Luca 12.1,2). Gli “angoli bui” talvolta vengono illuminati da altri che smascherano ciò che secondo le intenzioni dell’ipocrita doveva restare nascosto, altre volte restano tali, ma sono comunque destinati a venire alla luce un giorno, “quando il Signore verrà. Egli metterà in luce i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori; allora ciascuno riceverà da Dio la lode” (1 Corinti 4.5).

Qui l’apostolo scrive ai credenti sinceri, per cui parla di lode, ma sappiamo da varie parabole che non tutti la riceveranno, perché accanto a quel “Bene, servo buono e fedele”, c’è la condanna di quello “malvagio e fannullone” di cui è detto: “Quel servo inutile, gettatelo nelle tenebre di fuori. Lì sarà il pianto e lo stridore dei denti” (Matteo 25.30). Anche la frase finale  di questo episodio, “Chi ha orecchie per ascoltare, ascolti”, è un appello a coloro che, capendo, sarebbero stati ritenuti responsabili se non avessero agito di conseguenza. In questo caso “ascoltare” significa mettere in pratica, preoccuparsi di seguire le parole di grazia e verità che vengono dette per scampare al giudizio a venire.

Vediamo che qui Gesù dice subito “Fate attenzione a quello che ascoltate”: è un appello contro la distrazione, a non dare tutto per scontato come purtroppo avviene quasi sempre; “Fate attenzione” non significa adagiarsi su quei versi che tornano a nostro comodo, ma esaminare il comportamento che abbiamo alla luce delle aspettative di Dio, stare in guardia estendendo questo atteggiamento a tutti i campi della vita, compreso quello della fede: “Non prestate fede ad ogni spirito, ma mettete alla prova gli spiriti, per saggiare se provengono veramente da Dio, perché molti falsi profeti sono venuti nel mondo” (1.Giovanni 4.1).

Il verso 24 del nostro passo aggiunge “Con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi; anzi, vi sarà dato di più”. Qui Gesù va oltre l’ordine di astenersi dal dare giudizi sugli altri perché altrimenti verremo valutati proporzionalmente, ma parla di due destini, di due conseguenze che derivano dal nostro stesso operato: che il fratello non vada giudicato con intransigenza e severità era già stato detto nel sermone sul monte, ma qui la “misura”, pur riferita al principio del “giudizio senza misericordia contro chi non avrà avuto misericordia” (Giacomo 2.13), è connessa ai due comportamenti di “chi semina scarsamente e scarsamente raccoglierà” e “chi semina con larghezza, largamente raccoglierà. Ciascuno dia secondo quanto ha deciso nel suo cuore, non con tristezza né per forza, perché Dio ama chi dona con gioia” (2 Corinti 9.6).

Quel “vi sarà dato di più”, posto in connessione ai versi che abbiamo appena letto, ci consente di stabilire che nulla dev’essere fatto in modo forzato, che quel “scarsamente” e “largamente” non sono riferiti al poco o al tanto che uno riversa nel suo operare, ma vanno direttamente alla fonte, al donare con gioia senza che vi sia costrizione alcuna. Chi dona con gioia e non perché deve, testimonia di aver compreso e di essere in sintonia col Padre, agli antipodi di quegli ipocriti: “ma il cuore di questo popolo è lontano da me”. Porsi volutamente lontano da Dio è una scelta che porta a conseguenze molto tristi per tutti, ma per il credente sono disastrose perché da un lato non è né può essere quello che era prima, e dall’altro non fruttifica, non mette in rendita il talento lui affidato, diventa tiepido cioè assume quella posizione di neutralità e di insapidità che sono inammissibili per un cristiano salvo che non si trovi a vivere un periodo di difficoltà, di adattamento, in poche parole manifestazioni incidentali di “umanità” che possono sempre capitare e, mi viene dire, sono quasi inevitabili soprattutto quando si è giovani.

Ancora, quel “vi sarà dato di più”, si riferisce sicuramente alla vita futura, ma anche a quella presente, quella del cammino, perché “Ogni tralcio che in me non porta frutto(il Padre) lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché poti più frutto” (Giovanni 15.2): questo verso ci ricorda la cura che ha il Padre del tralcio, in cui Gesù con le parole “Io sono la vite, voi i tralci” identifica tutti coloro che hanno creduto in lui, a condizione che si verifichi il rapporto “rimanete in me, e io in voi”. Il tralcio infruttifero viene tagliato per evitare che tolga nutrimento agli altri, quelli utili, di cui il Padre si occupa personalmente perché fruttino di più. Capiamo? È come se ci venisse detto che il tralcio buono non ha alcun merito, ma che viene posto solamente nella condizione di rendere maggiormente.

Gesù conclude il suo insegnamento con un avvertimento: “A chiunque ha, sarà dato; ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha”, dove “avere” e “non avere” sono riferiti al vaglio finale che Lui stesso opererà nell’ultimo giorno. “Chiunque”, quindi senza raccomandazioni o distinzioni, sarà trovato in possesso delle opere consone alla propria fede sarà premiato, ma chi “non avrà”, cioè in oltraggio alle possibilità ricevute, avrà dimostrato di essere quello di prima, “gli sarà tolto anche quello che ha”, cioè la vita e verrà escluso dal regno assieme a tutta quella massa di falsi profeti, seminatori di dottrine estranee, di figli spirituali dei farisei, non certo estinti nemmeno oggi. Anche Luca, riportando la parabola, fa una variante interessante, cioè al posto di “quello che ha” scrive “ciò che crede di avere” perché le illusioni destinate a crollare che ci si fa in questa vita sono tante.

Riassumendo: c’è una lampada che fa luce. È, sono, coloro che hanno creduto davvero. L’hanno ereditata, ricevuta come è scritto: “Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo”. Quell’ “ogni” ci parla del fatto che la scelta di non credere è volontaria perché non prendere atto della luce è impossibile. A meno di non rifiutarla, di non essere figli delle tenebre. Amen.

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07.08 – LE PARABOLE DEL REGNO 7: LO SCRIBA (Matteo 13.51,52)

7.08 – Le parabole del regno 7 (Lo scriba, Matteo 13.51-52)

 

“51«Avete compreso tutte queste cose?» Gli risposero: «Sì». 52Ed egli disse loro: «Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche».

 

            Alle sette parabole del regno, Gesù ne aggiunge un’ultima che, ottava del giorno, descrive la posizione del discepolo. Si tratta di un intervento molto breve, contenuto in un solo verso, che apre sviluppi particolari che troviamo in diverse lettere dell’apostolo Paolo. Per capire l’ottava parabola bisogna concentrarsi prima sul verso 51, quando la domanda se i discepoli avessero compreso “tutte queste cose” aveva lo scopo di portarli a riflettere sul privilegio che avevano nell’ascoltare le spiegazioni di Gesù. Ricordiamo che aveva detto loro, nell’esposizione delle prime parabole, “A voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato” (13.11). Quel “A voi è dato” era però riferito in prospettiva, per quello che erano nell’anima, per l’elezione che avevano ricevuto ad essere apostoli operanti nella dispensazione della Grazia. In quel momento Gesù parlava a uomini che, per quanto gli fossero affezionati, desiderosi di partecipare alla Sua predicazione ed ascoltarne gli insegnamenti senza pregiudizi come molti, possedevano quella limitatezza tipica di chiunque non è illuminato dallo Spirito. Il cambiamento sarebbe avvenuto quando sarebbe arrivato “…il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli vi insegnerà ogni cosa e vi rammenterà tutto quello che vi ho detto” (Giovanni 14.26).

La comprensione dei discepoli di “tutte queste cose” era quindi limitata alle linee generali, alla parabola del seme gettato nel campo e della zizzania che erano state loro spiegate; avevano capito che ci sarebbe stata una separazione dal “buono” dal “cattivo”, ma i dettagli li avrebbero compresi dopo, con le illuminazioni dello Spirito e la pratica della vita cristiana. Il loro “” era quindi limitato all’immediatezza dei concetti loro esposti e, se avessero dovuto spiegarli meglio, non sarebbero stato in grado di farlo. Poco tempo dopo, infatti, Matteo riporterà un episodio in cui Pietro chiederà spiegazioni a Gesù su una frase che né lui né gli altri avevano capito: “«Ogni pianta che non è stata piantata dal Padre mio celeste, verrà sradicata. Lasciateli stare! Sono ciechi e guide di ciechi. E quando un cieco guida un altro cieco, tutti e due cadranno in un fosso!». Pietro allora gli disse: «Spiegaci questa parabola». Ed egli rispose: «Neanche voi siete capaci di comprendere? Non capite che tutto ciò che entra nella bocca passa nel ventre e viene gettato in una fogna? Invece ciò che esce dalla bocca, proviene dal cuore. Questo rende impuro l’uomo”»(15.13-18).

Quelle parole furono pronunciate perché i farisei si erano scandalizzati del fatto che né Gesù né i suoi si lavavano le mani prima di prendere cibo, cosa che trasgrediva “la tradizione degli antichi” (Matteo 15.2), senza preoccuparsi di ciò che veramente li rendeva impuri, cioè un cuore non rigenerato dalla Parola di Dio. Abbiamo già citato il verso “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me, invano mi rendono il culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini” (parole di Gesù in Marco 7.6,7 che cita Isaia), sintomo di una grave malattia spirituale, della religiosità fine a se stessa, di un comportamento che denota attaccamento a riti e tradizioni che appagano la mente lasciando intatte le proprietà caratteriali dell’ “uomo vecchio” che rimane solo coi propri egoismi. Ed è il cuore il primo a rispondere alle sollecitazioni immediate, primarie della carne.

L’ottava parabola di quel giorno verte proprio sulla differenza tra l’essere uno “scriba” tra i tanti che si trovavano in Giudea e Galilea, e uno “divenuto discepolo del regno dei cieli”. Prima di affrontare l’argomento, però, occorre sviluppare la figura del “padrone di casa, che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche”: con questa similitudine Gesù si rifà ad una persona che non si limita a procurarsi gli oggetti e gli alimenti per le immediate necessità, ma a mettere da parte ciò che può sempre servire. Anche oggi, chi vive in una casa che lo consente, ripone “cose vecchie” in cantina o negli armadi lasciando quelle acquistate di recente a portata di mano. Come sappiamo tutti, però, viene sempre il momento in cui un oggetto comprato anni addietro diventa necessario e lo si deve andare a cercare. Teniamo presente questi pochi dati e raccordiamoli alla figura dello scriba, persona non qualunque perché, come abbiamo avuto modo di considerare in un precedente episodio, era un istruito, formato nell’esperienza nelle lettere e nelle Scritture che insegnava al popolo.

È però fondamentale che Gesù parli di uno che è “divenuto discepolo del regno dei cieli”, cioè che ha abbandonato quelle caratteristiche che lo rendevano soggetto a Sue critiche e rimproveri: l’orgoglio e la presunzione dati dall’attaccamento alla tradizione orale e scritta fiorita accanto alla Legge e ai Profeti, avevano finito per avere la meglio sui nobili intenti che avevano caratterizzato la nascita della categoria degli scribi. Da custode della Legge di Dio perché “uomo del Libro”, l’elaborazione costante dell’immenso materiale della tradizione aveva finito per assumere un’importanza maggiore della Torah scritta. Il risultato lo conosciamo: gli scribi e i farisei avevano finito per perdere il senso generale, dal quale occorre sempre partire per comprendere, e si perdevano nei particolari, come dimostrato dal richiamo di Gesù a ciò che contaminava davvero l’essere umano.

È triste considerare come nel cristianesimo ci siano molti scribi, ma ben pochi siano i “discepoli del regno dei cieli”: così avviene in tutte le denominazioni, nate come costole di altre chiese come ribellione al formalismo e ad errate posizioni dottrinali, ma che poi sono scivolate in altri errori e in altre presunzioni. Lo “scriba” secondo Cristo, se non è consapevole di non essere migliore di altri, ma solo diverso, se non si arrocca sul fatto che “lui sì che cammina con rettitudine” e non tiene presente che può sempre cadere, se non antepone la Parola di Dio alla sua, se non cammina costantemente unito a Cristo e non vigila su se stesso, è destinato a perdere la sua funzione. La meta dello scriba divenuto discepolo non è il nutrire se stesso o il proprio orgoglio per fare sfoggio di conoscenza e sapere cercando l’onore e il rispetto dei propri simili, ma è rendersi strumento nelle mani di Dio per la propria e altrui edificazione. Egli dev’essere “bene ammaestrato”, o “ammaestrato per il regno dei cieli” secondo altre traduzioni, dove in quel “bene” vediamo l’approvazione del Signore: sa che dovrà rendere conto del proprio operato.

Poc’anzi è stato fatto l’esempio delle cose che si trovano in una abitazione: si tratta di un esempio immediato, ma moderno. In realtà Gesù, con la figura del padrone di casa, intende riferirsi a un amministratore, o a un uomo benestante che, dovendo provvedere ai domestici e ai famigliari, distribuisce ciò di cui necessitano. Cose utili e varie. È quello che dovrebbero fare i responsabili della Chiesa locale, immedesimandosi nelle persone loro affidate, nel “gregge di Dio”. La parabola dei servi, che riportano Matteo e Luca, parla dello “scriba” con termini diversi: “Qual è dunque il servo fedele e avveduto, che il suo padrone ha preposto ai suoi domestici, per dar loro il cibo al suo tempo? Beato quel servo che il suo padrone, quando egli tornerà, troverà facendo così. In verità vi dico che gli affiderà l’amministrazione di tutti i suoi beni. Ma, se quel malvagio servo dice in cuor suo: «Il mio padrone tarda a venire» e comincia a battere i suoi conservi, e a mangiare e bere con gli ubriaconi, il padrone di quel servo verrà nel giorno in cui meno se l’aspetta e nell’ora che egli non sa, lo punirà duramente e gli riserverà la sorte degli ipocriti. Lì sarà il pianto e lo stridore di denti” (Matteo 24.45-51)

Luca, impiega delle varianti: si parla di un “amministratore fedele e saggio che il padrone costituirà sui suoi domestici per dar loro a suo tempo la porzione di viveri” (12.42) e come in Matteo si ipotizza che quella stessa persona, preso atto che il padrone tardi a tornare, cominci “a battere i servi e le serve, a mangiare, a bere e ubriacarsi” (v.45). La conclusione del racconto è “lo punirà severamente e gli assegnerà la sorte con gli infedeli”.

Quel servo non viene colto da stanchezza per il duro lavoro, ma si chiede chi glielo faccia fare di comportarsi in ossequio all’incarico ricevuto se i giorni scorrono tutti uguali e non sia il caso di godersi un po’ di “vita” visto che il padrone tarda a tornare. In pratica, l’amministratore esce dal proprio ruolo e ne assume un altro, decide di agire in autonomia, indipendentemente dagli ordini ricevuti. Nel “Battere i servi e le serve” vediamo la prepotenza e la volontà di umiliare, nel “mangiare, bere e ubriacarsi” il tradire le aspettative del suo signore e soprattutto dimenticare la propria condizione di servo volendo agire chiaramente in modo diverso dai suoi pari trasformandosi in un usurpatore, impostore, traditore.

Chi aggiornerà i cristiani sullo “scriba” sarà l’apostolo Paolo, scrivendo a Tito e Timoteo suoi discepoli e attivi nella predicazione e rafforzamento delle Chiese: “Per questo ti ho lasciato a Creta: perché tu metta ordine in quello che rimane da fare e stabilisca alcuni presbiteri in ogni città, secondo le istruzioni che ti ho dato. Ognuno di loro sia irreprensibile, marito di una sola donna e abbia figli credenti, non accusabili di vita dissoluta o indisciplinati. Il vescovo, infatti, come amministratore di Dio, deve essere irreprensibile: non arrogante, non collerico, non dedito al vino, non avido di guadagni disonesti, ma ospitale, amante del bene, assennato, giusto, santo, padrone di sé, fedele alla Parola, degna di fede, che gli è stata insegnata, perché sia in grado di esortare con la sua sana dottrina e di confutare i suoi oppositori” (Tito 1.5-9)

A Timoteo poi lascerà scritto: “Se uno aspira all’episcopato, desidera un nobile lavoro. Bisogna dunque che il vescovo sia irreprensibile, marito di una sola donna, sobrio, prudente, dignitoso, ospitale, capace di insegnare, non dedito al vino, non violento, ma benevolo, non litigioso, non attaccato al denaro. Sappia guidare bene la propria famiglia e abbia figli sottomessi e rispettosi, perché, se uno non sa guidare la propria famiglia, come potrà aver cura della Chiesa di Dio? Inoltre non sia convertito da poco tempo, perché, accecato dall’orgoglio, non cada nella stessa condanna del diavolo. È necessario che egli goda buona stima presso quelli che sono fuori della comunità, per non cadere in discredito e nelle insidie del demonio” (1 Timoteo 3.1-7); simili indicazioni sono date poi per i diaconi.

Sono due passi impegnativi, che meriterebbero un’analisi a parte, ma che ampliano il significato e il perché dell’ultima parabola esposta da Gesù privatamente ai discepoli.

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07.07 – LE PARABOLE DEL REGNO 6: LA RETE (Matteo 13.47-50)

7.07 – Le parabole del regno 6 (La rete, Matteo 13.47-50)

 

“47Ancora, il regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci. 48Quando è piena, i pescatori la tirano a riva, si mettono a sedere, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi. 49Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni 50e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti.

 

            È la seconda volta nella stessa giornata che Gesù parla di un raccolto che avverrà alla fine dei tempi: la prima l’abbiamo avuta con l’esempio dei mietitori, del fatto che ci sarà una selezione tra grano e zizzania, di una fornace, di “pianto e stridore di denti”. Qui, nel secondo racconto, cambiano gli elementi, ma non il risultato anche se qualcosa di profondamente diverso c’è. Da sempre i commentatori hanno posto la parabola della rete in connessione a quella delle zizzanie, ma le azioni in cui le due si svolgono sono in altrettanti ambienti opposti: nel primo, il campo, abbiamo la Chiesa nella quale purtroppo si annidano seme e operatori estranei alla Parola di Dio e la inquinano; nel secondo, la rete, è raffigurato il mondo esterno, nel quale operano ogni sorta di elementi, positivi e negativi, utili e inutili.

Prima di fare le necessarie conclusioni, guardiamo i componenti del racconto a partire dalla “rete gettata nel mare” che non va intesa come una normale da pesca, ma del tipo a strascico: il greco “saghéne” indica infatti quella rete che veniva gettata nell’acqua a semicerchio e poi trainata dalle barche per i due capi fino a quando non si riempiva di ciò che riusciva a raccogliere, non solo di pesce. Nei versi in esame della nostra versione abbiamo una traduzione non proprio corretta, ma che piuttosto cerca di orientare il lettore costringendolo a fare riferimento alla parabola della zizzania cui è indubbiamente collegata. Il testo originale infatti non riporta “ogni genere di pesci”, ma semplicemente “(cose) di ogni genere” esattamente come i pescatori non “raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi”, ma “raccolgono le cose buone nelle loro ceste e buttano via ciò che non vale nulla”, quindi l’attenzione degli addetti non si concentra solo sulla selezione dei pesci commestibili o meno, ma anche su quanto viene raccolto nello strascico, che viene valutato per essere tenuto o gettato.

Da sottolineare la posizione dei pescatori che “si mettono a sedere” prima di operare, con la quale Gesù dà all’immagine un senso di calma, di lavoro di persone esperte, di gesti studiati e di conoscenza, attenzione e cura perché nulla deve andare sprecato: quelle persone cercano ciò che è utile e buttano via “ciò che non vale nulla”, quindi valutano elemento dopo elemento più che “i pesci cattivi”; il testo greco usa il termine “saprà”, cioè “ciò che è guasto, corrotto”. Credo che mettere assieme tutti questi dati contribuisca a dare un senso molto più ampio e completo alla parabola che altrimenti renderebbe un’idea, per quanto efficace, non altrettanto precisa.

Riassumendo: abbiamo la descrizione di un altro aspetto del regno dei cieli, di ciò che avverrà nel futuro, “alla fine del mondo”, non prima. Ci sarà un tempo, che vedremo tra breve per quanto possibile, in cui tutti gli uomini, qui paragonati ai pesci, verranno vagliati con tutte le loro azioni e verrà fatta una selezione accurata in mezzo a tutto quell’ammasso di esseri e cose rappresentato dalla parabola. Ancora oggi i pescatori di professione selezionano pesce per pesce e lo mettono in ceste in base alla loro specie, spesso mentre sono in mare. E buttano via tutto ciò che non vale nulla. L’uomo che oggi sente parlare di Cristo da persone che glielo presentano in base ai doni ricevuti, non pensa che gli viene offerta la possibilità di incontrarLo in salvezza anziché in giudizio: in quel momento può conoscere il Figlio dell’uomo “mansueto e umile di cuore” anziché l’entità di fronte alla quale l’apostolo Giovanni e altri profeti, abbagliati e spaventati dalla Sua potenza e santità quando la videro, ebbero dei mancamenti per lo spavento. E così sarebbero rimasti senza che una voce amica e amorevole li invitasse a rialzarsi e a non temere.

Abbiamo letto che Gesù disse “Così avverrà alla fine del mondo” e ho precisato “non prima” perché si tratta della fine dell’ambiente che conosciamo, la conclusione dell’esistenza della terra con l’universo che la circonda, fatto accennato dagli antichi profeti, ma che solo all’apostolo Giovanni fu concesso vedere nei dettagli per trasmetterne ai credenti le modalità. Qui occorre fare necessariamente riferimento al libro dell’Apocalisse, o Rivelazione, l’unico scritto con lo scopo preciso di “mostrare ai suoi servi le cose che dovranno accadere tra breve” (1.1). Ebbene la “fine del mondo”, anticipata da molte sette, Testimoni di Geova in particolare, che hanno voluto indicare più volte una data precisa dell’avvenimento poi chiaramente smentita dai fatti, arriverà dopo tutta una serie di eventi che avranno nel millennio un periodo di tregua tra la “gran tribolazione” e la fine del creato che conosciamo.

Chi è interessato ad intravedere gli eventi futuri, perché “Beato chi legge e beati coloro che ascoltano le parole di questa profezia e custodiscono le cose che vi sono scritte” (1.3), nonostante si trovi di fronte ad una lettura apparentemente ostica perché non scritta secondo una logica umana, trova abbastanza agevole individuare una linea temporale che parte dalla Chiesa primitiva per arrivare alla “fine del mondo” e alla creazione di uno nuovo, passando attraverso sette avvenimenti identificabili negli altrettanti sigilli, parte dei quali si sono già aperti, descritti nei capitoli 7 e 8. È fondamentale il fatto che quei sigilli siano a protezione del libro su cui sono scritti i nomi dei salvati e vengano tolti uno ad uno fino alla fine: “E vidi, nella mano destra di colui che sedeva sul trono, un libro scritto sul lato interno e su quello esterno, sigillato con sette sigilli. Vidi un angelo forte che proclamava a gran voce: «Chi è degno di aprire il libro e scioglierne i sigilli?». Ma nessuno, né in cielo, né in terra, né sotto terra, era in grado di aprire il libro e di guardarlo. Io piangevo molto, perché non fu trovato nessuno degno di aprire il libro e di guardarlo. Uno degli anziani mi disse «Non piangere; ha vinto il leone della tribù di Giuda, il Germoglio di Davide, e aprirà il libro e i suoi sette sigilli»” (5.1-5).

Identificato il libro ed il perché nessuno potesse aprirlo salvo l’Unico degno di farlo, è anche agevole riconoscere, nel corso della lettura, la presenza di una linea ascendente delle forze avverse alla Parola di Dio fino all’instaurazione di un impero mondiale che soffocherà qualunque rifiuto ad aderirvi anche solo formalmente: si tratta di quel richiamo all’impossibilità di comprare e vendere senza avere il “marchio della bestia” sulla fronte o sulla mano destra. Alla distruzione di quel sistema seguirà il periodo in cui Satana verrà incatenato dando inizio al “millennio”, cioè quel tempo in cui Gesù e i credenti regneranno sulla terra: “Poi vidi un angelo che scendeva dal cielo e che aveva la chiave dell’abisso e una gran catena in mano. Egli prese il dragone, il serpente antico, che è il diavolo e Satana, e lo legò per mille anni, poi lo gettò nell’abisso che chiuse e sigillò sopra di lui, perché non seducesse più le nazioni finché fossero compiuti mille anni, dopo i quali dovrà essere sciolto per poco tempo” (Apocalisse 20.1-3).

Ecco, sempre in questo libro si trovano anche i riferimenti alla mietitura e alla vendemmia, anch’essi da non confondere con la selezione finale. Tenendo presente la parabola della zizzania leggiamo 14.14,15: “Un altro angelo uscì dal tempio, gridando a gran voce a colui che era seduto sulla nube: «Getta la tua falce e mieti; è giunta l’ora di mietere, perché la messe della terra è matura». Allora colui che fu seduto sulla nube lanciò la sua falce sulla terra e la terra fu mietuta. Allora un altro angelo uscì dal tempio che è nel cielo, tenendo anch’egli una falce affilata. Un altro angelo, che ha potere sul fuoco, venne dall’altare e gridò a gran voce a quello che aveva la falce affilata: «Getta la tua falce affilata e vendemmia i grappoli della vigna della terra, perché le uve sono mature». L’angelo lanciò la sua falce sulla terra, vendemmiò la vigna della terra e rovesciò l’uva nel grande tino dell’ira di Dio”.

Queste immagini si riferiscono al rapimento della Chiesa, quando alla mietitura la zizzania non verrà raccolta, lasciando alla fine il gettarla nel fuoco, e sarà tenuto solo il grano. Lo stesso per la vendemmia, dove i credenti, in riferimento alla “vite” e ai “tralci”, verranno finalmente radunati e, con questo, cesserà la presenza dei giusti sulla terra per cui potranno avere luogo tutte le nefandezze della Bestia e i giudizi su di lei. Ricordiamo che la distruzione di Sodoma avvenne quando Lot e i suoi se ne andarono dalla città, non prima.

È un’immagine terribile quella che descrive Giovanni sulla sorte che seguiranno coloro che avranno aderito al sistema perverso della Bestia subito dopo la sua caduta: “Chi adora la bestia e la sua statua, e ne riceve il marchio sulla sua fronte o sulla mano, anch’egli berrà il vino dell’ira di Dio, che è versato puro nella coppa della sua ira, e sarà torturato con fuoco e zolfo al cospetto degli angeli santi e dell’Agnello. Il fumo del loro tormento salirà per i secoli dei secoli, e non avranno riposo né giorno né notte quanti adorano la bestia e la sua statua e chiunque riceve il marchio del suo nome” (14.9-11).

Un intermezzo necessario in questa brevissima panoramica sugli eventi futuri accennati da Gesù, è un’altra nota alla traduzione della parabola della rete: al verso 49 leggiamo “verranno gli angeli”, anche qui tradotto così per semplificare, essendo corretto “usciranno” anche perché l’uscita dei messaggeri va a collegarsi alla stessa azione compiuta in Apocalisse. Gesù stesso lo predisse: “E allora apparirà nel cielo il segno del Figlio dell’uomo e tutte le nazioni della terra faranno cordoglio e vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nuvole del cielo con potenza e grande gloria. Ed egli manderà i suoi angeli con un potente suono di tromba, ed essi raccoglieranno i suoi eletti dai quattro venti, da un’estremità dei cieli all’altra” (Matteo 24.30,31).

La nostra parabola però ci parla di separazione tra ciò che ha valore e ciò che è inutile e l’adempimento lo troviamo ancora in Apocalisse 20.11-14: “Poi vidi un gran trono bianco e colui che vi sedeva sopra, dalla cui presenza fuggirono il cielo e la terra, e non fu più trovato posto per loro. E vidi i morti, grandi e piccoli, che stavano ritti davanti a Dio, e i libri furono aperti; e fu aperto un altro libro, che è il libro della vita, e i morti furono giudicati in base alle cose scritte nei libri, secondo le loro opere. E il mare restituì i morti che erano in esso, la morte e l’Ades restituirono i morti che erano in loro, ed essi furono giudicati, ciascuno secondo le sue opere. Poi la morte e l’Ades furono gettati nello stagno di fuoco. Questa è la morte seconda. E se qualcuno non fu trovato scritto nel libro della vita, fu gettato nello stagno di fuoco”. Dopo di che, verrà “Un nuovo cielo e una nuova terra. perché il primo cielo e la prima terra erano passati, e il mare non c’era più” (21.1).

Ecco, visto per sommi capi, il piano di Dio per l’uomo che ha creduto in Lui. E, altrettanto per sommi capi, il destino che si saranno scelti quelli che lo avranno rifiutato: rinviando quando erano in vita l’incontro con Lui, non potranno comunque sottrarsi a quello in condanna. Gesù in questa parabola va direttamente alla selezione finale omettendo tutti quei passaggi intermedi che i discepoli non avrebbero potuto capire e che allora non erano necessari, come il rapimento della Chiesa, la costituzione di distruzione di “Babilonia la grande”, la triade composta dalla Bestia, dal Falso Profeta e dal Dragone la cui esistenza rimane velata fino a quando a Giovanni non fu detto “Quello che vedi, scrivilo in un libro e mandalo alle sette Chiese” (1.11), figure della Chiesa nella storia, ciascuna appartenente ad un’epoca precisa.

Per i discepoli era urgente conoscere altro, come le verità basilari contenute nelle parabole del regno oppure, più avanti, al loro stupore per la magnificenza delle costruzioni del Tempio in Gerusalemme, che non sarebbe lasciata “pietra su pietra che non sia diroccata”. Perché, nonostante il senso di magnificenza di fronte alle opere dell’uomo, non ne resterà nulla. Amen.

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07.06 – LE PARABOLE DEL REGNO 5: IL TESORO E LA PERLA (Matteo 13.44-46)

7.06 – Le parabole del regno 5 (Il tesoro e la perla, Matteo 13.44-46)

 

“44Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo. 45Il regno dei cieli è simile anche ad un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra.”.

 

            Come già accennato, inizia qui un secondo gruppo di parabole che potremmo definire “privato” perché esposte ai soli discepoli dopo aver risposto ai loro chiarimenti su quelle pronunciate in pubblico. Al verso 36 infatti leggiamo “Poi congedò la folla ed entrò in casa; i suoi discepoli gli si avvicinarono per dirgli: «Spiegaci la parabola della zizzania nel campo»”. Forse per questo motivo, per il fatto che negli esempi precedenti Gesù aveva parlato degli effetti pubblici della Parola e del Regno che ne è il risultato, ora entra negli effetti che questo produce nell’intimo della persona quando si rende conto di cosa abbia trovato.

Veniamo alla prima delle nuove parabole: c’è un tesoro nascosto in un campo, cosa a quei tempi abbastanza comune: essendo sempre possibili invasioni nemiche o di briganti, erano numerosi i capifamiglia che sotterravano i loro risparmi nella speranza che non venissero scoperti. Sotterrarli da qualche parte, come abbiamo già visto anche in casa, era l’unica possibilità per preservarli, ma siccome uno solo era chi sapeva dov’era il nascondiglio, alla sua morte o deportazione se ne perdeva la memoria e gli averi preziosi rimanevano lì.

Ora, spostiamo la nostra attenzione sui protagonisti del racconto: il tesoro trovato, dal valore inestimabile. “Un uomo” di cui non è detta la professione, ma che possiamo individuare, più che in un agricoltore o un proprietario terriero, in un cercatore perché nessuno trova qualcosa di “nascosto”, per di più in un campo, senza frugare, studiare attentamente il terreno, soprattutto senza stancarsi. Se consideriamo valida la figura del cercatore, si tratta di un’azione che ricorda pienamente Proverbi 2.1-5: “Figlio mio, se ricevi le mie parole e fai tesoro dei miei comandamenti, prestando orecchio alla sapienza e inclinando il cuore all’intendimento, se chiedi con forza il discernimento e alzi la tua voce per ottenere intendimento, se lo cerchi come l’argento e ti dai a scavarlo come un tesoro nascosto, allora intenderai il timore dell’Eterno, e troverai la conoscenza di Dio”. Il riferimento è semplice e profetico e contiene tutte le azioni della ricerca spirituale: le parole prima si ricevono e metabolizzano, come rilevabile nel “far tesoro dei comandamenti” visti non nella mera esecuzione di ordini, ma di principi assimilati e fatti propri perché Dio non dà mai un ordine senza motivarlo. Questo porta, una volta acquisita la consapevolezza di quanto il volere e l’appartenere al Signore sia alto e distante dal nostro essere, a “chiedere con forza” la capacità di discernere e intendere.

Vediamo che tutto ciò non è disgiunto da un impegno: cercare “come l’argento” e scavare “come un tesoro nascosto”, quindi impiegando quella fatica che non si avverte come tale perché l’obiettivo la giustifica e la rende leggera. Anche se chi guarda il lavoro del cercatore “da fuori” lo possa vedere come estenuante, possa considerare quella vita come di rinuncia senza garanzie di successo, è quell’ “allora intenderai” e “troverai”, pari a un sole che squarcia le nubi, che sancisce e promette l’obiettivo raggiunto. Cercare “il regno di Dio”, per chi è nel mondo, è sempre stato ritenuto qualcosa di assurdo, una perdita di tempo, un mettersi a inseguire le favole, ma per chi l’ha trovato è qualcosa di estremamente concreto: è un tesoro nascosto, lo ha cercato come tale e il personaggio della parabola, per ottenerlo legalmente, ha venduto tutti i suoi averi e ha comprato il campo. Fosse stato un disonesto, avrebbe potuto caricare il tesoro su un carro e andarsene, ma preferisce seguire le procedure legali per goderne.

Traspare dalle parole di Gesù la naturalezza con la quale il tesoro viene trovato: la figura del cercatore – o di chi ha trovato comunque – non è esaltata con termini che possano suscitare invidia o ammirazione, ma come la conclusione di una vicenda qualunque, comune, quasi come si trattasse di un fatto naturale come avviene con la parabola della perla trovata dal mercante. Non poteva essere diversamente visto che, al sermone sul monte, Nostro Signore aveva posto l’accento sul principio di risposta: “Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto; perché chiunque chiede riceve; chi cerca trova e sarà aperto a chi bussa” (Matteo 7.7,8). Ecco la naturalezza con la quale il tesoro viene trovato, ecco il perché l’uomo della parabola “va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo”: fa un investimento, sa che da quel tesoro potrà trarre benefici e permettersi di fare cose che prima gli erano precluse. In pratica, quel rinvenimento non costituiva per lui un punto di arrivo, ma di partenza, il capitolo di una nuova vita. Ecco perché sbaglia chi vede in questa parabola la conclusione felice di un percorso: spiritualmente la cittadinanza del regno è solo il raggiungimento di un traguardo che, per quanto indispensabile, segna l’inizio di un cammino nuovo come leggiamo in Colossesi 2.2 quando Paolo scrive “…arricchiti di una piena intelligenza per conoscere il mistero di Dio, che è Cristo. In lui sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della conoscenza”. Ecco perché, chi trova il tesoro della parabola, in realtà trova dei mondi da scoprire per cui la sua ricerca prosegue ancor più di prima.

Nella “gioia” di quell’uomo e nel vendere quello che aveva, dobbiamo identificare l’abbandono di ciò che è nostro relativamente a quanto ritarda il nostro cammino, la stessa scelta che fece Mosè di cui è detto “Per fede Mosè, divenuto adulto, rifiutò di essere chiamato figlio della figlia del faraone, preferendo essere maltrattato con il popolo di Dio, piuttosto che godere momentaneamente del peccato. Egli stimava ricchezza maggiore dei tesori d’Egitto l’essere disprezzato per Cristo; aveva infatti lo sguardo fisso sulla ricompensa” (Ebrei 11.24,26). Si noti come, ai tempi in cui il Figlio non era ancora rivelato ufficialmente, Paolo ci dice che Mosé sapeva di Lui, per quanto la dispensazione in cui viveva glielo poteva consentire. E “lo sguardo fisso sulla ricompensa” è quello che ci permette di fare la selezione tra ciò che è utile al nostro avanzamento spirituale oppure no.

C’è poi l’azione finale, l’acquisto del campo, grazie alla quale il protagonista entra legalmente in possesso del tesoro. Questo ci rimanda a Proverbi 23.23, “Acquista la verità e non rivenderla, la sapienza, l’educazione e la prudenza”, tutti elementi che siamo tenuti a procacciare – “Acquista” – e a non considerare come cose comuni – “non rivenderla” –. Verità, sapienza, educazione e prudenza aprono infatti altri mondi a chi le possiede indipendentemente dalla loro quantità.

Riguardo al comprare (dagli uomini) non è cosa che tutti possono sempre permettersi perché tutto si basa sul soldo o su ciò che uno ha da offrire in cambio, ma da Dio sappiamo che questo avviene “senza denaro e senza prezzo”; basta riconoscere, capire di avere veramente bisogno di ciò che Lui vuole offrire; se poi si acquisisce il principio in base al quale come esseri assolutamente imperfetti abbiamo sempre bisogno di essere ogni giorno “clienti” del Padre, ci terremo al riparo da molte negatività che vengono prima da noi stessi, tendenzialmente sempre pronti a giustificarci, se non a vederci per ciò che non siamo. E qui, a proposito del “comprare”, mi viene in mente la Chiesa di Laodicea, i cui componenti erano-sono convinti di essere ricchi, ma sono definiti “un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo”. L’invito in proposito è “Ti consiglio di comperare da me oro purificato dal fuoco per diventare ricco, e abiti bianchi per vestirti e perché non appaia la tua vergognosa nudità, e collirio per ungerti gli occhi e recuperare la vista” (Apocalisse 3.18). Presso il Padre esiste dunque tutto ciò che serve per la nostra vita: per la ricchezza del mondo ricordiamo come si conclude la parabola del ricco stolto, “Così è di chi accumula tesori per sé, e non è ricco in Dio” (Luca 12.21). Gli abiti bianchi sono quelli dell’innocenza e della giustizia perché non appaia la nudità in Adamo e la presenza del collirio, per “ungerti gli occhi e recuperare la vista”, ci parla di quanto sia indispensabile un confronto continuo, sincero e avulso da quei diabolici sentimentalismi religiosi, con la Parola di Dio per evitare di essere vomitati dalla Sua bocca o tenuti a margine dai Suoi piani o anche solo dalla Vita con Lui. Il più delle volte, questo avviene perché si sceglie, anziché confrontarci con la santità di Dio, di guardare al nostro simile ed è lì che iniziano le finzioni, gli inganni, il cammino a ritroso. Il più delle volte questo avviene perché si sostituisce alla purezza della Parola di Dio quella degli uomini che la contamina rendendola una religione come le altre, perciò inutile.

La seconda parabola che Gesù espone ai suoi è quella del mercante di perle preziose che, inaspettatamente, ne trova una diversa dalle altre, il cui valore anche qui è talmente elevato da spingerlo a vendere tutti i suoi averi per poterla comprare. Anche qui il riferimento al libro dei Proverbi, ma non solo, è d’obbligo: la perla infatti rappresenta sia ciò che è effettivamente prezioso spiritualmente, ma anche ciò che è ritenuto tale nel mondo apparente. La perla, vista come fonte di guadagno dagli uomini e come ornamento dalle donne, è usata per indicare il fraintendimento: “…allo stesso modo le donne, vestite decorosamente, si adornino con pudore e riservatezza, non con trecce e ornamenti d’oro, perle o vesti sontuose, ma, come conviene a donne che onorano Dio, con opere buone” (1 Timoteo 2.9);  non a caso la “grande prostituta” dell’Apocalisse è vestita “…di porpora e di scarlatto, adorna d’oro, di pietre preziose e di perle” (17.4).

Eppure la perla, usata per scopi frivoli per abbellire qualcosa che non ha bisogno di venire migliorato o senza poter cambiare realmente ciò che è già brutto, sarà presente con altro significato nella Nuova Gerusalemme, nelle sue dodici porte dove “…le dodici porte sono dodici perle, ciascuna porta era formata da una sola perla” (Apocalisse 21.21), in riferimento al risultato delle sofferenze alla croce, non esistendo in natura perla senza sofferenza.

Tornando alla nostra parabola, chi trova la perla non è un dilettante, ma un profondo conoscitore della materia. Allo stesso modo quindi Gesù invita anche i sapienti di questo mondo, i filosofi, “i savi e gli intendenti” a confrontarsi col Suo Vangelo perché possano transitare dal mondo della “sapienza” umana a quella spirituale, perché “Coralli e perle non meritano menzione, l’acquisto della sapienza non si fa con le gemme” (Giobbe 28.18), “la sapienza vale più delle perle e quanto si può desiderare non la eguaglia” (Proverbi 8.11), perché “C’è possesso di oro e moltitudine di perle, ma la cosa più preziosa sono le labbra sapienti” (20.15). Ancora sulle perle, ricordiamo l’insegnamento sul non dare ciò che è santo ai cani e non gettare le perle davanti ai porci e che anticamente queste erano considerate ai pari dei diamanti, quindi molto più preziose di quanto non siano oggi.

Un esempio dei due protagonisti delle parabole lo troviamo nell’apostolo Paolo che, scrivendo ai Filippesi della sua esperienza e del suo bagaglio etnico-culturale ebbe a dire: “Queste cose, che per me erano guadagni, io le ho considerate una perdita a motivo di Cristo. Anzi, ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo ed essere trovato in lui, avendo come mia giustizia non quella derivante dalla Legge, ma quella che viene dalla fede in Cristo, la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede” (3.7-9).

Concludendo, con le due parabole Gesù ci ha presentato due tipi di uomini che hanno fatto una scelta assolutamente naturale, quella di chiunque nella vita di tutti i giorni nel momento in cui s’imbatta in qualcosa di molto prezioso. Purtroppo la stessa cosa non avviene nel campo spirituale, e le conseguenze verranno descritte nella similitudine successiva, quella della rete gettata in mare e dei pesci che raccoglie.

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07.05 – LE PARABOLE DEL REGNO 4: LA SENAPE E IL LIEVITO (Matteo 13.31-34)

7.05 – Le parabole del regno 4 (La senape e il lievito, Matteo 13.31-34)

 

“31Espose loro un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un granello di senape, che un uomo prese e seminò nel suo campo. 32Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre piante dell’orto e diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a fare il nido tra i suoi rami». 33Disse loro un’altra parabola: «Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata». 34Tutte queste cose Gesù disse alle folle con parabole e non parlava ad esse se non con parabole,35perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta: Aprirò la mia bocca con parabole, proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo”.

 

            Matteo, attento espositore profetico-dottrinale, ci pone in successione queste due parabole, effettivamente connesse fra loro, e le fa iniziare direttamente con “Il regno dei cieli è simile a”. Marco e Luca le fanno precedere da una domanda che lo stesso Gesù pone ai suoi uditori: “A cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo?” (Marco 4.30): si tratta di un interrogativo importante perché chi parla, chi lo espone, non è un filosofo o un profeta che ha ricevuto un messaggio, ma Uno che il “regno” lo conosce in quanto partecipe e responsabile del suo progetto e realizzazione. Quel “regno” di cui molti avevano sentito parlare sta quindi per essere spiegato dalla Fonte più autorevole, dall’Unico in grado di esporre una verità così complessa e multiforme. Precedentemente Gesù aveva collegato il “regno dei cieli” ai tipi di uomini che ascoltano la Parola e delle reazioni che hanno di fronte ad essa, poi del fatto che questo prevede uno sviluppo che contempla un tempo per seminare lasciando che i “figli del regno” e i “figli del maligno” crescano insieme, e infine la mietitura in cui gli uni e gli altri verranno raccolti, ma con un diverso destino. Le parabole del seminatore e della zizzania sono quindi una premessa, una panoramica generale che riguarda l’essere umano e come si pone nei confronti del progetto di Dio, mentre quelle della senape e del lievito ci mostrano il suo sviluppo indipendentemente dalla loro volontà.

Per questa terza parabola Gesù sceglie il seme della senape, piccolo, rotondo, che nelle sue dimensioni massime arriva a circa mezzo millimetro. Colpisce, in questa parabola, la figura dell’uomo che decide di piantare un solo seme nel suo campo, a differenza delle precedenti in cui lo scopo è quello di dar vita a una coltivazione precisa, il grano. La senape poteva essere coltivata, seminata attendendo la fioritura annuale e la successiva comparsa dei semi, dai quali si ricavava una farina, ma anche olio, utilizzata sia in cucina che per curare la tosse e varie infiammazioni. Il protagonista di questo racconto vuole però che cresca un albero che avrebbe avuto fronde rigogliose destinate ad ospitare diverse specie di uccelli. Si tratta di un paragone che troviamo in molti punti dell’Antico Testamento che hanno a che fare coi progetti di Dio per il Suo Regno; ad esempio l’uomo che pianta un seme per la soddisfazione di contemplare un grande albero è connesso al Creatore in Ezechiele 17.23.24: “Un ramoscello io prenderò dalla cima del cedro; dalle punte dei suoi rami lo coglierò e lo pianterò sopra un monte alto, imponente; lo pianterò sul monte alto di Israele. Metterà rami e frutti e diventerà un cedro magnifico. Sotto di lui gli uccelli dimoreranno, ogni volatile all’ombra dei suoi rami riposerà. Sapranno tutti gli alberi della foresta che io sono il Signore, che umilio l’albero alto e innalzo l’albero basso, faccio seccare l’albero verde e germogliare l’albero secco. Io, il Signore, ho parlato e lo farò”.

Soffermiamoci brevemente su questo passo: in Israele sarebbe sorto un cedro, albero imponente che può arrivare a 40 o 50 metri d’altezza. Spesso il cedro della Scrittura è quello “del Libano” e trova il suo ambiente ideale in montagna. Anche questa pianta, nelle prime fasi del suo sviluppo, è fragile, ma diventa poi albero resistente, dal legno pregiato, emanando un aroma acuto e penetrante che respinge gli insetti. Il cedro di cui parla Ezechiele non sarebbe stato seminato come l’albero della senape, ma sarebbe nato da un ramoscello preso da un’altra pianta e qui è facile individuare il germoglio, Gesù Cristo quale “virgulto(che) germoglierà dalle sue radici” (Isaia 11.1,2). Ora questo albero piantato “metterà rami e frutti e diventerà un cedro magnifico”, aggettivo usato non da un uomo, ma da Dio stesso per cui riceverà tutta la sua approvazione e compiacimento. Quest’albero ci parla di santità (il suo legno fu usato da Salomone per costruire il tempio, 1 Re 6.14-16) e di purificazione (Levitico 14.6,7). C’è poi il particolare degli “uccelli del cielo” in cui sappiamo che Gesù identifica quelle creature che, nonostante siano apparentemente insignificanti, godono della Sua provvidenza: ricordiamo il sermone sul monte in cui, a proposito delle sollecitudini ansiose, invitò gli uomini a considerare, a parte i fiori del campo, proprio gli uccelli che “…non seminano, né mietono, né ammassano nei granai, eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate forse più di loro?” (Matteo 6.26).

Ezechiele cita poi gli alberi della foresta, questa volta figura degli uomini secondo le loro nazioni messi in relazione anche con gli uccelli che fanno il nido e godono l’ombra: qui le relazioni con altri versi sono almeno due, riferiti ad un tempo che deve ancora venire: “Alla fine dei giorni il monte del tempio del Signore sarà saldo sulla cima dei monti e s’innalzerà sopra i colli, e ad esso affluiranno tutte le genti. Verranno molti popoli e diranno «Venite, saliamo sul monte del Signore». Egli sarà giudice tra le genti e arbitro fra i popoli. Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci; una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione, non impareranno più l’arte della guerra” (Isaia 2.2,4), verso che troviamo identico in Michea 4.1.

Da questa citazione è semplice fare riferimento al cedro piantato sul monte alto e imponente, ma analoga situazione è anche descritta in Zaccaria 8.20-23: “…anche i popoli e abitanti di numerose città si raduneranno e si diranno l’un l’altro – quindi ci sarà concordia – «Su, andiamo a supplicare il Signore, a trovare il Signore degli eserciti. Anch’io voglio venire». Così popoli numerosi e nazioni potenti verranno a Gerusalemme per cercare il Signore degli eserciti e a supplicare il Signore”.

Possiamo fare a questo punto alcune osservazioni: primo, da quel piccolo seme di senape nessuno potrebbe aspettarsi che possa nascere un albero così grande ed utile: dà riparo nelle giornate assolate alle creature. Secondo, è un albero che cresce da solo, senza alcun intervento umano che lo possa rinforzare o guidare in qualche modo nel suo sviluppo. Terzo, è piantato non per un’utilità personale di chi lo semina, ma per l’esclusivo vantaggio di altri che non l’hanno chiesto. Quarto, non è detto cosa faccia quell’uomo del resto del campo: questo non rileva, l’attenzione si focalizza solo sul gesto di chi pianta il seme e sul risultato finale e, infine quinto, qui non c’è nessun “nemico” che viene ad attentare alla vita di quell’albero.

 

Se già da questa parabola è chiara la sproporzione tra ciò che è minimo e quanto è in grado di produrre, quella del lievito lo è ancora di più: la senape nasce da un seme, il pane da un lievito, quindi da un funghi microscopici, i saccaromiceti. L’esempio di Gesù qui è illuminante anche per la scelta del vero agente del suo racconto, non la donna, ma il lievito: su questo punto si sono arenati in tanti perché il lievito è spesso visto in riferimento alla negatività e al peccato che trasforma e inquina l’uomo poco a poco. Qui però non si tratta di dare interpretazioni a senso unico, ma del fatto che esiste sempre una doppia valenza per ciascun elemento del creato; infatti, parlando ai farisei che tenevano molto alla purità formale, Gesù volle farli riflettere  dicendo: “Non è quel che entra nella bocca che contamina l’uomo, ma quello che esce dalla bocca, ecco quel che contamina l’uomo”, (Matteo 15.11).

Il lievito, in questa parabola, è visto al pari del seme di senape come quella forza che si sviluppa nel tempo, cresce indipendentemente dal controllo umano. Entrambi i due elementi giungono a un punto in cui il loro compito giunge a un termine, l’albero con il suo arrivare a uno stadio rigoglioso e il lievito con la formazione di un impasto pronto per il forno. Da notare poi le “tre misure”, nel terzo originale “staia” che formavano un “efa”, quantità sufficiente a sfamare una famiglia.

La parabola del lievito, poi, ha un significato importante perché è la quarta, quella che secondo Matteo è l’ultima ad essere esposta alla folla in pubblico. Leggiamo infatti che “Allora Gesù, licenziate le folle, se ne ritornò a casa e i suoi discepoli gli si accostarono dicendo «Spiegaci la parabola del campo»” (v.26). Da qui in poi ne seguiranno altrettante, riservate solo a loro.

Resta da esaminare il richiamo di Matteo al Salmo 78.2, identico nella forma e nei termini, che descrive il compito del profeta, che Cristo assolveva come Figlio dell’uomo: “Aprirò la bocca con parabole”, quindi per simboli a volte elementari e di facile richiamo, altri complessi e comprensibili grazie allo Spirito Santo, come gli stessi apostoli e discepoli ebbero modo di sperimentare quando discese su di loro e compresero le parole che il Maestro aveva loro trasmesso. La seconda parte del verso è poi illuminante perché spiega il motivo per cui il profeta parla in modo non comprensibile a tutti: spiega “cose nascoste fin dalla fondazione del mondo” e qui emerge tutto il cammino tanto del singolo, che saputa la vitale importanza di queste le investiga “come i tesori” quali effettivamente sono, quanto della Chiesa intesa non come struttura più o meno gerarchica, ma come la grande Comunità dei credenti sparsi nelle varie denominazioni che la rendono viva e unica.

Concludendo, è facile vedere nei due elementi proposti da Gesù lo sviluppo del regno, che partì ufficialmente proprio da Lui: prima un uomo solo, poi dodici chiamati all’apostolato, poi 120, poi tremila in un solo giorno (Atti 2.41), quindi cinquemila (4.4), il tutto difficilmente non accostabile alla figura del seme che diventa arbusto e quindi albero, o al lievito.

Se la Scienza si pone ogni interrogativo possibile sui fenomeni fisici e chimici presenti nel mondo naturale, le parabole, e quindi le verità assolute trasmesseci attraverso la Scrittura, contengono la risposta ad ogni perché della nostra realtà spirituale. E i racconti fin qui esaminati hanno affrontato temi importanti quali la divisione delle anime, la separazione tra i figli di Dio e quelli che non lo sono ed infine cosa sia il Regno dei cieli, che per ora non si vede o di lui si sente parlare senza prestarvi attenzione, ma destinato ad apparire in tutta la sua realtà, come l’albero sotto il quale le creature si riparano o come il lievito che dà origine a qualcosa che diventa idoneo a sfamare. Perché non veniamo lasciati soli, mai.

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07.04 – LE PARABOLE DEL REGNO: LA ZIZZANIA (Matteo 13.24-30)

7.04 – Le parabole del regno 3 (La zizzania, Matteo 13.24-30)

 

“4Espose loro un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. 25Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò. 26Quando poi lo stelo crebbe e fece frutto, spuntò anche la zizzania. 27Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: «Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?». 28Ed egli rispose loro: «Un nemico ha fatto questo!». E i servi gli dissero: «Vuoi che andiamo a raccoglierla?». 29«No, rispose, perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. 30Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponetelo nel mio granaio»”

 

            Leggendo la parabola colpisce la frase di apertura, “il regno dei cieli è simile a un uomo”, paragone non riferito tanto alla persona che compie una determinata azione, ma al suo modo di operare. “Il regno dei cieli è simile a” si troverà in molte parabole a conferma della totalità degli interventi di Dio nei confronti della sua creatura. Anche nel testo di oggi c’è un campo che, come nella prima parabola del seminatore, ma qui ancora di più, si riferisce a tutto il territorio da coltivare posseduto. Ora Gesù, dopo aver presentato nella parabola precedente la sorte che hanno i semi che cadono chi nella strada, chi nel terreno pietroso e chi in mezzo alle spine, entra nei dettagli occupandosi di ciò che avviene nel campo vero e proprio, seminato con “buon seme”, quindi una sorta di prodotto certificato dal quale si attende, come anche i suoi servi, un raccolto ricco e abbondante.

Nel “buon seme” riconosciamo il Vangelo, la Parola di Dio, che dà come risultato una crescita che l’apostolo Pietro descriverà con le parole “…generati non da un seme corruttibile, ma incorruttibile, per mezzo della parola di Dio viva ed eterna” (1 Pietro 1.23). Poi l’aggettivo “buono” non può che rimandarci alla creazione, quando la frase “E Dio vide che ciò era buono” compare al termine di ciascun giorno che si concluse col Suo riposo dopo i sei. Il “buon seme” che viene messo nel campo porta in sé l’approvazione del Creatore proprio come fu all’inizio quando leggiamo “Dio disse: «La terra produca germogli, erbe che producono seme e alberi da frutto, che fanno sulla terra frutto con il seme, ciascuno secondo la propria specie». E così avvenne. E la terra produsse germogli, erbe che producono seme, ciascuna secondo la propria specie. Dio vide che era cosa buona.” (Genesi 1.11,12). È evidente il rimando al tempo antico in cui c’era un progetto di perfezione e di equilibrio, lo stesso che si aspettava il padrone nel campo tramite il raccolto. Anche questa fu una parabola di cui i discepoli chiesero il significato: al verso 37 di questo stesso capitolo leggiamo “Colui che semina il buon seme, è il Figlio dell’uomo”. Addirittura poi, a testimonianza di quanto debba identificarsi chi ha creduto nella Parola, “il buon seme sono i figli del regno”. Un’identità totale.

Si arriva così al verso 25, che ci conferma che questo racconto sia in un certo senso speculare a quello della Genesi perché anche qui assistiamo ad una strategia ostile per rovinare, inquinare e se possibile distruggere tutto il lavoro accurato svolto con la semina, per quanto riguarda la parabola, e con la tentazione andata a buon fine, circa i nostri progenitori. Se con loro il nemico dovette mimetizzarsi e minare dalle fondamenta l’equilibrio e l’ingenuità-fragilità di Eva, qui raccoglie personalmente i semi di una pianta che non si trovava in commercio perché tossica, dando capogiri e vomito. Di sapore amaro, impossibile da distinguere dal grano o dall’orzo allo stato di piantina, in caso di contaminazione del campo chi faceva il raccolto era costretto o a estirpare le infestanti (ma come vedremo sarebbe stata un’azione poco prudente) oppure attendere che le due specie si lasciassero riconoscere crescendo.

L’azione del “nemico” viene fatta di notte, “mentre tutti dormivano” perché un campo, al contrario di un gregge, non lo si vigilava. Questo nemico agisce di nascosto, con il preciso obiettivo di rovinare il raccolto e lo fa con un’azione identica al proprietario del terreno, cioè semina: un ideale di vita falso, delle verità alternative, un modo di essere tossico, contaminante, indigeribile con l’obiettivo di rovinare il progetto del Creatore. C’è quindi un seme buono, la Parola di Dio che genera vita, e uno cattivo, del nemico, anch’esso una vita la dà, ma utile a portare danno agli altri. La spiegazione di Gesù, “Il campo è il mondo, il buon seme sono i figli del regno e la zizzania sono i figli del maligno” (v.38), è eloquente sull’identità di questi personaggi e come purtroppo gli uni siano costretti a condividere lo stesso spazio, quello del mondo. E si badi che possiamo leggere il termine “campo” in due modi, cioè tanto il mondo inteso come terra, quando come Chiesa, poiché è la storia a insegnare che anche al suo interno si nascondono, più o meno bene, individui che tutto fanno tranne che portare un frutto buono a vantaggio degli altri, della dottrina o dell’esempio. Gli scritti del Nuovo Patto sono pieni di esempi in proposito e più volte sono scritte esortazioni a guardarsi dai falsi profeti, l’aggiornamento neotestamentario dei farisei del tempo di Gesù.

Leggiamo al verso 39 che “a un certo punto spuntò anche la zizzania”, cioè diventò ufficialmente riconoscibile suscitando la meraviglia dei servi, in cui possiamo identificare quegli angeli che non svolgono la funzione di mietitori: “…e il nemico che l’ha seminata è il diavolo, mentre la mietitura è la fine del mondo, e i mietitori sono gli angeli”.

La domanda che i servi fanno al Signore del campo può essere letta come ingenua, perché la risposta se la sarebbero potuti dare da soli in quanto, per l’abbondanza della zizzania nel campo, difficilmente avrebbe potuto essere causata da semi portati dal vento. Va tenuto presente però cosa siano gli angeli, esseri innocenti a parte l’antica ribellione di alcuni di loro a Dio, che non hanno una volontà propria, ma sono essenzialmente degli esecutori ai Suoi ordini. La loro domanda è sotto certi aspetti simile a quella che rivolsero le anime dei martiri in Apocalisse 6.10,11: “Fino a quando aspetti, o Signore, che sei il Santo e il Verrace, a fare giustizia del nostro sangue sopra coloro che abitano la terra?– contro le zizzanie – E a ciascuno di essi fu data una veste bianca e fu loro detto che si riposassero ancora un po’ di tempo, finché fosse completato il numero dei loro conservi e dei loro fratelli, che dovevano essere uccisi come loro”.

Apriamo una breve parentesi: la loro è una domanda che, come quella dei mietitori, precede il raccolto finale. Anche ad essi viene detto di attendere e viene data loro una “veste bianca”, riferimento alla loro giustizia, quindi viene loro ricordata la beatitudine e la ricompensa che avrebbero avuto, ma che questa non sarebbe stata fruibile senza che prima fossero stati raggiunti da tutti gli altri, che abitavano ancora in un corpo di carne.

Mettiamo un attimo da parte ciò che Giovanni ci ha trasmesso per volere di Dio e torniamo alla risposta data ai mietitori: non era ancora il tempo per procedere. Se l’Apocalisse ci ha spiegato uno dei perché, qui Gesù ne dà un altro: si sarebbero strappate senza volerlo le piantine buone non per distrazione o errore, ma anche perché, essendo la zizzania cresciuta accanto al grano, le radici delle piante si erano intrecciate fra loro ed estirpando una piantina cattiva si sarebbe corso il rischio di fare altrettanto con il grano. Questo perché nessun’anima che il Padre ha dato al Figlio deve andare perduta.

Torniamo ora ai versi di Apocalisse successivi, quelli da 12 a 17: “E vidi quando l’Agnello aprì il sesto sigillo, e vi fu un violento terremoto. Il sole divenne nero come un sacco di crine, la luna diventò tutta simile a sangue, le stelle del cielo si abbatterono sopra la terra come un albero di fichi, sbattuto dalla bufera, lascia cadere i frutti non ancora maturi. Il cielo si ritirò come un rotolo che si avvolge, e tutti i monti e le isole furono smossi dal loro posto. Allora i re della terra e i grandi, i comandanti, i ricchi e i potenti, e infine ogni uomo, schiavo o libero, si nascosero tutti nelle caverne e fra le rupi dei monti, e dicevano ai monti e alle rupi: «Cadeteci addosso e nascondeteci dalla faccia di Colui che siede sul trono e dall’ira dell’Agnello, perché è venuto il grande giorno della loro ira, e chi può resistervi?».

Ecco, questo è un solo aspetto della mietitura, una delle sue fasi che, se ci verrà dato, affronteremo quando potremo fare un’analisi del libro dell’Apocalisse che, per il poco che è stato citato in questo studio, fa risultare assente la Chiesa.

Tornando alla parabola, anche ai mietitori viene detto di pazientare ancora un po’ di tempo, cioè fino a quando sarebbe stato impossibile sbagliare nel selezionare le piantine buone da quelle cattive e il raccolto avrebbe potuto iniziare e proseguire senza problemi. In tal modo l’opera del nemico sarebbe stata vana.

Ci sono poi due espressioni nella parte finale del racconto di Gesù che meritano un’attenzione particolare, cioè “lasciate che (…) crescano insieme” e “il grano invece riponetelo nel mio granaio”: la prima frase stabilisce che, purtroppo, chi appartiene ai figli di Dio è costretto a “crescere insieme” a chi serve un altro signore, che non può esservi pace sulla terra nel senso completo del termine, nemmeno nella Chiesa che dovrebbe essere assolutamente “santa”, ma che di fatto non lo è a livello di totalità, d’insieme umano, perché anche in essa si nascondono i “figli del maligno”. Anche l’apostolo Paolo, certo riferendosi alla zizzania, scrisse “Questi sono falsi apostoli, lavoratori fraudolenti, che si mascherano da apostoli di Cristo. Ciò non fa meraviglia, perché anche Satana si maschera da angelo di luce. Non è perciò gran cosa se anche i suoi ministri si mascherano da ministri di giustizia, ma la loro fine sarà secondo le loro opere” (2 Corinti 11.13-15). La seconda frase è invece di una consolazione assoluta: “Il grano invece riponetelo nel mio granaio”, dove “invece” e “mio” dicono tutto quel che serve.

La mietitura fu così spiegata ai discepoli; “Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli ed essi raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e gli operatori d’iniquità, e li getteranno nella fornace del fuoco. Lì– e non altrove – sarà pianto e stridor di denti. Allora– non prima – i giusti risplenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchie per ascoltare, ascolti.” (v.41-43).

Si compiranno allora tutte le promesse e ogni cosa sarà definita. E penso che già a Isaia fu rivelata questa verità: “I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento; coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre”, e le stelle sono come il sole.

E per quanto riguarda infine il “mio granaio”, così diverso da quello degli altri, leggiamo ancora in Apocalisse: “Ecco, sono compiute! Io sono l’Alfa e l’Oméga, il principio e la fine. A colui che ha sete darò gratuitamente da bere alla fonte dell’acqua della vita. Chi sarà vincitore erediterà questi bene; io sarò Dio ed egli sarà mio figlio” (21.6,7). Amen.

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07.03 – LE PARABOLE DEL REGNO: IL SEMINATORE (Matteo 13.3-23)

7.03 – Le parabole del regno 2 (Il seminatore, Matteo 13.3-23)

 

“3Egli parlò loro di molte cose con parabole. E disse: «Ecco, il seminatore uscì a seminare. 4Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono. 5Un’altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c’era molta terra; germogliò subito, perché il terreno non era profondo, 6ma quando spuntò il sole, fu bruciata e, non avendo radici, seccò. 7Un’altra parte cadde sui rovi, e i rovi crebbero e la soffocarono. 8Un’altra parte cadde sul terreno buono e diede frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno. 9Chi ha orecchi, ascolti». 0Gli si avvicinarono allora i discepoli e gli dissero: «Perché a loro parli con parabole?». 11Egli rispose loro: «Perché a voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato. 12Infatti a colui che ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a colui che non ha, sarà tolto anche quello che ha. 13Per questo a loro parlo con parabole: perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono. 14Così si compie per loro la profezia di Isaia che dice: Udrete, sì, ma non comprenderete, guarderete, sì, ma non vedrete. 15Perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile, sono diventati duri di orecchi e hanno chiuso gli occhi, perché non vedano con gli occhi, non ascoltino con gli orecchi e non comprendano con il cuore e non si convertano e io li guarisca! 16Beati invece i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano. 17In verità io vi dico: molti profeti e molti giusti hanno desiderato vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono! 18Voi dunque ascoltate la parabola del seminatore. 19Ogni volta che uno ascolta la parola del Regno e non la comprende, viene il Maligno e ruba ciò che è stato seminato nel suo cuore: questo è il seme seminato lungo la strada. 20Quello che è stato seminato sul terreno sassoso è colui che ascolta la Parola e l’accoglie subito con gioia, 21ma non ha in sé radici ed è incostante, sicché, appena giunge una tribolazione o una persecuzione a causa della Parola, egli subito viene meno. 22Quello seminato tra i rovi è colui che ascolta la Parola, ma la preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza soffocano la Parola ed essa non dà frutto. 23Quello seminato sul terreno buono è colui che ascolta la Parola e la comprende; questi dà frutto e produce il cento, il sessanta, il trenta per uno».”

 

            Leggendo questa parabola tendiamo a focalizzare la nostra attenzione, come è giusto che sia e come era nelle intenzioni di Gesù, sui quattro terreni che ricevono il seme della parola oltre che sulla spiegazione che dà di loro. La figura del seminatore la diamo per scontata e non facciamo caso all’articolo che ci mette in guardia fin da subito perché, se leggere “Un seminatore uscì a seminare”ci lascerebbe pensare all’inizio di un racconto o a una favola, “Il seminatore” ci pone nelle condizioni di chiederci chi sia questa persona, essendo un articolo determinativo. “Un seminatore” potrebbe essere tanto un incaricato della semina, quindi un lavorante, quanto il proprietario del terreno, ma “Il seminatore” è impossibile da confondere, è un individuo che “esce” dalla propria casa per compiere un’azione destinata a rendergli un guadagno nel futuro, un raccolto. Il seminatore è un professionista, non si mette a lavorare se non è il mese adatto per farlo, ha deciso in anticipo il giorno e l’ora per la semina per un raccolto che, a livello di collettività, avverrà in un tempo conosciuto solo dal Padre. Ricordiamoci che anche per la venuta del Figlio di Dio nel mondo e per tutto il Suo ministero c’è sempre stato un giorno e un’ora e tutto quanto da Lui compiuto, sempre, ha avuto un motivo visto nel raccolto finale. Il verbo “uscire”, poi, ci parla anche della profezia su Betlehem di Efrata, “così piccola per essere tra i capoluoghi di Giuda, da te mi uscirà colui che deve essere il dominatore in Israele; le sue origini sono dall’antichità, dai giorni remoti” (Michea 5.1). Gesù stesso, nella notte in cui fu tradito, disse “Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; ora lascio di nuovo il mondo e vado al Padre” (Giovanni 16.28).

Vediamo il primo terreno su cui cade il seme, la strada: quelle di allora erano in terra battuta, dura, arsa dal sole, se un seme vi cadeva sopra rimbalzava e stava lì, senza alcuna possibilità di sviluppo. Quella terra serviva ad altro, nessuno la lavorava perché altrimenti persone, animali o carri non avrebbero potuto passarvi sopra. A volte le strade non si costruivano neppure, ma erano il risultato del continuo passare di gente e carri che avevano così indurito la terra. Così è per l’uomo, che di fronte alle ingiustizie della vita, al dolore e all’incomprensione altrui si fa l’idea che la gente che popola il mondo sia divisa in due categorie, chi subisce e chi fa subire e sceglie di essere dalla parte di chi s’impone con metodi spesso non leciti, o risponde come meglio può, difendendosi ad oltranza e finendo per essere vittima di se stesso anziché degli altri. Abituato a reagire sempre e comunque per difendere il proprio territorio fisico o morale, non vede altro al di fuori delle proprie esigenze, della realtà che si è costruito a fatica.

Esempi in proposito nella Scrittura ne troviamo tanti, come i sommi sacerdoti Anna e Caiafa (o Caifa) e coloro che combatterono Gesù: pensiamo a quelli che, dopo aver ascoltato il discorso dell’apostolo Paolo nell’Areopago di Atene, “appena sentirono parlare della resurrezione dei morti, cominciarono a deridere Paolo. Altri invece gli dissero «Su questo punto ti sentiremo un’altra volta»” (Atti 17.32). Ricordando poi sempre la sua testimonianza a Festo, Agrippa e Felice, leggiamo “Mentre parlava così per difendersi– portando il Vangelo e non giustificandosi – il governatore Festo disse ad alta voce «Tu sei pazzo, Paolo! Hai studiato troppo e sei diventato matto!(…) Agrippa allora rispose a Polo: «Ancora un po’ e tu mi convincerai a farmi cristiano». Ma Paolo rispose «Io non sono pazzo, eccellentissimo Festo, sto dicendo cose vere e ragionevoli.” Quando poi l’apostolo cominciò a parlare del giusto modo di vivere, del dominare gli istinti e del giudizio futuro di Dio, Felice si spaventò e disse «Basta, per ora puoi andare. Ti farò chiamare quando avrò tempo». Intanto sperava di poter ricevere da Paolo un po’ di soldi, per questo lo faceva chiamare abbastanza spesso e parlava con lui” (Atti 24.25).

Un’altra volta” e “Quando avrò tempo”, frasi che denotano quanto sia distante, da chi appartiene al terreno indurito della strada, la comprensione del fatto che la vita non ci appartiene perché può finire da un momento all’altro senza che possiamo far nulla per impedirlo, la mancata acquisizione del principio del pericolo e del giudizio: se nessuno in balia dell’acqua profonda e agitata rifiuta un salvagente, l’idea, il concetto del Dio che vuole salvare dalla perdizione eterna è disprezzato, sottovalutato, ritenuto procrastinabile.

Il secondo terreno è quello che ha pietre e poca terra: qui, a differenza del primo, il seme germoglia, ma non essendo la terra sufficientemente profonda, la piantina viene bruciata dal sole, che altrimenti le avrebbe dato vita. Possiamo vedere in questo ambito anche la figura di Giuda Iscariotha, che percorse al pari degli altri le strade della Galilea e della Giudea patendo la sete e il caldo, vivendo di poco (ma rubando dalla cassa comune) e che alla fine tradì il suo Maestro coscientemente per trenta sicli d’argento, il prezzo di uno schiavo. Pensiamo anche al “giovane ricco” di cui parla Matteo 19.16-22: “Un tale si avvicinò a Gesù e gli disse: «Maestro, che devo fare di buono per avere la vita eterna?». Gesù gli rispose: «Perché m’interroghi intorno a ciò che è buono? Uno solo è il buono. Ma se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti». «Quali?» gli chiese. E Gesù rispose: «Questi: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso.Onora tuo padre e tua madre, e ama il tuo prossimo come te stesso». E il giovane a lui: «Tutte queste cose le ho osservate; che mi manca ancora?» Gesù gli disse: «Se vuoi essere perfetto, va’, vendi ciò che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro nei cieli; poi, vieni e seguimi». Ma il giovane, udita questa parola, se ne andò rattristato, perché aveva molti beni”.

Altro esempio lo troviamo in Dema, compagno d’opera di Paolo che, a un certo punto, preferì tornare ad occuparsi di filosofia anziché proseguire l’evangelizzazione con lui. I termini con cui l’apostolo si esprime, cioè “Dema mi ha lasciato, avendo amato il mondo presente, e se ne è andato a Tessalonica” (2 Timoteo 4.10,11), ci lasciano pensare che il suo abbandono non sia stato dovuto al fatto che la vita apostolica fosse divenuta pesante e volesse riposarsi, ma una scelta: amò “il mondo presente” e non quello futuro. Ancora, l’opera del sole ci richiama Osea 6.4: “Il vostro amore è come una nube del mattino, come la rugiada che all’alba svanisce”.

Il terzo terreno cade in mezzo alle spine, cioè ai rovi. O meglio, alle piantine di rovo che crescono più velocemente di lui. All’inizio la loro ombra, l’umidità che si cela tra essi crea un ambiente favorevole al germogliare della piantina, la fa crescere, ma poi finisce per soffocarla. Un fratello identificava qui il popolo di Israele al quale Gesù parlava che, in un’altra parabola, quella degli invitati al “gran convito”, è descritto in modo più preciso: «Ma uno dopo l’altro gli invitati cominciarono a scusarsi. Uno disse: Ho comprato un terreno e devo assolutamente venderlo; ti prego di scusarmi-appellandosi alla norma della Legge -. Un altro disse: Ho comprato cinque paia di buoi e sto andando a provarli. Ti prego di scusarmi-anche questo si appella alla tradizione-. Un terzo invitato gli disse: Mi sono sposato da poco e perciò non posso venire-ricordiamo che la Legge esentava per un anno da un impegno attivo, come ad esempio la guerra, colui che aveva preso moglie-» (Lc 14.18). La variante vista in Mt 22.3 aggiunge «Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati, ma quelli non vollero venire».

Precisando meglio il concetto: gli invitati non erano degli sconosciuti, ma persone che avevano un rapporto con il re che aveva organizzato un banchetto per le nozze del proprio figlio. Tutta la tradizione religiosa millenaria, gli studi dei rabbini, i riti e i sacrifici altro non avevano prodotto se non un rifiuto all’invito di quel “Re” che onoravano a parole, ma non con i fatti.

Certo, questo terreno comprende anche un raggio più vasto, quello di chi viene soffocato da ciò che lo circonda e al quale o attribuisce un valore, o non risponde con fede, che poi è la certezza assoluta dell’aiuto e del soccorso da parte di Dio, della protezione nella vita a prescindere. Questo terreno è quello che mi ha impegnato di più perché mi sono chiesto che colpa abbia, figurativamente parlando, quella piantina se il seme non è caduto nella buona terra. Ebbene, se il rovo è la figura delle “preoccupazioni del mondo”, della “seduzione della ricchezza”, sicuramente questa tenta e crea difficoltà anche a quei credenti che rientrano nel terreno buono, perché altrimenti crescerebbero senza fatica e non avrebbero alcun premio; la differenza è che gli uni se ne lasciano dominare, gli altri non consentono che queste interferiscano nella loro vita spirituale, pur soffrendo perché nel mondo sono comunque. Ecco perché è fondamentale avere ogni giorno cura del nostro uomo interiore, “che si rinnova continuamente ad immagine di chi lo ha creato”. Ricordiamo il dettaglio “Non ha radice in sé ed è incostante”.

C’è poi il quarto terreno, quello definito “buono”, di cui il seminatore si è preso cura prima di operare. Anche questo passaggio non è semplice da spiegare se ci si pongono delle domande “scomode”, perché anche qui la pianta che cresce, apparentemente, lo fa senza sforzo. Chi rientra in questo terreno sono quelli come Natanaele, Lidia, il carceriere di Filippi, Onesiforo, Timoteo, Gaio e tutti quelli che, un tempo peccatori, accettarono di diventare parte attiva nel progetto di Dio per loro prima, e per gli altri uomini poi. Di Natanaele – Bartolomeo abbiamo già trattato, ma ricordiamo Atti 16.14,15: “Ad ascoltare c’era anche una donna di nome Lidia, commerciante di porpora, della città di Tiàtira, una credente in Dio, e il Signore le aprì il cuore per aderire alle parole di Paolo”. E fu battezzata assieme alla sua famiglia.

Al versi da 31 a 34 abbiamo il carceriere: “…poi li condusse fuori e disse «Signori, che cosa devo fare per essere salvato?» Risposero: «Credi nel Signore Gesù e sarai salvato tu e la tua famiglia». E proclamarono la parola del Signore a lui e a tutti quelli della sua casa. Egli li prese con sé a quell’ora della notte, ne lavò le piaghe e subito fu battezzato lui con tutti i suoi; poi li fece salire in casa, apparecchiò la tavola e fu pieno di gioia insieme a tutti i suoi per avere creduto in Dio”. Si potrebbe obiettare che anche costoro avrebbero potuto rientrare nella categoria del terzo terreno, perché non sappiamo come continuò la loro vita, ma il fatto stesso che siano citati come esempio è eloquente e di certo la loro esperienza sarà stata duratura, “fino alla fine”.

C’è però un’applicazione collaterale di questa parabola e cioè che le quattro categorie dei terreni, pur nella loro classificazione ufficiale, non sono rigidamente stagni nel senso che, nella vita umana anche di coloro che crescono nel quarto, possono capitare momenti di cedimento in cui può succedere che si venga temporaneamente sopraffatti dall’arsura, dalle sollecitudini, dalle preoccupazioni della vita materiale, ma non si verifica mai la scelta definitiva di lasciarsi coinvolgere da esse fino in fondo e ribellarsi abbandonando il Signore. La crescita può rallentarsi, si può soffrire e ci si può anche ammalare, ma non capitolare perché sempre e comunque siamo figli del Dio che ha salvato. Per questo motivo credo che Gesù abbia esposto una parabola che cita solo Marco: “Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è matura, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura” (4.26,29). Ed è doveroso, a conclusione di queste brevi riflessioni, sottolineare che Luca, in 8.15, ci dà un particolare che denota fatica: “Quello sul terreno buono sono coloro che, dopo aver ascoltato la Parola con cuore integro e buono, la custodiscono e producono frutto con perseveranza” (ma c’è chi traduce “con sofferenza”). Ci sarà quindi chi verrà chiamato a rispondere del mancato invito al Vangelo, e chi concluderà una vita di testimonianza, ottenendone il premio.

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07.02 – LE PARABOLE DEL REGNO, INTRODUZIONE

7.02 – Le parabole del regno (Introduzione)

 

            Tutti i sinottici, scrivendo del periodo trascorso da Gesù e i suoi lontano da Capernaum “per città e villaggi predicando e annunciando la buona notizia del regno di Dio”, pongono un accento particolare, nella prima parte della loro cronaca, su quello che Lui disse, sui suoi insegnamenti, esattamente come avvenuto sul sermone sul monte che abbiamo analizzato in Matteo 5. Il viaggio missionario di Nostro Signore, sotto l’aspetto della predicazione, partì proprio dalla città in cui viveva in un contesto preciso riferito da Matteo: “Ora in quello stesso giorno Gesù, uscito di casa, si pose a sedere presso il mare. E grandi folle si radunarono intorno a lui, così che egli, salito su una barca, si pose a sedere, e tutta la folla stava in piedi sulla riva” (Matteo 13.1,2).

La nota “In quello stesso giorno” per Matteo è riferito a discorsi che per ragioni narrative e dottrinali raggruppa in un unico contesto, ma che suppongo fosse lo stesso in cui avvenne il pranzo a casa di Simone il fariseo. Prima di esaminare il gruppo cosiddetto delle “parabole del regno”, dobbiamo vedere cosa effettivamente fosse la parabola e perché Gesù l’utilizzò così frequentemente.

Contrariamente a quanto si possa supporre, il metodo della parabole non fu usato solo da Lui, ma era un genere letterario utilizzato per illustrare, con esempi immaginari ma assolutamente veritieri o possibili, una verità morale e religiosa. La parabola può essere confusa con la favola anche se essa ha per protagonisti animali in situazioni inverosimili e ha per lo più lo scopo di intrattenere le persone. Nel mondo antico entrambi i generi abbondavano, ma soprattutto nel giudaismo esisteva il màshàl, il genere parabolico, che troviamo a volte anche nel Talmud e nella Midrash (insegnamento); anche ai tempi di Gesù i Rabbini ne facevano uso per spiegare le Scritture al popolo che le apprezzava e le ricordava con facilità abbinandole al loro corretto significato spiegato dai maestri.

Attraverso le parabole, soprattutto quelle relative al “Regno”, Nostro Signore cercava di proporre delle verità che andavano a cozzare contro l’idea che il popolo aveva di un regno instaurato sulla terra, che come sappiamo si sarebbe dovuto caratterizzare tramite un Messia potente che, alla guida di un esercito invincibile, avrebbe sottomesso tutte le nazioni e le avrebbe governate assieme al suo popolo. Ecco allora che Gesù non dovette solo rifiutarsi di venire proclamato re quando il popolo voleva farlo, ma soprattutto far capire che il regno che avrebbe instaurato un giorno sarebbe stato profondamente diverso da quello che si aspettavano: fu quindi necessario spiegare le verità di quello non dichiarandole apertamente, dando così l’opportunità ai suoi avversari di attaccarlo più di quanto già non facessero, ma velandole, dicendo le stesse cose in maniera diversa. Se ci pensiamo, riguardo alle verità fruibili a pochi, è quello che non solo Gesù, ma tutta la Scrittura fa continuamente presentando simboli, situazioni, verità e descrizioni che possono essere lette solo per la grazia e l’intercessione dello Spirito Santo, deputato alla rivelazione e mettendo da sempre ogni metodo di lettura a lui estraneo nell’errore.

Il discorso che Nostro Signore tenne sulle rive del lago di Galilea, e in privato coi discepoli, è un aggiornamento del sermone sul monte in cui aveva trattato la Legge perché qui, fondamentalmente, parte dai diversi effetti che ha la Parola sulle persone che l’ascoltano (il seminatore) per arrivare alla fine, quando la zizzania verrà legata in fasce per essere bruciata e il grano “riposto nel granaio” o, nella parabola dei pesci, quando “verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà il pianto e lo stridore dei denti”.

In questo nostro studio ci rifaremo alle parabole così come esposte da Matteo che, a differenza di Marco e Luca, le organizza in modo completo: Luca riporta solo quella del seminatore e Marco vi aggiunge quella del granello di senape, specificando “Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro, ma ai discepoli, in privato, spiegava ogni cosa” (Marco 4.33,34).

Questo contesto può generare un falso interrogativo, a parte quanto già detto sulla necessità di un insegnamento prudente da parte di Gesù: la spiegazione del suo insegnamento “simbolico” non era qualcosa di riservato a degli eletti particolari, ma a quanti erano desiderosi di capire. Infatti proprio al termine dell’esposizione della prima parabola, quella del seminatore per noi neppure tanto complicata, leggiamo che “Allora i discepoli gli domandarono che cosa significasse quella parabola” (Luca 8.9): furono i discepoli a chiederlo e non gli altri, che ascoltavano senza capire e nulla dicevano evidentemente perché mancava loro la volontà di approfondire, la sensibilità per recepire, la possibilità di scegliere tra la vita e la morte come aveva fatto da poco l’innominata peccatrice, che arrivò a comprendere di aver bisogno del perdono di Gesù dopo aver assemblato le Sue parole e raggiunta la consapevolezza che avrebbe potuto guarirla dalla condizione di peccato in cui versava.

Al contrario i presenti, certo non tutti perché alla luce dell’esempio della donna che unse i piedi di Gesù i frutti della Parola raramente sono immediati, avevano un interesse che non andava oltre la curiosità e volevano restare ancorati alle loro convinzioni: infatti leggiamo “A voi è dato di conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato.(…) Perché il cuore di questo popolo è divenuto insensibile, essi sono diventati duri d’orecchi e hanno chiuso gli occhi, perché non vedano con gli occhi e non ascoltino con le orecchie, e non intendano col cuore e non si convertano, e io li guarisca” (Matteo 13.11-15).

Si noti che la distinzione “A voi è dato, ma a loro no”, non si riferisce a una scelta arbitraria di Nostro Signore, che in base alle proprie simpatie favorisce alcuni a danno di altri, ma alla condizione spirituale in cui versavano i due gruppi: i discepoli, gli apostoli, chi Lo seguiva e ascoltava dava quotidianamente prova di mettere la propria persona in second’ordine, aveva lasciato ciò che lo legava alla sua quotidianità, rinunciato a ciò che possedeva per seguirlo volendo vivere la vita del Vangelo per capire con le proprie povere forze visto che lo Spirito di Verità non era ancora sceso su di loro. Le altre persone presenti costituivano un grande insieme di estranei al cui interno forse si mescolava qualcuno che sarebbe stato colpito dalle parole di grazia e verità di Gesù e lo avrebbe avvicinato, come effettivamente avvenne. “A loro non è dato” perché non erano “delle sue pecore”.

C’è da precisare che le parole di Nostro Signore sul popolo “diventato insensibile” non sono sue, ma costituiscono un collegamento col profeta Isaia che, in 8.18 e 19.26, scrive le stesse cose. È giusto sottolineare il termine utilizzato, “è diventato insensibile” e “sono diventati duri d’orecchi”, evidentemente riferito a una condizione raggiunta dopo una serie di azioni volontarie, poiché si diventa qualcosa solo con l’esercizio e la pratica, conscia o inconscia. Il fatto che uno divenga insensibile o duro d’orecchi significa che prima non lo era, un po’ quello che avviene con quanti si ammalano dopo una serie di azioni che hanno intossicato il loro organismo. Ecco allora che l’uomo compie sempre, più o meno consapevolmente, un percorso spirituale con azioni che possono giovargli o nuocergli.

Citando poi Giuseppe Ricciotti, a proposito della parabola, scrive “…è chiara, ma anche oscura. È eloquente, ma anche reticente. Per chi la contempli con animo sereno e non preoccupato, è chiara ed eloquente; a chi la scruti con occhio torbido e animo prevenuto, non dice nulla, qualora per lui non dica il contrario di ciò che vuol dire. È dunque non tenebra, ma luce, e luce misericordiosamente adatta per occhi che si trovino in condizioni speciali, cioè puri, non malati”. Occhi che, secondo il testo di Isaia citato, sono stati chiusi deliberatamente, come nel caso dei due sommi sacerdoti che, informati della resurrezione di Lazzaro, anziché aprire gli occhi e voler indagare l’episodio per conoscere i fatti e se necessario riconoscere in Gesù il Figlio di Dio, decisero di far morire entrambi: “Ora i capi dei sacerdoti deliberarono di far morire anche Lazzaro, poiché a motivo di lui molti lasciavano i Giudei e credevano in Gesù” (Giovanni 12.10,11). Il timore di perdere onorabilità e rispetto, che la loro tradizione umana venisse infangata, prevalse sulla verità che avrebbero dovuto ammettere revisionando tutta la loro vita, mettendo in pratica quel “ravvedimento” di cui lo stesso Giovanni Battista aveva predicato, la metànoia.

Il “non udire” di cui parlò Nostro Signore ai discepoli quindi era riferito al fatto che, per la struttura mentale che si era venuta a creare nel popolo a causa del suo rifiuto continuato al messaggio evangelico, questi udivano parole che non andavano oltre al timpano, l’orecchio esteriore, esattamente ciò che avviene nel primo caso offerto dalla parabola del seminatore: “Quando qualcuno ascolta la parola del regno e non la comprende, viene il maligno e rapisce ciò che era stato seminato nel suo cuore” (13.18). Interessante la versione di Marco: “…sono quelli in cui la parola è seminata e, una volta che l’hanno ascoltata, subito viene Satana, e toglie via la parola seminata nei loro cuori” (4.15); qui vediamo che c’è una connessione col non comprendere e l’intervento dell’Avversario che viene “subito” proprio perché la persona la disprezza già a monte, a prescindere. “Subito” perché non fa nessuna fatica: non deve neppure estirpare una piantina, ma semplicemente portar via un seme. La parola non è capita né apprezzata perché il cuore carnale ha già di che soddisfarsi, basta a sé stesso, è già sazio tanto allora quanto oggi. Là dove un cuore basta a se stesso, dove un orecchio non riesce ad udire e dove gli occhi sono chiusi, si ha quindi il verificarsi di quel “…ma a loro non è dato”, che suona come una sentenza.

Ecco allora che tutto torna e, alla fine, è l’uomo stesso che si condanna da solo. Ogni volta che in noi manca una reale volontà di sottomissione allo Spirito di Dio, alla profondità della Sua Parola, subentra la nostra e ci rende incapaci di seguirlo, di essere Suoi strumenti, di vivere pienamente e nella libertà che solo il Vangelo può dare. Amen.

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07.01 – LE DONNE AL SEGUITO DI GESÙ (Luca 8.1-3)

7.01 – Le donne al seguito di Gesù (Luca 8.1-3)

1In seguito egli se ne andava per città e villaggi, predicando e annunciando la buona notizia del regno di Dio. C’erano con lui i Dodici 2e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria, chiamata Maddalena, dalla quale erano usciti sette demòni; 3Giovanna, moglie di Cuza, amministratore di Erode; Susanna e molte altre, che li servivano con i loro beni”.

            Dopo quanto avvenuto in casa di Simone, Luca ci parla della scelta di Gesù di intraprendere un viaggio missionario “per città e villaggi” della Galilea a predicare: non si accontentava quindi del fatto che venisse a lui l’umanità più varia dai paesi circonvicini, ma andò personalmente a cercare quanti non avevano avuto possibilità di intraprendere un viaggio più o meno lungo per ascoltarlo. Il nostro testo specifica che il gruppo di Gesù era composto dagli apostoli e da donne che parteciparono alla vita di quel gruppo, rientrandone quindi a pieno titolo, condividendone fatiche e testimonianza. Un dettaglio molto significativo lo rileviamo al verso 2 e cioè che si trattava di persone “guarite da spiriti cattivi e da infermità” al pari di molti altri uomini nei cui confronti Nostro Signore aveva operato: dov’erano finiti? Perché non Lo avevano seguito, al pari di quelle donne, che se interpellati avrebbero potuto testimoniare quanto la loro vita fosse stata cambiata da una Sua semplice parola? Ricordiamo quanto dettogli dal centurione di Capernaum, “Di’ soltanto una parola, e il mio servo sarà guarito” (Matteo 8.8). Queste donne, quindi, non si accontentarono di avere ricevuto una guarigione nel corpo o nella mente, ma decisero di abbandonare quello che il mondo offriva loro per il servizio apostolico nella sua parte nascosta. E tutto il gruppo che partì da Capernaum seguì la strada della rinuncia prima ancora di quella che portava alle varie “città e villaggi” della Galilea che incontreremo.

Soffermiamoci brevemente sugli anni che aveva Gesù: erano trenta quando aveva iniziato il Suo Ministero Pubblico, in ossequio al fatto che i Leviti lo iniziavano proprio a quell’età secondo Numeri 4.3 “Registrate tutti gli uomini, dai trenta ai cinquant’anni: saranno arruolati per prestare servizio alla tenda dell’incontro”; c’è infatti un nesso tra il ministero sacerdotale degli appartenenti alla tribù di Levi e quello di Nostro Signore, poiché anche quegli uomini dipendevano da Dio non solo per le pratiche religiose, ma per il loro sostentamento essendo le altre tribù quelle che, tramite l’istituzione della decima, dovevano provvedere a loro. Infatti leggiamo “I Leviti non riceveranno in possesso un territorio come le altre tribù d’Israele. In cambio io do loro in possesso le decime che gli israeliti mi offriranno” (Numeri 18.24). È quindi giusto sostenere che Gesù e i suoi discepoli abbandonarono tutto per seguirlo e compiere quelle opere che il piano di salvezza per gli uomini contemplava. Ricordiamo Lui stesso, che aveva appreso il mestiere di falegname–carpentiere dal padre, avrebbe potuto tranquillamente vivere dignitosamente nella sua originaria città di residenza, Nazareth.

Altra considerazione poi va fatta guardando quei dodici che lo seguivano: anche loro avevano un lavoro e delle relazioni sociali che lasciarono vivendo come il loro Maestro. Come scrisse una amico, “A volte l’ospitalità risolveva in parte il loro «Dacci oggi il nostro pane necessario», ma anche altre occasioni consentivano la soluzione: ricordiamo ad esempio gli episodi delle necessità più evidenti, le “Nozze di Cana”, il “Convito a casa di Simone il fariseo” ed altri ancora”. Di quel viaggio e non solo abbiamo quindi due atteggiamenti, quello di Gesù e di coloro che lo seguivano: il primo sapeva tutto quel che avrebbe fatto, chi avrebbe incontrato, guarito e cosa avrebbe detto, i secondi altro non potevano fare se non mettere in pratica anzitempo quel metodo che poi stabilirà l’apostolo Paolo in Ebrei 12.2: “Teniamo lo sguardo fisso in Gesù: è lui che ci ha aperto la strada della fede e ci condurrà fino alla fine” che riassume in un solo verso uno degli aspetti fondamentali di quella che dovrebbe essere la nostra vita dall’incontro con Lui all’eterna dimora, la fine, il fine.

Non possiamo non “Tenere fisso lo sguardo in Gesù” quanto ad esempio e parole, che ci consentono di camminare su sentieri di vita e non di morte, di percorrere una strada senza distrarci perché c’è un obiettivo da raggiungere. E infatti la strada che percorriamo oggi è la stessa di quella intrapresa da molti altri fratelli e sorelle che ci hanno preceduti nel tempo e che ora l’hanno conclusa perché è Lui che, appunto, ci conduce “fino alla fine”.

Luca, poi, ci parla di “alcune donne” e ne menziona tre, segno che quelle citate per nome non furono le uniche: che vi fosse anche la peccatrice innominata che abbiamo incontrato recentemente, perdonata per l’amore dimostrato verso Gesù, in cui vedeva colui che la poteva salvare? Non lo sappiamo, certo è che Maria di Magdala, Giovanna e Susanna non erano persone comuni né per carattere, né per posizione.

 

Maria di Magdala

Era una donna indipendente come le altre del gruppo ed era originaria dell’omonima città chiamata anticamente “El Migdel”, cioè “Torre del faro”, posta sulle rive occidentali del Lago di Galilea. È falsamente ricordata dalla tradizione per essere stata una prostituta e, per giustificare il suo mestiere, si è venuto fare una connessione tra i “sette demoni” da cui fu effettivamente liberata, coi “sette peccati capitali” che sempre la tradizione ha estratto “filosoficamente” dalla lettura delle Scritture. I “sette demoni” hanno invece connessione con una totale infermità mentale che la spingeva a compiere azioni sconnesse in quanto l’Avversario era riuscito a soggiogarla totalmente, al punto da poterla mettere in relazione all’indemoniato di Gadara presso il quale dimorava una “legione di demoni”. Di questo innominato leggiamo: “Costui aveva la sua dimora fra le tombe e nessuno riusciva a tenerlo legato, neanche con catene, perché più volte era stato legato con ceppi e catene, ma aveva spezzato le catene e spaccato i ceppi, e nessuno riusciva più a domarlo. Continuamente, notte e giorno, fra le tombe e sui monti, gridava e si percuoteva con pietre” (Marco 5.3-5). Questo è un aspetto della possessione, non certo la vendita del proprio corpo ad altri.

Credo che di questa Maria non abbiamo nessun racconto riferito alla sua vita passata perché non rileva cos’era un essere umano prima del suo incontro col Cristo, ma quello che ha fatto dopo. Certo è che, con questo accenno ai sette demoni che la possedevano, possiamo capire che Maria seguiva Gesù ed ebbe con lui un rapporto che altre non ebbero proprio perché memore dell’esistenza che conduceva prima del suo incontro con Lui e del suo vecchio stato di miseria morale e spirituale.

È poco probabile che Maria sia stata presente dalla partenza del gruppo da Capernaum soprattutto perché le sue condizioni di indemoniata difficilmente le avrebbero consentito di fare un viaggio, da sola o accompagnata, da Magdala alla città in cui Gesù abitava. Dobbiamo perciò concludere che si aggregò al gruppo quando, dopo la seconda moltiplicazione dei pani, “Dopo aver rimandato a casa la folla, Gesù sì sulla barca e andò nel territorio di Magdala” (Marco 15.39).

La vediamo, a differenza di alcuni discepoli sfiduciati dopo la morte del loro Maestro che iniziavano a dubitare che potesse effettivamente risorgere, andare a visitare il sepolcro con Maria di Cleopa (Matteo 28.1), sappiamo che non temette di essere additata al pubblico disprezzo come sua seguace quando, con Maria madre di Jose, stava ad osservare dove veniva deposto il corpo del Signore. Maria Maddalena, poi, in un passo a me molto caro, è l’unica persona a chiamare Gesù con un possessivo identico, ma diverso a livello spirituale da quello di Tommaso, “Mio Signore”: “Hanno portato via il mio Signore e non so dove lo hanno posto” (Giovanni 20.13). È a lei che Gesù, premiandola, appare per prima una volta risorto: scrive infatti Marco “Risuscitato al mattino del primo giorno dopo il sabato, apparve prima a Maria di Magdala, dalla quale aveva cacciato sette demoni” dandole così anche il privilegio di annunciare ai suoi discepoli l’avvenuta risurrezione. Credo che le si possa attribuire, fatte le proporzioni fra maschile e femminile, la stessa importanza dell’apostolo Pietro, così come Giovanna per Giacomo e Susanna per Giovanni, testimoni di eventi che gli altri discepoli e apostoli non videro.

 

Giovanna

È la conferma del fatto che Gesù non è solo “venuto per i poveri” e che il “Guai a voi, ricchi” non riguarda la quantità dei beni che uno possiede, ma l’uso che se ne fa e l’importanza che questi rivestono nella vita della persona. Giovanna era un’aristocratica, ma se quel “Cuza” fosse stato quell’ ”ufficiale del re” che aveva il figlio che stava per morire, poi guarito da Nostro Signore (Giovanni 4.46-53), spiegherebbe il motivo della sua presenza nel gruppo. Giovanna, il cui nome significa “Amata da Dio”, sarebbe, secondo questa ipotesi, la madre di quel giovane e il marito, per gratitudine, non avrebbe certo posto opposizione di fronte alla sua scelta di seguire Gesù per il tempo che avrebbe voluto. È però doveroso segnalare che non troviamo altre sua notizie nei Vangeli, per cui l’abbinarla a quella guarigione va vista solo come ipotesi. Non si può escludere neppure che frutto della testimonianza di Giovanna fosse la conversione di quel “Menaen, compagno d’infanzia di Erode il Tetrarca” (quindi Antipa) che faceva parte della Comunità di Antiochia in Atti 13.1.

L’importanza dell’opera dello Spirito su Giovanna non è certo da sottovalutare perché pensiamo cos’abbia potuto significare, per una donna abituata alle comodità e agli agi di una corte, patire il caldo, la sete e sicuramente il disprezzo della gente come discepola di Gesù. Anche lei, come Maria di Magdala, Lo seguì perché liberata, anche se non da sette demoni, e comprese che la vera ricchezza e i veri onori non sono quelli che ci tributa il mondo, ma quelli futuri.

 

Susanna

Compare qui per la prima e unica volta. Di lei parla il significato del nome, “Giglio”, fiore importante soprattutto se messo in relazione al “Cantico” di Salomone quando leggiamo “Il mio amore è venuto a godersi il suo giardino, a raccogliere gigli tra aiuole di piante profumate. Io sono del mio amore e il mio amore è mio. Egli si diletta fra i gigli” (6.2). Ora il cantico, definito superficialmente come l’unico testo biblico che celebra l’amore carnale tra uomo e donna, ma che in realtà ha innumerevoli riferimenti al rapporto d’amore tra Cristo e la Chiesa, ha nel giglio un elemento importante perché riassume la bellezza, la purezza, l’innocenza e la fragilità. Il giglio è simbolo di salvezza e dell’intervento di Dio per il Suo popolo: “Sarò come rugiada per Israele, fiorirà come un giglio e metterà radici come un albero del libano” (Osea 14.6).

Susanna, alla luce di questi riferimenti, ritengo sia stata una persona che, per quanto un essere umano lo possa essere, rifletteva le caratteristiche di questo fiore. La sua capacità di distinguersi può essere parafrasata con un’espressione del Siracide: “Come un giglio fra i rovi, così l’amica mia fra le ragazze” (2.1,2). Ricordiamo le parole di Gesù nel discorso sul monte: “Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come loro” (Matteo 6.28,29).

Certo la Susanna di Luca non era quella prima del suo incontro con Gesù: attenta ascoltatrice nelle assemblee della sinagoga, aveva compreso sicuramente le letture relative all’impurità umana, in particolare di Geremia 2.22 “Anche se continui a lavarti con molto sapone, resterà sempre davanti ai miei occhi la macchia della tua colpa” ed aveva trovato nel perdono di Gesù quella purificazione dal peccato per la quale era venuto nel mondo.

Mi piace a questo punto citare le parole di un caro fratello: “Maria di Magdala, Giovanna e Susanna, sperimentarono e provarono cosa aveva significato e comportava essere del peccato introdotto nel mondo dalla disubbidienza di Eva, subendo quotidianamente tutte le conseguenze che ciò aveva comportato; ebbene come fu per Eva, ora anch’esse si trovavano nella stessa possibilità di scegliere tra l’albero della vita, Gesù Cristo, e l’albero della conoscenza del bene e del male, Satana. Saviamente, grazie anche alle opportunità che Gesù concesse loro, scelsero l’albero della vita sotto le cui fronde la morte non sarà più, come non ci sarà più pianto, cordoglio, dolore e la separazione da lui. Dio Padre e Dio figlio non solo hanno dimostrato la primordiale potenza creatrice formando l’uomo ad immagine e somiglianza divina, ma hanno donato la grazia eterna salvando l’uomo peccatore dall’inferno e dalla morte”, amen.

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06.12 – LA PECCATRICE INNOMINATA (Luca 7.36-50)

6.12 – La peccatrice innominata (Luca 7.36-50)

 

36Uno dei farisei lo invitò a mangiare da lui. Egli entrò nella casa del fariseo e si mise a tavola. 37Ed ecco, una donna, una peccatrice di quella città, saputo che si trovava nella casa del fariseo, portò un vaso di profumo; 38stando dietro, presso i piedi di lui, piangendo, cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di profumo. 39Vedendo questo,il fariseo che l’aveva invitato disse tra sé: «Se costui fosse un profeta, saprebbe chi è, e di quale genere è la donna che lo tocca: è una peccatrice!». 40Gesù allora gli disse: «Simone, ho da dirti qualcosa». Ed egli rispose: «Di’ pure, maestro». 41«Un creditore aveva due debitori: uno gli doveva cinquecento denari, l’altro cinquanta. 42Non avendo essi di che restituire, condonò il debito a tutti e due. Chi di loro dunque lo amerà di più?». 43Simone rispose: «Suppongo sia colui al quale ha condonato di più». Gli disse Gesù: «Hai giudicato bene». 44E, volgendosi verso la donna, disse a Simone: «Vedi questa donna? Sono entrato in casa tua e tu non mi hai dato l’acqua per i piedi; lei invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. 45Tu non mi hai dato un bacio; lei invece, da quando sono entrato, non ha cessato di baciarmi i piedi. 46Tu non hai unto con olio il mio capo; lei invece mi ha cosparso i piedi di profumo.47Per questo io ti dico: sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato. Invece colui al quale si perdona poco, ama poco». 48Poi disse a lei: «I tuoi peccati sono perdonati». 49Allora i commensali cominciarono a dire tra sé: «Chi è costui che perdona anche i peccati?». 50Ma egli disse alla donna: «La tua fede ti ha salvata; va’ in pace!».”.

 

            Episodio particolarissimo, proprio di Luca, ci offre una narrazione semplice quanto a messaggio, molto più complessa se vogliamo capire le ragioni delle iniziative e i pensieri dei suoi personaggi. Gesù aveva appena finito il suo discorso riportato nei versi precedenti sulle “città impenitenti”, sulle cose “rivelate ai semplici”e il riposo che avrebbe dato alle anime di chi si sarebbe rivolto a lui ed ecco apparire tra i presenti la figura di Simone, nome che significa “Dio ha ascoltato la mia voce”, fariseo di Capernaum, città in cui si svolse l’episodio: uomo di Legge, pari di Nicodemo, incuriosito dal Suo messaggio, volle avere Gesù con sé a mangiare per farsi un’idea del personaggio più da vicino, per avere argomenti di poter parlare coi suoi pari, per metterlo alla prova. Ciò a cui Nostro Signore fu invitato, non fu certo paragonabile al convito organizzato da Levi Matteo, col quale dava l’addio alla sua professione e voleva forse rallegrarsi coi suoi conoscenti per l’inizio di una vita nuova. Quello di Simone non fu un atto di deferenza, ma un’azione volta alla ricerca di elementi positivi o negativi su Gesù a seconda di come si fosse comportato.

C’è poi la “peccatrice” che molti hanno voluto identificare con Maria di Magdala, o Maria sorella di Lazzaro, o hanno voluto collegare il termine usato da Luca col mestiere di prostituta quando, se così fosse stato, non sarebbe stata ammessa in casa del fariseo. Piuttosto il termine fa riferimento sia a una condizione di peccati non rimessi tramite il sacerdote attraverso i sacrifici della legge cerimoniale, sia a una reputazione non onorevole presso i suoi concittadini. Avrebbe potuto essere, ad esempio, la moglie di un pubblicano, ritenuto servo del potere romano e pertanto disprezzabile. Il “peccatore”, o il suo corrispettivo femminile, è colui che fa ciò che è male agli occhi del Signore e quindi attira un Suo giudizio indipendentemente dai comportamenti adottati.

Ora questa donna, della stessa città in cui Gesù aveva preso dimora con sua madre e i fratelli, per il comportamento avuto con Lui, sappiamo che senza dubbio era stata una Sua attenta ascoltatrice e sicuramente testimone a più di un miracolo perché nulla gli chiede e nulla gli dice, ma parla col linguaggio della riconoscenza senza chiedergli nulla.

A questo punto è necessario fare un breve accenno al momento del pranzo, che per noi è importante e tendiamo a viverlo in modo riservato: indipendentemente dal fatto che ci troviamo da soli o con persone care, quando mangiamo con altri tendiamo a porre delle barriere affinché la nostra tranquillità non sia turbata e se qualcuno ci chiama o suona alla porta in quel frangente ci sentiamo infastiditi. Non così era ai tempi del nostro episodio, perché proprio quando la gente pranzava era possibile entrare nelle case e parlare col proprietario o i suoi eventuali convitati. Nei pressi della tavola si potevano trovare ambulanti, mercanti, poveri che speravano in un boccone da mangiare (vedi la parabola del ricco e Lazzaro), curiosi e varia umanità che, magari passando e se c’era caldo, vedeva la tavolata all’aperto sotto un pergolato o un albero e si fermava coi commensali. Occorre poi considerare il modo di stare a tavola, diverso dal nostro: si pranzava a semicerchio o a ferro di cavallo e i partecipanti stavano sdraiati sul fianco appoggiati al braccio sinistro ripiegato a gomito, con i piedi rivolti all’esterno su delle specie letti come i triclini dei romani.

Torniamo ora alla donna e interroghiamoci, più che sul suo passato, sulle ragioni che la spinsero a comportarsi in quel modo: seppe che si Gesù si trovava a casa di Simone e andò là portando con sé le cose più importanti che aveva, se stessa e quel “vaso di profumo”, o “essenza profumata” che è stato identificato nel Balsamodendron Myrhae o nel nardo, entrambi molto preziosi. Giunta là, individua subito Nostro Signore, segno che doveva averlo visto in altre occasioni. Le modalità con cui si espresse ci consentono di stabilire che avesse fatto, col tempo, un percorso tutto suo di elaborazione sulle parole di Gesù e sugli episodi, non sappiamo quanti né quali, di cui era stata testimone.

Istintivamente viene da pensare che il suo comportamento fosse teso a solo chiedere perdono, ma dalle parole di Gesù “Sono perdonati i suoi peccati, perché ha molto amato”, in collegamento alla parabola dei due debitori, vedremo che non fu così. È e fu un momento delicato: guardando l’episodio per raccogliere gli elementi che ci suggerisce, vediamo che quella donna fa quattro cose, tutte frutto di uno stato d’animo e di un lungo ragionamento a monte: piange, bagna con le lacrime i piedi di Nostro Signore, li asciuga coi suoi capelli, e li cosparge di quel profumo che avrebbe potuto benissimo impiegare in altri modi, per lei più umanamente proficui, come ad esempio vederlo e spendere i soldi per soddisfarsi, cosa che venne in mente ad alcuni, fra cui Giuda, in un analogo episodio avvenuto in casa di un altro Simone, lebbroso: “«Perché questo spreco di profumo? Si poteva venderlo per più di trecento denari e darli ai poveri!» ed erano infuriati contro di lei” (Maro 14.3-9).

Il pianto di un adulto è diverso da quello di un bambino, che accompagna alle lacrime grida per farsi ascoltare fondamentalmente quando viene offeso, si spaventa o si fa male: un adulto piange dalla commozione, perché gli viene a mancare improvvisamente un riferimento, un orientamento e capisce che non ha possibilità di recuperare ciò che ha perso, oppure perché la tensione che ha a lungo accumulato cessa di colpo, quindi viene liberato improvvisamente da qualcosa. Teniamo presente quest’ultimo caso perché va collegato agli altri tre dei comportamenti e più si progredisce nel ragionamento più si acquisiscono certezze: a parte il fatto che era disonorevole per una donna di quel tempo mostrarsi coi capelli sciolti, che asciugare i piedi di una persona in quel modo era cosa da schiavi, è la scelta di quelle membra come luogo di pianto e profumo a dirci quanto lei avesse capito chi in realtà Gesù fosse.

La donna si pone dietro di Lui ponendosi dalla parte dei piedi, che nella Scrittura alludono sempre a un cammino riferito al percorso spirituale passato, presente e futuro indipendente che vadano al bene o al male. Ecco, tra l’altro, la ragione per la quale Nostro Signore lavò personalmente i piedi agli apostoli: quando Pietro chiese “Signore, tu lavi i piedi a me?”, la risposta fu “Quello che io faccio non lo capisci, lo capirai dopo.(…) Se non ti laverò, non avrai parte con me” (Giovanni 13.6-8).

Possiamo a questo punto capire che, rivolgendo le sue attenzioni ai piedi di Gesù, quella donna considerasse tutto quanto Lui aveva fatto fino ad allora, e da allora avrebbe fatto, per lei e per tutti quelli che Lo avrebbero riconosciuto come Figlio di Dio e figlio dell’uomo; guardò i piedi di Gesù da vicino e pensò a tutte le vie che aveva percorso e avrebbe intrapreso per salvare, predicare, guarire. Conscia della sua condizione, voleva che, tra le tante preghiere che i suoi contemporanei gli avevano rivolto, ci fosse posto anche per lei. Il pianto fu l’unico modo di comunicare con Lui. Non quello finto dei lamentatori di professione che venivano ingaggiati ai funerali, ma qualcosa che divenne preghiera da sé. Cosa avrebbe potuto chiedere o dire a Gesù? Sapeva di avere bisogno di perdono, di rinnovamento, di qualcosa che cambiasse la sua vita che continuava impossibile sotto il peso dei peccati, e si rivolge al solo in grado di salvarla. Nel suo parlare senza dire, c’era una richiesta alla quale si accompagnava un ringraziamento comunque. Non era poco. La frase “Signore, se tu vuoi puoi guarirmi” detta da un malato nel corpo è qualcosa di immediato perché tutti vedono quella malattia, ma quando un peccatore chiede a Gesù di essere perdonato, quindi di guarire ma in un altro modo, ci troviamo già di fronte a un miracolo. “Se tu vuoi, puoi” fu il senso di quelle lacrime, di quel profumo, di quei capelli. Al pianto si accompagnava un senso di profonda gratitudine. Anche oggi nella vita della persona ci possono essere preghiere che non vengono formulate mediante concetti ordinati e distinti, ma con suoni interiori e/o lacrime: lo stesso avvenne con la peccatrice innominata incapace di articolare un discorso perché troppe e tutte assieme sarebbero state le cose da dire. Tanti infatti sono i contenuti della sua preghiera, che è al tempo stesso una lode per il Suo esistere, e un perdono desiderato, ritenuto per certo perché fondato sulle Sue promesse, ma bisognoso di un cenno, di quel “di’ soltanto una parola” che avrebbe reso ufficiale l’alleggerimento da quella condizione di peccato importabile.

Se Nostro Signore capì immediatamente il linguaggio e lo spirito di quella persona, non così Simone, che giudica inopportuno tutto quanto stava avvenendo: quanto faceva quella donna non meritava la minima attenzione perché era una peccatrice che lo contaminava e Gesù non era il profeta che diceva di essere perché, non mandandola via, dimostrava di non sapere chi fosse. Conoscendo i pensieri del fariseo, Gesù inizia a parlargli ma la frase di apertura, “Simone, ho qualcosa da dirti”, è ben diversa dalle invettive con le quali si rivolge solitamente alla sua categoria segno che modo di ragionare di Simone, per quanto frutto della corrente cui apparteneva, era il risultato di una mente strutturata e condizionata dal sistema cui apparteneva e per questo, anziché un rimprovero, cerca un recupero. La religione, la fede non autentica, quella che non si dimostra con l’amore, rendono l’uomo presuntuoso e arrogante nei confronti dei propri simili soprattutto quando sbagliano perché, giudicandoli secondo rigide norme precostituite, a tutto li spinge tranne che cercare la “trave”nel proprio occhio, o a ricordare cos’erano prima della loro conversione. La prima cosa che fa un religioso è considerare gli altri impuri e vede in se stesso un privilegiato, un vivente in un mondo di morti: la questione però non è se questo sia vero o falso, ma se quell’esser vivi porti un frutto oppure no. E se è previsto che nel nome di Gesù si possa morire, è terribile e diabolico che nel Suo nome si possa uccidere, ferire, giudicare non secondo le logiche della carità. E solo un intervento di Dio può guarire da questa situazione, basta che la persona lo accetti.

E arriviamo così alla parabola dei due debitori ricordata poco sopra: entrambi dovevano al creditore una somma, ma il secondo era in difetto di un decimo rispetto al primo. Entrambi non avevano di che pagare e questa è la condizione di ogni essere umano nei confronti di Dio. Quindi con questa parabola Gesù intende far ragionare Simone sul fatto che, se quella donna era consapevole della sua posizione e aveva capito che poteva essere perdonata e iniziare una vita nuova, lui non lo era, cioè non solo ignorava di essere un debitore, ma quel l’idea non lo sfiorava nemmeno e il giudice restava sempre lui, con la sua Legge, le sue usanze, i suoi preconcetti. Il paragone tra i due creditori era ipotetico e teso a sottolineare l’importanza del comprendere il valore del perdono di Dio, che quella la donna aveva acquisito, e non il fatto che Simone fosse un privilegiato cui poco doveva essere rimesso. Non risulta che per lui ci sia stato perdono, per lo meno in quella circostanza.

Quando poi un visitatore entrava in una casa, il proprietario lo abbracciava, lo baciava e gli offriva l’acqua per lavarsi i piedi, sporchi di polvere o di fango, o glieli faceva lavare dai servitori, azioni che Simone non aveva fatto evidentemente per rimarcare la distanza tra lui e Gesù, che avrebbe dovuto essere l’ospite di maggiore riguardo. Ai convitati si era soliti offrire anche un po’ d’olio per ungersi il capo e la barba prima o durante il banchetto, altra usanza trascurata eppure per l’epoca importante. L’innominata peccatrice, invece, aveva trasformato un elemento del galateo di allora in un atto di adorazione e preghiera. La frase “da quando sono entrato”, poi, ci dice che era lì prima dell’arrivo di Nostro Signore ad aspettarlo, o che era tra la gente che lo accompagnava.

C’è poi quel “ha molto amato”, che riassume il sentimento che aveva animato quella persona non nel suo passato remoto, ma in quello prossimo, lì al pranzo, in cui aveva manifestato tutta la sua riconoscenza nel chiedere il perdono, che la propria vita venisse riscattata. Era un’idea che si era fatta in lei poco a poco, mettendo da parte le parole e le azioni chi di poteva rimettere i suoi peccati. E “Per questo le sono perdonati i suoi peccati”.

C’è poi la fede che l’aveva salvata, quindi la certezza del fatto che, se c’era stato un “prima” che ben conosceva, ci sarebbe stato un “dopo”: la guarigione dei tanti malati di cui aveva sentito parlare, o era stata testimone, era solo l’aspetto di un’altra guarigione, ben più importante, quella che l’avrebbe portata alla vita mettendola in condizione di ricominciare da capo. Così come Gesù aveva letto i pensieri di Simone rivelandoglieli, altrettanto aveva fatto con la donna, di cui conosceva il passato e le ragioni che l’avevano portata a quel pianto e a quei gesti. “La tua fede di ha salvata” è la conferma del fatto che solo la consapevolezza di quello che siamo davanti a Dio, e quindi a chiedere il perdono, può portarci all’esenzione dal destino comune che avranno tutti coloro che scelgono di vivere escludendosi dalla Sua realtà. Ed è anche qualcosa che, una volta avuta la Grazia, non possiamo permetterci di abbandonare, perché altrimenti avremmo avuto una remissione teorica, saremmo quella piantina di grano soffocata dalle spine: moriremmo. La fede va gestita nel quotidiano, non può essere un vestito o un oggetto che prendiamo solo quando ne abbiamo bisogno come faceva Simone che, nonostante la conoscenza che aveva della Parola scritta, l’aveva ridotta a un compendio di regole, orgoglioso di osservarle, ma senza possedere la capacità di valutazione e discernimento dell’umile.

Resta da capire cosa sia il “molto” e il “poco” di cui Gesù ha parlato: non credo che questi indichino la quantità dei peccati che una persona può avere nel suo passato e che si porti con sé fino a perdono raggiunto: è piuttosto una valutazione personale. In altri termini la “peccatrice” non era peggiore di Simone perché entrambi erano privi della Grazia, quindi volontariamente fuori dal progetto di Dio per loro; la differenza stava nel fatto che una voleva entrarvi e aveva compreso quanto fosse importante, l’altro era convinto di esservi già oppure non si poneva il problema essendo un maestro e confrontandosi, presumo quotidianamente, coi suoi pari seduti sulla loro giustizia e intenti in complesse dissertazioni dottrinali, attenti al particolare, ma incapaci di guardare al generale. Sappiamo invece, per esperienza, che l’istruzione passa attraverso un metodo opposto, cioè dal generale al particolare.

La donna sapeva di avere un debito molto grande e, per alleggerire il suo peso, avrebbe potuto ricorrere al metodo del confronto, vale a dire individuare chi era peggio di lei e consolarsi col fatto che, per quanto peccatrice, c’era sempre chi si comportava peggio, ma non lo fece. Simone invece è possibile che ringraziasse Dio di non essere “come gli altri uomini”, preghiera che leggiamo nella parabola del Fariseo e del pubblicano, la cui giustizia era fondata sui digiuni e le elemosine, fatti preferibilmente in modo tale che gli altri lo sapessero. Tutti questi personaggi si erano dimenticati che la salvezza non risiede in un’organizzazione o in un modo di pensare o vivere, ma nel confronto costante tra quello che si è e si dovrebbe essere, camminando mano nella mano con il Figlio di Dio che ci ha voluti salvare, il cui nome è benedetto in eterno. Amen.

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06.11 – VI DARÒ RISTORO (Matteo 11.28)

6.11 – Io (Matteo 11.28)

 

28Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro.

 

            Sono convinto che dare per scontato che le cose avvengano o siano come ce le aspettiamo sia un errore che commettiamo frequentemente senza rendercene conto e che lo stesso avvenga spesso nella lettura del testo biblico: la mente istintivamente si focalizza sui soggetti, sugli elementi che risaltano a livello immediato. Nel verso 28 di Matteo, ad esempio, tendiamo a sottolineare “venite a me”, “stanchi e oppressi” e “vi darò ristoro” (o “riposo”, o “vi alleggerirò” come altri traducono); ma quell’ “Io”, però, si tende a considerarlo come un  qualcosa in più, di non rilevante a fronte della promessa di pace, quiete, serenità e non si pensa che è proprio quel pronome a fare la differenza, a dare un tono rafforzativo al tutto. Un medico che dice a un paziente “ti guarirò” indubbiamente gli fa una promessa che genera in lui sollievo, ma anteponendo “Io” si distingue dai propri colleghi, è conscio di aver compreso chiaramente il problema di quella persona, prende un impegno che coinvolge la sua onorabilità, quasi a dire “Io e nessun altro”. La stessa cosa, credo con garanzie infinitamente superiori perché l’essere umano può sempre sbagliarsi, la fa Nostro Signore con questa frase. “Io” e nessun altro.

Lo stesso concetto appare nel primo comandamento: “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile: non avrai altri dèi di fronte a me” (Esodo 20.2,3), identico in Deuteronomio 5.6,7. Ai tempi in cui furono scritte queste parole, quel “ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile” alludeva solo apparentemente al fatto che il popolo di Israele era stato posto nella condizione di abbandonare quel Paese, ma soprattutto faceva riferimento a tutte le iniziative prese da Dio per liberarli: ricordiamo, stando nel generale, le dieci piaghe, le acque del Mar Rosso che si aprirono per far passare il popolo e si richiusero annientando l’esercito del Faraone, la manna, le quaglie, l’acqua scaturita dalla roccia e la vittoria su Amalek. L’uscita dall’Egitto non fu da un Paese particolarmente malvagio (pensiamo a Giuseppe e al fatto che salvò quel popolo dalla carestia dopo i sette anni di abbondanza), ma da una condizione servile, cioè una realtà in cui la libertà era assente. La schiavitù in cui Israele versava, che possiamo sicuramente definire come “giogo”, non poteva essere che pesante per quanto, quando si trovava in difficoltà nel deserto, la rimpiangesse perché là gli era garantito comunque un tetto e un pasto. L’elezione che aveva ricevuto in dono avrebbe però comportato il possesso della terra promessa e il privilegio di diventare una nazione che avrebbe dovuto fare da luce a tutti gli altri popoli della terra.

Così il libro dell’Esodo, con la cronaca dettagliata di tutti gli errori, i dubbi, i ripensamenti di Israele, è al tempo stesso anche rappresentazione della difficoltà del cammino di ogni credente, soggetto a sbagliare e, nella sua immaturità, a volte a rimpiangere egoisticamente e carnalmente il tempo in cui era schiavo dell’Avversario, più o meno inserito nel mondo illusorio da lui organizzato. La lettura del testo biblico, non importa di quale libro, ci insegna che furono in pochi coloro che seppero attenersi alle promesse di un futuro senza voltarsi indietro.

Quanto al comandamento stretto, “Non avrai altri dèi nel mio cospetto” è un imperativo cui si segue la precisazione: “al mio cospetto”, cioè, parafrasando, “Per quanti dèi tu possa eleggere al mio posto, che possano soddisfare la tua carnalità, “Io” li distruggerò, “Io” conoscerò le ragioni della tua scelta e ti giudicherò. È sempre stato così. Il dio che l’uomo si sceglie contempla una gamma quasi infinita di possibilità che vanno da un essere immaginario superiore (vedi il vitello d’oro in cui la rappresentazione terrena si univa all’unicità di quel metallo che faceva costantemente riferimento al Dio vivente e vero) a un proprio simile, falso profeta inevitabilmente, o a se stessi.

Ricordiamo in opposizione, rimanendo ai tempi dell’Antico Patto, quell’ “Io” ripetuto addirittura due volte in Isaia 51.12 “Io, io sono il vostro consolatore”. Possiamo definire questo grido l’unica prospettiva di rifugio anche nel futuro imminente quando “i cieli si dissolveranno come fumo, la terra si logorerà come un vestito e i suoi abitanti moriranno come larve. Ma la mia salvezza durerà per sempre, la mia giustizia non verrà distrutta” (v. 6). La temporaneità e fragilità del mondo che conosciamo in opposizione alla Sua giustizia, che non passerà esattamente come le parole di Cristo. Passeranno infatti “i cieli e la terra”, quindi qualunque nostro riferimento in questa vita, ma non il Vangelo, la “buona notizia” con la salvezza che porta.

In un capitolo precedente ho citato un altro “Io” che va ricordato “Io so i pensieri che medito per voi, pensieri di pace e non di sventura, per darvi un avvenire e una speranza. Voi mi invocherete e ricorrerete a me e io vi esaudirò. mi cercherete e mi troverete perché mi cercherete con tutto il cuore, mi lascerò trovare da voi” (Geremia 29.11,12). Ebbene, con le parole di Gesù abbiamo un primo adempimento di questa profezia, perché “Egli dà forza allo stanco e moltiplica il vigore allo spossato” (Isaia 40.29), ma quel “darò” di Gesù è condizionato dal “venite a me”. È un atto di fede che scaturisce dalla consapevolezza di non trovare riposo altrove, è la rivelazione del patto antico, imperfetto perché ombra del Nuovo. Credo che ogni credente quel “riposo” lo abbia prima cercato invano da altre parti, da altri dèi, in associazioni, magari in una fede politica, in altre persone, salvo poi scoprire che gli altri dèi non esistono, le associazioni più o meno caritatevoli si basano sull’interesse, una falsa giustizia e un finto vivere e che le persone che ascoltano le persone spesso fingono, o per lo meno recepiscono ciò che vogliono. Quando l’apostolo Paolo scriveva “Quando ero bambino, pensavo da bambino” si riferiva anche al fatto che è quando l’essere umano è inesperto e non conosce la vita si illude di trovare sempre chi lo ascolta e lo capisce; divenuto adulto, però, acquisisce la consapevolezza che, se non è in grado di gestire l’incomprensione, l’abbandono e le altre avversità dentro di sé, in realtà non trova nessuno disposto ad aiutarlo, a meno che non acquisisca una consapevolezza diversa, quell’essere in grado di dire “Abba, Padre” che lo Spirito Santo lo autorizza a pronunciare.

C’è quindi un “Io” che gli dà riposo, e un “Io” che lo allontana, il nostro, quello che appartiene alla carne e sul quale ha indagato a tutto campo la psicanalisi, riuscendovi solo in parte: è l’io che vuole emergere sempre, che organizza, rimuove, sublima, scinde, proietta, azioni dettate dalla necessità di sopravvivere e che in poche parole sono tappe obbligate se si vuole continuare ad esistere su quel “suolo maledetto per causa tua” (Genesi 3.17). Il secondo “Io” sarà sempre in antitesi col primo per cui ascoltandolo, il vero “riposo” sarà solo apparente, transitorio, soggetto a incrinarsi da un momento all’altro.

Avendo citato i due profeti sotto alcuni aspetti “maggiori” dell’antichità, credo sia utile rileggere Geremia 6.16, che abbiamo citato nello scorso capitolo, riportandone il seguito: “Fermatevi nelle strade e guardate, informatevi dei sentieri del passato, dove sta la strada buona percorretela, così troverete riposo per la vostra vita. Ma essi hanno risposto: Non la percorreremo. Ho posto sentinelle per vegliare su di voi: Fate attenzione al suono della tromba. Hanno risposto: Non ci baderemo”. Ecco: informarsi sui sentieri del passato significa ripensare profondamente ai messaggi contenuti nella legge e fare memoria storica su cosa voglia dire avere la benedizione o meno di Dio. Il riposo per la vita lo si ottiene sminuendo il secondo “Io”, perché la “strada buona” da percorrere la si trova proprio dopo un serio inventario spirituale. Nei versi di Geremia ci sono due risposte negative: il primo, “Non la percorreremo” è il rifiuto a seguire la buona strada, ma il secondo, “Non ci baderemo” è il rifiuto all’ascolto del suono della “tromba”, strumento che nella Scrittura allude sempre a una chiamata generale, un appello di Dio al quale è impossibile sottrarsi. E nel nostro caso è riferita a Gesù Cristo che chiama oggi perché nessuno sia escluso in futuro dal suo Regno.

Abbiamo ricordato il “Venite a me”: Gesù, per i riferimenti all’Antico Patto che abbiamo citato, se ci pensiamo non dà ai suoi uditori un invito nuovo, per lo meno non apparentemente, perché sempre da Isaia abbiamo “Volgetevi a me e sarete salvi, voi tutti confini della terra, perché io sono Dio, non ce n’è altri” (45.22); la differenza piuttosto risiede nel fatto che ora a parlare non è YHWH attraverso un profeta, ma Dio stesso nella sua posizione di Figlio dell’uomo, del Dio uomo che parla ad altri uomini, del Dio che conosce la sofferenza e che sa cosa vuol dire vivere in un corpo di carne. Gesù è Colui che ha rivelato pienamente la gratuità dell’amore del Padre già anticipato con altre parole e con altri inviti: “O voi tutti che siete assetati– quindi la stessa selezione che troviamo nel verso di Matteo – venite all’acqua; voi che non avete denaro– perché davanti a Dio non serve – venite, comprate e mangiate; venite, comprate senza denaro, senza pagare, vino e latte. Perché spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro guadagno per ciò che non sazia? Su, ascoltatemi e mangerete cose buone e gusterete cibi succulenti. Porgete l’orecchio e venite a me, ascoltate e vivrete” (55.1-3).

E anche qui troviamo in Cristo l’aggiornamento, perché l’assetato, il povero in spirito, l’afflitto, chi prende coscienza della sua condizione, può trovare in Lui un rimedio totale, e qui è Lui a parlare: “Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura, dal suo grembo sgorgheranno fiumi d’acqua viva” (Giovanni 7.37). Quindi non solo prenderà l’acqua della vita, quella di cui parlò alla donna samaritana, ma sarà in grado di portare altri a quell’acqua.

Il riposo di cui parla Nostro Signore è quindi, per la vita che viviamo anche sulla terra, una condizione nuova, diversa, dove chi costruisce lo fa sul serio, accumulando beni non materiali, è quello che solo il “Re Giusto” può dare ora e per il futuro di eternità con Lui: “Ecco, un re regnerà secondo giustizia e i prìncipi governeranno secondo diritto. Ognuno sarà come un riparo contro il vento e un rifugio contro l’acquazzone, come canali d’acqua in una steppa, come l’ombra di una grande roccia su terra arida. Non saranno più accecati gli occhi di chi vede– perché lo Spirito Santo li metterà nella condizione di vedere realmente – e gli orecchi di chi sente saranno attenti– alle parole del Re –. L’abietto non sarà più chiamato nobile né l’imbroglione sarà detto gentiluomo, poiché l’abietto fa discorsi abietti e il suo cuore trama l’iniquità per commettere empietà e proferire errori intorno al Signore, per lasciare vuoto lo stomaco dell’affamato e far mancare la bevanda all’assetato” (Isaia 32.1-6).

Riflettendo brevemente su questi ultimi versi, vediamo la figura dei prìncipi, in cui possiamo vedere quelli che il Signore ha posto come membri autorevoli della Sua Chiesa, che la gestiscono secondo i Suoi princìpi e metodi, naturalmente spirituali. Questo ci parla di responsabilità e di quanto sia frequente, purtroppo, incontrarne di falsi perché i “falsi profeti sedurranno molti”. Poi si passa a tutti quelli che ascolteranno: non saranno disorientati, ciascuno intento nelle proprie faccende, isolati nel proprio cammino, ma dei ripari contro il vento, quello che porta la polvere rendendo difficile il respiro e il vedere, o l’acquazzone (non la pioggia per la quale basta un semplice ombrello). La figura del canale d’acqua nella steppa, poi, indica l’essere portatori di vita dove crescere è difficile e, allo stesso modo, l’ombra della grande roccia su terra arida ci parla di sollievo, ristoro, riposo. Segue poi il contrasto tra l’onore umano di cui godono gli abietti e gli imbroglioni, sostenuti da una stima che non meritano da parte di chi, piuttosto che vederli per quello che sono, crede alle loro parole senza osservare i frutti che portano. Queste due categorie di persone non si limitano a fare del male ai deboli e ai sofferenti, ma si travestono di religiosità, senza sfamare e dissetare chi ha bisogno, perfetta descrizione di quanti appartengono al mondo politico, industriale e mediatico oggi.

Ebbene anche da tutte queste persone, dal mondo terreno che non concede altre possibilità se non quelle di essere uno che umilia e prevarica o un umiliato o prevaricato, Nostro Signore promette non una tregua, ma una drastica, radicale interruzione vista in quello “strappare” dal “presente malvagio secolo”così sempre uguale nelle sue manifestazioni perché è Dio ad essere creativo, non certo l’Avversario. Essere figli di Dio comporta il riposo nelle sue promesse e la conseguente uscita dal circuito malato per la sopravvivenza a tutti i costi della carne. Amen.

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05.50 – I FALSI PROFETI (Matteo 7.15-20)

05.51 – Falsi profeti (Matteo 7.15-20)

 

15Guardatevi dai falsi profeti, che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci! 16Dai loro frutti li riconoscerete. Si raccoglie forse uva dagli spini, o fichi dai rovi? 17Così ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi; 18un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produrre frutti buoni. 19Ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco. 20Dai loro frutti dunque li riconoscerete.”.

 

Quando i servi del padrone di casa nella parabola della zizzania andarono ad avvisarlo del fatto che, nel campo di grano da lui seminato, erano apparse anche piantine diverse, questi rispose “Un nemico ha fatto questo” (Matteo 13.28). Non troviamo nelle parole di quell’uomo stupore, non uno scatto d’ira, ma soltanto un’affermazione che sembra a sostegno di un fatto inevitabile, conosciuto, previsto: “Un nemico ha fatto questo”. Il grano seminato era buono, ma una persona avversa, per minare il progetto del padrone di quel campo, aveva deciso di seminarvi un’erbacea destinata a far molto danno perché la zizzania si confonde facilmente con il grano e, soprattutto, produce una farina ad alto potere intossicante. Gesù spiegò poi ai discepoli la parabola con queste parole: “Colui che semina il buon seme è il Figlio dell’uomo. Il campo è il mondo. Il seme buono sono i figli del regno, la zizzania sono i figli del maligno e il nemico che l’ha seminata è il diavolo. La mietitura rappresenta la fine del mondo e i mietitori sono gli angeli. Come dunque si raccoglie la zizzania e si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo”.

Le parole dei versi che oggi esaminiamo credo coinvolgano anche questa parabola sotto il profilo dell’inevitabilità perché tutto quanto viene prodotto a danno dell’opera di Dio viene da Satana, da quel “nemico” che da quando fu creato Adamo con sua moglie ha sempre cercato in tutti i modi di rovinare la loro relazione con Lui. Certo non solo di loro due, ma di tutta la discendenza che ne sarebbe derivata, nella quale anche noi rientriamo.

È bello considerare che Nostro Signore, al verso 15, non mette solo genericamente in guardia i suoi uditori dai “falsi profeti”, ma dia in realtà uno spaccato storico dell’opera di Satana riguardo all’inquinamento del “campo di Dio” comprendendo passato, presente e futuro perché si tratta di personaggi che sono sempre esistiti, esistono ed esisteranno: pensiamo ai molti impostori apparsi ai tempi dell’Antico Patto, quindi al passato, al presente relativo con tutti quelli che pretendevano di essere il Messia in opposizione a Gesù, Unico autorizzato a rivelare il Padre, e per il futuro all’opera terribile che verrà fatta tanto nel campo generico del mondo, quanto in mezzo al gregge. “Vengono a voi in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci”.

Gesù, nei versi in esame, si presenta così come unico Profeta abilitato a rivelare Dio Padre e anticipa al tempo stesso quanto poi dirà ai suoi discepoli sugli eventi futuri, dalla sua resurrezione al suo ritorno: “Sorgeranno molti falsi profeti e inganneranno molti; per il dilagare dell’iniquità si raffredderà l’amore di molti. Ma chi avrà perseverato fino alla fine, sarà salvato. Questo vangelo del Regno sarà annunziato a tutto il mondo, perché ne sia data testimonianza a tutti i popoli, e allora verrà la fine” (Matteo 24.11-12). Il falso profeta, che nella sua forma peggiore e potenza sorgerà negli “ultimi tempi”, agisce in ambito spirituale col fine di distogliere l’attenzione dell’essere umano dal Dio vero e unico col fine di perderlo. Si tratta di un tema dalla vastità enorme, che comprende falsa scienza e vera ignoranza, superstizione e soprattutto sfrutta la mancanza di conoscenza, a volte colpevole, di chi dovrebbe avere una fede radicata in quella Parola che non può sbagliare.

Già gli uditori di Gesù presenti sul monte, come già rilevato in altre volte occasioni, avevano gli elementi per comprendere le sue parole perché possedevano un riferimento non solo nella storia del loro popolo, ma soprattutto nella Legge di Mosè, dove in Deuteronomio 13.2-4 si legge “Qualora sorga in mezzo a te un profeta o un sognatore che ti proponga un segno o un prodigio, e il segno e il prodigio annunciato succeda, ed egli di dica «Seguiamo dèi stranieri, che tu non hai conosciuto, e serviamoli», tu non dovrai ascoltare le parole di quel profeta o di quel sognatore, perché il Signore, vostro Dio, vi mette alla prova per sapere se amate il Signore, vostro Dio, con tutto il cuore e con tutta l’anima”.

Il falso profeta, allora, è qualcosa di più complesso di un persecutore rozzo e ignorante; non è una persona immediatamente riconoscibile come negativa, ma può presentare le sue dottrine col sostegno di miracoli, come ad esempio avvenuto – andando indietro nel tempo – con i sacerdoti del Faraone che, per un certo tempo, riuscirono a compiere gli stessi prodigi di Mosè. E dando uno sguardo a quanto avvenuto nella Chiesa, non occorre andare ai periodi recenti della storia contemporanea, dove possiamo trovare i Testimoni di Geova o i Mormoni come espressione severa di travisamento dottrinale, ma basta trovare le tracce che i falsi profeti, o persone a loro collegabili, hanno lasciato negli scritti del Nuovo Patto: troviamo ad esempio Diòtrefe, personaggio particolare poi imitato da molti nel corso della storia, che cercava il primato nella sua Comunità. Giovanni nella sua terza lettera, scrive ”Ho scritto qualche parola alla Chiesa, ma Diòtrefe, che ambisce il primo posto tra loro, non ci vuole accogliere. Per questo, se verrò, gli rinfaccerò le cose che va facendo, sparlando di noi con discorsi maligni. Non contento di questo, non riceve i fratelli e impedisce di farlo a quelli che lo vorrebbero e li scaccia dalla Chiesa” (3 Giovanni vv.9-10).

Diòtrefe è allora l’immagine della persona presuntuosa e ambiziosa, di chi ha bisogno di un pubblico indipendentemente dalla qualità del messaggio e teme il confronto con esperienze e rivelazioni diverse e migliori, impedendo lo sviluppo della verità. Diòtrefe temeva le parole che Giovanni e i suoi collaboratori avrebbero potuto portare alla Chiesa di cui era certamente un anziano. Questo personaggio è però l’antitesi del pastore perché ha trasferito tutti gli inutili difetti umani in un campo spirituale e, con la propria condotta, fa solo danni non ammettendo la pluralità dei doni e arrestando la crescita della Chiesa.

Altro esempio negativo lo troviamo in Imeneo e Filéto e questa volta è l’apostolo Paolo a scrivere; “Evita le chiacchiere vuote e perverse, perché spingono sempre più all’empietà quelli che le fanno; la parola di costoro infatti si propagherà come una cancrena. Fra questi vi sono Imeneo e Fileto, i quali hanno deviato dalla verità, sostenendo che la resurrezione è già avvenuta e così sconvolgono la fede di alcuni” (2 Timoteo 2.16-18). In realtà, leggendo le lettere di Paolo come degli altri autori, vediamo che molto spesso si trovano nelle condizioni di confutare dottrine estranee; a volte sono errori apparentemente di poco conto, altre sono negazioni della divinità di Gesù e della sua opera di salvezza.

Il falso profeta viene in veste di pecora, ma dentro è un lupo malvagio: si dichiara quindi credente, ma agisce traviando i membri di una Chiesa a partire dai più immaturi. Riconoscere il falso profeta è piuttosto semplice, come scrive l’apostolo Giovanni: “Carissimi, non prestate fede ad ogni spirito, ma mettete alla prova gli spiriti, per saggiare se provengono veramente da Dio, poiché molti falsi profeti sono venuti nel mondo. In questo potete riconoscere lo Spirito di Dio: ogni spirito che riconosce Gesù Cristo venuto nella carne, è da Dio; ogni spirito che non riconosce Gesù, non è da Dio. Questo è lo spirito dell’anticristo che, come avete udito, viene, anzi è già nel mondo” (1 Giovanni 4.1-3). Lo spirito dell’anticristo sappiamo che si manifesterà ufficialmente nell’epoca stabilita da Dio, eppure ci viene detto che “anzi è già nel mondo”: come è indicativo quell’”anzi”! Ci parla veramente del fatto che presso il Signore “un giorno è come mille anni e mille anni sono come un giorno”, che tanto lo Spirito di Dio che quello a lui avverso agiscono al di là del tempo che scandisce le nostre giornate, gli anni e i secoli. Se c’è la salvezza, così importante, che si costruisce giorno per giorno quanto a identità del credente perché i doni la arricchiscono, c’è anche la perdizione, così terribile, e anche lei subisce lo stesso scorrere perché si forma poco a poco, in modo tanto impercettibile quanto inevitabile per chi non crede ponendosi come ostacolo allo sviluppo della fede.

Il falso profeta non è necessariamente una persona che propone insegnamenti sbagliati o alternativi alla fede genuina, ma è anche chi non fa nulla o agisce per scopi personali nonostante il ruolo da lui rivestito nella Chiesa; ricordiamo Isaia  56.10-11 a proposito dei “guardiani” di Israele, che per noi potrebbero raccordarsi proprio agli “anziani”, “pastori” o “sacerdoti” delle varie Chiese: “I suoi guardiani sono tutti ciechi, non capiscono nulla. Sono tutti cani muti, incapaci di abbaiare; sonnecchiano accovacciati, amano appisolarsi. Ma questi cani avidi, che non sanno saziarsi, sono pastori che non capiscono nulla”. Tutto questo si collega alle parole di Paolo agli anziani di Efeso: “Io so che dopo la mia partenza verranno fra voi lupi rapaci, che non risparmieranno il gregge; perfino in mezzo a voi sorgeranno alcuni a parlare di cose perverse, per attirare discepoli dietro di sé” (Atti 20.29-30).

Proprio per questo motivo il credente è chiamato a vagliare ogni messaggio che gli viene proposto non solo perché in esso possono nascondersi dei contenuti erronei volti a traviarlo senza che se ne accorga, ma anche perché sono possibili interventi soprannaturali per far deviare le masse dalla fede; lo abbiamo già letto e Gesù stesso avvisò i Suoi con queste parole: “…sorgeranno falsi cristi e falsi profeti e faranno segni e prodigi per ingannare, se possibile, gli eletti. Voi, però, fate attenzione! Io vi ho predetto tutto” (Marco 13.21-23).

I “segni e prodigi” sono forse i più pericolosi perché riguardano il campo dell’inspiegabile e sono quelli che, da sempre, spingono gli uomini a credere perché vanno a coinvolgere la loro parte più emotiva e primitiva. Anche qui però la Parola di Dio ha lasciato elementi importanti perché il gregge ne faccia tesoro e non cada nel laccio dell’Avversario; ricordiamo le parole ai Galati “Ma se anche noi stessi, oppure un angelo dal cielo vi annunciasse un vangelo diverso da quello che avete ricevuto, sia anàtema” (1.8). Dalle parole “noi stessi” e “un angelo dal cielo” possiamo capire fino a quanto può spingersi il piano di perdizione nei confronti di chi, divenendo figlio di Dio, si è fatto inevitabilmente bersaglio di Satana; poiché il successo della distruzione delle relazioni si misura anche nella quantità, ecco che l’interesse è rivolto alle masse proprio sfruttando la loro facilità ad essere manipolate e a credere ciò che viene loro propinato: “Nessuno che si compiace vanamente del culto degli angeli e corre dietro alle proprie immaginazioni, gonfio di orgoglio nella sua mente carnale, vi impedisca di conseguire il premio” (Colossesi 2.18). E qui penso alle apparizioni e ai falsi miracoli avvenuti in campo solo apparentemente cristiano che hanno traviato molti.

Ancora, sulla seduzione, sappiamo che “Anche Satana si traveste da angelo di luce. Non è perciò gran cosa se anche i suoi ministri si mascherano da ministri di giustizia; ma la loro fine sarà secondo le loro opere” (2 Corinti 11.14-15).

È allora doveroso che ogni cristiano si chieda sempre se quanto pratica rientra in ciò che il “Vangelo originale” contempla oppure no, se crede in cose aggiunte e appartenenti alla tradizione degli uomini o se legittimamente procedenti da Dio. Non si tratta di aderire a una Chiesa piuttosto che a un’altra, ma di buona pratica, quella essenziale, logica, giusta, che ci mette nelle condizioni di amare il Signore sempre di più e sempre di più essere amati. Perché come credenti siamo chiamati ad essere dei cercatori di verità e a camminare di conseguenza. Concludo presentando due realtà che ci descrivono il Salmo 92 e il profeta Geremia: “Il giusto fiorirà cine palma, crescerà come cedro del Libano; piantati nella casa del Signore, fioriranno negli atri del nostro Dio”. Al contrario: “Maledetto l’uomo che si confida nell’uomo e pone nella carne il suo sostegno, allontanando il suo cuore dal Signore. Sarà come un tamerisco nella steppa; non vedrà venire il bene, dimorerà in luoghi aridi nel deserto, in una terra di salsedine, dove nessuno può vivere”.

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05.48 – QUESTA È LA LEGGE E I PROFETI (Matteo 7.12)

05.48 – La Legge e i Profeti (Matteo 7.12)

12Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la legge e i profeti”.

Personalmente trovo questo verso, così chiaro, parente stretto di quello che dice “con il giudizio col quale giudicate, sarete giudicati voi e con la misura con la quale misurate sarà misurato a voi” (Matteo 7.2): se infatti ogni uomo tende a giudicare gli altri, ma non se stesso, allo stesso modo sa come vorrebbe essere trattato, ma così non agisce verso il suo prossimo. Sono contraddizioni, o forse difese, o ancora regole che il mondo ha stabilito per sopravvivere come se Dio non esistesse. Al limite, i più buoni hanno stravolto il senso delle parole che abbiamo letto trasformandolo nell’adagio “Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”, come riassunto del messaggio evangelico, molto più comodo e altrettanto meno impegnativo.

Il verso 12 ha un’importanza particolare: scritto in maniera identica da Matteo e Luca, è rivolto in modo specifico alla maggioranza degli ebrei che osservavano la legge morale e cerimoniale e trascuravano il principio dell’amore per il loro prossimo vanificando così la posizione che avrebbero voluto avere davanti a Dio. Più volte abbiamo parlato dei danni prodotti della religione fine a se stessa e spiegato quel “voglio misericordia e non sacrificio” più volte ricordato dai profeti. Citando Levitico 19.18 “Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso”, vediamo che “il tuo prossimo” sono “i figli del tuo popolo” e non le genti che vivevano, o avrebbero vissuto, nei territori limitrofi: Israele era il popolo eletto così come oggi lo è la Chiesa i cui componenti rischiano di vanificare la loro partecipazione alle adunanze e la loro testimonianza quando fanno attenzione ad osservare – ad esempio – i “dieci comandamenti” e poi non pensano che “chi ama l’altro ha adempiuto la legge” (Romani 13.10).

Addirittura l’amore può essere spento e soffocato quando si agisce per essere a posto con la propria coscienza e non perché il nostro sentire spirituale ci porta ad agire: “Lo scopo del comando è però la carità, che nasce da un cuore puro, da una buona coscienza e da una fede sincera. Deviando da questa linea alcuni si sono perduti in discorsi senza senso, pretendendo di essere dottori della Legge, mentre non capiscono né quello che dicono, né ciò di cui sono tanto sicuri” (1 Timoteo 5-7). Guardando a queste parole, vediamo che il comandamento esiste per un motivo e non è un ordine dato senza possibilità di essere discusso come può avvenire in ambito militare; ogni comandamento viene dato con lo scopo che l’uomo possa chiedersi il perché, usare la propria intelligenza per capire che, in realtà, è un “pedagogo verso Cristo, perché fossimo giudicati per la fede” (Galati 3.24). Gesù sapeva benissimo che le persone alle quali parlava ed insegnava erano sotto la Legge, dispensazione temporanea nell’attesa “della fede che doveva essere rivelata” (Ibid., v.23), per cui aveva l’autorità per dichiarare in cosa consistessero in realtà Legge e Profeti.

Teniamo presente le parole del verso 12 e riflettiamo su ciò che Lui ha fatto: con la Sua morte e resurrezione ha aperto la dispensazione della Grazia dandoci una prospettiva. È andato al di là del principio del fare agli altri quello che vorremmo ci fosse fatto perché nessuno avrebbe mai pensato né ad una porta aperta verso il cielo, né tantomeno di venire invitato ad entrarvi. È il Dio che si identifica nella creatura a tal punto da dare se stesso per lei. È il Dio che, nonostante il peccato, ha fatto sì che questo fosse vinto e lo ha fatto, una volta avvenuto, in modo tale che esattamente come in Eden l’uomo potesse scegliere: se Adamo avrebbe potuto vivere l’eternità non cibandosi del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, l’uomo che vive nella dispensazione della Grazia può entrare in essa accettando Gesù Cristo come il suo unico salvatore e quindi vivendo in modo adeguato alla sua fede in Lui. È una scelta, allora come oggi, ed è un cammino. È triste constatare, guardando al percorso fatto dai due popoli nelle due dispensazioni, Israele e la Chiesa, come entrambi abbiano fallito nella testimonianza, salvo rari casi. Questo è successo, e succede sempre, ogni volta che anteponiamo noi stessi a Dio e vogliamo conservare quello che rimane della nostra natura.

Per molto tempo ho sentito dire che chi ha creduto in Cristo non ha bisogno di fare nulla perché è stato già trasformato dalla Grazia, ma il verso “se uno è in Cristo è una nuova creatura” si riferisce al risultato della fede della persona e non al fatto che viene catapultato in una sorta di Eden e in uno spazio spirituale nuovo a prescindere dove ogni cosa è bella e tutto è pace. La presenza o l’assenza dell’amore verso i fratelli è indice di salute o di una grave febbre spirituale, come scrive l’apostolo Giovanni nella sua prima lettera. Lì infatti leggiamo: “Carissimi, non vi scrivo un nuovo comandamento, ma un comandamento antico, che avete ricevuto da principio– che si trova nella Legge data da Dio a Mosè e da lui al popolo -. Il comandamento antico è la parola che avete udito– quindi la Legge e i Profeti -. Eppure vi scrivo un comandamento nuovo– nel senso di rivelazione -, e ciò è vero in lui e in voi, perché le tenebre stanno diradandosi e in lui già appare la luce vera. Chi dice di essere nella luce e odia il suo fratello, è ancora nelle tenebre. Chi ama il suo fratello, rimane nella luce e non vi è in lui alcuna occasione d’inciampo. Ma chi odia il suo fratello, è nelle tenebre, cammina nelle tenebre e non sa dove va, perché le tenebre hanno accecato i suoi occhi” (2.7-11).

Ora questa lettera è stata scritta non a persone da evangelizzare, ma a dei pagani convertiti al cristianesimo nell’Asia minore, quindi a dei salvati o presunti tali. Con le parole che abbiamo letto Giovanni non vuole escluderli dalla comunione con corpo e il sangue di Cristo, ma intende farli riflettere sulla posizione che hanno; in sintesi, non possiamo dirci nella luce se in noi manca l’amore per il prossimo, cioè per il fratello prima di tutto. E in questo tutti sono chiamati in causa, dai conduttori (o Anziani, o Pastori, o Sacerdoti a seconda della denominazione) a chi dichiara di aver creduto perché tutti, una volta ricevuto il battesimo consapevole, sono responsabili gli uni degli altri. Perché essere credenti comporta proprio il progressivo svuotamento di sé per arrivare al discernimento di ciò che è davvero necessario al nostro sostentamento, materiale e spirituale. Un giorno un fratello scrisse “Il risultato è proporzionale alla nostra autentica resa. Maggiore è la finzione, l’ipocrita recitazione di un ruolo, maggiore è la distanza da Cristo e dalla Croce”. Sembra, e lo è, l’enunciato di una legge fisica. Una fisica spirituale. Ecco perché le invettive di Gesù riguardarono sempre non i peccatori, le prostitute, i pubblicani e via dicendo, ma gli Scribi e i Farisei che, nonostante avessero gli strumenti per capire, si guardavano bene dal farlo perché avrebbero dovuto mettere in discussione tutta la loro vita, ravvedendosi.

Affrontando il nostro verso vediamo che quel “tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi” non richieda una grande intelligenza per essere compreso. Lo sappiamo già. Quel “tutto quanto” sono quelle “cose buone” che riusciamo a dare in quanto “malvagi”e che ora possono essere veramente “buone” in quanto date, fatte, da figli di Dio in possesso dello Spirito. Impossibile barare, saremmo come quelli che, di fronte al povero, gli dicono “vai in pace” e non gli danno di che sostenersi, non si prendono cura di lui, non fanno proprio il suo caso. Il mondo dominato dal peccato con uomini agli antipodi da Dio lo rileviamo nel rapporto di Oxfam diffuso alla vigilia del Forum economico di Davos nel 2017 in cui viene detto che otto miliardari posseggono la stessa ricchezza netta (426 miliardi di dollari) di metà della popolazione più povera del mondo, vale a dire 3,6 miliardi di persone.

Non è facile l’esercizio della pietà in un mondo di persone che scelgono volutamente di vivere di espedienti e spesso sono ricattatori morali di professione: occorre cercare, occorre vedere, serve il discernimento spirituale, la necessità di fare del bene mirato e non generalizzato, perché il dono arricchisca chi lo fa e chi lo riceve. Ricordiamo le parole di Giacomo: “Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano, e uno di voi dice loro «Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi», ma non date loro il necessario per il corpo, a che cosa serve?” (2.15,16).

Anche voi fatelo a loro”: quell’ “anche” determina l’assoluta identità reciproca, dev’essere una norma, un’inevitabile, insopprimibile gesto che sta a significare l’avvenuta comprensione del principio in base al quale chi è stato salvato da Dio non può non venire aiutato, il mettersi al suo posto.

Il “Voi” e “loro” di questo verso non sono soltanto dei pronomi, ma indicano due aree di competenza, due zone che da sempre sono distinte perché da sempre “io – noi”, “tu – voi”, “lui – loro” sono usati per dividere, distinguere, mettere in chiaro aree, competenze, territori che non possono essere invasi, ma che qui non esistono più. Perché il “voi” si fonde nel “loro”, forma un tutt’uno per quanto l’individuo in quanto tale rimanga sempre; si tratta di un raccordo alle parole dell’apostolo Paolo che scrisse “…non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Galati 2.20).

Possiamo concludere questa riflessione citando un episodio celebre, che sempre Matteo riporta, in cui un Dottore della Legge fu scelto dai Farisei per porre una domanda trabocchetto a Gesù su quale fosse il comandamento più importante della Legge. Non erano tanto i dieci quelli a cui quel Dottore alludeva, ma i 613 dei quali 248 positivi (“farai”) e 365 negativi (“non farai”). La risposta fu “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la legge e i profeti” (22-36-40).

L’amore però non è un qualcosa che può suscitarsi a comando, nessuno può amare qualcuno perché gli viene detto di farlo, ma è un sentimento possibile solo quando esiste un rapporto di conoscenza e tanto più questo è stretto, tanto più questo è grande. E l’amore vero consiste nell’annullarsi nell’altro, è fidarsi, è sentirsi al sicuro, protetti, utilizzando chiaramente intelligenza e discernimento. Si può amare Dio, e lo si ama, quando si è da Lui trovati e ci si scopre onorati e colmi di gratitudine per questo. E crescendo nell’amore per lui, è inevitabile trovarsi con coloro che hanno ricevuto le medesime attenzioni. Ecco perché i due comandamenti formano un tutt’uno, ecco perché il secondo, che per questa nostra riflessione Gesù riassume con le parole “questa infatti è la legge e i profeti”, è il più grande, conduce a Cristo e da Lui proviene. Amen.

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05.41 – L’OCCHIO, LAMPADA DEL CORPO (Matteo 6.22-23)

05.41 – L’occhio, lampada del corpo (Matteo 6.22-23)

 

22La lampada del corpo è l’occhio; perciò, se il tuo occhio è semplice, tutto il tuo corpo sarà luminoso; 23ma se il tuo occhio è cattivo, tutto il tuo corpo sarà tenebroso. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra!

 

Prima di questo pensiero sappiamo che Gesù disse “Dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore”, quindi: nessuno può fare a meno di continuare a pensare all’oggetto dei propri affetti, o interessi, a prescindere da quali essi siano. Ecco allora che la presenza del “tesoro” è il punto di partenza per una trattazione di argomenti che toccano l’umana condotta e il modo di pensare (i versi di cui ci occuperemo oggi), per poi arrivare allo stato di sudditanza nei confronti della ricchezza come miraggio conseguito sulla terra, o realizzato presso Dio. È da lì che, poi, ne consegue tutto l’atteggiamento nei confronti della vita terrena. Nostro Signore non fa qui della filosofia come potrebbe sembrare, ma dà dei principi appartenenti più all’analisi della persona umana che a un’osservazione distaccata dei comportamenti o al consigliare un atteggiamento nei confronti della vita perché “tanto tutto passa”: correlato ai versi che abbiamo letto e leggeremo è il principio che troviamo in Luca 6.45 “L’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male: la sua bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda”. Facciamo attenzione al testo: “dal cuore”indica la provenienza e sappiamo cosa significhi quest’organo per la Scrittura. Il “sovrabbonda”poi parla di ciò che è in eccesso, quindi quello che naturalmente ne esce come se fosse un recipiente colmo fino all’orlo che così trabocca. Certo tutto questo vale se l’individuo in questione non simula, ma possiamo dire che nessuno sfugge al principio in base al quale si tende sempre a parlare di ciò che abbiamo dentro, di ciò che occupa i nostri pensieri: “dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore”. Siamo ciò che ci abita e da cui siamo abitati. Sempre.

Ora Gesù parla dell’occhio in termini elementari stante il fatto che doveva farsi capire dai suoi uditori, per poi lasciare a loro il compito di trovare gli opportuni riferimenti. Si può dire che qui venga esposta una parabola elementare, che però implica verità molto profonde; la vista serve per riconoscere, scegliere, valutare, percorrere. Vediamo un pericolo, una persona cara, ammiriamo un panorama, un ambiente; ci sentiamo attratti da una bella persona. L’occhio e l’orecchio è scritto che non si stancano mai di assolvere al loro compito ed è quello che ci ha testimoniato il re Salomone nel suo scritto che abbiamo citato la volta scorsa: “Mi sono procurato cantori e cantatrici insieme con molte donne, delizie degli uomini.(…) Non ho negato ai miei occhi nulla di ciò che bramavano”. Pare che sia la vista il senso che le persone temono di perdere più di qualunque altro e se pensiamo che ai tempi di Gesù problemi oggi risolvibili come la miopia o presbiopia costituivano un serio problema, possiamo capire quanto facile fosse stato comprendere le implicazioni di un “occhio semplice” o “cattivo” (“puro” o “viziato” secondo altre traduzioni). Pensiamo poi alla cataratta, al glaucoma, al fatto che esporre gli occhi al sole del deserto portava molti alla cecità poiché i danni che le radiazioni solari possono provocare alla rétina sono in gran parte irreversibili.

Fino a questo punto, tanto per quello che è stato scritto quanto per ciò che ha detto Gesù, sono state fatte osservazioni abbastanza ovvie, valide per tutti, uomini e animali perché, se si parla di sopravvivenza, la vista è indispensabile e la frase “Se un cieco guida un altro cieco, entrambi cadranno nella fossa” (Matteo 15.14) ci mostra un aspetto purtroppo indiscutibile delle dinamiche terrene. Luca però, nel riportare le parole oggetto di riflessione, aggiunge una frase importante, cioè “bada dunque che la luce che è in te non sia tenebra. Se il tuo corpo è tutto luminoso senza avere alcuna parte nelle tenebre, tutto sarà luminoso come quando la lucerna ti illumina con il suo bagliore” (11.35,36).

Allora l’occhio sano, o puro, o luminoso a seconda delle traduzioni, non è riferito ad un organo che possiede dieci decimi. Allora, possiamo credere di essere nella luce e di vedere quando in realtà ci troviamo in una condizione opposta senza saperlo: “bada”, cioè “fai attenzione”, “cura”, “controlla”, “dedicati a”, non dare per scontato, stai attento perché ne va della tua vita perché, se ciascuno ha il suo tesoro, ciascuno ha la sua luce, ma una sola è quella che durerà in eterno, una sola è quella che ti può illuminare veramente.

E allora non possiamo che andare ad Adamo ed Eva, come già fatto altre volte perché tutto comincia da lì, in Genesi, che come sappiamo significa “origine”. La conseguenza dell’infrazione all’unico comandamento ricevuto fu “Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture” (3.7): non che prima non ci vedessero, ma l’apertura degli occhi significa che le loro frequenze ricettive si spostarono da quelle spirituali e perfette a quelle della carne. Si schiusero su realtà che prima non appartenevano loro. La nudità che vollero coprire non riguardò i loro organi genitali, ma la nudità spirituale, il loro essere indifesi a fronte della perdita della luce di Dio che li rivestiva. Provarono per la prima volta paura e quelle cinture di fico scoprirono subito che nulla potevano di fronte a quel sentimento di vergogna e paura che mai avevano provato fino ad allora. Se il fico avesse potuto proteggerli, Adamo non avrebbe detto “Ho avuto paura perché sono nudo e mi sono nascosto” (v.10), ma si sarebbe presentato liberamente a Lui come se nulla fosse. E questo ci parla del fatto che, per quanto possa fare, l’uomo non potrà mai essere accettato da Dio a meno che Lui stesso non lo chiami, non lo attiri a sé.

E così la creatura, responsabile del Giardino, che parlava con Lui senza che nessuna cosa si frapponesse tra loro, si sentì fuori posto, avvertì una distanza incommensurabile, non sapeva più come orientarsi: non vedeva come prima. Adamo aveva avuto tutto gratuitamente, non si sentiva nudo non perché ignorava di esserlo, ma perché tale non era, rivestito di santità e soprattutto di purezza a tal punto da formare un tutt’uno con l’ambiente in cui viveva e con suo progettista che, ricordiamo, si riposò il settimo giorno per contemplare il lavoro svolto. Ricordiamo le parole alla fine del sesto giorno: “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona”. Questa fu la Sua valutazione.

Ci ritroviamo quindi con l’occhio di Adamo impossibilitato a vedere, dopo la caduta, tutto ciò che prima poteva distinguere perché permeato della scienza del suo Creatore. Privato di questo senso così come aveva in origine, l’uomo ha così dovuto adeguarsi: Adamo vide la terra che avrebbe dovuto lavorare, quel suolo che gli avrebbe prodotto “spine e tribolazioni”, Eva il figlio Abele ucciso ed entrambi assistettero impotenti al dipanarsi della storia umana: sarebbero venuti altri omicidi, prevaricazioni, guerre, lotte di potere senza un perché reale proprio in conseguenza di quegli occhi schiusi alla condizione di peccato senza possibilità di appello se non – per alcuni – nella fede in quella promessa secondo la quale il serpente avrebbe avuto schiacciata la testa dalla “progenie della donna”. Adamo infatti tramandò alla sua posterità il racconto della sua caduta e alcuni di loro, saputo il destino finale del serpente, posero la loro fede in quelle parole. Da quando l’uomo iniziò a vivere sulla terra corrotta, iniziò così a scegliere in quale luce vivere, cioè se nella propria, o mettersi a cercare quella di Dio implorando la Sua assistenza, rivelazione, orientamento. E abbiamo tutti gli scritti dell’Antico Patto che lo dimostrano, che ci parlano di scelte oculate e scellerate, di vista illuminata oppure ottenebrata, di convinzioni ostinate che vengono demolite al tempo opportuno e di orientamenti chiaramente riconducibili ad un’illuminazione dall’alto. Caso più eclatante è quello dell’asina di Balaam di Numeri 22.

La vista. Se non è sana, ti fa vedere il mondo in modo diverso, senza occhiali ci si orienta con fatica, senza di essa si dipende purtroppo dagli altri. Si è, come dice Gesù, “nelle tenebre” anche se vedremo che si tratta di un’espressione che comprende due significati.

Ma per la visione spirituale delle cose, così connessa al tesoro del cuore? I ciechi guariti da Gesù dovettero ammettere un problema oggettivo, ma l’uomo che vuole risolvere l’ostacolo di una vista spirituale difettosa, come quei miracolati nei Vangeli, deve ammettere di essere nella loro stessa condizione, per quanto su un piano diverso. È un problema comune a tutti gli uomini che però dev’essere riconosciuto e a far questo sono in pochi perché occorre un atto di profonda umiltà: bisogna riconoscere di non essere in grado di orientarsi oppure, secondo un altro aspetto comunque connesso a questo, di avere sete: “Chiunque ha sete, venga a me e beva. Chi crede in me, come dice la scrittura, «fiumi d’acqua viva usciranno dal suo seno»” (Giovanni 7.37.38). Non è un invito rivolto a tutti, ma solo a chi riconosce due cose: di aver sete e che solo in Cristo può trovare la soddisfazione di questo bisogno. Allo stesso modo, è capire che non possediamo la vista spirituale che può spingerci a chiedere aiuto.

Vedere implica un’interpretazione e il mondo visto da un daltonico non è lo stesso che vede  una persona che tale non è e così avviene per chi ha altre patologie, per quanto non gravi. Personalmente posso dire di essere affetto da un problema alla vista per cui ho bisogno di portare gli occhiali; pur conducendo una vita autonoma ed essendo in grado di fare tutto quello che fanno gli altri, l’oculista mi disse che poche persone sarebbero in grado di vivere come me, vedendo quello che vedo. Mi sono molto meravigliato perché, anche senza l’ausilio delle lenti, sono in grado di spostarmi nello spazio senza problemi; la sua risposta fu che se fossi stato in grado di vedere perfettamente, avrei capito le sue parole. Devo quindi dedurre che io credo di vedere, ma in realtà vedo poco, o comunque non come una persona sana anche se il mondo è come lo interpreta il mio cervello che si basa sui segnali che i miei nervi ottici gli trasmettono. Credo di vedere, mi baso su quello che ho ma, a quanto mi dice quel medico, sbaglio. Secondo le parole che abbiamo letto, quindi, basandomi sulla vista in senso tecnico e umano, il mio corpo non è “tutto illuminato”, ma lo è in parte.

Rapportando tutto questo alla vita spirituale, le capacità di orientamento nell’essere umano possono essere del tutto assenti, o funzionare parzialmente e dare una visione non corretta della realtà: ci sono ciechi che fingono di vedere e guidano altri ciechi, c’è chi vede poco e si comporta come se non avesse problemi e potremmo paragonarlo a chi guida un veicolo senza occhiali quando dovrebbe indossarli. Nell’uomo, stando alle parole di Gesù che abbiamo esaminato fin qui, occhi, mente e cuore sono collegati per cui in un certo senso costituiscono la base della persona. Da notare il termine usato per l’occhio: a quello “cattivo”, tradotto da altri con “difettoso”, corrisponde un corpo “tenebroso”, aggettivo che può riferirsi alla completa assenza di luce, ma anche all’assenza di chiarezza e verità, alla torbidità morale. Il corpo “tenebroso”è quindi ridotto alla percezione oscura delle cose. Allora si può individuare la connessione con Efesi 4.18 in cui l’apostolo Paolo parla dei pagani “…accecati nella loro mente, estranei alla vita di Dio a causa dell’ignoranza che è in loro e della durezza del loro cuore. Così, diventati insensibili, si sono abbandonati alla dissolutezza e, insaziabili, commettono ogni sorta d’impurità”.

Al contrario, l’intervento di Gesù nella vita della persona la trasforma e la rende in grado di vedere, come testimoniato da quei ciechi guariti in più occasioni nei Vangeli.

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05.40 – NON FATEVI TESORI SULLA TERRA (Matteo 6.19-21)

05.40 –Non fatevi tesori sulla terra (Matteo 6.19-21)

“…19Non accumulate per voi tesori sulla terra, dove tarma e ruggine consumano e dove ladri scassìnano e rubano; 20accumulate invece per voi tesori in cielo, dove né tarma né ruggine consumano e dove ladri non scassìnano e non rubano. 21Perché, dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore.

In questo nostro percorso sulla lettura cronologia dei Vangeli nonostante i limiti, ho ritenuto opportuno riprendere dal verso 19 tralasciando quelli da 14 a 18 perché già affrontati col “Padre nostro”; leggiamo infatti: “Se voi perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche voi; ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe”). Abbiamo fatto lo stesso anche quando abbiamo trattato la vanità e l’ipocrisia come motore delle azioni religiose: “E quando digiunate, non diventate malinconici come gli ipocriti, che assumono un’aria disfatta per far vedere agli altri che digiunano. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Invece, quando tu digiuni, profùmati la testa e làvati il volto, perché la gente non veda che tu digiuni, ma solo il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che è nel segreto, ti ricompenserà” (vv.19-21).

Possiamo dire che, con i versi oggetto di meditazione, Nostro Signore torna agli esempi semplici, immediatamente comprensibili ai suoi uditori di allora come di oggi. In particolare, se la presenza dei ladri che scassinano e rubano è a prescindere dall’epoca, è il dettaglio della “tarma”e della “ruggine”a portarci ai tempi antichi e, allo stesso tempo, a darci un dettaglio importante: i “tesori sulla terra” di cui parla Gesù sono costituiti da tutto quanto è soggettivamente prezioso, che può essere riconosciuto in quel “per voi”, riferito alle esigenze e attitudini di ciascuno. Se accumulo qualcosa “per me”, significa che intendo mettere da parte per un futuro che non mi appartiene ciò che mi rappresenta, ciò a cui tengo e che non voglio condividere con altri. Accumulare richiede attenzione ed energie e chi lo fa mette in atto il suo progetto di soddisfazione personale. In ciò che ammassiamo “per noi” ci sono spesso le nostre aspettative future e, se il caso più comune e banale è l’accumulo di denaro, possiamo avere anche quello di libri, quadri, gioielli, orologi, francobolli, case, terreni, insomma tutto quanto mettiamo da parte per poi controllarlo, ammirarlo, sapere che esiste perché nostro. “La roba”, insomma. A volte, l’uomo tende a identificarsi in ciò che possiede a tal punto da vederlo come una propria creatura.

Le parole di Nostro Signore non intendono essere un invito alla povertà e a disprezzare il mettere da parte per il proprio futuro, ma sottolineare il controsenso tra il premunirsi eccessivamente per la propria vita terrena a scapito di quella futura. Leggiamo in 2 Corinti 12.14 “Non spetta ai figli mettere da parte per i genitori, ma ai genitori per i figli” e “Se poi uno non si prende cura dei suoi cari, soprattutto quelli della sua famiglia, costui ha rinnegato la fede ed è peggiore di un infedele” (1 Timoteo 5.8). Mettere da parte e risparmiare è una cosa, accumulare tesori “per noi” è un’altra, dipende dal valore che dà il cuore alle cose, se queste diventano o sono dominanti.

Gesù sul monte non si rivolge a persone particolarmente ricche o avide come quelle che incontreremo nelle parabole o in altre situazioni, ma a chi tra loro aveva il concetto dell’accumulare anche piccole cose senza escludere le grandi, come appunto testimoniato dalla “tarma”, che intaccava le vesti preziose che i ricchi tenevano sia per loro stessi, sia per far doni o per essere distribuite agli invitati di una loro festa. Pensiamo poi alla “ruggine”, dall’originale “bròsis” indicante quel consumo e perdita di peso che non intaccava l’oro o l’argento, ma le monete di bronzo comuni che, ammassate in quantità, consistevano senza dubbio quei “tesori” eventualmente ammassati dagli uditori del Signore. Siccome banche a quel tempo non esistevano; le monete venivano nascoste sotto terra o in punti particolari nelle case, ma si deterioravano o potevano essere rubate dai ladri, andando così perdute per il furto oppure decadevano in peso e valore.

Chi vorrebbe monete arrugginite? E ancora, chi passerebbe il tempo a togliere da loro la ruggine, data la quantità accumulata di monete? Ne uscirebbe un lavoro enorme, non retribuito, che andrebbe ad aggiungersi a quello già fatto per aver guadagnato quella somma, ora diventata inservibile.

Ecco allora che, con questo semplice esempio, Gesù vuole avvertire l’uomo che lo ascolta quanto non possa avere nulla di certo: la persona guadagna e mette da parte, ma non è detto che un giorno possa godere il frutto delle sue fatiche. La persona accumula per sé presumendo di assaporare un giorno il risultato dei suoi sforzi, ma può perdere ogni cosa; pensiamo alle tragedie che si verificano anche oggi, in cui persone che hanno investito i risparmi di una vita, o la liquidazione, si sono ritrovate senza nulla perché truffati o semplicemente perché le banche che avrebbero dovuto tutelarli sono fallite. Pensiamo ai terremoti, agli uragani o alle inondazioni che, di colpo, cancellano e portano via in un attimo ciò che le persone hanno costruito o realizzato con fatica.

Ebbene Gesù esorta ancora una volta i suoi uditori ad alzare lo sguardo, a cercare di cambiare frequenza ricettiva, ad andare oltre perché ai tesori che si possono sempre perdere si contrappongono quelli messi da parte nel cielo, che la perfetta contabilità di Dio ripone con interessi inossidabili. E qui ci ritroviamo ancora una volta di fronte ai baratri che si frappongono tra ciò che è terreno e spirituale come rileviamo nei due “accumulate per voi” del testo: chi lo fa per i “tesori sulla terra” avrà corruzione e perdita come risultato, chi lo fa per quelli in cielo non solo ritroverà tutto quanto che avrà messo da parte, ma lo vedrà moltiplicato secondo le promesse di Gesù ai suoi quando parlò loro del “premio” e delle “corone” di giustizia, gloria e vita.

C’è però una precisazione fondamentale, e cioè che Gesù ancora una volta pone l’accento sul cuore: a nulla serve abbandonare la volontà dell’accumulare i tesori se il esso non è rinnovato, se non acquisisce, se non assimila il principio dell’aderire a Dio con tutto se stesso rifiutando l’inganno satanico nelle ricchezze di questo mondo: viceversa, nulla cambierà, si correrebbe il rischio di cadere nella religiosità, vale a dire di abbandonare qualcosa per uno o più precetti astratti per poi ritrovarsi più vuoti di prima ed essere costretti a fingere davanti a se stessi e agli altri per sopravvivere. Scrive l’apostolo Paolo: “Quelli che invece vogliono arricchirsi, cadono nella tentazione, nell’inganno di molti desideri insensati e dannosi, che fanno affogare gli uomini nella rovina e nella perdizione. L’avidità del denaro infatti è la radice di tutti i mali; presi da questo desiderio, alcuni hanno deviato dalla fede e si sono procurati molti tormenti” (1 Timoteo 6.9,10). Rileviamo qui alcune parole significative che si pongono in antitesi alla libertà nella quale viene posta la persona che fa proprio il Vangelo: “inganno”, “insensato”, “dannoso”, “affogare”, “rovina”, “perdizione” sono termini che non lasciano scampo; soprattutto è la presenza del desiderio insensato e dannoso che fa riflettere perché porta direttamente alla fine, alla nostra essenza mortale. Siamo esseri che, per quanto intelligenti e in grado di progettare, abbiamo un termine che non conosciamo e che Satana ci tiene nascosto a livello di idea, di concetto. L’uomo infatti è convinto di avere un domani, sempre.

Ricordiamo le parole “Sì, sono un soffio i figli di Adamo, una menzogna tutti i figli degli uomini: tutti insieme, posti sulla bilancia, sono più lievi di un soffio” (Salmo 62.10) e Proverbi 23.4,5 “Non affannarti per accumulare ricchezze, sii intelligente e rinuncia. Su di esse volano i tuoi occhi, ma già non ci sono più: perché mettono ali come aquila e volano verso il cielo”. Ecco allora che i tesori, anziché parlare di potenza, di posizione altolocata e sotto certi aspetti intoccabilità nel contesto umano, ne attestano la fragilità: in opposizione alla gloria terrena, scrive il salmista “Fammi conoscere, Signore, la mia fine, quale sia la misura dei miei giorni, e saprò quanto fragile io sono. Ecco, di pochi palmi hai fatto i miei giorni, è un nulla per te la durata della mia vita. Sì è solo un soffio ogni uomo che vive. Sì, è come un soffio chi si affanna, accumula e non sa chi raccolga”. Sono versi che ciascuno può meditare come meglio crede, tenendo presente che a nulla serve pensare che, essendo la vita breve, è meglio viverla nel migliore dei modi: questo sarebbe un’idea valida a condizione che questa fosse veramente una sola, ma come affrontare l’altra, che non potrà esistere se quella sulla terra si sarà basata sul consumo della stessa e se nulla si sarà fatto per accumulare i “tesori nel cielo” di cui ha parlato Nostro Signore? Si tratta di un tema estremamente serio: ho conosciuto molte persone non credenti che, in salute, accettavano serenamente l’idea della morte, ma piangevano ed erano terrorizzati nel momento in cui credevano si avvicinasse. O si avvicinava per davvero. E nel lavoro che svolgevo un tempo ne ho visti tanti.

Salomone, figlio di Davide, uomo di cui troviamo scritto molto nella Bibbia, scrisse fra gli altri il libro dell’Ecclesiaste, o Qoèlet, in cui riversò la sua esperienza particolare di uomo. Leggiamo alcune sue parole 2.3-11: “Ho voluto fare un’esperienza– che come re cui nulla era precluso poteva concedersi. Salomone cioè volle provare, diremmo oggi, “qualcosa di diverso” –:allietare il mio corpo con il vino e così afferrare la follia, pur dedicandomi con la mente alla sapienza”. La sua ricerca si volse dunque alla soddisfazione della sua persona, sperava di trovare delle alternative alla gestione responsabile del suo rapporto con Dio che lo aveva onorato consentendogli di edificargli il Tempio oltre che colmarlo di ricchezze proporzionali alla sua saggezza di cui, alla fine, io sospetto non sapeva cosa farsene perché venutegli a noia. Infatti l’autore del testo continua e scrive “Volevo scoprire se c’è qualche bene per gli uomini che essi possono realizzare sotto il cielo durante i pochi giorni della loro vita”. Volle cioè rendersi indipendente da quello che la sapienza di Dio già gli aveva rivelato e toccare con mano. Notare l’espressione “i pochi giorni”: solo chi è avanti negli anni e si volta indietro scopre che il suo tempo è passato come un soffio. I giovani, al limite, sospettano che sia così, se sono in grado di guardare al loro debole passato e un delirio di onnipotenza non s’impossessa di loro o l’inesperienza non si fa dogma.

Per far capire al lettore chi sia stato e cos’abbia realizzato, ecco che Salomone si presenta: “Ho intrapreso grandi opere, mi sono fabbricato case, mi sono piantato vigneti. Mi sono fatto parchi e giardini e vi ho piantato alberi da frutto di ogni specie; mi sono fatto vasche per irrigare con l’acqua quelle piantagioni in crescita”. Quest’uomo quindi ebbe la possibilità di contemplare il risultato delle proprie fatiche, che non si limitarono alla realizzazione di grandi opere: “Ho acquistato schiavi e schiave e altri ne ho avuti nati in casa; ho posseduto anche armenti e greggi in gran numero, più di tutti i miei predecessori in Gerusalemme. Ho accumulato per me– ecco l’ “accumulare per voi” di cui Gesù parla – anche argento e oro, ricchezze di re e provincie. Mi sono procurato cantori e cantatrici, insieme con molte donne, delizie degli uomini. Sono divenuto più ricco e potente di tutti i miei predecessori a Gerusalemme, pur conservando la mia sapienza”. La ricerca di Salomone fu quindi “a tutto tondo”, senza tralasciare nulla, la sua fu una ricerca del piacere secondo la carne e sappiamo che questa comportò il traviamento del suo essere. Prosegue confessando “Non ho negato ai miei occhi nulla di ciò che bramavano, né ho rifiutato alcuna soddisfazione al mio cuore, che godeva di ogni mia fatica: questa è stata la mia parte che ho ricavato da tutte le mie fatiche”. Salomone potrebbe essere considerato l’equivalente degli uomini e donne che vengono citati ogni anno dalla rivista “Forbes” che pubblica i nomi delle persone più ricche del mondo in termini di miliardi di dollari USA.

Ebbene, alla fine, è scritto nel nostro testo: “Ho considerato tutte le opere fatte dalle mie mani e tutta la fatica che avevo affrontato per realizzarle. Ed ecco, tutto è vanità e un correre dietro al vento. Non c’è alcun guadagno sotto il sole”. Perché? Perché se tutto si basasse sulla soddisfazione personale non resterebbe altro che un terribile, arido deserto che ci sforzeremmo di vedere fiorito.

Io ho visto come vivono i ricchi. Pur non appartenendo al loro ambiente, da giovane sono stato ammesso alla loro cerchia, forse perché mi ritenevano simpatico oppure li incuriosivo in quanto diverso da loro pur non essendo di condizione sociale umile. Anche la vita del ricco è fatta di piccole cose, esattamente come quella del povero. A parte la preoccupazione di come spendere i propri soldi, nulla cambia e ciò che può apparire attraente per chi non ha le loro possibilità economiche, per loro è la norma per cui vivere un’estate su una barca del costo di centinaia di milioni equivale ad uscire in mare con un canotto per un ragioniere di banca. Avere molte ville in giro per l’Italia o il mondo significa spesso dimorarvi per qualche tempo e non sapere cosa fare ed escogitare stratagemmi per non annoiarsi, vivendo di quello che offre un giorno che anche per loro porta la sua pena. Ogni istante sono costretti ad affidarsi al presente, alla carne, alla terra.

Eppure, ciascuno ha il suo tesoro cui rimane attaccato perché altrimenti non saprebbe come vivere. Gesù però dice “dove è il tuo tesoro, qui sarà il tuo cuore”. È un invito a considerare la propria condizione di vita, la propria prospettiva perché sta a noi scegliere il terreno sul quale costruire. Abbiamo una vita da vivere sulla terra e siamo chiamati a gestirla con accortezza e non certo da incoscienti, il che comprende tanto la dissolutezza quanto il misticismo inconcludente, tenendo presente che “(Dio Padre) ci ha rigenerati per un’eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce. Essa è conservata nei cieli per voi” (1 Pietro 1.4). Credo che i veri cristiani siano invitati a considerare se si identificano o meno in queste parole: “Chi avrò per me nel cielo? Con te non desidero nulla sulla terra. Vengono meno la mia carne e il mio cuore; ma Dio è roccia del mio cuore, mia parte per sempre” (Salmo 72.25,26). Se manca l’identificazione in questo passo, occorre che si lasci agire lo Spirito Santo e procedere ad una profonda rivisitazione del proprio stato.

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05.39 – PADRE NOSTRO IX/IX (Matteo 6.13)

05.39 – Padre nostro IX (Matteo 6.13)

 

“…13e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male. Perché tuo è il regno, la potenza e la gloria nei secoli. Amen.”

La volta scorsa abbiamo cercato di dare uno sguardo sui Cherubini in quanto esseri spirituali la cui presenza e ruolo è connessa al regnare di Dio, alla Sua realtà che l’uomo naturale, come scrive l’apostolo Paolo, “non conosce e non può comprendere” al contrario di tutto ciò che riguarda la terra nella sua realtà e manifestazioni: capire i suoi fenomeni è questione di tempo, di spazio, conoscenza e studio, ma con così per le cose spirituali, impenetrabili salvo una rilevazione dello Spirito Santo.

Il Regno, però, è una condizione, un’appartenenza, richiede un possesso diottrico di cui siamo stati privati e che solo lo Spirito può metterci in condizione di percepire. È scritto che “…noi conosciamo in parte e in parte profetizziamo; ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è è imperfetto scomparirà.(…)Adesso vediamo in modo confuso, come in uno specchio, ma allora vedremo faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come io sono conosciuto” (1 Corinti 13.9-12). Abbiamo qui la descrizione della limitazione del vivere nella carne rapportata alla conoscenza che verrà data una volta liberi da essa, avuta pienamente la cittadinanza del Regno che, pur avendola già, non abbiamo ancora acquisito in modo ufficiale; il credente di oggi infatti ha il passaporto per entrarvi, ma è in viaggio verso la meta.

Tornando ed espandendo un poco l’argomento affrontato nelle riflessioni precedenti, il Cherubino è connesso alla presenza di Dio ed è per questo che lo troviamo in quattro luoghi: abbiamo visto che in Eden prima del peccato ne è citato uno, Lucifero, il più importante di loro, coperto di pietre preziose e avente una funzione protettiva. Da cosa? Mi sono chiesto se le attenzioni di questo essere non fossero rivolte all’anello più debole della catena, l’uomo, che, creato libero, avrebbe potuto cibarsi del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, cosa che forse avvenne proprio quando, per il piano scellerato di volersi fare uguale a Dio, cessò di assisterlo per farsi strumento della sua seduzione. Certo i nostri progenitori peccarono per scelta, dimostrando di non fidarsi di quanto aveva detto loro il Creatore, ma in loro fu instillata subdolamente l’intenzione di diventare come Lui, che fossero stati ingannati, cosa possibile solo se coincidente col piano distruttivo del tentatore creato, come Cherubino, prima di loro.

Il secondo luogo in cui troviamo questi esseri è fuori del giardino, posti a protezione della via per l’albero della vita, “A oriente del giardino di Eden” (Genesi 3.23), cioè là dove il sole sorge, posizione che ci parla di salvaguardia dalla “luce” della conoscenza umana che a tutto vorrebbe pervenire e tutto vorrebbe investigare.

Abbiamo poi trovato i Cherubini scolpiti sul coperchio dell’arca in un posizione che denota protezione e al tempo stesso contemplazione di un mistero perché le creature del regno spirituale, se hanno una visione perfetta del loro ruolo e dimensione, trovano difficile comprendere i meccanismi dei rapporti di Dio con l’uomo e i suoi interventi per la sua salvezza.

La totalità del rapporto fra YHWH e i Cherubini la troviamo poi nel Luogo Santissimo, altrimenti detto “Santo dei Santi” all’interno del quale nessun uomo poteva entrare salvo il Sommo Sacerdote una volta all’anno. Leggiamo in 2 Cronache 3.7-14 che Salomone “Rivestì d’oro la navata, cioè le travi, le soglie, le pareti e le porte; sulle pareti scolpì cherubini. Costruì la cella del Santo dei santi, lunga, nel senso della larghezza della navata, venti cubiti e larga venti cubiti. La rivestì di oro fino, impiegandone seicento talenti. Il peso dei chiodi era di cinquanta sicli d’oro; anche i piani di sopra rivestì d’oro. Nella cella del Santo dei santi eresse due cherubini, lavoro di scultura e li rivestì d’oro. Le ali dei cherubini erano lunghe venti cubiti. Un’ala del primo cherubino, lunga cinque cubiti, toccava la parete della cella; l’altra, lunga cinque cubiti, toccava l’ala del secondo cherubino. Un’ala del secondo cherubino, di cinque cubiti, toccava la parete della cella; l’altra, di cinque cubiti, toccava l’ala del primo cherubino. Queste ali dei cherubini, spiegate, misuravano venti cubiti; essi stavano in piedi, voltati verso l’interno. Salomone fece la cortina di stoffa di violetto, di porpora, di cremisi e di bisso; sopra vi fece ricamare cherubini”. La loro presenza era quindi ovunque e, dalle misure che troviamo nel testo, occupavano tutta l’area della stanza. Le loro ali andavano a toccare le quattro le pareti. I Cherubini, allora, erano assolutamente connessi alla presenza di Dio che figurativamente dimorava in quel luogo a prescindere dalla presenza umana. Eppure, nonostante la loro potenza e funzione, è scritto che il signore “siede” su di loro (Salmo 80.1 – 99.1).

Quarto luogo in cui i Cherubini agiscono è la mobilità – immobilità della Corte Celeste nell’attesa che tutto si compia. Ezechiele, che li vide, li descrisse come riuscì, raffigurandoli simbolicamente: “Muovendosi, potevano andare nelle quattro direzioni senza voltarsi, perché si muovevano verso il lato dove era rivolta la testa, senza voltarsi durante il movimento. Tutto il loro corpo, il dorso, le mani, le ali e le ruote erano pieni di occhi tutt’intorno; ognuno dei quattro aveva la propria ruota. Io sentii che le ruote venivano chiamate «Turbine». Ogni cherubino aveva quattro facce: la prima quella di uomo, la seconda quella di bue, la terza quella di leone e la quarta quella di aquila. (…). Quando i cherubini si muovevano, anche le ruote avanzavano al loro fianco: quando i cherubini spiegavano le ali per sollevarsi da terra, le ruote non si allontanavano dal loro fianco; quando si fermavano, anche le ruote si fermavano; quando si alzavano, anche le ruote si alzavano con loro perché lo spirito di quegli esseri era in loro. La gloria del Signore uscì dalla soglia del tempio e si fermò sui cherubini. I cherubini spiegarono le ali e si sollevarono da terra sotto i miei occhi; anche le ruote si alzarono con loro e si fermarono all’ingresso della porta orientale del tempio, mentre la gloria del Dio d’Israele era in alto su di loro” (Ezechiele 10.11-19).

Guardando brevemente il testo, il Cherubino ha occhi ovunque a denotare la sua visione perfetta del micro e del macro. Ha poi quattro facce, circa le quali possiamo fare questi collegamenti: l’uomo è l’unica tra le creature a possedere intelligenza, il bue tra gli animali addomesticati è il più instancabile, il leone tra le fiere è il più regale e potente mentre l’aquila, fra gli uccelli, è quella che ha il volo più perfetto e la vista migliore. I maestri ebrei aggiungono “tutti questi hanno ricevuto il dominio e grandezza gli è stata data, eppure sono fermi al di sotto del carro dell’Iddio Santo”. Questi, grazie alle loro facce, non perdono tempo a voltarsi, ma si spostano usando le ruote o le ali a sottolineare il fatto che sono in grado di agire sulla terra e in cielo, nelle due regioni, o nei due regni distinti, che si sono venuti a creare dopo il peccato dei nostri progenitori. Ricordiamo sempre la loro funzione racchiusa nella radice stessa del termine kavar che implica una rete e quindi una protezione. Diversi sono i Serafini, descritti nei capitoli 4 e 5 dell’Apocalisse che diversi commentatori, anche antichi, hanno voluto identificare i quattro Vangeli.

Sappiamo che i regni sono quindi due, quello sulla terra, retto dal “Principe di questo mondo”, cioè dall’Avversario, e quello che è già preparato, ma non si è ancora manifestato nella sua potenza e gloria, quella della Gerusalemme nuova che scende dal cielo “come una sposa adorna per il suo sposo” (Apocalisse 21.2). Lì è scritto che “Non vi sarà più maledizione. Nella città vi sarà il trono di Dio e dell’Agnello: i suoi servi lo adoreranno; vedranno il suo volto e porteranno il suo nome sulla fronte. Non vi sarà più notte e non avranno più bisogno di luce di lampada né di luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà. E regneranno nei secoli dei secoli” (33.3-5).

Il regno della terra realizzato dall’Avversario ebbe come motore l’orgoglio, l’invidia e la volontà di distruggere (le stesse ragioni che portarono Caino ad uccidere il fratello), quello di Dio Padre ebbe all’inizio un ordine, “Sia la luce”, che solo Lui poteva dare. Credo ci sia differenza. “Tuo è il Regno” è un riconoscimento che contiene la certezza che sia l’unico che possa vincere quello fondato sul non senso, sull’apparenza e l’illusione, sul contrario del bene. Tutto cominciò da lì: ascoltando l’Avversario, l’uomo scoprì l’inganno quando era troppo tardi esattamente come accade oggi, quando le basi sulle cui ha costruito la sua vita, senza Cristo, crollano.

A volte ci si dimentica che il Regno implicherà il cambiamento della nostra fisionomia e corpo che avverrà con quel “batter d’occhio” quando “tutti saremo trasformati” (1 Corinti 15.51,52): “È infatti necessario– per entrare nel Regno – che questo corpo corruttibile si vesta d’incorruttibilità e questo corpo mortale si vesta d’immortalità. Si compirà la parola della Scrittura: «La morte è stata inghiottita nella vittoria. Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?»” (54,55). È l’anticipazione del cambiamento che ci attende perché, come disse Gesù, rispondendo ai Sadducei, “Quando risusciteranno dai morti non prenderanno né moglie né marito, ma saranno come angeli nei cieli”(Marco 12.25), vale a dire non procreeranno, non sarà necessario perché si sarà completato il numero degli eletti “prima della fondazione del mondo” (Efesi 1.4)

“Potenza”e “Gloria”sono altri attributi che vengono dati al Padre, complementari al Regno che non sarà mai distrutto: stanno a ricordare ancora una volta la differenza che intercorre tra quella umana e quella divina, la prima illusoria e la seconda reale che mai come in questo caso sembrano essere un controsenso. Siamo abituati a stupirci di fronte alle grandi opere che i nostri simili fanno e quando si parla di “potenza” è facile associarla a quella militare che garantisce la supremazia di un popolo su un altro, ma ci si dimentica che sarà solo alla fine dei tempi le due glorie e le due potenze verranno messe a confronto. La storia ci insegna che l’uomo si è sempre illuso e si è posto in contrasto con Dio: lo ha fatto individualmente (Caino) e collettivamente (la torre di Babele) volendo fare affidamento sulle sue sole forze e sull’ingegno che gli è stato dato, ma ha sempre perso. Nonostante questo, sviluppa scelleratamente il progetto e la realizzazione di quella “Babilonia la grande”, anch’essa destinata a cadere come descritto in Apocalisse ai capitoli 17 e 18. Eppure, nonostante l’adorazione che le avranno dato i popoli, “…quanto ha speso per la sua gloria e il suo lusso, tanto restituitele in tormento e afflizione. Perché diceva in cuor suo «Seggo come regina, vedova non sono e lutto non vedrò». Per questo, in un solo giorno, verranno i suoi flagelli: morte, lutto e fame. Sarà bruciata dal fuoco, perché potente Signore è Dio che l’ha condannata” (18.7,8).

E il “Padre nostro” si conclude con l’Amen, derivato da un verbo ebraico che significa “essere fermo, sicuro, fedele”, che costituisce un’attestazione di verità spirituale e non viene mai pronunciata alla leggera. E così facciamo, nell’attesa che il Regno, la potenza e la gloria di Dio si manifestino. Amen.

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05.38 – PADRE NOSTRO VIII (Matteo 6.13)

05.38 – Padre nostro VIII (Matteo 6.13)

 

“…13e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male. Perché tuo è il regno, la potenza e la gloria nei secoli. Amen.”

Come già preannunciato in un altro incontro, la parte finale del verso 13 non compare in tutte le traduzioni ed è ritenuta da molti un inserto, per così dire, rituale o “liturgico”. Credo però che così facendo si snaturi in parte il senso di questa preghiera perché qui si dichiara la ragione, il perché le richieste precedenti vengano rivolte al Padre: a Lui e a nessun altro appartengono i tre elementi, il regno, la potenzae la gloria nei secolicitati da Gesù. La prima parola da considerare è infatti il “perché”, traducibile con “poiché”, “siccome”, “in quanto”, concetto che ci richiama all’unicità del Padre che ascolta e provvede al quale vanno indirizzate le nostre preghiere. La conclusione del “Padre nostro” è allora una dossologia importante perché costituisce una confessione di appartenenza, è la parte finale di un Credo che trova nell’ “Amen” finale, suo quarto elemento, la nostra firma.

Abbiamo cercato di esaminare il concetto di “Regno” quando abbiamo affrontato le parole “Venga il tuo Regno”, ma il questo concetto è immenso per significati e applicazioni: come parlare del regno di Dio, come presentarlo, definirlo? Qualunque sua esposizione risulterebbe limitata perché noi siamo tali e Lui no. È il Suo progetto di comunione e condivisione con l’uomo e, per quanto argomento su cui torneremo molte altre volte, non potremo far altro che affrontarlo in modo riduttivo proprio perché il Regno non è qualcosa che è stato o che sarà, ma una realtà che esiste ed è legata indissolubilmente allo suo essere di Dio. Il Regno è Lui stesso, come noi siamo Lui in una trasformazione costante in vista di quella piena che avremo. È un progetto destinato a realizzarsi, che si può intravedere leggendo il Pentateuco e i libri storici, ma che fu visto come reale ed esistente dai profeti e fu descritto dall’apostolo Giovanni nell’Apocalisse in momenti di attesa e di compimento, per non parlare delle notizie che Gesù diede ai suoi che tuttavia non recepirono perché allora non ne erano in grado. Dobbiamo sempre tenere presente che gli argomenti della Scrittura possono essere visti e spiegati solo in parte e non può esservi nessuno che può avere la pretesa di esaurirne un solo argomento, altrimenti non sarebbe Parola divina e sappiamo che, quando alcuni uomini di Dio si trovarono di fronte alla Sua vastità, non poterono fare altro che soccombere di fronte ad essa e spesso non riuscirono a parlarne in termini umani. Alcuni di loro, come Paolo di Tarso, definirono impronunciabili le parole che ascoltarono e altri, non riuscendo ad esporre le loro visioni, ricorsero a una simbologia tutta particolare confidando che questa fosse recepita dai loro lettori e interpreti.

Sono assolutamente convinto del fatto che, quando riconosciamo a Dio Padre la legittima detenzione del Regno, non possiamo che rifarci, anche e non solo, a quel progetto che iniziò, alla presenza e con la partecipazione del Verbo, con le parole “Sia la luce”. Tutte le sei ere che caratterizzarono la creazione, infatti, non ebbero lo scopo di manifestare la “bravura” di Dio come costruttore in senso autocelebrativo, ma in vista di quella creatura luminosa, Adamo, che con Eva avrebbe dovuto popolare il territorio santo e circondato dai quattro fiumi che prendeva il nome di Eden, cioè “delizia”. Lì l’uomo, così diverso da noi, creato libero, sceglieva ogni giorno di rapportarsi con YHWH liberamente, discorrendo con lui faccia a faccia senza quella limitazione che si sentì dire un giorno Mosè in Esodo 33.20: “Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo”.

Ho scritto all’inizio che il Regno è un concetto e una realtà: alle origini tutto era in Eden o, meglio, là c’era una sua parte, un aspetto visto in quella comunione che ebbe termine quando, dopo la trasgressione all’unico comandamento, Adamo e sua moglie ne furono estromessi. Se leggiamo l’episodio, però, possiamo notare che quel luogo non fu distrutto, ma che “Il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden, perché lavorasse il suolo da cui era stato tratto. Scacciò l’uomo e pose ad oriente del giardino di Eden i cherubini con una spada fiammeggiante, per custodire la via all’albero della vita” (Genesi 3.23,24).

A questo punto individuiamo alcuni elementi: primo, Adamo e sua moglie, che avevano desiderato essere come Dio, si vedono estromessi e avrebbero passato la loro esistenza lavorando la terra dalla quale erano stati tratti. Il loro sguardo, cioè, sarebbe stato costantemente rivolto verso il basso, avrebbero compreso il significato della parola “morte” (“Nel giorno in cui ne mangerai, per certo morirai”) e sarebbero tornati polvere, tutto questo portando in loro il ricordo di ciò che erano. Secondo, la via all’albero della vita non viene preclusa, ma protetta, custodita affinché né Adamo, né Eva, né i loro discendenti a prescindere dalle epoche, l’avessero potuta trovare un giorno e diventare immortali. Terzo e ultimo, quello su cui desidero soffermarmi oggi, abbiamo nominati per la prima volta i Cherubini, creature molto particolari che esistono nel Regno spirituale, quello che non vediamo, ma che per noi ebbero il privilegio di vedere e descrivere i profeti e l’apostolo Giovanni.

Il Cherubino è comunemente ritenuto un angelo, ma più che portare messaggi agli uomini pare avere una funzione di esecutore, di guardiano, di protettore, con un’incessante opera di salvaguardia e adorazione davanti al trono di Dio. L’Avversario, Satana, così potente, era uno di loro e, se non il primo, uno dei più importanti. Leggiamo in Ezechiele al capitolo 28.12-15 “Tu eri al sommo, pieno di sapienza e perfetto in bellezza. Tu eri in Eden, giardino di Dio; tu eri coperto di pietre preziose, di diamanti, di grisoliti, di pietre d’onice, diaspri, zaffiri, smeraldi e carbonchi e di oro; l’arte dei tuoi tamburi e dei tuoi flauti era presso di te, quella fu ordinata nel giorno in cui fosti creato. Tu eri un cherubino unto, protettore e io ti avevo stabilito, tu eri nel monte santo di Dio, tu camminavi in mezzo alle pietre di fuoco. Tu sei stato compiuto nelle tue faccende, dal giorno che tu fosti creato, finché si è trovava iniquità in te”.

Questa era la funzione che aveva quando si chiamava Lucifero, cioè “Portatore di luce”. Di lui è detto in Isaia 14.12-15 “Come mai sei caduto dal cielo, Lucifero, figlio dell’aurora? Come mai sei stato steso a terra, signore dei popoli? Eppure tu pensavi «Salirò al cielo, sulle stelle di Dio innalzerò il trono, dimorerò sul monte dell’assemblea, nelle parti più remote del settentrione. Salirò sulle regioni superiori delle nubi, mi farò uguale all’altissimo». E invece sei stato precipitato negli inferi, nelle profondità dell’abisso!”.

Raccordando tra loro i due versi, rileviamo il nome che aveva l’Avversario nel Regno spirituale di Dio, la sua presenza del Giardino, il grado di eccellenza che possedeva testimoniato dalle pietre preziose che lo ricoprivano, la sua funzione unica di “Unto” e “Protettore” e la perfezione vista nel suo camminare in mezzo alle pietre infuocate essendo il fuoco riferimento al vaglio e al giudizio cui era immune stante la sua condotta. Ma ci è dato di comprendere come, a un certo punto, fu trovata iniquità in lui e questa si manifestò in un progetto che aveva come risultato finale il “farsi uguale all’altissimo”. Sono le stesse parole che, preso possesso del serpente, disse ad Eva: “Dio sa che il giorno in cui ne mangereste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male” (Genesi 3.5). Nella sua improponibile volontà distruttiva, cercava un alleato. Il figlio dell’aurora sapeva benissimo che non avrebbe potuto farsi uguale a Dio essendo stato creato da lui, ma diventare un dio in un mondo corrotto dal peccato certamente sì. E così fu.

Se allora prima di questi eventi ciò che era in cielo e sulla terra – o meglio in Eden – formavano un tutt’uno, nel terribile dopo possiamo affermare che si crearono due regni, due territori differenti, uno santo e un altro impuro; il primo abitato da Dio e dagli esseri spirituali che di Lui sono l’emanazione, il secondo popolato da uomini incompatibili con lui parte dei quali però cercavano la Sua comunione, benevolenza, aiuto: erano quelli che, informati da Adamo e sua moglie delle modalità della caduta e ancor più del vestito che il Creatore aveva loro confezionato, lo pregavano di aver pietà e soccorso in quella vita così ostile che si trovavano ad affrontare loro malgrado. Ogni giorno constatavano delle avversità che non avrebbero dovuto conoscere. Seppero così i nostri progenitori dell’esistenza di due regni, uno terreno e l’altro spirituale. “Venga il tuo Regno”, allora, perché il Tuo è l’unico a durare per sempre.

Il Cherubino ritorna poi nella Legge. Non è un personaggio che compie azioni particolari come gli angeli che distrussero Sodoma e Gomorra o parlarono a molti, ma è ordinato che venga rappresentato sul coperchio dell’arca. Non è una figura minacciosa, non ha una spada, ma: “Farai due cherubini d’oro: li farai lavorati a martello sulle due estremità del coperchio. Fa’ un cherubino ad una estremità e un cherubino all’altra estremità. Farete i cherubini tutti di un pezzo con il coperchio alle sue due estremità. I cherubini avranno le due ali stese di sopra, proteggendo con le ali il coperchio; saranno rivolti l’uno verso l’altro e le facce dei cherubini saranno rivolte verso il coperchio. Porrai il coperchio sulla parte superiore dell’arca e collocherai nell’arca la Testimonianza che io ti darò. Io ti darò convegno appunto in quel luogo: parlerò con te da sopra il propiziatorio, in mezzo ai due cherubini che saranno sull’arca della Testimonianza, ti darò i miei ordini riguardo agli Israeliti” (Esodo 25.18-22).

Per quanto il Cherubino comparisse anche raffigurato sui teli che costituivano il velo della dimora a conferma del fatto che è un essere a diretto contatto con la Santità di Dio e con lui compatibile, è la sua presenza sul coperchio dell’arca a rivelarci elementi che ci consentono delle connessioni molto importanti; i cherubini non erano due belle statuine saldate sul coperchio, ma costituivano un tutt’uno con lui, erano un pezzo solo, d’oro puro – il solo metallo che è riferito costantemente a Dio – posti uno di fronte all’altro. Due e non quattro perché non era un riferimento ai punti cardinali, ma alle dimensioni semplici intese come destra e sinistra, uomo e donna, bene e male, di qua o di là. Le loro ali proteggevano il coperchio: sono estremità che consentono uno spostamento diverso dal nostro, che avviene solo sulla terra, ma che adombrano e proteggono, difendono. In più, i cherubini sono posizionati sì frontalmente, ma il loro sguardo è rivolto verso il coperchio, guardando idealmente all’interno dell’arca che conteneva un vaso d’oro con la manna raccolta nel deserto, il bastone d’Aaronne che era fiorito e le tavole della Legge, quelle che Mosè tagliò e sulle quali Iddio scrisse il decalogo, da destra a sinistra, cinque per ogni tavola secondo il Talmud di Gerusalemme. Anche qui, è interessante il rapporto tra le due tavole e i due Cherubini.

Nel meditare però il passo di Esodo 25 mi sono chiesto perché queste due creature, a parte le ali spiegate, avessero lo sguardo verso il basso, metaforicamente a guardare all’interno dell’Arca quasi a contemplarne il contenuto, cioè la manna per la provvidenza di Dio, il bastone a ricordare il serpente che si mangiò tutti quelli creati dai maghi del Faraone e quindi la supremazia di YHWH e le tavole rappresentanti l’osservanza che il Signore si aspetta dall’uomo, oggi per noi misura di ciò che è bene e ciò che è male.

Non credo sia possibile avere una risposta diversa dall’indizio che ci offre l’apostolo Pietro nella sua prima lettera quando, parlando degli avvenimenti con cui Dio si caratterizzò nei tempi antichi a testimonianza del Regno, scrive: “…perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre raggiungete la meta della vostra fede: la salvezza delle anime. Su questa salvezza indagarono e scrutarono i profeti, che preannunciavano la grazia a voi destinata; essi cercavano di sapere quale momento o quali circostanze indicasse lo Spirito di Cristo che era in loro, quando prediceva le sofferenze destinate a Cristo e le glorie che l’avrebbero seguite. A loro fu rivelato che non per se stessi, ma per voi erano servitori di quelle cose che ora vi sono annunciate mediante lo Spirito Santo, mandato dal cielo: cose nelle quali gli angeli desiderano fissare lo sguardo” (1.8-12). Ed è interessante sottolineare che alcune traduzioni riportano “guardare dentro”.

Il contenuto dell’Arca testimoniava l’amore di Dio e le Sue esigenze, i profeti scrissero e parlarono di un tempo allora imminente, di un regno che sarebbe dovuto venire a suo tempo ma che esisteva già, pronto e preordinato a tal punto che la sua realizzazione piena, così importante per tutte le negatività che verranno annullate e che ogni salvato attende, può sembrare un dettaglio. Perché la cittadinanza eterna già la possediamo ed è quello che ci spinge a vivere. Amen.

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05.37 – PADRE NOSTRO 7/9 (Matteo 6.9-13)

05.37 – Padre nostro – VII (Matteo 6.9-13)

 

9Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome,10venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. 11Dacci oggi il nostro pane quotidiano, 12e rimetti a noi i nostri debiti  come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori, 13e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male.14Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi;15ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.”.

NON INDURCI IN TENTAZIONE, MA LIBERACI DAL MALE

Ho preferito riportare il verso 13 nella versione comunemente insegnata del “Padre nostro”. “Non indurci”è certo la traduzione più sbagliata di quelle proposte rispetto alla più corretta “non esporci”, o “non abbandonarci”: leggiamo in Giacomo 1.13 che “Nessuno, quando è tentato, dica «Sono tentato da Dio» perché Dio non può essere tentato al male e non tenta nessuno al male”. Con la richiesta espressa dalla preghiera insegnata da Gesù ci troviamo allora di fronte a qualcosa di più complesso, a qualcosa che non chiede, ma implica la presenza di elementi che dobbiamo possedere e che sono raggiungibili anche attraverso la preghiera perché la tentazione intesa come peirasmòs, cioè quella prova morale che serve a mettere in luce il carattere dell’uomo, è inevitabile. Sappiamo che la fede come sentimento è buona cosa, ma ha bisogno di venire dimostrata, di essere messa alla prova e sempre Giacomo, contrastando quelli che si affidavano a un sentimento generico ritenendosi a posto con la propria coscienza, dice in 2.19-24 “Tu credi che c’è un Dio solo? Fai bene; anche i demòni lo credono e tremano! Ma vuoi sapere, o insensato, come la fede senza le opere è senza valore? Abramo, nostro padre, non fu forse giustificato per le opere, quando offrì Isacco, suo figlio, sull’altare? Vedi che la fede cooperava con le opere di lui, e che per le opere quella fede divenne perfetta e si compì la Scrittura che dice: E Abramo ebbe fede in Dio e gli fu accreditato a giustizia, e fu chiamato amico di Dio. Vedete che l’uomo viene giustificato in base alle opere e non soltanto in base alla fede”.

Per le opere, la fede diventa perfetta. È la dimostrazione, la conferma, l’inattaccabilità di fronte a quel “fuoco” che sappiamo “farà la prova dell’opera di ciascuno”, cioè di quanto avremo costruito sopra il fondamento, la fede nell’opera di Cristo. Già nella scorsa riflessione era stato accennato al fatto che, come cristiani, c’è un cammino da compiere e che la nostra non è una strada facile perché ci troviamo di fronte a scelte che gli uomini comuni non si pongono, oppure non affrontano e non comprendono. È un percorso in cui non possiamo essere soli e che richiede un aggiornamento dal “non indurci in tentazione” a “non abbandonarci”, cioè, “non lasciarci soli” perché altrimenti falliremmo, cadremmo inevitabilmente.

Entriamo qui in un campo complesso, che contempla la nostra natura umana che si contrappone alla spirituale descritta dall’apostolo Paolo con queste parole: “Io so infatti che in me, nella mia carne, non abita il bene. C’è il me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo. Infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra. Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? Siano rese grazie e Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore! Io dunque con la mente servo la legge di Dio, con la carne invece la legge del peccato” (Romani 7.18-25). Con queste parole ci viene data la descrizione del combattimento interiore che sarebbe destinato a fallire sempre se dovessimo contare unicamente sulle nostre forze: la mente, infatti, accetta la teoria, ma fatica enormemente a tradurla in pratica perché si ritrova a fare i conti con un corpo che vorrebbe ogni cosa per sé. Tendenzialmente non siamo fatti per il “no”, esattamente come il corpo è fatto per star bene e per questo, in natura, all’occorrenza assume da solo posizioni antalgiche, si protegge, reagisce con l’istinto alle minacce che gli si pongono davanti.

La persona che ha accettato Gesù Cristo come suo personale Salvatore non deve e non può sottrarsi a un percorso di crescita, eppure spesso tende a sottovalutare le insidie dell’avversario che “Va girando come un leone che ruggisce cercando chi possa divorare”. Ecco allora che il riferimento nel Padre nostro non è tanto a quelle situazioni occasionali in cui una persona può cadere, sbagliare e pentirsi, ma al sistema, al progetto specifico dell’Avversario a danno della creatura. Nelle espressioni “il giusto pecca sette volte al giorno”, e “se uno cade, si rialza” abbiamo l’inevitabilità del peccare da parte nostra, ma quello a cui allude Nostro Signore è piuttosto il “laccio”, cioè quella condizione nella quale il credente può cadere e rimanere intrappolato.

Il laccio di cui parla la scrittura ha riferimento con la vita di tutti i giorni di allora (e non solo), quando per catturare animali selvatici si faceva un nodo scorsoio con una corda. Tra i sinonimi di “laccio” troviamo “trappola, tranello, vincolo, impaccio, qualcosa che soffoca”. Il laccio dev’essere proporzionale alla forza della preda perché, se troppo sottile, questa potrebbe liberarsi e fuggire, cosa che il cacciatore non vuole. Il laccio è quindi il risultato di un calcolo, di uno studio in questo caso molto serio perché Satana, “principe di questo mondo”, ha la potestà su di esso e non ha interesse ad occuparsi di chi già gli appartiene, ma dei credenti. I primi li tiene per sé, i secondi li combatte e mira alla loro caduta come fece alle origini. È noto il versetto che dice “…per sedurre se possibile anche gli eletti”: di qui un progetto volto a menomare il rapporto che i credenti hanno con Dio. Per prendere un uomo, come fece in Eden coi nostri progenitori, Satana deve impostare un piano su misura per lui, partendo dalle sue debolezze e attirarlo al loro interno senza che se ne accorga sapendo che, spesso, la sua vittima è un superficiale e si rende conto di esservi caduto dentro se non quando è troppo tardi. È bello per noi sapere che esiste una promessa: “Le mie pecore ascoltano la mia voce, e io le conosco, ed esse mi seguono; e io do loro la vita eterna e non periranno mai, e nessuno le rapirà dalla mia mano. Il Padre mio che me le ha date è più grande di tutti; e nessuno può rapirle dalla mano del Padre” (Giovanni 10.27-29). Anche se Gesù non parla di perdita, la possibilità del danno esiste sempre. Certo Satana distrugge quel che può distruggere, ma là dove questo gli è impedito danneggia e compromette. È in questo contesto che, fondamentalmente, dobbiamo intendere quel “non abbandonarci alla tentazione”.

E penso ai discepoli, quando erano dei semplici uomini che avevano seguito ammirati il loro Maestro senza capirne la reale portata se non quando lo Spirito Santo scese su di loro, stabiliti per essere colonne della Chiesa, colonna e sostegno a sua volta della Verità. Penso a loro quando fuggirono spaventati all’arresto di Gesù, penso a quei due di loro delusi sulla via di Emmaus e a Pietro, quando gli fu detto “Simone, Simone, ecco, Satana ha chiesto di vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno. E tu, quando sarai convertito, conferma i tuoi fratelli” (Luca 22.31,32). E così fece.

Io non so se chi mi legge ha mai provato l’esperienza di essere preso in un laccio spirituale: è un’esperienza terribile e umiliante in cui, alla consapevolezza dello Spirito presente e della propria dignità, si affianca un senso di paralisi, d’incapacità a prendere decisioni. Si vorrebbe, ma non si riesce ad uscire. E si ha paura e ci si dibatte come in un perfetto labirinto perché qualunque decisione che si può prendere si pensa sia sbagliata, non si sa più ciò che si è veramente e la mente corre il rischio di ammalarsi. E male come gli “amici” di Giobbe fanno quei “fratelli” che si sentono santi e in grado di giudicare e non trovano meglio che citare versi a sproposito, primo fra tutti Isaia 40.28,31 “Non lo sai forse? Non lo hai udito? Dio eterno è il Signore, creatore di tutta la terra. Egli non si affatica e non si stanca, la sua intelligenza è inscrutabile. Egli dà forza allo stanco e moltiplica il vigore allo spossato. Anche i giovani si affaticano e si stancano, gli adulti inciampano e cadono; ma quanti sperano nel Signore riacquistano forza, mettono ali come aquile, corrono senza affannarsi, camminano senza stancarsi”. E così, citando parole di verità, ma fuori dal contesto in cui si trova la persona, feriscono e annichiliscono perché le citano senza vedere il problema, senza capire, avulsi dalla carità. Proprio come Elifaz, Bildad e Zofar.

Eppure Dio libera e risponde a quel “non abbandonarci”. Lo fa coi suoi tempi e quando siamo pronti a individuare il Suo intervento liberatorio per ringraziarlo ed amarlo ancora di più. Ancora una volta andiamo alle parole dell’apostolo Paolo che, scrivendo alla travagliata Chiesa di Corinto, scrisse “Nessuna tentazione vi ha presi, se non umana; infatti Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via d’uscita e la forza per sopportarla” (1 Corinti 10.12-13). La via d’uscita, quella che o non vedevamo, o non avevamo il coraggio di intraprendere.

Tornando alla frase della preghiera esposta da Gesù, ci conclude con le parole “ma liberaci dal male”. E quel “ma” sta a indicare un intervento che solo lui può compiere. Il male: quale? Tradotto così suona generico, potrebbe essere banalmente definito come tutto ciò che non appartiene alle categorie del bene. Ma chi decide tra gli uomini ciò che è giusto o sbagliato, se non il sentire comune di un popolo e la propria cultura che si è sviluppata nei secoli? La morale cambia continuamente, soprattutto nel tempo in cui viviamo; a parte il furto e l’omicidio, gli altri sono concetti opinabili, ciò che costituisce reato per un popolo, per un altro non lo è, oppure azioni che oggi sono considerate riprovevoli domani non lo sono più.

L’illuminazione che procede da Dio, però, è diversa: è Lui stesso che ha rivelato la Sua volontà nell’Antico Patto attraverso il Sommario della Legge e i corollari relativi ad essa, o nel Nuovo il Suo amore e perfezione ufficialmente incarnatosi nel proprio Figlio Gesù Cristo. Il Male, allora, è da inquadrare come la diretta espressione di Satana e quel “Male” andrebbe più correttamente tradotto con “Maligno” che trova appunto nella sua opposizione a Dio la propria ragion d’essere e il proprio fine distruttivo.

Pietro ebbe da Gesù la promessa: “Io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno”. Nella circostanza, certo, parlò a lui, ma la stessa preghiera l’aveva rivolta al Padre per tutti coloro che si sarebbero aggiunti alla Chiesa: “Non prego solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola; perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Giovanni 17.20,21).

Ricordiamo ancora le parole di Paolo a Timoteo: “Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato la forza perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero: e così fui liberato dalla bocca del leone. Il Signore mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli, nel suo regno. A lui la gloria nei secoli. Amen” (2 Timoteo 4.18).

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05.36 – PADRE NOSTRO 6/9 (Matteo 6.9-13)

05.36 – Padre nostro – VI (Matteo 6.9-13)

 

9Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome,10venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. 11Dacci oggi il nostro pane quotidiano, 12e rimetti a noi i nostri debiti  come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori, 13e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male.14Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi;15ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.”.

…COME NOI LI RIMETTIAMO AI NOSTRI DEBITORI.

La volta scorsa abbiamo accennato alla differenza che intercorre tra “debito” e “debiti”, anticipando che, riguardo alla reciprocità che contraddistingue i cristiani, è impossibile che non si comportino tra loro utilizzando il perdono come uno dei principali metodi di rapporto interpersonale. Abbiamo anche citato come punto di orientamento fondamentale la parabola del “servitore spietato” che va necessariamente esaminata per comprendere la nostra posizione spirituale, cosa eravamo un tempo e chi siamo ora. La parabola, come amava precisare un fratello, non è una favoletta più o meno edificante, ma un racconto che presenta, tramite la descrizione di episodi di facile memorizzazione, delle profonde verità dottrinali. Nel caso della remissione dei debiti da parte di Dio e dell’azione conseguente da parte nostra, la parabola è quella detta del “servo spietato” che troviamo in Matteo 18.21-35, esposta a seguito di una domanda dell’apostolo Pietro che “gli si avvicinò, e gli disse «Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.A proposito, il regno dei cieli è simile a un re che volle fare i conti con i suoi servi. Incominciati i conti, gli fu presentato uno che gli era debitore di diecimila talenti. Non avendo però costui il denaro da restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, con i figli e con quanto possedeva, e saldasse così il debito. Allora quel servo, gettatosi a terra, lo supplicava: Signore, abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa. Impietositosi del servo, il padrone lo lasciò andare e gli condonò il debito. Appena uscito, quel servo trovò un altro servo come lui che gli doveva cento denari e, afferratolo, lo soffocava e diceva: Paga quel che devi! Il suo compagno, gettatosi a terra, lo supplicava dicendo: Abbi pazienza con me e ti rifonderò il debito. Ma egli non volle esaudirlo, andò e lo fece gettare in carcere, fino a che non avesse pagato il debito. Visto quel che accadeva, gli altri servi furono addolorati e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: Servo malvagio, io ti ho condonato tutto il debito perché mi hai pregato. Non dovevi forse anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te? E, sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non gli avesse restituito tutto il dovuto. Così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello»”.

Anche se si tratta di un testo che esamineremo in futuro, si possono effettuare alcune sottolineature, prima fra tutte l’ammontare del debito che questo servitore, da individuare certamente in un dignitario di corte, aveva accumulato probabilmente distraendo delle somme a proprio vantaggio: il re della parabola “volle fare i conti” con i responsabili del suo patrimonio e, poco dopo aver iniziato le verifiche, ecco emergere questo personaggio e la frode a danno del suo signore. Va osservato che subito Pietro, ed eventualmente gli altri che ascoltavano Gesù parlare, si resero conto dell’enormità della somma poiché il talento di allora era l’equivalente di 32 kg circa d’argento. Il talento, però, poteva anche essere anche in oro per cui il debito accumulato era di 320 tonnellate a prescindere dal metallo distorto. È chiaro che quella persona non avrebbe mai potuto restituire la somma, ma secondo le leggi del tempo era possibile che pagasse comunque per la colpa venendo venduto unitamente alla sua famiglia come schiavo. Avrebbe cessato di esistere come individuo, non avrebbe avuto più nulla e lo stesso i suoi famigliari.

Contrariamente ad ogni previsione, però, quel re ebbe pietà di quel contabile e, ben sapendo che non avrebbe mai potuto mantenere quanto gli prometteva – ricordiamo le parole che gli disse dopo esserglisi gettato a terra, “Abbi pazienza con me e ti rifonderò il debito” – andando contro i suoi interessi, mosso unicamente da un sentimento di pietà, gli azzerò la somma che avrebbe dovuto restituire. Ora stupisce il comportamento che quest’uomo ebbe non appena incontrò una persona, che si suppone fosse un suo pari grado, debitore nei suoi confronti di 100 denari, somma rapportabile allo stipendio di poco più di tre mesi di un operaio: era un’inezia rispetto a quella che a lui era stata condonata. Ma rimase inflessibile e fu crudele verso di lui. Anche quel debitore si gettò a terra esattamente come aveva fatto l’altro col suo re, dicendo le stesse parole, questa volta però pronunciando una promessa plausibile. Eppure abbiamo letto che “non volle esaudirlo, andò e lo fece gettare in carcere, fino a che non avesse pagato il debito”. Questa azione ci dice molto sullo spirito che dominava il servitore spietato: per lui esisteva solo il proprio io: quando si era trovato davanti al suo signore il terrore che aveva provato all’emersione del debito, il sentirsi perduto, lo aveva spinto a gettarsi a terra e a chiedere sinceramente pietà, ma ogni paura era svanita una volta ottenuto il condono ed era tornato quello che era, un essere insensibile attento solo ai propri interessi. Abbiamo letto la sua fine: “Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non gli avesse restituito tutto il dovuto” cioè mai, vista l’enormità del debito.

È allora facile individuare nella somma che il servitore spietato avrebbe dovuto restituire al re, la condizione di peccato in cui versano tutti gli uomini che non hanno ricevuto il perdono di Dio. Quando un uomo scopre di essere nella condizione di quel servo, di non avere di che pagare ma soprattutto che per quanto farà non riuscirà mai a soddisfare le esigenze del Suo Signore e gli chiede pietà nonostante tutto, ottiene un perdono che non può non trasmettere agli altri. La sua persona, cioè, non può che venire trasformata da quell’atto di pietà e amore. Certo non possiamo salvare nessuno, ma gestire il perdono per quanto ci è dato, sicuramente sì. Ecco allora che ancora una volta ci troviamo di fronte a un “debito”, che riguarda la verticalità del rapporto uomo – Dio, e a dei “debiti” che rientrano invece nell’orizzontalità del rapporto tra esseri umani visti nei 100 denari della parabola: piccole cose, tranquillamente rifondibili, elementi che sappiamo che addirittura dovremmo aspettare ci venissero restituiti dalla persona senza chiederli indietro.

Il problema però è che non solo Gesù, ma tutta la Scrittura parla in larga parte per simboli e qui non si tratta solo di denaro, ma di offese, di torti, di azioni ingiuste che abbiamo eventualmente patito. Si potrebbero citare molti versi in proposito, di cui una parte sono già stati scritti in riflessioni precedenti quando abbiamo affrontato l’amore per i nemici, il porgere l’altra guancia e altri; qui credo però sia necessario andare al libro del Siracide, un deuterocanonico che, pur non avendo l’autorità spirituale di altri come i Proverbi o il Qoélet (Ecclesiaste), è interessante perché scritto da una persona che dedicò la propria vita a studiare anche i meccanismi psicologici che regolano i rapporti umani. Ben Sira, il suo autore, è scritto che chiese a Dio la sapienza e la ottenne. Conosciuto anche come “Ecclesiastico” è databile attorno al 180 a.C.. Scrive Aldo Moda che l’autore del libro era uno scriba ed espose il frutto del suo studio, intrapreso per grande passione per autentica vocazione fin dalla giovinezza, alla gioventù aristocratica di Gerusalemme che frequentava la sua scuola. Arricchì la sua cultura con numerosi viaggi all’estero, forse anche giovane entrò al servizio di un re straniero in qualità di funzionario. La sua professione di scriba gli permise di essere attento alla realtà sociale ed al culto nel Tempio. Alcuni studiosi lo avvicinano alla corrente sadducea, allora al suo sorgere.

Ebbene, nel grandissimo numero degli argomenti, Jehoshua Ben Shira affronta il tema dell’offesa e quindi dei “debiti” che gli uomini possono contrarre fra loro e il loro spontaneo regolarsi. Ben Shira non fa mai riferimento a tribunali o a terze persone che possano costringere a saldare i debiti, ma valuta indirettamente ed in modo tanto semplice quanto profondo le cause e gli effetti delle offese: “Se hai sguainato la spada contro un amico, non disperare, può esservi un ritorno. Se hai aperto la bocca contro un amico, non disperare, può esserci riconciliazione, tranne il caso di insulto e di arroganza, di segreti svelati e di un colpo a tradimento; in questi casi ogni amico scomparirà” (22.21,22). Perché? Perché in tutti questi casi viene a mancare il rispetto, il riguardo per la persona e la sua dignità in quanto amico e persona, per cui solo una radicale revisione del modo i pensare di chi si è comportato così può spingere a chiedere il perdono e trovarlo. Certo Ben Shira non conosceva la Grazia e parlava a livello umano, non sbagliando le sue valutazioni di base né contraddice a priori le parole di Gesù sul perdono, settanta volte sette. E non esiste perdono senza confessione e prima ancora ravvedimento, tra uomo e uomo e tra questi e Dio stesso.

Fatta questa parentesi necessaria, una delle tante che dimostrano la serietà del perdono che non può essere generalizzato e dato a prescindere, la frase conclusiva di Gesù alla parabola del servo spietato illumina su quanto sia attento lo sguardo di Dio sui suoi figli: “Così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello”; questa si raccorda a quella pronunciata proprio a conclusione dell’esposizione del “Padre nostro”: “Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il padre vostro perdonerà le vostre colpe” (Matteo 6.14,15). Ecco la reciprocità. Ecco l’impensabilità dei doppi pesi e delle doppie misure che in un rapporto fraterno non possono esistere. Senza la reciprocità, non rimane che la religione che, in sintesi, altro non è se non la pretesa puerile di essere ascoltati a prescindere da quello che siamo veramente, nella nostra essenza, nel nostro cuore. Perché il perdono è l’espressione della partecipazione ad un progetto, di un cammino che non percorriamo da soli, ma con il Padre. Che, appunto, è nostro. Amen.

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05.35 – PADRE NOSTRO 5/9 (Matteo 6.9-13)

05.35 – Padre nostro – V (Matteo 6.9-13)

 

9Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome,10venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. 11Dacci oggi il nostro pane quotidiano, 12e rimetti a noi i nostri debiti  come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori, 13e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male.14Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi;15ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.”.

 

RIMETTI A NOI I NOSTRI DEBITI…

Il verso 12 è molto chiaro e parrebbe non necessario di approfondimenti: si chiede al Padre la remissione dei debiti che abbiamo con Lui come noi ci impegniamo a fare altrettanto con chi li ha verso di noi o, meglio, perché abbiamo avuto, accettando il Vangelo, lo stesso trattamento da Lui. Anche se è così, possiamo dire che questo è un verso molto impegnativo e la comprensione di quanto esprime credo possa far del bene a tutti noi, stante il rapporto profondo e continuo esistente tra Antico e Nuovo Patto. Ancora una volta dobbiamo partire dalla realtà conosciuta dagli uditori di Gesù che, nell’attesa che la parola “debito” venisse spiegata con la parabola del servo spietato, potevano collegarsi alla preghiera che Salomone rivolse a YHWH quando l’Arca dell’alleanza fu trasferita nel tempio. La preghiera è contenuta in 1 Re 8.36-50 e ne riportiamo una parte: “Quando il tuo popolo Israele sarà sconfitto di fronte al nemico perché ha peccato contro di te, ma si converte a te, loda il tuo nome, ti prega e ti supplica in questo tempio, tu ascolta nel cielo, perdona il peccato del tuo popolo Israele e fallo tornare sul suolo che hai dato ai loro padri. Quando si chiuderà il cielo e non ci sarà pioggia perché hanno peccato contro di te, ma ti pregano in questo luogo, lodano il tuo nome e si convertono dal loro peccato perché tu li hai umiliati, tu ascolta nel cielo, perdona il peccato dei tuoi servi e del tuo popolo Israele, ai quali indicherai la strada buona su cui camminare, e concedi la pioggia alla terra che hai dato in eredità al tuo popolo. Quando sulla terra ci sarà fame o peste, carbonchio o ruggine, invasione di locuste o bruchi, quando il suo nemico lo assedierà nel territorio delle sue città o quando vi sarà piaga o infermità di ogni genere, ogni preghiera e ogni supplica di un solo individuo o di tutto il tuo popolo Israele, di chiunque abbia patito una piaga nel cuore e stenda le mani verso questo tempio, tu ascoltala nel cielo, luogo della tua dimora, perdona, agisci e da’ a ciascuno secondo la sua condotta, tu che conosci il suo cuore, poiché solo tu conosci il cuore di tutti gli uomini, perché ti temano tutti i giorni della loro vita sul suolo che hai dato ai nostri padri”.

Qui viene descritta una realtà che è presa d’atto di una sconfitta, di eventi che, per la dispensazione in cui si trovava il popolo, potevano essere chiaramente riconducibili ad un intervento di Dio teso a punire una condizione di peccato. Allo stato di cose descritto, cioè l’essere vinti dal nemico, la presenza della siccità, della malattia o altro, segue una vera richiesta di perdono dovuta a un forte dolore interiore. Il popolo, cioè, non avrebbe dovuto soltanto “chiedere perdono” come in un banale rito, ma convertirsi (ricordiamo le parole di Giovanni Battista, “ravvedetevi, perché il regno dei cieli è vicino”).  Salomone stesso dice “Se si convertono dal loro peccato”, ponendo la condizione, la sola in grado di testimoniare che il ravvedimento è avvenuto e che la richiesta di perdono è sincera. Possiamo dire che, relativamente alla remissione del peccato da parte di Dio, la stessa cosa avviene anche oggi: in questo tempo in cui le calamità naturali sono una conseguenza delle violenze che uomini scellerati hanno perpetrato su un pianeta prossimo al collasso, non possiamo certo fare gli stessi collegamenti dell’Israele allora; tuttavia per ogni uomo viene il momento in cui si ritrova a fare i conti con delle sconfitte di fronte alle quali è obbligato a chiedersi se queste derivino dal naturale svolgersi della vita, oppure siano un richiamo di Dio alla conversione e questo vale anche per i credenti.

Nell’ultima parte della preghiera di Salomone, poi, vediamo come veda il popolo come organismo di individui, passando ad esaminare il singolo perché facente parte di esso e per questo dotato di individualità e responsabilità: “Dà a ciascuno secondo la sua condotta, tu che conosci il suo cuore”. Lo stesso avviene anche oggi per noi.

Nel Padre nostro Gesù parla di “debiti”perché, come vedremo, esiste un “debito” con Dio, quello che non c’è uomo sulla terra che non abbia, e dei “debiti”. Il primo è quello che rendeva i cristiani incompatibili con Lui visto nella condizione di peccato ereditata alla nascita, i secondi sono quelli che come credenti possiamo sempre contrarre a causa di una mancata vigilanza sulle nostre azioni, cioè quelli che possiamo commettere nella carne perché siamo defettibili. Essere dei salvati non implica l’essere santi e puri a prescindere delle nostre azioni, cioè che siamo stati liberati dal peccato una volta per tutte e che quindi non peccheremo più, ma percorrere una strada fatta di astensione da ciò che offende la nostra dignità e posizione di credenti penalizzando anche fortemente il rapporto che abbiamo con Lui.

Cos’è il peccato? È un termine che si riferisce a qualsiasi azione che possiamo commettere estranea alla volontà e santità di Dio. Il “peccato” è prima di tutto un modo di ragionare, di essere e di vivere, quello di chi esiste ignorando più o meno deliberatamente la Sua presenza, le Sue aspettative nei confronti della creatura che si ritrova così abbandonata a se stessa e cerca di soddisfarsi da un punto di vista fisico e psichico raggiungendo lo scopo per brevi periodi. Ora sappiamo che, grazie al sacrificio di Cristo sulla croce, chiunque lo comprenda e lo accetti consapevolmente per la propria salvezza eterna, in tal modo accogliendolo, viene fatto figlio di Dio venendo liberato dalla sua condizione di peccatore: viene accolto così com’è, viene perdonato, cessa di essere straniero ed avventizio secondo versi che abbiamo citato diverse volte.

L’Agnello di Dio toglie il “peccato del mondo”, non “dal” mondo, non elimina la possibilità di compierlo anche da parte di chi è salvato e redento. E per “togliere” si intende prendere su di sé. C’è un’opinione diffusa in certe Chiese cristiane secondo la quale chi ha creduto, perdonato una volta per sempre dal sangue versato di Cristo, non abbia più bisogno di domandare il perdono dei suoi peccati quotidiani perché non può più peccare. Eppure Giovanni nella sua prima lettera sappiamo che scrive “…se qualcuno ha peccato, noi abbiamo un Avvocato presso il Padre: Gesù Cristo giusto“ (1 Giovanni 2.1).

Davide scrisse “Per il tuo nome, Signore, perdona la mia colpa, anche se grande” (Salmo 25.11), e “Liberaci e perdona i nostri peccati, a motivo del tuo nome” (Salmo 79.9), richieste rivolte a chi è tanto giusto quanto pietoso nei confronti della creatura che a Lui si rivolge. Possiamo dire che la preghiera del “Padre nostro” si occupa non del debito originale, ma di quelli che si accumulano o possono presentarsi lungo il nostro cammino terreno di cui chiediamo la remissione, possibile a due condizioni: perché ne abbiamo compreso la portata e perché li abbandoniamo, la sola azione che possa dimostrare, come già detto, l’avvenuto ravvedimento. Quando ero bambino e andavo a confessarmi, al termine c’era l’”atto di dolore” che si concludeva con le parole “propongo di non offendervi mai più, Signore misericordia perdonatemi”: col tempo, mi sono chiesto se pronunciare quelle parole a distanza di giorni non fosse un alibi, un modo per legittimare certi miei comportamenti perché tanto venivo perdonato e assolto comunque. La stessa cosa succede a molti anche oggi, che pongono in essere comportamenti liberi sapendo che tanto poi, andandosi a confessare, si pentono formalmente regolando così i propri “debiti”.

Nulla di più sbagliato. Si tratta di un modo di ragionare falso e distorto, utilitaristico, che non ha nulla a che vedere con lo Spirito e tutto ha a che fare con l’essere umano carnale, diabolico e ipocrita perché sapere che non esiste peccato che non possa essere rimesso non è una realtà che possiamo distorcere a nostro vantaggio, servircene per i nostri fini personali. Chi agisce così è una persona che, se non si ravvede, sarà solo un religioso, cioè uno che rientra nelle categorie di cui Gesù sappiamo disse “Questo è il premio che ne hanno”.

Utile in proposito un breve commento e relativa lettura su Efesi 4.17-32 che si apre con un paragone importante. L’apostolo Paolo si rivolge a dei credenti che avevano da poco abbandonato il paganesimo e quindi risentivano inevitabilmente dei suoi retaggi e per questo vengono invitati a meditare sulla loro condizione: “Vi dico dunque e vi scongiuro nel Signore: non comportatevi più come i pagani con i loro vani pensieri, accecati nella loro mente, estranei alla vita di Dio a causa dell’ignoranza che è in loro e della durezza del loro cuore. Così, diventati insensibili, si sono abbandonati alla dissolutezza e, insaziabili, commettono ogni sorta di impurità”. Qui vediamo che il paganesimo, la vita normale quotidiana, “orizzontale”, si caratterizza con vani pensieri, cioè “privi di consistenza, internamente vuoti”, cecità mentale, estraneità alla vita di quell’unico Dio che la vita può dare. Ignoranza e durezza del cuore, entrambe coltivate più o meno consapevolmente, hanno portato insensibilità spirituale e piena disposizione a ciò che è animale e terreno non dando loro altra scelta se non quella di rifugiarsi nella dissolutezza che va a tamponare l’insoddisfazione. I germi del paganesimo, che si concretano nell’anarchia spirituale, li porteremo sempre con noi, se non altro come bagaglio storico. C’è però un’avversativa lapidaria vista nel “Ma” che apre il verso 20: “Ma non così– cioè comportandovi in quel modo – voi avete imparato a conoscere il Cristo, sedavvero gli avete dato ascolto e sein lui siete stati istruiti, secondo la verità che è in Gesù, ad abbandonare con la sua condotta di prima l’uomo vecchio che si corrompe seguendo passioni ingannevoli, a rinnovarvi nello spirito della vostra mente e a rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità”.

Qui abbiamo un grande insegnamento: prima di tutto io noto dei “se”, che vanno idealmente a collegarsi alla preghiera di Salomone citata poco prima; è un “se” che fa la differenza, è una verifica, è un garanzia. Facile dire che si conosce Gesù Cristo e che si ha il Suo Spirito soprattutto in certi ambienti evangelici; molto meno agevole è dimostrare di avere abbandonato l’uomo vecchio che si corrompe seguendo passioni ingannevoli e ancor di più il suo metodo di giudicare. L’uomo vecchio segue le proprie passioni e si basa su di esse, ma alla fine queste crollano. Siamo chiamati a rinnovarci e a rivestire l’uomo nuovo. Siamo chiamati a non rimanere immobili nelle nostre posizioni perché la stasi non esiste e comprometterebbe gravemente la nostra realtà. Chi non si evolve, come ci dimostra la “parabola dei talenti”, in realtà va indietro e peggiora progressivamente senza rendersene conto.

Agire senza rinnovarsi, senza cercare di portare il nostro modo di pensare e di essere a un livello superiore coltivando lo Spirito ma continuando nelle azioni dell’ ”uomo vecchio”, equivale a contristarlo: “E non vogliate rattristare lo Spirito Santo di Dio, con il quale foste segnati per il giorno della redenzione. Scompaiano da voi ogni asprezza, sdegno, ira, grida e maldicenze con ogni sorta di malignità. Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato voi in Cristo”. Ecco un’altra applicazione col debito rimesso: lo Spirito Santo abbiamo letto che è un “segno” dato per il giorno della redenzione, ma la presenza dentro di noi di elementi dominanti estranei, come quelli che caratterizzano l’uomo vecchio che a volte torna a manifestarsi, fanno parte di quei tanti “debiti” che abbiamo il diritto dovere di chiedere al Padre che ci siano rimessi. E siccome le stesse azioni negative le possono compiere dei fratelli nei nostri confronti, chiedere che ci venga perdonato senza che noi perdoniamo, è un’assurdità. L’uomo che un giorno si è messo alla ricerca di Dio, trovandolo, non può venire lasciato solo nel proprio cammino di ricerca e edificazione spirituale.

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05.33 – PADRE NOSTRO 3/9 (Matteo 6.9-13)

05.33 – Padre nostro – III (Matteo 6.9-13)

 

9Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome,10venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. 11Dacci oggi il nostro pane quotidiano, 12e rimetti a noi i nostri debiti  come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori, 13e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male.14Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi;15ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.”.

VENGA IL TUO REGNO

Siamo giunti al secondo dei tre “tuo”che, nel “Padre nostro”, indicano l’area di pertinenza di Dio. Così come è il Suo Nome che deve essere santificato, in opposizione a quello di altri, così deve venire il Suo Regno, non uno dei tanti che gli uomini hanno cercato di instaurare, a volte riuscendovi per quanto temporaneamente. Così, in questi “ultimi giorni” cui abbiamo accennato la volta scorsa, questa speranza, questo desiderio del nostro spirito, è inevitabile che si faccia più pressante stante la presenza di un altro regno, a lui opposto, che il “principe di questo mondo” sta realizzando ed è di imminente instaurazione: si tratta di un sistema che sarà costituito da un potere economico assolutamente immorale in mano a pochi, che richiederà totale adesione di coscienza e azione, che combatterà con tutti i mezzi a sua disposizione chi dissentirà da lui. Uno stato di cose che finirà con la distruzione del pianeta che, come sappiamo, è scritto che “si logorerà come un vestito”. Il Regno vero, quello di Dio, si realizzerà definitivamente quando avverrà ciò che l’apostolo Giovanni vide dopo il giudizio finale: “Poi vidi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il primo cielo e la prima terra erano passati e il mare non c’era più. E io, Giovanni, vidi la santa città, la nuova Gerusalemme, che scendeva dal cielo presso Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. E udii una gran voce dal cielo, che diceva «Ecco il tabernacolo di Dio con gli uomini! Ed Egli abiterà con loro, ed essi saranno suo popolo e Dio stesso sarà con loro e sarà il loro Dio. E Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi, e non ci sarà più la morte, né cordoglio, né grido né fatica, perché le cose di prima son passate»” (Apocalisse 21.1-4).

Va sempre tenuto presente il dualismo esistente in ogni elemento: il “regno“ ha come definizione quella di uno stato monarchico inteso come ente politico, come territorio e come insieme dei cittadini. Indica un ambito e un luogo più o meno grande su cui il potere viene esercitato e in cui qualcuno domina. Questa definizione non ci può far venire in mente l’impossibilità che ha l’essere umano di servire a due padroni e quindi di appartenere a un contesto piuttosto che a un altro. Del resto, sappiamo che Satana si trova a suo agio sulla terra, che percorre alla ricerca tanto di chi possa perdere, quando di chi possa tentare. Incontrando Dio in Giobbe, alla domanda “Da dove vieni?” risponderà “Da un giro sulla terra che ho percorso” o, come in un’altra versione, “Dall’andare avanti e indietro sulla terra e dal percorrerla su e giù” (Giobbe 1.7).

Il Regno di cui preghiamo la venuta deve ancora venire, ma chiunque crede e fa la volontà di Dio ne fa già parte, pur vedendolo ancora in lontananza. E qui si dovrebbe aprire una grande parentesi, perché dovremmo affrontare il tempo come dimensione in cui agiscono gli uomini a prescindere dall’epoca in cui sono vissuti. Leggiamo in Giovanni 8.56 “Abramo desiderò vedere il mio giorno; lo vide e ne gioì. Ancora in Matteo 13.17 “In verità vi dico: molti profeti e giusti hanno desiderato vedere ciò che voi vedete, e non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, e non lo ascoltarono”. Ricordiamo Ebrei 11.13 “Nella fede morirono tutti costoro, senza avere ottenuto i beni promessi, ma li videro e li salutarono da lontano, dichiarando di essere stranieri e pellegrini sulla terra”. Ecco perché il “Regno” è il tutto, come lo è Cristo presente alla creazione, che venne al mondo con un corpo simile al nostro, che tornerà a giudicare il mondo e a realizzare il compimento definitivo delle promesse. Molto belle le parole di San Girolamo in proposito: “Vedi qui dunque come l’Antico Testamento si unisce al Nuovo; poiché se i Profeti fossero stati servitori di un Dio estraneo o contrario a Cristo, mai avrebbero desiderato vederlo” (Catena aurea: glossa continua super Evangilia). Il “Regno” si realizza attraverso ogni singolo istante e in ogni anima che crede in Gesù e lo accoglie, cambiando vita e scopo di esistenza. Il Regno è quel luogo che Gesù descrisse con poche parole ai Suoi quando disse loro “Il vostro cuore non sia turbato: credete in Dio, e credete anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore; se no ve lo avrei detto. Io vado a prepararvi un posto. E quando sarò andato e vi avrò preparato il posto, ritornerò e vi accoglierò presso di me, affinché dove sono io siate anche voi. Voi sapete dove vado, e sapete anche la via” (Giovanni 24.1-4).

Il Regno che deve venire non fu rivelato in Eden, territorio in cui l’uomo, allora sì a immagine e somiglianza di Dio, poteva vederlo, parlargli e camminare assieme per il giardino nel fresco della sera. Con la catastrofe conseguente all’infrazione dell’unico comandamento ricevuto, l’uomo, divenuto incompatibile con quel luogo santo e la trasformazione della sua fisiologia da immortale a mortale, ascoltò la condanna del serpente e la promessa di un riscatto visto nella progenie della donna che gli avrebbe schiacciato il capo.

Ecco, lì fu annunciato per la prima volta, per quanto in modo velato, ma alla fine della dispensazione dell’innocenza, quando i nostri predecessori entrarono in quella della coscienza. Da lì in poi, attraverso quella della Legge e poi della Grazia nella quale viviamo tuttora, non mancarono mai le rivelazioni di Dio che promettevano un radicale cambiamento della condizione amara in cui erano soggetti subendo il male con persecuzioni umane o con le tentazioni mirate dell’Avversario.

Il Regno di Dio fu rivelato ed è tuttora in costruzione attraverso i tempi. Gesù Cristo, testimone nell’eternità e nel tempo umano, disse parlando alle subdole autorità religiose di allora “Abrahamo, vostro padre, giubilò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e se ne rallegrò” (Giovanni 8.56): questo avvenne probabilmente attraverso una visione profetica in uno dei colloqui con “l’Angelo del Signore”. La progressione del Regno attraverso i secoli la vediamo agli inizi della storia umana, anche quando, in Genesi 4.26, a proposito della posterità di Adamo, che dopo Abele generò Set, è scritto “Anche a Set nacque un figlio, e lo chiamò Enos. Questi cominciò a invocare il nome del Signore”. Il tutto mentre esistevano, come progenie di Caino, “i figli degli uomini”.

Il Regno di Dio, nel suo punto di svolta che vi sarebbe stato con la morte e resurrezione di Cristo, lo vediamo anche nell’incontro sul monte della trasfigurazione al quale parteciparono anche Mosè ed Elia che “parlavano con lui della sua dipartita che stava per compiersi a Gerusalemme” (Luca 9.31).

Il Regno di Dio, però, al di là della sua manifestazione definitiva di cui siamo in attesa, è anche qualcosa che permea: quando infatti Nostro Signore fu interrogato dai farisei “…su quando sarebbe venuto il Regno di Dio, rispose loro e disse «Il regno di Dio non viene in maniera che si possa osservare, né si dirà Eccolo qui o Eccolo là, poiché ecco, il regno di Dio è dentro di voi»” (Luca 17.20-21) là dove un’altra traduzione, ugualmente corretta stante l’ambivalenza del significato, recita “È già in mezzo a voi”. Si tratta di un regno spirituale che si manifesta in molte modalità: quante volte Gesù iniziò alcune sue parabole con le parole “Il regno dei cieli è simile a…”? Ricordiamo ad esempio:

il seme della senape (Matteo 13.32,32)

«Il regno dei cieli è simile a un granello di senape, che un uomo prese e seminò nel suo campo. 32Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre piante dell’orto e diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a fare il nido fra i suoi rami».

il mercante che trova una perla di enorme valore (Matteo 13.44-46)

“Il regno dei cieli è anche simile a un mercante che va in cerca di belle perle;
e, trovata una perla di gran valore, se n’è andato, ha venduto tutto quello che aveva, e l’ha comperata”.

la rete gettata nel mare (Matteo 13.47,48)

“Il regno dei cieli è simile anche a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci. Quando è piena, i pescatori la tirano a riva e poi, sedutisi, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi. Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti.”

al lievito nelle tre misure di farina (Matteo 13.33)

«Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata».

E ve ne sono molte altre che richiederebbero uno studio a parte stante la ricchezza di elementi che ne potrebbe scaturire. “Venga il tuo regno” allora è un’espressione che include tutti questi significati senza contare la nostra posizione che va vagliata continuamente perché sappiamo, in altre parabole, quanto sia importante la vigilanza del servo vista anche nelle vergini stolte e in quelle savie. Poter dire “venga il tuo regno”, per un cristiano, significa esprimere un desiderio forte di comunione col suo Signore e confermare al tempo stesso la sua appartenenza a lui. Viceversa, sarebbe un controsenso perché, per la generazione di Caino, la venuta del regno comporterà il giudizio: “Io sono l’Alfa e l’Omega, il principio e la fine. A chi ha sete darò in dono della fonte dell’acqua della vita. Chi vince erediterà tutte queste cose e io sarò per lui Dio ed egli sarà per me figlio. Ma per i codardi, gli increduli, gli immondi, gli omicidi, i fornicatori, i maghi, gli idolatri e tutti i bugiardi, la loro parte sarà nello stagno che arde con fuoco e zolfo, che è la morte seconda”(Apocalisse 21.6-8).

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05.32 – PADRE NOSTRO 2/9 (Matteo 6.9-13)

05.32 – Padre nostro – II (Matteo 6.9-13)

9Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome,10venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. 11Dacci oggi il nostro pane quotidiano, 12e rimetti a noi i nostri debiti  come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori, 13e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male.14Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi;15ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.”.

 

SIA SANTIFICATO IL TUO NOME

Prima delle speranze o lodi espressa nella terna dei versi 9 e 10 che riguarda le aspettative spirituali. Teniamo presente che l’insegnamento di questa frase venne pronunciata in un tempo particolare, quando era imminente l’aperto rifiuto di Israele ad accettare Gesù come Messia e la Parola sarebbe stata predicata ai pagani. “Sia santificato”, cioè sia considerato come santo, riverito e glorificato da ogni creatura ragionevole, dotata di anima e libero arbitrio secondo la rivelazione di Cristo. Scrive l’apostolo Giovanni nel suo Vangelo “Dio nessuno lo ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” (1.18), di qui il fatto che nessuno può andare al Padre se non per mezzo di Lui, che è “l’immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura” (Colossesi 1.15).

Il primo elemento del “Padre nostro”, che qui consideriamo, ci parla di tempo e di scelta. Penso che si tratti di una frase sicuramente attuale dato che la dispensazione della grazia è ancora aperta, ma non si può non pensare ad alcune riflessioni sugli “ultimi tempi” che l’apostolo Pietro, guidato dallo Spirito Santo, già definiva consistere in quelli della venuta al mondo di Gesù facendo riferimento al fatto che, quando si esaurirà la Grazia, seguiranno eventi terribili per quell’umanità che non Lo avrà riconosciuto. C’è un periodo in cui l’accesso a Dio è aperto, ma ce ne sarà uno in cui sarà chiuso e già il profeta Isaia, nello scrivere l’invito del Messia a tutti gli assetati di giustizia, scriveva “Cercate l’Eterno mentre lo si può trovare, invocatelo mentre è vicino” (55.6). Ancora: “Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere innaffiato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare in modo da dare il seme al seminatore e pane da mangiare, così sarà la mia parola uscita dalla mia bocca: essa non ritornerà a me a vuoto senza aver compiuto ciò che desidero e realizzato ciò per cui l’ho mandata” (9-11). Ecco descritto il progetto di Dio per l’uomo: la Sua parola non torna a vuoto indipendentemente dal fatto che la creatura la accetti o meno, la scelga o la rifiuti. Un risultato lo produce in ogni caso, di benedizione o di esclusione.

I tempi in cui viviamo sono sia quelli di cui Paolo scrisse “…ci troviamo negli ultimi termini dei tempi” (1 Cor. 10.11): non erano importanti quanti anni o secoli mancassero, ma il fatto che erano gli “ultimi giorni” comunque: “Ora sappi questo: che negli ultimi giorni verranno tempi difficili, perché gli uomini saranno amanti di se stessi, avidi di denaro, vanagloriosi, superbi, bestemmiatori, disubbidienti ai genitori, ingrati, scellerati, senza affetto, implacabili, calunniatori, intemperanti, crudeli, senza amore per il bene, traditori, temerari, orgogliosi, amanti dei piaceri invece che amanti di Dio. Aventi l’apparenza della pietà, ma avendone rinnegata la potenza. Da costoro, allontànati” (2 Timoteo, 3.1-4). Ora le caratteristiche degli uomini degli “ultimi giorni” esistono da sempre. Pensiamo solo all’amara constatazione di Dio prima di procedere col diluvio: disse “L’uomo non è altro che carne”, ebraico “basar” che sta ad indicare non tanto il corpo fisico, appunto di ossa, muscoli, e organi, ma le forze mentali istintive che lo governano. L’uomo degli ultimi giorni però, a differenza dei suoi predecessori, è quello che cerca legittimazione e ufficializzazione a tutti i costi delle proprie azioni malvage a differenza del suo omologo di quelli antichi che, pur contravvenendo alle leggi della “comunità civile” o comunque fautore di infrazioni che la stessa avrebbe riprovato anche solo moralmente, agiva di nascosto e mai sarebbe stato portato come esempio. Questo accade oggi in cui, paradossalmente, i trasgressori sono coloro che cercano di vivere la loro vita e fede cristiana autentica, già minata all’interno dello stesso cristianesimo a prescindere dalla denominazione.

Pur non sopportando personalmente il moralismo, è fuor di dubbio che nostri sono i giorni in cui molte libertà e concetti elementari di regole di vita stanno stravolgendosi con un ritmo sempre più allarmante. Satana, che sa di avere poco tempo, fa sì che vengano minate proprio le identità cristiane precise e costituisce poco a poco una religione al servizio della politica e del governo mondiale che, salvo ormai dettagli, è realizzato. È questo il tempo in cui alla pietà e alla carità si sostituiscono opere di facciata e ai giovani è rivolta tutta una strategia di comunicazione mirante a renderli incapaci di riflettere a vantaggio della soddisfazione di qualunque istintività vista come un diritto da acquisire sempre e comunque.

Sia santificato il tuo nome”, lo ritengo allora un qualcosa di strettamente, urgentemente correlato ora più che mai ai successivi due elementi del Padre Nostro (“Venga il tuo Regno” e “Sia fatta la tua volontà”) affinché il disegno di Dio possa compiersi presto, fermo restando che i tempi sono, come sempre Suoi.

Sia santificato il tuo nome”, però, implica una collaborazione dell’uomo: senza una testimonianza attiva da parte di chi ha creduto, il “Nome” di Dio non sarebbe mai stato conosciuto. Ai tempi dell’Antico Testamento erano i prodigi e i giudizi, a volte sul singolo, altre sull’intero popolo d’Israele, altre ancora sui popoli che con lui avevano a che fare; ai tempi del Nuovo, a produrre questa santificazione del Nome, sono stati i miracoli fatti da Gesù e dagli apostoli e quindi la predicazione, la conversione e la testimonianza di coloro che, in virtù della loro fede, cambiavano vita spiegando agli altri le ragioni del loro comportamento, il perché di una scelta.

Nonostante quello che ho detto sui motivi che produssero in me la certezza che non vi fosse altro Dio all’infuori di quello annunciato da Cristo, la mia sarebbe stata solo una convinzione personale se non avessi trovato uomini e donne che avessero rivolto il loro cuore a Lui e che mi avessero dato l’esempio particolarissimo di persone che, nonostante i loro limiti e imperfezioni, avevano una meta, un obiettivo da raggiungere anche a costo di sforzi e scelte non facili. Persone che avevano messo da parte il loro io e si erano messe a cercare la santità.

Molto spesso si pensa, come cristiani, di essere chiamati a compiere grandi cose, ma ci si dimentica che dobbiamo esercitarci nelle piccole, perché “chi è fedele nel poco, è fedele anche nel molto e chi è ingiusto nel poco, lo è anche nel molto” (Luca 16.10); ricordiamoci del premio di quel servitore che si sentì dire “Bene, buono e fedele servo: tu sei stato fedele in poca cosa e io ti costituirò sopra molte cose; entra nella gioia del tuo Signore” (Matteo 25.21).

Ogni azione che il credente compie per Colui che lo ha salvato, la porta avanti anche per se stesso: si tratta di quel tesoro che mettiamo da parte quando tutto ciò che avremo fatto in vita verrà vagliato quando saremo alla Sua presenza. “Secondo la grazia di Dio che mi è stata data, come savio architetto io ho posto il fondamento ed altri vi costruisce sopra, perché nessuno può porre altro fondamento diverso da quello che è stato posto, cioè Gesù Cristo. Ora, se uno costruisce sopra questo fondamento con oro, pietre preziose, argento, legno, fieno, stoppa, l’opera di ciascuno sarà manifestata mediante il fuoco, e il fuoco proverà quale sia l’opera di ciascuno. Se l’opera che uno ha edificato sul fondamento resiste, egli ne riceverà una ricompensa, ma se la sua opera è arsa, egli ne subirà la perdita. Non di meno sarà salvato, ma come attraverso il fuoco” (1 Cor. 3.10-15).

Ecco, il cristiano e la Chiesa di cui fa parte sono coinvolti nella santificazione del Nome perché, senza la testimonianza di ciascuno, il concetto di Dio sarebbe assolutamente sterile, identico a quello di altre confessioni. Indubbiamente, nonostante Satana si sia dato da fare parecchio e purtroppo con successo anche all’interno della Chiesa, il “rimanente fedele” ha resistito e ha annunciato il Vangelo sia con la predicazione che con l’esempio di una vita dedicata a Colui che lo ha salvato. Il cristianesimo non è grido, funzioni solenni che attirano curiosi, grandi movimenti acclamanti o processioni che tanto fanno pensare al paganesimo, ma molto spesso è silenzio e servizio muto. E naturalmente fatti concreti.

Il “Nome” di Dio, fermo restando che non non ha uno come il nostro che usiamo per distinguerci gli uni dagli altri, credo che sia da ricercarsi nella terza persona del verbo essere, “Colui che è”. Non c’è bisogno di affannarsi per chiamarlo o definirlo perché quell’ “È” esclude la presenza di qualsiasi altro. Dio “è”, tempo presente che viene dall’eternità come Gesù ebbe a dire: “Prima che Adamo fosse nato, io sono” (Giovanni 8.58) e collegato a quel “Gesù Cristo è lo stesso di ieri, di oggi e in eterno” (Ebrei 13.8). Giovanni, in 8.58, non aggiunge altro. Forse nessuno osò chiedere ragguagli a Gesù sulla sua frase. Io di domande gliene avrei fatte molte. La pericope di Giovanni implica il fatto che presso di Lui non esiste interrogativo che non possa avere una risposta, un elemento che non possa avere un posto. L’ordine del tutto scaturito dal nulla, poiché prima del mondo, alla nostra portata, non esisteva niente.

Sia santificato il tuo nome”, allora, è frase che esprime la preghiera, o la speranza, per cui tutti possano riconoscerlo come unico Dio, vero risolutore del problema basilare della nostra origine e fine. L’unico, tra i tanti, troppi, falsi che il mondo ci propone.

Sia santificato il tuo nome”, quindi non quello di altri e qui non possiamo non fare un riferimento all’elemento che apre il decalogo contenuto sulle tavole che Dio e non Mosè scrisse: “Io sono il Signore Iddio tuo, che ti ho tratto fuori dal paese d’Egitto, dalla casa di servitù. Non avere altri dei nel mio cospetto”; come Israele fu liberato dal Paese in cui era schiavo, il cristiano è stato liberato dalla schiavitù del peccato nel senso che gli è stata data l’opportunità di vivere non più dominato da lui. Non avere altri dèi, per chi crede davvero e mette in pratica, ora significa non avere più dei riferimenti estranei per la sua realizzazione spirituale, non avere altri punti di riferimento. Questo significa, per il credente, santificare il nome del Padre suo. Del Padre nostro. Amen.

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05.30 – INTRODUZIONE AL PADRE NOSTRO II/II (Matteo 6.9-13)

05.31 – Padre nostro – Introduzione II (Matteo 6.9-13)

 

5E quando pregate, non siate simili agli ipocriti che, nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, amano pregare stando ritti, per essere visti dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. 6Invece, quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.7Pregando, non sprecate parole come i pagani: essi credono di venire ascoltati a forza di parole. 8Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate.9Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome,10venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. 11Dacci oggi il nostro pane quotidiano, 12e rimetti a noi i nostri debiti  come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori, 13e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male.14Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi;15ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.”.

Siamo così arrivati al secondo incontro introduttivo sulla preghiera insegnata da Gesù, nel sermone sul monte, ai discepoli e a tutti quanti vollero incontrarlo. Il verso settimo prende in esame una categoria nuova di persone, cioè i pagani che vengono associati ai farisei e a chi pratica una vuota religiosità alla quale potevano affiancarsi anche manifestazioni di lesionismo corporali che estendevano il concetto di “mortificazione” che avveniva tramite il digiuno. È interessante il verbo greco che ha utilizzato forse lo stesso Matteo dall’aramaico, “Battologhéo”, riferito a Battos, poeta greco verboso e prolisso noto per le sue continue ripetizioni inutili e retoriche. È scritto che i pagani pensano di essere esauditi per la moltitudine delle loro parole: un riferimento (anche) a 1 Re 18.26 quando viene riportato che i profeti di Baal invocarono il nome del loro dio dal mattino fino a mezzogiorno, “26…ma non si udì alcuna voce e nessuno rispose. Intanto essi saltavano intorno all’altare che avevano fatto”. 27A mezzogiorno Elia cominciò a beffarsi di loro e a dire «Gridate più forte, perché egli è dio: forse sta meditando o è indaffarato o è in viaggio, o magari si è addormentato e dev’essere svegliato». 28Così essi si misero a gridare più forte e a farsi incisioni con spade e lance secondo le loro usanze finché grondavano di sangue. 29Passato mezzogiorno, essi profetizzarono fino al tempo di offrire l’oblazione, ma non si udì alcuna voce, nessuno rispose e nessuno diede loro retta”. Troviamo un riferimento interessante anche nel Nuovo Testamento, in Atti 19.34 quando, per circa due ore, tutti gridavano “Grande è la dea Diana degli Efesini”. È un mantra, la ripetizione infinita, cui non pochi tra i medici della psiche e purtroppo anche nel cristianesimo attribuiscono un valore.

Illuminanti le parole in Ecclesiaste 5.1-3 “1Bada ai tuoi passi quando vai alla casa di Dio: avvicinati per ascoltare piuttosto che per offrire il sacrificio degli stolti, i quali non sanno neppure di far male. 2Non essere precipitoso con la tua bocca e il tuo cuore non si affretti a proferire alcuna parola davanti a Dio, perché Dio è in cielo e tu sulla terra: perciò siano le tue parole poche. 3Poiché con le molte occupazioni vengono i sogni e con le molte parole la voce dello stolto”. È importante notare che, in questi versi, quando troviamo scritto “Dio” il testo originale abbia il plurale Elohim e quindi suggerisca il concetto trinitario che andrebbe tradotto “Iddio”. C’è però il pericolo di un fraintendimento, poiché la lettura di questi versi sembra esortare a una preghiera breve a prescindere: chi può quantificare il tempo giusto per farlo? Nel senso, vanno bene pochi secondi o pochi minuti? Se sì, quanti? Quante parole sono necessarie perché, come ha scritto Salomone, siano considerate “poche”?

In realtà Nostro Signore e il riferimento nell’Ecclesiaste non parla del pregare tanto o poco, ma all’intelligenza della persona: “pregherò con lo spirito, ma pregherò anche con intelligenza”, scrisse Paolo in 1 Corinti 14.15. È probabile che qui Gesù, che passava notti intere a pregare, abbia fatto un riferimento al non fare della ripetizione e della lunghezza della preghiera un obbligo con la speranza-garanzia che questa venga esaudita esattamente come speravano i profeti di Baal di cui abbiamo letto. È la preghiera del pagano che chiede segni, miracoli, manifestazioni soprannaturali o che la vita si svolga attraverso esaudimenti di richieste materiali; quella del cristiano, invece, deve avere intenti e origini opposte viste nel dialogo, nel confronto col Padre ora possibile grazie allo Spirito Santo e all’intercessione del Risorto.

Infatti il verso successivo parte con l’esortazione – comandamento: “Non siate come loro” e ne spiega il motivo, “perché il Padre vostro sa le cose di cui avete bisogno prima che gliele chiediate”. Se il pagano è convinto che il suo dio vada informato delle cose che gli necessitano, il cristiano è spinto alla preghiera fondamentalmente perché ha bisogno della comunione col Padre e che questo implica necessariamente un profondo esame di coscienza: ci presentiamo a lui consci delle nostre mancanze e ne chiediamo perdono? Abbiamo dei pesi che ostacolano il nostro cammino di comunione? Ci mettiamo davanti a Lui con onestà di cuore, rifuggendo le eventuali contaminazioni, siamo attenti? Abbiamo dei peccati non confessati e non lasciati?

Il Padre sa di cosa abbiamo bisogno prima che glielo domandiamo. Siamo qui a un bivio: il Creatore che sa cosa necessita realmente la Sua creatura, ma questa spesso non conosce le sue necessità spirituali, al contrario delle sollecitudini ansiose che ha ben presente: “Non cercate di che cosa mangerete o che cosa berrete e non ne siate in ansia, perché le genti del mondo cercano tutte queste cose, ma il Padre vostro sa che voi ne avete bisogno” (Luca 12.29-30).

 

Il sette, l’otto e altri numeri

Quello che mi ha stupito ed altrettanto edificato nell’esaminare il contesto di questa preghiera è la posizione che occupa il sostantivo “Padre” all’interno dei capitoli 5 e 6 del Vangelo di Matteo. Vediamo i versi che precedono il “Padre nostro”:

 

  1. “…affinché siate figli del Padre vostro” (5.45)
  2. “Voi dunque siate perfetti, come è perfetto il Padre vostro, che è nei cieli” (5.48)
  3. “…altrimenti voi non ne avrete ricompensa presso il Padre vostro, che è nei cieli” (6.1)
  4. “… e il Padre tuo, che vede nel segreto, te ne darà ricompensa palesemente” (6.4)
  5. “…chiudi la porta e prega il Padre tuo, che vede nel segreto” (6.6)
  6. “…e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà pubblicamente” (6.6)
  7. “…il Padre vostro sa le cose di cui avete bisogno prima che gliele chiediate” (6.8)
  8. “Padre nostro che sei nei cieli…” (6.9)

 

Le riflessioni che si possono fare a questo punto sono molte. Guardando ai primi sette versi che riportano la parola “Padre”, non si può ignorare che la loro quantità ha riferimento diretto a Dio, alla Sua opera, pienezza e perfezione. La presenza di questo numero è costante in tutta la Bibbia a partire dalla Genesi quando fu il settimo giorno a fare da sigillo alla creazione. Tra innumerevoli episodi citabili, sono particolarmente importanti le sette volte in cui il generale del re di Siria Naaman fu mandato a bagnarsi nel Giordano da Eliseo per guarire dalla lebbra, oltre ai sette anni impiegati da Salomone per costruire il Tempio, per non parlare della costante del numero nel libro dell’Apocalisse.

Forse può essere interessante, a proposito del Sette, citare la figura di Ivan Nikolayevich Panin (1855 – 1942), critico letterario nichilista e agnostico molto conosciuto in Canada e negli Stati Uniti d’America, che si convertì al Cristianesimo quando, analizzando numericamente i testi del Nuovo e Antico Testamento, dopo un lavoro durato otto anni ed aver riempito un totale di circa 40mila pagine, giunse alla conclusione che il numero 7 è alla base di tutta la struttura letteraria biblica a patto che questa non sia manipolata tramite l’inserimento di parole non presenti nell’originale. Ivan Panin dedicò i restanti 50anni della sua vita allo sviluppo della scienza dei numeri biblici rifiutando incarichi universitari anche prestigiosi.

Può essere interessante cercare in rete “Ivan Panin” dove i dati sulla sua ricerca abbondano. Mi limito a trascrivere la sua ricerca sul verso di Genesi 1.1 “Nel principio Iddio creò i cieli e la terra”.

La frase in ebraico è composta di sette parole, ciascuna delle quali ha il suo valore numerico complessivo, che si ottiene sommando il valore di ogni lettera:

– בראשית 913 (400+10+300+1+200+2) Nel principio

– ברא 203 (1+200+2) creò

– אלהים 86 (40+10+5+30+1) Dio

– את 401 (400+1) Articolo indefinito non traducibile

– השמים 395 (40+10+40+300+5) i cieli

– ואת 407 (400+1+6) e

– הארץ 296 (90+200+1+5) la terra

In questo breve versetto, il numero sette con i suoi multipli ricorre in decine di combinazioni di cui riportiamo solo alcuni esempi:

– Il numero delle parole del verso è 7.

– Vi sono tre importanti parole: Dio, cieli, terra che hanno valore 86, 395, 296. Sommati tra loro danno 777, cioè 111×7.

– Il numero delle lettere di queste tre parole (Dio, cieli, terra) è 14 (2×7).

– Il numero delle lettere delle quattro restanti parole è sempre 14 (2×7).

– Il numero totale delle lettere ebraiche in questa frase è dunque 28 (4×7).

– Le prime tre di queste sette parole ebraiche contengono il soggetto e il predicato della frase: “Nel principio Iddio creò”. Il numero delle lettere di queste tre parole è 14 (2×7).

– Le altre quattro parole contengono l’oggetto della frase: “i cieli e la terra”. Il numero delle lettere di queste quattro parole è anch’esso 14 (2×7).

– Il valore numerico del verbo “creò” è 203 (29×7).

– Il numero trovato sommando il valore numerico della prima e dell’ultima lettera di tutte e sette le parole che compongono questo versetto è 1393 (199×7).

– Il numero 1393 si divide nella seguente maniera:

  1. a) il numero che si ottiene sommando i valori numerici della prima e dell’ultima lettera della prima e della settima parola è un multiplo di 7: 497 (71×7)
  2. b) Il numero che si ottiene sommando i valori numerici della prima e dell’ultima lettera delle cinque parole rimaste in mezzo è anch’esso un multiplo di 7, cioè 896 (128×7),

– L’ultima lettera della prima e dell’ultima parola hanno un valore numerico totale di 490 (70×7)

– La più breve parola è al centro. Il numero ottenuto sommando le lettere di questa parola sommate con le lettere della parola alla sua sinistra è 7.

– Il numero ottenuto sommando le lettere di questa parola sommate con le lettere della parola alla sua destra è 7.

 

Le perfezioni del numero non ricorrono solo nell’AT, ma anche nel Nuovo. Ad esempio nella genealogia di Gesù riportata da Matteo (che non a caso scrive per gli ebrei) e, sempre nel primo capitolo, ai versi da 18 a 25 in cui si narra della visita dell’angelo a Maria e della nascita di Gesù. In questo caso abbiamo:

  • in numero delle parole greche è 161 (23×7)
  • il valore numerico di queste 161 parole è di 93.394 (13.342×7)
  • Il numero delle forme grammaticali in cui queste 161 parole ricorrono è 105 (15×7)
  • Il valore numerico di queste parole usate nelle 105 forme è 65.429 (9347×7)
  • Di queste 105 forme il numero dei verbi è 35 (5×7)
  • Di queste 105 forme il numero dei nomi propri è 7
  • Il numero delle lettere in questi 7 nomi propri è 42 (6×7)
  • Il numero delle forme trovate in questo brano, ma che non si trovano in nessun’altra parte del Vangelo di Matteo è 14 (2×7)
  • Il valore numerico di queste 14 forme è 8.715 (1.245×7)
  • Le sei parole greche trovate in questo brano e che non si trovano in nessun’altra parte del libro di Matteo hanno un valore numerico di 5.005 (715×7)
  • Il numero delle lettere di queste sei parole è esattamente 56 (8×7)
  • L’unica parola trovata qui, ma che non so trova in nessun’altra parte del NT è il nome “Emanuele” il cui valore numerico è 644 (92×7)
  • Il numero delle forme
  • Il valore numerico di tutte le parole usate dall’angelo è di 21.042 (3006×7)
  • Il numero delle forme usate dall’angelo è 35 (5×7)
  • Il numero delle lettere greche in queste 35 forme usate dall’angelo è 168 (24×7)
  • Il valore numerico delle 35 forme usate dall’angelo è di 189.397 (2.772×7).

Ho riportato questi dati unicamente per rendere un’idea della perfezione che esprime questo numero.

 

Torniamo al tema delle prime sette volte in cui compare la parola “Padre”: notiamo che, negli aggettivi accanto a questa parola, abbiamo quattro volte “Vostro” e tre “Tuo”, a mio giudizio una chiara allusione alla stabilità (il numero 4) della Chiesa che sarebbe nata (vista in quel “Vostro” che accomuna) e alla imminente, nuova perfezione del rapporto individuale (il numero 3) visto nel “Tuo”, possessivo che abbiamo già visto Maria di Magdala dichiarare splendidamente con le parole “…hanno portato via il mio Signore e non so dove l’abbiano posto” (Giovanni 20.13). Era il Signore di tutti, ma in questa espressione Maria volle dichiarare tutto l’amore individuale che aveva per Lui e Lui per lei, così come ogni credente dovrebbe testimoniare.

Ora il “Padre nostro” compare per l’ottava volta quanto a parola “Padre”, ma per la prima con il possessivo “nostro”, segno di un cambiamento profondo, lo stesso che comporterà la resurrezione di Cristo, avvenuta sì nel primo giorno della settimana, ma anche nell’ottavo così come è chiamato altrimenti. Il “Padre nostro” come posizione e definizione può essere considerato sia all’ottavo posto, sia al primo ciclico di una serie di altri che si trovano a seguire. L’otto è quindi abbinabile alla nuova vita, quella eterna a cui destina tutti coloro che Lo accolgono, Lui che ci ha dimostrato che non è la morte ad avere l’ultima parola per cui è chiamato anche “Il primogenito dai morti” (Apocalisse 1.5), ma ancor di più in Romani 8.29: “…poiché quelli che ha preconosciuto, li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Suo Figlio, sia da essere lui il primogenito fra molti fratelli”. Il numero otto ha riferimento con un’altra creazione, quella appunto della “Nuova creatura” di cui parla l’apostolo Paolo in 2 Corinzi 5.17: “Se dunque uno è in Cristo, è un nuova creatura; le cose vecchie son passate, ecco, tutte le cose sono diventate nuove”. È un ottavo giorno che ogni essere umano può sperimentare.

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05.28 – COME PREGARE (Matteo 6.5-8)

05.29 – Come pregare (Matteo 6.5-8)

5E quando pregate, non siate simili agli ipocriti che, nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, amano pregare stando ritti, per essere visti dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa.6Invece, quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.7Pregando, non sprecate parole come i pagani: essi credono di venire ascoltati a forza di parole. 8Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate.”.

Qui inizia il secondo insegnamento di Gesù sulla pratica della “giustizia” che, nel caso di specie, abbiamo visto essere tripartita in elemosina, preghiera e digiuno. Il gruppo di versi letto è molto particolare perché, secondo Matteo, precede l’esposizione del “Padre nostro” e, prima di insegnarla, Nostro Signore si preoccupa ancora una volta di far riflettere sulla differenza tra ciò che è ostentazione con fini non spirituali e il reale atteggiamento che deve contraddistinguere la preghiera. Ci troviamo su un terreno delicato perché, alla luce delle parole “hanno già ricevuto la loro ricompensa”, possiamo individuare uno stato d’animo che trova la sua soddisfazione nell’avere lo sguardo degli altri, che di se stessi: poltrone o palchi privati non si trovano solo a teatro, ma purtroppo sono numerosi anche in quel cristianesimo fatto di manifestazioni esteriori che alimentano costantemente quella “loro ricompensa” di cui parla Gesù.

Ci siamo già occupati del fatto che chiunque si colloca, o pretende di farlo, in una posizione spirituale dichiarando la propria fede agli uomini, da quel momento è inevitabile si ponga come esempio e quindi “insegni”: lo fa con le proprie azioni quotidiane indipendentemente dal fatto che si metta a predicare o a testimoniare in maniera più o meno dotta o ricercata. Abbiamo infatti letto “Chi dunque trasgredirà uno solo di questi precetti, anche minimi, e insegnerà agli uomini a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà agli uomini, sarà considerato grande nel regno dei cieli” (Matteo 5.19-20). Se leggiamo il verso successivo, poi, appare chiaro che esiste una profonda differenza tra l’ipocrisia e la pratica della verità, come dalle parole “Se la vostra giustizia non supererà– cioè non andrà oltre – quella degli scribi e dei farisei, voi non entrerete nel regno dei cieli” (v.21). Le due categorie di persone che Gesù cita così spesso, scribi e farisei, col loro esempio negativo avevano finito per insegnare agli altri “a fare altrettanto”, vale a dire avevano ridotto la preghiera a un atto formale, facendo sì che anche quella personale ne risentisse: tutti li vedevano e nella loro ignoranza, o umana “semplicità”, avevano finito per considerarli persone veramente devote ammirandoli e, inevitabilmente, quell’atteggiamento formale aveva finito per contagiarli.

La preghiera pubblica era quella che veniva fatta in tempi stabiliti del giorno e il giudeo devoto si fermava ovunque si trovasse (a meno che il luogo non fosse impuro) e recitava quanto prescritto stando in piedi. Lo faceva immedesimandosi nel testo, solitamente quello di un Salmo, facendolo proprio, perché ancora non era sceso lo Spirito Santo che, come scrive l’apostolo Paolo ai Romani “…viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con sospiri ineffabili” (8.26). Anche i musulmani pregano in pubblico a tempi prestabiliti e l’osservanza di questa pratica è considerata un segno di grande devozione.

Gesù, venuto “non per abolire, ma per adempiere” non intende demolire la preghiera pubblica, ma censura gli intenti diversi dalla sincerità con cui ci si dovrebbe approcciare ad essa e, con le parole “amano stare ritti in piedi”, smaschera quanti agivano in tal modo.

Ma cosa chiedere al Dio che ascolta e vede, come raccordare una posizione pubblica con il prossimo che ti guarda e considera, con l’accoglimento e l’esposizione reale dei contenuti? Nostro Signore non si occupa dell’orazione comunitaria della Chiesa in cui è inevitabile che i fratelli si ritrovino alla Sua presenza, ma ancora una volta si occupa della persona con quel “ma tu” sul quale ci siamo già soffermati tempo addietro. Gesù doveva spiegare ai presenti sul monte che tutto partiva dall’interno dell’uomo invitato a cercare prima di tutto il rapporto individuale con YHWH che lo avrebbe guidato e chiamato direttamente. Ricordiamo sempre che la Chiesa è comunità formata da individui, ciascuno con la sua funzione vista nel corpo di Cristo e nelle “molte membra”, o se vogliamo è un edificio composto da molte pietre, non mattoni cotti in una fornace, ciascuno con le stesse dimensioni e fattezze.

L’ipocrita recita una parte, ha un ruolo che è quello di impressionare un pubblico, nulla a che vedere con la verità e l’esaudimento che si ritrovano nel rapporto personale con Dio. Si tratta di scegliere. Vuoi una ricompensa? Scegli se avere quella dell’ammirazione umana da parte dei membri di una comunità religiosa, o quella che proviene dalla ricerca dell’incontro col tuo Signore, che Davide ha descritto in modo stupendo e poetico nel Salmo 139 citato la volta scorsa.

Nelle parole di Gesù però c’è molto di più, perché l’insegnamento sulla preghiera occupa una posizione centrale e si allarga notevolmente, essendo un “tu” al tempo stesso personale e comunitario. Ci possiamo infatti ricollegare alle parole di Maria di Magdala quando, piangente vicino al sepolcro vuoto, rispose ai due angeli che le chiedevano il motivo delle sue lacrime: “Hanno portato via il mio Signore e non so dove l’hanno posto” (Giovanni 20.13). Certo Maria non poteva avere l’esclusiva dell’appartenere a Cristo e viceversa, ma queste parole rappresentano il sentimento di totale aderenza a Lui. Quel Signore che umanamente non sapeva dove fosse nonostante avesse dichiarato che sarebbe risorto, dal punto di vista affettivo e del rapporto individuale era unicamente di quella donna e al tempo stesso degli altri coi quali aveva condiviso la vita di predicazione del Vangelo. Ma la prevalenza del rapporto è da vedersi con il “mio”: è lui che mi ama, mi parla, mi sostiene.

Ecco allora il “tu” che diventa “mio”, cioè non può che coinvolgere l’esterno e l’interno della persona e da lì riversarsi nella comunità, nella Chiesa. Ecco allora che il “mio” diventa poi “nostro”, un plurale che leggiamo nella preghiera del Padre nostro: “nostro” – “dacci oggi” – “rimetti a noi” – “non indurci” – “liberaci dal male”. Sono quattro richieste perché possiamo rimanere in equilibrio, per quanto il “non indurci” sia una traduzione errata e vada piuttosto intesa come “non esporci” o meglio ancora, come vedremo, “non abbandonarci”. Avremo modo di affrontare i plurali nelle prossime riflessioni; per ora è necessario sostare ancora sul singolare, che si riflette comunque nel plurale e viceversa perché è da lì che parte la costruzione della Chiesa, la Comunità dei salvati che Dio riunisce sulla terra in attesa di chiamarli a Lui per sempre.

La comunità beneficia sempre della preghiera del singolo, della persona spirituale che ben difficilmente si dichiarerà tale per avere una posizione d’onore sugli altri: agirà con l’obiettivo di camminare unito a Cristo, o a YHWH per gli uomini dell’Antico Patto. Pensiamo ad Abramo che fece intercessione per Sodoma, a Simeone “guardiano” del Tempio, al “rimanente fedele” degli ultimi tempi e al passo “Iddio conosce quelli che sono suoi”.

L’esortazione di Gesù è quindi quella di cercare la comunione col Padre “nel segreto”, di chiudersi in camera, concetto che esamineremo nel corso della trattazione del “Padre nostro”, là dove nel “chiudere la porta” individuiamo l’atto con cui lasciamo fuori tutto ciò che ci ha accompagnato fino a poco prima, non certo solo le persone: pensieri, idee, preoccupazioni, turbamenti, perché viceversa correremmo il rischio di ripetere le nostre richieste come una sorta di mantra oppure, attaccati al contingente, presenteremmo una “lista della spesa” esattamente come farebbero quei “pagani che credono di venire ascoltati a forza di parole”. È il bambino che vede solo le proprie necessità e si crede al centro del mondo, non l’adulto ed è per questo che abbiamo l’esortazione ad essere “bambini in malizia e uomini maturi in senno” (1 Corinti 14.20).

È l’equilibrio che può garantire un esaudimento, che non può essere insegnato ma va ricercato: molto spesso gli insegnamenti di Gesù sono solo un appello al buon senso spirituale che purtroppo non sempre l’uomo possiede e quindi cade in contraddizioni tremende; ricordiamo ad esempio l’offerta sull’altare che non può essere presentata nel momento in cui il nostro prossimo ha qualcosa contro di noi: il “debito” che abbiamo col fratello impedisce l’accoglimento di essa e, nel nostro caso, della preghiera.

Pensiamo ancora al “tu” di Gesù che invita il singolo, l’individuo, a presentarsi lasciando fuori dalla porta tutto quanto può interferire col rapporto col Padre: è quello il momento in cui si realizza il confronto tra due elementi, Dio che ascolta e l’uomo. La porta che tiene fuori ciò che disturba può metterci in condizione non tanto e solo di chiedere, ma di confrontarci, discorrere, fare il punto di situazioni più che chiedere aiuto per i fatti contingenti della vita di cui è detto “il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate” (v.8).

Quando ero giovane mi chiedevo, alla luce di queste parole, per quale motivo io dovessi pregare per le mie necessità se queste erano già conosciute dal Padre: la parte più importante del verso, però, è quella che informa dell’onniscienza di Dio che ci osserva; sa di cosa abbiamo bisogno realmente e non di ciò che noi riteniamo sia importante. E questo consola e illumina. A volte possiamo essere convinti di avere necessità della soluzione ad un problema e vediamo solo quello e purtroppo istintivamente, come i bambini, vorremmo che il suo appianamento fosse immediato: non è così. Non sempre, almeno. L’apostolo Pietro raccomanda di riversare “…su di Lui ogni preoccupazione, perché Egli ha cura di voi” (1 Pt 5.7): questa è una verità che dovrebbe spingerci, nella preghiera che rivolgiamo a Dio nella preoccupazione che talvolta si muta in angoscia, a chiedere quell’aiuto, ma anche l’accettazione di una Sua volontà diversa nei nostri confronti. Perché l’accoglimento della preghiera non è detto che avvenga secondo le nostre intenzioni. L’importante è avere una risposta, la soluzione di un dubbio e, sotto quest’ottica, un “sì” o un “no” hanno lo stesso valore.

Chi ebbe un’esperienza diversa da quella che si aspettava, cioè un esaudimento risolutivo di un problema, fu l’apostolo Paolo che, affetto da una malattia agli occhi provocatagli da schiaffi e pugni presi in carcere, pregò Dio che lo guarisse. Paolo passò del tempo a interrogarsi sul perché rimanesse così e, scrivendo ai Corinti, lo spiegò: “Perché  non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di Satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia. A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che lo allontanasse da me– ecco il rifiuto dell’usare molte parole come i pagani –. Ed Egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella tua debolezza». Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo” (2 Corinti 12.7-9). Da Dio una risposta arriva sempre anche se i suoi tempi non sono i nostri. Paolo accettò questa condizione, continuando a scrivere anche se il corpo dei suoi caratteri, a causa della vista, aumentò considerevolmente e, a un certo punto, dovette ricorrere all’aiuto di altri fratelli che redigessero alcune lettere (pensiamo a Terzio con la lettera ai Romani). Ma ebbe rivelazioni che non furono rivolte a nessun altro uomo.

Il credente è sempre nell’amore di Dio, tanto nella gioia sulla terra quanto nel suo opposto. Prende il dolore come parte integrante di essa. Sa di essere nelle Sue mani. A differenza degli altri uomini non salvati, può guardare a Lui. Sempre. Amen.

* * * * *

05.27 – PRATICARE LA GIUSTIZIA II/II (Matteo 6.1-4)

05.28 –Praticare la Giustizia II/II (Matteo 6.1-4)

1State attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro, altrimenti non c’è ricompensa per voi presso il Padre vostro che è nei cieli. 2Dunque, quando fai l’elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade, per essere lodati dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. 3Invece, mentre tu fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, 4perché la tua elemosina resti nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.”. 

Nella riflessione precedente abbiamo affrontato il tema delle “buone opere”, o della “giustizia”, partendo dall’aspetto negativo, quello di ciò che viene fatto per ostentazione. Abbiamo anche visto che col termine “giustizia”, in questo caso, si intendevano elemosina, preghiera e digiuno, elementi che si affiancavano alla legge cerimoniale praticata pubblicamente dagli Scribi e Farisei distorcendo così il valore spirituale di quellee azioni. Gesù, però, con il suo insegnamento non intendeva dare a chi Lo ascoltava delle “istruzioni su come ottenere i favori di Dio”, ma piuttosto far riflettere sulle motivazioni che spingono veramente ad agire chi si vuole porre in rapporto col Padre: siamo quello che facciamo e, in quanto esseri pensanti, c’è sempre l’invito a valutarci attentamente rispondendo sempre a una domanda che giunge puntuale: “perché?”. “Perché” è quel ritornello ossessivo che spesso un bambino, arrivato a una certa età, rivolge agli adulti, ma anche sarebbe un metodo che, se adottato in età consapevole, porterebbe a conclusioni senz’altro interessanti; sarebbe un andare alla radice, sarebbe un esame a vasto raggio su ciò che sentiamo sia nella vita quotidiana naturale che in quella spirituale. È un comportamento che raramente attuiamo, abituati come siamo al quotidiano e, soprattutto, a dare tutto per scontato nei rapporti coi nostri simili e con Dio. Chiedersi perché equivale a fermarsi, azione che soprattutto la società attuale fa di tutto per evitare che ciò accada.

Gesù, invece, proponendo due comportamenti tra loro opposti, cioè praticare la giustizia finta e quella vera, spinge i suoi uditori e chi legge le sue parole a riflettere sul valore di questi metodi, ma soprattutto a ricordare che Dio non può essere preso in giro da nessuno: sappiamo che il primo verso del capitolo 6 inizia con “State attenti”. Se nella prima parte di queste riflessioni ci siamo occupati dell’agire per avere l’altrui approvazione, qui esamineremo la verità secondo cui Dio guarda “in segreto” e quindi, alla radice, alla genesi delle nostre azioni.

 

  1. In segreto

C’è un particolare da tener presente non solo nel leggere questi versi, ma tutto il capitolo e cioè: se andiamo a leggere le indicazioni sulle “buone opere” troviamo sempre, a un certo punto, un bellissimo, interessante pronome: “Invece, mentre tu fai l’elemosina” (v.3), “Invece, quando tu preghi” (v.6), “Invece, quando tu digiuni” (v.17). Quando un essere umano incontra Cristo in salvezza e si pone in rapporto con Lui, quindi, esce dalla massa per farsi persona. Questo è il significato del “tu” citato per tre volte. Non è poco perché, se la massa fosse composta da individui pensanti, non sarebbe tale, non sarebbe folla, quella che gridava “crocifiggilo” dimenticando i miracoli e le guarigioni avvenute. La massa è pilotabile da sempre, fa sì che i movimenti politici diventino grandi, è quella che segue la Bestia e il falso profeta, che asseconda e si riconosce nelle mode, viene spinta a fare rivoluzioni da un’élite di “pensatori” perché tutto resti sostanzialmente come prima, dove le cose cambiano perché nulla cambi o, nella migliore delle ipotesi, vince una battaglia ma mai una guerra perché il potere momentaneamente sconfitto ritorna sempre e più forte di prima. E all’occorrenza, con forme diverse. La massa crede, si fa influenzare inconsapevolmente, obbedisce e non programma mai a lungo termine, dà per scontato, gli basta poco per sposare le opinioni che le vengono fornite perché non avendole ne ha bisogno, la massa si plasma col tempo e con strategia.

Il “tu” di Gesù invece chiama in causa direttamente, invita chi Lo ascolta a riconoscersi in Lui e, in caso di risposta affermativa, l’essere umano scopre che il suo nome è scritto nel libro della vita, nel “registro di Dio” come lo definì un giorno un fratello, quello che l’apostolo Giovanni vide in una visione che riporta in Apocalisse 5.1: “E vidi, nella mano destra di Colui che sedeva sul trono, un libro scritto sul lato interno e su quello esterno, sigillato con sette sigilli”, quelli che solo il Cristo vittorioso potrà aprire dopo che si saranno compiuti tutti gli avvenimenti descritti nei capitoli dal quinto a 20.12: “E vidi i morti, grandi e piccoli che stavano ritti davanti al trono. E i libri furono aperti. E fu aperto un altro libro, che è il libro della vita. E i morti furono giudicati dalle cose scritte nei libri, secondo le opere loro”. Puntualizzazione: i morti “grandi e piccoli” non sono adulti e bambini, ma persone che nella loro vita sono stati più o meno importanti, ma hanno avuto comunque tutti la responsabilità della gestione del bene più prezioso, la loro vita. Notare la distinzione fra “i libri”, contenenti metaforicamente le azioni di ciascuno di loro, folla, e “il libro” su cui sono scritti i nomi dei salvati, quelli del “tu”: ognuno di loro è conosciuto perché “Le mie pecore conoscono la mia voce ed esse mi seguono” (Giovanni 10.27). Ecco, i tre “Invece tu” sono lo sviluppo del cammino secondo Cristo, quello che compiono quelle “pecore” che conoscono la voce del pastore e quindi non seguono altri, non fidandosi. Chi non ha Lui come pastore, non potrà che perdersi perché ne avrà scelto inevitabilmente un altro, uno alternativo, quello che la vita per il suo gregge non l’avrà mai data.

E ci troviamo ancora alla divisione in due gruppi, ai due tagli della spada che qui divide chi è massa da chi è diventato persona. Non si tratta di presunzione, ma di condizione ben delineata nella Parola di Dio. Non esiste credente che sia tale perché ha avuto un’esperienza personale col Signore e che non sia protetto dall’ultimo, grande inganno degli “ultimi tempi” visto in quel sistema religioso, politico ed economico che precluderà qualunque possibilità di evasione e distinzione da lui: “E tutti gli abitanti della terra i cui nomi non sono scritti fin dalla fondazione del mondo, la adoreranno” (Apocalisse 13.8), riferito alla Bestia. Mi rendo conto di scrivere concetti che meriterebbero ben altri approfondimenti, ma è importante sapere che ogni azione che facciamo è sempre il frutto di una scelta e non c’è possibilità di essere neutrali nel nostro cammino terreno. Chi è massa segue gli altri, chi è persona – spiritualmente parlando – segue Cristo in un percorso che sarà sempre e solo individuale, per quanto condiviso con altri.

Torniamo però alla persona in genere: comunque sia, che appartenga alla massa o da lei si distingua – e non serve compiere azioni eclatanti per farlo – vale quanto leggiamo in Geremia 17.9,10: “Niente è più infido del cuore e difficilmente guarisce! Chi lo può conoscere? Io, il Signore, scruto la mente e saggio i cuori, per dare a ciascuno secondo la sua condotta, secondo il frutto delle sue azioni”. Ancora: “Sono forse Dio solo da vicino? (…) Non sono Dio anche da lontano? Può nascondersi un uomo nel suo nascondiglio senza che io lo veda?” (23.23,24). Infatti “Non vi è creatura che possa nascondersi davanti a Dio, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi di Colui al quale dobbiamo rendere conto” (Ebrei 4.13).

Ancora una volta abbiamo una distinzione molto importante sul rendiconto, diverso dal giudizio, risparmiato a chi crede: “In verità, in verità io vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita” (Giovanni 5.24). Piuttosto, il concetto del rendiconto è spiegato dall’apostolo Paolo con queste parole: “Nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo. E se, sopra questo fondamento, si costruisce con oro, argento, pietre preziose, legno, fieno, paglia, l’opera di ciascuno sarà ben visibile: la farà conoscere quel giorno che si manifesterà col fuoco, e il fuoco proverà la qualità dell’opera di ciascuno. Se l’opera che uno costruì sul fondamento resisterà, costui ne riceverà una ricompensa; ma se l’opera finirà bruciata, sarà punito: tuttavia egli si salverà, però come attraverso il fuoco” (1 Corinti 3.11-15).

In questi versi abbiamo prima di tutto la descrizione dell’impossibilità di costruire qualcosa senza Gesù Cristo come motivazione e soprattutto su di lui come fondamento, poi la prova del fuoco che brucerà tutto ciò che di inutile avremo realizzato lasciando soltanto ciò che avremo prodotto di veramente prezioso e accettevole a Dio. Come interpretare però le ultime parole “si salverà, però come attraverso il fuoco”? Il fuoco rovina, guasta, sfigura la persona, crea una sofferenza terribile. Per questo mi pare di capire che, per quanti si troveranno in quello stato, la loro vita nei “Nuovi cieli e nuova terra” sarà in qualche modo penalizzata come, nel quotidiano terreno, chi si ustiona al di là del primo grado incontra seri problemi per gli esiti cicatriziali e resta invalido, visto che la morte, che a volte sopraggiunge nei grandi ustionati, qui non è contemplata. Una cosa è vivere la dispensazione della grazia, data all’uomo per salvarsi e costruire, un’altra affrontare “il rendiconto”. Ecco uno dei perché del timor di Dio: è contemplato che uno sul fondamento costruisca con legno, fieno o paglia, materiali che non duraturi nel tempo e suscettibili ad essere distrutti nel giorno della retribuzione. Ricordiamoci che quando Giovanni vide in visione il Signore, lo descrisse come avente “occhi fiammeggianti” a sottolineare il suo discernimento tra ciò che resiste o no alla perfezione del suo sguardo.

Ecco allora che quel triplice “Invece tu”, indica il metodo, un aspetto del cammino che solo l’amore per Colui che ci ha salvato può spingerci a compiere.

Ho scritto della persona che si differenzia dalla massa: può aiutare l’esperienza di Davide nel Salmo 139 che illustra con parole di verità l’essenza di questo rapporto: “Signore, tu mi scruti e mi conosci, tu sai quando mi siedo e quando mi alzo, intendi da lontano i miei pensieri, osservi il mio cammino e il mio riposo, ti son note tutte le mie vie. La mia parola non è ancora sulla lingua ed ecco, Signore, già la conosci tutta. Alle spalle e di fronte mi circondi e poni su di me la tua mano. Meravigliosa per me la tua conoscenza, troppo alta, per me inaccessibile. Dove andare lontano dal tuo spirito? Dove fuggire dalla tua presenza? Se salgo in cielo, là tu sei; se scendo negli inferi, eccoti. Se prendo le ali dell’aurora per abitare all’estremità del mare, anche là mi guida la tua mano e mi afferra la tua destra”. Facciamo caso ai verbi: scrutare – conoscere – sapere – intendere – osservare – circondare – porre – essere – guidare – afferrare. Sono dieci, a significare la cura totale che Dio ha per l’uomo che ha chiamato. E che le esigenze che ha sono proporzionali alle cure che dà.

E abbiamo letto parole di Davide, nonostante abbia compiuto azioni non sempre degne di un individuo spirituale a tal punto che YHWH non gli consentirà di edificargli il tempio, scegliendo per questo Salomone suo figlio. Questo re conobbe momenti di formidabile comunione con Dio ed altri molto più carnali, quando si adagiò sui lussi della propria vita di corte. Questo ci consente di chiederci: quanto tempo della mia giornata trascorro col mio Dio onestamente? Pensiamo a Giovanni Battista, che stava nel deserto attendendo l’ora per cui era stato preparato. Certo, Davide scrisse questo Salmo gioendo per la possibilità di contemplazione che gli veniva data ed è proprio l’esperienza di essere ascoltato e conosciuto nel profondo a farlo parlare nel modo in cui abbiamo letto. Ecco ciò che è compreso nel “tu” e “in segreto”: un rapporto individuale che nessuno conosce al di fuori di due persone, quella di chi crede e Dio stesso.

Per questo il “tu” è anche una sorta di termometro, indica la nostra posizione spirituale. Davide descrive la conoscenza di Dio con le parole “Meravigliosa”, “troppo alta” e per lui “inaccessibile”, ma non si stancava di contemplarla sentendosi parte di lei e, nonostante fosse conscio di capirla in una quantità infinitesimale, ci ha lasciato come profeta delle verità molto profonde nei suoi Salmi. Davide sapeva di essere parte del piano per la redenzione dell’uomo. Per lui era importante quel “Tu” a prescindere dalla sua natura umana che purtroppo, come per tutti noi, era sempre lì, pronta a penalizzarlo. Chi è salvato entra in un mondo immenso, non potrebbe essere diversamente.

C’è poi la retribuzione, termine che nasconde realtà diverse e che consiste nel sostegno nella vita terrena nonostante le prove, i lutti o le malattie perché “piove sui giusti e sugli ingiusti”, ma anche nel risultato del rendiconto di cui troviamo una descrizione nella famosa parabola detta “dei talenti” (Matteo 24.14-30) in cui viene detto “Sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; entra nella gioia del tuo signore”. Sarà allora che ciò che è segreto diventerà palese ed eterno, mentre le opere di chi avrà agito per ostentazione saranno dimenticate e distrutte. Amen.

* * * * *

05.26 – PRATICARE LA GIUSTIZIA (Matteo 6.1-4)

05.27– Praticare la GiustiziaI/II (Matteo 6.1-4)

1State attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro, altrimenti non c’è ricompensa per voi presso il Padre vostro che è nei cieli. 2Dunque, quando fai l’elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade, per essere lodati dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. 3Invece, mentre tu fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, 4perché la tua elemosina resti nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.”.

Nonostante il contenuto semplice ed immediato, questi versi implicano e ampliano sinteticamente concetti che svilupperemo per lo spazio di due incontri, ponendo delle basi su cui costruire anche i successivi insegnamenti di Gesù sulla preghiera e il digiuno. La prima precisazione riguarda il termine “giustizia”, diverso da quello sviluppato a suo tempo con la quarta beatitudine, “Beati quelli che sono affamati e assetati di giustizia, perché saranno saziati”: “giustizia”, nel brano oggetto di riflessione, è reso in vari modi nelle traduzioni, cioè con “elemosina” o il generico “buone opere”. Ora il termine “vostra giustizia” è riferito effettivamente alle opere buone che ogni pio israelita era tenuto a compiere cioè l’elemosina, la preghiera e il digiuno, argomenti sui quali Nostro Signore si soffermerà non poco e sempre facendo una divisione netta tra il valore che si dà alle cose secondo parametri umani e quanto appartiene all’ambito spirituale. Umano e spirituale sono due mondi, due blocchi distinti che comportano realtà, dimensioni assolutamente incompatibili ovunque, tanto nel mondo tangibile quanto in quello della quarta dimensione.

Se andiamo alla parabola del ricco e Lazzaro, a un certo punto Abrahamo dice al ricco: “Tra voi e noi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a voi” (Luca 16.26). Ebbene queste parole hanno una valenza a largo raggio perché riassumono delle esistenze che, in realtà, erano già divise dal “grande abisso” anche quando si svolgevano in terra. Ricordiamo le parole “chi non crede è già condannato” (Giovanni 3.18) che, pur indicando uno stato non definitivo perché la persona può sempre ravvedersi, inseriscono il condannato in un ambito preciso, diverso da chi è giustificato per fede. Per quanto la parabola sarà oggetto di studio a suo tempo, va detto che le parole su“coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono”, non vogliono sottintendere che ci sia qualcuno che dal “seno di Abrahamo” vuol raggiungere chi è nei tormenti, ma sono la risposta alla richiesta del ricco che pretendeva di avere ancora autorità sul povero Lazzaro che in vita aveva costantemente umiliato.

Venendo ad testo, le prime due parole che incontriamo sono un avvertimento, “State attenti”, cui segue uno sviluppo sulla divisione tra il mondo della carne e quello dello spirito. Non si tratta solo della descrizione di una condizione, ma delle conseguenze cui porta aderire a un mondo piuttosto che a un altro, che non possono essere trascurate: “State attenti”. Essendo la Sua parola una spada a due tagli, tutto il messaggio di Gesù si basa sulla divisione che essa produce e in questo caso va a colpire la realtà storica del suo uditorio, abituato a manifestazioni eclatanti nella gestione delle “buone opere” da parte dei suoi maestri: l’elemosina elargita sempre in pubblico, preghiere esternate con atteggiamenti quasi teatrali, digiuno accompagnato da aspetto mesto e sofferente. Nostro Signore quindi affronta i punti cardini di quella “giustizia” individuale secondo l’insegnamento (ed esempio) che scribi e farisei davano al popolo, nonostante tutta la loro scienza scritturale che avrebbe potuto aiutarli in un’onesta relazione con Dio.

Pensiamo: conoscevano il passo “O voi tutti che siete assetati, venite alle acque” (Isaia 55.1). Ebbene, anziché aderire a quell’invito avevano finito per realizzare ancora una volta il lamento “Hanno abbandonato me, fonte di acqua viva, e si sono scavati cisterne piene di crepe, che non contengono acqua”(Geremia 2.13). Ogni volta che l’uomo abbandona la vera via, quella spirituale e diretta che gli concede un accesso a Dio, e vuole fare da solo, scava cisterne inidonee, inutili se c’è una fonte eterna, già crepate in partenza e, sempre da Geremia, corre dietro al nulla, e nulla diventa (2.5). L’uomo si trasforma sempre in ciò che ama, cerca, arriva a formare un tutt’uno con lui.

Il tema del primo intervento di Nostro Signore sulle “buone opere” riguarda l’elemosina, quell’azione che chi ha è tenuto a compiere nei confronti del povero. Già abbiamo incontrato nel sermone sul monte alcuni cenni al dare a chi chiede, ma qui è diverso, è un riferimento a Deuteronomio 15.11 in cui è scritto “Poiché i bisognosi non mancheranno mai nella terra, allora io ti do questo comando e ti dico: «Apri generosamente la mano al tuo fratello povero e bisognoso sulla terra». Giobbe stesso, in uno dei suoi ultimi discorsi ai cosiddetti “amici” venuti a consolarlo dice “…soccorrevo il povero che chiedeva aiuto e l’orfano che ne era privo. La benedizione del disperato scendeva su di me e al cuore della vedova infondevo la gioia” (Giobbe 29.11,12).

Colpisce in entrambi i versi come sia non il dovere, ma l’immedesimazione nel prossimo sofferente il motore dell’azione che porta all’aiuto economico. Colpisce il fatto che Giobbe, vissuto nella dispensazione della coscienza, ai suoi tempi il più ricco degli uomini in Oriente definito “Integro e retto, timorato di Dio e lontano dal male” (1.1), si immedesimasse a tal punto nella condizione di preoccupazione e sofferenza del suo prossimo indigente da rinunciare a parte dei suoi averi. Le sue non erano delle semplici offerte, che oggi ci sono e domani no, ma un sostentamento. E qui il confronto tra Giobbe e il ricco della parabola che abbiamo citato sorge spontaneo: l’uno teneva per sé ossessivamente, l’altro dava ritenendo ciò che possedeva uno strumento per aiutare l’altro. Anche qui, due mondi.

Quello dell’elemosina è per noi un tema delicato, essendo la realtà in cui viviamo molto più complessa di quella di allora: chi mendicava era realmente bisognoso mentre oggi sono molti quelli che vivono di espedienti, che oggi chiedono aiuto e domani rubano per cui aiutare in modo mirato chi veramente si trova in condizioni precarie è molto difficile; le stesse associazioni benefiche cui uno potrebbe far riferimento sono in realtà organizzazioni che cercano di trarre profitto anche dalla donazione più insignificante e le stesse strutture, anche religiose, che provvedono agli indigenti raramente rispettano il principio di sopperire prima ai bisogni dei poveri locali. E l’apostolo Paolo scrisse “Se uno non si prende cura dei suoi cari, soprattutto quelli della sua famiglia, costui ha rinnegato la fede ed è peggiore di un infedele” (1 Timoteo 5.8). Oggi ci sono delle congregazioni religiose che hanno sfrattato dalle loro strutture persone realmente povere, italiane, per ospitarne altre, straniere, confidando nell’aiuto economico dello Stato, cosa davvero molto triste e che di carità ha solo la parvenza esteriore.

Tornando alle parole di Gesù sull’elemosina, che nella sua forma corretta è un atteggiamento, uno spazio mentale e non un mero versare delle somme a qualcuno, vediamone lo sviluppo: c’è un’azione, l’esercizio della “giustizia” e poi due scopi, quello di guadagnarsi l’ammirazione altrui, oppure qualcosa compiuto in silenzio, nel segreto, che si esprime attraverso il naturale e semplice gesto del puro, disinteressato aiuto per il prossimo. Scegliere a quale aderire significa prendere una direzione che porta a conseguenzediametralmente opposte.

 

  1. Agire per avere l’altrui approvazione.

Chi cerca il pubblico è l’attore, cioè una persona che finge una condizione, uno stato d’animo che non gli appartiene, l’essere ciò che non è. Agisce per altri scopi, recita. E il greco, per indicare una simile persona, usa il sostantivo “ipocrita” adottato dalla lingua italiana che lo spiega con la definizione “simulatore di atteggiamenti o sentimenti esemplari”. Chi ha letto il Vangelo non può non associare l’ipocrita ai tradizionali oppositori di Gesù, gli Scribi e i Farisei, da lui così definiti in Matteo 23.27 e non solo: “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti! Perché rassomigliate a sepolcri imbiancati, che di fuori appaiono belli, ma dentro sono piedi di ossa di morti e di ogni putredine!”. Poiché i sepolcri e relativi monumenti venivano imbiancati ogni anno il 15 del mese di Adar (febbraio – marzo) per evitare che i viandanti contraessero impurità toccandoli inavvertitamente, Nostro Signore fa un paragone assolutamente esaustivo con la condizione spirituale di questi personaggi. Anzi, in Luca 11.44 va oltre, sottolineando la loro pericolosità: “Guai a voi, perché siete come quei sepolcri che non si vedono e la gente vi passa sopra senza saperlo”. Con il primo paragone, quello dei sepolcri imbiancati, abbiamo un riferimento alla persona che fa di tutto per sembrare “per bene” e non lo è; con il secondo, invece, si ha il ritratto di colui che pare innocuo, ma in realtà danneggia profondamente gli altri con il suo esempio.

La religione, con l’esercizio così spinto della forma e della ritualità, rende impossibile l’espressione sana e semplice della fede, insegna non troppo trasversalmente a chi vi prende parte ai suoi riti che è l’apparenza quello che conta. Quando da bambino sono stato cresimato e qualcuno interessato alla pecunia mi ha fatto una foto ricordo, prima di scattare mi ha detto “metti le mani giunte e fa’ finta di pregare”. Fare finta era l’importante, senza quella messa in scena il ritratto non avrebbe avuto valore. E allora ecco che anche nel cristianesimo esiste il rischio di ridurre tutto a qualcosa di falsamente rappresentativo che, nella migliore delle ipotesi, snatura il messaggio originale e nella peggiore insinua nella mente di quanti vi si accostano l’idea che tutto si basi su un atteggiamento, una veste di distinzione, un paramento, mani giunte o alzate, belle musiche e canti. In una parola, effetti speciali. Viene allora spontaneo l’accostamento alle parole di rimprovero rivolte sempre ai Farisei: “Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente: allargano i loro filatteri e allungano le frange; si compiacciono dei posti d’onore nei banchetti, dei primi seggi nelle sinagoghe, dei saluti nelle piazze, come anche di essere chiamati «Rabbi» dalla gente” (Matteo 23.3).

Avere l’ammirazione o l’approvazione degli uomini è qualcosa che conforta e soprattutto sazia la persona vanitosa che si sente realizzata quando gli altri le riconoscono un merito, ma oltre questo non si va. Non solo, ma ci si preclude la vera realizzazione spirituale come fecero quei capi del popolo che credettero in Gesù, ma senza rivelarsi: “Anche tra i capi, molti credettero in lui, ma a causa dei farisei non lo dichiaravano per non essere espulsi dalla sinagoga. Amavano infatti la gloria degli uomini più che la gloria di Dio” (Giovanni 12.42,43). Certo l’espulsione di cui parla Giovanni non era cosa da poco perché implicava l’esclusione dalla vita sociale di Israele: se quei capi de popolo di fossero rivelati, avrebbero perso la loro carica e ogni diritto.

Secondo le parole di Gesù, chi si comporta per avere l’approvazione altrui riceve il suo premio che consiste nell’ottenere ciò che cerca: l’altrui plauso.

Ecco però emergere ancora una volta in queste riflessioni la parabola che abbiamo già citato: il ricco, che aveva speso la sua vita per soddisfare la propria carne, si sentì dire “…lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti” (Luca 16.25): c’è un premio che si riscuote sulla terra e ce n’è un altro che si ottiene nella vita che viene dopo. Anche questi sono incompatibili, tra loro vi è “un profondo abisso”. Nella prossima parte esamineremo il secondo atteggiamento e cercheremo di sviluppare il significato del “vedere nel segreto”; per ora, vale l’avvertimento del primo verso, “State attenti”, teso a correggere l’idea che Dio sia costretto ad approvare e mettere “in conto di giustizia” qualunque buona azione che, in realtà, soddisfa esclusivamente la vanità personale. Sono i pochi centesimi dati come offerta nelle riunioni di Chiesa. Sono le donazioni anche cospicue in denaro date agli enti caritatevoli e pubblicizzate sui quotidiani o in televisione. Sono le ambulanze con su scritto “Dono della famiglia Tale”. È tutto ciò che viene fatto utilizzando la finta fede per avere un tornaconto personale, anche solo il cosiddetto “ritorno di immagine”. Perché le rivelazioni di Dio sono state sempre nel silenzio. Amen.

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05.24 – OCCHIO PER OCCHIO II/II (MATTEO 5.38-42)

5.24 – Occhio per occhio II (Matteo 5.38-42)

38Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente. 39Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra, 40e a chi vuole portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. 41E se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due. 42Da’ a chi ti chiede, e a chi desidera un prestito da te non voltar le spalle”.

  Due mondi a confronto. Mondi diversi, incompatibili. Così distanti esattamente come la luce dalle tenebre. Ma sappiamo che la prima cosa a venire creata fu lei e ciò avvenne tramite un ordine di Dio, quindi essa, considerata come realtà fisica, non apparteneva alla condizione originaria, allo stato veramente naturale in cui si trovava il nulla, quel “deserto e vuoto” con “le tenebre che ricoprivano la faccia dell’abisso”; senza quel “sia la luce”, esse sarebbero ancora lì, nella loro immobilità e immutabilità. Si può dire allora che, con le parole che abbiamo letto in Matteo, Gesù contrappone il comportamento di chi appartiene alle tenebre a quello di chi si identifica nel loro esatto opposto. E vive.

Allora Nostro Signore esorta i suoi uditori a un comportamento non da persona pacifica, buona o debole, ma proporzionale all’acquisizione del principio di appartenergli. Attenzione che tutto questo riguarda la persona nella profondità del proprio essere, è qualcosa di individuale, a nessuno è ordinato di rinunciare a difendere i propri cari o il proprio legittimo ambito operativo; piuttosto a comportarsi tenendo sempre presente chi si è, la dignità acquisita come figli di Dio: apparteniamo alla Chiesa, cioè siamo stati fatti “concittadini dei santi, e membri della famiglia di Dio”? Il nostro vero mondo è un altro, forma un tutt’uno con la nostra destinazione, il nostro essere che, nel suo esprimersi, nel momento in cui vive spiritualmente, va da sé che si distacchi profondamente, anche nelle sue reazioni, dal sentire e dall’agire comune.

Le parole di Gesù sono indirizzate a persone che avevano una base culturale diversa dalla nostra: sapevano che doveva arrivare un inviato di Dio, la loro vita non aveva né i nostri ritmi né i nostri tempi, era diffusa la certezza dell’aiuto di Dio e del principio della responsabilità individuale nei rapporti con Lui, della benedizione o della maledizione a seconda di come si operava. Ecco allora che, citando la tunica che si portava sopra la camicia, e soprattutto il mantello, era implicito il riferimento alla Legge che ammoniva così: “Se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo, glielo renderai prima del tramonto del sole perché è la sola sua coperta, è il mantello per la sua pelle: come potrebbe coprirsi dormendo? Altrimenti, quando griderà verso di me, io l’ascolterò, perché sono pietoso”(Esodo 22.6).

Notiamo da questo verso che c’è un principio di giustizia visto nel fatto che l’”Io sono”, rivelatosi al popolo d’Israele come il liberatore dalla schiavitù d’Egitto, quindi con “mano potente”, provvede di fronte alle rimostranze del povero che chiede giustizia. Rileggiamo il verso: “Altrimenti– se non ti comporti rispettando il tuo prossimo nelle sue esigenze elementari – quando griderà verso di me– perché mi riconoscerà come l’unico Giudice – io lo ascolterò– e tu ne subirai le conseguenze – perché sono pietoso– e imparerai a tue spese cosa vuol dire fargli violenza”.

Il fatto che Dio interviene a difesa è una cosa che raramente si tiene presente. Ci sono persone che sono sempre pronte a pregare unicamente per le proprie necessità quasi come per fare degli scongiuri, ma non riflettono su quanto è presente di Dio nella loro vita, su quale posto gli lasciano occupare, distratti come sono dalle problematiche quotidiane. Sono persone ancorate alla consuetudine, ma ancora di più alla loro storia umana, alle proprie vicissitudini perché sono costantemente sotto tensione. Non consentono alla Grazia di agire in loro trasformandoli.

Ricordiamo sempre che i comportamenti di cui parla Nostro Signore nel passo su cui riflettiamo hanno senso esclusivamente perché c’è promessa difesa da parte Sua e che comunque la Legge, molto spesso “maltrattata” negli studi cristiani cui le si attribuisce esclusivamente un peso, si preoccupava di regolare anche i rapporti tra le persone. Prendiamo ad esempio Numeri 5.6: “Quando un uomo o una donna commette qualsiasi offesa contro qualcuno, così facendo commette un peccato contro il Signore e questa persona si rende colpevole”. Possiamo vedere anche Deuteronomio 24.12-18 che trascrivo in parte: “Se quell’uomo è povero, non andrai a dormire col suo pegno. Dovrai assolutamente restituirgli il pegno al tramonto del sole, perché egli possa dormire col suo mantello e benedirti. Questo ti sarà contato come un atto di giustizia agli occhi del Signore, tuo dio. Non defrauderai il salariato povero e bisognoso, sia egli uno dei tuoi fratelli o uno dei forestieri che stanno nella tua terra, nelle tue città; gli darai il suo salario il giorno stesso, prima del tramonto del sole, perché egli è povero e a questo aspira. Così egli non griderà al Signore e tu non sarai in peccato. (…) Non lederai il diritto dello straniero e dell’orfano e non prenderai in pegno la veste della vedova. (…) Quando facendo la mietitura nel tuo campo, vi avrai dimenticato qualche mantello, non tornerai indietro a prenderlo: sarà per il forestiero, per l’orfano e per la vedova. Quando vendemmierai la tua vigna, non tornerai indietro a racimolare. Sarà per il forestiero, per l’orfano e per la vedova. Ricordati che sei stato schiavo nella terra d’Egitto, perciò ti comando di fare questo”. È un verso che è già stato citato, ma non fa male reinserirlo. E il motore di tutto qui è il ricordo della condizione in cui si versava un tempo, che provoca l’immedesimazione nella sofferenza del forestiero, dell’orfano e della vedova. E ciò che causa la reazione penalizzante di Dio è proprio il non ricordare ciò che eravamo rapportandolo a ciò che siamo, come nella parabola del creditore spietato.

È un verso, quello dell’immedesimazione nella altrui sofferenza e aspettative, che ci consente di rilevare la temperatura morale e spirituale del tempo in cui viviamo, poiché chi governa è andato molto oltre rispetto agli egoismi e alle nefandezze che i despoti del tempo biblico commettevano. Alla violenza primitiva, alle prepotenze chiaramente riconoscibili proprio perché si manifestavano attraverso di essa, se ne è sostituita una molto più apparentemente morbida, subdola, che non uccide ma spinge all’omicidio di sé o di altri. Annienta e falcia. È un processo irreversibile come i deterioramenti della terra su cui camminiamo, avvelenata e prossima ad esaurirsi, o della vera dignità della persona, a meno che non si rivolga all’Unico in grado di elevarla.

Rientro in tema e riporto le parole di un commento al passo sul “non resistere al malvagio” che stiamo meditando: “Le razionalizzazioni delle parole di Gesù non mostrano che le sue parole sono impraticabili o esagerate, ma semplicemente che il mondo cristiano non è mai stato disposto e non lo è tuttora a vivere secondo questa etica”. Sono parole che riflettono una condizione di malattia spirituale, poiché le esortazioni a comportarsi diversamente dall’umanamente ordinario non solo le troviamo scritte da Pietro e da Paolo, ma era un principio praticato nella Chiesa primitiva.

Arriviamo così al terzo caso, quello esposto al verso 41, che allude a un servizio forzato o alla presenza di un dominatore straniero. Il parallelo con l’Egitto è inevitabile: Israele non ottenne la libertà con una sommossa e neppure fu liberato da Mosè come condottiero “puro ed eroico”, ma da Dio che dispose gli eventi in modo tale che determinati avvenimenti si verificassero. Teniamo presente che la traduzione che usiamo in questo caso è molto sbrigativa: l’esempio non è di una persona prepotente che vuol costringere un’altra a percorrere un miglio, ma di chi requisisce arbitrariamente, in virtù della sua superiorità militare, uomini o bestiame per i suoi scopi. Chi aveva l’autorità per requisire era solitamente un corriere pubblico o un portatore di dispacci che si chiamava “Angàrios” da cui il verbo “Angaréuo” che significa “costringere qualcuno a fare un viaggio”. Da lì viene il nostro “angariare”. Ora gli ebrei, notoriamente, rifiutavano qualsiasi servizio al dominatore romano (teniamo presente come consideravano i pubblicani e le dispute sul fatto se fosse lecito o meno pagare le tasse) e quindi l’esortazione a percorrere due miglia anziché uno aveva molto da dire a chi aveva quel tipo di atteggiamento. E un miglio era l’equivalente di mille passi. È chiaro allora che impuntarsi per ragioni di principio non porta da nessuna parte, anzi, offrire un’assistenza per il doppio di quanto richiesto può costituire una testimonianza che vada a beneficio dell’angariante.

E arriviamo al quarto punto, quello del dare. Quattro sappiamo che è sinonimo di completezza umana e qui sono ritratti gli aspetti possibili del reagire. Come ci può essere chi è reattivo a fronte di un’aggressione perché forte di costituzione e chi invece è più incline a subire, così possiamo avere chi è attaccato alle proprie cose a tal punto da volerle tenere sempre per sé, accumularle. Purtroppo, “è mio” non lo dicono solo i bambini capricciosi, ma il voler possedere uomini o cose è una caratteristica del nostro genere. Anche qui gli ascoltatori di Gesù avevano un retroterra culturale che noi non abbiamo: “Il malvagio prende in prestito e non restituisce, ma il giusto ha compassione e dà in dono”(Proverbi 3.27,28). Ancora: “Chi ha pietà del povero fa un prestito al Signore, che gli darà la sua ricompensa”(19.17).

Viene così rinnovato per la quarta volta il principio della responsabilità. Siamo esortati a dare a chi ci chiede e a non voltar le spalle a chi desidera un prestito da noi, facendo però attenzione a non generalizzare il tutto sotto un falso buonismo, ma a considerare le necessità della persona: “A quelli che sono ricchi in questo mondo ordina di non essere orgogliosi, di non porre la speranza nell’instabilità delle ricchezze, ma in Dio, che tutto ci dà con abbondanza perché possiamo goderne. Facciano del bene, si arricchiscano di buone opere, siano pronti a dare e a condividere: così si metteranno da parte un buon capitale per il futuro, per acquistarsi la vera vita”(1 Timoteo 6.17,18).

Ecco, questo è un verso adatto per concludere queste riflessioni. Paolo scrive a Timoteo, suo discepolo e compagno d’opera, ricordandogli il tipo di esortazione da fare ai ricchi in denaro: non avrebbero dovuto essere orgogliosi, cioè ritenersi migliori di altri perché avevano una posizione sociale rilevante e quindi far leva sulle loro amicizie altolocate ed esclusive, né porre la speranza nella loro ricchezza, definita “instabile” perché può essere perduta (rubata, requisita, distrutta). Soprattutto Dio può chiamarli a sé senza dar loro l’opportunità per goderne, come nella parabola del ricco stolto. Avere ricchezze significa esserne dominati perché ci si deve adoperare affinché crescano, fruttino, non si svalutino e spesso il pensiero di perdere il denaro investito logora chi se ne occupa. La mentalità del mondo non comprende chi si comporta diversamente da lei perché chi appartiene al suo sistema si trova automaticamente inserito in una morale che non contempla favorire il prossimo, ma difendersi da lui a prescindere. È la legge della sopravvivenza espressa nell’antico adagio “mors tua, vita mea”.

Poi c’è qualcosa di illuminante, che riguarda la collettività a prescindere dalla eventuale ricchezza di ciascuno, cioè che la speranza va posta “in Dio, che tutto ci dà con abbondanza”, dove “tutto” e “abbondanza” dichiarano che quanto abbiamo come cristiani è progettato, costruito su misura per noi. C’è tutto un insegnamento riguardo alle sollecitudini ansiose sul mangiare, bere e vestirsi che Gesù tratterà proprio in questo sermone sul monte e verrà espresso in parte nel “Padre nostro” e in altri versi a seguire. Lo scopo del dare con abbondanza di Dio è “perché possiamo goderne” e ringraziare. Nessuno crederebbe in Cristo se non avvertisse su di sé le attenzioni e l’amore del Padre.

Ebbene, anche ai ricchi conosciuti da Timoteo è raccomandato di non considerare i loro averi come qualcosa di esclusivo, ma “siano pronti a dare e a condividere” là dove è quel “pronti” che qualifica la disposizione d’animo.

Gesù quindi dà ai suoi uditori e a noi, ancora una volta, gli elementi per crescere e mettere in pratica un altro aspetto della loro vita spirituale.

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5.20 – SETTIMO, NON COMMETTERE ADULTERIO VI (Matteo 5.27-32)

5.21 – Settimo, non commettere adulterio VI (Matteo 5.27-32)

27Avete inteso che fu detto: Non commetterai adulterio.28Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore. 29Se il tuo occhio destro ti è motivo di scandalo, cavalo e gettalo via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geènna. 30E se la tua mano destra ti è motivo di scandalo, tagliala e gettala via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo vada a finire nella Geènna. 31Fu pure detto: «Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto del ripudio». 32Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, eccetto il caso di unione illegittima, la espone all’adulterio, e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio”.

Avevo pensato di finire questi interventi su divorzio e matrimonio con il quinto studio, ma avrei compiuto delle omissioni. Tutto ciò che Gesù dice nel nostro passo di Matteo è rivolto in primis ai giudei e quindi ai cristiani, per quanto sarà l’apostolo Paolo a sviluppare il tema soprattutto ai credenti della Chiesa di Corinto che, composta in maggioranza da greci convertiti, era soggetta alle influenze del pensiero non solo filosofico di allora; i costumi sessuali dell’epoca, inoltre, influivano sulla condotta di molti componenti della Comunità corinziana perché nel mondo greco la pederastia e l’amare indifferentemente uomini o donne rientravano nel concetto della ricerca del bello. Ricordiamo poi che in quei credenti si era fatta strada la convinzione secondo cui, se col sacrificio di Cristo erano stati liberati dal peccato, l’impegno a non commetterne altri non aveva senso.

È per questo motivo che Paolo, al fine di mettere ordine nei costumi e nelle idee di molti componenti di quella Chiesa, affronta il tema del matrimonio sotto due aspetti, quello della “sola carne”, quindi del corpo del singolo, e quello spirituale.

 

LA CARNE E IL CORPO

Voi dite spesso: «Tutto è lecito!”. D’accordo, ma tutto è utile? Certamente tutto è lecito, ma non mi lascerò mai dominare da qualsiasi desiderio. Voi dite anche: «Il cibo è fatto per lo stomaco e lo stomaco è fatto per il cibo». È vero, ma Dio distruggerà l’uno e l’altro. Il vostro corpo, però, non è  fatto per l’immoralità, perché appartenete al Signore, e il Signore è anche il Signore del vostro corpo. Ebbene, Dio che ha fatto risorgere il Signore, risusciterà anche noi con la sua potenza. Voi dovete sapere che appartenete a Cristo. E chi prenderebbe ciò che appartiene a Cristo per unirlo a una prostituta? Sapete benissimo che chi si unisce a una prostituta diventa un tutt’uno con lei. Infatti la Bibbia dice «I due saranno una sola carne». Ma chi si unisce al Signore diventa spiritualmente un solo essere con lui. Fuggite l’immoralità! Qualsiasi altro peccato che l’uomo commette resta esterno al suo corpo, ma chi si dà all’immoralità pecca contro se stesso. O avete dimenticato che voi stessi siete il tempio dello Spirito Santo? Dio ve lo ha dato ed Egli è in voi. Voi quindi non appartenete più a voi stessi, perché Dio vi ha fatti suoi, riscattandovi a caro prezzo. Rendete quindi gloria a Dio col vostro corpo” (1 Corinti 6.12-20).

Molto spesso pensiamo di appartenere a Dio ma dimentichiamo un’importante verità: in quanto salvati, redenti, eredi della promessa di eternità, siamo stati acquistati col prezzo del sangue di Gesù interamente, corpo compreso perché, quando si parla della nostra futura risurrezione, anch’esso verrà coinvolto. Ecco allora che, per un credente, l’unione con una prostituta causa un violento turbamento dell’equilibrio del corpo perché chi si unisce a lei “diventa un tutt’uno con lei” anziché un tutt’uno con Dio, compromettendo gravemente il suo rapporto col suo Signore. “Immoralità” è anche tradotto con “impurità”, ma andrebbe utilizzato più correttamente il termine “fornicazione” che deriva dal latino “fornix” cioè “sotterraneo a volta, sede di prostitute, postribolo”. La fornicazione è quindi un utilizzo improprio del nostro corpo, peccato che viene rimesso una volta abbandonato.

Ho scelto di partire dal corpo perché, iniziando un percorso dal basso, è più facile arrivare al concetto più alto, quello spirituale dell’essere “sola carne”. A questo punto è curioso osservare che uno degli aspetti del matrimonio è proprio porre le premesse perché la fornicazione non abbia luogo, e qui bisogna riflettere molto: “Rispondendo a quanto mi avete scritto, è cosa buona per l’uomo non toccar donna, ma, per evitare la fornicazione, ciascuno abbia la propria moglie e ogni donna il proprio marito. Il marito dia alla moglie ciò che le è dovuto e ugualmente anche la moglie al marito. La moglie non è padrona del proprio corpo, ma lo è il marito; allo stesso modo anche il marito non è padrone del proprio corpo, ma la moglie. Non rifiutatevi l’un l’altro, se non di comune accordo e temporaneamente, per dedicarvi alla preghiera. Poi tornate a stare insieme, perché satana non vi tenti mediante la vostra incontinenza” (1 Corinti 7.1-5).

Uno degli aspetti dell’unione tra uomo e donna, dell’essere “una sola carne” è quindi il prevenire una gestione disordinata della sessualità di entrambi, che porterebbe inevitabilmente alla fornicazione a tal punto che Paolo, al verso 8 scrive “Ai non sposati e alle vedove dico che è buona cosa per loro rimanere come sono io, ma se non sanno contenersi, si sposino, perché è meglio sposarsi che bruciare” non certo all’inferno, ma dentro di sé, espressione che non si riferisce solo alla sofferenza di chi non può avere una via di sfogo sessuale, ma soprattutto alle conseguenze alle quali essa può portare: la frustrazione che, se repressa per molto tempo, può condurre a manifestazioni che vanno oltre il “semplice” frequentare una prostituta. I casi in cui un uomo o una donna possono restare senza un compagno/a sono molto rari: Paolo ad esempio era uno di quelli e il suo stato non gli pesava; quando scrive “vorrei che tutti fossero come me” allude proprio alla sua condizione di uomo libero che non sentiva la necessità di un legame né affettivo né fisico, ma parla comunque della necessità di avere una donna come un diritto: “Non abbiamo noi il diritto di mangiare e di bere? Non abbiamo anche noi il diritto di portare con coi una moglie credente come l’hanno gli altri apostoli e i fratelli del Signore, o Cefa?” (1 Corinti 9.4,5).

Coi versi sull’appartenenza dei corpi al rispettivo coniuge, poi, viene posto l’accento sull’importanza dei rapporti sessuali fra entrambi, elemento che negli studi biblici viene messo in risalto raramente, per quanto intuibile, negli scritti delle precedenti dispensazioni in cui, a parte l’istinto naturale dell’uomo verso la donna e viceversa, la procreazione era il primo fine stante il fatto che in terra c’era posto per tutti: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela” (Genesi 1.28).

Anche qui però bisogna distinguere e riflettere sulla compatibilità fra gli individui, poiché se il legame non si basa su questa, è destinato a fallire anche sotto l’aspetto della sessualità che non può essere certo subita o lasciare insoddisfatte le parti perché, altrimenti, sarebbe come se l’unione non ci fosse. Il matrimonio è e deve essere un universo, un “hortus conclusus” cioè un giardino recintato sostenuto dall’amore reciproco che si manifesta nelle sue forme più disparate e trova nella comunione e nel sostegno dei coniugi l’uno verso l’altro il suo fondamento; viceversa, se visto a senso unico sotto l’aspetto dei rapporti fisici come purtroppo spesso capita, diventerebbe “una forma legale di prostituzione”, come Marx ebbe a scrivere un giorno.

 

LA RELAZIONE SPIRITUALE

Alla realtà terrena e fisica del matrimonio si accompagna inevitabilmente il suo aspetto spirituale di cui si occupa ancora una volta l’apostolo Paolo che spiega l’universo nuovo dei rapporti che si vengono a creare tra l’uomo e la donna: “E voi, mariti, amate le vostre mogli, come anche Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola con il lavacro dell’acqua mediante la parola, e per presentare a se stesso la Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata. Così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo: chi ama la propria moglie, ama se stesso. Nessuno infatti ha mai odiato la propria carne, anzi la nutre e la cura, come anche Cristo fa con la Chiesa, poiché siamo membra del suo corpo. Per questo l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne.Questo mistero è grande: io lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa! Così anche voi: ciascuno da parte sua ami la propria moglie come se stesso, e la moglie sia rispettosa verso il marito” (Efesi 5.25-33).

Si tratta di rapporti equilibrati di dare e ricevere, che impegnano vicendevolmente come conseguenza del progetto originario: Cristo ha amato la Chiesa, l’ha scelta e ha dimostrato il suo amore dando sé stesso, non ha tralasciato e non tralascia nulla perché questo possa verificarsi. Nella visione ideale e al tempo stesso molto concreta di Paolo si verifica che “Nel timore di Cristo, siate sottomessi gli uni agli altri: le mogli lo siano ai loro mariti, come al Signore. Il marito infatti è il capo della moglie, così come Cristo è capo della Chiesa, lui che è salvatore del corpo. E come la Chiesa è sottomessa a Cristo, così anche le moglie lo siano ai loro mariti in tutto” (21-24): questa visione non allude al fatto che l’uomo sia un capo indiscusso come si potrebbe apparire, ma abbia una posizione di responsabilità spirituale vista nel cammino quotidiano verso la realizzazione piena del Regno di Dio o, per essere in tema, di quelle “nozze dell’Agnello” imminenti. Nessuno è autorizzato a prevalere sull’altro. La Chiesa è sottomessa a Cristo perché, se non lo fosse, se non avesse questo atteggiamento, tutto l’equilibrio d’amore salvifico, il rapporto con Lui e la Sua assistenza cesserebbero esattamente come avvenne con Israele quando, abbandonato YHWH, peccava di idolatria e serviva altri dèi. Se così fosse, se la Chiesa agisse in autonomia dimenticando il sacrificio di Cristo, non sarebbe una comunità di salvati dai Suo Amore, ma un gruppo di religiosi con manifestazioni che non portano ad alcun risultato salvo l’appagamento carnale scambiato per spirituale.

Nel rapporto marito – moglie c’è una gerarchia tutta particolare, che non implica ordini dittatoriali, ma è fatta di relazioni ideali che si concretano naturalmente: “Voglio però che sappiate che il capo di ogni uomo è Cristo, e il capo della donna è l’uomo, e il capo di Cristo è Dio” (1 Corinti 11.3) perché “Egli(l’uomo) è immagine e gloria di Dio, ma la donna è gloria dell’uomo. Non è l’uomo che deriva dalla donna, ma la donna dall’uomo; né l’uomo fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo. (…) Tuttavia, nel Signore, né la donna è senza l’uomo, né l’uomo è senza la donna. Come infatti la donna deriva dall’uomo, così l’uomo ha vita dalla donna; tutto poi proviene da Dio” (vv. 7-12).

Il rapporto tra marito e moglie, in pratica, è sotto l’aspetto dell’amore identico a quello tra padre e figlio in cui troviamo, accanto alla correzione che si può rendere necessaria, il principio generale di non porlo nella condizione di soffrire per azioni ingiuste, dettate dal puro desiderio di dominare su di lui piegandolo all’esclusiva volontà del padre. È ancora Paolo ai Colossesi che spiega in cosa consista la vera sottomissione: “Voi, mogli, siate sottomesse ai mariti, come conviene nel Signore. Voi, mariti, amate le vostre mogli e non trattatele con durezza. Voi, figli, obbedite ai genitori in tutto, ciò è gradito al Signore. Voi, padri, non esasperate i vostri figli, perché non si scoraggino. Voi, schiavi, siate docili in tutto con i vostri padroni terreni: non servite solo quando vi vedono, come si fa per piacere agli uomini, ma con cuore semplice e nel timore del Signore. (…) Servite il Signore, che è Cristo!” (Colossesi 3.18-24). Il modo con cui si concludono i versi che trattano dei rapporti nella famiglia (e nella società), “Servite il Signore, che è Cristo”, ci fanno capire che la vita stessa è servizio in relazione al ruolo o ai ruoli che una persona occupa nella famiglia e nel mondo: siamo organi, membra del corpo di Cristo anche all’interno di questi contesti ed ecco perché ho definito il matrimonio un “hortus conclusus”, un universo che contempla un’infinità di sentimenti, diritti e doveri perché “Chi commette ingiustizia subirà le conseguenze del torto commesso” (v.25).

Concludendo questa sesta parte, come ricordato in altre riflessioni, le parole che leggiamo nella Bibbia non solo riguardo al matrimonio, non vogliono mai essere un vademecum del credente perfetto: Dio non ha bisogno di automi, ma di persone che lo amino e lo vogliano seguire. Prendere una concordanza biblica, cercare un argomento e quindi di adeguarsi a quanto troviamo scritto in essa, se può essere un’azione lodevole, a nulla serve se a monte non esiste la comprensione di quanto sia necessario conoscere per capire ed adeguarsi di conseguenza. Non è un esercizio ascetico, non ci sono comandamenti da osservare con la rigidità egoistica degli scribi o dei farisei che portano inevitabilmente distorsione, presunzione, rigidità e giudizio, ma una pratica di vita: mi comporto così perché amo. E se amo, è perché sono stato amato per primo e questo amore l’ho compreso, l’ho assimilato e lo voglio vivere. Così come l’amore che ho per Cristo è tale perché si rinnova ogni giorno, allo stesso modo così è per quello coniugale: non c’è un giorno uguale all’altro, non ci sono rivendicazioni, ma solo un donarsi. Amen.

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5.07 – LE BEATITUDINI 6: I PURI DI CUORE (Matteo 5.3-10)

05.07 – Il sermone sul monte : le beatitudini VI (Matteo 5.3-10)

 

3«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. 4Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. 5Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. 6Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. 7Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. 8Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. 9Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. 10Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli”.

BEATI I PURI DI CUORE

E arriviamo al cuore, argomento molto vasto cui anche la letteratura ha dato uno spazio enorme in tutte le epoche: quest’organo, così complesso e fondamentale per la vita non solo degli esseri umani, è stato da sempre visto come la sede dei sentimenti e dei pensieri, mutando i propri battiti in base alle emozioni e non solo allo sforzo fisico. Il cuore, assieme allo stomaco e al fegato, è suscettibile allo stress anche cronico e, se prolungato, può danneggiare in modo grave tutto il sistema cardiovascolare tramite l’ipertensione, a sua volta causa di inconvenienti anche gravi. Nella Bibbia il cuore è visto come l’organo che risponde alle emozioni e che arriva a influenzare fortemente quello che dovrebbe essere teoricamente, asetticamente, un altro ente del tutto autonomo, cioè il cervello dal quale scaturiscono tutti gli impulsi, spesso automatici, per la nostra vita e sopravvivenza. Allora non si sapeva che il cuore possiede dei neuroni che lo abilitano ad agire indipendentemente dal cervello che in alcuni casi, come dimostrano le ricerche del californiano HearthMath Insitute, gli obbedisce.

La conoscenza della fisiologia del muscolo cardiaco, tanto ai tempi del Nuovo che dell’Antico Patto, nonostante allora fosse elementare, aveva individuato comunque delle linee di base valide ancora oggi: pensiamo solo a Proverbi 14.30 “Un cuore calmo è vita per il corpo, ma l’invidia è il tarlo delle ossa”, o a 4.23 “Custodisci il tuo cuore più di ogni altra cosa, perché da esso sgorgano le sorgenti della vita”. Collegato a questo verso, che troviamo in 14.30 possiamo citare 17.22 “Un cuore allegro è una buona medicina, ma uno spirito abbattuto inaridisce le ossa”.

La “cardiologia biblica”, però, al di là di questi esempi e molti altri che si possono trovare in cui il cuore è citato nelle situazioni più disparate, si occupa fondamentalmente di lui come motore delle azioni e delle scelte della persona e la prima volta in cui viene nominato in tal senso la troviamo poco prima del terzo giudizio di Dio sull’uomo mediante il Diluvio: “Ora Iddio vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che tutti i disegni dei pensieri del loro cuore non erano altro che male in ogni tempo” (Genesi 6.5). Era un’umanità che pensava esclusivamente a se stessa, che si preoccupava della propria sopravvivenza materiale cercando di riempire il proprio tempo senza interrogarsi su come affrontare degnamente la propria vita e la propria morte in vista dell’eternità di cui conosceva l’esistenza; leggiamo infatti che “Dio ha fatto ogni cosa bella al suo tempo: egli ha messo la nozione dell’eternità nel loro cuore, senza però che gli uomini possano capire l’opera compiuta da Dio dal principio alla fine” (Ecclesiaste 3,11). Per questo le religioni sono un tentativo umano per sopperire a questo senso innato. Per questo, quando un uomo muore, se non è illuminato dallo Spirito Santo, ha paura.

Il cuore, quindi, caratterizza la vita dell’essere umano ed è visto come sede del vero motore delle scelte che poi effettivamente andrà a compiere perché, attratto dalle emozioni che lo stimolano in positivo, tenderà ad agire e progettare affinché durino il più possibile o si realizzino in futuro. “Cuore” è una parola che nella Scrittura è usata circa mille volte e solo in una parte, il 20 per cento, si allude al muscolo vero e proprio; per il resto la sua applicazione è figurata ed è connessa tanto all’uomo naturale che tutti conosciamo, quello che “non comprende le cose di Dio, perché per lui sono follia, e non è capace di intenderle, perché possono essere giudicate solo per mezzo dello Spirito” (1 Corinzi 2.14), quanto a quello spirituale, tale perché Dio stesso è intervenuto personalmente a renderlo così. Sono realtà tra le quali c’è un baratro, un mondo differente per modo di vita, aspirazioni e prospettive perché nessuno sarebbe mai in grado di essere un “puro di cuore” senza un intervento di Colui che lo ha creato e accolto.

Sotto questo aspetto sono gli scritti dell’Antico Patto a illuminarci per primi, tutta la storia del popolo di Israele che, nonostante l’assistenza continua di Dio dal momento in cui lo chiamò fuori dall’Egitto fino ad arrivare alla venuta di Gesù Cristo, si sviò provando su di sé giudizi anche terribili. Precisazione obbligatoria: se il verso che abbiamo citato molte volte, “Questo popolo mi onora con le labbra, ma suo cuore è lontano da me”, è riferito al popolo eletto, questo non vuol dire che non possa applicarsi anche al cristianesimo quando questo lascia che sia l’abitudine e la ritualità a prevalere sulla coscienza, sul cuore, come recita il proverbio profano “passata la festa, gabbato il santo”; solo perché si crede, non siamo autorizzati a fare qualsiasi cosa perché “tanto siamo salvati” o “tanto Dio ci protegge”. C’è una diffusa opinione in base alla quale ciò che è scritto nell’Antico Patto siano cose passate e non ci riguardino perché viviamo nella dispensazione della grazia, ma non è così: ricordiamoci sempre che Gesù non venne per abolire la Legge, ma per adempierla e che essa è e rimane il metro per misurare il bene e il male.

Nella sua prima lettera ai Corinzi Paolo di Tarso fa una lunga esposizione invitando i cristiani di quella Chiesa a considerare l’esempio di Israele e i suoi errori pagati a caro prezzo, con queste parole: “Ciò avvenne come esempio per noi, perché non desiderassimo cose cattive, come le desiderarono loro. Non diventate idolatri come alcuni di loro, secondo quanto sta scritto: «Il popolo sedette a mangiare e a bere e poi si alzò per divertirsi». Non abbandoniamoci all’impurità come si abbandonarono alcuni di loro e in un solo giorno ne caddero ventitremila. Non mettiamo alla prova il Signore, come lo misero alla prova alcuni di loro e caddero vittime dei serpenti. Non mormorate, come mormorarono alcuni di loro, e caddero vittime dello sterminatore. Tutte queste cose però accaddero a loro come esempio, e sono state scritte per nostro ammonimento, di noi per i quali è arrivata la fine dei tempi. Quindi, chi crede di stare in piedi, stia attento a non cadere” (10.5-11).

Paolo qui si guarda bene dal dichiarare che lo sviarsi per noi è impossibile; certo Gesù ha pagato per i peccati che possiamo sempre commettere nella carne, ma una cosa è camminare uniti a Lui e cadere per un incidente di percorso, altra cosa è desiderare cose cattive nel proprio intimo, cioè non porre freno a ciò che sappiamo essere male, o cadere nell’idolatria, cioè sostituire una persona o uno stile di vita diverso a quello ricevuto o rivelatoci un giorno, mettere Dio alla prova con una condotta che rientri nel comandamento “Non tentare il Signore Iddio tuo”.

Rientrando ora in tema, il cuore è un problema sia a livello di corpo, perché soggetto ad ammalarsi come tutti gli altri organi, sia a livello spirituale e di questo se ne accorsero molti, soprattutto quanto a motore delle azioni, positive o negative: ricordiamo ad esempio Davide che, conscio del proprio peccato e del fatto che da solo non avrebbe mai potuto fare nulla per mutare la propria condizione, scrisse nel Salmo 50: “Pietà di me, o Dio, nel tuo amore: nella tua grande misericordia cancella la mia iniquità. Lavami tutto dalla mia colpa, dal mio peccato rendimi puro. Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo. Non scacciarmi dalla tua presenza e non privarmi del tuo santo spirito. Rendimi la gioia della tua salvezza, sostienimi con uno spirito generoso. Insegnerò ai ribelli le tue vie e i peccatori a te ritorneranno”. Ricordiamoci che quella che abbiamo letto è la preghiera di un re costituito su Israele che non si assolse, ma si prostrò riconoscendo di avere bisogno dell’intervento di Dio nella sua vita per poter sussistere.

Ancora, sono determinanti le parole di Ezechiele che sottolineano l’impossibilità fisica di un rinnovamento umano senza un preciso operare di Dio: “Vi aspergerò di acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre iniquità e da tutti i vostri idoli; vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo le mie leggi e vi farò osservare e mettere in pratica le mie norme” (Ezechiele 36.25-27). Un rinnovamento, dunque, un miracolo.

A questo punto è inevitabile chiedersi se su quell’altopiano in cui Gesù proclamò le beatitudini ci fossero dei puri di cuore. Potremmo azzardare che Nostro Signore, facendo un collegamento estensivo, si rivolgesse a degli israeliti come Natanaele, uomo in cui non c’era “alcuna frode”, ma sbaglieremmo perché la chiave di lettura corretta risiede in due parole, “puri” e “cuore”.

I farisei avevano strutturato rigidamente il concetto di purezza, esasperandolo e vedendolo come l’osservanza di una serie di precetti, per non contaminarsi, che prendevano dalla Legge trasmessa al popolo da Mosè. In questo caso Gesù fa riferimento alla purezza levitica esteriore ottenuta mediante l’abluzione rituale, che vedeva in quel caso l’uomo “puro” se applicava alcune norme di comportamento. Leggiamo in proposito Marco 7.14,15: “Chiamata di nuovo la folla, diceva loro «Ascoltatemi tutti e comprendete bene! Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro, ma sono le cose che escono dall’uomo che lo rendono impuro”. Ora, dopo queste parole, fu interrogato dai discepoli che non avevano capito. Disse loro “«Così neanche voi siete capaci di comprendere? Non capite che tutto ciò che entra nell’uomo dal di fuori non può renderlo impuro, perché non gli entra nel cuore, ma nel ventre e va nella fogna?». Così rendeva puri tutti gli alimenti. E diceva: «Ciò che esce dall’uomo è ciò che lo rende impuro. Dal di dentro, infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultéri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono l’uomo impuro»” (Marco 7. 18-23).

E vediamo allora che il cuore ritorna, e vediamo che Gesù elenca ciò che sono le vere impurità che contaminano la sua creatura e da dove provengono. Ecco quindi che essere “puri” legalmente è una cosa, esserlo “di cuore” è un’altra. “Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio”, espressione che nel linguaggio dell’Antico Patto si riferiva ai membri della corte, quelli che vedevano la faccia del re. “Vedranno Dio” è poi un’espressione che si rifà alle parole che Lui stesso disse a Mosè che gli chiedeva di vedere il Suo volto: “L’uomo non può vedermi e vivere”.

Saranno quindi i puri di cuore a vedere Dio, cioè tutti coloro che rientreranno nella categoria descritta in 1 Corinzi 6-9,11: “Non sapete che gli ingiusti non erediteranno il regno di Dio? Non illudetevi: né immorali, né idolatri, né adulteri, né depravati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né calunniatori, né rapinatori erediteranno il regno di Dio. E tali eravate alcuni di voi! Ma siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio”.

Una degna conclusione di questa beatitudine possono essere le parole di Giovanni nella sua prima lettera: “Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando Egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come Egli è” (3.2). Amen.

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5.06 – LE BEATITUDINI 5: I MISERICORDIOSI (Matteo 5.3-10)

5.6 – Il sermone sul monte : le beatitudini V (Matteo 5.3-10)

3«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. 4Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. 5Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. 6Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. 7Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. 8Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. 9Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. 10Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli”.

BEATI I MISERICORDIOSI

Altra beatitudine, terza per la condizione dello spirito e quinta in ordine cronologico. L’aggettivo si riferisce a chi prova un sentimento di compassione per l’infelicità altrui che spinge ad agire per alleviarla, ma anche alla pietà che muove a soccorrere, a perdonare, a desistere dal punire. Il misericordioso è colui che antepone l’altro a se stesso nel senso che partecipa alle sue sofferenze, vede le condizioni in cui versa il suo prossimo e si preoccupa di lenirle, di comprendere; in poche parole, è una persona caritatevole nel senso spirituale del termine. La misericordia, del resto, è la prima azione con la quale Iddio si caratterizzò dopo la trasgressione e il conseguente giudizio dei nostri progenitori in Eden, poiché leggiamo “Poi l’Eterno Dio fece ad Adamo e sua moglie delle tuniche di pelle, e li vestì” (Genesi 3.21): solo con quelle tuniche e non con le foglie di fico con le quali i nostri progenitori avevano cercato di coprirsi sarebbero stati in grado di affrontare la vita nuova che li attendeva al di là di quel giardino protetto da qualsiasi contaminazione. Dio non inferì, non chiuse i rapporti con la sua creatura, ma si preoccupò di fornirle un abito che potesse proteggerlo nel nuovo mondo in cui andava ad abitare. Inoltre, continuò a comunicare con loro nonostante il peccato, per quanto non come prima, come deduciamo dal fatto che dimostrava di gradivre le offerte di Abele e non quelle di Caino.

La dichiarazione della beatitudine per i mansueti era ed è però rivolta a uomini particolari che anteponevano la misericordia al sacrificio. Guardiamo brevemente le queste parole: “Seminate per voi secondo giustizia e mietete secondo misericordia; dissodatevi un campo nuovo, perché è tempo di cercare il Signore finché Egli venga e diffonda su di voi la giustizia” (…) “Preparate le parole da dire, tornate al Signore e ditegli «Togli ogni iniquità. Accetta ciò che è bene: non offerta di tori immolati, ma la lode dalle nostre labbra»” (Osea 10.12; 14.3). Tanto le parole di Osea che quelle di Gesù erano rivolte a uomini che vivevano ancora l’Antico Patto, ma vediamo espressi dei concetti molto importanti e che si raccordano tra loro: il popolo viene esortato a seminare “secondo giustizia”, cioè mettere le basi per una condotta nuova che non cercasse più la facilità dello sviare dal cammino preparato per loro e mietere “secondo misericordia”, cioè con la disposizione d’animo dell’umile che ringrazia per l’esaudimento e non quella dell’orgoglioso perché “ha fatto un buon lavoro” e raccoglie il frutto delle sue fatiche perché se lo merita. È l’orgoglio che pretende, non l’umiltà.

C’è poi l’invito a dissodarsi “un campo nuovo”, cioè se stessi, la propria anima paragonata a un campo – vedi la parabola dei terreni, da quello arido a quello che porta frutto – che va dissodato. Se un terreno va dissodato è segno che non è mai stato interessato da un uso agricolo oppure è rimasto incolto per molti anni. Dissodare un terreno è un’azione che passa attraverso varie fasi: prima va ripulito disboscandolo e decespugliandolo – attività faticosa – e poi bisogna rompere la compattezza del suolo anche in profondità per metterlo in condizione di fare attecchire le nuove coltivazioni. Questo tipo di lavoro è necessario “perché è tempo di cercare il Signore finché Egli venga e diffonda su di voi la giustizia”, cioè quella vera, quella che non si ha per natura. Il secondo verso poi, con le parole “Preparate le parole da dire” non vuole consigliare l’ipocrita costruzione di un discorso da fare, ma un esame sincero della propria coscienza, delle cose dette e non dette, fatte e non fatte, è un consiglio perché “tornate al Signore” è l’unica possibilità che gli uomini hanno per poter sussistere come persone, come esseri bisognosi di una dignità che altrimenti non potrebbe concretarsi.

La preghiera è “Togli ogni iniquità”: solo Lui lo può fare, agire, togliere. E in quell’ ”ogni” c’è tutto il nostro limite perché spesso non vediamo il nostro peccato, come quello commesso per ignoranza. Ricordiamo le parole della Legge: “Se uno pecca e, senza rendersene conto, commette qualunque cosa che l’Eterno Dio ha vietato di fare, è ugualmente colpevole e ne porta la pena” (Levitico 5.17).

Ecco allora che non gli uomini di allora, non noi, siamo quelli che ci possiamo l’autoassolvere: questo è impensabile, la colpa resta e ce la si porta dietro a meno che Dio stesso intervenga per toglierla. E “Ogni iniquità” si riferisce proprio alla Sua misericordia e onnipotenza. Infine la preghiera dell’accettare “ciò che è bene” esclude la formalità del sacrificio, ma richiede la lode delle labbra come frutto di un cuore rinnovato. Conosciamo il detto “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me”che Gesù disse un giorno,manon si pensa che il verso che cita prosegue con“…e il timore che ha di me non è altro che un comandamento imparato dagli uomini” (Isaia 29.13): non è altro che un comandamento, quindi una tradizione, un’abitudine che va avanti per forza di inerzia, qualcosa di accettato passivamente, perché così si deve fare, ma la cui ragione non è stata assimilata. Se nei radunamenti delle varie Chiese cristiane se pensasse a questo verso, forse sorgerebbero degli interrogativi sui motivi della presenza in esse. L’abitudine porta alla disgregazione del proprio essere, in tutti i campi. Non può esserci avvicinamento dell’uomo a Dio senza una demolizione dei preconcetti e dei metodi che ne hanno contrassegnato l’esistenza.

Abbiamo citato poco fa Abele e Caino; guardiamo le parole che Dio rivolse al futuro fratricida: “Perché tu sei irritato e il tuo volto è abbattuto? Se fai bene, non sarai tu accettato? Ma se fai il male, il peccato sta spiandoti alla porta e i suoi desideri sono rivolti a te. Ma tu, devi dominarlo” (Genesi 4.6,7). Ecco, Caino era stato invitato con una semplicità e una verità disarmanti, a esaminare ciò che gli impediva di essere come Abele. Gli sarebbe bastato poco per cambiare, ma non volle.

Dissodarsi un campo nuovo, quindi, vuol dire distruggere tutto ciò che abbiamo di inutile, che non serve, che non possiamo portare con noi quando verremo chiamati attraverso la morte o quella trasformazione vista nel “batter d’occhio” di cui si parla in 1 Corinti 15.52. E in questo lavoro non saremmo mai lasciati soli.

Per dissodare un campo, nello specifico noi stessi, ci vuole tempo, bisogna capire profondamente le ragioni e la necessità di farlo, si tratta di agire nel proprio interesse perché “Il misericordioso fa bene a se stesso, ma il crudele tormenta la sua stessa carne” (Proverbi 11.17). Tutto ritorna indietro, tutto viene messo in conto di giustizia o di condanna a tal punto che “Chi ha pietà del povero presta all’Eterno, che gli contraccambierà ciò che egli ha dato” (Proverbi 19.17) ed ecco perché Gesù disse “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, lo avete fatto a me” (Matteo 25.31). Tanto nel bene quanto nel male, attenzione! La sintesi assoluta del discorso giunge poi con l’imperativo “Siate misericordiosi come misericordioso è il Padre vostro”, parole riportate in Luca 6.36 nella sua versione dello stesso sermone sul monte.

A questo punto, dopo aver dato una panoramica generale che credo possa portare a diverse riflessioni personali, scendiamo un po’ più sul concreto, sul concetto già espresso nell’introduzione alle beatitudini che rappresentano il contrario di quello che il mondo spesso ritiene, tendendo ad ammirare chi ha costruito imperi versando sangue innocente e dolore in ogni epoca. Possiamo dire che, nelle beatitudini dichiarate da Gesù ci siano gli esatti contrari di quelle sataniche e che con la frase “…perché troveranno misericordia” viene anticipato ciò che il misericordioso troverà un giorno quando si troverà di fronte a Lui. E qui si apre un mondo di possibilità e di riferimenti tanto per il Suo uditorio di allora quanto per quello di oggi: i misericordiosi la troveranno perché “Se voi perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi; ma se non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe” (Matteo 6.14,15). Un perdono che non si può generalizzare, ma che può venire solo di fronte al pentimento della persona che ha offeso con parole o atti. “State attenti a voi stessi! Se un tuo fratello pecca, rimproveralo, ma se si pente, perdonagli. E se pecca sette volte al giorno contro di te e sette volte ti dice «Mi pento», tu gli perdonerai”  (Luca 17.3,4).

C’è un confine tra la misericordia e la debolezza esattamente come l’essere mite o mansueto: sono caratteristiche, qualità, che non possono essere a senso unico, che non possono manifestarsi, contrassegnare l’individuo “a prescindere” perché altrimenti Dio stesso, che misericordioso lo è, non potrebbe essere il Giudice perfetto, che per l’ebraico è sia l’amministrazione del giudizio obiettivo e imparziale, ma include anche il provvedere a, difendere e punire. In altri termini, la misericordia non può venire data sempre e comunque, ma richiede il pentimento perché si possa innescare.

Parole illuminanti sulla differenza tra uomini e uomini le troviamo in due episodi nei Vangeli; le prime sono riferite a quanti seguivano Gesù: “Sceso dalla barca, vide una grande folla ed ebbe compassione di loro perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise ad insegnare loro molte cose” (Marco 6.34). Erano lì, non sapevano e non avevano nulla al di fuori della loro ignoranza. Bisognosi di tutto, di sapere, di conoscere, di avere un’identità, chi li guidasse perché la pecora, senza un pastore che la guidi e se ne prenda cura, è inevitabile che vada nel pericolo. Ma erano disposti ad ascoltarlo. Per gli scribi i farisei e il popolo a lui contrario disse però “Serpenti, razza di vipere, come potrete sfuggire alla condanna della Geènna? Perciò ecco, io mando a voi profeti, sapienti e scribi: di questi, alcuni li ucciderete e crocifiggerete, altri li flagellerete nelle vostre sinagoghe e li perseguiterete di città in città;perché ricada su di voi tutto il sangue innocente versato sulla terra, dal sangue di Abele il giusto fino al sangue di Zaccaria, figlio di Barachia, che avete ucciso tra il santuario e l’altare. In verità io vi dico: tutte queste cose ricadranno su questa generazione”.(Matteo 23.33-36).

Dio, pur volendo che tutti gli uomini siano salvati, non si rivela a tutti, ma a un tipo di persone di indole – non di merito – precisa: “Con l’uomo buono tu sei buono, con l’uomo integro tu sei integro, con l’uomo puro tu sei puro e dal perverso non ti fai ingannare” (2 Samuele 22.26,27) e “il giudizio sarà senza misericordia contro chi non avrà avuto misericordia” (Giacomo 2.13). Perché? Perché chi è privo di pietà prende posizioni opposte a quelle del Creatore che si è rivelato come misericordioso attraverso i secoli a tal punto da dare il Figlio Unigenito “affinché chiunque creda in lui non perisca, ma abbia vita eterna”.

I requisiti della quinta beatitudine si possono acquisire poi non con la pratica, cioè con lo sforzo, ma con l’acquisizione e la sperimentazione di quanto Dio ha fatto e fa con noi, con il confronto personale con Lui, chiamati come siamo a non guardare gli errori degli altri, ma i nostri prima di tutto, come rileviamo dall’insegnamento della pagliuzza e della trave nell’occhio. Chi guarda agli errori e ai peccati altrui, è persona che spesso ha paura di esaminare i propri, si rifugia spesso nell’integralismo, figlio prediletto dell’ignoranza, e tende a prendere posizioni estreme che altro non possono fare se non generare contese e risentimento. Così scrive l’apostolo Paolo agli Efesi: ““Sia rimossa da voi ogni amarezza, ira, cruccio, tumulto e maldicenza con ogni malizia. Siate invece benigni e misericordiosi gli uni verso gli altri, perdonandovi a vicenda, come anche Dio vi ha perdonato in Cristo” (4.32).

Abbiamo citato l’apostolo Paolo: l’intervento di Dio verso di lui fu a dir poco sorprendente perché era un persecutore della Chiesa ed era consenziente alla lapidazione di Stefano e quindi, se lo possiamo definire versato nella Legge (era fariseo), certo qualificarlo come misericordioso è quanto meno azzardato. Eppure fu chiamato direttamente in visione da Gesù e più volte nelle sue lettere parla del suo passato riconoscendo i propri errori. In 1 Timoteo 1.12-17 leggiamo la sua esperienza di uomo trasformato dall’amore di Cristo: “Rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me,che prima ero un bestemmiatore, un persecutoree un violento. Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo per ignoranza, lontano dalla fede, e così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù. Questa parola è degna di fede e di essere accolta da tutti: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io. Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Cristo Gesù ha voluto in me, per primo, dimostrare tutta quanta la sua magnanimità, e io fossi di esempio a quelli che avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna. Al Re dei secoli, incorruttibile, invisibile e unico Dio, onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen”.

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5.04 – LE BEATITUDINI 3: I MITI (Matteo 5.3-10)

5.4 – Il sermone sul monte : le beatitudini III (Matteo 5.3-10)

3«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. 4Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. 5Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. 6Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. 7Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. 8Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. 9Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. 10Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli”.

BEATI I MITI

Terza beatitudine cronologica, seconda riferita al futuro dopo gli afflitti, dove i “miti” sono tradotti anche con “mansueti”. Il termine è riferito a persone che hanno un carattere dolce e umano, disposto alla pazienza e all’indulgenza, che si comportano con umanità e clemenza, senza severità, durezza o aggressività. Il suo contrario è l’essere impaziente, inesorabile, intransigente, aggressivo, violento, eccessivo.

Nella Scrittura gli esempi che vengono spontanei sono due: Mosè, di cui in Numeri 12.3 è detto che “…era un uomo molto mansueto, più di qualunque altro sulla terra”, e Gesù, che dà di sé questa definizione: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò riposo. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mansueto ed umile di cuore, e darò riposo alle anime vostre” (Matteo 11.28,29). Sempre Matteo connette l’episodio in cui Gesù fece in suo ingresso in Gerusalemme seduto su un’asina allo scritto di Zaccaria 9.9 in cui si legge “Ecco, a te viene il tuo Re. Egli è giusto e vittorioso, mansueto, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina” e quando l’apostolo Paolo dovette trattare il tema dei requisiti del vescovo di una Chiesa, cioè chi ne è responsabile – non può non venire in mente l’Angelo delle sette chiese dell’Apocalisse – ebbe a dire “Ora questa parola è sicura: se uno desidera l’ufficio di vescovo, desidera un buon lavoro. Bisogna dunque che il vescovo sia irreprensibile, marito di una sola moglie, sobrio, assennato, prudente, ospitale, atto ad insegnare, non dedito al vino, non violento, non avaro, ma sia mite, non litigioso, non amante del denaro” (1 Timoteo 3.1-3).

Va detto, dai passi citati, che il mansueto, il mite, è tale per indole ma rappresenta solo una parte della personalità e se fosse presente come caratteristica esclusiva, farebbe dell’individuo una persona debole e priva di possibilità di reazione o difesa. Mosè abbiamo letto che era l’uomo più mansueto di chiunque altro, eppure uccise un egiziano che colpiva un ebreo, evidentemente perché non aveva altro modo per farlo smettere e quelle percosse ne avrebbero causato la morte (Esodo 2.11,12). Va ricordato che tra ebrei ed egiziani c’era un rapporto schiavo – padrone e da parte dei primi non c’era alcuna possibilità di reagire pena punizioni ancora più dure. Per questo, dopo averlo ucciso ed evitare conseguenze, Mosè seppellì quell’uomo nella sabbia. Gesù era mansueto ed umile, ma non si lasciava intimidire dagli Scribi e dai Farisei che lo attaccavano, e cacciò i mercanti dal Tempio anche se non a frustate come molti sostengono. Anche il Suo ingresso in Gerusalemme non avvenne a cavallo, animale possente e sempre associato alla guerra, ai re o principi potenti e gonfi d’orgoglio, ma su un asino, la cavalcatura dei profeti, animale forte, paziente, controllato, mite e socievole. La mansuetudine è pazienza nel sopportare, ma non è cessione dei diritti o vigliaccheria come purtroppo viene scambiata nel mondo che divide le persone nelle categorie di chi subisce o fa subire, ammirando spesso i secondi.

L’apostolo Paolo scrive in Efesi 4.25,26 “Perciò, messa da parte la menzogna, ciascuno dica la verità al suo prossimo, perché siamo membra gli uni degli altri. Adiratevi e non peccate perché il sole non tramonti sopra il vostro cruccio. E non date spazio al diavolo” e nello stesso sermone sul monte, nel passo tradotto “Chiunque si adira contro il suo fratello sarà sottoposto al giudizio” (Matteo 5.22), molti preferiscono ignorare quei manoscritti che specificano “senza ragione”, travisando in questo modo la vera essenza della mansuetudine che non può essere l’unica caratteristica della persona “beata”. È la prevenzione e il controllo di sé che è raccomandato, ma ciò non toglie che vi siano occasioni in cui questa possa avere luogo: “Adiratevi e non peccate”, cioè non eccedete, non comportatevi in modo tale da infierire vendicandovi perché nessun sentimento che possa portare a una condizione di ostilità nei confronti del prossimo può essere coltivato. Già nei tempi antichi era raccomandato “Non ti associare a un collerico e non praticare un uomo iracondo, per non abituarti alle sue maniere e procurarti una trappola per la tua vita” (Proverbi 22.24,25). Anche qui la traduzione, che ho scelto perché più scorrevole in italiano, non rispecchia fedelmente il testo che riporta “…e procurarti un laccio per la tua anima” cioè qualcosa di fortemente penalizzante: il laccio è qualcosa che lega, intrappola, impedisce i movimenti, tiene fermo chi ne viene intrappolato, vincola a un luogo, in questo caso dell’anima. Già la cosiddetta saggezza popolare che ha coniato l’adagio “chi va con lo zoppo impara a zoppicare” aveva capito che una persona normale potesse venire deviata dagli usi altrui e non per nulla il popolo di Israele, entrato in Canaan, non poteva stringere alleanze con gli altri popoli, anzi: “Quando il Signore Iddio tuo ti avrà introdotto nel paese che vai a prendere in possesso e ne avrà scacciate davanti a te molte nazioni,(…)sette nazioni più grandi e più potenti di te, quando il Signore tuo Dio le avrà messe in tuo potere e tu le avrai sconfitte, tu le voterai allo sterminio, non farai con esse alleanza né farai loro grazia. Non ti imparenterai con loro, non darai le tue figlie ai loro figli e non prenderai le loro figlie per i tuoi figli, perché allontanerebbero i tuoi figli dal seguire me, per farti servire a dèi stranieri e l’ira del Signore si accenderebbe contro di voi e ben presto vi distruggerebbe” (Deuteronomio 7.1-4). È un passo indubbiamente forte, riferito ad altri tempi e per un popolo per il quale la testimonianza sarebbe stata fondamentale a tal punto da giustificare uno sterminio per evitare la perdita di un popolo eletto della propria identità. Un popolo che si fa strumento del giudizio insindacabile di Dio. Soprattutto, Israele avrebbe finito per assorbire una cultura estranea che lo avrebbe corrotto, spingendolo all’adorazione di dèi non veri.

Ci sono persone che leggono questo passo e restano inorridite, c’è chi ha scritto articoli e libri sulle “atrocità della Bibbia”, ma si dimentica che il valore della vita umana risiede nella misura in cui questa si rapporta con Dio e lo cerca, non sull’adagio “ogni uomo è mio fratello”, frutto di un equivoco tra chi è uomo e pone la propria sopravvivenza fisica al centro di ogni sua azione – spesso prevaricante sugli altri – e chi è tale perché ha fondato il suo esistere sull’amore e la dipendenza da Dio. Certo la questione è molto più ampia e non credo possa essere affrontata in questa sede.

Mi piace ricordare ancora una volta le parole dell’apostolo Pietro che riconobbe in Gesù “il Figlio dell’Iddio vivente”: un Dio che vive, non immaginato e creato dall’uomo come quello dei sette popoli citati nel passo che abbiamo letto prima. Credo che questa distinzione sia estremamente importante. È molto bello vedere come Pietro, in seguito, dette prova di aver compreso la profondità delle verità dettegli dal suo Maestro, scrivendo due lettere dense di significati e dottrina alle quali sicuramente non sarebbe arrivato senza l’assistenza dello Spirito Santo.

Tornando al nostro tema, il mansueto, il mite, è la persona che più di altre può imparare da Lui, “mansueto ed umile di cuore,” là dove l’imparare è rinunciare a se stessi per provare  quel “giogo” definito “dolce” e il suo carico “leggero”: perché? Il giogo è uno strumento per attaccare i buoi usati come bestie da tiro ed è diventato sinonimo di un dominio oppressivo spesso di un re o di una popolazione su un’altra. Ebbene, Gesù riferendosi agli animali da tiro definisce il suo giogo “dolce” e il suo carico di trasporto “leggero”. Con il possessivo “mio”, poi, dichiara implicitamente che ne esiste un altro e che non ci può essere uomo che non ne sia soggetto: non può esservi giogo alternativo a quello di Gesù che non venga dall’Avversario. E con l’aggettivo “leggero” viene posto l’accento sulla sostanza delle cose, sul fine delle azioni e delle scelte che siamo chiamati a fare in nome di quell’eredità che ci è stata promessa e a cui ogni cristiano tende. Anche qui non si tratta di aderire a una religione per essere qualcuno, per avere un’identità: la vera Chiesa non è un’associazione di volontariato, un circolo più o meno privato, ma un insieme, un corpo di persone diverse per carattere e provenienza storica e sociale che ha compiuto una scelta perché ha aderito a un invito e si ritrova perché unita da un vincolo di fratellanza, salvati dall’amore di Cristo.

Avere su di sé il gioco dell’Avversario significa dipendere in tutto e per tutto dalla casualità della vita, dai propri bisogni, dalla schiavitù della terra intesa come il suolo che ci àncora ad essa senza possibilità di una vera realizzazione ed appagamento spirituale. Ecco perché il “giogo” di Cristo e il carico da portare sono leggeri. E questo ci porta ad estendere il termine di “mansueto” e “mite” perché tendiamo a dimenticare che le caratteristiche esteriori di una persona, quanto al presentarsi agli altri, hanno in realtà radici ben più profonde: il mansueto è una persona interiormente disponibile non solo agli altri, ma nei confronti di tutti quegli “input” che gli vengono dalla Scrittura, trova la sua realizzazione di fronte a quanto scopre, o gli viene rivelato, dalla Parola di Dio. Esiste connessione tra la mansuetudine e la carità che “è magnanima, benevole. Non è invidiosa. Non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede– della Parola di Dio – tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesserà e la conoscenza svanirà. Infatti in modo imperfetto noi conosciamo e in modo imperfetto profetizziamo. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà” (1 Corinti 13. 4-9).

Ecco, credo che questi versi di Paolo siano un ottimo raccordo all’enunciazione di Gesù “Beati i mansueti”, parole dette a persone che già le conoscevano, se non tutti alcuni di loro, perché scritte da Davide nei suoi Salmi e i punti di connessione sono due: il primo in 25.9 “Egli guiderà i mansueti nella giustizia e insegnerà la sua via agli uomini” (25.9) ed il secondo in 37.10,11 “Ancora un po’ e l’empio non sarà più; sì, tu cercherai attentamente il suo posto e non ci sarà più. Ma i mansueti possederanno la terra e godranno di una grande pace”.

Ancora un po’”, è un’ espressione che indica sia un tempo generico, sia preciso, assoluto, quello che Dio ha decretato e che viene ricordato alla moltitudine dei Santi in Apocalisse 6.9-11: “Quando l’Agnello aprì il quinto sigillo, vidi un altare sotto cui stavano le anime di quelli che erano stati uccisi per la loro fedeltà alla Parola di Dio e per la loro testimonianza. Essi chiamavano il Signore a gran voce e dicevano «Fino a quando, o Sovrano vero e santo, aspetterai a giudicare gli abitanti della terra per quello che ci hanno fatto?» Quando chiederai loro conto del nostro sangue?». Ad ognuno di loro fu data una veste bianca e fu detto di aspettare ancora un po’ di tempo, finché non fosse completo il numero dei loro compagni di fede, cioè dei loro fratelli che dovevano essere messi a morte come loro”.

Questi versi testimoniano la differenza del concetto del tempo posseduto dagli uomini e quello di Dio, per cui “un giorno è come mille anni e mille anni sono come un giorno” (2 Pietro 3.8): se ci fossero stati dei “mansueti”, si sarebbero riconosciuti nella Sua promessa: avrebbero ereditato la terra, non quella corrotta del peccato, ma quella a venire. Ed è sempre Pietro a proseguire: “Il Signore non ritarda a compiere la sua promessa: alcuni pensano che sia in ritardo– perché prendevano alla lettera quell’ancora un po’ e credevano che il tempo fosse “vicino” usando i loro parametri umani -, ma non è vero. Piuttosto egli è paziente con voi, perché vuole che nessuno di voi si perda e che tutti abbiano modo di pentirsi” (v. 9).

Riassumendo abbiamo quindi:

  1. “Beati i poveri di spirito, perché di essi è il Regno dei cieli” (perché “il Regno dei cieli è vicino”, ma anche “dentro di voi”;
  2. Beati quelli che fanno cordoglio, perché saranno consolati” (prima beatitudine del primo gruppo di tre riferito alla condizione e al futuro)
  3. Beati i mansueti, perché erediteranno la terra(prima beatitudine del secondo gruppo di tre riferito allo spirito che caratterizza la persona e al futuro).

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5.03 – LE BEATITUDINI 2: QUELLI CHE SONO NEL PIANTO (Matteo 5.3-10)

5.3 – Il sermone sul monte : le beatitudini II (Matteo 5.3-10)

3«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. 4Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati.5Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. 6Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. 7Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. 8Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. 9Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. 10Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli”.

Prima di esaminare la seconda beatitudine occorre una brevissima premessa: stiamo leggendo un testo che riporta le parole di Gesù che, in quel momento, sta parlando a tre categorie di persone: coloro che erano venuti per ascoltarlo e farsi guarire, in gran parte israeliti, i discepoli, in numero ben maggiore rispetto ai dodici che conosciamo, e sicuramente qualche pagano, probabilmente rientrante in quei tanti provenienti dal “litorale di Tiro e Sidone” ebrei e pagani. Ricordiamo le parole di Luca già citate la volta scorsa: “C’era una gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e Sidone che erano venuti per ascoltarlo ed essere guariti dalle loro malattie” (Luca 6.17,18).

Il sermone sul monte ha quindi una doppia possibilità di lettura: una per i presenti e l’altra per tutti coloro che sarebbero venuti dopo di loro e avrebbero preso costruttivamente atto delle Sue parole, quelli di cui parlò Gesù a Tommaso e agli altri quando disse “Tu hai creduto perché hai visto; beati quelli che, pur non avendo visto, crederanno” (Giovanni 20.28).

Pensiamo a chi era su quel monte: si trovava lì dopo aver faticato, percorso molti chilometri perché bisognoso di soddisfare chi la propria sete di parole di vita, chi la propria curiosità, chi perché confidava nel fatto di venire guarito, ma avendo una base culturale diversa dalla nostra che si basava sull’ascolto della Legge e dei Profeti commentati nella sinagoga. Dichiarando la prima beatitudine ai “Poveri in spirito perché di essi è il Regno dei cieli”, Gesù fece una prima distinzione tra coloro che si ritenevano già “ricchi”, e quindi non avevano bisogno di Lui, e i “poveri”, che avrebbero ottenuto la cittadinanza in un regno a loro riservato. Certamente con quella prima frase fu compreso immediatamente, mentre noi abbiamo bisogno di riflettere di più prima di capire, stante le molte interferenze che abbiamo dal nostro tempo, con le sue consuetudini, che inevitabilmente ci condiziona.

BEATI QUELLI CHE SONO NEL PIANTO

Ecco, questa è una traduzione che, se applicata a un testo normale sarebbe accettabile, ma non lo è altrettanto in quello di Matteo perché ci indirizza immediatamente a una manifestazione specifica del dolore, diversa da persona a persona, che più propriamente altri hanno tradotto con “gli afflitti”, o “coloro che sono nell’afflizione” o “che fanno cordoglio”. Per gli israeliti l’afflizione poteva essere certamente individuale, ma c’era un forte senso collettivo come popolo che attendeva il Messia, certo con aspettative diverse da come lui si sarebbe rivelato. Eppure non tutti attendevano un re potente, ma un consolatore. Vediamo ancora il passo di Isaia 61.1-3 che abbiamo citato la volta scorsa: “Lo Spirito del Signore è sopra di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione per recare una buona novella– ecco il Vangelo – agli umili, mi ha inviato a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà agli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l’anno di grazia del Signore, il giorno di vendetta del nostro Dio, per consolare tutti gli afflitti, per dare agli afflitti di Sion una corona invece della cenere, olio di letizia invece di abito da lutto, veste di lode invece di uno spirito mesto”.

Ecco allora la beatitudine: era arrivato il consolatore e anche qui, per accoglierlo e realizzarla, era necessario riconoscere Colui che  era stato consacrato con l’unzione per annunciare il vangelo destinato, riservato agli umili, cioè tutti coloro che avrebbero riconosciuto la propria inferiorità “naturale” espressa nelle parole del Salmo ottavo “Quando io considero i tuoi cieli, opera delle tue dita; la luna e le stelle che tu hai disposte; che cos’è l’uomo, che tu ne abbia memoria? E il figlio dell’uomo, che tu ne prenda cura?”. Ricordiamo che il cielo che vedeva il salmista non era inquinato come oggi, per cui appariva in tutta la sua vastità. Vediamo, sempre nel verso di Isaia, il “fasciare le piaghe dei cuori spezzati”, di cui troviamo traccia nella parabola detta del “buon samaritano” in Luca 10. 25-37 che “Vide – l’uomo mal ridotto dai suoi assalitori, i briganti figura del peccato nelle sue multiformi oppressioni – e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite versandovi olio e vino, poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in albergo e si prese cura di lui”. “Vide” come tutti gli altri che passarono, il sacerdote e il levita, ma al contrario di loro “ne ebbe compassione”, attivandosi perché guarisse. Il Consolatore avrebbe proclamato la libertà agli schiavi, cioè a chi non era considerato nemmeno una persona, e la “scarcerazione” ai prigionieri, termine che può essere tradotto anche con “luce” perché chi era carcerato stava in grotte buie e malsane nella quale la luce non entrava mai. Ricordiamo la prima prigione menzionata dalla Bibbia in Genesi 37.23,24: “Quando Giuseppe fu arrivato presso i suoi fratelli, essi lo spogliarono della sua tunica, quella tunica con maniche lunghe che egli indossava, lo afferrarono e lo gettarono nella cisterna: era una cisterna vuota, senz’acqua”.

“Gli “afflitti di Sion”, coloro che aspettavano consci della loro condizione di schiavitù e per questo portavano la cenere sul capo in segno di penitenza e dolore, avrebbero ricevuto una corona, olio di letizia al posto dell’abito da lutto, cioè una sorta di sacco composto da pelli di capra e cammello, e veste di lode al posto di uno spirito mesto. Tutto questo stava per realizzarsi: beato chi si trovava in questa condizione perché la sua consolazione era giunta.

Possiamo dire che all’umile, al mansueto, all’afflitto e al povero di spirito non interessava avere un re potente che rovesciasse una situazione politica, ma la stabilità e la libertà interiore, ricevere la “buona notizia” che solo l’Emanuele “Dio con noi” poteva dare; quei miracoli che la folla aveva visto erano solo una pallida anticipazione di quello che sarebbe venuto dopo, con il possesso di un Regno che sarebbe stato “dei cieli” e non “della terra” il cui principato è lasciato a Satana. Un altro regno per gente diversa, che sa e si trova mancante nel proprio intimo, che ha bisogno non di un dio, ma di Dio e lo aspetta pronta a riconoscerlo.

Saranno consolati” è poi un termine ampio. C’è la consolazione che si prova nel momento in cui avviene l’incontro con Dio e l’accettazione di appartenergli come figlio, e c’è quella quotidiana, continua, perché nonostante una parte del cristianesimo voglia vedere il credente come perennemente guidato dallo Spirito e quindi in una condizione di continua letizia vista nell’espressione “pace nel cuore”, in realtà è soggetto come tutti gli altri uomini al dolore fisico e morale, al quale si aggiunge quello spirituale, in particolare al conflitto tra la propria natura sempre disposta a cedere alle tentazioni che variano a seconda della propria personalità, e all’astenersene.

Va sottolineato che, se il cammino cristiano fosse semplice, non sarebbe paragonato all’opposto di quella via “larga e spaziosa” che conduce alla perdizione. Ecco perché del Consolatore abbiamo bisogno sempre! Ciascuno di noi si scontra con la propria fragilità e il constatare quanto sia esteso il divario tra ciò che siamo e ciò che vorremmo-dovremmo essere, alla luce della perfezione che ci è richiesta, può a volte essere frustrante. È una perfezione ideale vista nella frase che Gesù dirà proprio in questo discorso sul monte: “Siate dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (v.48). Un cammino verso la perfezione è l’attivazione delle nostre forze per tendere ad essa, il curare noi stessi sapendo che non siamo lasciati soli perché, appunto, c’è un Consolatore che veglia su di noi.

Ecco allora che iniziamo a delineare la figura dell’afflitto del nostro tempo, che poi è quello di tutti coloro che sono vissuti prima di noi da quando lo Spirito Santo è stato dato ai membri della Chiesa di Gerusalemme, destinati ad incontrare ostacoli spirituali di ogni tipo proprio a causa della loro natura umana: “Siate sobri, vegliate. Il vostro nemico, il diavolo, come un leone ruggente va in giro cercando chi divorare. Resistetegli saldi nella fede, sapendo che le medesime sofferenze sono imposte ai vostri fratelli sparsi per il mondo” (1 Pietro 5.8,9).

Attenzione però a vedere queste parole e a vivere il concetto dell’afflitto con fatalità filosofica, guardando a questa condizione come se fosse stabile, perché Pietro continua dicendo “E il Dio di ogni grazia, il quale vi ha chiamati alla sua gloria eterna in Cristo Gesù, egli stesso, dopo che avrete un poco sofferto, vi ristabilirà, vi confermerà, vi rafforzerà, vi darà solide fondamenta” (v.10). È un ricordo, un’esortazione a vivere tenendo presente la prospettiva che ogni cristiano dovrebbe conoscere. E qui ci troviamo di fronte alla vera consolazione, così diversa dal conforto che un uomo può dare al proprio simile, momentaneo: quando finisce lascia la persona nella stessa condizione di prima. “Consolare” implica eliminare radicalmente il problema che causa l’afflizione, un cambiamento di stato, non ci può essere cristiano che non testimoni questa azione di Gesù Cristo nella propria vita, di questa sua opera continua nonostante i propri sbagli, il suo cammino a volte incerto.

Se Gesù si indirizza all’afflitto, significa che c’è chi non lo è, o meglio affronta il dolore in modo sbagliato escludendo Lui che desidera chinarsi per soccorrere (vedi la suocera di Pietro) e lo fa, nel caso del sermone sul monte, proprio dopo aver guarito e liberato persone da infermità e malattie sottolineando che, al ristabilimento del corpo a lungo desiderato, avrebbe fatto seguito quello dell’anima.

Ci chiediamo: di fronte a un dolore, si può solo aspettare che passi? Ci si può solo rassegnare, rinchiudere in uno stoicismo assoluto che indurisce? È una possibilità, un’alternativa che però non porta da nessuna parte perché esclude Cristo dalla nostra vita, quando questo è un mezzo per arrivare a lui o provare il suo sostegno lungo il cammino.

Ricordo le parole di un fratello a proposito di un bambino appena nato: “conoscerà il dolore e si chiederà perché”. Ecco, il perché è nella vita stessa nel senso che occorre accettarlo, non rifiutarlo come se non ci appartenesse. Va accolto, vissuto e posseduto ma, se questo lo faremo da soli, ci tormenterà senza uno scopo, non risolverà in consolazione, ma finirà eventualmente in un archivio disturbante, pronto ad emergere nei momenti più impensati; se sarà un mezzo per arrivare a Cristo, ecco che questo avrà una consolazione, l’unica possibile perché ciò che attende l’afflitto non è un incontro con un generico essere superiore che nella sua magnanimità assoluta risponderà a una preghiera, ma prima di tutto con la Parola fatta carne che, in quanto uomo, ha patito al di là del sopportabile conoscendo fatica e sofferenza in modo perfetto e totale. Ricordiamo quello che scrive l’autore della lettera agli Ebrei: “Perciò doveva rendersi in tutto simile ai fratelli, per diventare un Sommo Sacerdote misericordioso e degno di fede nelle cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo. Infatti, proprio per essere stato messo alla prova e avere sofferto personalmente, egli è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova” (2.17,18).

Gesù Cristo è quindi “in grado” prima di tutto non perché è onnipotente, ma per essere stato “messo alla prova e avere sofferto personalmente”. Lui tutt’uno col Padre, Unico, perfetto e totale intercessore che abbiamo, benedetto in eterno. Amen.

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5.02 – LE BEATITUDINI 1. I POVERI IN SPIRITO (Matteo 5.3-10)

5.2 – Il sermone sul monte : le beatitudini 1 (Matteo 5.3-10)

3«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. 4Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. 5Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. 6Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. 7Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. 8Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. 9Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. 10Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli”.

 BEATI I POVERI IN SPIRITO

Poveri in spirito” o “di spirito” sono le traduzioni dall’originale “per lo spirito” ed è opinione di alcuni che la precisazione sul tipo di povertà sia stato un inserimento nel testo greco fatta da un ignoto traduttore dall’aramaico per rendere più compiuto e distinguibile il senso delle parole di Gesù. Va detto però che orientarsi sulle origini del testo di Matteo non è facile: opinione diffusa è che sia stato scritto in aramaico e poi tradotto, basandosi sulle parole di Papia vescovo di Ierapoli nel 130 che scrisse “Matteo raccolse quindi i detti nella lingua degli ebrei, traducendoli ognuno come poteva”. In base agli studi che si intraprendono e quali testi si consultano le opinioni in proposito sono differenti anche sulla data e su chi materialmente abbia compilato il suo Vangelo. Fatto sta che Luca scrive “Beati i poveri” senza specificare altro, ma se prendessimo questa a condizione a senso unico rischieremmo di rendere l’essere poveri materialmente la sola condizione possibile per poter realizzare questa beatitudine. La precisazione che troviamo in Matteo è quindi fondamentale per la tipologia delle persone cui si riferisce.

Parlando di povertà in senso letterale, oggi è suddivisa in assoluta e relativa: la prima è riferita all’estrema difficoltà della sopravvivenza, vale a dire che la vita di chi versa in tale condizione è tale da metterlo in pericolo: non ha da mangiare, non è in grado di provvedere al proprio vestiario, non ha un alloggio, non ha dove lavarsi. Questo stato esclude il poter fruire di beni e/o servizi essenziali per la sopravvivenza. La povertà relativa è invece un parametro che esprime le difficoltà economiche nelle fruizione di beni e servizi in rapporto al livello economico medio di vita dell’ambiente o della nazione.

Soffermiamoci brevemente su questa condizione: chi è povero, assoluto o relativo, sa di esserlo, conosce le difficoltà che incontra e molto spesso ne è angosciato, soprattutto se si ritrova così dopo non aver conosciuto questo tipo di preoccupazioni, quindi aveva una vita tranquilla, normale o agiata e il caso dei molti imprenditori che si sono suicidati in Italia lo conferma. La mancanza di denaro per soddisfare le esigenze elementari o a che fanno da contorno all’esistenza è vissuta da molti come un fallimento e un’umiliazione anche di fronte a se stessi.

La condizione di povertà spirituale, invece, è molto più subdola da ammettere perché si riferisce all’interiorità dell’essere umano. C’è un senso di vuoto, connesso alla “carne” che si cerca di riempire in tutti i modi andando a sopperire i deficit interni e la religione, intesa come pratica che lo riempia, può aiutare a tal punto da essere definita come “l’oppio dei popoli”. Così accade che, praticandola anche nel cristianesimo, l’uomo si senta appagato e perciò si ritenga ricco esattamente come l’angelo (e i componenti) della Chiesa di Laodicea che dice “Io sono ricco, mi sono arricchito e non ho bisogno di nulla” (Apocalisse 3.17).

Il povero materiale è distinguibile e soprattutto sa di esserlo ma il povero in spirito, se non è onesto con se stesso, può mascherarsi, è disposto inconsapevolmente a tutto pur di sentirsi ricco davanti a sé e poi pur di apparirlo di fronte agli altri. Chi è “ricco in spirito” lo è perché così si è voluto definire, ha cercato quest’autodeterminazione e gli esempi nella scrittura sono tanti, primo fra tutti quel fariseo che pregava nel Tempio, ringraziando Dio di non essere come gli altri uomini perché digiunava due volte alla settimana e pagava le decime su quanto possedeva. Il cosiddetto “ricco in spirito” non ha bisogno di nulla, basta a se stesso, è convinto di essere sano e da qui le parole di Nostro Signore “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati”. Il fariseo che abbiamo citato pregava in piedi, il pubblicano stava “a distanza”, in solitudine, è scritto che “non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo”, cioè verso quel luogo da lui incommensurabilmente così distante.

Ecco, qui abbiamo in modo perfettamente reale due atteggiamenti: uno è “ricco”, l’altro è “povero”. Uno ha rimediato coi suoi mezzi alla propria povertà, diventandolo così ancora di più, l’altro ne è conscio e sa di avere nella preghiera di perdono l’unico rimedio a disposizione: “O Dio, sii placato verso di me, peccatore”. Ecco allora che solo chi sa di essere povero di spirito, cioè di non avere mezzi per la sua sopravvivenza spirituale, è beato: dipende da Dio in tutto e per tutto, ammette di avere dentro di sé quella fame che non può soddisfarsi in altro modo se non accettandoLo accogliendoLo dentro di lui.

Il sapere nel profondo di essere dei “Poveri in spirito”, cioè il riconoscersi tali perché si sa o si è sperimentato che le alternative e gli atteggiamenti che la vita può offrire non sono sufficienti né possono garantire stabilità, è il primo passo per il “Regno dei cieli” perché questi poveri lo cercheranno e lo troveranno. Al “ricco in spirito” interessa star bene godendo delle cose effimere che ha a disposizione, al “povero” non interessa la sopravvivenza apparente, qualcosa di generico in cui credere, una ricchezza secondo il mondo o una stabilità incerta, ma sarà attento a come porre rimedio alla sua condizione: non cercherà la compagnia delle persone per sentirsi meno solo, non aderirà a correnti politiche o filosofiche perché dovrà dimostrare a se stesso e agli altri di avere bisogno di qualcosa o di qualcuno a cui credere. Se mai, questi saranno dei passaggi per sperimentare, ma non trovando ciò che realmente cerca, finirà per arrivare a Gesù Cristo perché la sua povertà cessi definitivamente.

Il vero cristiano quindi porta in sé questo dualismo, quello della povertà assoluta quando porta avanti sé stesso, quello della ricchezza quando vive in compagnia di Dio, amandolo. Una ricchezza che non possiede. La parabola dell’uomo ricco di Luca 12.16,21 ci presenta un possidente che aveva avuto un raccolto ottimale dalla sua campagna e progettava una vita esente da preoccupazioni, ma si sentì dire “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?” Notiamo il commento di Gesù: “Così è di chi accumula tesori per sé, e non arricchisce davanti a Dio”.

C’è quindi un cammino da fare, e il riconoscersi poveri nel profondo è la condizione indispensabile per arricchire dentro, come abbiamo letto, “davanti – o “in” a seconda della traduzione – a Dio”; sono due mondi diversi, opposti, per la vita che conta, quella eterna. Chi crede, nel vero senso della parola, non lo fa perché ha bisogno di una religione, ma per diventare e conoscere cose che sa essere irraggiungibile senza una grazia, una rivelazione. Cercherà le promesse per lui e sperimenterà su di sé la loro realizzazione, altrimenti la propria vita non avrebbe scopo. Ricordiamo le parole di Pietro “Signore, a chi ce ne andremmo noi? Tu solo hai parole di vita eterna”: quest’uomo aveva sperimentato la quotidianità della vita, aveva un lavoro, una moglie. Aveva ascoltato da chissà quanto tempo i rabbini nelle sinagoghe e poi Giovanni Battista che preparava il popolo alla venuta di Gesù, ma nessuna di queste cose lo aveva mai arricchito, placato la sua sete interiore, quella di spirito. Pietro sapeva che le uniche parole da ascoltare, per la prospettiva futura che gli venivano garantite, erano quelle di Colui che un giorno lo aveva chiamato con gli altri discepoli e poi lo aveva reso apostolo.

La beatitudine dei poveri in spirito è quindi la descrizione di una condizione base per essere accolti dal Padre ed equivale al senso di sete spirituale che alcuni avvertivano quando Gesù, alzandosi in piedi, gridò “Se qualcuno ha sete, venga a me e beva” (Giovanni 7.37). Non era venuto per vendere qualcosa, ma per dare gratuitamente e invitò gli apostoli a fare altrettanto con il suo “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”. Tutta la Scrittura, Antico e Nuovo patto, sono piene di passi che attestano sia l’attenzione che Dio dà ai poveri, anche quelli materiali, tenuti a cercarlo secondo Isaia 55,6,7 “mentre si trova”, a invocarlo “mentre è vicino”. Ricordiamo l’invito “venite e comprate senza denari e senza prezzo” perché la Grazia non può essere comprata avendo un valore inestimabile.

E possiamo citare anche parole di Isaia 1.18 “Su, venite e discutiamo insieme, dice il Signore. Anche se i vostri peccati fossero come lo scarlatto, diventeranno bianchi più che neve”. In questo passo rileviamo che è Dio a invitare l’uomo addirittura ponendosi sul loro stesso piano, non certo quello del peccato, ma dello Spirito che è nell’uomo, quel “soffio vitale” che inalò nelle narici di Adamo. Qui c’è un incontro tra il Santo e la creatura che certo così non è, anzi è invitata nel verso 16 a lavarsi, purificarsi, ad allontanare dai Suoi occhi il male delle loro azioni. Dio invita l’uomo a discutere assieme dando la Sua piena disponibilità al perdono con un intervento che nessun essere terreno sarebbe stato mai in grado di compiere, smacchiare lo scarlatto, cioè un rosso intenso e brillante, a tal punto da farlo diventare più bianco della neve. È l’impossibile che appartiene al Padre, alla trinità, a quel plurale che un giorno disse “Facciamo l’uomo”.

Dio, soprattutto nel tempo in cui la Grazia è aperta non convoca imperiosamente, ma invita a discutere con lui. Dichiara la propria benevolenza, ma non costringe a subirla. E, riferendoci a questi versi, non tutti cessarono di fare il male e non tutti andarono a Lui, consapevoli del valore di quell’invito, a discutere assieme. Oggi il verbo “discutere” è usato per indicare una lite, uno scontro acceso in cui ogni parte difende strenuamente le proprie posizioni, ma ciò solo perché si è perso il senso reale del termine che, al contrario, implica il trattare, esaminare un tema confrontando opinioni diverse, dialogare alla ricerca di una soluzione.

Beati i poveri in spirito” è allora un annuncio importante, una dichiarazione in base alla quale chi appartiene alla categoria dei poveri non è lasciato solo, ma può entrare a far parte di un piano che va oltre le sue aspettative. Infatti, “di loro è il Regno dei cieli”. “Di loro” e di nessun altro. Ecco perché questa beatitudine è al primo posto: esprime quello che potremmo definire un requisito base, quello di chi non ha nulla mentre gli altri pensano di avere chi molto, chi tutto. Il ricco sta bene in questo mondo a prescindere da quale sia la ricchezza su cui fonda la propria vita, il povero certamente soffre e non sa come porvi rimedio, è costantemente in bilico tra la realtà che vorrebbe cambiare e i mezzi che non ha. Ed è beato perché si trova nella sola condizione che gli può consentire l’accettazione di Cristo come proprio Salvatore e fornitore di quella cittadinanza eterna che il ricco certamente non può avere.

Le beatitudini che seguono (gli afflitti, i miti, quelli che hanno fame e sete di giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, gli operatori di giustizia e i perseguitati per – e non “da” – essa), sono tutte riferite alla conseguenza della povertà di spirito proprio alla luce di quanto abbiamo detto all’inizio: chi in questo mondo si trova a proprio agio, parla già di sé disprezzando chi appartiene a categorie diverse dalla sua perché già umanamente beato, possedendo non la “makaria”, ma l’”òlbia”, come abbiamo visto nel capitolo precedente.

Nostro Signore sappiamo che aveva da poco guarito tutti quelli che gli si erano presentati a lui: quei miracoli erano per tutti e per tutti erano quelle parole di vita perché non potevano esservi dei sordi tra loro – se c’erano, questo era prima di incontrarlo -, ma nel momento in cui iniziò a parlare disse “Beati i”, cioè “quanti tra voi si riconoscono nella mia descrizione”. Il resto del Vangelo, la “buona notizia” rivelata agli uomini, è proprio la ricchezza in Dio che il povero in spirito trova e che arriverà al culmine con il possesso di quel “Regno dei cieli”, o “Regno di Dio” concepito fin dalla creazione dell’universo. Possiamo concludere con le parole dell’apostolo Paolo in Efesi 1.3 “Benedetto sia Dio, Padre del Signor nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti di ogni benedizione spirituale nei luoghi celesti in Cristo”.

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4.03 – APOSTOLI 3 (Luca 6.12-16)

4.3 – Apostoli III (Luca 6.12-16)

12In quei giorni egli se ne andò sul monte a pregare e passò tutta la notte pregando Dio. 13Quando fu giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede anche il nome di apostoli: 14Simone, al quale diede anche il nome di Pietro; Andrea, suo fratello; Giacomo, Giovanni, Filippo, Bartolomeo, 15Matteo, Tommaso; Giacomo, figlio di Alfeo; Simone, detto Zelota; 16Giuda, figlio di Giacomo; e Giuda Iscariota, che divenne il traditore.”

GIACOMO E GIOVANNI

            Tratteremo questi due apostoli assieme per i dati a disposizione che spesso li accomunano, oltre che per parentela intercorrente fra loro. Sappiamo che erano figli di Zebedeo che sulle rive del lago di Galilea aveva una flotta di barche e dei dipendenti, per cui erano benestanti, ma a differenza di Pietro e Andrea di cui è ricordato solo il padre, Giona, per Giacomo e Giovanni abbiamo anche il nome della madre, Salome, che si distinguerà per far parte del gruppo di donne che condivideva, coi discepoli, i viaggi con Gesù nel suo ministero. Faceva parte del suo seguito, ma soprattutto fu presente alla crocifissione come ci dice Matteo 27.55,56 quando scrive “Vi erano là anche molte donne, che osservavano da lontano; esse avevano seguito Gesù dalla Galilea per servirlo. 56Tra queste c’erano Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo e di Giuseppe, e la madre dei figli di Zebedeo”. Salome non solo seguirà Gesù fino alla morte sulla croce, ma voleva occuparsi anche del suo corpo per imbalsamarlo. Sarà una componente della Chiesa di Gerusalemme e probabilmente faceva parte di quelle 120 persone sulle quali scenderà lo Spirito Santo.

Marco ci dice che a questi due apostoli Gesù “diede il nome di Boanèrges, cioè figli del tuono” a significare secondo molti il loro carattere umano energico e impetuoso che si rivelò in alcuni episodi nei Vangeli: ad esempio Giovanni era tra quelli che volevano impedire a un innominato di cacciare i demoni nel nome di Gesù (Marco 9.38) e col fratello rivolsero al loro Maestro una richiesta che denotava poca riflessione e una forte ambizione umana, probabilmente sobillati dalla loro madre col la quale avevano parlato. Scrive sempre Marco: “Gli si avvicinarono Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra». Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». Gli risposero: «Lo possiamo». E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato»” (10.35-40). Matteo, nel passo parallelo, scrive che la richiesta fu portata avanti dalla loro madre Salome (20.20-24), ma il fatto che la risposta di Gesù anche in quella versione sia al plurale, “Voi non sapete quello che chiedete”, lascia supporre che i tre fossero concordi nel presentare quella richiesta. Questo episodio è scritto che provocò l’indignazione degli altri dieci apostoli: “All’udire questo, gli altri dieci furono indignati contro i due fratelli” (v. 24).

Altro passo particolare che denota il loro carattere lo troviamo in Luca 9.51,55: Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, egli prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme e mandò messaggeri davanti a sé. Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per preparargli l’ingresso. Ma essi non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme. Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». Si voltò e li rimproverò. E si misero in cammino verso un altro villaggio”.

A parte questi dati mi risulta però difficile pensare che Nostro Signore li chiamò “figli del tuono” unicamente per il loro carattere, così come non credo abbia chiamato Simone “Cefa” perché era il più robusto di tutti; piuttosto, Lui che guardava non all’uomo ma al suo cuore e a quello che sarebbe diventato con l’opera della Grazia e dello Spirito Santo, pensava al “tuono” come quella voce e presenza di Dio che la maggioranza non comprende e che va rivelata. Dopo il discorso di Gesù sulla sua imminente morte e resurrezione, quando disse “Padre, glorifica il tuo nome”, leggiamo che “Venne allora una voce dal cielo: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!». La folla, che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato»” (Giovanni 12.28,29). Un ultimo passo, che poi cronologicamente nella storia umana è il primo a mettere in connessione il tuono con la presenza di Dio, lo troviamo in Esodo 19.16: “Il terzo giorno, sul far del mattino, vi furono tuoni e lampi, una nube densa sul monte e un suono fortissimo di corno: tutto il popolo che era nell’accampamento fu scosso da tremore”.

Possiamo fare allora queste considerazioni: il tuono nella Scrittura è un suono sostitutivo di una realtà percepibile e pochi, ma incomprensibile a molti ed infatti, nel passo di Giovanni, fu quello sentito dalla folla e fu solo l’evangelista, e probabilmente quanti dei discepoli erano con lui, ad ascoltare le parole “L’ho glorificato e lo glorificherò ancora”. Ciò che non avvenne al battesimo di Gesù, quando la voce “Questo è il mio diletto figlio in cui mi sono compiaciuto” fu udita da tutti. Giacomo e Giovanni, allora, furono chiamati “figli del tuono” anche perché avrebbero rivelato ciò che Dio voleva fosse conosciuto dagli uomini senza possibilità di fraintendimento. Perché fossero formati, furono anch’essi testimoni di eventi che gli altri dodici non videro a parte Pietro: pensiamo alla trasfigurazione, alla resurrezione della figlia di Giairo, capo della sinagoga di Capernaum. A loro Gesù concesse di essergli vicini negli ultimi momenti nell’orto del Getsemani: “Allora Gesù andò con loro in un podere, chiamato Getsèmani, e disse ai discepoli: «Sedetevi qui, mentre io vado là a pregare». E, presi con sé Pietro e i due figli di Zebedeo, cominciò a provare tristezza e angoscia. E disse loro: «La mia anima è triste fino alla morte; restate qui e vegliate con me». Andò un poco più avanti, cadde faccia a terra e pregava, dicendo: «Padre mio, se è possibile, passi via da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!». Poi venne dai discepoli e li trovò addormentati. E disse a Pietro: «Così, non siete stati capaci di vegliare con me una sola ora? Vegliate e pregate, per non entrare in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole». Si allontanò una seconda volta e pregò dicendo: «Padre mio, se questo calice non può passare via senza che io lo beva, si compia la tua volontà». Poi venne e li trovò di nuovo addormentati, perché i loro occhi si erano fatti pesanti. Li lasciò, si allontanò di nuovo e pregò per la terza volta, ripetendo le stesse parole. Poi si avvicinò ai discepoli e disse loro: «Dormite pure e riposatevi! Ecco, l’ora è vicina e il Figlio dell’uomo viene consegnato in mano ai peccatori. Alzatevi, andiamo! Ecco, colui che mi tradisce è vicino» (Matteo 26.36-46).

Giacomo e Giovanni realizzarono il loro compito di “figli del tuono” come testimoni ed effettivamente bevvero quel “calice” ed ebbero quel “battesimo” di cui parlò loro Gesù dopo la richiesta non corretta che gli rivolsero; ciò avvenne con la testimonianza che dettero entrambi il primo come componente di spicco nella comunità di Gerusalemme divenendo martire della Chiesa, fatto uccidere da Erode Agrippa I: “In quel tempo il re Erode cominciò a perseguitare alcuni membri della Chiesa. Fece uccidere di spada Giacomo, fratello di Giovanni. Vedendo che ciò era gradito ai Giudei, vece arrestare anche Pietro” (Atti 12.1,2). Di Giovanni invece è noto che, pur non passando attraverso il martirio, subì tutte le forti persecuzioni di cui fu oggetta la Chiesa tanto per mano giudaica quanto sotto l’impero di Domiziano. Autore del quarto Vangelo, il più spontaneamente dottrinale, quello che può essere definito “il Vangelo dell’amore”, è autore di tre lettere e dell’Apocalisse, l’unico libro lasciato ai cristiani per riconoscere i tempi e gli eventi che avrebbero accompagnato la Chiesa nella sua storia dall’ascensione al cielo di Gesù al suo ritorno.

Giacomo, secondo una terminologia che non mi trova consenziente, è detto “il maggiore” per distinguerlo da un altro omonimo apostolo, che è già indicato negli elenchi come “Giacomo di Alfeo”. C’è poi anche un altro Giacomo, detto nel libro degli atti il “fratello del Signore”, che ebbe un ruolo importante nella Chiesa di Gerusalemme.

La singolarità del rapporto che Giovanni aveva col suo Maestro è descritta nel suo Vangelo dopo l’annuncio dell’imminente tradimento da parte di uno di loro: “I discepoli si guardavano l’un l’altro, non sapendo bene di chi parlasse. Ora uno dei discepoli, quello che Gesù amava, si trovava a tavola a fianco di Gesù. Simon Pietro gli fece cenno di informarsi chi fosse quello di cui parlava” (Giovanni 13.22-24). Giovanni accompagnerà Gesù fino alla crocifissione, che in quella occasione gli affidò sua madre: “Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco tuo figlio!». Poi disse al discepolo «Ecco tua madre». E da quell’ora il discepolo lo accolse con sé” (Giovanni 19.26,27).

È da notare che Gesù affida la propria madre a Giovanni quando Maria aveva altri figli e figlie che avrebbero potuto occuparsi di lei, ma non vi sarebbe stata la stessa parentela spirituale e quel discepolo sarebbe stato il più idoneo a sostenerla.

 

FILIPPO

Altro apostolo che conosciamo già in queste meditazioni cronologiche. Il suo carattere ed il retroterra culturale che lo caratterizzavano emergono proprio dai passi che abbiamo già affrontato: ricordiamo che mentre Giovanni e Andrea si recarono spontaneamente da Gesù, con Filippo che conoscevano fu il contrario: “Il giorno dopo Gesù volle partire per la Galilea, trovò Filippo e gli disse «Seguimi». Filippo era di Betsaida, la città di Andrea e di Pietro” (Giovanni 1.43,44). Il “Trovare”, che è tradotto anche con “incontrare”, se può significare imbattersi in qualcuno, implica però una ricerca, un’attesa. Certo Nostro Signore non s’imbatté per caso in Filippo perché sapeva che lo avrebbe incontrato e chiamato usando lo stesso invito che ebbe con Levi Matteo, “Seguimi”. E Filippo è scritto che subito dopo “trovò” Natanaele,: come Giovanni, Andrea e i loro fratelli, era un discepolo di Giovanni Battista che non solo non seppe trattenere la gioia del suo incontro col Maestro, ma diede prova di essere persona avveduta ed espansiva andando a cercare Natanaele (Bartolomeo) per dirgli “Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè, nella Legge, e i profeti: Gesù, figlio di Giuseppe, da Nazareth” (Giovanni 1.45). Persona discreta, scelse di non perdere tempo a convincerlo del fatto che Gesù fosse il Messia, ma preferì che fosse Natanaele stesso a sperimentarlo di persona con le parole “Vieni e vedi”.

Filippo era anche una persona aperta e pronta al servizio, come già abbiamo accennato mettendolo in relazione con Andrea nell’episodio dei greci che volevano vedere Gesù e, nell’occasione del miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, fu messo alla prova dal Maestro con la frase “Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?” (Giovanni 6.5). Non ottenne altro che una risposta tecnica, cioè che duecento denari di pane non sarebbero bastati.

La figura di quest’apostolo, come accaduto con Pietro, è utile perché testimonia ancora una volta di quanto la natura umana sia sempre in opposizione alle esigenze, alle realtà di Dio e non possa comprenderle senza l’opera dello Spirito Santo: tornando ancora all’ultima cena, leggiamo ciò che avvenne dopo che Giuda uscì dalla sala.

Simon Pietro gli disse: «Signore, dove vai?». Gli rispose Gesù: «Dove io vado, tu per ora non puoi seguirmi; mi seguirai più tardi». Pietro disse: «Signore, perché non posso seguirti ora? Darò la mia vita per te!». Rispose Gesù: «Darai la tua vita per me? In verità, in verità io ti dico: non canterà il gallo, prima che tu non m’abbia rinnegato tre volte. Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: «Vado a prepararvi un posto»? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. E del luogo dove io vado, conoscete la via». Gli disse Tommaso: «Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?». Gli disse Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto». Gli disse Filippo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta». Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire: «Mostraci il Padre»? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso; ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere. Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro, credetelo per le opere stesse.” (Giovanni 13.36-38; 14.1-11).

Abbiamo qui un quadro desolante: Pietro si dichiara pronto a dare la vita per il suo Maestro ma, terrorizzato, lo avrebbe rinnegato tre volte. Tommaso, dopo tre anni di vita comune con lui, non aveva ancora capito che Gesù se ne sarebbe tornato al Padre soprattutto dopo il suo discorso sulla casa dalle molte stanze e Filippo, completamente fuori contesto, gli dice che a loro sarebbe bastato che gli fosse mostrato il Padre dimenticando le parole “Io e il Padre siamo uno”. Questo episodio è la prova di quanto qualsiasi uomo, in quanto tale, sia naturalmente distante da Dio nel momento in cui segue i propri pensieri, dà retta ai suoi impulsi, cerca di capire con il proprio metro e intelligenza ciò che invece dev’essere lo spirito a comunicare. Vero è che lo Spirito Santo non era ancora sceso, ma ricordiamo che già da allora erano possibili rivelazioni da parte del Padre, come quando Pietro riconobbe in Gesù “Il Cristo, il figlio dell’Iddio Vivente”.

Concludendo, anche la storia di Giacomo, Giovanni, Filippo e come vedremo di tutti gli undici, testimonia che per ogni essere umano che accetta di far entrare Gesù Cristo nella propria vita non può che esistere un prima e un dopo, una progressione nella conoscenza, nella grazia e nell’amore ricambiato di Dio. E lo stesso Pietro, nella sua prima lettera, cita Isaia scrivendo “Ecco, io pongo in Sion una pietra angolare, eletta e preziosa. E chi crederà in lei non resterà confuso”.

 

GIACOMO DI ALFEO

            Sono davvero pochi i dati su questo nono apostolo salvo che, come abbiamo visto con Matteo, fosse suo fratello. Di lui si sa solo che faceva parte della Chiesa di Gerusalemme e che era presente alla discesa dello Spirito Santo sui suoi componenti.

 

SIMONE LO ZELOTA

Così chiamato da Luca, ma da Matteo e Marco “Simone il cananita” che, contrariamente a quando si possa pensare, non indica una provenienza geografica, ma ha lo stesso significato perché l’ebraico “qana” si riferisce alla corrente degli zeloti fondata da Giuda il galileo di cui parlò Gamaliele in Atti 5-37: “Dopo di lui – Teuda – al tempo del censimento sorse Giuda il Galileo, che trascinò dietro a sé molta gente; anch’egli perì e tutti coloro che lo seguirono furono dispersi”. Come per Giacomo di Alfeo, null’altro sappiamo di questo apostolo se non che era stato un appartenente di quel gruppo, che oggi i media definirebbero “terrorista”. Gli zeloti infatti erano nati da una rivolta contro il censimento di Quirino ed erano divenuti una setta che faceva incursioni e uccideva sia i cittadini dell’impero romano che gli ebrei sospettati di collaborare con loro. I romani li chiamavano “sicari”, cioè “pugnalatori” per la loro tecnica più diffusa descritta da Giuseppe Flavio nella sua “Guerra giudaica”: “in Gerusalemme nacque una nuova forma di banditismo, quella dei cosiddetti sicari, che commettevano assassinii in pieno giorno nel mezzo della città. Era specialmente in occasione delle feste che essi si mescolavano alla folla, nascondevano sotto le vesti dei piccoli pugnali e con questo colpivano i loro avversari. Poi, quando questi cadevano, gli assassini si univano a coloro che esprimevano il loro orrore e recitavano così bene da essere creduti e quindi non riconoscibili”. Se Simone lo zelota era uno di loro, resta un testimone di quanto profondo sia stato il cambiamento avvenuto in lui, che accettò di condividere la vita dei dodici accanto a un pubblicano come Matteo e a vivere le adunanze di chiesa non solo con ebrei.

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3.10 – LE SPIGHE STRAPPATE (Matteo 12.1-8)

3.10 – Le spighe strappate (Matteo 12.1-8)

In quel tempo Gesù passò, in giorno di sabato, fra campi di grano e i suoi discepoli ebbero fame e cominciarono a cogliere delle spighe e a mangiarle. 2Vedendo ciò, i farisei gli dissero: «Ecco, i tuoi discepoli stanno facendo quello che non è lecito fare di sabato». 3Ma egli rispose loro: «Non avete letto quello che fece Davide, quando lui e i suoi compagni ebbero fame? 4Egli entrò nella casa di Dio e mangiarono i pani dell’offerta, che né a lui né ai suoi compagni era lecito mangiare, ma ai soli sacerdoti. 5O non avete letto nella Legge che nei giorni di sabato i sacerdoti nel tempio vìolano il sabato e tuttavia sono senza colpa? 6Ora io vi dico che qui vi è uno più grande del tempio. 7Se aveste compreso che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrifici, non avreste condannato persone senza colpa. 8Perché il Figlio dell’uomo è signore del sabato».”

Fra le tre versioni di questo episodio, la più accurata è quella di Matteo che utilizzeremo per le nostre riflessioni per quanto la collochi più avanti rispetto agli altri, che preferiscono porla dopo la questione sollevata dai discepoli di Giovanni e dai farisei sul digiuno. Luca è quello che colloca l’avvenimento temporalmente, anche se di questa sua annotazione in diverse traduzioni non v’è traccia: leggendo infatti 6.1 troviamo che “Un sabato Gesù passava tra i campi di grano e i suoi discepoli coglievano e mangiavano le spighe”. Alcuni testi dai quali diversi traduttori hanno attinto, primo fra tutti San Girolamo (317-420 d.C.), riportano “E avvenne che nel sabato secondo primo, passando egli per i seminati, i suoi discepoli coglievano spighe, e stritolatele con le mani, le mangiavano”. Diodati nel 1600, chiarisce cosa fosse quel “secondo primo” traducendo “nel primo sabato dal dì dopo la Pasqua”, come in effetti è. Di questa precisazione rimangono tracce sia nella Diodati riveduta, “”Ora avvenne che in giorno di sabato, dopo il gran sabato”, quanto nella Bibbia tradotta dall’abate Giuseppe Ricciotti (1949), sostanzialmente identica a quella di San Girolamo. La differenza è dovuta ai diversi codici greci presi in esame in cui il “sabato secondo primo” manca.

Fatta questa precisazione, doverosa perché chi legge Luca potrebbe chiedersi il perché di una differenza piuttosto rilevante tra i testi, entriamo nell’oggetto della presunta infrazione alla Legge che i discepoli di Gesù avrebbero compiuto. Era sabato, giorno di riposo, per il quale i Farisei avevano stabilito e aggiunto ben 39 azioni proibite tra le quali il mietere, che era indubbiamente un lavoro, ma anche stropicciare le spighe fra le mani. Per i farisei, per i quali era lavoro di sabato anche raccogliere un frutto caduto spontaneamente da un albero oppure mangiare un uovo, l’accusa bastava. Leggiamo invece in Deuteronomio 23.26 quanto segue: “Se passi tra la messe del tuo prossimo, potrai coglierne le spighe con la mano, ma non potrai mettere la falce nella messe dei tuo prossimo”, quindi di mietitura non se ne poteva parlare e la Legge, che proibiva il furto ma consentiva la spigolatura, faceva sì che e il proprietario del campo, indipendentemente dal fatto dal tipo di coltivazione, nel raccoglierne i frutti non ripassasse mai a cercare quelli rimasti indietro, ma li lasciasse ai poveri che avrebbero potuto raccoglierli. “Quando bacchierai i tuoi ulivi, non tornare a ripassare i rami. Sarà per il forestiero, per l’orfano e per la vedova. Quando vendemmierai la tua vigna, non tornerai indietro a racimolare. Sarà per il forestiero, per l’orfano e per la vedova. Ricordati che sei stato schiavo nella terra d’Egitto; perciò ti comando di fare questo” (Deuteronomio 24.20-22). Ancora: “Quando mieterete la messe della vostra terra, non mieterete fino ai margini del campo, né raccoglierete ciò che resta da spigolare della messe; quanto alla vigna, non coglierai i racimoli e non raccoglierai gli acini caduti: li lascerai per il povero e per il forestiero. Io sono YHWH, vostro Dio” (Levitico 19.9,10).

Quindi i discepoli, che presumiamo percorressero il “cammino di sabato” perché nulla in proposito rilevano gli oppositori di Gesù, non infrangevano le prescrizioni stabilite per quel giorno perché non solo non mietevano, ma neppure commettevano un furto. Gesù però non fa osservare loro questo, non li segue né apre una dissertazione su ciò che era o meno concesso di sabato, ma li riconduce allo spirito della Legge e li richiama a riconsiderare un episodio che dovevano conoscere molto bene. In casi come questo, in cui Lui cita episodi descritti nell’Antico Patto, mi viene sempre in mente che il Figlio di Dio era là, presente e testimone degli avvenimenti.

Ebbene Davide, perseguitato da Saulle che, accecato dall’invidia a seguito delle parole del canto delle donne israelite “Saul ha abbattuto i suoi mille, ma Davide i suoi diecimila”, voleva ucciderlo, giunse in fuga a Nob, città sacerdotale appartenente alla tribù di Beniamino. Nob era popolata da sacerdoti che, come membri della tribù di Levi, non possedevano una regione precisa ma si trovavano sparsi tra i vari centri della terra di Israele. Davide arriva così da Achimelech che, non avendo pane comune, alla sua richiesta di averne, gli dà quello sacro, cioè le dodici focacce che dovevano essere conservate davanti al luogo santo del tempio e rinnovate ogni sabato.

È un episodio al quale bisogna prestare molta attenzione perché contiene insegnamenti che vanno oltre le parole di Gesù a quei farisei: citando l’episodio, Nostro Signore implicitamente ricorda loro le verità nascoste bell’episodio che avrebbero dovuto e potuto meritare se solo avessero voluto. Ora Davide, e i suoi che lo attendevano in un luogo precedentemente concordato, era stremato dopo tre giorni di viaggio per cui la fame sua e degli altri era grave. Il fatto poi che il sacerdote non avesse pane e abbia scelto di dargli quello sacro, non trovandosi isolato in mezzo al deserto e potendo quindi cucinargli del pane normale, lascia supporre che fosse sabato e che quei pani, detti “di presentazione” fossero gli unici che gli fosse lecito preparare. Certo la Legge prescriveva che nessuno li potesse toccare o mangiare, ma se il sacerdote non avesse deciso di sfamare Davide e i suoi con quelli, li avrebbe debilitati visto che erano in fuga e sarebbero potuti morire. Erano uomini stremati. Inoltre Davide, quando si presenta ad Achimelech, non gli dice che stava scappando da Saul, ma “Il re mi ha ordinato e mi ha detto «Nessuno sappia di questa cosa per la quale io ti mando e di cui ti ho dato incarico»”, sempre per proteggere la propria vita. L’episodio è raccontato al capitolo 21 del primo libro di Samuele.

A proposito dei pani di presentazione, leggiamo Esodo 25.30: “Sulla tavola collocherai i pani della presentazione, saranno sempre alla mia presenza”. È un comandamento non da poco le cui parole “sempre” e “mia presenza” ci danno l’idea della continuità e di quanto quest’ordine fosse assoluto e il termine stesso “pane di presentazione” letteralmente dall’ebraico si traduce con “pane di facce” a motivo del fatto che dovesse restare davanti a Dio.

Se andiamo in Levitico 24.5-9, poi, abbiamo una visione ancora più esaustiva di quanto fosse seria la funzione di quei pani: “Prenderai anche fior di farina e ne farai cuocere dodici focacce. (…) Le disporrai su due pile, sei per pila, sulla tavola d’oro puro davanti al Signore, sempre. Porrai incenso puro sopra ogni pila, perché serva da memoriale per il pane, come sacrificio consumato dal fuoco in onore del Signore. Ogni giorno di sabato lo si disporrà davanti al Signore perennemente da parte degli israeliti: è un’alleanza eterna. Sarà riservato ad Aaronne e ai suoi figli: essi lo mangeranno in luogo santo, perché sarà per loro una cosa santissima tra i sacrifici da bruciare in onore del Signore. È una legge perenne”. Anche qui il redattore del libro del Levitico usa termini che poco spazio lasciano all’interpretazione: “in onore del Signore” – “perennemente” – “alleanza eterna” – “riservato” – “luogo santo” – “cosa santissima” – “in onore del Signore“ (per la seconda volta) – “legge perenne” (per la seconda volta).

Ebbene, queste istruzioni così particolareggiate vengono temporaneamente abolite dietro un’iniziativa non contemplata dalla Legge per salvare una vita umana e Dio non ne chiederà conto né ad Achimelech, né a Davide quando il solo annusare l’incenso preparato per il servizio sacerdotale o il fabbricarne di simile, era punito con la morte. Tutto questo abbatteva il formalismo esasperato – oggi lo chiameremmo radicalismo – di quei farisei ancora una volta chiamati a considerare da Gesù che la misericordia valeva più del sacrificio. Ancora una volta viene citato Osea, ancora una volta si sottolinea il principio in base al quale quando la misericordia – vedasi l’amore – e il sacrificio, cioè la parte esterna della religione, vengono in conflitto, Dio nella sua benignità sceglie la prima.

È indubbiamente questa una verità che dovrebbe molto insegnare a quei cristiani che si arroccano su posizioni che tendono a dividere il mondo in bianco e nero senza possibilità di grigio e dimenticano che Dio ha creato il colore. Camminare in mezzo a un bosco in estate equivale a vedere non del verde, ma sue sfumature infinite tutte riferite alla vita, così come guardare il cielo non significa vedere solo un azzurro uniforme che si trova, solo e al limite, in quei cartoni animati in cui i disegnatori devono produrre fotogrammi dipendenti da costi di produzione.

Marco scrive che Gesù disse nell’occasione che “il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato”, cioè: l’uomo aveva bisogno di riposo per rigenerare le proprie energie e per questo era stata imposta l’astensione dal lavoro dandogli modo di far propria e meditare l’opera di Dio che in quel giorno contemplò il suo lavoro minato da Satana attraverso la disubbidienza dei nostri progenitori. Il sabato di Dio doveva essere eterno, santificato dalla reciprocità di amore tra lui e l’uomo, suo vero capolavoro protagonista in un creato perfetto e puro. L’uomo non era stato creato per osservare il sabato, ma per vivere pienamente condividendo con il suo Creatore giorno di eternità e beatitudine. Dopo la caduta, era chiamato ad osservarlo anche per riflettere sulla sua condizione consacrando il suo tempo al Signore.

Per questo Gesù, “Figlio dell’uomo” indicato nei testi profetici, era “Signore del sabato” e anche “più grande del Tempio”, cosa che i farisei non potevano accettare perché, in quel caso, tutto il loro castello di teoremi e il loro stesso modo di vivere, con il rispetto che avevano presso il popolo, sarebbe crollato. Avrebbero dovuto rinunciare a loro stessi, porre tutto in discussione da capo. In poche parole, avrebbero dovuto ubbidire a quell’esortazione detta loro qualche giorno prima, “Andate e imparate cosa vuol dire «Voglio misericordia e non sacrificio»”. Là dove il termine allude, da dizionario, a un “sentimento di compassione e pietà per l’infelicità e la sventura altrui che induce a soccorrere, a perdonare e a non infierire”. E l’episodio successivo sarà proprio un nuovo miracolo, il terzo operato da Gesù in giorno di sabato.

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3.08 – LEVI MATTEO (Matteo 9.9-13)

3.08 – La chiamata di Levi Matteo (Matteo 9.9-13)

9Andando via di là, Gesù vide un uomo, chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: «Seguimi». Ed egli si alzò e lo seguì. 10Mentre sedeva a tavola nella casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e se ne stavano a tavola con Gesù e con i suoi discepoli. 11Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: «Come mai il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?». 12Udito questo, disse: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. 13Andate a imparare che cosa vuol dire: Misericordia io voglio e non sacrifici. Io non sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori»”

Levi Matteo è il settimo ad essere chiamato personalmente da Gesù nel gruppo dei suoi discepoli. Ricordiamo cronologicamente gli altri, che verranno disposti più avanti in ordine di funzione e carattere: i primi incontrati furono Giovanni con Andrea, quindi Simon Pietro, Filippo e Natanaele, chiamato Bartimeo. A seguirlo dopo la pesca sulle rive del lago di Galilea furono Pietro col fratello Andrea e subito dopo Giacomo con Giovanni. Matteo fu quindi il quinto di cui è espressamente scritta la chiamata, settimo se si contano i discepoli, poi chiamati apostoli, che incontrarono Gesù. Tutti i sinottici concordano nel collocare l’episodio dopo quello della guarigione del paralitico di Capernaum, di modo che il filo cronologico temporaneamente perduto o dubbio si riannoda. Marco scrive che “Uscì di nuovo lungo il mare, tutta la folla veniva a lui ed egli insegnava loro. Passando, vide Levi, figlio di Alfeo, seduto al banco delle imposte, e gli disse «Seguimi»” (2.13,14). Capernaum infatti, posta sulla via principale tra l’Egitto e Damasco, aveva una dogana posta dai romani per la riscossione delle tasse sulle merci che transitavano.

Matteo è chiamato da Marco “Levi, figlio di Alfeo” (2.14) e semplicemente “Levi” da Luca (5.29) perché, come molti stante la situazione politica del tempo, aveva un nome ebreo (Levi, cioè “Congiunzione”) e uno romano (Matteo, comunque di derivazione greca, “Dono del Signore”): coi romani, considerato il lavoro che faceva, si relazionava molto in quanto dipendente del loro governo. I pubblicani erano considerati dei “venduti” e disprezzati al pari delle prostitute e sappiamo che il fariseo di una nota parabola ringraziava Dio di non essere “come gli altri uomini e neppure come quel pubblicano” che era salito al Tempio con lui a pregare.

Levi Matteo era una persona colta e benestante, che conosceva già Nostro Signore perché era un suo parente. Matteo, lo abbiamo visto in Marco, è chiamato “Figlio di Alfeo” che in aramaico diventa “Cleopa”, o “Cleofa”, probabile marito di quella “Maria di Cleofa” presente alla crocifissione assieme ad altre donne, sorella di Maria madre di Gesù. Stante l’impossibilità di avere certezze assolute in proposito, è stato supposto che Alfeo–Cleofa fosse lo zio di Gesù e Matteo suo cugino, fratello di quel Giacomo detto “il minore” che rientrerà nel gruppo dei dodici. Va detto che lo studio delle relazioni parentali si presenta assai arduo sia per la doppia valenza che ha il termine “fratello”, che nell’antichità indicava anche una parentela prossima, ma anche per il “di” che poteva riferirsi a un rapporto di paternità come a un vincolo matrimoniale. Inoltre uno scritto di un autore esegetico importante pubblicato nei primi anni del ‘900 arriva a sostenere che non vi siano prove dell’equivalenza “Alfeo – Cleopa”. Personalmente ritengo che quel “figlio di Alfeo” non compaia a caso e che effettivamente vi fosse un legame tra i personaggi citati, per quanto non dimostrabile con assoluta certezza.

A prescindere da questi rapporti che nulla vanno a modificare nella dottrina, cerchiamo di capire Matteo più da vicino: era una persona che viveva col guadagno del suo lavoro e non faceva la cresta sulle tasse come molti suoi colleghi. Il fatto che sapesse benissimo di essere disprezzato dai suoi correligionari e che non se ne facesse un cruccio, è indice di autonomia decisionale e maturità. Evidentemente Matteo era giunto alla conclusione che fosse meglio lavorare onestamente e dignitosamente senza infrangere il comandamento “Non rubare”. Era poi una persona attenta alla realtà che lo circondava: sicuramente, per il suo lavoro e le conoscenze di persone che gli raccontavano le cronache dei dintorni, aveva avuto modo di ragionare molto su quel Gesù da Narareth che già aveva operato miracoli di ogni tipo in Capernaum e nella Galilea, oltre che sui contenuti dei discorsi alla gente. Questo apostolo dai due nomi si rivelerà come “Congiunzione” nello scrivere in suo Vangelo, particolarmente accurato nell’analizzare le profezie che riguardano Gesù come Cristo – ne cita 60 -, e “Dono di Dio” per la sua opera scritta, che da sempre ha aiutato i credenti nel corso della storia per la comprensione dell’opera di Nostro Signore. Gesù quindi sapeva di poter contare su di lui esattamente come era successo con gli altri, Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni, Filippo e Natanaele-Bartolomeo. Se così non fosse, non gli avrebbe mai detto “Seguimi” e se Matteo non avesse concluso, non sappiamo quanto tempo prima, che la vita che conduceva quotidianamente non poteva avere nulla a che fare con quella spirituale ed eterna, o anche solo il voler vivere vicino a quel Maestro, non avrebbe mai abbandonato il suo lavoro: Luca scrive infatti “Ed egli, lasciando tutto, si alzò e lo seguì” (5.28). Fu una reazione immediata, colse al volo un’occasione irripetibile non preoccupandosi di altro, il che ci dice molto della considerazione nella quale teneva la propria vita fino ad allora tranquilla e ordinata nonostante il disprezzo in cui era tenuta la sua professione.

In lui vi dovette essere molta gioia poiché organizzò poco dopo “un grande banchetto nella sua casa” non penso per festeggiare l’avvenimento della sua chiamata, ma piuttosto per permettere alle persone che conosceva di avere il privilegio di ascoltare Gesù, di stare con lui, di condividere la sua presenza. Esattamente come dovrebbe accadere nelle riunioni di Chiesa in cui occhi e orecchie spirituali dovrebbero essere centrate su Cristo, presente secondo la Sua promessa dei “due o tre” radunati nel Suo nome.

Matteo quindi organizza un convito importante non solo quanto a numero e tipo di partecipanti e invitando le persone che conosceva: tutto questo suscitò l’indignazione dei farisei (“Gli scribi dei farisei” secondo Marco): come poteva, quel Rabbi che faceva miracoli cacciando demoni e insegnando nelle sinagoghe, stare a tavola con “pubblicani e peccatori”, termine quest’ultimo riferito ai trasgressori della legge morale e cerimoniale di Israele?

La risposta di Gesù, che sentì la domanda, fu duplice: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati”, alludendo al fatto che, se fosse vissuto separato dai peccatori non avrebbe mai potuto parlare loro. Egli li vedeva soli nella loro condizione spirituale, ma non arroganti e presuntuosi nell’anima e nello spirito come quei farisei, malati pure loro, ma nella condizione di chi il medico lo rifiuta perché convinto di essere sano. La frase che segue subito dopo, “Io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori”, allude proprio a questo perché era tutto l’impianto morale dei farisei ad essere in difetto per cui li invita ad “andare” e a “imparare” (un modo per dire che avrebbero dovuto tornare a scuola) cosa volesse dire “Io voglio misericordia e non sacrifici”. Tra l’altro, proprio “Va’ e impara” era un’espressione che i Farisei utilizzavano molto spesso a conclusione di un discorso per far pesare sugli altri la superiorità che pensavano di avere.

Da sempre i farisei – allora come oggi – facevano e fanno interminabili dissertazioni su qualunque versetto biblico andando ben oltre l’esegesi con un metodo che Gesù definirà con queste parole: “Guai a voi, scribi e farisei, ipocriti, (…) che filtrate il moscerino e ingoiate il cammello”, un paragone che illustra molto bene il loro metodo di guardare alle minuzie perdendo di vista ciò che effettivamente era ed è la sostanza delle cose. Solo la conversione avrebbe potuto guarire quei malati che si credevano sani, e per questo Gesù li invita a considerare il passo di Osea 6.6 che conoscevano molto bene, ma che viene loro ripetuto a voce: la misericordia “piuttosto che” – traduzione più corretta di “e non” – sacrifici, quindi la parte cerimoniale della Legge a loro tanto cara. Anche oggi molti per conversione intendono una rinuncia, un abbandono di azioni e comportamenti che caratterizzavano la loro vita di peccatori prima del loro incontro personale col Signore: se questo non è di per sé sbagliato, va detto che senza una profonda rivisitazione della propria vita e un’assimilazione della Parola di Dio che porta alla rinuncia, il loro gesto può essere un’azione che può lasciare dei rimpianti e dei residui all’interno dei loro cuori che a lungo andare possono sempre esplodere con conseguenze destabilizzanti. Matteo, e prima di lui gli altri, avevano lasciato le loro cose, quindi il loro modo di vivere, solo nel momento in cui avevano capito sì che quella era l’unica cosa che potessero fare, ma che tutto ciò che possedevano si era svuotato di significato. Non fu una rinuncia dolorosa, ma la scelta tra ciò che era prezioso e ciò che non aveva più valore. Purtroppo molti anche oggi intendono il cristianesimo come un’applicazione di norme e comandamenti, dimenticando che è una libera espressione di un sé che si manifesta attraverso l’applicazione di principi etici.

Tornando all’episodio, guardare alla Legge cerimoniale da parte dei farisei e dei loro scribi significava osservare una religione che consisteva soltanto nell’aderire alla lettera a quanto era comandato da Dio, ma trascurandone totalmente lo spirito. Anche ai tempi di Osea (VII secolo a.C.) si credeva che la cosa più gradita a Dio fosse il sacrificio esteriore e materiale perché era molto più facile far pagare i propri peccati a una vittima innocente, l’animale, piuttosto che esaminarsi profondamente per mutare radicalmente il proprio interno. Anche Samuele, ancora prima, aveva detto “Il Signore gradisce gli olocausti e i sacrifici come chi ubbidisce alla sua voce? Ecco, ubbidire è più prezioso che il sacrificio, e attendere più del grasso dei montoni” (1 Samuele 15.22). Possiamo dire che questo tipo di ragionamento avviene anche oggi nel cristianesimo nel momento in cui, ad esempio, si fa di Dio una persona che dovrebbe essere sempre attenta ad esaudire le preghiere che pongono sempre e costantemente al centro le necessità materiali dell’individuo anziché una richiesta di aiuto e soccorso per eliminare ciò che ritarda il cammino con lui. Sono queste preghiere che vengono costantemente disattese perché, come disse l’apostolo Giacomo, “Non avete perché non chiedete; chiedete e non ottenete perché chiedete male, per soddisfare cioè le vostre passioni. Gente infedele! Non sapete che l’amore per il mondo è nemico di Dio?” (Giacomo 4.2,3).

Alla base dell’atteggiamento farisaico esiste sempre una presunzione che ha santificato l’orgoglio, che nulla sa dell’amore che non sia per se stessi. Invece pochi versi dopo quelli che abbiamo citato, Giacomo scrive “Dio resiste ai superbi, ma dà la sua grazia agli umili. Sottomettetevi dunque a Dio; resistete al diavolo, ed egli fuggirà da voi. Avvicinatevi a Dio ed Egli si avvicinerà a voi. Peccatori, purificate le vostre mani. Uomini dall’animo indeciso, santificate i vostri cuori. Riconoscete la vostra miseria, fate lutto e piangete; le vostre risa si cambino in lutto e la vostra allegria in tristezza. Umiliatevi davanti al Signore ed egli vi esalterà”. (4.6-10).

 

Gesù dichiara quindi di non essere venuto a chiamare chi si ritiene giusto, ma chi sa di avere bisogno di lui, cosa possibile solo se è consapevole di essere un peccatore, una persona in antitesi a lui e quindi soggetta ad essere respinta da parte Sua. In pratica, chi è malato chiama il medico perché si rende conto della sua condizione, ne avverte i sintomi e quindi si rivolge a lo può guarire, anzi, se è grave cerca il medico migliore. Per tutti i cosiddetti “sani” valgono invece le parole, tra le innumerevoli, di Proverbi 1.30,31: “Vi ho chiamati, ma avete rifiutato, ho steso la mano e nessuno se ne è accorto. Avete trascurato ogni mio consiglio e i miei rimproveri non li avete accolti; anch’io riderò delle vostre sventure, mi farò beffe quando su di voi verrà la paura, quando come una tempesta vi piomberà addosso il terrore, quando la disgrazia vi raggiungerà come un uragano, quando vi colpiranno angoscia e tribolazione. Allora mi invocheranno, ma io non risponderò, mi cercheranno, ma non mi troveranno. Perché hanno odiato la sapienza e non hanno preferito il timore del Signore e non hanno accettato il mio consiglio e hanno disprezzato ogni mio rimprovero; mangeranno perciò il frutto della loro condotta e si sazieranno dei loro consigli”.

Se quindi una persona è consapevole di essere un peccatore, riconoscendosi in tal modo malato, ha bisogno di confrontarsi con Dio e Gesù Cristo, la Sua diretta Parola. Solo allora potrà essere guarito ed instaurare con Lui un rapporto unico di dipendenza e bisogno continuo; viceversa potrà solo rimanere nelle propria convinzione, umanamente sazio nella propria coscienza. Si tratta di un pericolo che tutti possono correre, anche i cristiani che perdono di vista la loro chiamata e lo scopo per cui vivono il loro pellegrinaggio terreno in vista dei “nuovi cieli e nuova terra dove dimora stabile la Giustizia” promessi e preparati per loro. Ricordiamo le parole all’angelo della Chiesa di Laodicea: “Tu dici «Sono ricco, mi sono arricchito, non ho bisogno di nulla». Ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo” (Apocalisse 3.17). Perché, questo è il punto, “Non c’è nessun giusto, neppure uno” (Romani 3.9). Amen.

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3.07 – IL PARALITICO DI CAPERNAUM (Luca 5.17-26)

3.07 – Il paralitico di Capernaum (Luca 5.17-26)

 

17Un giorno stava insegnando. Sedevano là anche dei farisei e maestri della Legge, venuti da ogni villaggio della Galilea e della Giudea, e da Gerusalemme. E la potenza del Signore gli faceva operare guarigioni. 18Ed ecco, alcuni uomini, portando su un letto un uomo che era paralizzato, cercavano di farlo entrare e di metterlo davanti a lui. 19Non trovando da quale parte farlo entrare a causa della folla, salirono sul tetto e, attraverso le tegole, lo calarono con il lettuccio davanti a Gesù nel mezzo della stanza. 20Vedendo la loro fede, disse: «Uomo, ti sono perdonati i tuoi peccati». 21Gli scribi e i farisei cominciarono a discutere, dicendo: «Chi è costui che dice bestemmie? Chi può perdonare i peccati, se non Dio soltanto?». 22Ma Gesù, conosciuti i loro ragionamenti, rispose: «Perché pensate così nel vostro cuore? 23Che cosa è più facile: dire «Ti sono perdonati i tuoi peccati», oppure dire «Àlzati e cammina»? 24Ora, perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere sulla terra di perdonare i peccati, dico a te – disse al paralitico -: àlzati, prendi il tuo lettuccio e torna a casa tua». 25Subito egli si alzò davanti a loro, prese il lettuccio su cui era disteso e andò a casa sua, glorificando Dio. 26Tutti furono colti da stupore e davano gloria a Dio; pieni di timore dicevano: «Oggi abbiamo visto cose prodigiose»”.

 

La guarigione del paralitico di Capernaum è narrata da tutti i sinottici, per quanto con varianti che non mutano sostanzialmente il significato dell’episodio, anzi lo arricchiscono di particolari. Anche questo rientra in quei miracoli che gli evangelisti inseriscono senza una successione cronologica certa per quanto Matteo lo collochi dopo il discorso della montagna e l’intervento sugli indemoniati di Gadara, scrivendo “Salito su una barca, passò all’altra riva e giunse nella sua città”. Credo che agli evangelisti prema, nel caso dell’esposizione di questi miracoli, dare la precedenza più sul contenuto dottrinale che cronologico, problema che non si sono posti non ritenendolo importante al contrario degli autori del Pentateuco in cui la successione degli eventi è fondamentale e non può lasciare adito a dubbi pena la loro non comprensione. Marco scrive che Gesù tornò a Capernaum “dopo alcuni giorni” lasciando così indeterminato il periodo di predicazione in Galilea: lì sappiamo, ricordando Giovanni 2.12, che “dopo le nozze di Cana scese a Capernaum insieme a sua madre, ai suoi fratelli e ai suoi discepoli”.

Ora il fatto che fosse tornato là, fece sì che ricominciasse la sua attività spirituale alla quale si accompagnavano guarigioni di ogni tipo. La sua presenza in Capernaum attirò non solo il popolo comune, ma anche “farisei e dottori della Legge, venuti da ogni villaggio della Galilea e della Giudea, e da Gerusalemme”, segno che la guarigione del paralitico avvenne non immediatamente il suo ritorno in quella cittadina. Ci volle infatti del tempo tra il suo arrivo in città e che questa notizia si diffondesse, così come per il viaggio che dovettero fare alcuni da Gerusalemme alla casa di Gesù.

È triste constatare che quella che avrebbe dovuto essere teoricamente la parte migliore del popolo di Israele vista nei farisei e nei dottori della Legge, che avrebbero dovuto tramandarsi, tradizioni religiose a parte, anche quanto fosse profonda la dottrina che Gesù aveva dimostrato di possedere fin dall’età di dodici anni, era là non per ascoltarlo e confrontarsi con l’Unica fonte di vita, ma per giudicarlo e coglierlo in flagrante secondo il loro metodo. Non troviamo se non con Nicodemo, che era dei loro, un dialogo che denoti una volontà di capire, di raccordare il principio in base al quale “nessuno può fare i segni che tu fai, se Dio non è con lui ” con il voler assimilare la reale identità di Gesù. Quel fariseo però, nonostante il proprio bagaglio storico culturale che molto lo impedì nel suo cammino – ma chi, salvo rare eccezioni, non lo è? – era un onesto.

Ora c’era in Capernaum un paralitico – che in nessuno dei tre racconti dice mai una parola – che poteva contare sull’aiuto di alcune persone, almeno quattro, che volevano a tutti i costi fosse guarito: volevano portarlo a Gesù, ma capirono ben presto che i loro tentativi di entrare per la porta della casa sarebbero stati inutili a causa della folla che, essendo la casa piena, si accalcava per ascoltare il Maestro.

A questo punto è doveroso spendere qualche parola su come fossero fatte le case di allora: avevano un solo piano oltre il quale c’era una terrazza alla quale si accedeva tramite una stretta scalinata posta all’esterno. In alternativa, se la casa confinava con altre, c’era un muretto di divisione a dividere le due terrazze – e l’eventuale area cortilizia circostante –, che naturalmente avevano anche la funzione di tetto come leggiamo ad esempio in Matteo 24.17 “Chi si trova sul tetto della casa, e avrà le sue masserizie dentro la casa, non scenda a prenderle”. Allora come oggi, se vedere una persona su un tetto è cosa inusuale, certo non lo è se si tratta di una terrazza.

Ora è molto probabile che avvenne così: i quattro o più amici del paralitico arrivarono alla casa di Gesù e compresero l’impossibilità di entrarvi, stante la molta gente accalcata intorno; non riuscirono neppure a raggiungere la scalinata esterna per accedere alla terrazza e allora passarono da quella vicina. Scavalcarono, con tutta la fatica e la cautela del caso stante l’amico che trasportavano sul lettino, il muretto che divideva una terrazza dall’altra e così giunsero a quella della casa di Gesù. A questo punto, si misero a lavorare sul pavimento – soffitto, costituito da fango essicato o argilla che poggiava su un fitto strato di rami sostenuti da travi. Sulla terrazza esisteva molto spesso uno strumento particolare, una sorta di rullo, un cilindro che in caso di pioggia veniva fatto rotolare su e giù per il pavimento per compattare l’impasto di argilla ed evitare che piovesse in casa. Vero è che Luca, a differenza di Matteo e Marco, parla di “tegole”, ma il termine non va collegato al nostro; piuttosto alla sua etimologia dal latino “tegere”, cioè “coprire”. Ciascuno proteggeva il soffitto-terrazzo come poteva e non è escluso che vi fossero, nel punto scelto dagli amici del paralitico, magari delle tavole a protezione del pavimento che, per la natura del manufatto, avrebbe potuto essere riparato dagli stessi in breve tempo e con uno sforzo certo minore rispetto a quello fatto per condurre il loro amico infermo fin lì.

A quanto risulta dai sinottici, questi calarono il loro amico dal tetto senza dire nulla: il loro comportamento parlava da solo perché avevano fatto la fatica di portare quell’uomo fin lì e quindi ingegnarsi per raggiungere Gesù consapevoli che avrebbero dovuto fare in fretta stante le probabilità che, da un momento all’altro, finisse di parlare ed uscisse di casa per ritirarsi in qualche luogo sconosciuto a pregare. Ecco che il loro comportamento rivelava due cose: erano certi che Gesù avrebbe potuto guarire il loro amico e al tempo stesso denota l’amore che avevano per lui perché sicuramente quel trasporto era faticoso se non altro per il caldo, visto che non sappiamo quanto pesasse quel corpo incapace di muoversi e forse di parlare. Non credo di essere azzardato dicendo che quella che Gesù e i presenti videro altro non fu che una preghiera fatta con le opere e non con le parole, come ve ne saranno altre. E sappiamo molto bene che è quello che facciamo che rivela spesso il nostro pensiero al di là di ciò che possiamo dire.

A questo punto avviene qualcosa di estraneo alle aspettative di tutti: Gesù non dice “guarisci” o “àlzati”, ma “Uomo, ti sono rimessi i peccati”, frase che Matteo riporta leggermente diversa: “Coraggio, figlio, ti sono perdonati i peccati”, segno che Lui conosceva il passato, la storia di quella persona e che era la condizione di peccato in cui versava a renderlo paralitico per cui solo il perdono di Dio avrebbe potuto liberarlo. Ma posiamo anche andare oltre: perché Gesù avrebbe detto “Coraggio” se non ci fosse stato bisogno di consolarlo al di là della sua condizione fisica? Dire “Àlzati” avrebbe risolto tutto, e invece la prima parola fu “Coraggio”, cioè un invito morale. È così azzardato supporre che quell’uomo fosse angosciato, oltre che dalla sua paralisi, per uno o più peccati commessi che avevano finito per penalizzarlo in quel modo? Non credo che Gesù avesse pronunciato una frase del genere se non fosse stato il peccato che tormentava la coscienza e non la paralisi il problema di quell’uomo, né tantomeno che dire “ti sono rimessi i peccati” fosse stato uno strumento per suscitare la discussione, che poi avvenne, coi farisei e i dottori presenti che Robert Steward definisce “al tempo stesso giuristi e teologi, legislatori e sacerdoti della nazione giudaica”.

Ebbene, quei sapienti furono immediatamente scandalizzati: “Chi è costui che dice bestemmie? Chi può perdonare i peccati, se non Dio soltanto?”. Due sono gli elementi su cui soffermarsi, il “costui” usato in senso spregiativo, e il bestemmiare, che se nel greco classico si usa per denotare ogni sorta di maldicenza contro il prossimo, in quello ellenistico di Luca denota empietà e malvagio parlare contro Dio.

A questo punto Nostro Signore, che conosceva i ragionamenti dei suoi oppositori, li interroga sul perché pensassero quelle cose. Matteo scrive “Perché pensate cose malvagie nel vostro cuore? Che cosa infatti è più facile: dire «Ti sono perdonati i peccati», oppure «Àlzati e cammina»?”: fu sicuramente un rimprovero, ma con lo scopo di porre i suoi antagonisti di fronte alla loro coscienza. Parafrasando: “Perché pensi così? Prima che a me, rispondi a te stesso, cerca le ragioni di questo tuo astio alla luce di quello che sai giù su di me e a quello che vedrai”. La seconda parte delle parole di Gesù sono destinate a zittire i pensieri e i mormorii di quelli: è facile dire a una persona “ti sono rimessi i peccati”, ma non altrettanto a un paralitico di alzarsi e camminare, cosa che avvenne, lasciando muti e soli quei religiosi di fronte alle loro responsabilità. E il termine ebraico che indicava la parola “peccato” poteva indicare tanto una colpa commessa quanto le sue conseguenze ed era proprio l’infermità corporale grave e cronica che, come già visto in altri episodi, la denotava.

Venendo a noi, l’incontro con Gesù e le sue parole lascia sempre, all’inizio, l’essere umano solo di fronte a sé stesso: è a un bivio, deve inevitabilmente scegliere se rimanere nelle convinzioni di cui è vittima nonostante creda il contrario, oppure mettersi in discussione di fronte a quanto gli viene detto. Non è facile: richiede umiltà, apertura, disponibilità e sì, rinunciare a se stessi per seguirLo nel cammino. Il problema, la domanda, non è “cosa perdo se accetto Gesù Cristo”, ma “dove vado e a quale punto arrivo se seguo me stesso e dove vado e dove arrivo se seguo Lui”.

La vita che scorre da quando l’uomo è stato estromesso da Eden ad oggi è descritta in sintesi dal re Salomone in tutto il libro dell’Ecclesiaste, o Qoelet: “3Quale guadagno viene all’uomo
per tutta la fatica con cui si affanna sotto il sole? 4Una generazione se ne va e un’altra arriva,
ma la terra resta sempre la stessa. 5Il sole sorge, il sole tramonta e si affretta a tornare là dove rinasce.
6Il vento va verso sud e piega verso nord. Gira e va e sui suoi giri ritorna il vento.
7Tutti i fiumi scorrono verso il mare, eppure il mare non è mai pieno: al luogo dove i fiumi scorrono,
continuano a scorrere. 8Tutte le parole si esauriscono e nessuno è in grado di esprimersi a fondo.
Non si sazia l’occhio di guardare né l’orecchio è mai sazio di udire. 9Quel che è stato sar
e quel che si è fatto si rifarà; non c’è niente di nuovo sotto il sole. 10C’è forse qualcosa di cui si possa dire:
«Ecco, questa è una novità»? Proprio questa è già avvenuta nei secoli che ci hanno preceduto.
11Nessun ricordo resta degli antichi, ma neppure di coloro che saranno si conserverà memoria
presso quelli che verranno in seguito”
(Ecclesiaste 1.3-11). Anche questa è una paralisi, per quanto illusoriamente mobile.

Al paralitico vengono affidati tre compiti: alzarsi, prendere il lettino al quale per molto tempo e con sofferenza era stato costretto, e andarsene a casa sua. Sarebbe iniziata per lui una vita nuova, perfettamente conseguente al perdono dai peccati ricevuto. E non è certo sottovalutabile la sua reazione: “Subito egli si alzò davanti a loro, prese il lettuccio su cui era disteso e andò a casa sua, glorificando Iddio”. Si noti che non è scritto che ringraziò l’uomo Gesù, ma glorificò Iddio, cioè riconobbe che quanto avvenuto era stato possibile unicamente grazie a quel Dio che prima gli aveva fatto patire le conseguenze di una condizione di peccato e poi gli aveva rimesso ogni colpa. “Glorificare Dio” era la stessa cosa che ringraziare chi lo aveva guarito e, ancor di più, chi gli aveva rimesso i peccati. Da un lato abbiamo perdono e guarigione, dall’altro gli uomini della Legge orale e scritta che rimasero lì, induriti sulle loro posizioni senza un perché. Non si trattava più, come annota Giuseppe Ricciotti, “di qualche elegante questione casistica rabbinica, ad esempio di sapere se fosse lecito di sabato sciogliere il nodo di una fune o trasportare un fico secco”, ma di ammettere semplicemente che il Regno di Dio era finalmente giunto a loro e che Gesù stava dimostrando di essere l’incarnazione delle promesse fatte ai profeti a partire da Abrahamo, che loro ritenevano loro padre. Nessuno di loro lo fece.

Concludendo, abbiamo una cosa che in questo episodio accomuna gli ostili a Gesù, il paralitico e i suoi amici: tutti intraprendono un cammino per andare da Lui. I primi per accusarlo e il risultato che ottennero fu solo sconfitta e livore, i secondi consapevoli che solo Nostro Signore avrebbe potuto risolvere il loro grave problema, E la gioia fu il loro premio. I primi pensavano di essere qualcosa, i secondi partecipavano alla sofferenza dell’amico e andarono a Cristo per essere esauditi, o anche solo ascoltati attraverso le loro azioni. Solo la Parola di Dio che è Spirito e Vita può quindi risolvere la condizione di peccato in cui si trova l’uomo perché solo per mezzo della fede si riceve la giustificazione e la pace di Dio.

E Davide nel suo Salmo 108.13 scrive sotto la dispensazione della Legge “Il Signore è buono e pietoso, lento all’ira e grande nell’amore. Egli non continua a contestare e non conserva per sempre il suo sdegno, non ci tratta secondo le nostre colpe – cosa che il cristiano sa molto bene –. Come il cielo è alto sulla terra, così grande è la sua misericordia su quanti lo temono; come dista l’Oriente dall’Occidente, così allontana da noi le nostre colpe. Come un padre ha pietà dei suoi figli – il Padre Nostro che è nei cieli – così il Signore ha pietà di quanti lo temono”. Amen.

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3.06 – GESÙ IN PREGHIERA (Luca 5.15,16)

3.06 – Gesù in preghiera (Luca 5.15-16)

15Di lui si parlava sempre di più. E folle numerose venivano per ascoltarlo e farsi guarire dalle loro malattie. 16Ma Egli si ritirava in luoghi deserti a pregare”.

Con questa lettura ci troviamo di fronte a due situazioni distinte di cui solitamente si prende atto passandovi sopra, quasi ansiosi di leggere l’episodio successivo, tra la guarigione del lebbroso e quella del paralitico. Ciò che Luca descrive nei nostri versi è semplice: da un lato abbiamo le folle composte da curiosi che volevano vederlo, ascoltarlo e alcuni di loro guarire dalle malattie che li affliggevano, dall’altro vediamo la volontà di Gesù di ritirarsi in luoghi deserti e pregare, azione che lo accomuna a tutti gli altri uomini cui premeva e preme instaurare un rapporto con Dio.

Lui, il Figlio, tutt’uno con il Padre nella dimensione spirituale prima, durante e dopo la creazione, aveva assunto un corpo assolutamente identico al nostro provando la fatica, la fame e la sete. Lui, che teoricamente non aveva bisogno di nulla, si ritira in luoghi deserti per compiere un atto che per noi è indice di subordinazione e dipendenza, condizioni che si riferiscono al suo essere uomo per l’eredità materna che aveva ricevuto nella carne e alla quale non poteva sottrarsi. Questo era il limite di Gesù uomo, “limite” che scandalizza quelli che sono convinti che parlare di Dio impiegando espressioni come “non potere” o pensare che Lui potesse avere dei confini da non superare sia un oltraggio stante la sua onnipotenza.

La storia “interiore” di Gesù è spiegata in Filippesi 2.5-11: “Egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che al di sopra di ogni altro, perché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami «Gesù è il Signore!» a gloria di Dio Padre”.

Esaminiamo brevemente le fasi attraverso le quali passò Gesù descritte in questi veri. La prima è descritta in poche parole: era nella condizione di Dio, quindi in Lui e con Lui tanto prima che dopo la creazione. Era tutt’uno con quel Dio divenuto irraggiungibile dopo il peccato dei nostri progenitori perché Santo e quindi assolutamente distante e incompatibile con loro. Eppure, nei tempi da lui decretati, “non ritenne un privilegio essere come Dio, ma svuotò se steso assumendo una condizione di servo, divenendo simile agli uomini”. Si svuotò, scelse di farlo, l’azione del verbo riflessivo non lascia dubbi in proposito. Non era possibile diventare uomo senza rinunciare alla gloria e al posto che aveva quando era nella sua condizione originale e, per diventare creatura, dovette rinunciare ad essere creatore nel senso di essere quella “Parola” mediante la quale tutte le cose sono state create. “Parola” certo lo rimase e lo era, ma per portare agli uomini la “Grazia e la Verità che sono venute per mezzo di Gesù Cristo”. Assunse così “la condizione di servo, diventando simile agli uomini”. Pensiamo: Dio stesso, il Figlio, si fa uomo per servire, come nessun altro avrebbe mai potuto fare, il Padre., perché non c’era nessuno che potesse farlo. Atanasio di Alessandria, vescovo e teologo greco vissuto tra il 200 e il 300, scrisse che “Non volle semplicemente essere in un corpo né volle soltanto apparire in un corpo. Infatti, se avesse voluto semplicemente apparire, avrebbe potuto manifestare la sua divinità per mezzo di un essere più potente” come da sempre avvenuto – aggiungo io – nella mitologia tanto antica quanto moderna (Atanasio, L’incarnazione del verbo, cap.2). Era necessario un corpo di uomo, quella creatura che nonostante i suoi sforzi non riusciva mai ad essere interamente giusto a causa dei peccati che commetteva, accidentali o per semplice ignoranza. Ecco che Gesù si identifica con noi senza però condividere ed effettuando le nostre scelte.

Identico agli uomini per aspetto, Isaia 53.2 ci dice che “Non aveva né forma, né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere”, “umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte, e a una morte di croce”: l’umiliazione di Dio fu possibile unicamente grazie ad un amore smisurato più che dalla Sua onnipotenza: da un lato quello per il Padre visto nell’obbedienza alla legge, al suo “compimento”, e dall’altro quella per l’essere umano. Non fu facile: l’obbedienza fu faticosa e sofferente, che sempre Isaia nello stesso capitolo – per non parlare dei Vangeli quando affrontano il tema dall’arresto alla crocifissione e non solo – scrive “Eppure si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che dà salvezza si è abbattuto su di lui, per le sue piaghe noi siamo stati guariti”.

Gesù quindi, prendendo un corpo come il nostro, provò su di sé la separazione dal Padre cui era unito dall’eternità, la soggezione al tempo che mai aveva avuto, la debolezza sua e di quanti lo circondavano contro la quale non poteva permettersi di perdere a meno di rinunciare a salvare la creatura. Ecco allora spiegato quanto avesse da pregare e ancora di più il perché. Lui, in grado di esaudire le preghiere dei malati, non poteva pregare sé stesso, sarebbe stata una cosa incompatibile, avrebbe generato un cortocircuito e infatti non fece mai un miracolo che lo agevolasse. Fu infatti il Padre a inviargli degli angeli a servirlo e consolarlo dopo i quaranta giorni nel deserto, non Lui a chiamarli.

Capire la condizione di Gesù uomo è basilare non solo perché il suo essere tale è uno dei cardini della fede cristiana, ma piuttosto per avere un quadro del suo essere, di cosa provasse. E L’Antico Testamento, che contiene una quantità immensa di contenuti che trovano la loro rivelazione perfetta nel Nuovo, ci aiuta con due personaggi che si possono sotto certi aspetti collegare a Nostro Signore, cioè Mosè e il sommo sacerdote: il primo avrebbe dovuto condurre il popolo di Israele dall’Egitto alla terra promessa, ma purtroppo in quanto essere umano peccò e al suo posto fu Giosuè a portare a termine la sua opera. Si tratta di un avvenimento su cui occorre soffermarsi: in Numeri 27.12-14 leggiamo “12Il Signore disse a Mosè: «Sali su questo monte degli Abarìm e contempla la terra che io do agli Israeliti. 13Quando l’avrai vista, anche tu sarai riunito ai tuoi padri, come fu riunito Aronne tuo fratello, 14perché vi siete ribellati contro il mio ordine nel deserto di Sin, quando la comunità si ribellò, e non avete manifestato la mia santità agli occhi loro, a proposito di quelle acque». Sono le acque di Merìba di Kades, nel deserto di Sin”.

La lettura del passo di riferimento in Numeri 20.1-13, che narra della ribellione di Mosé, a prima vista passa sotto questo aspetto quasi inosservata; proviamo a leggerla: “1Ora tutta la comunità degli Israeliti arrivò al deserto di Sin il primo mese, e il popolo si fermò a Kades. Qui morì e fu sepolta Maria.2Mancava l’acqua per la comunità: ci fu un assembramento contro Mosè e contro Aronne. 3Il popolo ebbe una lite con Mosè, dicendo: «Magari fossimo morti quando morirono i nostri fratelli davanti al Signore! 4Perché avete condotto l’assemblea del Signore in questo deserto per far morire noi e il nostro bestiame? 5E perché ci avete fatto uscire dall’Egitto per condurci in questo luogo inospitale? Non è un luogo dove si possa seminare, non ci sono fichi, non vigne, non melograni, e non c’è acqua da bere».6Allora Mosè e Aronne si allontanarono dall’assemblea per recarsi all’ingresso della tenda del convegno; si prostrarono con la faccia a terra e la gloria del Signore apparve loro. 7Il Signore parlò a Mosè dicendo: 8«Prendi il bastone; tu e tuo fratello Aronne convocate la comunità e parlate alla roccia sotto i loro occhi, ed essa darà la sua acqua; tu farai uscire per loro l’acqua dalla roccia e darai da bere alla comunità e al loro bestiame». 9Mosè dunque prese il bastone che era davanti al Signore, come il Signore gli aveva ordinato. 10Mosè e Aronne radunarono l’assemblea davanti alla roccia e Mosè disse loro: «Ascoltate, o ribelli: vi faremo noi forse uscire acqua da questa roccia?». 11Mosè alzò la mano, percosse la roccia con il bastone due volte e ne uscì acqua in abbondanza; ne bevvero la comunità e il bestiame.12Ma il Signore disse a Mosè e ad Aronne: «Poiché non avete creduto in me, in modo che manifestassi la mia santità agli occhi degli Israeliti, voi non introdurrete quest’assemblea nella terra che io le do». 13Queste sono le acque di Merìba, dove gli Israeliti litigarono con il Signore e dove egli si dimostrò santo in mezzo a loro”.

Ecco, qui vediamo da un lato che la nostra mente umana non trova elementi per rimproverare qualcosa a Mosè, ma dall’altro che lui aggiunge delle parole che Dio non gli aveva ordinato di pronunciare (il rimprovero agli israeliti) e che usa il bastone percuotendo la roccia per due volte quando gli era stato detto di limitarsi a portarlo con sé. Questo bastò perché il Signore intervenisse prima con parole di rimprovero e poi con un intervento di esclusione. Al di là di tutte le applicazioni possibili su questi passi, per la natura di questo studio l’unica riflessione che mi sento di fare è che nessun uomo può essere un conduttore perfetto verso Dio, così come nessun uomo può essere un mediatore adeguato tra il suo simile e Lui. Mosè era stato scelto da YHWH, è considerato il legislatore nella storia del popolo eletto e già allora, velatamente, era possibile prendere atto di come che la Legge non aveva il potere di redimere, ma solo quello di dare il senso della enorme distanza che intercorreva tra Dio e gli uomini, una Legge che sappiamo fu definita dall’apostolo Paolo “Ombra dei futuri beni, non la forma reale stessa delle cose” (Ebrei 10.1). A Mosè non fu consentito di portare il popolo nella terra promessa, ma fu anche l’uomo che ebbe l’onore di essere sepolto da Dio stesso sul monte Nebo dopo avere visto il territorio in cui Israele sarebbe entrato. Elia ed Enoch furono da Lui rapiti in cielo, Mosé fu da lui sepolto. Noto adesso come, del tutto involontariamente, io continui a porre sempre due casi, due esempi, due che nella Bibbia è sia numero di contrapposizione che di collaborazione al tempo stesso.

C’è poi la figura del sommo sacerdote, che aveva una funzione del tutto particolare che gli altri, i semplici sacerdoti, non avevano. Era l’unico abilitato a entrare nel “Santo dei Santi”, la camera più interna del Tempio di Gerusalemme e poteva farlo una volta all’anno nella festa dello Yom Kippur, il giorno dell’espiazione, in cui offriva un sacrificio di espiazione per i peccati di tutto il popolo. Eppure anche lui aveva un limite: era un uomo come gli altri, come i suoi simili peccava, non poteva avere la dimensione del compatimento per le debolezze altrui perché preso a pensare alle proprie, era in una parola imperfetto nonostante l’assenza di difetti fisici che lo avrebbero reso incompatibile con la sua funzione. Ecco perché in Ebrei 4.14-16 sono spiegate le differenze tra il sommo sacerdote secondo la carne e Gesù stesso: “Dunque, poiché abbiamo un sommo sacerdote grande che è passato attraverso i cieli – con la sua ascensione – Gesù il Figlio di Dio, manteniamo ferma la nostra professione di fede. Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato. Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno”.

Ma l’apostolo Paolo, probabile autore di questa lettera, fariseo autorevole formatosi alla scuola rabbinica più autorevole del tempo, non si ferma qui, ma spiega l’umanità di Gesù mettendola in relazione all’espiazione dei peccati: “…perciò doveva rendersi in tutto simile ai fratelli per diventare un sommo sacerdote misericordioso e degno di fede nelle cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo. Infatti, proprio per essere stato messo alla prova e avere sofferto personalmente, egli è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova” (Ebrei 2.17-18). Se il sommo sacerdote dell’antico patto offriva sacrifici anche per se stesso, Gesù offrì se stesso come sacrificio nonostante la sua perfezione. Se e quando il credente soffre per le prove che la vita inevitabilmente gli riserva, sa che prima di lui Gesù ha sofferto e non lo ha dimenticato. “È in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova”.

E per rendere ancora più chiara la funzione di Nostro Signore sotto questo aspetto, Paolo attinge ancora dalla memoria dell’Antico Patto specificando che “Cristo è venuto come sommo sacerdote dei beni futuri, attraverso una tenda più grande e più perfetta – che va oltre quindi al luogo santissimo – non costruita da mano d’uomo, cioè non appartenente a questa creazione. Egli entrò una volta per sempre nel santuario non mediante il sangue di capri e di vitelli, ma in virtù del proprio sangue, ottenendo così una redenzione eterna” (Ebrei 9.11,12).

Ecco, con questi versi che abbiamo citato ed esaminato brevemente, abbiamo un’idea dei motivi per cui Gesù pregasse, essendo necessaria una costante, continua comunione col Padre dal quale si era separato per poter condurre a termine la missione che aveva scelto di intraprendere. Solo attraverso la preghiera, con la quale confessava il bisogno che aveva dell’assistenza del Padre, poteva essere in grado di affrontare il compimento della Legge che gli era richiesto. “Non sono venuto per abolire la legge, ma per adempierla”. Lui, come Parola ab eterno, non ne aveva nessun bisogno, noi sì. Amen.

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3.05 – IL LEBBROSO GUARITO (Matteo 8.1-4 e riferimenti)

3.05 – Il lebbroso guarito (Matteo 8.1-4, Marco 1.40-45, Luca 5.12-15)

 

Dalla chiamata di Simone, Andrea, Giacomo e Giovanni, per un certo tempo, stabilire una cronologia di avvenimenti diventa praticamente impossibile ed è probabile che i sinottici mettano i miracoli che Gesù fece in Galilea senza preoccuparsi di indicarne la reale successione stante il fatto che i loro Vangeli sono un libro di testimonianza e non si preoccupano della successione temporale. Se gli Autori avessero dovuto e/o voluto scrivere un trattato storico, si sarebbero comportati diversamente ma, stante il profondo significato che rivestono i miracoli, ce ne presentano alcuni fra quelli compiuti in Galilea. In particolare la guarigione del lebbroso, il primo a venire narrato da Marco e Luca dopo la chiamata dei quattro, avvenne forse dopo il sermone di Gesù detto “della montagna”, stante la precisione con la quale Matteo lo colloca. Leggiamo infatti al suo capitolo ottavo:

1 Scese dal monte e molta folla lo seguì. 2Ed ecco, si avvicinò un lebbroso, si prostrò davanti a lui e disse: «Signore, se vuoi, puoi purificarmi». 3Tese la mano e lo toccò dicendo: «Lo voglio: sii purificato!». E subito la sua lebbra fu guarita. 4Poi Gesù gli disse: «Guàrdati bene dal dirlo a qualcuno; va’ invece a mostrarti al sacerdote e presenta l’offerta prescritta da Mosè come testimonianza per loro»” (Matteo 8.1-4)”.

Leggiamo Marco, che fornisce qualche particolare in più, con Luca che concorda interamente con lui:

“40Venne da lui un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi purificarmi!». 41Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, sii purificato!». 42E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato. 43E, ammonendolo severamente, lo cacciò via subito 44e gli disse: «Guarda di non dire niente a nessuno; va’, invece, a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto, come testimonianza per loro». 45Ma quello si allontanò e si mise a proclamare e a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti; e venivano a lui da ogni parte”. “ (1.40-45)

Prima di analizzare l’episodio, occorre dare delle indicazioni sulla lebbra, malattia terribile che, nella Bibbia, non indica necessariamente quella oggi conosciuta dalla medicina, ma anche altre irritazioni patologiche infettive della pelle. Alcune traduzioni antiche infatti la chiamano vitiligine (che però non è infettiva e non corrisponde alle caratteristiche riportate nel levitico), Tacito ne parla come “consunzione che contamina i corpi”, altri la paragonano alla tigna. In realtà, nei testi riguardo alla lebbra, è fuor di dubbio che la si citi nelle sue due forme, a macchie o a noduli. C’è anche, come abbiamo fatto per la febbre, da stabilire un preciso distinguo sul significato che aveva per Israele e per gli altri popoli perché, come abbiamo ricordato in un altro episodio, se la malattia per i pagani altro non era che la conseguenza del peccato in Adamo, quindi facente parte degli eventi che rientravano nella esclusione da Eden in cui non esisteva, per Israele era un evento che avrebbe potuto essere evitato con l’osservanza della Legge e dei suoi comandamenti secondo il capitolo 28 del Deuteronomio.

La lebbra così come è stata e viene studiata, quella che flagellò l’Europa medievale, si distingue in tubercoloide o lepromatosa: nel primo caso si presenta con alcune macule o placche ipopigmentate o eritematose, a volte con lesioni papulose raggruppate. Alcune possono diventare ipoanestetiche. La terminazione nervosa appare edematosa e ispessita, con possibile danno neurologico attorno ad esse. La seconda è invece molto più invalidante: dal naso chiuso con epistassi si passa a macchie ipocromiche seguite da lesioni di ogni tipo sui tessuti molli: pustole, noduli, placche, la pelle del volto si ispessisce con lesioni che poi portano alla deformazione o distruzione della cartilagine, del setto e delle ossa nasali. Si modificano le ossa, la pelle delle gambe si ispessisce e viene interessata da ulcere che causano deformazioni, infezioni, necrosi e non di rado si rendono necessarie le amputazioni delle estremità.

Vediamo come è descritta nell’Antico Testamento. Il capitolo 13 del libro del Levitico dà istruzioni minuziose al sacerdote per distinguerla ed in Deuteronomio 24.8, per evitare contagi, leggiamo “In caso di lebbra, bada bene ad osservare diligentemente e fare quanto i sacerdoti leviti vi insegneranno”: spettava infatti solo al sacerdote fare la diagnosi e dichiarare il lebbroso guarito o meno.

Il lebbroso perdeva qualunque tipo di ruolo e di contatto con la società, come fu nel caso del re Ozia, detto anche Azaria, punito con quella malattia perché voleva offrire l’incenso sull’altare al posto dei sacerdoti consacrati a quel compito: “18Questi si opposero al re Ozia, dicendogli: «Non tocca a te, Ozia, offrire l’incenso al Signore, ma ai sacerdoti figli di Aronne, che sono stati consacrati per offrire l’incenso. Esci dal santuario, perché hai prevaricato. Non hai diritto alla gloria che viene dal Signore Dio». 19Ozia, che teneva in mano il braciere per offrire l’incenso, si adirò. Mentre sfogava la sua collera contro i sacerdoti, gli spuntò la lebbra sulla fronte davanti ai sacerdoti nel tempio del Signore, presso l’altare dell’incenso. 20Azaria, sommo sacerdote, e tutti i sacerdoti si voltarono verso di lui, che apparve con la lebbra sulla fronte. Lo fecero uscire in fretta di là; anch’egli si precipitò per uscire, poiché il Signore l’aveva colpito. 21Il re Ozia rimase lebbroso fino al giorno della sua morte. Egli abitò in una casa d’isolamento, come lebbroso, escluso dal tempio del Signore. Suo figlio Iotam era a capo della reggia e governava il popolo della terra.22Le altre gesta di Ozia, dalle prime alle ultime, le ha descritte il profeta Isaia, figlio di Amoz. 23Ozia si addormentò con i suoi padri e lo seppellirono con i suoi padri nel campo presso le tombe dei re, perché si diceva: «È un lebbroso»” (2 Cronache 26.18-23).

Il caso di Azaria è anche raccontato così: “2Quando divenne re aveva sedici anni; regnò a Gerusalemme cinquantadue anni. Sua madre era di Gerusalemme e si chiamava Iecolia. 3Egli fece ciò che è retto agli occhi del Signore, come aveva fatto Amasia, suo padre. 4Ma non scomparvero le alture. Il popolo ancora sacrificava e offriva incenso sulle alture. 5Il Signore colpì il re, che divenne lebbroso fino al giorno della sua morte e abitò in una casa d’isolamento” (2 Re 15.2-5).

Lo stato psicologico dei lebbrosi è descritto in 2 Re 7.3-4, erano persone che non avevano nulla da perdere perché nulla possedevano, neppure la loro vita: “3Ora c’erano quattro lebbrosi sulla soglia della porta. Essi dicevano fra di loro: «Perché stiamo seduti qui ad aspettare la morte? 4Se decidiamo di andare in città, in città c’è la carestia e vi moriremo. Se stiamo qui, moriremo. Ora, su, passiamo all’accampamento degli Aramei: se ci lasceranno in vita, vivremo; se ci faranno morire, moriremo».

Possiamo anche ricordare in opposizione il generale siriano Naaman, lebbroso, che guarì dalla malattia dopo essersi bagnato sette volte nel giordano dietro ordine di Eliseo (2 Re 5.1-14).

Ai tempi di Gesù molti erano i lebbrosi e quando ciò capitava, ricordando la malattia che aveva colpito Maria, sorella di Mosé che lo aveva criticato, dicevano “Il dito di Dio ha colpito ancora”. Allo stesso modo la guarigione di un lebbroso era attribuita ad un intervento benevolo di Dio, ricordando proprio Naaman, oppure l’episodio di Mosé nel suo colloquio con YHWH, per quanto con significato diverso: “6Il Signore gli disse ancora: «Introduci la mano nel seno!». Egli si mise in seno la mano e poi la ritirò: ecco, la sua mano era diventata lebbrosa, bianca come la neve. 7Egli disse: «Rimetti la mano nel seno!». Rimise in seno la mano e la tirò fuori: ecco, era tornata come il resto della sua carne” (Esodo 4.6,7).

I lebbrosi vivevano lontani dal popolo, non potevano avere contatti con nessuno e sopravvivevano con cibo che persone caritatevoli lasciavano loro nei pressi delle loro dimore. Erano vestiti con un sacco o stracci, erano a volte dotati di un campanello che facevano suonare agitandolo o facendo rumore con altri oggetti e dovevano gridare, nel caso si avvicinassero altre persone, “L’immondo! L’immondo!”. Quando lungo il cammino incrociavano una o più persone, dovevano cedere loro il passo, velarsi le labbra e porsi sempre controvento senza mai parlare di fronte a una persona sana. La vita dei lebbrosi era di stenti anche morali, perdendo i loro affetti più cari, di emarginazione e sofferenze: non c’erano cure né gli antibiotici che hanno reso oggi la malattia curabile.

Ora, in questa città o villaggio innominato, un lebbroso arriva, la folla gli fa largo con un sentimento misto a repulsione e curiosità di vedere quale atteggiamento avrebbe tenuto il Maestro, che si trova di fronte a lui quest’uomo che gli si inginocchia davanti, poi gli si stende a terra davanti a lui (“si prostrò”) in segno di sottomissione e adorazione talché alcune traduzioni riportano “lo adorò” riassumendo i due atteggiamenti che assunse. Quel lebbroso non gli chiede di guarirlo come faranno altri supplicandolo, ma gli dice “Signore se tu vuoi, puoi guarirmi”, cioè si rimette alla sua volontà e soprattutto alla sua conoscenza dell’uomo perché un conto è chiedere di essere guariti anteponendo la propria persona, altro è rivolgersi lasciando libero chi può guarire dal farlo o meno. Quel “Signore” col quale si rivolge a Gesù denota la fede che aveva: non sapeva chi fosse, cioè non lo adora come Figlio di Dio come faranno i cristiani in seguito, ma sa che in Lui c’è la Sua potenza. È questo un passo molto delicato e importante, perché sono convinto che in quel “se vuoi” sia compreso il sapere, da parte di quell’uomo, che solo Gesù avrebbe potuto capirlo e valutare se meritasse o no la guarigione alla luce della fede che poneva in lui, che al pari di molti aveva sentito parlare dei miracoli e degli insegnamenti fatti nella regione.

Due quindi erano le convinzioni di quel lebbroso: la prima era che lui fosse qualcuno superiore a tutti, la seconda che avrebbe potuto guarirlo se solo avesse voluto, concetto che altri nel corso della narrazione evangelica esporranno dimostrando umiltà e fede. L’atteggiamento esterno del lebbroso fu assolutamente corrispondente a quello interno, perché altrimenti non sarebbe stato esaudito: non era Gesù ad avere bisogno di quel miracolo, ma quell’uomo che, con quella frase, non solo si pone in secondo piano rispetto a Lui, ma gli rimette ogni decisione conscio di una valutazione divina sull’operare o meno: “Se tu vuoi, puoi”, in altri termini “Io sono nulla per poterti suggerire come operare”. Possiamo dire che quelle parole fossero un modo, da parte del lebbroso, di riconoscersi peccatore. Quelli come lui, inoltre, erano soliti chiedere l’elemosina agli altri, cosa che nel nostro caso non avviene.

Abbiamo letto il risultato di quella preghiera così singolare: il lebbroso guarì, Gesù gli disse “Lo voglio, sii guarito” e tese la mano verso di lui e lo toccò, cosa permessa solo al sacerdote. Chiunque toccava un lebbroso diventava automaticamente impuro, ma Gesù aveva già dimostrato, e lo avrebbe fatto ancora, che “chiunque” proprio non era: se chi, deputato a decretare tanto la presenza della lebbra quanto la sua guarigione non si contaminava, a maggior ragione non poteva infettarsi Colui che la malattia era in grado di guarire. E questo implicava il perdono, la liberazione dal peccato che l’aveva provocata.

Gesù, a guarigione avvenuta, lo ammonisce di non dir niente a nessuno: perché? Non spettava agli uomini comuni ammettere che era avvenuta la guarigione, ma al sacerdote, che gli rilasciava un attestato grazie al quale l’ex lebbroso ricuperava la propria libertà sociale e i diritti che aveva perso. Chi vuole approfondire, può leggere il capitolo 14 del Levitico, che illustra nei dettagli i passi che venivano effettuati dal sacerdote e dal lebbroso per recuperare la propria dignità sociale.

Il sacerdote di quella cittadina in cui si era verificato il miracolo, non solo avrebbe attestato la guarigione di quella persona, ma avrebbe dovuto ammettere che questa era stata procurata da Gesù in persona e, per quel tipo di malattia, era cosa non certo da poco visto che una delle caratteristiche del Messia promesso sarebbe stata quella di guarire i lebbrosi.

Abbiamo già citato Giovanni Battista in prigione che, anche provato dai mesi di prigionia nella fortezza di Erode, gli mandò a chiedere se era Gesù quello che doveva venire oppure dovevano aspettarne un altro: la Sua risposta fu “Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, è annunciato il Vangelo” (Matteo 11.2.5).

L’ammonizione di Gesù a quel lebbroso, che secondo Marco fu particolarmente severa, è probabile che poggiasse le sue ragioni sul fatto che il beneficiario di quell’intervento avesse un carattere particolarmente impulsivo – espansivo: infatti non fece come gli era stato comandato, ma divulgò il fatto a tutti e poi andò dal sacerdote. Il risultato fu un colossale fraintendimento da parte del popolo, che lo prese come guaritore formidabile, cioè risolutore di problemi umanamente invalidanti, senza guardare al reale scopo della Sua presenza in mezzo a loro: portare una dottrina utile allo spirito, in poche parole la “buona notizia” dell’amore di Dio finalmente dato e dichiarato agli uomini, al suo popolo. Leggiamo che Gesù non poteva più entrare in nessuna città, che era costretto a stare in luoghi deserti, ma che anche lì era raggiunto da gente che veniva da ogni parte. Ne approfitterà per insegnare nel suo “sermone sul monte” che esamineremo al termine di questa rassegna di miracoli.

Luca, che fino ad ora non abbiamo mai citato, descrive Gesù con queste parole: “Di lui si parlava sempre di più, e folle numerose venivano per ascoltarlo e farsi guarire dalle loro malattie. Ma Egli si ritirava in luoghi deserti a pregare” (Luca 5.15,16).

Concludo queste riflessioni con una domanda importante alla quale ho cercato di dare una risposta: se è chiaro e vero che Israele – e solo lui – aveva nelle malattie e nelle infermità una prova della riprensione di Dio nei cuoi confronti, come deve interpretare il credente – e solo lui – quanto gli avviene ogni giorno, poiché è scritto che i capelli del suo capo sono tutti contati? Credo che, se sia azzardato sostenere nel nostro caso che la malattia sia il castigo per una disubbidienza, sia anche vero che solo il diretto interessato, che conosce la propria storia e il proprio eventuale peccato, sia in grado di dare una risposta a questa domanda perché generalizzare come purtroppo molti fanno sia un’azione che porti alla superstizione e alla (purtroppo giusta e inevitabile) derisione da parte di quanti non credono. Per noi una malattia può essere un modo che ha il Signore di provare la nostra fede, il nostro comportamento nell’avversità, può essere anche un modo per affinare la nostra sensibilità per farci progredire e imparare perché non può esistere maturazione senza dolore: ricordando le parole di Paolo in Romani 5.3-5 “…ci vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, 4la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. 5La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato”.

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3.03 – LA SUOCERA DI PIETRO E I MALATI (Luca 4.38-44)

3.03 – La suocera di Pietro e i malati (Luca 4.38-44)

 

38Uscito dalla sinagoga, entrò nella casa di Simone. La suocera di Simone era in preda a una grande febbre e lo pregarono per lei. 39Si chinò su di lei, comandò alla febbre e la febbre la lasciò. E subito si alzò in piedi e li serviva.40Al calar del sole, tutti quelli che avevano infermi affetti da varie malattie li condussero a lui. Ed egli, imponendo su ciascuno le mani, li guariva. 41Da molti uscivano anche demòni, gridando: «Tu sei il Figlio di Dio!». Ma egli li minacciava e non li lasciava parlare, perché sapevano che era lui il Cristo.42Sul far del giorno uscì e si recò in un luogo deserto. Ma le folle lo cercavano, lo raggiunsero e tentarono di trattenerlo perché non se ne andasse via. 43Egli però disse loro: «È necessario che io annunci la buona notizia del regno di Dio anche alle altre città; per questo sono stato mandato». 44E andava predicando nelle sinagoghe della Giudea”.

Nulla sappiamo, come in numerosi casi di guarigione, dell’uomo liberato dallo spirito impuro che abbiamo visto nella scorsa riflessione se non che era stato messo nella condizione di ricominciare tutto da capo dopo un’attenta revisione del suo comportamento. Ora Luca e non solo, nell’episodio precedente, avendoci informato che tutto avvenne di sabato, ci consente di sapere che la casa di Pietro e Andrea era nei pressi della Sinagoga, poiché in quel giorno non potevano essere percorsi più di 890 metri, distanza stabilita dai rabbini studiando il passo di Giosuè 3.4 in cui si parla dello spazio che doveva intercorrere tra l’Arca dell’Alleanza, portata dai sacerdoti e dai leviti, e il resto del popolo. Anche il primo verso del nostro testo, “Uscito dalla sinagoga, entrò nella casa di Simone”, lascia pensare ad un’azione quasi immediata.

Marco riferisce che “Usciti dalla sinagoga vennero, con Giacomo e Giovanni, in casa di Simone e Andrea. Ora la suocera di Simone giaceva in letto, con la febbre, ed essi subito gliene parlarono” (1.30). È quindi probabile che quella casa fosse di proprietà di entrambi i fratelli, poiché erano benestanti stante il guadagno ottenuto dalla loro professione di pescatori. Il lago di Galilea infatti non era povero di fauna ittica e i guadagni erano consistenti (pensiamo a Zebedeo, padre di Giacomo e Giovanni, che aveva una flotta di barche e dei dipendenti al suo servizio).

Della febbre abbiamo già parlato in occasione della guarigione del figlio del funzionario reale, ma qui possiamo notare il diverso approccio: Gesù si chinò su di lei, “comandò alla febbre” – Marco scrive “La fece alzare” – “…e la febbre la lasciò”. Il chinarsi implica piegarsi con la persona verso qualcuno, in questo caso per sollevarla: è un gesto di aiuto verso un essere umano in difficoltà, a letto. Implica l’avvicinarsi ed è segno di compassione che denota volontà di aiutare, in questo caso guarire. È la prima volta in cui troviamo scritto che Nostro Signore si china su qualcuno, lui che avrebbe potuto agire stando distante come già avvenuto. Lui Figlio e Dio stesso, che poteva rimanere nella gloria e nell’onore che aveva, Creatore e Signore del cielo e della terra, si occupa di un essere umano chinandosi. Non so se quella donna fosse più grave del figlio del funzionario reale che stava per morire –, ma era in condizioni prossime alle sue perché Luca ci parla di “grande febbre” secondo l’uso di classificarla in “grande” o “piccola” di allora, come testimonia Galeno, medico greco del primo secolo D.C. i cui punti di vista hanno dominato la medicina occidentale fino al Rinascimento; con quel gesto Gesù volle manifestare la sua identificazione con l’essere umano nella sua condizione di impotenza a vivere come vorrebbe, cioè senza incappare in malattie e tutto quanto lo rallenta nelle sue attività quotidiane. Ricordiamo che la febbre poteva anche essere preludio di malattie più importanti, se non saliva e raggiungeva livelli tali da causare la morte. Gesù si china su di lei, denotando interesse e compassione. È giusto ripeterlo perché a volte, soggetti come tutti gli esseri umani istintivamente a reagire con ansia e paura di fronte alla malattia, tendiamo a dimenticare questo atteggiamento del Salvatore chino sull’uomo dimostrando prima di tutto si comprendere e sapere la condizione in cui la persona può venirsi a trovare.

Gesù opera non di sua iniziativa, ma perché i discepoli “lo pregarono per lei” diventando così un esempio anche per i cristiani, chiamati a pregare gli uni per gli altri e non solo per loro stessi. Troppe volte si tende a porre davanti a Lui i nostri problemi contingenti, si prega magari perché si hanno dei dolori fisici e non si fa caso alle sofferenze fisiche e morali del nostro prossimo, che crede come noi e forse non importuna Dio presentando i suoi problemi di salute perché ne ha di più importanti. I discepoli “Lo pregarono” perché sapevano che il suo intervento poteva essere risolutore. Gesù quindi operò come scrisse Isaia 750 anni prima della Sua venuta nel mondo in 53.4 quando scrisse “…eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori”.

Leggiamo che “comandò alla febbre”, altri traducono “sgridò la febbre”: non sappiamo quali parole usò, fatto sta che il Suo fu un comando pronunciato a voce alta e quella donna guarì istantaneamente: leggiamo “subito si alzò in piedi e li serviva”. La risposta a quella preghiera fu rapida, ma soprattutto inequivocabile come lo è qualsiasi intervento di Dio nei confronti nostri e di altri.

Per estensione, se la febbre naturale blocca le attività ordinarie dell’uomo, quella spirituale fa altrettanto e in un ambito più importante. Si contrae per ignoranza, per negligenza, trascuratezza, perché siamo esseri umani, di carne e può capitare che non sempre, per molte ragioni, siamo in grado di porre su noi stessi la vigilanza che dovremmo. Di qui l’importante contenuto della preghiera del “Padre Nostro” “non esporci alla tentazione”, traduzione più corretta rispetto a quella più usata, “non indurci”. Come cristiani, dovremmo avere il coraggio di riconoscere la nostra febbre, possibilmente quanto inizia appena ad insorgere, e chiedere a Dio l’aiuto per uscirne.

 

Ora la notizia di quella guarigione trapelò all’esterno e andò ad aggiungersi a quella della liberazione dell’indemoniato nella sinagoga fatta poco prima: era sabato, era proibito svolgere qualsiasi attività e per questo la gente attese, prima di portargli i malati nel prosieguo del racconto, che arrivasse il tramonto, cioè quando il giorno si concludeva e non si era più sotto il vincolo del quarto comandamento che è opportuno citare: “Ricordati del giorno di sabato per santificarlo. Sei giorni lavorerai e farai ogni tuo lavoro, ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: non farai alcun lavoro, né tu né tuo figlio né tua figlia, né il tuo schiavo o la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te” (Esodo 20.9,10). Ancora, Geremia 17.21,22 riporta “Così dice il Signore: per amor della vostra stessa vita, guardatevi dal trasportare un peso in giorno di sabato e di introdurlo per le porte di Gerusalemme. Non portate alcun peso fuori dalle vostre case in giorno di sabato e non fate alcun lavoro, ma santificate il giorno di sabato, come io ho comandato ai vostri padri”.

Rileggiamo ora i versi di Luca: “Al calar del sole, tutti quelli che avevano infermi affetti da varie malattie li condussero a lui. Ed egli, imponendo su ciascuno le mani, li guariva. Da molti uscivano anche demoni, gridando “Tu sei il Figlio di Dio!”. Ma egli li minacciava e non li lasciava parlare, perché sapevano che era lui il Cristo”. Marco completa l’episodio: “Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demoni, ma non permetteva ai demoni di parlare, perché lo conoscevano” (1.32-33).

Credo sia importante porre la nostra attenzione su due elementi, cioè la differenza intercorrente fra il “tutta la città”, o i “tutti” e i “molti”, che non indicano la stessa cosa. Si radunò davanti alla porta della casa di Simone una quantità impressionante di gente a tal punto che si può dire che tutta la città di Capernaum era presente, malati e indemoniati compresi portati là dai parenti. Però non tutti quelli portati a Gesù guarirono, poiché Marco scrive “Guarì molti”, cioè non adottò un comportamento universale, ma selettivo proprio perché altrove abbiamo letto che “conosceva quel che c’è nell’uomo”. Ecco allora che Nostro Signore guarì coloro che erano vittime e non protagoniste della loro condizione di peccato. La guarigione di un peccatore infatti ha senso solo se questi è disposto a ravvedersi e non per comportarsi come se nulla fosse una volta guarito perché tornerebbe nella sua condizione di prima, se non peggiore. Anche oggi credo che il Signore sappia fare distinzioni tra chi è protagonista o vittima di un peccato, quindi di se stesso nel profondo a livello di volontà, e che agisca di conseguenza. La Sua lettura dei cuori infatti è la capacità di valutare, più che i pensieri presenti in esso, ciò che è nell’anima e lo spirito che muove la persona, vale a dire il suo passato e il suo presente. E sì, anche il futuro che ne è spesso la conseguenza.

Poi ci sono gli indemoniati, persone che si manifestavano con i loro disturbi apertamente, a differenza dell’anonimo che abbiamo visto nella Sinagoga. Qui direi che è obbligatoria una domanda: si può escludere che Marco e Luca abbiano fatto rientrare nella categoria degli indemoniati anche delle persone disturbate mentalmente? Non a priori poiché il campo delle scienze che si occupano della mente è oggi molto vasto e una gran quantità degli interrogativi di allora hanno trovato una spiegazione nelle neuroscienze e nella psichiatria, per quanto non tutte. Piuttosto, l’indemoniato va raccordato al contesto storico di allora, in cui la lontananza da Dio del popolo di Israele aveva causato loro gravi danni: ricordiamo che non avevano profeti da 350 anni, che la presenza stessa dei malati, dei paralitici, ciechi e altre categorie a vasto raggio erano i sintomi di un allontanamento da quel Dio che aveva promesso, in caso di fedeltà ai suoi comandamenti, l’assenza di quelle che chiamiamo “sventure” e di qualsiasi tipo di malattie. Nell’Antico Patto, una malattia in Israele era sempre il risultato di un peccato, mentre per gli altri popoli era piuttosto la conseguenza della loro condizione ereditata da Adamo, vale a dire un corpo soggetto ad ammalarsi, logorarsi e infine morire. La presenza degli indemoniati tra il popolo testimoniava, in fin dei conti, quanto fosse lontana la loro mente dall’attesa del Cristo promesso.

Oggi Satana agisce in coloro che glielo consentono e ne fa dei suoi strumenti come fu il caso di Giuda Iscariotha di cui a un certo punto, nell’ultima cena di Gesù con gli apostoli, è scritto: “E intinto il boccone, lo prese e lo diede a Giuda Iscariotha, figlio di Simone. E allora, dopo quel boccone, Satana entrò in lui” (Giovanni 26,27). Ciò va detto per non incorrere nell’errore di alcune Chiese i cui componenti tendono a vedere l’opera del demonio ovunque, anche nelle persone depresse dimenticando che la mente, al pari del corpo, può sempre ammalarsi e va curata.

Credo che ogni cristiano debba piuttosto meditare quanto scrive Giovanni nella sua prima lettera: “Questo è il messaggio che abbiamo udito da lui e che noi vi annunciamo: Dio è luce e non vi è in lui tenebra alcuna. Se diciamo di essere in comunione con lui e camminiamo nelle tenebre, siamo bugiardi e non mettiamo in pratica la verità. Ma se camminiamo nella luce, come egli è nella luce, siamo in comunione gli uni con gli altri e il sangue di Gesù, il Figlio suo, ci purifica da ogni peccato. Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se confessiamo i nostri peccati, egli è fedele e giusto tanto da perdonarci i peccati e purificarci da ogni iniquità. Se diciamo di non avere peccato, facciamo di lui un bugiardo e la sua parola non è in noi” (1 Giovanni 5,10).

Tornando all’ultimo verso del nostro secondo episodio, leggiamo che i demoni lo qualificavano come Figlio di Dio, ma che Gesù non li lasciava parlare: erano testimoni di cui non aveva bisogno, inopportuni, che non avevano alcun diritto di qualificarlo in quel modo per quanto corrispondesse a verità. “Tu sei il Cristo, il Figlio dell’Iddio vivente”, come gli disse Pietro, è una frase che compete alla persona che Lo riconosce come Unico riferimento per la propria salvezza eterna.

 

Il terzo momento descritto da Luca ci conferma le due nature di Gesù, che dopo i tre episodi, cioè la guarigione dell’indemoniato, della suocera di Pietro e dei molti indemoniati, si alzò presto per pregare, cioè chiedere al Padre l’assistenza di cui aveva bisogno come uomo; ricordiamo le parole “Il mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha mandato”, quel cibo che i suoi discepoli non conoscevano. Gli abitanti di Capernaum non potevano certo dimenticare le guarigioni del giorno precedente e si misero a cercarlo. I primi a fare questo furono i discepoli, poi seguiti dagli altri. Infatti Marco scrive “E Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce. Lo trovarono e gli dissero «Tutti ti cercano»” (1.36,37): erano legati al fatto che dovesse restare lì, che avesse ancora molto da fare. Quelli di Capernaum però erano animati da un sentimento egoistico, come scrive Luca, perché “cercavano di trattenerlo perché non se ne andasse via” nel senso che volevano avere a loro disposizione quel Maestro così diverso dagli altri: prima doveva guarire le loro malattie e poi gli insegnare la Scrittura nella Sinagoga. Doveva essere motivo di vanto per Capernaum, città sulla quale poi pronuncerà una maledizione. Fu il loro un comportamento diverso da quello dei samaritani che abbiamo letto da poco, in cui Giovanni non riferisce di miracoli fatti in mezzo a loro, anche se non possiamo escludere che non siano avvenuti. I samaritani accolsero Gesù “con gioia”, a Capernaum inizia la volontà, non molto velata, di farne un condottiero politico o uno strumento di richiamo per la città al punto che più avanti, quando si recherà a Nazarth, i suoi concittadini pretendevano che facesse presso di loro gli stessi miracoli che aveva fatto là.

Su Capernaum Gesù formulerà un giudizio importante: “…e tu, Capernaum, sarai forse innalzata fino al cielo? Precipiterai fino agli inferi! Perché, se a Sodoma fossero avvenuti i prodigi che sono stati in mezzo a te, oggi essa esisterebbe ancora! Ebbene io vi dico, nel giorno del giudizio la terra di Sodoma sarà trattata meno duramente di te” (Matteo 11.22-24).

Gesù però non poteva accettare i sentimenti che animavano i suoi nuovi concittadini e, come lui stesso dice, la sua predicazione non poteva essere contenuta in un perimetro limitato, ma avrebbe dovuto essere per tutto il popolo di Israele: “È necessario che io annunci la buona notizia del regno anche alle altre città; per questo sono stato mandato”. Quindi, Luca dà un accenno su un periodo ulteriore: “E andava predicando nelle sinagoghe della Giudea”, che altre versioni indicano più correttamente nella Galilea dove si trovava. Un cammino che diversi commentatori hanno ritenuto abbia compiuto da solo.

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