11.01 – LA TRADIZIONE DEGLI ANTICHI (Marco 7.1-6)

11.01 – La tradizione degli antichi (Marco 7.1-6)

 

1 Si riunirono attorno a lui i farisei e alcuni degli scribi, venuti da Gerusalemme. 2Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate 3– i farisei infatti e tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavati accuratamente le mani, attenendosi alla tradizione degli antichi 4e, tornando dal mercato, non mangiano senza aver fatto le abluzioni, e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, di stoviglie, di oggetti di rame e di letti -, 5quei farisei e scribi lo interrogarono: «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?».
6Ed egli rispose loro: «Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto: Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. 7Invano mi rendono culto,
insegnando dottrine che sono precetti di uomini.
8Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini»”.

 

È già stato ricordato il verso di Giovanni 7.1, “Dopo questi fatti, Gesù se ne andava per la Galilea; infatti non voleva più percorrere la Giudea, perché i Giudei cercavano di ucciderlo”, che possiamo senz’altro raccordare anche a quanto avvenuto a Gerusalemme con la guarigione dell’infermo a Betesda e alla discussione a lei seguita. È opinione generalmente condivisa che Nostro Signore, dopo quell’episodio, fosse tornato a Capernaum e  lì lo abbiano raggiunto “farisei e alcuni degli scribi, venuti da Gerusalemme”. Qui occorre domandarsi quali fossero le loro reali intenzioni: quando infatti leggiamo “cercavano di ucciderlo” non dobbiamo pensare a un progetto di eliminarlo tramite assassini prezzolati o alla messa in atto di uno stratagemma simile a quello ordito da Erode Antipa e i suoi complici, per Giovanni Battista, ma ad una decisione del Sinedrio che aveva stabilito che occorreva raccogliere il maggior numero possibile di elementi a carico Suo per poterlo accusare e condannare legalmente a morte. È anche probabile che quanto esposto da Gesù predicando o rispondendo alle domande di quegli inviati, “venuti da Gerusalemme”, finisse poi in rapporti accurati, stante la quantità di elementi che potevano raccogliere. Da qui in poi non si tratta più di dispute con i Dottori della Legge del posto, ma con i rappresentanti del potere politico-religioso.

Ora il nostro testo ci mostra chiaramente su cosa si basò la domanda degli inquirenti gerosolimitani, che avevano notato che “alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate”, in oltraggio alla “tradizione degli antichi” che si basava, essenzialmente, su quanto contenuto nella Misnah e nel Talmud, suddivisi al loro interno in sei argomenti principali (semenza, stagioni, donne, danni, cose sante e cose impure).  Vediamo brevemente i passi della Scrittura dalla quale partiva la “tradizione degli antichi”:

 

  1. I recipienti: “Fra gli animali che strisciano per terra riterrete impuro: la talpa, il topo e ogni specie di sauri, il toporagno, la lucertola, il geco, il ramarro, il camaleonte. Questi animali, fra quanti strisciano, saranno impuri per voi; chiunque li toccherà morti, sarà impuro fino alla sera. Ogni oggetto sul quale cadrà morto qualcuno di essi, sarà impuro: si tratti di un utensile di legno oppure di veste o pelle o sacco o qualunque atro oggetto di cui si faccia uso; si immergerà nell’acqua e sarà impuro fino a sera, poi sarà puro. Se ne cade qualcuno in un vaso di terra, quanto vi si troverà dentro sarà impuro e spezzerete il vaso. Ogni cibo che serve di nutrimento, sul quale cada quell’acqua, sarà impuro; ogni bevanda potabile, qualunque sia il vaso che la contiene, sarà impura. Ogni oggetto sul quale cadrà qualche parte del loro cadavere, sarà impuro; il forno o il fornello sarà spezzato: sono impuri e li dovete ritenere tali”. (Levitico 11.29-35);
  2. I cadaveri: “Chi avrà toccato il cadavere di qualsiasi persona, sarà impuro per sette giorni. Quando qualcuno si sarà purificato con quell’acqua – di purificazione – il terzo e il settimo giorno, sarà puro; ma se non si purifica il terzo e il settimo giorno, non sarà puro. Chiunque avrà toccato il cadavere di una persona che è morta e non si sarà purificato, avrà contaminato la Dimora del Signore e sarà eliminato da Israele. Siccome ‘acqua di purificazione non è stata spruzzata su di lui, egli è impuro; ha ancora addosso l’impurità”. (Numeri 19.11-13);
  3. La lebbra: Tutte le norme sulla lebbra sospetta o accertata dal sacerdote descritte nel capitolo 13 del libro del Levitico;
  4. Il corpo: “Chiunque sarà toccato da colui che ha la gonorrea, se questi non si era lavato le mani, dovrà lavarsi le vesti, bagnarsi nell’acqua e resterà impuro fino alla sera. Il recipiente di terracotta toccato da colui che soffre di gonorrea sarà spezzato, ogni vaso di legno sarà lavato nell’acqua” (Levitivo 15.11);
  5. I fluidi: Prescrizioni relative alla gonorrea, al liquido seminale, il flusso mestruale (Levitico 15)
  6. Le malattie: (ibidem).

 

Il problema per chi legge la Bibbia, tornando al nostro tema, è che non si trovano regole per lavarsi le mani. A questo aveva sopperito la Torah orale, come leggiamo nel Talmud, parola che significa “insegnamento”: “il Santo, che benedetto sia, dette a Israel due Toroth, quella scritta e quella orale. Gli dette la Torah scritta per provvederlo di comandamenti per cui potesse acquistare merito. Gli diede la Torah orale per mezzo della quale potesse distinguersi dalle altre nazioni. Questa non venne data per iscritto, affinché i cristiani non potessero fabbricarsela come fecero con la Toarh scritta, e di essere Israel” (Num. R. 14.10). Il rituale per lavarsi le mani era minuzioso: stabiliva quanta acqua utilizzare (86 cl) che non doveva essere impiegata per altri scopi, doveva essere versata dalla stessa persona, sulle dita non dovevano essere presenti anelli o oggetti vari, l’acqua doveva bagnare anche i gomiti e l’anfora che conteneva l’acqua doveva avere due manici al fine di lavarsi una mano senza che quella non “pura” ne toccasse uno contaminato dall’altra, impura. Mentre si faceva questo, occorreva pronunciare le parole “Benedetto colui che ci ha santificato con i suoi precetti e ci ha comandato l’abluzione delle mani”. Si può aggiungere che, per i Giudei, “la persona che disprezza il lavarsi le mani prima del pasto, dev’essere scomunicata” e la violazione di questo precetto era, come gravità, paragonato alla fornicazione con una prostituta (Rabbi Jose).

 

Notiamo allora la domanda che fu posta a Gesù, “Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi?”: non chiamano in causa un passo profetico o una prescrizione della Legge di Mosè, ma la loro tradizione che, se ci pensiamo, infrangeva lei stessa un comandamento preciso che troviamo in Deuteronomio 4.2 “Non aggiungerete nulla a ciò che io vi comando e non ne toglierete nulla, ma osserverete i comandamenti del Signore vostro Dio, che io vi prescrivo”. C’è poi tutta una serie di passi in cui il principio del non aggiungere viene ampliato, ad esempio in Proverbi 30.5-6 “La parola di Dio è affinata col fuoco. Egli è uno scudo per chi si confida in lui. Non aggiungere nulla alle sue parole, perché egli non ti rimproveri e tu sia trovato bugiardo”. Molti sottovalutano la gravità che contempla il termine, riferito all’opera dell’Avversario, “bugiardo e padre della menzogna” (Giovanni 8.44). “Bugiardo” ha come sinonimi “falso, ingannevole” e si raccorda, restando nei Proverbi, a 11.22 “Le labbra bugiarde sono un obbrobrio per il Signore: egli si compiace di chiunque fa la verità”. Labbra connesse alla mente che ordina loro cosa dire, ma che comunque esprimono “ciò che sovrabbonda nel cuore”.

A questo punto, per quanto nella prossima riflessione dovremo tener presente anche la narrazione di Matteo, Gesù cita un verso che conosciamo, di Isaia 29.13: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi rendono il culto, insegnando dottrine che son precetti d’uomini”. Il testo, che Gesù riassume sapendo di venir compreso comunque, recita: “«Poiché questo popolo si avvicina a me solo con la bocca e mi onora con le sue labbra, mentre il suo cuore è lontano da me e la venerazione che ha verso di me è un imparaticcio di precetti umani, perciò, eccomi, continuerò a operare meraviglie e prodigi con questo popolo, perirà la sapienza dei suoi sapienti e si eclisserà l’intelligenza dei suoi intelligenti. Guai a coloro che vogliono sottrarsi alla vista del Signore per dissimulare i loro piani, a coloro che agiscono nelle tenebre dicendo: «Chi ci vede? Chi ci conosce?»” (29.13-15).

Quindi abbiamo un popolo che si accosta “solo con la bocca” cioè solamente per  parlare, e “mi onora con le sue labbra”, evidentemente bugiarde nel profondo, nell’essenza, quasi che con Dio si possa barare. In realtà si inganna se stessi. Ancora una volta abbiamo la religione, appagante il sentimentalismo superficiale e lontano dalle esigenze del vero Dio a tal punto da impedirgli di agire per l’individuo che così si comporta. Il problema è notevole, perché a un’azione teoricamente positiva, quella di accostarsi a Lui, ne seguono due negative a lei strettamente connesse e, ancora una volta, è il mentire la radice del problema: sperando di ingannare Dio, si fa così con se stessi perché “il cuore è lontano”, cioè si trova a grande distanza, è separato da un lungo intervallo nello spazio. “Lontano da Dio” stabilisce la posizione di chi si comporta in quel modo, dovuta a un inquinamento volontario di pensiero, di voler stabilire di propria iniziativa come rivolgersi a Lui. Non voglio ripetere i concetti già espressi sulla religione, ma qui il dettaglio di Isaia è importante: “La venerazione che ha verso di me è un imparaticcio di precetti umani”, cioè qui è l’uomo che si crea un Dio su misura che tiene alla larga quello vero. Ai Colossesi viene scritto “…son tutte cose destinate a scomparire con l’uso, prescrizioni e insegnamenti di uomini, che hanno una parvenza di sapienza con la loro falsa religiosità e umiltà e mortificazione del corpo, ma in realtà non hanno alcun valore se non quello di soddisfare la carne” (2. 22,23).

Sta allora all’intelligenza umana, illuminata dallo Spirito, chiedersi se si è veramente alla ricerca di Dio, o lo si abbia trovato davvero, oppure se la professione di “fede” non sia altro che l’aderenza a un sistema umano travestito che non vada oltre alle realtà descritte dall’Apostolo Paolo nella sua lettera ai Colossesi. E questa è una nota per tutti a prescindere dalla denominazione cristiana alla quale si appartiene, perché il rischio di stabilire un rito o un sistema che prima intraveda l’apparenza e poi la cristallizzi c’è sempre. Ci si riunisce perché si ama il Signore e lo si vuole in mezzo a noi, non perché “si deve fare e si è sempre fatto”.

Nel passo di Isaia è però bello considerare che, nonostante questi aspetti così negativi e penalizzanti, Iddio non lascia solo il suo popolo e interverrà, al futuro per i tempi di questo profeta, ma al presente per quelli di Gesù e per noi, per far “perire la sapienza” (presunta) e ad “eclissare l’intelligenza dei sapienti”. E nei piani di quelli che “agiscono nelle tenebre dicendo: «Chi ci vede? Chi ci conosce?»” è facile distinguere proprio quei “venuti da Gerusalemme” che qui parlano con Figlio di Dio con la speranza di poterlo accusare.

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10.20 – VI CONOSCO (Giovanni 5.41-47)

10.20 – Vi conosco (Giovanni 5.41-47)

 

41Io non ricevo gloria dagli uomini. 42Ma vi conosco: non avete in voi l’amore di Dio. 43Io sono venuto nel nome del Padre mio e voi non mi accogliete; se un altro venisse nel proprio nome, lo accogliereste. 44E come potete credere, voi che ricevete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dall’unico Dio? 45Non crediate che sarò io ad accusarvi davanti al Padre; vi è già chi vi accusa: Mosè, nel quale riponete la vostra speranza. 46Se infatti credeste a Mosè, credereste anche a me; perché egli ha scritto di me. 47Ma se non credete ai suoi scritti, come potrete credere alle mie parole?».

 

L’ultima parte del discorso di Gesù ai Giudei inizia con un’affermazione categorica, “io non ricevo gloria dagli uomini” nel senso che rifiutava quel riconoscimento carnale che più volte proprio loro avevano voluto dargli col volerlo fare re. Paolo, scrivendo ai Tessalonicesi, afferma nella sua seconda lettera “E neppure abbiamo cercato la gloria umana, né da voi, né da altri” (2.6), frase che dovrebbe essere il perno attorno al quale ruota il fine della testimonianza e del servizio cristiano: nel momento in cui esiste un “riconoscimento” umano nel senso stretto del termine abbiamo una deviazione di ruolo e di intenti; l’essere naturale sbaglia sempre e soprattutto fraintende proprio come quelli che, al tempo di Gesù, volevano un Messia terreno, come più volte ricordato. Un fratello amava ricordare che Nostro Signore avrebbe potuto nascere e vivere in una famiglia facoltosa e invece scelse quella di un falegname, non ricco né povero perché altrimenti entrambe le categorie avrebbero potuto rivendicarne l’esclusiva. Fino all’età di circa trent’anni visse in una condizione benestante, conseguita grazie ai doni che i Magi gli portarono e che furono amministrati da Giuseppe e Maria. Nella sua vita pubblica, poi, sappiamo che il suo gruppo contava su una cassa comune tenuta da Giuda, l’uomo di Kerioth.

La gloria umana fu quella che tanto Lui quanto gli apostoli rifiutarono come avvenne, a parte Paolo, anche per Pietro nel suo incontro col centurione romano Cornelio a Cesarea che “stava ad aspettarli coi parenti e gli amici intimi che aveva invitato. Mentre stava per entrare, Cornelio gli andò incontro e si gettò ai suoi piedi per rendergli omaggio. Ma Pietro lo rialzò, dicendo: «Àlzati, anch’io sono un uomo»” (Atti 10.24,26). Un altro episodio con protagonisti Paolo e Barnaba a Listra, dopo la guarigione di un paralitico: “la gente allora, al vedere ciò che Paolo aveva fatto, si mise a gridare, dicendo, in dialetto licaonio,: «Gli dèi sono scesi tra noi in figura umana!» e chiamavano Barnaba «Zeus» e Paolo «Hermes» perché era lui a parlare. Intanto il sacerdote di Zeus, il cui tempio era all’ingresso della città, recando alle porte tori e corone, voleva offrire un sacrificio insieme alla folla. Sentendo ciò gli apostoli Barnaba e Paolo, si strapparono le vesti e si precipitarono tra la folla, gridando: «Uomini, perché fate questo? Anche noi siamo esseri umani, mortali come voi, e vi annunciamo che dovette convertirvi da queste vanità al Dio vivente!»” (Atti 14.11-15).

Abbiamo allora, a parte l’esempio di Gesù che è e sarà sempre il primo, anche quello di chi da Lui dipende per la proclamazione del Vangelo, che non accetterà mai di avere un riconoscimento estraneo alla missione lui affidatagli: quindi, il modo in cui un profeta si comporta, lo qualifica come vero o falso anche nel suo rifiutare o accettare la gloria umana, e qui ognuno di noi può fare le sue considerazioni su come agiscono quanti si comportano così nel mondo cosiddetto cristiano. Dicendo “Io non ricevo gloria dagli uomini”, Gesù afferma che l’unica cosa che gli importava essere – e lo confermò continuamente con azioni e parole – era il servo perfetto cui null’altro interessava se non ottenere la gloria che il Padre gli avrebbe dato. Ricordiamo la frase “Io ti ho glorificato sulla terra, compiendo l’opera che tu mi hai dato da fare” (Giovanni 7.4).

Gesù, al verso 42, prosegue dicendo “Ma vi conosco: non avete in voi l’amore di Dio”: quel “vi conosco”, che ancora una volta si riferisce alla perfetta conoscenza che aveva ed ha del cuore, dell’anima e dello spirito che spinge ogni uomo ad agire, attesta la mancanza dell’amore di Dio in loro, cioè che tutto il loro sapere, acquisito con fatica e uno studio severo, non aveva portato a nulla se non alla sterilità e all’inaridimento in contraddizione con quella frase, “Ama il Signore Iddio con tutto il tuo cuore” scritta sulle loro filatterie, anche quelle uno dei tanti simboli che avrebbero dovuto ricordare la loro dignità e funzione.

La filatteria era un piccolo pezzo di pergamena rinchiuso in un piccolo astuccio che, quando pregavano, tenevano assicurato con una cinghia di pelle alla fronte e al braccio sinistro vicino al cuore con lo scopo di ricordare il dovere di ubbidire ai comandamenti di Dio nella mente e nel cuore. Ebbene, con il passare del tempo si era finito per attribuire – ecco la falsità profonda della religione – a quei pezzi di pergamena il potere di evitare le malattie e scacciare i demoni ed erano divenuti strumento di ipocrisia: “Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente: allargano i loro filattéri e allungano le frange; si compiacciono nei posti d’onore nei banchetti, dei primi posti nelle sinagoghe, dei saluti nelle piazze, come anche di essere chiamati «Rabbi» dalla gente” (Matteo 23.5). Il seguito è ancora più pertinente al nostro caso: “Ma voi non fatevi chiamare «rabbi», perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli” (v.6). A parte tutte le connessioni possibili, credo che queste parole, se raccordate ai nostri tempi, descrivano una realtà desolante, dove ben poco è cambiato rispetto all’ipocrisia denunciata da Nostro Signore. E penso alla distinzione tra “religiosi” e “laici” operata dalla Chiesa di Roma o a quei “Pastori”, operanti soprattutto negli Stati Uniti, che trascinano grandi folle nelle loro predicazioni operando presunti miracoli e che posseggono ingenti patrimoni, avendo fatto della loro retorica un’industria. Ricordo che da bambino, quando frequentavo la mia parrocchia, non riuscivo a capire perché, quando un sacerdote parlasse di un altro, lo definiva “mio confratello” a differenza dei suoi parrocchiani. Gesù invece, nel passo citato, disse “e voi siete tutti fratelli” dove quella congiunzione, “e”, dice sicuramente tutto sulla differenza tra l’orgoglio umano e la realtà dell’essere figli di Dio. E non si tratta di volontà di polemica o di voler sottolineare che alcuni sono migliori di altri, ma solo di constatazione libera.

“Vi conosco”, quindi, è un ricordo di quanto avvenuto a Gerusalemme per la Pasqua all’inizio del suo ministero quando “durante la festa, molti, vedendo i segni che egli compiva, credettero nel suo nome. Ma lui, Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza sull’uomo. Egli infatti conosceva quello che c’è nell’uomo” (Giovanni 2.23-25). E non poteva essere diversamente, poiché era stato presente, partecipe e protagonista alla creazione di Adamo.

“Io sono venuto nel nome del Padre mio” quindi sono l’unico a cui dovete dare ascolto, ma purtroppo “se un altro venisse nel proprio nome, lo accogliereste” (v.43), questo perché non avrebbe coinvolto la loro conversione, non avrebbe demolito il concetto di superiorità sugli altri uomini che quegli scribi e farisei avevano di loro stessi. I Giudei avrebbero accolto uno venuto da se stesso, “nel suo nome”, cioè secondo i suoi scopi e idee opposte al Vangelo. Gesù qui esprime il concetto al condizionale, “Se… lo accogliereste”, stante la realtà del momento e per parlare meglio alla coscienza di quei Giudei, ma estese il concetto ai suoi discepoli: “Allora, se qualcuno vi dirà «Ecco, il Cristo è qui», oppure «È di là», non credeteci; perché sorgeranno falsi cristi e falsi profeti e faranno grandi segni e miracoli, così da ingannare, se possibile, anche gli eletti. Ecco, io ve l’ho predetto” (Matteo 24.24). E vediamo che tornano i “segni” e i “miracoli” come strumento di seduzione e distrazione dalla fede di cui abbiamo già dato cenni in precedenti riflessioni. Ecco perché, prima di credere a un “miracolo” o a un “segno” verificato come tale e non come un trucco, occorre procedere con grande cautela e non riceverlo automaticamente come da Dio.

Al verso 44 Gesù afferma che era proprio il fatto che questi cercassero “la gloria gli uni dagli altri” a impedir loro di credere: la visione orizzontale, il bisogno di rispetto della gente e dei loro simili di professione aveva creato un circuito chiuso in cui tutto era a loro misura. Troviamo scritto in Romani 2.29, chiesa formata da Giudei e Pagani convertiti, “…ma Giudeo è colui che lo è interiormente e la circoncisione è quella del cuore, nello spirito, non nella lettera; la sua lode non viene dagli uomini, ma da Dio”.

Proseguendo nella lettura del nostro testo, ora Nostro Signore passa a toccare un argomento molto caro ai Giudei e sul quale erano convinti di basare tutta la loto vita: “Non crediate che sarò io ad accusarvi davanti al Padre; vi è già chi vi accusa: Mosè, nel quale riponete la vostra speranza. Se infatti credeste a Mosè, credereste anche a me, perché egli ha scritto di me. Ma se non credete ai suoi scritti, come potrete credere alle mie parole?”. È un’accusa molto forte, quella di non credere realmente agli scritti di Mosè, quindi alla Torah intera. Scrive l’apostolo ai Romani: “Rendo loro testimonianza – ai Giudei – che hanno lo zelo per Dio, ma non secondo conoscenza. Poiché ignorando – cioè non conoscendo realmente e trascurando – la giustizia di Dio e cercando di stabilire la propria giustizia non si sono sottoposti alla giustizia di Dio perché il fine della legge è Cristo, per la giustificazione di ognuno che crede” (Romani 10.2-4).

Deuteronomio 18.15-18, parole di Dio a Mosè: “Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto. (…) Io susciterò un profeta in mezzo ai loro fratelli e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò. Se qualcuno non ascolterà le sue parole, io gliene domanderò conto”. Ma se raccordiamo queste parole a Cristo, “fine della legge”, non pensiamo fare a meno di pensare che è Lui lo scopo finale della promulgazione di essa perché il popolo di Israele potesse comprendere l’importanza di essere liberati da lei attraverso il sacrificio, unico e fatto una volta per sempre, del Figlio. Il “fine della legge”, “il“ e non “la”, trova così in Cristo il punto di arrivo di un percorso inteso al tempo stesso come l’inizio di una vita nuova sia sulla terra, con il cammino della conversione e la guida dello Spirito Santo, sia nel cielo con lui in attesa dei “Nuovi cieli e nuova terra dove dimora stabile la giustizia”.

“Se non credete ai suoi scritti, come potete credere alle mie parole?”: abbiamo il verbo “credere” nella sua unica applicazione possibile, scritturalmente parlando, che ci parla di assimilazione, comprensione, accoglimento, azione, coscienza. Credere significa capitolare nel proprio orgoglio per arrendersi a Dio attraverso quella che definisco “distruzione pacifica di sé”, cioè la conquista della conoscenza di ciò che è davvero importante. Mettere dei paletti alla Parola di Dio, fare dei “distinguo”, arrogarsi il diritto di tenere per sé uno spazio interiore negativo di fronte a Lui che ci ha creato e ha parlato, è quanto di più dannoso che un credente possa fare.

Il risultato della non credenza reale dei Giudei nella Legge di Mosè è così descritto, ancora nella lettera ai Romani: “I gentili, che non cercavano la giustizia, hanno ottenuto la giustizia, quella che però deriva dalla fede, mentre Israele, che cercava la legge della giustizia, non è arrivato a lei. Perché? Perché la cercava non mediante la fede, ma mediante le opere della legge – cioè la religione –; essi infatti hanno urtato nella pietra di inciampo. Come sta scritto: «Ecco, io pongo in Sion una pietra d’inciampo e una roccia di scandalo, ma chiunque crede in lui non sarà svergognato»”. Amen.

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10.19 – TESTIMONIANZE (Giovanni 5.33-40)

10.19 – Testimonianze (Giovanni 5.33-40)

 

33Voi avete inviato dei messaggeri a Giovanni ed egli ha dato testimonianza alla verità. 34Io non ricevo testimonianza da un uomo; ma vi dico queste cose perché siate salvati. 35Egli era la lampada che arde e risplende, e voi solo per un momento avete voluto rallegrarvi alla sua luce. 36Io però ho una testimonianza superiore a quella di Giovanni: le opere che il Padre mi ha dato da compiere, quelle stesse opere che io sto facendo, testimoniano di me che il Padre mi ha mandato. 37E anche il Padre, che mi ha mandato, ha dato testimonianza di me. Ma voi non avete mai ascoltato la sua voce né avete mai visto il suo volto, 38e la sua parola non rimane in voi; infatti non credete a colui che egli ha mandato. 39Voi scrutate le Scritture, pensando di avere in esse la vita eterna: sono proprio esse che danno testimonianza di me. 40Ma voi non volete venire a me per avere vita.

 

In questa terza parte del suo discorso, Gesù ricorda ai Giudei un fatto molto importante avvenuto circa due anni prima, quando Giovanni Battista predicava: “Voi – cioè Scribi, Farisei e Dottori della Legge – avete inviato dei messaggeri a Giovanni ed egli ha dato testimonianza della verità”: non andarono direttamente ad ascoltarlo, ma inviarono dei loro sottoposti, delle spie che lo interrogassero, e infatti leggiamo: “Questa è la testimonianza di Giovanni, quando i Giudei gli inviarono da Gerusalemme sacerdoti e leviti a interrogarlo: «Tu chi sei?». Egli confessò e non negò. Confessò «Io non sono il Cristo». Allora gli chiesero: «Chi sei, dunque? Sei tu Elia?», «Non lo sono», disse. «Sei tu il profeta?». «No», rispose. Gli dissero allora: «Chi sei? Perché possiamo dare una risposta a coloro che ci hanno mandato. Che cosa dici di te stesso?». Rispose: «Io sono voce di uno che grida nel deserto: Rendete diritta la via del Signore, come disse il profeta Isaia»” (Giovanni 1. 19-23). A queste domande sappiamo che ne seguirono altre sul perché battezzasse e capire meglio la sua identità.

Il Battista, ultimo dei profeti dell’Antico Patto, l’unico ad avere avuto il privilegio di annunciare l’arrivo del Figlio di Dio operante in quel momento, a differenza degli altri che lo “videro da lontano”, è definito “la lampada che arde e risplende” proprio per la funzione da lui avuta. Vero è che alla figura di Giovanni Battista abbiamo dedicato diversi capitoli, ma qui possiamo soffermarci sul fatto che Gesù non parla di “una” lampada, ma di “la lampada” dando così un significato alle parole “Tra i nati di donna non sorse alcuno maggiore di Giovanni Battista”. Quello della “lampada” è un paragone che fa lo stesso apostolo Pietro che scrive nella sua prima lettera in 2.19 “E abbiamo anche, solidissima, la parola dei profeti, alla quale fate bene a volgere l’attenzione come a lampada che brilla in un luogo oscuro, finché non spunti il giorno e non sorga nei vostri cuori la stella del mattino”. La notte, allora, qui è sinonimo di veglia e non di sonno.

Le parole degli antichi uomini di Dio, quindi, hanno dato una luce in un “luogo oscuro”, dando speranza e consolazione a coloro che aspettavano chi li riscattasse, ma Giovanni ebbe la funzione di prepararli alla venuta del Figlio presente in mezzo a loro. Le parole “voi solo per un momento avete voluto rallegrarvi alla sua luce” mettono poi in risalto il comportamento di quella parte del popolo che più di ogni altra avrebbe potuto e dovuto riconoscere in Gesù il Cristo ma, quando si trattò di mettere in discussione la loro esistenza e mettere in pratica il ravvedimento, rinunciarono. Le parole “per un breve tempo”, letteralmente “per un’ora”, mettono bene in risalto il fatto che, inizialmente, a Giovanni accorreva gente da ogni parte e lo ascoltava con entusiasmo perché proclamava l’arrivo del Messia e si aspettavano un re temporale; quando però il Battista iniziò ad accusarli nella coscienza e ad esortarli a cambiare tutto il loro modo di agire e pensare, allora si ritirarono da lui. Pensiamo alle conseguenze del miracolo della “moltiplicazione dei pani e dei pesci”: coloro che furono sfamati da Gesù, e dagli Apostoli che portarono loro materialmente il cibo pensarono che, se era stato in grado di sfamare più di cinquemila persone partendo da cinque pani e due pesci, chissà cosa avrebbe potuto fare se fosse stata la loro guida e quali vittorie e benessere avrebbe portato per tutti. Guardando però alla sussistenza materiale e trascurando completamente il significato vero di quel miracolo, Nostro Signore si ritrasse da loro.

Tra le due frasi su Giovanni Gesù inserisce la frase “Io non ricevo testimonianza da un uomo, ma vi dico queste cose perché siate salvati” a sottolineare che, se il Battista ebbe una funzione così importante, Lui ne aveva ed ha una maggiore, come lo stesso omonimo apostolo riporta nella sua prima lettera: “Se accettiamo la testimonianza degli uomini, la testimonianza di Dio è superiore. E questa è la testimonianza di Dio, che egli ha dato riguardo al proprio Figlio. Chi crede nel Figlio di Dio, ha questa testimonianza in sé. Chi non crede a Dio, fa di lui un bugiardo, perché non crede alla testimonianza che Dio ha dato riguardo al proprio Figlio. E la testimonianza è questa: Dio ci ha donato la vita eterna e questa vita è nel suo Figlio. Chi ha il Figlio, ha la vita; chi non ha il Figlio di Dio, non ha la vita” (5.9-12).

Sicuramente, tra le parole appena riportate, vale la pena evidenziare “Chi non crede a Dio”, cioè “a” e non “in”, che stabiliscono il fatto che Uno solo è il Dio che parla davvero, l’autore del Messaggio che risolve il problema della vita dell’essere umano. Credere “a” significa fondare la fiducia e accogliere le verità che vengono proposte, credere “in”, per lo meno qui, equivarrebbe a restare nelle incertezze di prima, limitandosi ad accettare l’idea dell’esistenza di un generico essere superiore. In altri termini qui l’apostolo Giovanni vuole dire a chi legge che ciò che importa è credere nelle parole che Dio ha voluto rivelare all’uomo perché non si perda: la vita è nel Figlio e nessun altro la può dare.

Gesù ricorda ancora una volta il suo essere Uno con il Padre: da una parte abbiamo Lui che, con le sue opere, testimonia di chi lo ha mandato e, dall’altra, il Padre stesso è intervenuto dando testimonianza di Lui (ricordiamo ad esempio quanto avvenne al Suo battesimo). Qui dobbiamo avere sempre presente che, per la Legge, un fatto che fosse testimoniato da più di una persona era accettato da tutti come vero e, nel nostro caso, i testimoni non sono due uomini, ma il Padre e il Figlio che agiscono sempre in modo tale che la creatura sia impossibilitata a negare anche legalmente la loro esistenza e la veridicità del loro operato per la loro salvezza.

Anche la più piccola cosa creata porta la firma di Dio, se la si vuole leggere: “L’ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ingiustizia di uomini che soffocano la verità nell’ingiustizia, poiché ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto; Dio stesso lo ha manifestato a loro. Infatti le sue perfezioni invisibili, ossia la sua eterna potenza e divinità, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo attraverso le opere da lui compiute. Essi dunque non hanno alcun motivo di scusa perché, pur avendo conosciuto Dio, non lo hanno glorificato né ringraziato come Dio, ma si sono perduti nei loro vani ragionamenti e la loro mente ottusa si è ottenebrata” (Romani 1.18-21). Qui Paolo scrive ai credenti della Chiesa di Roma, composta da Giudei e Pagani convertiti, ma Gesù parlava proprio a coloro che, pur avendo ereditato le promesse di Dio, le rigettavano convinti che il loro sapere fosse superiore al Suo. Tutto questo nonostante le due testimonianze, quella del Padre e quella del Figlio che avevano un solo scopo: “vi dico queste cose perché siate salvati” (v.34).

A questo punto, dalla seconda parte del verso 37, Gesù ricorda ai presenti che non avevano mai né udito la voce di Dio, né avevano visto il suo volto eppure credevano, anche se in modo sbagliato, cioè religiosamente vuoto perché “la sua parola non rimane in voi; infatti non credete a colui che egli ha mandato”. La parola che rimane è quella che attecchisce nel cuore e nella mente, è seme che germina, è ricordo permanente e operativo, è tesoro che si custodisce gelosamente perché è riposto per la vita eterna nell’attesa che questa si realizzi pienamente. E se ci soffermiamo su quel “rimanere”, non possiamo fare a meno di pensare che quei maestri fondavano il loro sapere proprio sulle Scritture che venivano studiate, elaborate e sminuzzate, analizzate e interpretate lettera dopo lettera da secoli. Eppure non avevano aperto la minima breccia in quei cuori.

C’è allora un “rimanere” inutile, che nel nostro caso potremmo collegare a Ecclesiaste 12.12 “Non si finisce mai di scrivere libri e il molto studio affatica il corpo”, e uno utile che si concreta nell’ascolto sincero della parola di Dio. Ricordando le parole di Salomone appena riportate, poi, da come proseguono si comprende perché Gesù abbia detto “Voi non volete venire a me per avere vita”: “Conclusione del discorso, dopo aver ascoltato tutto: temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché qui sta tutto l’uomo. Infatti, Dio citerà in giudizio ogni azione, anche tutto ciò che è occulto, bene o male” (vv.13,14). Il “non volere” andare a Lui è il problema che sta alla radice: un metodo di pensiero blando potrebbe ipotizzare che, in fondo, Gesù era troppo diretto nei confronti di quei Giudei che, per la loro formazione, non avrebbero potuto pensare diversamente, ma si tratta di un ragionamento profondamente errato perché un’anima che prova una sete vera cerca acqua e non dei surrogati. In pratica, Gesù dice a quei Giudei che era il loro spirito e chi li abitava a rifiutarlo, non la cultura e il loro infantile volersi arroccare su posizioni che più volte aveva smentito senza che avessero argomenti per ribattere.

Chiunque rifiuta il Vangelo, quindi, secondo le parole di verità pronunciate da Gesù, non è che non può perché ha avuto una vita che lo ha condizionato a tal punto da renderlo impenetrabile al messaggio di Dio e quindi sarà scusato, ma è sempre e solo perché non vuole: “Non volete venire a me” e certo sui meccanismi psicologici che determinano questo rifiuto ci sarebbe molto da dire, ma non aggiungerebbe nulla alla sintesi, al giudizio espresso da quel Gesù che è il solo a leggere l’uomo e capirlo profondamente. La diagnosi è sempre la stessa, “non volete”.

Molti amano “ragionare” mettendo a confronto la scelta di non credere con l’esistenza del libro della vita su cui già sono scritti i nomi dei salvati, dissertando sulla predestinazione, ma la questione è sbagliata perché l’uomo non è mai destinato a qualcosa, ma è sempre libero in quanto percorre il presente, non il futuro. Se mai, sono le scelte di ora che determinano ciò che avverrà dopo. Sempre, così allora come oggi. Amen.

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10.18 – VIENE L’ORA, ED È QUESTA (Giovanni 5.25-32)

10.18 – Viene l’ora, ed è questa (Giovanni 5.25-32)

 

25In verità, in verità io vi dico: viene l’ora – ed è questa – in cui i morti udranno la voce del Figlio di Dio e quelli che l’avranno ascoltata, vivranno. 26Come infatti il Padre ha la vita in se stesso, così ha concesso anche al Figlio di avere la vita in se stesso, 27e gli ha dato il potere di giudicare, perché è Figlio dell’uomo. 28Non meravigliatevi di questo: viene l’ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce 29e usciranno, quanti fecero il bene per una risurrezione di vita e quanti fecero il male per una risurrezione di condanna. 30Da me, io non posso fare nulla. Giudico secondo quello che ascolto e il mio giudizio è giusto, perché non cerco la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato.31Se fossi io a testimoniare da me stesso, la mia testimonianza non sarebbe vera. 32C’è un altro che dà testimonianza di me, e so che la testimonianza che dà di me è vera.

 

Anche in una lettura veloce del testo, se sottolineassimo le parole che circoscrivono il tempo in cui Gesù agisce, non potremmo fare a meno di notare la precisazione appuntata dopo il primo “viene l’ora”, cioè “ed è questa”che manca nel secondo: in un caso “i morti udranno la voce del Figlio di Dio e quelli che c’avranno ascoltata, vivranno”; in un altro, futuro lontano ma per il Signore comunque vicino, “tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce e usciranno”per “una resurrezione di vita”o “di condanna”.

Abbiamo allora due momenti, due tempi, riferiti ad altrettanti periodi storici ben distinti, uno presente (che riguarda ancora oggi gli uomini) e uno futuro, relativo al giudizio finale. Questi due sono dichiarati come imminenti, ma nel primo caso abbiamo “ed è questa”, precisazione che manca nel successivo, quando “tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce e usciranno”. In entrambi i casi si parla di “morti”, ma con un distinguo importante perché non si tratta della stessa condizione, avendo Gesù già utilizzato questa espressione per indicare quanti non credevano in Lui: ricordando infatti l’incontro con quel discepolo che intendeva, prima di aggregarsi al gruppo, aspettare che il proprio padre morisse, gli fu risposto “Lascia i morti seppellire i loro morti”(Matteo 8.22), e Luca aggiunge “tu invece va’, e annuncia il regno di Dio”.

“L’ora viene, ed è questa”significa allora che quello era il tempo in cui i“morti”, cioè tutti coloro che hanno la fine del corpo e dell’anima come unica prospettiva, avrebbero avuto l’opportunità di scampare ad essa vivendo. L’ora che viene “è questa”, non altre. Ed è ciò che accade a chi crede in Gesù Cristo. Ricordiamo le parole di Efesi 2.1-3: “Anche voi eravate morti per le vostre colpe e i vostri peccati, nei quali un tempo viveste alla maniera di questo mondo, seguendo il principe delle Potenze dell’aria, quello spirito che ora opera negli uomini ribelli. Anche tutti noi, come loro, un tempo siamo vissuti nelle nostre passioni carnali seguendo le voglie della carne e dei pensieri cattivi: eravamo per natura meritevoli d’ira, come gli altri. Ma Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo: per grazia siete stati salvati”. Questo verso dell’apostolo Paolo ci consente quindi di fare due sottolineature importanti sul passo di Giovanni: “I morti udranno la voce del Figlio di Dio”sono riferiti a tutti gli uomini senza alcuna distinzione, che invece però fatta, nitida e assoluta, con le parole che seguono, “e quelli che l’avranno ascoltata, vivranno”. È nel momento in cui i “morti”ascoltano la voce di Gesù che risorgono e si salvano. Dal verso di Efesi appena citato, poi, vediamo che senza l’annuncio del Vangelo sarebbe impossibile non seguire “il principe delle Potenze dell’aria”, ricordo di ciò che era l’Avversario prima di essere tale e che da allora mette in atto ogni possibile strategia perché gli uomini si perdano.

E il risultato dell’opera di Gesù Cristo è: “Con lui Dio ha dato vita anche a voi, che eravate morti a causa delle colpe e della non circoncisione della vostra carne, perdonandoci tutte le colpe e annullando il documento scritto contro di noi che, con le prescrizioni, ci era contrario: lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce”(Colossesi 2.13); queste parole, che ci riguardano da vicino in quanto pagani convertiti visti nella condizione di “non circoncisione”, affrontano velocemente il tema del decadimento della Legge in quella parte, oltre la cerimoniale, che divideva profondamente il mondo non israelita da quello pagano.

Le parole di Gesù “e quelli che l’avranno ascoltata, vivranno”, che parlano della differenza che intercorre tra chi ascolta e chi no, parlano di vita certamente futura, ma anche di quella che conduciamo quotidianamente, trasformata rispetto a quella di prima perché “Per mezzo del battesimo dunque siamo stati sepolti insieme a lui nella morte affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova”(Romani 6.4) che troverà il suo punto finale nel verso “Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria”(Colossesi 3.4).

 

Gesù, proseguendo nel suo discorso, passa poi a spiegare il perché vivranno quelli che avranno ascoltato la Sua voce: “Come infatti il Padre ha vita in se stesso, così ha concesso anche al Figlio di avere vita in se stesso, e gli ha dato il potere di giudicare perché è figlio dell’uomo”. Nelle parole “Il Padre ha vita in se stesso”non vediamo apparentemente nulla di straordinario se le si prendono come un’attestazione sul fatto che Dio vive, ma se le applichiamo al fatto che è Lui la fonte della vita in quanto Creatore dell’Universo visibile e invisibile, il discorso cambia. Il Padre è Colui che progetta, forma, è l’artefice di ogni forma di vita e senza il Suo benestare nulla avviene e tutto resta inanimato. Senza la Parola, però, tutto sarebbe ancora “informe e vuoto”e qui l’identità di entrambi, Padre e Figlio, viene rivelata. Quel “gli ha dato”, infatti, non si riferisce al conferimento di un potere che prima non aveva, ma al fatto che, siccome Padre e Figlio non sono due esseri indipendenti, viene fatta una distinzione di persona e non di essenza.

Possiamo notare la differenza tra due tempi verbali, “gli ha dato”, riferito al passato remoto e prossimo, ed “è il figlio dell’uomo”al presente, cosicché gli uomini saranno giudicati non da un Dio irraggiungibile, da un creatore distante, ma da chi ha assunto le loro stesse sembianze e da qui viene il potere del giudizio, dopo avere sconfitto il peccato e la morte. Dal discorso dell’apostolo Paolo nell’areopago di Atene leggiamo “Ora Dio, passando sopra ai tempi dell’ignoranza, ordina agli uomini che tutti e dappertutto si convertano, perché egli ha stabilito un giorno nel quale dovrà giudicare il mondo con giustizia, per mezzo di un uomo che egli ha designato dandone a tutti prova sicura col risuscitarlo dai morti”(Atti 17.30,31). Ricordiamoci di Giobbe, che parlando a YHWH lamentava il fatto che non vi fosse un mediatore tra loro: quell’uomo disse “…non è un uomo come me, al quale io possa replicare: «Presentiamoci alla pari in giudizio». Non c’è fra noi due un arbitro che ponga la mano su di noi, allontani da me la sua verga, che non mi spaventi il suo terrore: allora parlerei senza aver paura di lui; poiché così non è, mi ritrovo con me solo”(9.32-35).

Giobbe, persona profondamente spirituale, non aveva ciò che noi abbiamo, vale a dire un Sommo Sacerdote presente, in grado di compatire con noi perché ha provato su di sé ciò che significa vivere in un corpo di carne e lo ha fatto a tal punto da essere “tentato in ogni cosa in modo simile a noi, senza peccato”(Ebrei 4.15), per cui può è il Dio che davvero comprende la sua creatura. Ha scritto un fratello: “A motivo della sua alleanza con la natura umana, del suo sentire le infermità dell’uomo, il Figlio è fra le tre persone della Trinità il più atto a giudicare, oltre che essere il più degno di farlo”.

La pericope “gli ha dato potere”, infine, fu volutamente ignorata dai Giudei che si opponevano a Lui quando avrebbero dovuto conoscere Daniele 7.13, 14: “Guardando ancora nelle visioni notturne, ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d’uomo;(…)gli furono dati potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano, il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai– notare il tempo passato, presente e futuro – e il suo regno non sarà mai distrutto”. I regni umani passano, gli imperi vengono abbattuti da sempre nonostante, nel loro svilupparsi, la fede in loro fosse totale. E non possiamo fare a meno di pensare all’ultimo, il più terribile di tutti, che nonostante la sua grandezza e controllo totale sulle persone, durerà solo tre anni e mezzo.

Arriviamo così al secondo “Viene l’ora”, privo di quel “ed è questa”del primo, in cui si parla di “tutti coloro che sono nei sepolcri(che) udranno la sua voce”, che ci confermano ancora una volta come l’uomo sia comunque proprietà di Dio: tutti quelli che saranno morti, di cui si sarà perso il ricordo, dal più piccolo al più grande, torneranno in vita. Qui Gesù parla di coloro che sono nei sepolcri per farsi comprendere, ma sappiamo che il riferimento riguarda tutti: “Il mare restituì i morti che esso custodiva, la Morte e gli inferi resero i morti da loro custoditi e ciascuno venne giudicato secondo le sue opere”(Apocalisse 20.13). Si tratta di quelli che anche Daniele cita con l’espressione “coloro che sono nella polvere”(12.2) di cui si è persa ogni “traccia” nel senso che non hanno un sepolcro e sono dispersi nel nulla, nell’indistinto.

Ebbene, la potenza di Dio si rivelerà in tutta la sua forza poiché vi sarà un’altra voce al cui appello quella polvere tornerà a vivere e ad avere forma per “una resurrezione di vita o di condanna”, altrimenti descritta con le parole “…si risveglieranno gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l’infamia eterna. I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento, coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre”(Daniele 12.3).

Gesù parla di quelli che fecero “il bene”o “il male”, ma non si tratta di “buoni” e “cattivi”, ma chi avrà compiuto “l’opera di Dio”che è “questa, che voi crediate a Colui che egli ha mandato”. “Fare il bene” è l’ascolto, la dedizione, il seguire il Figlio, scampando così alla resurrezione di condanna. La “voce” che ascolteranno tutti i morti, indipendentemente dall’epoca in cui avranno vissuto, è descritta in 1 Corinti 15.52 con le parole “la tromba suonerà e i morti risusciteranno”che rendono in modo ancor più marcato l’idea dell’appello, dell’ora solenne, meravigliosa o terribile a seconda dei casi, alla quale nessuno potrà sottrarsi, dove la vita potrà avere senso e dignità totale oppure trovare il suo esatto contrario.

Fatto questo richiamo, Nostro Signore precisa ciò che lo fa agire, cioè la completa dipendenza dal Padre che, come uomo, pregava di continuo: “Da me, io non posso fare nulla– cioè non posso seguire nessun mio interesse personale, né avere iniziative diverse da quelle approvate dal Padre –; io giudico secondo quello che ascolto e il mio giudizio è giusto, perché non cerco la mia volontà, ma quella di colui che mi ha mandato”(v.30). L’ascoltare di Gesù comprende anche il vedere e quindi il sapere: l’essere umano non può fare a meno di rivelarsi e sono proprio le sue parole come sintomo di ciò che sovrabbonda nel cuore che determinano la sua posizione – ricordiamo il principio “dalle tue parole sarai giustificato, e dalle tue parole sarai condannato”–. E qui dovremmo aprire un grosso capitolo sul discernimento che anche noi, come cristiani, siamo chiamati a praticare nei confronti dei nostri simili che possono rivolgersi a noi con fini secondi e terzi, in particolare proprio coloro che affermano di amarci, per quanto sempre a modo loro.

Gesù venne sulla terra per testimoniare del Padre e rivelarlo e al verso 31 afferma “Se fossi io a testimoniare di me stesso, la mia testimonianza non sarebbe vera. C’è un altro che dà testimonianza di me, e so che la testimonianza che egli dà di me è vera”: il Figlio è inscindibile dal Padre, non può parlare di sé senza coinvolgerlo perché entrambi sono gli autori del piano di salvezza per l’uomo, pur con le dovute distinzioni e ruoli. Infatti, contrariamente a quanto possa sembrare di primo acchito, quell’ “altro”che dà testimonianza del Figlio non è Giovanni Battista, ma il Padre stesso che agisce attraverso di Lui ed è addirittura intervenuto al Suo battesimo con le parole “Questi è il figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento”(Matteo 3.17). E tutto è stato fatto e detto per la salvezza di noi, peccatori. Amen.

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10.17 – IL PARALITICO DI BETESDA II/II (Giovanni 5.9-18)

10.17 – Il paralitico di Betesda II (Giovanni 5.9-18)

 

Quel giorno però era un sabato. 10Dissero dunque i Giudei all’uomo che era stato guarito: «È sabato e non ti è lecito portare la tua barella». 11Ma egli rispose loro: «Colui che mi ha guarito mi ha detto: «Prendi la tua barella e cammina»». 12Gli domandarono allora: «Chi è l’uomo che ti ha detto: «Prendi e cammina»?». 13Ma colui che era stato guarito non sapeva chi fosse; Gesù infatti si era allontanato perché vi era folla in quel luogo. 14Poco dopo Gesù lo trovò nel tempio e gli disse: «Ecco: sei guarito! Non peccare più, perché non ti accada qualcosa di peggio». 15Quell’uomo se ne andò e riferì ai Giudei che era stato Gesù a guarirlo. 16Per questo i Giudei perseguitavano Gesù, perché faceva tali cose di sabato. 17Ma Gesù disse loro: «Il Padre mio agisce anche ora e anch’io agisco». 18Per questo i Giudei cercavano ancor più di ucciderlo, perché non soltanto violava il sabato, ma chiamava Dio suo Padre, facendosi uguale a Dio.

 

Dopo aver narrato in sintesi quanto avvenuto a Betesda, Giovanni passa a spiegare le conseguenze dell’operato di Nostro Signore che aveva visto, conosciuto ed era intervenuto nei confronti di quell’infermo. Anche oggi il cristiano quindi sa che Gesù fa le stesse cose verso di lui: il Suo “vedere” implica la presa d’atto di una situazione, il “sapere” implica la Sua conoscenza nel profondo dei meccanismi psicologici che si creano all’interno dell’anima della persona e, infine, l’intervento si verifica nel momento esatto in cui non si può fare a meno di attribuire a Lui, e a Lui solo, la liberazione da una condizione penalizzante, materiale o spirituale.

Gesù ancora una volta, a Betesda, soccorre un “ultimo”: molti potevano affermare di essere stati guariti, riuscendo ad entrare per primi in quell’acqua, da un intervento angelico che testimoniava le attenzioni di Dio per il Suo popolo, ma uno solo poteva dichiarare, con una guarigione visibile a tutti, di aver beneficiato della cura diretta di Dio, per quanto ancora non lo avesse realizzato interamente e non sapeva chi fosse chi lo aveva guarito. Certo nessuno dei tanti che passavano per quel luogo aveva mai chiesto a quell’infermo se avesse voluto guarire, certo nessuno di quelli gli avrebbe mai potuto dire “Alzati, prendi la tua barella, e cammina” mettendolo in condizioni di concretare quell’ordine, diretto al suo corpo, cioè all’involucro, ma che attestava anche il perdóno dei suoi peccati.

Abbiamo accennato al significato di quei trentotto anni, trascorsi certo a soffrire immobile o comunque in una condizione di forte penalizzazione, ma non dobbiamo trascurare il fatto che quell’uomo aveva avuto l’opportunità di pensare al perché era stato reso così: abbiamo infatti letto le parole “Ecco, sei guarito! Non peccare più, perché non ti accada qualcosa di peggio” (v.14), frase diretta non più al corpo, ma all’anima, conscia del peccato commesso e del fatto che le due preghiere, quella di guarire e di essere perdonato, erano state accolte.

C’è una realtà che Giovanni mette in primo piano e che condiziona tutto il nostro episodio: il sabato, giorno di riposo di cui abbiamo già sottolineato il significato e che sappiamo essere stata stravolta dall’interpretazione dei Maestri. A prima vista il richiamo dei Giudei “È sabato, non ti è levito portare la tua barella” aveva un suo significato, poiché effettivamente in quel giorno non si potevano portare dei pesi: “Così dice il Signore: Per amore della vostra stessa vita, guardatevi dal trasportare un peso in giorno di sabato e dall’introdurlo per le porte di Gerusalemme. Non portate alcun peso fuori dalle vostre case in giorno di sabato e non fate alcun lavoro, ma santificate il giorno di sabato come io ho comandato ai vostri padri.” (Geremia 17. 21,22).

Quando però fu loro risposto “Colui che mi ha guarito mi ha detto: «Prendi la tua barella, e cammina»”, vediamo che non vi fu alcuna intenzione di approfondire quella guarigione, ma piuttosto il cercare il responsabile dell’istigazione a infrangere le norme su quel giorno. Non è un particolare da poco, perché quella che a prima vista poteva sembrare un’infrazione alle norme sul sabato, per cui porrebbe quei Giudei dalla parte della ragione, in realtà non lo era, ma rientrava nelle cosiddettte “opere di necessità e misericordia”; ricordiamo ad esempio Matteo12.11 “Chi di voi, se possiede una pecora e questa, in giorno di sabato, cade in un fosso, non l’afferra e la tira fuori? Ora, un uomo vale più di una pecora! Perciò è lecito in giorno di sabato fare del bene”, oppure Luca 13.15 a proposito della donna curva da diciotto anni: “Ipocriti, non è forse vero che di sabato ciascuno di voi slega il suo bue o l’asino dalla mangiatoia, per condurlo ad abbeverarsi? E questa figlia di Abramo, che Satana ha tenuto prigioniera per ben diciotto anni, non doveva essere liberata da questo legame nel giorno di sabato?”. Abbiamo già in questi due versi la spiegazione del fatto che nessuno, né Gesù, né l’uomo da lui guarito, aveva commesso un’infrazione. Chissà se quell’innominato, portando con sé la barella che per tanto tempo lo aveva tenuto prigioniero, avesse voluto conservarla a testimonianza del proprio peccato, dell’infermità ad esso conseguente e delle modalità con cui la sua guarigione era avvenuta.

La stessa risposta ai Giudei data da quell’uomo, “Colui che mi ha guarito mi ha detto: «Prendi la tua barella e cammina»”, alludeva al fatto che non era stata commessa alcuna infrazione alla legge del sabato: solo un intervento di Dio avrebbe potuto guarire quella persona e quindi, essendogli stato detto così, non poteva esservi contraddizione nel senso che sarebbe stato impossibile guarire e peccare subito dopo. In risposta non abbiamo la domanda “Chi ti ha guarito?”, ma “Chi ti ha detto?”, ignorando volutamente quel miracolo che parlava di vita e di perdono, per sostare sulla loro legge interpretata, che in quell’intervento divino trovava evidentemente il suo annullamento. Quello dei Giudei fu un metodo perverso, tipico di chi si ritiene una sorta di “guardiano della fede”, che trova nell’applicazione della norma la ragione del proprio orgoglio, ma non è in grado di vedere oltre, di giudicare vagliando le ragioni di un’azione per inquadrare correttamente un determinato avvenimento. Si può affermare che, in realtà, chi “si faceva uguale a Dio” erano loro, non Gesù.

Il verso 14 della nostra traduzione inizia con “Poco dopo Gesù lo trovò nel tempio”, ma sarebbe stato più appropriato scrivere “Dopo tutto questo” (metà pànta), parole che indicano un intervallo di tempo più ampio tra il miracolo e l’incontro: quell’uomo aveva desiderato tornare al Tempio, figura della presenza di Dio, dal quale era stato lontano per trentotto anni. Nello scorso capitolo ho scritto che avrebbe potuto benissimo andare da un’altra parte a festeggiare l’avvenuta guarigione, ma era consapevole che in nessun altro luogo avrebbe potuto trovare il proprio significato e la sua presenza sommessa una ragione. Il Signore lo aveva guarito, anche se non conosceva ancora l’identità di Colui che era stato il Suo strumento, se un angelo diverso o un profeta.

Anche qui abbiamo una conferma che ogni esperienza dell’uomo col Signore è personale, individuale, non accomunabile a quella di altri. C’è chi chiede il Suo aiuto e lo ottiene, e chi lo prova direttamente senza nemmeno conoscerlo e quindi cerca di capirne la provenienza, ma comunque tutti, indistintamente, passano da una condizione di peccato con le sue visibili, tangibili conseguenze, alla liberazione da esso.

Per il modo con cui Gesù si rivela a quest’uomo, poi, pare che sia intercorso fra i due un dialogo parallelo, interiore, che Giovanni non ha scritto, ma ha lasciato intendere perché le parole di Nostro Signore sembrano indirizzate a una persona perfettamente in grado di comprenderle: “Va’ e non peccare più, perché non ti accada qualcosa di peggio”: “Va’” perché sei libero, “non peccare più” cioè non ritornare al peccato che ti ha reso invalido. In quel “qualcosa di peggio”, poi, non vi è un allusione al fatto che sarebbe tornato nella condizione che lo aveva portato a Betesda, ma alla “morte seconda”, cioè all’impossibilità di tornare indietro dal destino che sceglie chi rifiuta il Vangelo o, peggio, lo abbandona coscientemente una volta conosciutolo. Tornare al proprio peccato significa agire e pensare come prima dell’incontro con Gesù, non certo cadere accidentalmente perché deboli, distratti, soggetti a conoscere l’umiliazione dell’infedeltà naturale che portiamo con noi come eredità in Adamo. Ricordiamo che Pietro, certamente sincero, disse al suo Maestro per tre volte “Signore, tu sai che io ti amo”, e poi lo sconfessò terrorizzato per altrettante.

Arriviamo così al verso 15, “Quell’uomo se ne andò e riferì ai Giudei che era stato Gesù a guarirlo” in cui vediamo non una delazione, ma una volontà di testimoniare: finalmente sapeva chi lo aveva guarito, e suppongo anche perché. Il verbo greco usato, anéngheile, racchiude infatti in sé il senso dell’annuncio e non del tradimento; è come se volesse dire ai Giudei “quelli che escono dall’acqua di Betesda vengono guariti da un angelo, ma io sono stato guarito da Gesù”: ci sarebbe voluto poco per trarre le necessarie conclusioni, soprattutto per loro, studiosi della Legge che, se fossero stati sinceri, avrebbero dovuto rivedere molte loro posizioni. Sarebbe bastato il fatto che le guarigioni di Betesda avvenivano anche di sabato per fare le dovute proporzioni. Invece, “Voi circoncidete un uomo anche di sabato. (…) ora voi vi sdegnate contro di me perché di sabato ho guarito interamente un uomo? Non giudicate secondo le apparenze; giudicate con giusto giudizio!” (Giovanni 7.23,24). Sono parole di una linearità unica, che tuttavia non vennero prese in considerazione, neppure minimamente.

La volontà di rimanere ciechi da parte dei Giudei trova una grande sottolineatura nel verso 16, “Per questo i Giudei perseguitavano Gesù, perché faceva tali cose nel giorno di sabato”, che confermano, oltre quanto detto, il fatto che nemmeno l’esposizione delle ragioni più elementari possono qualcosa di fronte a delle coscienze cauterizzate e a dei cuori induriti.

Le parole “Il Padre mio agisce anche ora e anch’io agisco” (v. 17) possono aver riferimento sia a ciò che avveniva in Betesda e nei confronti di quell’infermo, quanto al fatto che l’opera del Padre non s’interrompeva mai, nemmeno di sabato, e quindi anche quella del Figlio non poteva venire limitata da una norma data agli uomini, tra l’altro senza che il quel giorno venisse effettivamente, legalmente violato. Inoltre, quell’ “anche ora” in cui il Padre agiva si riferisce al fatto che Gesù, senza di Lui e al tempo stesso essendo con Lui Uno, era l’Unico a cui gli uomini avrebbero potuto dare ascolto, allora come oggi, nel loro esclusivo interesse.

Giungiamo così alla nota conclusiva di Giovanni, “per questo i Giudei cercavano ancor di più di ucciderlo, perché non soltanto violava il sabato, ma chiamava Dio suo Padre, facendosi uguale a Dio”: ancora una volta abbiamo il non voler esaminare quanto avvenuto a Betesda con gli occhi del ricercatore sincero. Quei Giudei, con la loro conoscenza, avrebbero avuto tutti gli strumenti per iniziare una sincera operazione di vagliatura: il miracolo come punto di partenza a cui avrebbe potuto far seguito un esame delle Sue parole, dei Suoi discorsi e degli altri miracoli confrontati con le parole dei profeti. Avrebbero potuto scoprire che quello era effettivamente il tempo dell’Emmanuele, del “Dio con noi” e gioirne perché posti all’interno del piano eterno di Dio per l’uomo.

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10.16 – IL PARALITICO DI BETESDA I/II (Giovanni 5.1-9)

10.16 – Il paralitico di Betesda (Giovanni 5.1-9)

 

1 Dopo questi fatti, ricorreva una festa dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. 2A Gerusalemme, presso la porta delle Pecore, vi è una piscina, chiamata in ebraico Betzatà, con cinque portici, 3sotto i quali giaceva un grande numero di infermi, ciechi, zoppi e paralitici. [ 4] 5Si trovava lì un uomo che da trentotto anni era malato. 6Gesù, vedendolo giacere e sapendo che da molto tempo era così, gli disse: «Vuoi guarire?». 7Gli rispose il malato: «Signore, non ho nessuno che mi immerga nella piscina quando l’acqua si agita. Mentre infatti sto per andarvi, un altro scende prima di me». 8Gesù gli disse: «Àlzati, prendi la tua barella e cammina». 9aE all’istante quell’uomo guarì: prese la sua barella e cominciò a camminare.

 

Quello che abbiamo letto è un episodio molto particolare sotto diversi aspetti, il primo tra i quali, non per importanza ma per una questione strutturale, riguarda la disposizione dei capitoli da 5 a 7 del Vangelo di Giovanni poiché la loro successione corretta sarebbe 6 – 5 – 7 e non quella che abbiamo in tutte le Bibbie, indipendentemente dalla loro provenienza denominazionale. Così annota Giuseppe Ricciotti nella sua “Vita di Gesù Cristo”: «Questa inversione, del cap. 6 premesso al cap. 5, appare già seguita nell’antichità da Taziano – il Siro, che nel 150 circa scrisse il Diatessaron in cui cercò di armonizzare il racconto dei quattro Vangeli – e nel Medioevo da vari espositori e oggi è abbastanza comune fra studiosi di ogni campo. La serie normale dei codici (capp. 4, 5, 6, 7) si potrebbe forse spiegare con un accidentale spostamento dei fogli contenenti il cap. 5 (o 6) in un archetipo antichissimo».

Altro punto, controverso per gli studiosi, è quale sia questa “festa dei Giudei”, che Giovanni non fa precedere dall’articolo determinativo “la”, ma dal generico “una”. Ora, stante il carattere preciso dell’apostolo pare improbabile che, se si fosse trattato della Pasqua, non lo avesse specificato. Fatto sta che la questione è ancora aperta e che forse si trattò della Pentecoste, che celebrava la rivelazione di Dio a Mosè sul monte Sinai, in seguito alla quale la Torah fu rivelata al popolo.

Venendo poi al luogo, Betesda, o Betzatà, vi è incertezza anche sul significato del nome, “Casa dell’oliveto” (da “beth zetha”) perché inserita in un quartiere nuovo della città dove prima vi era un oliveto, oppure “Casa di misericordia” (da Beth hisdà); fatto sta che Gesù, in questo suo secondo viaggio a Gerusalemme, stando a Giovanni, sostò in Gerusalemme per pochissimo tempo stante i piani omicidi nei Suoi confronti da parte del potere politico-religioso.

Il verso 2 ci dà la possibilità di identificare il luogo, la “Porta delle Pecore” e la piscina, con “cinque portici”: la prima è menzionata da Nehemia (8) quando narra la ricostruzione delle mura di Gerusalemme, della seconda è stata confermata l’esistenza da alcuni scavi archeologici: misurava 120×60 metri, era recinta da quattro portici più uno trasversale che la divideva in due bacini. Ora pare che lì si raccogliessero le acque di una fonte sotterranea dalla quale sgorgavano in modo intermittente, facendone innalzare il livello. Sotto i cinque portici, numero nel quale molti hanno voluto vedere raffigurati i libri della Legge, “giaceva un gran numero di infermi, di ciechi, zoppi e paralitici”. La nostra traduzione è mancante del quarto verso e di parte del terzo. Il testo completo sarebbe

 

“…un gran numero di infermi, ciechi, zoppi e paralitici che aspettavano il movimento dell’acqua. 4Perché di tempo in tempo un angelo scendeva nella piscina e intorpidiva l’acqua; e il primo che vi entrava, dopo l’intorpidimento dell’acqua, qualunque malattia avesse, guariva”.

 

Perché? Sono parole che mancano nei due più antichi codici, il Sinaitico e il Vaticano, ma sono presenti nell’Alessandrino a loro appena posteriore e in altre collocabili tra la fine del I e l’inizio del II secolo. San Girolamo, nella sua Vulgata, inserisce questi versi e lo stesso fanno il Diodati e il Luzzi, oltre che altri. Inserire o meno questo passo è quindi una scelta dei traduttori, ma occorre tener presente l’effetto diverso che dà la lettura dell’episodio con queste aggiunte: sappiamo perché quei malati erano lì, e soprattutto abbiamo la spiegazione di quelle guarigioni, impossibili per una semplice acqua termale. Da sottolineare il fatto che non si trattava di miracoli isolati, ma che si verificavano con continuità ogni volta che l’acqua si intorpidiva e solo per la prima persona che vi entrava. Come tutto ciò fu scoperto, non è dato sapere. Le parole dei versi terzo e quarto, quindi, escludono la spiegazione razionale della fonte sotterranea, o per lo meno la mettono su un piano ben distinto, attribuendo l’intorpidimento della piscina e la conseguente guarigione del primo infermo che vi entrava ad un intervento angelico.

Possiamo immaginarci la scena: da una condizione di relativa calma attorno alla piscina, tutto il luogo si animava all’improvviso quando l’acqua si intorpidiva, o agitava, e quel “grande numero di infermi” cercava di raggiungerla, o da soli, o aiutati da amici e parenti che, presi dal desiderio di veder guarire il loro congiunto, non esitavano a gesti scorretti verso gli altri pur di entrarvi per primi.

Ma c’era lì un uomo, “malato da trentotto anni”, cifra alla quale è facile non far caso poiché l’attenzione del lettore si sposta subito sul lato emotivo, cioè sul fatto che il malato era tale da molto tempo e sulla delusione rappresentata dal non poter mai guarire, essendo impossibilitato a raggiungere l’acqua perché non aiutato da nessuno. Sappiamo da quanto tempo quella persona era inferma, ma non da quanto si trovasse a Betesda. Nella Scrittura il numero trentotto non compare molte volte, ma quei pochi versi ci consentono di individuare correttamente il suo significato. Leggiamo Deuteronomio 2.14: “La durata del nostro cammino, da Kades-Barnea al passaggio del torrente Zered, fu di trentotto anni, finché tutta quella generazione di uomini atti alla guerra scomparve dall’accampamento, come il Signore aveva loro giurato”. Questo avvenne per la sfiducia che quelli avevano dimostrato nei confronti di Dio nonostante li precedesse “…nel cammino per cercarvi un luogo dove porre l’accampamento: di notte nel fuoco, per mostrarvi la via dove andare, e di giorno nella nube”. Fu lì che il Signore disse “Nessuno degli uomini di questa generazione malvagia vedrà la buona terra che ho giurato di dare ai vostri padri, se non Caleb, figlio di Gefunne. Egli la vedrà e a lui e ai suoi figli darò la terra su cui ha camminato, perché ha pienamente seguito il Signore” (Deuteronomio 1.32 e segg.).

Il numero 38, allora, ci parla del provvedimento, selezione e giudizio di Dio. È anche indice di forte negatività e disobbedienza volontaria, a Lui in opposizione, che ci ricorda Acab, figlio di Omri, che “divenne re su Israele a Samaria nell’anno trentottesimo di Asa, re di Giuda. Acab, (…) fece ciò che è male agli occhi del Signore più di tutti i re d’Israele prima di lui”. Stessa cosa per Zaccaria di cui leggiamo: “Nell’anno trentottesimo di Azaria, re di Giuda, Zaccaria, figlio di Geroboamo, divenne re su Israele a Samaria. Egli regnò sei mesi. Fece ciò che è male agli occhi del Signore, come l’avevano fatto i suoi padri; non si allontanò dai peccato che Geroboamo, figlio di Nebat, aveva fatto commettere a Israele – l’idolatria –. Ma Sallum, figlio di Iabes, congiurò contro di lui, lo colpì a Ibleàm, lo fece morire e regnò al suo posto” (2 Re 15.8-12).

Dato un cenno sulla realtà spirituale compresa nel numero degli anni in cui quell’anonimo era paralitico, resta quella terrena, da lui conosciuta benissimo, fatta da una serie ininterrotta di giorni passati a sperare nell’aiuto di qualcuno senza che arrivasse. E qui viene chiamato in causa il tempo, che implica un vivere soggettivo ben diverso da quello segnato dalle lancette dell’orologio che scorrono uguali per tutti: l’esperienza del tempo, infatti, è creata dalla mente perché esso non trascorre, ma semplicemente è. Chiunque è andato a scuola sa benissimo che ci sono “ore” che finiscono presto ed altre che non passano mai e che comunque quasi non si fa in tempo ad iniziare l’anno che subito arrivano le vacanze di Natale, poi quelle di Pasqua, e poi le estive, dopo di che tutto ricomincia da capo. Che la vita passi in un soffio, lo si impara presto fin da bambini.

Ora sono convinto che il tempo vissuto dall’ignoto paralitico gli dovesse essere sembrato enormemente lungo. Non che fosse da trentotto anni nella piscina, ma certo aveva vissuto la propria sofferenza nell’indifferenza generale, senza poter contare sull’aiuto specifico di qualcuno. Fra l’altro, è interessante il fatto che quella persona fosse paralitica lo ha deciso la tradizione, poiché il testo parla di una persona “malata” o “inferma”, segno che non era totalmente inabile, ma certamente invalido. Non può esservi migliore descrizione di quella che quell’uomo dà di sé: “Signore, non ho nessuno che mi immerga nella piscina quando l’acqua si agita. Mentre infatti sto per andarvi, un altro scende prima di me”.

Il nostro testo recita “Gesù, vedendolo giacere e sapendo che da molto tempo era così, gli disse: «Vuoi guarire?»”. Nostro Signore, quindi, vede e sa: vede come tutti gli altri uomini eventualmente presenti lì, ma solo Lui sa “che da molto tempo era così”, e qui non si tratta del semplice, freddo dato dei trentotto anni, ma di come questi erano stati vissuti. Non solo, ma anche quel “sapendo” riguardava la conoscenza dei meccanismi spirituali che avevano portato a quella condizione. Di fatto, quel paralitico attendeva da anni una liberazione che, non potendo certo avvenire scendendo in acqua per primo, era impossibile. Eppure stava lì.

La domanda di nostro Signore è disarmante nella sua semplicità: “Vuoi guarire?”, come fosse qualcosa alla immediata portata di quel pover’uomo. Ed in effetti lo era ma, invece di dare una risposta affermativa, non avendo capito la domanda, quell’anonimo risponde spiegando a Gesù che da solo non sarebbe mai riuscito a scendere nella piscina. A questo punto sappiamo che Nostro Signore, in tutta risposta, gli disse “Àlzati, prendi la tua barella e cammina”, cui seguì  una guarigione istantanea.

Questo è un miracolo molto raro perché qui Nostro Signore agisce di sua iniziativa, non dietro una preghiera dell’interessato e neppure a seguito di una fede in Lui dichiarata: quell’uomo guarì certamente a seguito della compassione che Gesù dimostrò nei suoi confronti, ma soprattutto perché il Figlio di Dio conosceva il suo vissuto, i pensieri e il suo cuore: vedremo infatti che più tardi lo incontrerà nel Tempio a ringraziare l’Iddio d’Israele che aveva provveduto a guarirlo, quindi a perdonarlo, non per strada o in locali pubblici “a festeggiare”.

Io credo che quel “Vuoi guarire?” sia una domanda che viene rivolta a tutti gli esseri umani con la stessa naturalezza, perché la condizione penalizzante del peccato in cui versano, e che così tanto li limita, possa cessare. Sono convinto che anche oggi, ogni giorno, Gesù passi ovunque nel mondo e rivolga la medesima domanda a tutti e soprattutto in un momento ben preciso della loro vita, qui raffigurato nei trentotto anni di paralisi o comunque menomazione grave. Perché il Figlio di Dio interviene e si rivela a coloro che vuole salvare e perdonare. Amen.

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10.15 – GENNEZARETH (Marco 6.53-56)

10.15 – Gennezareth (Marco 6.53-56)

 

53Compiuta la traversata fino a terra, giunsero a Gennèsaret e approdarono. 54Scesi dalla barca, la gente subito lo riconobbe 55e, accorrendo da tutta quella regione, cominciarono a portargli sulle barelle i malati, dovunque udivano che egli si trovasse. 56E là dove giungeva, in villaggi o città o campagne, deponevano i malati nelle piazze e lo supplicavano di poter toccare almeno il lembo del suo mantello; e quanti lo toccavano venivano salvati”.

 

La nostra sarà una meditazione basata su tre versetti, ma estremamente densi di significato. Possiamo dire che l’episodio della traversata avvenne il giorno dopo la discussione nella Sinagoga di Capernaum quando Gesù si dichiarò “il pane disceso dal cielo”, avvenimento che i sinottici non riportano. In Giovanni però, all’inizio del suo settimo capitolo, leggiamo “Dopo questi fatti, Gesù se ne andava per la Galilea; infatti non voleva più percorrere la Giudea, perché i Giudei cercavano di ucciderlo”. Credo che di queste intenzioni Giuda Iscariotha ne venne a conoscenza non dopo quanto avvenuto nella Sinagoga, come potrebbe sembrare dalla nota di Giovanni, ma prima, per cui l’annotazione “stava per tradirlo” in 6.71 assume una valenza particolare: da un lato abbiamo i pensieri del traditore, dall’altro la conoscenza di essi da parte di Gesù che li anticipa dicendo “Non ho scelto io voi dodici? Eppure uno di voi è diavolo” (v.70).

Quindi, dopo la disputa a Capernaum, Gesù con i suoi prende la barca e, riallacciandosi al brano di oggi, “compiuta la traversata fino a terra, giunsero a Gennezareth, e approdarono”. Si noti, a proposito del racconto di Marco, che nominando Gennezareth, il cui nome significa “Giardini del principe” a motivo della fertilità del territorio, cita un pezzo di storia, oltre che eventi spirituali, precedentemente accaduto: Gennezareth era chiamata anticamente Kinneroth ed apparteneva alla tribù di Neftali. Si tratta di un luogo che fu testimone di una grande battaglia nel corso della conquista della terra di Canaan fra Israele e una coalizione di dieci re, tra i quali quello di Kinneroth. Leggiamo in Giosuè 11.4-9: Allora essi uscirono con tutti i loro eserciti: erano una truppa numerosa come la sabbia sulla riva del mare, con numerosissimi cavalli e carri.5Tutti questi re si allearono e vennero ad accamparsi insieme presso le acque di Merom, per combattere contro Israele. 6Allora il Signore disse a Giosuè: «Non temerli, perché domani a quest’ora io li consegnerò tutti trafitti davanti a Israele. Taglierai i garretti ai loro cavalli e appiccherai il fuoco ai loro carri». 7Giosuè con tutti i suoi guerrieri andò contro di loro presso le acque di Merom, a sorpresa, e piombò su di loro. 8Il Signore li consegnò nelle mani d’Israele, che li batté e li inseguì fino a Sidone la Grande, fino a Misrefot-Màim e fino alla valle di Mispa a oriente. Li sconfissero fino a non lasciar loro neppure un superstite”.

Ebbene, molti secoli dopo quell’avvenimento, Dio visita il suo popolo approdando in un territorio caratterizzato dalla presenza di Satana che, per quanto sconfitto al tempo di Giosuè nella persona dei dieci re, non per questo aveva rinunciato a dominarlo. Quel dominio veniva esercitato in forma subdola perché l’Avversario non aveva occupato militarmente quel territorio con malattie e infermità di vario tipo, figura della disubbidienza ai voleri di Dio; abbiamo letto che “scesi dalla barca, subito la gente lo riconobbe e, accorrendo da tutta quella regione, cominciarono a portargli sulle barelle i malati – perché il peccato fa ammalare e paralizza l’essere umano – dovunque udivano che si trovasse”. Qui e nell’ultima parte del verso 56, quando leggiamo e rifletteremo sul testo in base al quale gli chiedevano di toccare “almeno il lembo del suo mantello”, occorre sostare brevemente.

Sappiamo che la malattia per Israele era una conseguenza del peccato, mentre per gli altri popoli, come oggi, questa rientrava nelle accidentalità della vita. Risolvendo il problema di quanti andavano a Lui o gli venivano portati, quindi, Gesù non voleva rivelarsi come un “grande guaritore”, ma come l’Emanuele, il “Dio con noi” che, in quanto tale, guariva come scritto in Esodo 15.26, “io sono l’Eterno, che ti guarisco”. La guarigione dalla malattia, qualunque essa fosse, comportava quella dell’anima perché se non vi fosse stato quel desiderio Nostro Signore non avrebbe potuto operare, come ricordiamo si verificò a Nazareth, in cui non avvennero miracoli nonostante la gente glieli chiedesse, ma senza quella fede che risolve.

Sempre riguardo alle guarigioni, va ricordato che queste erano il mezzo mediante il quale Gesù dimostrava di essere in grado di dare il perdono di Dio e di essere Dio stesso secondo la frase “Ti sono rimessi i peccati”. In altri termini, allora i miracoli erano indispensabili per confermare le Sue parole e perché il popolo d’Israele Lo riconoscesse come tale. La continuità dei miracoli nel tempo di allora era un altro elemento importante perché continua conferma del fatto che Gesù era effettivamente chi diceva di essere, ma oggi? Un miracolo, che può sempre avvenire comunque, non può più essere un segno dato affinché la gente possa credere perché quello più importante, la salvezza di un’ anima e la sua conversione, si verifica continuamente e quelli di altro tipo che leggiamo nei Vangeli o nel libro degli Atti, sono da noi accettati e riconosciuti per fede. Il cristiano di oggi vive una realtà profondamente diversa da quella della prima Chiesa e Gesù stesso ricordiamo disse a Tommaso “Perché mi hai veduto, hai creduto; beati coloro che, pur non avendo visto, crederanno” (Giovanni 20.29). Tra l’altro, sbaglieremmo a ritenere il miracolo come condizione base per credere anche ai tempi in cui visse e operò Nostro Signore poiché, ricordando l’episodio del ricco e Lazzaro, alla richiesta del ricco di mandare dei segni ai propri famigliari perché si convertissero prima di incontrare Dio in giudizio, si sentì rispondere “Hanno Mosè e i profeti, ascoltino loro” (Luca 16.29).

L’episodio del ricco e Lazzaro, poi, conferma il principio in base al quale un miracolo viene concesso a chi si trova in una condizione d’animo particolare: “Se non ascoltano – cioè recepiscono e quindi seguono – Mosè e i profeti, neanche se uno resuscitasse dai morti saranno persuasi” (v.30). Ora credo che sia sufficiente considerare quanti hanno creduto nella resurrezione di Cristo per fare le dovute considerazioni.

Mentre il fine di un miracolo, non solo al tempo di Gesù, era quello di condurre uno o più uomini a Dio, quello odierno trova quasi sempre il suo punto d’arrivo nella superstizione e nel traviamento delle anime. Ben sapendo questo, l’apostolo Paolo scrive già in 2 Corinzi 11.14,15 “…ciò non fa meraviglia, perché anche Satana si traveste da angelo di luce. Non è perciò gran cosa se anche i suoi ministri si mascherano da ministri di giustizia; ma la loro fine sarà secondo le loro opere”. Tra l’altro, se osserviamo chi sono i presunti autori dei miracoli di oggi, vediamo che non sono mai attribuiti a Gesù Cristo, ma a divinità immaginarie, aggiunte, parallele a quella che è la sana dottrina cristiana che vede unicamente nel Figlio la sorgente di ogni benedizione, non essendovi altra via oltre a Lui per giungere al Padre.

Il miracolo con provenienza dall’Avversario, al di fuori dei casi immediatamente riconoscibili quanto a intervento di Dio, è ben descritto in Atti 8 con Simon Mago: “V’era da tempo in città un tale di nome Simone, dedito alla magia, il quale mandava in visibilio la popolazione di Samaria spacciandosi per un gran personaggio. A lui aderivano tutti, piccoli e grandi, esclamando: Questa è la potenza di Dio, quella che è chiamata grande. Gli davano ascolto perché per molto tempo gli aveva fatti strabiliare con le sue magie – le stesse esercitate da Satana con Mosè nell’episodio delle dieci piaghe –. (…) ma quando cominciarono a credere a Filippo, che recava la buona novella del Regno di Dio – che non si riduce a cose apparenti – e del nome di Cristo, uomini e donne – cioè persone adulte –  si facevano battezzare. Anche Simone credette e fu battezzato e non si staccò più da Filippo. Era fuori di sé nel vedere i segni e i grandi prodigi che avvenivano”. Sappiamo però che Simone non capì nulla sullo scopo dei miracoli che venivano compiuti allora, talché propose del denaro a Pietro e agli Apostoli pur di riuscire a trasmettere lo Spirito Santo agli altri mediante imposizione delle mani.

 

Giungiamo ora al secondo spunto di riflessione che inizia al verso 54 con le parole “la gente subito lo riconobbe”: come mai, se a Genenzareth approdava per la prima volta? Qui abbiamo un riferimento importante nel vestito di Gesù, che abbiamo già incontrato nell’episodio della donna emorroissa. Nostro Signore non indossava un abito di peli di cammello come il Battista, ma quello descritto in Numeri 15.38: «Parla agli israeliti e ordina loro che si facciano, di generazione in generazione, fiocchi agli angoli delle loro vesti e che mettano al fiocco di ogni angolo un cordone di porpora viola. Avrete tali fiocchi e, quando li guarderete, vi ricorderete di tutti quei comandamenti del Signore per metterli in pratica”. Ecco: Gesù, in quanto assoluto compitore della Legge, l’unico in grado di adempierla in modo perfetto, era anche il solo a poter essere in grado di guarire proprio coloro che “lo supplicavano di poter toccare almeno il lembo del suo mantello”, cioè non un pezzo di vestito, ma proprio quei fiocchi o più propriamente il cordone di porpora viola posto agli angoli del mantello che portava. Qui le traduzioni appropriate sono poche perché quello del cordone, o “frangia” è un particolare che si trova nelle versioni ebraiche.

L’abito che Gesù portava non aveva nulla di miracoloso, ma i lembi, le frange, erano la parte sacra dell’abito e, toccando quelli, i malati dimostravano di voler andare direttamente a Lui perché costituivano l’adempimento di tutti quei comandamenti emanati da Dio che loro non potevano né sapevano adempiere. C’è una profondità immensa in questo gesto che esprime ciò che migliaia di parole non avrebbero potuto dire: una mano si tende e tocca la frangia della Sua veste, quella che stava ai quattro angoli perché, tra l’altro, ad ognuno di loro corrispondeva un nome di Dio. E quattro sono le lettere del tetragramma YHWH. Toccare quel lembo, angolo, frangia, significava dimostrare la volontà di aderire a ciò che Gesù avrebbe potuto fare, Lui e Lui solo. Toccare quella frangia significava sfiorare la Sua Santità e nonostante questo esserne resi partecipi. Ecco perché il verso con cui termina il nostro passo non parla di guarigione, ma di salvezza: “quanti lo toccavano venivano salvati”. Comprendiamo? L’importante era sì guarire, ma con uno scopo nuovo. L’importante era sì guarire, ma come conseguenza, dimostrazione di un perdono ricevuto e ottenuto toccando ciò che era simbolo certamente della santità del Nome di Dio, ma ancor di più del Suo Amore che lo porterà ad immolarsi quale Agnello innocente.

Un cristianesimo fortemente inquinato da tradizioni e concezioni pagane, nei secoli, ha fatto sì che si costituisse la credenza delle reliquie, che però sono completamente fuori da qualsiasi contesto spirituale corretto e appartengono alle regioni oscure della magia, di Simone e di molti altri, che gli apostoli e non solo hanno sempre combattuto.

Gli abitanti di Gennezareth e zone circostanti seppero attribuire alle frange del mantello di Gesù il suo corretto significato e oggi, per guarire, basta ascoltare la Sua voce, contenuta nel Vangelo e nel messaggio che ogni Chiesa è chiamata a proclamare, in ottemperanza e fedeltà al mandato ricevuto. Amen.

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10.14 – A CHI CE NE ANDREMO NOI? (Giovanni 6.59-61)

10.14 – A chi ce ne andremo noi (Giovanni 6.59-71)

59Gesù disse queste cose, insegnando nella sinagoga a Cafàrnao. 60Molti dei suoi discepoli, dopo aver ascoltato, dissero: «Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?». 61Gesù, sapendo dentro di sé che i suoi discepoli mormoravano riguardo a questo, disse loro: «Questo vi scandalizza? 62E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima? 63È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che io vi ho detto sono spirito e sono vita.64Ma tra voi vi sono alcuni che non credono». Gesù infatti sapeva fin da principio chi erano quelli che non credevano e chi era colui che lo avrebbe tradito. 65E diceva: «Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre».

66Da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui. 67Disse allora Gesù ai Dodici: «Volete andarvene anche voi?». 68Gli rispose Simon Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna 69e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio». 70Gesù riprese: «Non sono forse io che ho scelto voi, i Dodici? Eppure uno di voi è un diavolo!». 71Parlava di Giuda, figlio di Simone Iscariota: costui infatti stava per tradirlo, ed era uno dei Dodici”.  

Il verso 59 ci informa, come già rilevato, del luogo in cui avvenne il discorso di Gesù sul “pane disceso dal cielo”.Sappiamo così che una prima parte del Suo intervento iniziò all’aperto, quando la folla lo trovò “di là dal mare”(6.25) e una seconda, certo la parte più corposa, nella Sinagoga. Ora Giovanni, nei versi che abbiamo letto, descrive le reazioni dei presenti quando ebbe finito di parlare, con particolare riguardo a “molti dei suoi discepoli”, quelli che fino allora lo avevano seguito per motivi politico-religiosi. A loro stava certamente bene avere abbandonato le loro occupazioni ordinarie, dichiararsi suoi discepoli per i miracoli che faceva e i discorsi sulla libertà e l’identità che avrebbero avuto come figli di Dio, ma Lo avevano inquadrato ancora una volta come un Messia fondamentalmente umano, colui che un giorno sarebbe diventato il “Re d’Israele” nel senso immediato del termine. Quando però parlò di se stesso come “il pane della vita”, e della necessità di mangiare “la sua carne e bere il suo sangue”, iniziarono a mormorare fra loro scandalizzati esattamente come i Farisei e i Dottori avevano fatto poco prima. Quelle parole erano “dure”, greco “skleròs”, cioè non tanto difficili da capire, ma piuttosto detestabili, impossibili da ascoltare, empie, proprio come sostenevano i Suoi oppositori storici.

La “parola dura” è quella che scandalizza. È la pietra d’inciampo. La “parola dura” è quella che ancora oggi fa la selezione, che a un certo punto della vita anche del cristiano nominale interviene, gli si pone davanti tramite un concetto che non rientra nelle sue corde e fa sì che si ritragga rivelando che il vecchio uomo, quello carnale, non era mai morto. Alla carne avere una religione può anche star bene, ma a patto che lasci sempre lasciare una via di fuga, una giustificazione. La religione è deve essere recitazione, mai vita. E infatti, come più volte rimarcato, la religione con il Cristianesimo vero non c’entra nulla. Per quei discepoli lo scandalo fu costituito dal principio della carne e del sangue, oggi può essere la richiesta di abbandonare uno stile di vita, un ragionamento, ciò che è stato conquistato con l’ingiustizia. Dobbiamo portare in noi il frutto concreto del pentimento.

A questo punto, dopo che “molti discepoli”sentenziarono che la parola di Gesù era “dura”, ancora una volta Nostro Signore affonda la sua spada a due tagli e parla non più della Sua morte, ma dalla vittoria che avrebbe riportato su di essa, tornando non solo da dove era venuto, dal cielo, ma con un “nome che è al di sopra di ogni altro”(Filippesi 2.5): il senso delle parole “Questo vi scandalizza? E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima?”non è quello, immediatamente interpretabile in base al quale la Sua ascensione sarebbe stata un ulteriore motivo di scandalo, ma: quella difficoltà a capire dei discepoli sarebbe cessato se lo avessero visto salire al cielo? Con queste parole Nostro Signore intende dire che il suo ragionamento sulla sua carne e sangue non andava preso in senso letterale, umano, ma spirituale proprio perché “È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova nulla”. E infatti fu il prendere quel discorso prendendo le parole nella loro letteralità a scandalizzare; se vi fosse stata apertura mentale, se il preconcetto avesse lasciato spazio al puro desiderio di comprendere, le cose sarebbero andate diversamente, ma quella gente si sentiva superiore, in grado di giudicarLo.

La carne, senza l’intervento dello Spirito Santo, è e rimane inerte, morta nonostante sia apparentemente viva; ricordiamo le parole dell’apostolo Paolo “Misero me uomo, chi mi libererà da questo corpo di morte?”. Morte che domina tutto, anche il ragionare. La carne, nonostante sia in vita, pensa cose morte e fa cose morte perché essa è il suo destino, prospettiva, a meno che non intervenga lo Spirito di Dio a risollevarla per portarla in un territorio nuovo. Ed è la comprensione spirituale delle parole del Cristo, in opposizione alla lettera, che può trasformare la morte in vita. Ricordiamo le parole “La lettera uccide, ma lo Spirito vivifica”(2 Corinti 3.6).

“Le parole che vi ho detto sono spirito e vita”costituiscono una verità, un attestato, una certezza che si concreta in tutte le volte che il verbo essere compare nell’episodio: dice Gesù nella Sinagoga “Io sono il pane della vita”(2 volte), “sono disceso dal cielo”, “Io sono il pane vivo”; le Sue parole erano le uniche che potessero condurre l’uomo alla salvezza per cui sta alla creatura, anche oggi, scegliere tra una guida cieca oppure Gesù stesso.

È probabile che le parole sulla Sua resurrezione scandalizzassero ancora di più i discepoli che “non credevano in lui”, mischiati a quelli veri, preludio alla realtà della zizzania nel campo. Sappiamo però che “Gesù sapeva fin da principio chi erano quelli che non credevano e chi era quello che lo avrebbe tradito”: impossibile ingannarlo e quel sapere “fin da principio”ci parla di quei nomi “scritti prima della fondazione del mondo”(Efesi 1.4), dell’impossibilità dell’intrusione che questi soggetti avranno nel Regno di Dio. Nostro Signore sa quindi chi gli appartiene, ma anche i pensieri più profondi e reconditi di ogni essere umano e, nel caso in cui questi diventi figlio, ha un progetto per lui perché, se Dio è nei nostri pensieri, noi lo siamo nei Suoi. Credo che, assieme a quella della salvezza, non possa esservi consapevolezza migliore.

“Molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andarono più con lui”: fecero una scelta. Tornare indietro implica rinunciare a seguirlo, a fare il cammino con Lui, scegliere la solitudine, l’identificazione con la morte, tornare da dove si è venuti dopo un breve intervallo in cui si è creduto di aver trovato un’alternativa. Ma la carne, per quelle persone, fu più forte. Quando purtroppo mi ritrovo a fare i conti con la realtà della mia vita orizzontale, coi suoi problemi a volte difficili, mi chiedo sempre che senso abbia non tanto il doverli affrontare, ma la vita stessa, che trova nella morte il suo punto di arrivo. E concludo che, privato della certezza e della prospettiva di occupare un posto nella “casa delle molte stanze”, ogni cosa sarebbe priva di significato. Tornare indietro, allora come oggi, equivale a rinunciare a un cammino con Gesù, a rinnegare, rifiutare le parole “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Matteo 28.20). È la “bestemmia contro lo Spirito Santo”l’unico peccato a non essere perdonato.

“Molti discepoli tornarono indietro”, ma non tutti. E Nostro Signore, per far sì che i dodici dessero una spiegazione non a Lui, ma a loro stessi, del perché rimanessero lì, chiede “Volete andarvene anche voi?”: la volontà dipende dall’anima e dallo spirito della persona, si esprime sospinta da una forza a loro connessa, ma Pietro, parlando anche per gli altri, che aveva ben vivo il ricordo di ciò che era avvenuto sul lago in tempesta e non solo, lascia spazio a una dichiarazione particolare: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio”, che altre traduzioni riportano con “il Cristo, il Figlio dell’Iddio vivente”a seconda della fonte, che risente dell’influenza di Matteo 16.

Pietro non dice di aver compreso il discorso sulla carne e il sangue, cosa che avverrà dopo la discesa dello Spirito Santo, ma confessa quale più anziano del gruppo che né lui né gli altri avevano alternative una volta riconosciuto di aver bisogno di un Pastore e, soprattutto, averlo trovato. I verbi “creduto”e “conosciuto”fanno riferimento al fatto che i dodici a quella conclusione erano giunti dopo un’attenta osservazione dei fatti di cui erano stati testimoni e protagonisti al tempo stesso, oltre che di una forte volontà di capire i suoi discorsi. Ed erano arrivati a un punto in cui in loro si era creata la consapevolezza del fatto che, senza di lui, non avrebbero potuto essere. Senza il loro Maestro si sarebbero sentiti persi, a differenza di quanti “tornarono indietro”ad una vita che, temporaneamente, li avrebbe distolti dal pensare che un giorno sarebbero morti trovandosi di fronte a ciò che Gesù aveva detto: “Chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anche il Figlio dell’uomo lo riconoscerà davanti agli angeli di Dio; ma chi mi rinnegherà davanti agli uomini, sarà rinnegato davanti agli angeli di Dio”(Luca 18.8).

La risposta “Non sono forse io che ho scelto voi, i dodici?”riguarda non l’elezione per la vita eterna, ma la nomina ad apostoli (Luca 6.13). La immediata aggiunta “Eppure uno di voi è un diavolo”ha fatto seguito al tema dell’elezione probabilmente perché gli altri undici, una volta che Giuda Iscariotha si fosse rivelato, non avessero dei dubbi ipotizzando che il loro Maestro avesse sbagliato a scegliere uno di loro. Il termine usato per indicare Giuda è molto particolare perché di lui non è detto che è un “daimon”, cioè uno spirito maligno, ma “diàbolos”, cioè “colui che divide”, “calunniatore”, “accusatore”, col quale è evidente l’identificazione con Satana. Jacques Masson, teologo vissuto tra il 1400 e il 1500, osservò che “Egli era animato dallo spirito di Satana, così da esser fra i dodici quello che Satana era stato nella famiglia di Dio in cielo”. Occorre però specificare che questa identificazione piena avverrà in un punto preciso, quando ricevette da Gesù il boccone intinto, dopo di che leggiamo che “Satana entrò in lui”, cioè ne prese pieno possesso non per umiliarlo come fece e fa con gli indemoniati, ma per i suoi scopi. Giuda quindi, a quel tempo, era una persona che agiva per se stesso, traendo un illecito guadagno rubando dalla cassa comune di cui era responsabile, oltre a disprezzare costantemente tutto ciò di cui, assieme agli altri, era testimone. “Uno di voi è diavolo”, sono parole che quindi si riferiscono alla prospettiva e al destino di quell’apostolo, ma anche al fatto che a spingerlo nelle sue azioni era una forza contraria che andava oltre oltre l’impermeabilità del cuore e della mente. “Durante la cena,(…) il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda, figlio di Simone Iscariotha, di tradirlo”: si noti il “già” che allude al processo inevitabile di chi non solo rifiuta il Vangelo, ma lo combatte, lo ignora volutamente, resta indifferente nonostante le Sue manifestazioni. Giuda qui “stava per tradirlo”, il che significa che aveva già deciso di attendere il tempo opportuno per farlo: avrebbe ferito al calcagno la “progenie della donna”.

Credo che qui, a prescindere da quanto scritto finora, quel “diavolo”riferito a Giuda sia strettamente connesso a un’altra definizione che Gesù dà di lui: in Giovanni 17.12 leggiamo “Quando ero con loro, io li custodivo nel tuo nome, quello che mi hai dato, e li ho conservati, e nessuno di loro è andato perduto, tranne il figlio della perdizione, perché si compisse la scrittura”. Qui si aprirebbe un argomento immenso, che penso sia impossibile da sviluppare se non poco per volta, stante gli scopi che si prefiggono questi studi sul Vangelo.

Se però Giuda è il livello più alto – in questo contesto – della manifestazione satanica, ricordiamo che non è importante riflettere sulla capacità distruttiva di questo personaggio, quanto piuttosto sul fatto che l’Avversario abita certe persone, compresi quegli Scribi e Farisei cui Gesù si rivolse dicendo “Voi che avete per padre il diavolo, e volete compiere i desideri del padre vostro. Egli è stato omicida fin da principio e non ha perseverato nella verità, perché non vi è verità in lui. Quando dice il falso, parla del suo, perché è menzognero e padre della menzogna. A me, invece, voi non credete, perché dico la verità. Chi di voi può convincermi di peccato? Se dico la verità, perché non mi credete? Chi è da Dio ascolta le parole di Dio: per questo voi non le ascoltate, perché non siete da Dio”. Ecco perché, per trovare un angelo dell’Avversario, o un appartenente a lui, non dobbiamo andare troppo lontano. E, a volte, questo non lo pensiamo. Amen.

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10.13 – CHI MANGIA LA MIA CARNE E BEVE IL MIO SANGUE (Giovanni 6.52-58)

10.13 – Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue (Giovanni 6.52-58)

 

52Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». 53Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. 54Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. 55Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. 56Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. 57Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. 58Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno»”.

 

A un lettore attento ai verbi che descrivono lo stato d’animo dei Giudei non sarà sfuggito che prima “mormorano” e poi che, dopo le parole “il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”, si mettono a “discutere aspramente”perché quella frase rappresentò per loro qualcosa di totalmente assurdo e non sapevano come interpretarla alla luce della loro conoscenza. A cosa alludeva Gesù? Per quanto sapevano i Suoi uditori, non poteva certo riferirsi a una forma di cannibalismo perché avrebbe comportato l’infrazione del comandamento “Non ucciderai”senza contare che cibarsi di un corpo umano sarebbe stato impossibile dal momento in cui, solo per aver toccato un cadavere, una persona rimaneva impura “fino alla sera”. Ora, poiché questi due principi erano chiari a tutti, il fatto che discutevano aspramente ci parla del fatto che, in quella Sinagoga, si erano create due fazioni opposte che, come dal verbo utilizzato, “emaxónto”, “combattevano”tra loro: vi era così un gruppo che credeva in Gesù e ne accettava la dottrina, un secondo che la contrastava ritenendola assurda e impossibile.

A questo punto intervengono i due “Amen” di Gesù in cui pone di fronte quei Giudei a qualcosa di enorme: al mangiare la propria carne aggiunge il bere Suo sangue, altra pratica proibita dalla Legge, per sette volte, a cominciare dalla Genesi in cui leggiamo (9.4) “Soltanto non mangerete la carne con la sua vita, cioè con il suo sangue. Del sangue vostro, ossia della vostra vita, io domanderò conto; ne domanderò conto a ogni essere vivente, e domanderò conto della vita dell’uomo all’uomo, a ognuno di suo fratello”. Sono parole dette a Noè e ai suoi figli una volta usciti dall’arca. Essendo quindi il sangue la sede fisica della vita animale e al tempo stesso facente espiazione per l’anima dell’uomo, come ha scritto un fratello, “ai più riflessivi e sinceri dei suoi uditori, la separazione che Gesù fa fra la sua carne e il suo sangue dovette dar l’idea della morte, non naturale ma espiatoria come accennato al verso 51 «il pane che darò è la mia carne per la vita del mondo»”.

Vorrei a questo punto mettere in risalto gli elementi a disposizione della fazione contraria a Nostro Signore per cercare di capire quanto voleva dire nonostante, più che la verità, a loro interessasse la contesa: prima di tutto c’era il fatto che Gesù era un profeta e, riguardo alla categoria di queste persone, la Legge aveva dato delle indicazioni per distinguere quello vero dal falso: “Qualora sorga in mezzo a te un profeta o un sognatore che ti proponga un segno o un prodigio, e il segno e il prodigio annunciato succeda, ed egli ti dica: «Seguiamo dèi stranieri, che tu non hai mai conosciuto, e serviamoli», tu non dovrai ascoltare le parole di quel profeta o di quel sognatore perché il Signore, vostro Dio, vi mette alla prova per sapere se amate il Signore, vostro Dio, con tutto il cuore e con tutta l’anima. Seguirete il Signore, vostro Dio, temerete lui, osserverete i suoi comandi, ascolterete la sua voce, lo servirete e gli resterete fedeli, Quanto a quel profeta o a quel sognatore, egli dovrà essere messo a morte, perché ha proposto di abbandonare il Signore, vostro Dio, che vi ha fatto uscire dalla terra d’Egitto e ti ha riscattato dalla condizione servile, per trascinarti fuori della via per la quale il Signore, tuo Dio, ti ha ordinato di camminare. Così estirperai il male in mezzo a te”(Deuteronomio 13.2-6). Ora non mi pare che Gesù rientrasse nella categoria qui descritta e sicuramente anche il partito a lui opposto, in quella sede, non avrebbe potuto accusarlo in tal senso.

C’era poi la frase, ripetuta quattro volte, “lo risusciterò nell’ultimo giorno”: non potevano essere parole dette a caso perché Gesù aveva già risuscitato, per quanto sappiamo, due persone, la figlia di Jairo, proprio a Capernaum, e il figlio della vedova a Nain. Quelle parole, quindi, avrebbero dovuto essere elaborate con la massima attenzione. Terzo, Nostro Signore era lì, in mezzo a loro e non ci sarebbe stato altro modo per approfondire interpellandolo direttamente come avvenuto quando, in età di dodici anni, a Gerusalemme è scritto che i Dottori della Legge “erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte”(Luca 2. 47). Attenzione, perché quei maestri venivano da una vita dedicata allo studio, estensione e memorizzazione dei testi sacri e di un mare di sentenze custodite gelosamente da secoli. E mi viene in mente Nicodemo, che andò da Lui per capire e lo interrogò certo non con un senso di superiorità e per contendere.

Tornando al nostro testo sembra quasi, per le dinamiche descritte, che Gesù sembra voler “rincarare la dose” quando, al pane-carne, aggiunge il suo sangue-bevanda, ben sapendo le reazioni che avrebbe provocato: il fatto è che la verità andava detta comunque e in tal modo avrebbe dimostrato, come già detto ai discepoli, di essere “venuto sulla terra non a portare la pace, ma la spada”(Matteo 10.34). Non solo, ma teniamo presente la risposta data ai discepoli circa il motivo del Suo parlare per parabole, quindi per figure che in alcuni casi erano dei veri e propri enigmi: “A voi è stato dato il mistero del regno di Dio; per quelli che sono fuori invece tutto avviene in parabole, affinché guardino, sì, ma non vedano; ascoltino, sì, ma non comprendano, perché non si convertano e venga loro perdonato”(Marco 4.11,12). Non si tratta di una selezione arbitraria operata da un dio capriccioso, ma della conseguenza dello stato dell’anima della persona, del fatto che “Dio resiste ai superbi e fa grazia agli umili”(1 Pt 5.5), concetto espresso anche in Proverbi 3.34 “Dei beffardi egli si fa beffe e agli umili concede la sua benevolenza”. E il superbo è colui che è assolutamente convinto della propria superiorità sugli altri, quindi abituato a trattare il prossimo con arroganza e disprezzo.

Sappiamo che Gesù parlò in parabole, ma che poi le spiegava ai Suoi: lo stesso farà per queste parole sulla Sua carne e il Suo sangue, per quanto più di un anno dopo nell’ultima cena. Leggendo la versione di Matteo 26.26-28 abbiamo: “Ora, mentre mangiavano, Gesù prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e, mentre lo dava ai discepoli, disse: «Prendete, mangiate: questo è il mio corpo». Poi prese il calice, rese grazie e lo diede loro, dicendo: «Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti per il perdono dei peccati”. Abbiamo qui la rivelazione di ciò che Lui intendesse quando parlò ai Giudei a Capernaum: si tratta di una simbologia per alludere alla profonda immedesimazione che dev’esservi tra chi è da Gesù salvato e redento, e Lui stesso in quanto il sacrificio della croce rappresenta il massimo dei doni che vengono porti all’uomo che li accoglie.

Apro una parentesi che mi sembra doverosa: i Giudei rifiutarono il concetto letterale della carne da mangiare e del sangue da bere, ma alcune Chiese ne hanno fatto, altrettanto letteralmente, un dogma stabilendo la transustansazione nell’eucarestia, come dichiarato nel Concilio di Trento (sessione XIII, 11 ottobre 1551): “con la consacrazione del pane e del vino si opera la conversione di tutta la sostanza del pane nella sostanza del Corpo di Cristo, Nostro Signore, e di tutta la sostanza del vino nella sostanza del suo sangue”. Va bene, ma prima? Questa “conversione” esisteva, oppure no?

Al contrario di questa teoria, che poi per il cattolicesimo è un dogma, si tratta di riconoscere in quel pane e in quel vino il corpo e il sangue di Gesù dato per tutti coloro che lo avrebbero accolto. Fu un sacrificio fatto “una volta per sempre”(Ebrei 9.28) che non ha alcun senso che si rinnovi, mentre a ripetersi – questo sì – è il suo ricordo come dalle parole “Fate questo in memoria di me, finché io venga”(Luca 22.19). Se nell’ultima cena gli apostoli avessero sospettato anche lontanamente che quel vino fosse stato davvero il sangue del loro Maestro, non lo avrebbero certamente assunto, così come il pane, se non fosse stata figura del suo corpo e non la presenza reale di esso.

Le parole dei nostri versi in esame, per la circostanza in cui furono pronunciate, hanno riferimento profetico e al significato del credere più che alla celebrazione del Memoriale (o Eucaristia) che, come sappiamo, sarà istituito in seguito: abbiamo prima il pane – carne, quindi un alimento che, a differenza di quello naturale che deperisce, è per la vita eterna. Questo può essere identificato solo nella persona di Gesù, “Verbo”che “si è fatto carne e venne ad abitare in mezzo a noi”con un corpo simile al nostro, che ha conosciuto una morte violenta, ingiusta, eppure l’ha vinta. Scrive l’apostolo Paolo in Romani 5.6-9 “Quando eravamo ancora senza forza, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi. Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. A maggior ragione ora, giustificati nel suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui”.

Sappiamo che “A tutti coloro che l’hanno accolto, ha dato il potere di diventare figli di Dio”, quindi è questa accoglienza, che si concreta inizialmente nel riconoscerlo come la “Parola fatta carne”, che comincia il cammino verso la salvezza. Quando fu detto a molti, uomini e donne “Va’, la tua fede ti ha salvato”, significa proprio che questi nostri fratelli o sorelle che ci hanno preceduto lo avevano riconosciuto come Signore. Il Suo sangue, poi, non può avere altri riferimenti che col sacrificio che affrontò come “Agnello di Dio che toglie– cioè prende su di sé – il peccato del mondo”. Il corpo di Gesù è “vero cibo”e il Suo sangue “vera bevanda”perché l’anima dell’uomo ha bisogno di essere sfamata e dissetata. Infatti “tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù– non in altri –. È lui che Dio ha stabilito apertamente come strumento di espiazione, per mezzo della fede, nel suo sangue, a manifestazione della sua giustizia per la remissione dei peccati passati”(Romani 3.23-25).

L’autore della lettera agli Ebrei scrive a proposito di questo sangue: “Se il sangue dei capri e dei vitelli e la cenere di una giovenca, sparsi su coloro che sono contaminati, li santificano purificandoli nella carne, quanto più il sangue di Cristo – il quale, mosso dallo Spirito eterno, offrì se stesso senza macchia a Dio – purificherà la nostra coscienza dalle opere di morte, perché serviamo al Dio vivente? (…)Ora, una volta sola, nella pienezza dei tempi, egli è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso. E come per gli uomini è stabilito che muoiano una volta sola, dopo di che viene il giudizio, così Cristo, dopo essersi offerto una sola volta per togliere il peccato di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione con il peccato, a coloro che l’aspettano per la loro salvezza”(9.13-28).

Ecco allora perché abbiamo letto “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me ed io in lui”, parole che hanno stretta relazione con un altro passo che ci parla dell’identità dell’uomo finalmente trovata: “Ecco, io sto alla porta e busso: se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me”(Apocalisse 3.20). Per vivere in eterno, per essere risuscitati nell’ultimo giorno. Amen.

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10.12 – IL PANE DELLA VITA (Giovanni 6.45-51)

10.12 – Il pane della vita (Giovanni 6.41-51)

48Io sono il pane della vita. 49I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; 50questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. 51Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».”.

I versi da 26 a 58 di questo capitolo sono dedicati alla presentazione di Gesù come “Pane della vita”con un discorso in cui si rivela non solo come unica fonte di salvezza per l’uomo, ma dà anche per la prima volta un’identità precisa di sé riguardo al proprio corpo e sangue. Già qui abbiamo un’incommensurabile distanza tra ciò che fu Lui come uomo e ciò che siamo noi: le parole “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna ed io lo risusciterò nell’ultimo giorno”(v. 54) fanno riferimento al Suo potere salvifico in contrapposizione alla nostra incapacità risolutiva in tal senso perché la nostra “carne e sangue – cioè così come siamo– non possono ereditare il regno di Dio” (1 Corinti 15.50).

Per quanto noi possiamo fare, allora, non abbiamo nessun potere su ciò che esula dal nostro ambiente terreno per quanto, anche in quel contesto, non possiamo fare “un solo capello bianco o nero”. Si tratta di un’impossibilità già espressa nel dialogo con Nicodemo in cui leggiamo“Se uno non nasce da acqua e Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Quello che è nato dalla carne è carne, e quello che è nato dallo Spirito è spirito”(Giovanni 3.5,6).

“Io sono il pane della vita”viene ripetuto per la seconda volta a distanza di poco tempo così come il richiamo alla manna nel deserto ad esso simbolicamente collegato. Mi sono chiesto quali applicazioni si potessero fare sul “pane” nella Scrittura, che simboleggia ciò che alimenta l’uomo e troviamo menzionato la prima volta in Genesi 3.19: “Con il sudore del tuo volto mangerai il pane, finché non tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e polvere ritornerai”. Per poter sopravvivere, quindi, Adamo e la sua discendenza avrebbero dovuto lavorare con fatica, a differenza di quanto avveniva in Eden, quel luogo che il Creatore aveva personalmente realizzato per loro e in cui non si conosceva la fame né altre problematiche legate all’esistenza. Ricordiamo che Adamo e sua moglie avevano a disposizione tutti i frutti del giardino, ma ancora di più quelli dell’ “albero della vita”che si trovava al centro di esso, cioè sempre raggiungibile, mai distante da qualunque punto si trovassero. Contrariamente il pane che Adamo si sarebbe procurato lavorando, lo avrebbe nutrito fino a quando egli non sarebbe ritornato polvere.

Il pane, certo non quello contaminato che abbiamo oggi, è figura di ciò che necessita all’uomo per vivere e infatti è uno dei soggetti di preghiera nel “Padre Nostro”, ma nelle parole di Gesù è un elemento che si trasforma sempre in un concetto di più ampia portata: “l’uomo non vive di solo pane, ma di ciò che procede dalla bocca di Dio”, quindi c’è un nutrimento diverso che va assunto per vivere davvero, al di là di quello che conosciamo. Nella seconda parte del verso 50, poi, c’è un “pane che discende dal cielo perchéchi ne mangia non muoia”essendo il Cristo l’unica opportunità offerta per perché l’uomo si possa appropriare di quella vita eterna che altrimenti gli sarebbe negata. E il paragone con la “manna del deserto”, rivolto al popolo che ben conosceva l’episodio, fu quanto mai pertinente, perché la citazione di quanto avvenuto in Esodo ci parla di un intervento di Dio perché gli israeliti non morissero di stenti in un territorio ostile. Ma c’è di più perché, se per i Giudei la citazione dell’episodio della manna fu il punto di partenza per rifiutare Gesù come riportato al verso 31 (“I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta scritto”), per Nostro Signore fu quello di arrivo: certo i loro padri l’avevano mangiata e morirono, ma “questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia”(v.50).

Il primo pane, quindi, era per la sopravvivenza temporanea, ma il nuovo, quello “che discende dal cielo”, lo sarebbe stato per la vita eterna. È e fu punto di arrivo perché, dopo di quello, l’uomo non può desiderare altro: cibandosene ha finalmente un ruolo, una prospettiva, una destinazione, una dignità vera. Da notare che i pronomi “Io”e “Me”compaiono in questo capitolo per 35 volte, 5×7, a sostegno della totalità e perfezione dell’opera del Figlio. In quel “sono morti”, infatti, abbiamo un rimando alla descrizione obiettiva che Salomone fa dell’esistenza umana nel libro del Qoèlet quando scrive “Una generazione se ne va e un’altra arriva, ma la terra resta sempre la stessa (…) nessun ricordo resta degli antichi, ma neppure di coloro che saranno si conserverà memoria presso quelli che verranno in seguito”(1.4,11): ora il “ricordo degli antichi”non è riferito ai grandi della storia – anche quelli che troviamo nell’Antico Patto –, ma a tutto quel patrimonio di vissuto, nel bene e nel male, di aspirazioni, esperienze e speranze di tutti quelli che sono stati, in un modo o in un altro, protagonisti della loro storia e che è svanito, di quella verità reale, non ufficiale, che non ci è stata tramandata e che non conosciamo. Credo che lo studio della storia umana sia uno dei più grossi inganni che possiamo subire perché scritta sempre dai vincitori che l’hanno piegata ai loro scopi e dagli storici che, per quanto riguarda quella recente, l’hanno omessa in quei dettagli che avrebbero potuto modificarne il senso.

Certo la manna nel deserto ebbe una valenza spirituale assoluta perché stava a testimoniare l’amore di Dio per il suo popolo, ma costituiva, dal momento in cui Gesù parlava in poi, un evento passato: uno dei tre artefici della manna nel deserto stava lì, davanti a quei Giudei che lo contestavano incapaci di capire e privi della volontà di comprenderne il senso.

Ricordiamo infatti le parole di Proverbi 8.21-31 quando parla la Sapienza “Quando egli fissava i cieli, io ero là, quando tracciava un cerchio sull’abisso, quando condensava le nubi in alto, quando fissava le sorgenti dell’abisso, quando stabiliva al mare i suoi limiti così che le acque non oltrepassassero i loro confini, quando disponeva le fondamenta della terra, io ero con lui come artefice ed ero la sua delizia ogni giorno: giocavo davanti a lui in ogni istante, giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo”(Proverbi 8.21-31). Sicuramente da sottolineare il “globo terrestre”, descrizione che sta a indicare come gli uomini di Dio già sapessero che la terra non era piatta, come si riteneva nel mondo antico estraneo alla Rivelazione.

Un giorno ho pensato che l’opera della creazione di Dio fu un atto non meno complesso del piano di salvezza per l’uomo: il Padre scrisse, nel Libro che solo l’Agnello sarà in grado di aprire, i nomi di tutti coloro che sarebbero stati salvati. Diede loro un posto, un ruolo tanto nella vita terrena che in quella eterna provvedendo alla cancellazione del loro peccato, come troviamo scritto, “…e non mi ricorderò più dei loro peccati”(Geremia 31.31): in Ebrei 8.13 infatti leggiamo “Dicendo alleanza nuova– quella di cui Geremia ha parlato –  Dio ha dichiarato antica la prima; ma, ciò che diventa antico e invecchia, è prossimo a scomparire”. Non credo che possa esservi passo migliore, a commento di quanto stava avvenendo nella Sinagoga di Capernaum, di Ebrei 1.1-4 che, in poche parole, traccia il senso della storia umana raccordata a quella della Creazione Nuova di cui Gesù è il responsabile: “Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo. Egli è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza, e tutto sostiene con la sua parola potente. Dopo aver compiuto la purificazione dei peccati, sedette alla destra della maestà nell’alto dei cieli, divenuto tanto superiore agli angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato”.

È proprio questo ultimo verso a spiegare cosa volesse dire Gesù: il mangiare “di questo pane”è la chiave del discorso, una direzione unica e precisa che ogni uomo, da quando furono pronunciate queste parole, è chiamato a prendere. Per ora stiamo ancora considerando la prima parte di quanto detto da Nostro Signore: mangiare “di questo pane”è un’azione che comporta l’avvicinarsi, prenderlo e cibarsene, cioè farlo profondamente proprio, assimilarlo, quindi ha riferimento con il “credere”che, come più volte sottolineato, è tutt’altro che una semplice presa d’atto. E, certo, comporta delle prese di posizione viste nei due veri “sacramenti” del cristianesimo, il battesimo e la santa cena in cui, assumendo pane e vino, i credenti rinnovano la loro adesione a Cristo obbedendo al comandamento “Fate questo in memoria di me, finché io venga”.

“Se  uno mangia di questo pane vivrà in eterno”, esprime così una condizione, l’unica perché ciò possa avvenire essendo la conseguenza del credere. Poi leggiamo “il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”(v.51), frase che ha generato da allora in avanti una confusione enorme perché presa letteralmente. Subito infatti i Giudei dissero “Come può costui– in senso spregiativo – darci la sua carne da mangiare?”(v.52) e “da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui”(v.66). Sono passi che affronteremo, ma che dicono molto sull’incapacità dell’uomo naturale di comprendere qualsiasi concetto spirituale: esistono le parabole – o per lo meno alcune di loro –, racconti semplici, che rimangono impressi e il più delle volte sono interpretabili anche da un bambino, ma nel momento in cui ci si addentra nelle prime verità nascoste di Dio ecco che la mente carnale subito interviene volendo interpretare correttamente e, non riuscendovi, si arrende nel modo sbagliato, cioè rifiutandole invece che chiedere umilmente a Lui di illuminarlo. Rifiutare un concetto spirituale comporta sia il respingerlo che il giudicarlo, allontanandosene.

Rimaniamo un poco su quanto detto da Gesù finora: la vita eterna la possiede “chi mangia di questo pane”, ma prima, al verso 40, le parole furono “La volontà di colui che mi ha mandato è questa: che chiunque vede il Figliolo e crede in lui, abbia vita eterna, e io lo risusciterò nell’ultimo giorno”, due concetti diversi che portano al medesimo risultato comprendendoli entrambi; “vedere”e “credere”, quindi riconoscere la sua esistenza e presenza spirituale indipendentemente dal tempo in cui si vive. Quando Gesù era sulla terra la gente poteva vederlo di persona e credere o meno, allora come oggi. Ogni credente vissuto dalla morte e resurrezione del Cristo in poi, noi compresi, lo ha visto con gli occhi di chi ce lo ha descritto, in parole e opere, nel Vangelo e in tutti gli scritti che compongono il cosiddetto “Nuovo Testamento”.

Quindi: chi ha mangiato la manna nel deserto morì confermando l’amara constatazione di Salomone “Tutti sono diretti nel medesimo luogo: tutto è venuto dalla polvere e tutto ritorna”(Qoèlet 3.20); chi però afferra l’opportunità di cibarsi del pane disceso dal cielo “vivrà in eterno”perché, pur passando attraverso la morte del corpo, eviterà quella seconda riservata ai “codardi, gli increduli, gli immondi, gli omicidi, i fornicatori, i maghi, gli idolatri e tutti i bugiardi”(Apocalisse 21.8). Si tratta di categorie illuminanti che riguardano tutti coloro che non fanno proprio il sacrificio di Cristo per essere salvati senza produrre quei “frutti degni del ravvedimento”indispensabili a confermare la nuova nascita. Si tratta, ancora, delle stesse tipologie di persone alle quali appartenevamo un tempo. Scrive l’apostolo Paolo che “Tali eravate alcuni di voi, ma siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio!”( 1 Corinti 6.11).

Ancora, sempre in Apocalisse 20.15 leggiamo che “chi non risultò scritto nel libro della vita fu gettato nello stagno di fuoco”, per cui l’uomo non può avere alternative di scampo se non in quel “pane vivo disceso dal cielo”oggi liberamente a disposizione di chiunque. Sono queste parole importanti e mettere i versi di Apocalisse che abbiamo riportato in relazione tra loro è fondamentale perché, lungi dal dividere l’umanità in “buoni e cattivi”, in realtà crea l’insieme dei credenti e dei non credenti, cioè di coloro si nutrono delle parole del Figlio di Dio oppure no, su Lui fanno affidamento e in Lui si nutrono. Amen.

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10.11 – NESSUNO PUÒ VENIRE A ME SE IL PADRE NON LO ATTIRA (Giovanni 6.41-50)

10.11 – Nessuno può venire a me se il padre non lo attira (Giovanni 6.41-50)

41Allora i Giudei si misero a mormorare contro di lui perché aveva detto: «Io sono il pane disceso dal cielo». 42E dicevano: «Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire: «Sono disceso dal cielo»?».

43Gesù rispose loro: «Non mormorate tra voi. 44Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. 45Sta scritto nei profeti: E tutti saranno istruiti da Dio. Chiunque ha ascoltato il Padre e ha imparato da lui, viene a me. 46Non perché qualcuno abbia visto il Padre; solo colui che viene da Dio ha visto il Padre. 47In verità, in verità io vi dico: chi crede ha la vita eterna”.

La cronaca della giornata di Nostro Signore a Capernaum prosegue con “Allora”, cioè “a questo punto”. Quale? Due sono le frasi che avrebbero potuto attirare l’attenzione di quei “Giudei”, termine come sappiamo che si riferisce agli Scribi e Farisei presenti: la prima era quella con cui Gesù si era dichiarato “il pane della vita”, la seconda fu quel “disceso dal cielo”che suscitò le loro rimostranze “teologiche”. Come sempre, quindi, mescolati in mezzo al popolo, c’era chi cercava di raccogliere ogni possibile elemento per poterLo condannare a morte, come annotato da Matteo subito dopo l’episodio della guarigione dell’uomo dalla mano inaridita avvenuto proprio in quel luogo: “Allora i farisei uscirono– dalla Sinagoga – e tennero consiglio contro di lui per farlo morire”(12. 14).

Per capire la loro mentalità, che poi è quella razionale applicata alla Parola di Dio, l’amore per il ragionamento logico che diverse volte è stato citato, va considerato quel “disceso dal cielo”che li fece andare immediatamente, come già avvenuto in Nazareth, alle sue origini: se “Costui”era Gesù, “il figlio di Giuseppe”, per cui era nato come tutti gli altri uomini, non poteva avere nessun’altra origine. Tra l’altro abbiamo qui un particolare interessante, vale a dire che c’era stato chi aveva indagato su di chi Lui fosse figlio, ma senza andare a considerare tutti quei segni chi precedettero la Sua nascita, le profezie o le circostanze che portarono alla venuta di Giovanni Battista, Suo precursore. Certamente era vero, Gesù era un uomo, ma nessun altro era mai stato in grado di parlare come Lui e soprattutto confermare con molti miracoli ciò che sosteneva. Ebbene, quei “segni”da Lui fatti più volte a Capernaum e nelle città vicine, avevano perso immediatamente, per i Giudei, ogni valenza. Ecco qui applicata la lettera che uccide in contrapposizione allo Spirito che vivifica, la logica che annienta, nega ignorando il divino avvenuto. Così come ho sentito dire che Gesù non era Dio perché un dio non può morire – naturalmente negando la risurrezione –, qui Gesù non avrebbe potuto dire di essere disceso dal cielo perché figlio di Giuseppe, un umile falegname.

Va rilevato che Nostro Signore non si mette a discutere con loro cercando di convincerli che sì, era nato come tutti, ma preceduto da profezie che lo indicavano inequivocabilmente come il Salvatore, estendendo e spiegando cosa significasse essere “Figlio di Davide”ma, primo, li invita a non mormorare tra loro, cioè parlare di argomenti delicati in tono malizioso esprimendo malcontento a mezza voce, fare maldicenza. Poi enuncia una verità spirituale molto importante vista nelle parole “Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno”(v.44).

Abbiamo qui una verità che fa riferimento al piano del Padre per ciascun uomo che ha creduto, crede e crederà nel Figlio. Non potrebbe essere altrimenti perché è Lui l’Autore della Creazione e il Figlio quello della vita: all’Uno appartengono le leggi dell’universo, quindi quelle fisiche, chimiche, all’altro quelle della biologia naturale e spirituale. Il Padre è lo Scrittore tanto delle tavole date a Mosè, compilate da destra a sinistra, ma soprattutto di quel “libro della vita”che solo il Figlio, l’Agnello, è in grado di aprire avendo la signoria sui sette sigilli, cioè quei tempi ed eventi destinati a contrassegnare la storia umana fino alla fine del creato che conosciamo. E dal momento in cui i nomi dei salvati sono scritti in quel libro, va da sé che il Padre attiri al Figlio coloro che lì sono registrati.

Pensiamo a quelli che si erano messi alla ricerca di Gesù quel giorno: la maggioranza lo aveva fatto perché volevano mangiare ancora quel pane ricevuto a Bethsaida e non per saziare la loro anima. Chi non è attirato dal Padre, quindi, non potrà che far parte di una religione vuota, o purtroppo di quel cristianesimo malato oggi dilagante, quello che pone l’uomo al centro di ogni cosa, quello dei “Nicolaiti”, delle grandi cerimonie, di quelle manifestazioni di massa vuote, inutili, fuorvianti. Chi non va al Figlio si costruisce una religione che vuole un dio su misura e così facendo si allea con l’Avversario che progetta e sostiene l’idea di un impero politico e religioso per giustificare ogni abuso. Quanti crimini sono stati commessi nel nome di una fede che tale non è? Al religioso non interessa trovare e scavare nelle profondità di Dio, ma vuole delle norme, una tradizione con la “T” maiuscola, del precetti comodi di cui servirsi all’occorrenza e all’occorrenza trascurare senza crescere, mettersi in discussione ogni suo atto.

Il piano di Dio Padre per l’uomo, invece, contempla che questi creda nel Figlio e in Lui viva per essere resuscitato “nell’ultimo giorno”, cioè là dove mai prima di quel momento vi sarà un confine netto tra la vita e la morte perché sarà solo allora che diventeranno davvero eterne. E se molti hanno paura della morte, molto di più dovrebbero averne della seconda.

A questo punto Gesù riporta le parole “E tutti saranno ammaestrati da Dio”, che vogliono essere prima un insegnamento a quei mormoratori che Lo denigravano. Si tratta di una realtà troviamo annunciata in quattro passi, numero non casuale, il primo dei quali in Geremia 31.33,34: “Questa sarà l’alleanza che concluderò con la casa d’Israele dopo quei giorni – oracolo del Signore –: porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò loro Dio ed essi saranno mio popolo. Non dovranno più istruirsi l’un l’altro dicendo «Conoscete il Signore», perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande – oracolo del Signore –, poiché perdonerò le loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato”.

Qui gli oppositori di Gesù avrebbero avuto modo di fare una prima riflessione: Geremia profetizza il ritorno del popolo dalla cattività e l’incontro col Messia con le relative conseguenze. Da notare come sia annunciato un nuovo patto che si sarebbe manifestato con la conoscenza del Signore senza che fosse più necessario insegnarla e apprenderla fin da bambini, come prescritto nella Legge. Geremia annuncia una conoscenza di Dio personale, unica, identitaria.

Il secondo verso lo troviamo in Ezechiele 11.19-20: “Darò loro un cuore nuovo, uno spirito nuovo metterò dentro di loro. Toglierò dal loro petto il cuore di pietra, darò loro un cuore di carne, perché seguano le mie leggi, osservino le mie norme e le mettano in pratica: saranno il mio popolo e io sarò il loro Dio”. Senza un intervento del Creatore, l’uomo avrà sempre e solo un cuore di pietra, cioè immobile, incapace di dare un battito, protagonista di una non-vita. Il cuore di pietra ha neuroni della stessa sostanza per cui va da sé che i suoi sentimenti siano indirizzati alla morte, siano e restino immobili – pietrificati, appunto – ma il Padre promette un intervento chirurgico che si sarebbe concretato con la venuta del Figlio e, naturalmente, con la fede in Lui. Gli oppositori di Gesù, conoscendo questo verso, avrebbero avuto modo di considerarne anche il successivo: “Ma su coloro che seguono con il loro cuore i loro idoli e i loro abomini farò ricadere la loro condotta”(v.21). Anche qui un riferimento a un cuore che rimane di pietra, rifiutando l’intervento di Dio e restando ancorato ai propri idoli, alla religione fatta di elementi inutili a salvare, quindi estraneo alla vera Vita che non conosce fame né sete.

Terzo passo sempre in Ezechiele, ma in 36.26,27 che riporta alcune parole del precedente: “Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre impurità e da tutti i vostri idoli, vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo le mie leggi e vi farò osservare e mettere in pratica le mie norme”. Sono parole che esprimono l’impossibilità, da parte dell’essere umano, a fare alcunché senza un intervento diretto di Dio Padre che “aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti”, ma “ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo. Questo Figlio, che è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza e sostiene tutto con la potenza della sua parola, dopo aver compiuto la purificazione dei peccati, si è assiso alla destra della maestà nell’alto dei cieli, ed è diventato tanto superiore agli angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato”(Ebrei 1.1-4).

Quarto e ultimo riferimento, ma che possiamo anche intendere come primo e unico per la presenza della congiunzione “e”, è reperibile in Isaia 54.13, per quanto occorra una traduzione corretta e non interpretata: la versione della C.E.I. che solitamente utilizzo perché più scorrevole, infatti, non rende possibile il collegamento con la citazione di Gesù e, qui come in altri punti, è fortemente limitante. Abbiamo infatti: “Tutti i tuoi figli saranno discepoli del Signore, grande sarà la prosperità dei tuoi figli; sarai fondata sulla giustizia”. Giovanni Diodati però, attento a tradurre più consapevolmente, scrive “E tutti i tuoi figli saranno istruiti dal Signore, e la pace dei tuoi figli sarà grande”.

Gesù quindi ricorda, inascoltato, che quello era il tempo dell’istruzione in attesa dell’epoca definitiva in cui la conoscenza e visione di Dio sarebbe stata perfetta.

Le Sue parole proseguono: “Chiunque ha ascoltato il Padre e ha imparato da lui, viene a me”(v.45). Proprio loro, gli Scribi e i Farisei, che avevano fondato la propria vita – ma purtroppo anche  l’orgoglio – sulla ricerca e lo studio, erano diventati incapaci di ascoltare; proprio loro, che per umiliare il prossimo usavano spesso il detto “Va e impara”. Qui si tratta di ascoltare e imparare dalla Fonte per eccellenza di ogni cosa per cui ogni nostra idea, moto d’animo o convinzione, deve tacere per lasciare spazio alla Parola. Credo che solo allora sia possibile imparare da Lui e infatti la Scrittura ci mostra che ogni volta che l’uomo ha voluto portare avanti sé stesso ha conosciuto unicamente la non rivelazione e si è perso, rimanendo quello di sempre.

Ha scritto un fratello a commento di questo verso: “…l’udire e l’imparare dal Padre significano la stessa cosa, cioè l’illuminazione interna e la forza di credere, che Dio, mediante il suo Spirito, produce nella conversione; e tutti quelli che avranno ricevuto un tal dono verranno volontariamente, a con assoluta certezza, a Cristo”.

Infine abbiamo la descrizione della superiorità del Cristo su qualunque altro uomo o profeta poiché, se questi Dio non lo hanno mai visto eppure di Lui hanno parlato, Gesù sì e può rivelarLo come nessun altro: “Solo colui che viene da Dio– ora in mezzo a loro, disceso dal cielo – ha visto il Padre”(v.46) per cui “In verità, in verità vi dico: chi crede ha vita eterna”, verso in cui la nostra traduzione omette il fondamentale “in me”. Credere non serve a nulla se l’oggetto della fede non è Gesù Cristo, altrimenti la Sua morte e resurrezione sarebbero state del tutto inutili così come tutto quanto detto da Lui sarebbe privo di significato. Avere la “vita eterna”è l’entrare in possesso dell’unica identità possibile per non soccombere nell’ultimo giorno, per poter sopravvivere in un mondo retto da un principe che, per quanto destinato alla distruzione, non per questo è impotente. Amen.

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10.10 – IL PANE DISCESO DAL CIELO (Giovanni 6-30-40)

10.10 – Il pane disceso dal cielo (Giovanni 6.30-40)

30Allora gli dissero: «Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo? Quale opera fai? 31I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta scritto: Diede loro da mangiare un pane dal cielo».32Rispose loro Gesù: «In verità, in verità io vi dico: non è Mosè che vi ha dato il pane dal cielo, ma è il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero. 33Infatti il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo». 34Allora gli dissero: «Signore, dacci sempre questo pane». 35Gesù rispose loro: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai! 36Vi ho detto però che voi mi avete visto, eppure non credete. 37Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me: colui che viene a me, io non lo caccerò fuori, 38perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato. 39E questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno. 40Questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno»”.

Un particolare importante che non abbiamo avuto modo di considerare nel capitolo scorso, ce lo fornisce Giovanni al verso 59: “Gesù disse queste cose insegnando nella sinagoga a Capernaum”, non necessariamente di sabato: fu allora lì che lo trovarono e che l’invito “Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane a vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà”fu rivolto in quel contesto.

Sentendo quelle parole la gente, profondamente incredula nonostante la conoscenza delle Scritture, chiede a Gesù, dopo tutti i miracoli compiuti compreso quello dei pani e dei pesci, “Quale segno tu compi perché vediamo e crediamo?”. Ricordiamo ciò che dissero subito dopo essere stati sfamati: “Questi è davvero il profeta, colui che viene nel mondo!”(Gv. 6.14). Teniamo comunque presente questi due verbi, perché poi li confronteremo con altrettanti, che troviamo al verso 35, “venire” e “credere”. Il riferimento al mangiare la manna nel deserto ci parla sì della conoscenza che i presenti avevano delle Scritture, ma della loro reale cecità e dell’incapacità di rapportare ciò sapevano delle cose di Dio al tempo che vivevano. Erano incapaci di credere sulla base delle profezie e delle promesse dell’Antico Patto. Purtroppo questo si nota anche oggi nel cristianesimo perché credere in Gesù Cristo rimanendo ancorati a se stessi, rifiutando il cammino preparato per noi restando quelli di prima, quelli di sempre, equivale e non riconoscerlo come l’Unico Inviato da Padre per la nostra salvezza. Non possiamo, in altri termini, instaurare un rapporto con il Figlio senza diventare parte di lui e quindi cambiare profondamente. E qui ci raccordiamo al significato del verbo “credere” che non significa accettare come vero un fatto o un principio per poi disinteressarsene, ma adesione e rinnovamento continuo.

Certo chiedere un segno, da parte di quella gente, sarebbe stato legittimo se Gesù si fosse presentato all’improvviso, venendo da chissà dove per la prima volta, senza che nessuno ne conoscesse le origini, ma non fu così: la domanda dei presenti fu cieca, analoga a quella degli abitanti di Nazareth che volevano anche presso di loro i “segni” fatti a Capernaum e dintorni, oppure di quei Farisei che gli dissero “Maestro, noi vorremmo vedere da te un segno”ottenendo in risposta “Una generazione malvagia e adultera– spiritualmente – chiede un segno! Ma non le sarà dato alcun segno, se non il segno di Giona, il profeta”(Matteo 23.38 e segg.), cioè quello della Sua morte e resurrezione, prova indiscutibile del Suo essere Figlio di Dio.

Sono convinto che l’accostamento a Mosè e alla manna non fu casuale, poiché chi parlò a Gesù avrebbe potuto ricordare altri segni fatti da quel profeta: pensiamo alla roccia percossa nel deserto che diede acqua, o a quelli fatti con lo scopo di spingere il faraone e lasciare andare il popolo, le acque del mar rosso che si aprirono e poi si chiusero sommergendo l’esercito egiziano. Scelsero, come citazione, quella di “un pane dal cielo”che doveva essere raccolto al mattino e consumato nell’arco della giornata. Ricordiamo le parole di Esodo 16.17,18: “Ne raccolsero chi molto, chi poco. Si misurò con l’omer– unità di peso di circa 1,2 Kg. –: colui che ne aveva preso di più, non ne aveva di troppo; colui che ne aveva preso di meno, non ne mancava. Avevano raccolto secondo quanto ciascuno poteva mangiarne”. La disponibilità dell’amore di Dio che dà a ciascuno secondo il suo bisogno, già allora.

Quel “pane dal cielo”, che rappresentava le attenzioni di Dio per il suo popolo era figura del cibo perfetto che sarebbe venuto un giorno e che ora era lì, davanti a quella gente dubbiosa che chiedeva di vedere per credere, cioè toccare con mano, senza la minima dose di fede che contraddistinse tutti coloro che beneficiarono dell’intervento diretto di Gesù: se il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci fu per tutti coloro che si trovarono là, quelli di guarigione non poterono mai avvenire senza l’accettazione del Cristo e Signore. C’era quindi bisogno sì di pane, ma non di quello d’orzo: serviva “quello vero”, cioè l’unico che avrebbe sfamato una volta per sempre poiché l’incontro con Gesù si rinnova ogni giorno, se gli uccelli non passano a mangiare il grano o non cade in buona terra. Il “pane di Dio” inteso come manna era allora una figura di quello vero che sarebbe “disceso”un giorno, verbo che ci parla della spogliazione di Gesù come Dio per vestire la forma e la sostanza dell’essere umano, la creatura caduta perché sedotta, indotta a seguire un’illusione. Ecco il perché delle parole “Il pane di Dio è colui– non “quello” – che discende dal cielo e dà la– notare l’articolo – vita al mondo”. La vita vera, eterna.

Forse alcuni dei presenti capirono di aver frainteso e che vi era molto di più al di là della manna e dei pani d’orzo che avevano mangiato, ma la richiesta fu: “Signore, dacci sempre di questo pane”, dove quel “sempre”denota che volevano avere Gesù ancora come re, che desideravano restasse con loro a garantire prosperità e assistenza, ma non spirituale. Volevano un pane per la vita naturale. Quella gente fraintendeva un messaggio che veniva dallo Spirito Santo, e diversamente non poteva certo essere, ma proprio quel loro non capire ci consente di stabilire un’importante verità, e cioè che chi ascolta le parole di Dio con la carne, non può che interpretarle carnalmente per cui non arriverà mai a comprenderne il significato corretto. L’uomo deve sapere che, se non cerca Cristo per porre rimedio alla fame e sete dello spirito, non troverà mai alcun beneficio o rimedio al di là di un pregare, magari in forme coreograficamente belle e suggestive, il nulla e il vuoto. Pregare il vero Dio con presupposti sbagliati, equivale a predicarne uno finto perché il risultato sarà lo stesso.

Le parole “Io sono il pane della vita”con cui Nostro Signore risponde sono una dichiarazione di unicità: Lui e nessun altro lo è, e contengono un’indicazione e un avvertimento al tempo stesso, poiché il Suo è l’unico nome dato agli uomini per essere salvati. È, come sappiamo, un nome che è al di sopra di ogni altro, datogli da Padre: “Gli ha dato un nome che è al di sopra di ogni altro nome perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami «Gesù è il Signore!» a gloria di Dio Padre”(Filippesi 2.9-12). Facciamo attenzione: abbiamo letto “ogni ginocchio”, quindi anche di coloro che non lo avranno riconosciuto come Figlio di Dio, che avranno combattuto Lui direttamente nel corpo fisico o in quello spirituale che è la Chiesa. Proclamare che “Gesù è il Signore!”perché costretti dall’evidenza e dall’impossibilità di non poterlo fare, non potrà dare però alcuna salvezza, ma solo giudizio.

“Chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai”: prima abbiamo visto il vedere per credere, cioè una condizione ridicolmente posta dall’uomo quasi possa fare un favore a un ipotetico dio lontano, qui abbiamo un “venire” e “credere”, quindi una situazione completamente diversa. Venire a Gesù suscita alla mente l’idea un’azione quasi inevitabile, istintiva, naturale, un andare a Lui per serenamente discutere, metterlo alla prova non polemicamente, ma quasi implorandone l’intervento rivelatore. Chi viene a Lui non avrà fame perché constaterà che solo in Lui vi può essere la giusta dimensione, l’avere “tutto pienamente”di cui parlò l’apostolo Paolo. Chi viene a Cristo trova un pane che, una volta assunto, pone chi lo ha preso nelle condizioni di riconoscere che in Lui c’è effettivamente la vita per cui affidarglisi è inevitabile. E nel momento in cui si crede – con la continuità e tutto quel che ne deriva – la sete diventa solo un ricordo affievolito visto in quel “Mai” con cui Giovanni conclude le parole del suo Maestro.

Esposte con pochissime parole gli effetti della fede in Lui, Gesù passa ad illustrare le dinamiche interne del credere: quando un peccatore, cioè chiunque vive la propria vita in modo contrario alle aspettative e agli ideali di Dio, si converte, cioè “viene”e “crede”, non è  un qualcosa che si verifica per caso: “Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me”. È una situazione che mi ricorda gli animali che entrarono nell’arca costruita da Noè senza che li andasse a cercare, seguendo un istinto che il Signore aveva posto in loro. E in quel “verrà a me”possiamo distinguere un’azione compiuta responsabilmente, già con una disposizione favorevole che contempla una resa.

“Colui che viene a me, io non lo caccerò fuori”, quindi promessa di accoglimento. Solo l’interessato, uomo o donna che sia, può scegliere deliberatamente di allontanarsi da Lui e, quindi, si “caccia fuori” da solo esattamente come si ritorna a provare la fame e la sete di prima. Perché abbiamo senso e rivestiamo dignità, come esseri umani, solo se rimaniamo uniti a Lui. Viceversa, siamo solo rami secchi, buoni al massimo per il fuoco. Inutili nonostante ciò che di buono o di cattivo avremo fatto.

Nei versi conclusivi, poi, vediamo che l’accoglienza di Gesù prevede un piano e un posto preciso per ciascuno: “Questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno”. Abbiamo rilevato tempo da che Abrahamo trovò la forza di sacrificare Isacco perché sapeva che sarebbe risuscitato, quindi la sua morte sarebbe stata un transito e non una fine: allo stesso modo qui troviamo accennato il piano di Dio per chiunque crede in Lui, cioè la resurrezione nell’ultimo giorno, quello con cui si chiuderà definitivamente la storia del mondo che conosciamo.

Nel non perdere “nulla di quanto egli mi ha dato”vediamo, in embrione, ciò che Gesù stesso svilupperà con queste parole: “Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è il più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola”(Giovanni 10.27-30). Qui, allora, abbiamo il mistero dell’amore del Padre e del Figlio che, così immensamente santi e puri, hanno accolto persone come noi. Amen.

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10.08 – GESÙ CAMMINA SULL’ACQUA 2/2 (Matteo 14.24-33)

10.8 – Gesù cammina sull’acqua 2 (Matteo 14.24-33) 

24La barca intanto stava già molte miglia da terra ed era agitata dalle onde: il vento infatti era contrario. 25Sul finire della notte egli andò verso di loro camminando sul mare. 26Vedendolo camminare sul mare, i discepoli furono sconvolti e dissero: «È un fantasma!» e gridarono dalla paura. 27Ma subito Gesù parlò loro dicendo: «Coraggio, sono io, non abbiate paura!». 28Pietro allora gli rispose: «Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque». 29Ed egli disse: «Vieni!». Pietro scese dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. 30Ma, vedendo che il vento era forte, s’impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: «Signore, salvami!». 31E subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?». 32Appena saliti sulla barca, il vento cessò. 33Quelli che erano sulla barca si prostrarono davanti a lui, dicendo: «Davvero tu sei il Figlio di Dio!»”.

Nello scorso capitolo abbiamo cercato di esaminare il contesto umano e spirituale in cui si svolse la prima parte dell’episodio. Ora, guardandolo più da vicino, consideriamo il dettaglio che troviamo solo in Marco, e cioè che “…egli andò verso di loro, camminando sul mare, e voleva oltrepassarli”(6.48): fu Pietro, che com’è noto è la fonte principale di questo Evangelista, a rivelarglielo e quindi fu un particolare che gli rimase impresso. Come gli altri suoi compagni fu sconvolto e spaventato da quella visione, ma ebbe il tempo di rendersi conto che, pur venendo nella direzione della barca, Gesù non sembrava intenzionato a volerli effettivamente raggiungere. E, con gli altri, si mise a gridare non per chiamarlo, ma perché ebbe paura. Fu così che, di fronte a quella reazione, Nostro Signore si avvicinò a loro dicendo “Coraggio, sono io, non temete!”.

C’è allora questo metodo, che Gesù usa ancora verso di noi, per provarci: non che lui non sappia come reagiremo, ma piuttosto si comporta così perché possa essere il credente a valutarsi per una conoscenza reciproca. Avendo citato recentemente il sacrificio di Isacco, la frase “Ora so che temi Iddio”era la dichiarazione ufficiale con Abrahamo veniva informato di aver superato la prova cui era stato sottoposto: certo il Signore sapeva come si sarebbe conclusa, ma Abrahamo no e fu solo nel momento in cui si sentì pronunciare quelle parole che capì quanto avvenuto, non prima. E abbiamo già parlato del fatto che quest’uomo fondò le sue azioni sulla fede nella resurrezione di Isacco e non sul fatto che la sua mano, armata di coltello, sarebbe stata fermata all’ultimo momento.

Arrivati al verso 27, dopo le parole di Gesù tese a calmare i discepoli, ecco Pietro manifestare il suo carattere particolare: non convinto che il suo Maestro fosse corporalmente reale, gli fa una richiesta del tutto particolare; sarebbe stato molto più ovvio chiedergli di calmare la tempesta come aveva già fatto in un’altra occasione (8.23-27) o rivolgersi una richiesta di un generico aiuto, ma abbiamo letto “Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque”. “Se sei tu”: la mente razionale e umana di Pietro non poteva concepire che Gesù potesse camminare sull’acqua, sapendo che era una cosa contraria a qualsiasi legge fisica; di qui, la convinzione che la Sua fosse una presenza irreale, una visione, un’allucinazione, un fantasma per quanto non inteso come la superstizione pagana ci ha tramandato. Se quindi Gesù aveva messo alla prova i Suoi presentandosi in quel modo, ora Pietro mette alla prova Lui, ma quella richiesta gli si rivolterà contro. La risposta di Gesù fu di una semplicità sconcertante nella sua naturalezza, “Vieni!”ed è su questo punto che credo occorra riflettere.

Camminando sulle acque agitate, abbiamo la dimostrazione del Salmo 77 citato nello scorso capitolo e del dualismo che caratterizzava Gesù come Figlio di Dio e Figlio dell’uomo, ma non di uno spirito o una figura irreale. Giovanni, infatti, anche per confutare una teoria che iniziava a prendere piede nella Chiesa, scrisse “Dio si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”. Una “carne”su cui lo Spirito prevaleva a tal punto da variarne il peso consentendogli non di “galleggiare” sull’acqua, ma in posizione eretta e di spostarsi. Gesù cammina, quindi dimostrando di dominare gli elementi, non li sorvola. Certo quanto stava accadendo era assolutamente reale, ma nel particolare del Signore che passa c’è un significato importante poiché il mare, nella Scrittura, non è un elemento che suscita un senso di contemplazione e pace come nella maggior parte di noi, ma è figura di ciò che incombe, è instabile, tumultuoso, incontrollabile, caotico, che spaventa, strumento che prelude al giudizio di Dio come fu nel caso dell’esercito di Faraone nel libro dell’Esodo e come sarà con la “Bestia che sale dal mare”o come “il drago” che si fermò sulla sua riva nel libro dell’Apocalisse.

Ebbene l’invito di Gesù a Pietro ad andare verso di lui si rifaceva alle sue possibilità in quanto affidatario di un mandato che aveva perché tra i due c’era identità: non aveva forse detto “Chi accoglie voi accoglie me”? (Matteo 10.40). Pietro quindi, autore come gli altri dodici di miracoli non narrati dai Vangeli nel periodo di missione dal quale era tornato da poco, qui riceve dal suo Maestro anche la possibilità di camminare sulle acque. E infatti, per un breve lasso di tempo, riesce a farlo ma, attenzione, senza credere fino in fondo. Il dubbio, l’idea del pericolo degli elementi naturali ebbe presto il meglio, fu dominante sulla fede e sulla parola rivoltagli dal Signore lì presente. E per questo, “vedendo che il vento era forte, s’impaurì”e, attenzione, “cominciò ad affondare”: non è che sprofondò di colpo, ma gradatamente, così come noi altrettanto poco a poco ci possiamo preoccupare, intimorire, allontanarci dalla ferrea convinzione, che evidentemente proprio ferrea non è, di essere costantemente amati e curati. E così il nostro vecchio uomo di terra, sempre lo stesso da migliaia di anni, ha la meglio, prende il sopravvento. E sprofonda nell’acqua e non gli resta altro che gridare“Signore, salvami!”, quasi che ve ne fosse bisogno, visto che lo ha già fatto, che è con noi “tutti i giorni fino alla fine del mondo”come sappiamo.

Al verso 31 leggiamo che “Subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?». Un rimprovero molto amaro, ma non solo, poiché in quella frase esiste tanto il rimprovero, nella prima parte, quanto la cura. In altri termini Pietro fu sì umiliato, ma con la domanda “Perché hai dubitato?”Nostro Signore volle spingerlo a cercare le ragioni del suo fallimento con una vera e propria auto analisi. Non fu una domanda alla quale Pietro avrebbe dovuto rispondere a Gesù, ma a se stesso.

“Uomo di poca fede”è la diagnosi che Gesù fa all’apostolo ed è la stessa di tutti noi ogniqualvolta le nostre reazioni negative ci qualificano come tali. Ecco perché la vita cristiana è difficile, potremmo dire umanamente impossibile: oggi si professa la fede, domani per mille ragioni possiamo avere un comportamento che la contraddice anche in un solo punto, al quale se ne aggiunge un altro e poi un altro ancora fino a quando non si sprofonda e, nel panico, si teme di affogare.

Spesso penso a Gesù, che nonostante il successo episodico del dodici fu sempre costretto ad intervenire giungendo anche al punto da esprimersi in modo negativo su di loro. Leggiamo infatti, dopo il lamento di quel padre col figlio epilettico “L’ho portato dai tuoi discepoli, ma non sono riusciti a guarirlo”le parole “O generazione incredula e perversa! Fino a quando sarò con voi? Fino a quando dovrò sopportarvi? Portatelo qui da me”(Matteo 17.16,17). Poco dopo, presumo umiliati e con timore, “i discepoli si avvicinarono a Gesù, in disparte, e gli chiesero: «Perché noi non siamo riusciti a scacciarlo?». Egli rispose loro: «Per la vostra poca fede. In verità in verità io vi dico: se avrete fede pari ad un granello di senape, direte a questo monte: «Spostati da qui a là» ed esso si sposterà, e nulla vi sarà impossibile»”.

Cosa si può aggiungere a queste parole? Il concetto di fede viene qui ampliato a tutti gli aspetti della nostra vita. È qualcosa che non ci riguarda solamente quando preghiamo, leggiamo la Scrittura, ma che coinvolge ogni nostro respiro.

Certo Pietro, che fidandosi del suo Maestro scese dalla barca e poté stare in piedi sull’acqua, in quel momento era come Lui. Ma non appena questa sua condizione mentale e spirituale cessò, ecco che gli effetti furono opposti. La fede, quindi, non è il risultato di un lungo processo di autoconvincimento, di concentrazione, ma  una condizione che si esplica tramite tutta una serie di pensieri costantemente rivolti a Dio come presenza e come unione stretta con noi. È un desiderio di vita che proviene dall’acquisizione del principio in base al quale tutto ciò che incontriamo nel nostro cammino terreno è inevitabilmente contaminato e contaminante, è un filtrare continuo non dettato dalla mente, ma dallo Spirito che deve ritrovarsi sempre a dominare. Chi seleziona ciò che lo circonda nel senso religioso del termine, ponendosi sopra tutto e tutti, sbaglia e finisce per sentirsi appunto superiore agli altri, li giudica, si ritrae con orrore convinto di essere più santo di loro quando in realtà è peggiore, come insegna la nota parabola del Fariseo e del pubblicano.

La presenza dello Spirito, in relazione alla Parola di Dio che è spada a due tagli, ci consente di scegliere sempre quella “via”fatta di selezione di comportamenti, iniziative, rapporti con le persone, è quella che aiuta ad andare avanti, oltre, al di sopra. La strada in salita che ogni cristiano ha davanti a sé è qualcosa che chiama e non uno sforzo impossibile o già perso in partenza.

L’episodio si conclude con una descrizione liberatoria, “Appena saliti sulla barca, il vento cessò”perché quando Gesù entra ad occupare uno spazio nella vita dell’uomo, rappresentato dalla barca, tutto cambia. E il cristiano deve tenere un posto a Cristo nella sua vita sempre, perché altrimenti non vi sarà nulla che potrà distinguerlo dagli altri suoi simili. Potrà frequentare una Chiesa, potrà stare in mezzo ad altri fratelli, ma, senza avere il Signore come ospite dentro di lui, sarà un anonimo, una persona che non potrà portare alcunché di luminoso e resterà senza nulla per scaldarsi.

Credo che nel nostro cammino il cristiano di oggi porti una responsabilità diversa da quella dei dodici, che avevano sempre con loro il Signore e a loro potevano chiedere qualunque cosa anche in merito alle proprie scelte: oggi Lui parla attraverso lo Spirito Santo, il Consolatore dato perché non fossimo lasciati soli, ma “senza la fede è impossibile essergli graditi; chi infatti si avvicina a Dio, deve credere che egli esiste e che ricompensa coloro che lo cercano”(Ebr.11.6). E sappiamo che quel “deve credere”non ha nulla a che vedere con un autoconvincimento, il fondarsi su un principio irreale perché viene personalmente constatato.

C’è una nota interessante che riporta Giovanni, altro testimone dell’episodio e che integra quell’ “Appena saliti sulla barca, il vento cessò”, e cioè “Allora vollero prenderlo sulla barca, e subito la barca toccò la riva alla quale erano diretti”(6.21): cosa successe? Gesù suscitò un vento favorevole per cui alzarono le vele e giunsero subito a destinazione? Non credo. Piuttosto quel “subito”si riferisce alla proporzione del tempo che i dodici avrebbero impiegato con il vento contrario oppure no, non senza considerare il loro stato d’animo, finalmente tranquillo e soprattutto sicuro della protezione che avrebbero avuto. Nel verso di Giovanni, soprattutto, c’è un riferimento alla differenza che c’è fra quando un essere umano lascia Gesù fuori dalla sua vita e quando lo lascia entrare.

C’è anche chi ha supposto che il fatto di aver raggiunto l’altra riva “subito”costituisca il quarto miracolo di quelle ore, avvenuto dopo la moltiplicazione dei pani e dei pesci, di Gesù che cammina sulle acque, di quanto avvenne a Pietro ed il cessare del vento: comunque sia, resta fermo il principio degli effetti che ha la presenza di Cristo nel momento in cui viene ad occupare uno spazio nella vita che ciascuno di noi gli concede. Amen.

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10.07 – GESÙ CAMMINA SULL’ACQUA 1/2 (Matteo 12.24-33)

10.7 – Gesù cammina sull’acqua 1/2 (Matteo 14.24-33)

24La barca intanto stava già molte miglia da terra ed era agitata dalle onde: il vento infatti era contrario. 25Sul finire della notte egli andò verso di loro camminando sul mare. 26Vedendolo camminare sul mare, i discepoli furono sconvolti e dissero: «È un fantasma!» e gridarono dalla paura. 27Ma subito Gesù parlò loro dicendo: «Coraggio, sono io, non abbiate paura!». 28Pietro allora gli rispose: «Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque». 29Ed egli disse: «Vieni!». Pietro scese dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. 30Ma, vedendo che il vento era forte, s’impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: «Signore, salvami!». 31E subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?». 32Appena saliti sulla barca, il vento cessò. 33Quelli che erano sulla barca si prostrarono davanti a lui, dicendo: «Davvero tu sei il Figlio di Dio!»”.

Episodio conosciuto da tutti, è quasi contemporaneo, almeno inizialmente, alla preghiera di Gesù sul monte: ricordiamo che agli apostoli era stato ordinato di andare a Betsaida precedendolo anche se poi tutti, dopo quella notte, approderanno a Capernaum. Abbiamo letto un racconto che s’imprime facilmente nella memoria, quasi fosse una parabola, chiaro nelle sue dinamiche, ma per questo impegnativo perché ci costringe a cercare di andare oltre l’immediato del mare, del vento, di Pietro che inizialmente cammina sull’acqua e si spaventa e, infine, del rimprovero che gli viene rivolto. Allora, con questi ricordi “immediati”, cerchiamo di approfondire il verso 24 e il senso di contemporaneità degli eventi che suggerisce.

L’incontro sul monte di Nostro Signore col Padre possiamo supporre sia stato caratterizzato, tra i tanti contenuti che ebbe, da una preghiera di ringraziamento per l’avvenuto miracolo dei pani e dei pesci e di considerazioni su quell’entusiasmo, tanto spontaneo quanto fraintendente, della folla che avrebbe voluto farlo re. Da qui le preghiere per lei, per quel popolo “di collo duro”tra i quali c’erano delle anime bisognose (e desiderose) di salvezza. Riflessioni congiunte del “Dio con noi”con quello che abitava “i cieli altissimi”sull’opera compiuta e da compiere, sui discepoli e sui dodici che tanto cammino avevano ancor davanti per conoscerLo veramente, oltre a quei contenuti che non ci sono stati rivelati. La preghiera di Gesù uomo al Padre fu quindi da un lato simile a quella che eleviamo anche noi, ma al tempo stesso profondamente distante perché elevata da Uno consapevole del Tutto, quindi anche di ciò che sarebbe avvenuto di lì a poche ore dopo, cioè l’incontro con i dodici sulla barca, e di quanto stava accadendo con quel forte vento che scende sul lago di Galilea dai monti circostanti all’improvviso, quando uno meno se lo aspetta e che, quando soffia con forza, mette in crisi i navigatori più esperti, quelli locali abituati a fronteggiarlo.

E qui, come già accennato, il verso 24 mette in contrapposizione due realtà, quella di Gesù e dei dodici, il primo tanto in preghiera quanto presente in spirito con loro, i secondi lì, sulla barca, a riversare tutti i loro sforzi nel remare dopo avere ammainato la vela, essendo “il vento contrario”, un’esperienza estremamente faticosa solo guardandola dal suo lato fisico. Questo verso, da parte dei dodici, ci descrive uno sforzo che durò circa dieci ore perché sappiamo che partirono al tramonto e videro Gesù solo “Sul finire della notte”, traduzione che semplifica l’originale “Nella quarta vigilia della notte”.

Aprendo una finestra sullo spazio naturale della notte, cioè dal tramonto all’alba, era suddiviso dagli antichi Ebrei in tre parti, dette “veglie”, di quattro ore l’una: la prima era chiamata “Il principio della veglia” (Lamentazioni 2.19) e andava dalle nostre 18 alle 22; la seconda era “La veglia della mezzanotte” (Giudici 8.19) dalle 22 alle 02 e la terza, “La veglia della mattina” dalle 02 alle 06. Gli Ebrei però, al tempo di Gesù, avevano adottato la suddivisione romana, a sua volta presa dai Greci, che aveva istituito quattro vigilie di tre ore l’una. Leggendo Marco 13.35 “Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino”, ci rendiamo conto che era questo il criterio adottato. La “quarta vigilia della notte”, o “Sul finire della notte”, indicano allora un periodo oscillante tra le 03 e le 06 antimeridiane.

Pensiamo allora cosa può aver rappresentato quel periodo per i dodici, in cui si trovavano senza il loro Maestro in cui, a parte il dover prestare la massima attenzione per tenere la barca, avevano certamente preso atto che avevano percorso solo, come riporta Giovanni che era lì, “venticinque o trenta stadi” (6.19), cioè circa 5 km. Abbiamo allora spiegata la ragione dell’ordine dato loro da Gesù di andare “verso Betsaida”: voleva che capissero come, nonostante gli sforzi che avrebbero fatto, senza di lui non ci sarebbe stato alcun risultato, come dirà più avanti certo che i discepoli avessero compreso questo principio: “senza di me non potete far nulla”. Da notare, poi, che ciò è preceduto dalla descrizione dell’unione tra loro e Lui: “Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato”(Giovanni 15.4-7).

C’è una riflessione importante che possiamo fare sul verso 24, che fa riferimento a molte ore di fatica e al senso di impotenza e smarrimento che provarono i dodici, come ha scritto un fratello: “questo accade anche a noi quando siamo particolarmente travagliati ed affaticati da tante cose non determinate dalla nostra volontà: siamo portati a pensare che Gesù non sappia, non veda, non intervenga, ma questo non è vero, avendo Lui stesso promesso di essere vicino ad ognuno di noi per tutti i giorni della nostra vita fino alla morte”. Infatti in Matteo 28.20 leggiamo “Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo”, frase che coinvolge tutti i credenti da allora in poi, e riguarda anche coloro che si convertiranno in quel periodo terribile conosciuto col nome di “gran tribolazione”. E credo che ogni vero cristiano non possa che testimoniare un’altra profonda verità espressa in 1 Corinti 10.13: “Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via d’uscita e la forza per sopportarla”.

Personalmente posso testimoniare che, nel momento in cui sono caduto, confrontandomi con questo passo, non ho potuto fare altro che riconoscere la fedeltà di Dio che mi ha perdonato e sopportato, più che accusarmi della mia infedeltà che era lì ad accusarmi: viceversa, senza cadere, sarei stato come Lui, cosa impossibile. Tutto questo, ovviamente, senza escludere la mia responsabilità. Se fossimo sempre vigili e pronti, le parole di Paolo non avrebbero alcun senso, ma ciò che l’apostolo vuol porre in risalto è proprio la natura fragile dell’uomo, chiamato a chiedere perdono a Dio e contemporaneamente glorificarlo per la “via d’uscita e la forza per sopportarla”perché, avendoci strappati al malvagio secolo, interviene per ristabilirci nel momento in cui chiediamo a Lui l’aiuto e il soccorso opportuno. E, come in questo episodio, il Suo intervento è unico, inequivocabile, rivela la possibilità all’interno di situazioni dalle quale uscirne sarebbe impossibile perché, a volte, ci ritroviamo inseriti in un perfetto labirinto dal quale veniamo liberati tramite un intervento che possiamo riconoscere solo a Lui. E quel “tentati al di sopra delle nostre forze”, più che accusarci, riflette proprio la fedeltà di Dio in contrapposizione alla natura dell’uomo.

Anche se a volte il Suo intervento tarda a venire, l’onniveggenza di Gesù ci smentisce sempre; pensiamo anche come, nel suo rapporto con i discepoli, era contemporaneamente Figlio vivente di Dio e Figlio dell’uomo, quindi ancora circoscritto in un corpo come il nostro, ma ora, per tutti noi, siede alla destra del trono di Dio come mediatore e intercessore Unico per difenderci dalle continue accuse di Satana e liberarci da ogni nostro travaglio che l’Avversario provoca con lo scopo di ostacolare il nostro progresso spirituale. Tutto questo lo vediamo nel nostro episodio: i discepoli non avevano certo desiderato avere il vento contrario, né l’acqua agitata che sballottava la loro barca, controllabile a fatica e solo perché erano avvezzi a fronteggiare le acque del lago.

Volendo individuare gli elementi fin qui incontrati, abbiamo il vento contrario, l’acqua agitata, la barca e gli uomini: il primo è figura della difficoltà e ognuno di noi può abbinarla alla, o alle, proprie; l’acqua è figura di tutto il contesto di instabilità sul quale purtroppo siamo costretti a spostarci. La barca, solida per quanto possibile, è il mezzo su cui siamo, che ci garantisce di galleggiare sulla superficie e spostarci più o meno agevolmente se tutto è tranquillo. Infine gli uomini siamo noi, più o meno preparati alle difficoltà che incontreremo inevitabilmente. E giova ricordare che, prima di compiere la traversata, così come nel miracolo della tempesta sedata, il mare non era agitato né vi erano segnali che, tutto a un tratto, iniziasse a soffiare quel forte vento che tanto rese arduo il viaggio.

Sappiamo che Satana sa della nostra debolezza e carnalità, come è ampiamente descritto nel libro di Giobbe, e per questo Gesù avvertirà i discepoli di questo pericolo esortandoli a pregare per non entrare in tentazione. Preghiera quindi come unico, vero antidoto, come insegna il Padre Nostro.

Arriviamo così al verso 25: Gesù attende fino all’ultima parte della notte, quella che va dalle tre alle sei del mattino, prima di andare verso di loro camminando sul mare; è questo un orario particolare per il corpo umano in cui il circolo si rallenta, particolarmente penoso per chi ha problemi cardiaci, anche se non era il caso dei dodici. Una notte insonne si caratterizza con riflessi più lenti, scarsa capacità di passare da un’azione a un’altra come richiesto ai dodici in quei momenti che, ricordiamo, non avevano riposato. Una notte insonne provoca una visione ridotta o scarsa e, più a lungo si resta svegli, più sono possibili errori visuali che possono tradursi anche in allucinazioni. Ecco allora che quel“È un fantasma”allude proprio a questo, per quanto, se avessero riflettuto, ma non c’era tempo di farlo, un’allucinazione collettiva sarebbe stata impossibile. In tutto quel turbinio, vedere la figura di Gesù che avanzava verso di loro era qualcosa di umanamente assurdo e per quegli uomini, nonostante avessero sperimentato personalmente le conseguenze del dono delle guarigioni, quindi di operare cose al di là dell’umano, quel Gesù che vedevano camminare verso di loro non poteva essere lui: perché? Perché non avevano ancora capito, nonostante gli insegnamenti ricevuti e i miracoli di cui erano stati testimoni, chi fosse veramente il loro Maestro. Marco ci dice che Nostro Signore, dopo l’episodio di Pietro, “Salì sulla barca con loro e il vento cessò. E dentro di sé erano fortemente meravigliati, perché non avevano compreso il fatto dei pani: il loro cuore era indurito”(6.51.52).

L’indurimento del cuore è qualcosa di molto triste perché in lui non penetra nulla, è refrattario a qualsiasi ricezione, a meno che non sia molto violenta ed ecco le ragioni di quella tempesta e dello spavento provocato dalla visione di Gesù. Se il cuore dei dodici non fosse stato così, avrebbero immediatamente collegato la visione del Maestro che veniva verso di loro a quanto dice il Salmo 77.20, “Egli cammina sui flutti del mare, da solo stende i cieli e cammina sulle onde del mare. Sul mare passa la tua via, e i tuoi sentieri sulle grandi acque”. Non fu così. Anzi, il nostro episodio, che svilupperemo ulteriormente nel prossimo capitolo, termina in un modo per noi triste, vale a dire la frase “Davvero tu sei il Figlio di Dio”, quasi che tutto quanto operato da Gesù fino ad allora non avesse dimostrato nulla, dallo Spirito Santo sceso in forma di colomba al Suo battesimo alla moltiplicazione dei pani e dei pesci. Se Nostro Signore fosse stato solo un uomo, certo avrebbero avuto da temere. Ma come Dio, non fece nulla di straordinario, dimostrando di avere potere su tutti gli elementi del creato, quindi anche dell’acqua. Ma questo i discepoli non lo avevano ancora compreso.

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10.06 – GESÙ SUL MONTE (Marco 6.44,45)

10.6 – Gesù sul monte (Marco 6.44-45)

44Quelli che avevano mangiato i pani erano cinquemila uomini. 45E subito dopo egli costrinse i suoi discepoli a montare sulla barca, verso Bethsaida, mentre egli licenziava la moltitudine. Poi, quando l’ebbe accomiatata, se ne andò sul monte, per pregare”.

Tutti ricordano il miracolo dei pani e dei pesci così come quello di Gesù che cammina sulle acque – episodi avvenuti a non più di dodici ore di distanza – ma il Suo salire al monte per pregare, “da solo”secondo Giovanni, resta sicuramente meno impresso. Non essendovi nei Vangeli dei versi più importanti di altri, ma avendo ciascuno di loro qualcosa da insegnare, pare giusto esaminare questo ritirarsi di Nostro Signore collegandoci a quanto già detto nel capitolo “Gesù in preghiera” visto a suo tempo. Dobbiamo infatti tenere presente quanto ci dicono i versi appena letti: Nostro Signore costringe Suoi, che evidentemente desideravano restare con Lui, di salire sulla loro barca “verso Bethsaida”, quindi la prima, quella che si trovava ad Oriente a differenza dell’altra ad Occidente, dopodiché licenzia la folla che se ne tornò a casa stante l’ora tarda. Mi sono chiesto allora che motivo avesse Gesù di salire sul monte, quando avrebbe potuto benissimo restare sulla riva del lago, ugualmente solo. La sua ascesa, quindi, deve avere avuto una ragione credo collegata alla sua umanità e a quella di tutti noi. Guardando alla vita terrena del Cristo credo sia di una rilevanza assoluta considerare che proprio il Suo essere uomo rappresenti il denominatore comune tra  noi e lui nel senso che ogni persona trova in Gesù un punto d’incontro, ha in sé gli elementi per decidere se elevarsi oppure rimanere com’è, restando sulla riva a guardare un orizzonte fermo. E questo accomuna tanto i credenti che i non credenti, entrambi fatti di carne: i primi guardano a Gesù, unico mediatore fra Dio e gli uomini, per crescere e restare saldi, i secondi devono fare altrettanto se vogliono essere salvati.

Nostro Signore, quindi, dopo aver guarito molti malati e infermi, insegnato “molte cose”, non rimane lì a riposare, ma sale sul monte, azione che lo accomuna ad altri prima di lui – nel senso umano del termine – il primo dei quali fu Abrahamo che salì sul Moria indicatogli da Dio sapendo che avrebbe dovuto offrire in sacrificio Isacco. Sappiamo che in questo fu fermato dall’Angelo – che presumo essere stato il Figlio di Dio stesso – che gli disse “Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli niente. Ora so che tu temi Iddio e non mihai rifiutato il tuo figlio, il tuo unigenito”(Genesi 22.12). Sappiamo che al posto di Isacco fu offerto un ariete impigliatosi con le corna in un cespuglio per cui quel giovane fu risparmiato, cosa che non avvenne per Gesù, “offerto in sacrificio per i nostri peccati”, non i suoi che non aveva commesso. Sull’episodio di Abrahamo e Isacco, ricordiamo che, dopo il sacrificio dell’ariete, “Abrahamo chiamò quel luogo «Il Signore vede»; perciò oggi si dice: «Sul monte del Signore sarà provveduto»”(Genesi 22.14). Su quel monte, appunto il Mòria, venne edificata Gerusalemme e più tardi il Tempio di Salomone: “Salomone cominciò a costruire il tempio del Signore a Gerusalemme sul monte Mòria, dove il Signore era apparso a Davide, suo padre, nel luogo preparato da Davide sull’aia di Ornan il Gebuseo”. Il Mòria, allora, ci parla del progetto di Dio che ebbe una tappa importante proprio col sacrificio di Isacco che, nonostante non sia materialmente avvenuto per intervento di YHWH, rappresentò per Lui la conferma che Abrahamo si era affidato totalmente al suo Signore: “Ora– cioè solo adesso, o da adesso in poi – so che tu temi Iddio”là dove il timore non era paura, ma quella consapevolezza dell’affidarsi interamente a Lui a prescindere da ciò che questo comportasse.

Il verbo “salire” ci parla della disposizione presente nell’uomo che vuole accostarsi a Dio ed allontanarsi così da tutto ciò che è basso, umano, contaminato, per modificare la propria posizione, ed ecco perché Gesù non rimase sulla spiaggia. Salire comporta una fatica, figura della ricerca spirituale per realizzare ciò che all’uomo manca a causa del peccato che lo àncora alla terra in una prospettiva e realtà sempre orizzontali. Un fratello ha sottolineato che “salire sul monte”, per un credente, rappresenta il disintossicarsi, l’ossigenarsi, purificarsi dalle impurità che si annidano dentro di noi e che ci allontanano dalla Parola di Dio sottoponendoci alle stesse “passioni e travagli” di tutti gli uomini. Per come siamo fatti, basta poco per tirarci giù da ciò che abbiamo ricevuto e che a nostro modo ci siamo conquistati, come insegna la storia di Salomone, la persona più saggia mai esistita di cui, conoscendone la storia, Ben Sira scrisse “Come fosti saggio nella tua giovinezza e fosti colmo d’intelligenza come un fiume! La tua fama ricoprì la terra, che tu riempisti di sentenze difficili. Il tuo nome giunse lontano, fino alle isole, e fosti amato nella tua pace. Per i canti, i proverbi, le sentenze e per i responsi ti ammirarono i popoli. Nel nome del Signore Dio, che è chiamato Dio d’Israele, hai accumulato l’oro come stagno, hai ammassato l’argento come piombo. Ma hai steso i tuoi fianchi accanto alle donne e ne fosti dominato nel tuo corpo. Hai macchiato la tua gloria e hai profanato la tua discendenza, così da attirare l’ira divina sui tuoi figli ed essere colpito per la tua stoltezza”(Siracide 47.14-20).

Un secondo monte, cronologicamente, fu l’Horeb, o Sinai, sul quale Dio si rivelò a Mosè prima attraverso il roveto ardente, poi molti anni dopo con le tavole della Legge. Se si accetta per buona la identificazione attuale, coi suoi 2.285 metri di altitudine, è la seconda montagna più alta dell’Egitto. Se il monte Moria fu quello della fede, l’Horeb lo fu per le opere e di una nuova – per allora – alleanza perché fu lì che il Creatore affidò a Israele il compito di far conoscere a tutti i popoli della terra le Sue volontà in opposizione al danno causato dalla torre di Babele come sintomo e, al tempo stesso, dichiarazione universale di autonomia umana. Sappiamo che il popolo di Israele fallì nell’adempimento dell’incarico a tal punto che Gesù disse “Vi sarà tolto il regno di Dio e sarò dato a gente che lo farà fruttificare”(Matteo 21.43). Certo, sono parole terribili se pensiamo che Israele fu per circa quattromila anni il popolo eletto, ma la stessa responsabilità la porta la Chiesa, o le Chiese, che deve stare molto attenta a non scandalizzare come avvenuto in passato e purtroppo ancora oggi, là dove i frutti li portano i singoli e non la collettività degli appartenenti ad essa. E qui bisognerebbe aprire capitoli a parte perché quel “fruttificare” si riferisce ai doni dello Spirito Santo che abita in ogni vero credente.

Riguardo al Sinai pensiamo a Mosè, che vi salì perché chiamato, al fatto che fu un luogo santo a tal punto che solo lui poté accedervi e fu necessario delimitarlo perché il popolo, accedendovi, non morisse: “Scongiura il popolo di non irrompere verso il Signore per vedere, altrimenti ne cadrà una moltitudine!”(Esodo 19.21).

Altri monti determinanti furono il Garizim e l’Ebal, quando il popolo, diviso in sei tribù per ciascuno, diede il proprio amen, quindi pose la propria firma a fronte delle maledizioni riportate in Esodo 27.11-26.

Infine tutti conoscono il monte degli Ulivi, frequentato da Gesù in modo direi assiduo: fu lì che espose il suo sermone profetico sulla fine di questo mondo, dal quale ascese al cielo e che lo vedrà ritornare quando si realizzerà la profezia di Zaccaria 14.4 e segg.: “In quel giorno i suoi piedi si poseranno sopra il monte degli Ulivi che sta di fronte a Gerusalemme verso Oriente, e il monte degli ulivi si fenderà in due, da Oriente a Occidente, formando una valle molto profonda; una metà del monte si ritirerà verso Settentrione e l’altra verso Mezzogiorno.(…) Verrà allora il signore, mio Dio, e con lui tutti i suoi santi”.

Ora il salire di Gesù sul monte una volta detto agli apostoli di andare “verso Bethsaida”, ci parla anche di tutte queste cose che abbiamo visto brevemente. Ancora, ci fa pensare a tutti quegli uomini, come Abrahamo, Mosè ed altri, che fecero lo stesso, consapevoli che avrebbero incontrato il Signore nonostante la loro condizione di peccato che li limitava, ma che furono usati come Suoi strumenti. Entrambi erano stati scelti e portavano con loro le conseguenze della disubbidienza di Adamo ed Eva esattamente come noi.

Quando si sale sul monte, si fa fatica perché portiamo con noi un corpo appesantito dalle conseguenze di questa disubbidienza, del nostro stato, della nostra condizione, della nostra carne che all’elevazione si ribella. E quando incontriamo o preghiamo il Signore “sul monte” portiamo con noi tutte le privazioni che abbiamo avuto e che restano: umanamente, ognuno di noi sa di essere stato privato di tante cose. Non abbiamo potuto fare quello che era nei nostri programmi. Svolgiamo un lavoro che forse non è quello che avremmo desiderato e pochi sono quelli che hanno avuto dei genitori che hanno saputo individuare le attitudini dei figli per incoraggiarli e indirizzarli a una professione gratificante, per la quale sarebbero stati portati. Incontriamo ogni giorno problemi ed esseri, umani come noi, che ce ne procurano. Ecco, nel salire al monte portiamo come bagaglio tutte queste cose mentre Gesù, nel suo essere uomo come noi, si presentò al Padre nella condizione di “servo del Signore”per cui il monte fu un luogo d’incontro e denso di significati; pensiamo solo al fatto che, nell’episodio di Mosè che abbiamo citato, è scritto che lui dovette salire e Dio scendere: “Il Signore scese dunque sul monte Sinai, sulla vetta del monte, e il Signore chiamò Mosè sulla vetta del monte. Mosè salì”(Esodo 19.20).

Il monte, come abbiamo concluso, è un punto d’incontro perché se non si sale si rimane fermi, con tutto ciò che questo comporta e cioè: l’orizzonte, il punto di vista, ciò che ci circonda e che respiriamo, non cambiano mai. La fatica dell’ascesa di Gesù descritta in questo episodio si concreta, per il cristiano, con la chiusura della porta della propria “camera”, in cui lascia fuori tutti gli elementi che potrebbero distrarlo, per procedere ad un colloquio in cui si ricevono insegnamenti e rimproveri, ma soprattutto si chiede che ci venga dato ciò che abbiamo più bisogno, vale a dire il discernimento, la prudenza, la capacità di selezionare l’opportunità degli interventi nei confronti del nostro prossimo affinché, disprezzando noi qualora questi siano sbagliati, non faccia altrettanto nei confronti di chi ha dato la propria vita per la nostra salvezza. Amen.

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10.05 – LA PRIMA MOLTIPLICAZIONE DEI PANI E DEI PESCI 2/2 (Marco 6.35-44)

10.5 – La prima moltiplicazione dei pani e dei pesci II (Marco 6.35-45)

 

35Essendosi ormai fatto tardi, gli si avvicinarono i suoi discepoli dicendo: «Il luogo è deserto ed è ormai tardi; 36congedali, in modo che, andando per le campagne e i villaggi dei dintorni, possano comprarsi da mangiare». 37Ma egli rispose loro: «Voi stessi date loro da mangiare». Gli dissero: «Dobbiamo andare a comprare duecento denari di pane e dare loro da mangiare?». 38Ma egli disse loro: «Quanti pani avete? Andate a vedere». Si informarono e dissero: «Cinque, e due pesci». 39E ordinò loro di farli sedere tutti, a gruppi, sull’erba verde. 40E sedettero, a gruppi di cento e di cinquanta. 41Prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li dava ai suoi discepoli perché li distribuissero a loro; e divise i due pesci fra tutti. 42Tutti mangiarono a sazietà, 43e dei pezzi di pane portarono via dodici ceste piene e quanto restava dei pesci. 44Quelli che avevano mangiato i pani erano cinquemila uomini. 45E subito dopo egli costrinse i suoi discepoli a montare sulla barca, verso Bethsaida, mentre egli licenziava la moltitudine. Poi, quando l’ebbe accomiatata, se ne andò sul monte, per pregare”.

 

Dato dei cenni di base sul significato dei numeri contenuto nell’episodio, possiamo passare ad esaminare il resto a partire dalle persone. La nostra traduzione riporta “ordinò di farli sedere tutti, a gruppi”, ma in realtà il termine “prasiài” andrebbe tradotto correttamente in “per aree”o “per quadrati”composti, come sappiamo, da cinquanta o cento elementi: in tal modo abbiamo rilevato che si evitava il disordine che avrebbe comportato una distribuzione casuale del cibo; un gruppo così costituito avrebbe dato modo ai discepoli anche di verificare se i pani e i pesci li avessero ricevuti tutti ed eventualmente rimediare perché un’area di cento persone, la più numerosa, comportava la presenza di dieci elementi per lato. Emerge a questo punto il problema, facilmente risolvibile stante il fatto che Gesù era giunto lì coi Suoi con una barca da pesca, dei recipienti coi quali distribuire i pani e i pesci, che i discepoli si procurarono prima che il loro Maestro prendesse quel cibo, alzasse“gli occhi al cielo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li dava ai suoi discepoli perché li distribuissero a loro”: “li dava”, cioè li prendeva da quell’unico recipiente che aveva “quel ragazzo”che Andrea aveva contattato, rimasto sconosciuto.

Tempo fa è stato sottolineato l’intervento di Papa Francesco che giustamente ha affermato che quei pani e quei pesci non furono moltiplicati, “ma semplicemente non finirono”, affermazione sostenuta anche da altri prima di lui in tempi di molto anteriori al nostro; Marco scrive “recitata la benedizione”, altri traducono “fece la benedizione”, Giovanni “rese grazie”: Lui che era Dio, ma in forma umana come inviato del Padre, lo ringraziò per la presenza di quei pani e quei pesci che stavano per essere consumati, cosa che nel corso della Sua vita farà più volte lasciandoci un esempio del ringraziamento da elevare al Padre che ogni giorno ci consente il nutrimento per il corpo, prendendosi cura di noi. In altri termini, collegandoci al fatto che diamo istintivamente per scontato il fatto che lavoriamo, mangiamo e riposiamo, il ringraziamento è doveroso perché non è detto che queste cose facciano sempre parte della nostra vita.

Abbiamo fatto un parallelismo tra il popolo presente lì e quello, molti secoli prima, nel deserto che mangiò la manna, ma credo che uno dei tanti significati del miracolo dei pani e dei pesci risieda nelle parole già espresse nel sermone sul monte, quando Gesù esortò a cercare “prima il regno di Dio”perché le altre cose sarebbero state “sopraggiunte”: a prescindere dalle motivazioni che avevano spinto i presenti ad essere là, ora la dimostrazione dell’amore di Dio che dava loro ciò che non avevano chiesto, ma di cui avevano bisogno, era davanti a loro, potevano sperimentarla concretamente. Ciascuno dei presenti poteva trarre le proprie conclusioni perché non solo erano stati soddisfatti i malati, gli infermi e il desiderio di avere informazioni sul Regno, ma era stato dato anche quel “cibo che perisce”,figura di quello “a vita eterna”. Se Gesù era stato in grado di sfamare cinquemila persone, quanto più avrebbe potuto soddisfare pienamente la loro anima e quanto era a lei connesso? Nessuno dei presenti, quindi, avrebbe potuto affermare di essere tornato a casa senza che dopo l’incontro con Gesù gli fosse mancato qualcosa.

Penso spesso, quando leggo questo episodio, che nulla dicono gli Evangelisti delle reazioni dei discepoli e soprattutto non riesco a immaginarmi lo stupore di quel “ragazzo”che diede, non sappiamo se dietro compenso ma credo di sì, ciò che aveva ai dodici, che non era gran cosa non solo a livello di numero: quando Giovanni in 6.13 scrive che erano “pani d’orzo”non lo fa a caso, ma per sottolineare che era un alimento povero, costituito da focacce di farina d’orzo. In un passo del Talmud si riporta un dialogo tra due persone: il primo dice all’altro “C’è una bella raccolta d’orzo”, ottenendo come risposta “Vallo a dire ai cavalli e agli asini”. Quel “pane” non risulta comunque esser stato disprezzato dai presenti che poterono toccare con mano la totalità dell’intervento di Dio nei loro confronti, che prima aveva voluto nutrirli nello spirito e ora provvedeva ad un di più, non essendo tenuto a sfamare nessuno: la logica del ragionamento terreno avrebbe concluso che loro, avendo voluto venire fin lì spontaneamente, potevano benissimo tornarsene a casa e mangiare una volta rientrati. Sarebbe quindi stato un loro problema. Invece il nostro verso 42 recita “Tutti mangiarono a sazietà, e dei pezzi di pane portarono via dodici ceste piene e quanto restava dei pesci”.

Quindi ciò che fu di avanzo non era qualcosa di scartato perché non gradito, ma in quanto i presenti erano talmente sazi da non riuscire a finire ciò che era stato loro distribuito: in altri termini i discepoli non diedero a quella gente degli alimenti razionati, che i presenti avrebbero dovuto farsi bastare, ma li misero nella condizione di averne ancora fino a quando la loro fame non sarebbe cessata. È un particolare importante che ci parla del fatto che quando il cristiano esercita la propria fede riceve da Dio davvero oltre ciò che gli serve. Come disse il salmista, “Non manco di nulla”. Certo Nostro Signore avrebbe potuto trasformare quei pani e pesci in qualcosa di squisito (ricordiamo l’acqua in vino alle nozze di Cana), ma in quella circostanza volle far capire ai suoi e a tutti i presenti che l’uomo può ottenere da Dio non ciò che vuole, ma quanto gli è utile. E mi viene sempre il mente la risposta data a Paolo quando, a proposito delle sue preghiere per la “spina nella carne”, gli fu detto “La mia grazia ti basta”. A volte ci dimentichiamo del fatto che non siamo lasciati soli poiché facciamo parte della Chiesa, composta non solo dai vivi nel corpo, ma da tutti coloro che risposano in Cristo in una dimensione diversa e coi quali vivremo in un giorno senza fine. Uomini e donne che hanno affrontato i nostri stessi percorsi quanto a prove, umiliazioni, dolori e gioie. E che lo hanno aspettato.

Dando i pani e i pesci a quella gente certo Gesù non salvò loro la vita perché avrebbero potuto benissimo rientrare ai loro paesi senza morire di fame, ma dimostrò di comprendere la loro realtà e quindi di si occupò di quelle persone senza che glielo chiedessero. E qui Gesù si conferma un tutt’uno con il Padre che “sa ciò di cui avete bisogno prima che glielo chiediate”ed ecco perché, personalmente, per i problemi che possono caratterizzare la mia vita terrena chiedo molto raramente, rendendomi conto della differenza tra le cose materiali di cui teoricamente necessiterei e la quantità enorme di ciò che non conosco e non vedo. E che dovrei-vorrei conoscere e vedere, primi fra tutti quei peccati di cui non mi rendo conto e che eppure commetto. Quando preghiamo, dobbiamo sempre tenere presente che è il Padre, non noi, a sapere ciò che ci serve.

Sappiamo che avanzarono dodici ceste, traduzione che fa riferimento al kòfinos, cesta grande che veniva usata per portare oggetti voluminosi. E il numero di quei recipienti pieni era lì, a testimoniare ai presenti che la perfetta cura di Dio non era preclusa a nessuno perché sicuramente tutti, contandoli, avranno pensato alle altrettante tribù di Israele per le quali il Cristo era giunto dopo tante promesse. Ecco perché troviamo che “In Cristo ho tutto pienamente”e “posso ogni cosa in Colui che mi fortifica”: nel momento in cui si staccano i sensi dalla realtà che ci circonda, umiliante sempre e comunque, si schiudono territori nei quali non entreremmo mai altrimenti.

Qui Matteo precisa che “quelli che avevano mangiato erano circa cinquemila uomini, senza contare le donne e i bambini”(14.21), quindi un numero maggiore. Un miracolo che, come ha osservato qualcuno, “sorpassa di gran lunga in grandezza quelli dell’Antico Testamento. L’unico che possa reggere al paragone è quello della manna nel deserto, che questo miracolo richiamò vivamente alla memoria della moltitudine eccitando il loro entusiasmo di modo che, se Gesù lo avesse permesso, l’avrebbero subito proclamato re”. Sarebbe stata però, appunto, un’azione dettata dall’entusiasmo, fraintendendo quel gesto di pietà e amore che Nostro Signore aveva avuto verso di loro e scambiandolo come una garanzia di assistenza e vittoria sull’invasore romano e non solo. Bernardo di Chiaravalle ha scritto che Gesù si tirò indietro quando gli uomini volevano farlo re, ma si fece avanti quando vollero crocifiggerlo.

C’è ancora un particolare che va sottolineato, fornitoci dall’apostolo Giovanni: “Quando furono saziati, disse ai suoi discepoli: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto»” (6.12): perché? Non si tratta solo di un modo per contrastare lo spreco, cosa che il mondo non fa visto che ogni anno in vengono buttati via 16 milioni di Euro di alimenti non consumati, ma piuttosto il motivo di quell’ordine risiedeva nel fatto che quei pani e quei pesci erano il risultato della carità di Dio verso gli uomini, donne e bambini, e non potevano essere lasciati marcire a terra. Quei pani e pesci erano figura della Parola di Dio che “non torna a me a vuoto senza aver compiuto ciò che io voglio e condotto a buon fine ciò per cui l’ho mandata”(Isaia 11.11). Lasciare là ciò che era avanzato, sarebbe stato un totale controsenso.

C’è poi un altro dettaglio importante, e cioè che non furono raccolti dei semplici avanzi come accade quando riordiniamo una tavola dopo un pranzo, ma quando leggiamo che “portarono via i pezzi avanzati”(Matteo 14.20) o, come scrive Marco, “Dei pezzi di pane portarono via dodici ceste piene”, gli evangelisti si riferiscono a quelli spezzati da Gesù e non da altri.

Il verso 45 conclude l’episodio: “Subito dopo egli costrinse i suoi discepoli a montare sulla barca, verso Bethsaida, mentre egli licenziava la moltitudine. Poi, quando l’ebbe accomiatata, se ne andò sul monte, a pregare”. Viene da pensare che, così come i dodici erano tornati a Lui raccontandogli ciò che avevano fatto e insegnato, allo stesso modo Gesù si comportò col Padre, pregandolo per tutta quella gente che era giunta a lui: vero è che avevano frainteso il senso del miracolo, ma ne avrebbero certamente parlato e in ogni caso ne avrebbero conservato il ricordo, lì dentro di loro, a testimonianza del fatto che Dio e non altri aveva loro provveduto. Stava poi a tutti i presenti in quel giorno trarre le necessarie conclusioni, per la loro salvezza, che fu sicuramente un soggetto di preghiera quella sera, da parte di Nostro Signore, che pensò anche a tutti coloro che il Padre gli avrebbe dato. Amen.

* * * * *

 

10.04 – LA PRIMA MOLTIPLICAZIONE DEI PANI E DEI PESCI 1/2 (Marco 6.35-44)

10.4 – La prima moltiplicazione dei pani e dei pesci I (Marco 6.35-44)

 

35Essendosi ormai fatto tardi, gli si avvicinarono i suoi discepoli dicendo: «Il luogo è deserto ed è ormai tardi; 36congedali, in modo che, andando per le campagne e i villaggi dei dintorni, possano comprarsi da mangiare». 37Ma egli rispose loro: «Voi stessi date loro da mangiare». Gli dissero: «Dobbiamo andare a comprare duecento denari di pane e dare loro da mangiare?». 38Ma egli disse loro: «Quanti pani avete? Andate a vedere». Si informarono e dissero: «Cinque, e due pesci». 39E ordinò loro di farli sedere tutti, a gruppi, sull’erba verde. 40E sedettero, a gruppi di cento e di cinquanta. 41Prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li dava ai suoi discepoli perché li distribuissero a loro; e divise i due pesci fra tutti. 42Tutti mangiarono a sazietà, 43e dei pezzi di pane portarono via dodici ceste piene e quanto restava dei pesci. 44Quelli che avevano mangiato i pani erano cinquemila uomini”.

 

Si tratta di un episodio in cui abbiamo ben quattro versioni che, armonizzate tra loro, ci offrono una visione d’insieme molto utile e ricca di applicazioni spirituali. Ciò che avvenne prima di quel “Essendosi ormai fatto tardi”, che Marco usa per significare che “il giorno cominciava a declinare”(Luca 9.12), ci è noto: Gesù, ritiratosi coi dodici su una collina nei pressi di Betsaida, era stato raggiunto dalla folla ed aveva guarito molti malati che gli avevano portato, oltre ad “insegnare loro molte cose”senza fermarsi nel senso che non sentì il tempo che stanca e ci rende soggetti ad orari che rispettiamo quasi senza rendercene conto: la vita ha un ritmo che comporta l’azione, l’attenzione, il mangiare e il dormire, esigenze e ritmi che gli apostoli, al contrario del loro Maestro, avevano ben presente: il primo non ne era vincolato, i secondi sì. Certo anche in questa circostanza seguivano con l’interesse di sempre i Suoi discorsi, ma da persone terrene si rendevano conto che, guardando il sole che iniziava a declinare, quella gente, se non fosse stata licenziata, avrebbe dovuto fare i conti con la realtà della situazione: erano più di cinquemila persone, lontani da casa e da un centro abitato, senza cibo ed infatti Luca riporta le parole “Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne– in realtà agroùs, poderi –  dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta”(9.12). Fu il loro un intervento inopportuno perché, così facendo, i dodici pensarono di capire meglio del loro Maestro la situazione e di dovergli suggerire qualcosa cui non aveva pensato.

A proposito di “sera”, va ricordato che per gli ebrei ve n’erano due: la prima iniziava alle tre del pomeriggio, la seconda al tramonto o poco dopo. Luca scrive del “giorno(che) cominciava a declinare”(9.12), ma non basta a farci stabilire che si trattasse della seconda, come vedremo.

Aiutandoci con le versioni che i quattro Evangelisti ci hanno lasciato, il dialogo tra Gesù e i suoi avvenne in questo modo: dopo l’invito a congedare la folla, vi fu la risposta che non capirono: “Non occorre che vadano, voi stessi date loro da mangiare”(Matteo 14.16) e poi, rivolto a Filippo per metterlo alla prova, “«Dove andremo a comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». Gli rispose Filippo: «Duecento denari – che Giuda aveva nella borsa? – di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo». Gli disse allora uno dei suoi discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci, ma cos’è questo per tanta gente?»(Giovanni 6.5-9). Sappiamo che a questo punto Gesù ordinò ai dodici di far sedere tutti, a gruppi di cento e di cinquanta, sull’erba verde, dettaglio che conferma la Pasqua imminente, che cadeva in primavera, altrimenti l’erba non vi sarebbe stata, oppure sarebbe stata di colore marroncino, arsa dal sole.

Ora, sostando su quanto fin qui accaduto, una prima nota va fatta sul luogo, cioè il territorio di Betsaida, che viene spontaneo identificare nella patria di Andrea, Pietro e Filippo, ma che non trova tutti i commentatori concordi e stabilire se vi fossero, come per Betlehem che aveva quella di Giuda e quella di Efrata, due Betsaida con lo stesso nome. Stabilirlo con certezza è arduo e le teorie sono contrastanti. Il fatto che Giovanni scriva “Filippo era di Betsaida di Galilea”(12.21) sembra essere una precisazione necessaria per distinguerla da un’altra. Da un lato la Betsaida dei tre apostoli tutto poteva essere tranne che un luogo deserto essendo che, rinomata per la pesca e meta di grandi carovane che a lei confluivano proprio per il mercato del pesce che si svolgeva sulla spiaggia, difficilmente avrebbe potuto avere spazi isolati. Il biblista John Lee Thompson sostiene che la città era posta alla foce del Giordano ed era però divisa in due parti, una appartenente alla Galilea, l’altra, restaurata da Erode Filippo cui diede il nome di Julia in onore della figlia di Augusto, nella Gaulonite e fu probabilmente qui che Gesù e i dodici trovarono modo di sostare.

A parte questa indicazione, incerta stante i dubbi anche fra gli archeologi, abbiamo dall’episodio una grande quantità di dati che cercheremo di mettere in ordine a partire dai numeri, che iniziano ad emergere subito dopo la frase“Voi stessi date loro da mangiare”, che se Gesù non fosse stato “La parola fatta carne”e quindi lo stesso Dio che sfamò il popolo d’Israele con la manna nel deserto, sarebbe essere stata pronunciata da una persona fuori dalla realtà, stante la presenza di cinque pani e due pesci, cifre sinonimo di penalizzazione e ambivalenza.

CINQUE

,            È il numero di mesi in cui Elisabetta, futura madre di Giovani Battista, si tenne nascosta (Luca 1.23). Pensiamo poi alle vergini stolte e alle savie dell’omonima parabola, per cui è un riferimento anche alla selezione  e scelte dell’uomo. L’apostolo Paolo, in 1 Corinti 4.18, scrive “…in assemblea preferisco dire cinque parole con la mia intelligenza per istruire anche gli altri, piuttosto che diecimila parole con il dono delle lingue”, per cui il riferimento è anche all’essenzialità nel poco, a ciò che basta. Ancora, il cinque si riferisce a ciò che è minimo e a prima vista trascurabile:“Cinque passeri non si vendono forse per due soldi? Eppure nemmeno uno di essi è dimenticato davanti a Dio”(Luca 12.6).

Se da un lato abbiamo questi riferimenti, il cinque indica qualcosa che può venir moltiplicato, quanto a forza, dalla potenza di Dio: pensiamo a Levitico 26 quando il Signore dice “Se seguirete le mie leggi, se osserverete i miei comandi e li metterete in pratica,(…) io stabilirò la pace sulla terra, e quando vi coricherete, nulla vi turberà– pensiamo alle preoccupazioni e ai pensieri che si accentuano soprattutto di notte –. Farò sparire dalla terra le bestie nocive– che oggi sterminiamo con sostanze inquinanti e di cui tutta l’umanità pagherà il prezzo a suo tempo – e la spada non passerà sui vostri territori. Voi inseguirete i vostri nemici ed essi cadranno dinnanzi a voi colpiti di spada. Cinque di voi ne inseguiranno cento, cento di voi ne inseguiranno diecimila”(3-8). Abbiamo anche i talenti dati a quel servo che ne fruttò altrettanti in Matteo 25. Il “cinque”, allora, rappresenta ciò che possiede l’uomo, ciò che esiste e resterebbe privo di significato senza un intervento diretto di Dio, o qualcosa fatto in suo Nome o per Lui.

 

DUE

Nonostante sia già stato sviluppato più volte, possiamo riferirlo anche all’esercizio del libero arbitrio: pensiamo alla bigamia che Lamek, figlio di Caino, esercitò per primo. Se guardiamo agli animali che entrarono nell’arca e non solo, è un numero che ci parla della sopravvivenza di una specie vista nella presenza del maschio e della femmina. Possiamo connetterlo al numero di volte in cui Mosè percosse la roccia in Kades, azione che gli costò il mancato ingresso nella terra promessa. Ancora il due come numero penalizzante lo vediamo in Geremia 2.13 a proposito dei peccati commessi dal popolo: “Ha abbandonato me, sorgente di acqua viva, e si è scavato delle cisterne, cisterne piene di crepe, che non trattengono l’acqua”.

Ora Gesù, dicendo ai dodici “Date voi loro da mangiare”, li autorizzava a farsi da tramite, veicoli, collaboratori della potenza dell’Iddio Vivente e Vero per poter sfamare la folla presente, figura di chiunque ascolta la Parola di Dio: sta a lui riconoscere il miracolo della moltiplicazione del messaggio e dei concetti, oppure limitarsi a prendere atto che esistono, senza poi ricordarsene. Mi spiego: tra le persone che verranno divise a gruppi di cinquanta e di cento, non tutti erano pronti a credere o erano lì perché desiderosi di diventare dei discepoli. C’erano persone curiose, ma anche avversari, eppure tutti mangeranno, cioè in un modo o in un altro verranno fatti partecipi della persona di Gesù. La maggioranza non capirà il senso di quel miracolo talché Luca ci dice che, una volta sfamata la folla, “Sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo”(9.15). La responsabilità quindi dell’essere umano, tanto allora quanto oggi, risiede nel decidere cosa farsene di quel “pane”che i discepoli gli danno. Portare la Parola di Dio al prossimo, oggi, significa renderlo partecipe di eventi di cui abbiamo testimonianza certa e che vediamo per fede non perché abbiamo bisogno di credere in qualcosa, ma in quanto portatori di un miracolo assoluto e totale visto nella nostra salvezza, nell’essere stati “strappati”da quel mondo di cui altrimenti condivideremmo la fine senza alcuna speranza.

Per concludere questa prima parte restano da esaminare i numeri “cinquanta” e “cento”, cioè i componenti dei gruppi in cui fu suddivisa la gente sul posto. La suddivisione in quel modo avvenne per ordine pratico, per evitare il caos che una distribuzione non ordinata avrebbe comportato: code, liti, prevaricazioni dei più forti verso i più deboli, forse accaparramento incontrollato. E sappiamo che “il nostro non è un Dio di confusione, ma di ordine”. Se Matteo scrive che Gesù ordinò alla folla di “sedersi sull’erba verde”, Marco cita i numeri cinquanta e cento, Luca riporta “di cinquanta circa”e in questo caso dovettero formarsi cento nuclei di persone, dieci circa per ogni apostolo che distribuiva i pani e i pesci anche se possiamo pensare che a loro si aggiunsero altri discepoli arrivati lì in con la folla. Possiamo comunque immaginare quanto tempo ci sia voluto non solo per organizzare la gente, ma anche per distribuire i pani e i pesci.

 

CENTO

La prima volta che incontriamo questo numero nella Scrittura è riferito agli anni che ebbe Abrahamo quando generò Isacco, il figlio promesso, a differenza degli ottantasei, cifra insignificante che non verrà più utilizzata, di quando ebbe Ismaele da Agar sua schiava. “Cento”esprime la sufficienza nel senso di quanto basta agli occhi di Dio, mentre per l’uomo è un multiplo che indica soddisfazione, il plenum. Possiamo citare i cento cubiti del recinto della Dimora, i cento uomini inseguiti da cinque del passo di Levitico 26 citato poco sopra, i cento prepuzi dei Filistei uccisi che Davide dovette portare a Saulle. Ricordiamo anche l’enormità del debito del servitore spietato, diecimila talenti, cioè cento per cento. Possiamo ricordare anche il primo risultato della morte del chicco di grano (Matteo 13.8), la pecora perduta che completa il gregge delle novantanove già presenti (Luca 15.1-7).

 

CINQUANTA

È i numero dell’ipotesi e della libertà: ricorda la preghiera di Abrahamo in favore di Lot suo nipote, la Pentecoste avvenuta cinquanta giorni dopo la morte di Gesù e il Giubileo, che si celebrava ogni cinquant’anni che si caratterizzava attraverso la liberazione di tutti coloro che erano soggetti a un vincolo, debitori e schiavi.

Tutti questi elementi, espressi attraverso i numeri, sono quelli sotto certi aspetti “nascosti” in un miracolo che apparirà completamente diverso dagli altri e che meraviglierà tanto la gente quanto gli apostoli e i discepoli. E tutto partì da pani d’orzo e pesci che aveva “un ragazzo” che li aveva portati con sé per mangiarli, o per venderli.

La domanda di Gesù fu “Quanti pani avete? Andate a vedere”: è un invito a verificare le loro possibilità, mettere da parte il dato e attendere ciò che Dio avrebbe fatto di ciò che avrebbero avuto, che era apparentemente un nulla, come disse Andrea: “…ma cos’è questo per sfamare tanta gente?”(Giovanni 6.9). Se allora Eliseo, con la vedova di Sarepta, confermò di essere un profeta del Dio Vivente e Vero, Nostro Signore intervenne sulle molecole dei pani e dei pesci come Dio Creatore facendo in modo non solo che non finissero, ma che si avanzassero dodici ceste.

* * * * *

 

10.03 – RIPOSATEVI UN POCO (Marco 6.30-34)

10.3 – Riposatevi un poco (Marco 6.30-34)

 

30Gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato. 31Ed egli disse loro: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo solitario, e riposatevi un poco». Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare. 32Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte. 33Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero. 34Sceso dalla barca, egli video una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano pecore che non hanno pastore, e si mise ad insegnare loro molte cose”.

 

Giovanni, che ha taciuto gli avvenimenti che abbiamo fin qui esaminato, riannoda il filo cronologico al capitolo sesto collocando storicamente l’episodio con la frase “Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei” (v.4). Sappiamo così che stava per iniziare il secondo periodo della vita di Gesù caratterizzato dal suo salire a Gerusalemme per la seconda volta per quanto attiene alla vita pubblica. È però solo Marco a riferire l’invito a riposarsi “un poco”ai discepoli; Matteo scrive “Avendo udito questo– l’esecuzione di Giovanni Battista -, Gesù si partì di là e si ritirò in un luogo deserto, in disparte”(14.13,14) e Luca “Al loro ritorno, gli apostoli raccontarono a Gesù tutto quello che avevano fatto. Allora li prese con sé e si ritirò in disparte, verso una città chiamata Betsàida”(9.10): sono versi che mettono in risalto la comprensione umana di Nostro Signore nei confronti dei suoi, appena tornati dal viaggio missionario di cui abbiamo esaminato le istruzioni. I dodici si erano comportati così come era stato detto: avevano guarito, predicato e camminato contribuendo di molto alla diffusione del Vangelo, senza fare nulla perché l’attenzione si accentrasse su di loro, ma attribuendo ogni merito a Colui che aveva dato loro quei poteri esattamente come, più avanti, faranno Pietro e Giovanni che, salendo al Tempio, dissero allo storpio “Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho, te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, àlzati e cammina!”(Atti 3.4).

Il verso 30 ci parla del riunirsi degli apostoli attorno al loro Maestro, cui si rivolsero senza nascondere nulla, riportandogli “tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato”, azione che ci riguarda da vicino e sulla quale possiamo fare una considerazione importante: se i dodici avevano quell’appuntamento con Gesù, anche noi ne abbiamo uno identico alla fine di ogni giornata, quando ci presentiamo a Lui in Spirito e siamo chiamati a riferirgli quali sono state le nostre azioni, quanto abbiamo pensato a noi e quanto al nostro prossimo non perché siamo “brave persone”, ma perché a questo siamo chiamati. Ovviamente, nel portare il Vangelo dentro e fuori di noi, pensando alla credibilità che abbiamo prima di tutto di fronte a noi stessi: sappiamo bene che, se la nostra attenzione alla Parola di Dio si ferma all’ascolto e non viene posta in pratica, assomiglieremmo “ad un uomo che guarda il proprio volto allo specchio; appena si è guardato se ne va, e subito dimentica com’era”(Giacomo 1.24). E il marketing spirituale fa magari dei proseliti, ma molto difficilmente salva.

L’Iddio che giudica e giudicherà, di cui è scritto “È cosa terribile cadere nelle mani dell’Iddio vivente”(Ebrei 10.31), è lo stesso che in Isaia 1.18 dice “Su, venite e discutiamo. Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve”e “discutere” significa esprimere opinioni differenti su un argomento, dialogare in modo costruttivo e positivo – mi viene da dire – per il bene di entrambi; e il “bene” di Dio, posto che Lui non ne ha bisogno, è visto nella verità espressa in Luca 15.7 a proposito della pecora perduta: “Così, vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore che si converte, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione”. È infatti quel peccatore, quell’ “uno” recuperato, che rende completo quel “novantanove” che, se rimane tale, può solo rappresentare l’imperfezione.

Comunque, là dove il mondo progetta il giorno che verrà, il credente deve soffermarsi su quello che il giorno è stato, esaminare con Gesù Cristo i suoi sbagli, individuare le mancanze e far tesoro di queste esperienze affinché il cammino del giorno a venire – se gli sarà concesso – sia migliore del precedente. Così facendo, scoprirà l’enormità del lavoro che avrà ancora da fare perché il suo “uomo interiore”possa rinnovarsi all’immagine di Colui che l’ha creato. E la vigilanza su noi stessi, tanto raccomandata in tutta la Scrittura, non consiste nella costrizione al “fare” o al “non fare”, ma nel cercare le ragioni dei nostri comportamenti negativi per risolverli serenamente: è questo un metodo diverso, che si distacca profondamente da quello religioso che Nostro Signore descrisse nella parabola dei due figli: “Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: «Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna». Ed egli rispose: «Non ne ho voglia». Ma poi si pentì, e vi andò. Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: «Sì, signore». Ma non vi andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre? Risposero: «Il primo». E Gesù disse: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio»”(Matteo 21.28-31).

Tornando al radunarsi dei dodici presso di Lui, certo Gesù sapeva in anticipo quello che gli avrebbero detto, ma li ascoltò con attenzione data la moltitudine degli argomenti che sarebbero scaturiti dal loro resoconto. Era quello un riunirsi assieme dopo un viaggio missionario che si verificava per la prima volta, che gettò comunque le basi per una predicazione più estesa e che contribuirà a far conoscere il Vangelo ai suoi primi destinatari, cioè gli ebrei.

Alla fine di quel resoconto abbiamo l’invito a riposare “in disparte, voi soli”, dimostrando così comprensione della loro stanchezza in un contesto di servizio particolare e spiritualmente bellissimo perché abbiamo letto che “erano molti quelli che andavano e venivano e non avevano nemmeno il tempo di mangiare”(v.31). Era quella una situazione che abbiamo già trovato prima della definizione di cosa voglia dire essere parenti di Gesù in Marco 3.20: “Entrò in una casa e di nuovo si radunò una gran folla, tanto che non potevano neppure mangiare”.

E qui emerge la dimensione di Nostro Signore uomo, che avrebbe potuto benissimo compiere un miracolo trasportando gli apostoli con sé su un monte, come l’Avversario aveva fatto con Lui al tempo della tentazione nel deserto, ma nulla di questo avvenne. Ricordiamo che, in Samaria, Gesù, stanco, si fermò a riposare al pozzo dove poi incontrò la donna in Giovanni 4: la sua umanità fu sempre presente e a questa doveva essere soggetto, se voleva salvare l’uomo. Nessuno sconto alla sofferenza, alla fatica, alla fame, alla sete.

Stante la situazione, l’unica soluzione per far riposare “un poco”i dodici era quella di prendere la barca, ma sappiamo che “molti però li videro partire e capirono– dove sarebbero andati – e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero”. Notare l’espressione “da tutte le città”, che ci parla dell’accorrere di quella gente a Capernaum da ogni dove. Fu in quella circostanza, dopo un tempo di fatiche, predicazione e miracoli, che i dodici capirono le parole “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”, ma non per questo, una volta scoperto che ciò valeva anche per loro, si allontanarono da lui, né gli dissero “Basta, siamo stanchi” o si chiesero se valesse la pena di vivere così, rimpiangendo il loro mestiere, con le barche e la tranquillità economica. Questo, almeno, per quanti di loro erano pescatori; un lavoro certo duro, ma che comunque un riposo lo garantiva e li ricompensava dal punto di vista della moneta.

Piuttosto gli apostoli si rimisero alla Sua volontà sapendo che “Egli dà la forza allo stanco e moltiplica il vigore allo spossato”(Is. 40.29): quello era un miracolo che Gesù, come Figlio di Dio, poteva fare. Anche Giuseppe Flavio, che stiamo imparando a conoscere per le citazioni dei suoi scritti, parlando di Gesù in un suo passo, lo descrive così “…visse Gesù, uomo saggio, se pure uno lo può chiamare uomo; poiché egli compì opere sorprendenti, e fu maestro di persone che accoglievano con piacere la verità. Egli conquistò molti Giudei e molti Greci. Egli era il Cristo” (A.G. XVIII. 63). “Se pure uno lo può chiamare uomo”, parole di uno storico appartenente ad una nobile famiglia sacerdotale israelita che conclude la sua breve nota con “Egli era il Cristo”.

Mi sono chiesto come fece la folla a precedere Gesù, ma occorre tener presente che la sua barca era a remi oltre che essere pesante (era di quelle da pesca) e che, guardando la cartina della zona, Betsaida come territorio era facilmente raggiungibile anche a piedi con un cammino di circa due ore. Per questo Marco scrive che “li precedettero”dapprima in pochi, poi sempre di più, come possiamo dedurre dal parallelo di Giovanni che così riferisce: “Dopo questi fatti, Gesù passò all’altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberiade, e lo seguiva una grande folla, perché vedeva i segni che compiva sugli infermi. Gesù salì sul monte e si pose a sedere coi suoi discepoli”(6.1,2). Ebbero quindi comunque, nonostante tutto, un po’ di tempo per sostare, il necessario perché il numero di cinquemila persone, che poi verranno sfamate col miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, si completasse. Alcuni arrivarono subito, gli altri poco a poco, coi malati. Gesù e i suoi approfittarono così di quello spazio temporale, credo non sufficiente a riposare visto che nemmeno Lui, mentre gli altri erano andati a guarire e predicare, rimase inattivo.

A questo punto abbiamo la compassione di Gesù per la folla accorsa: ancora una volta vide quella gente “come pecore che non hanno pastore”. Abbiamo già parlato della pecora, ma meno del pastore, fondamentale per la sussistenza del gregge perché senza di lui si perde, non avendo il senso dell’orientamento. Un pastore può essere buono o cattivo, gli Scribi e i Farisei ostili a Gesù vengono da lui classificati come pecore non sue, ma la gente lì presente non apparteneva a nessuno, vagava senza un dove, una meta che comunque cercava perché, viceversa, sarebbe rimasta a casa propria. Erano lì perché il fatto di vedere Gesù, cosa avrebbe fatto e detto, aveva reso del tutto secondaria la preoccupazione di cosa avrebbero fatto e mangiato. Ebbene, quella gente fu accolta “e prese a parlare loro del regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure”, quelle che altrimenti non avrebbero trovato (Luca 9.11), verso importante perché sottoscritto proprio da Luca, che era medico.

La folla, disordinata, andava dal Pastore penso anche grazie al lavoro svolto fino a poco prima dai dodici. La folla, che non sa in cosa sperare (salvo i malati), cosa aspettarsi, viene, è lì e per questo leggiamo che “si mise a insegnare loro molte cose”: alla carità mostrata verso quelli fisicamente più deboli, i malati, si accompagnò la verità proposta indistintamente a tutti, affinché nessuno potesse dire di essere tornato da quell’incontro a mani vuote. Quando si ha a che fare con Gesù,  è impossibile. Al massimo, possono venire gli uccelli a prendere un seme che, comunque, è gettato. E a conferma che l’intervento di Dio sulla persona è totale, avverrà il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, soggetto del nostro prossimo capitolo.

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10.02 – MORTE DI GIOVANNI BATTISTA II (Marco 6.14-29)

10.02 – Morte di Giovanni Battista II (Marco 6.14-29)

 

14Il re Erode sentì parlare di Gesù, perché il suo nome era diventato famoso. Si diceva: «Giovanni il Battista è risorto dai morti e per questo ha il potere di fare prodigi». 15Altri invece dicevano: «È Elia». Altri ancora dicevano: «È un profeta, come uno dei profeti». 16Ma Erode, al sentirne parlare, diceva: «Quel Giovanni che io ho fatto decapitare, è risorto!». 17Proprio Erode, infatti, aveva mandato ad arrestare Giovanni e lo aveva messo in prigione a causa di Erodìade, moglie di suo fratello Filippo, perché l’aveva sposata. 18Giovanni infatti diceva a Erode: «Non ti è lecito tenere con te la moglie di tuo fratello». 19Per questo Erodìade lo odiava e voleva farlo uccidere, ma non poteva, 20perché Erode temeva Giovanni, sapendolo uomo giusto e santo, e vigilava su di lui; nell’ascoltarlo restava molto perplesso, tuttavia lo ascoltava volentieri. 21Venne però il giorno propizio, quando Erode, per il suo compleanno, fece un banchetto per i più alti funzionari della sua corte, gli ufficiali dell’esercito e i notabili della Galilea. 22Entrata la figlia della stessa Erodìade, danzò e piacque a Erode e ai commensali. Allora il re disse alla fanciulla: «Chiedimi quello che vuoi e io te lo darò». 23E le giurò più volte: «Qualsiasi cosa mi chiederai, te la darò, fosse anche la metà del mio regno». 24Ella uscì e disse alla madre: «Che cosa devo chiedere?». Quella rispose: «La testa di Giovanni il Battista». 25E subito, entrata di corsa dal re, fece la richiesta, dicendo: «Voglio che tu mi dia adesso, su un vassoio, la testa di Giovanni il Battista». 26Il re, fattosi molto triste, a motivo del giuramento e dei commensali non volle opporle un rifiuto. 27E subito il re mandò una guardia e ordinò che gli fosse portata la testa di Giovanni. La guardia andò, lo decapitò in prigione 28e ne portò la testa su un vassoio, la diede alla fanciulla e la fanciulla la diede a sua madre. 29I discepoli di Giovanni, saputo il fatto, vennero, ne presero il cadavere e lo posero in un sepolcro”.

 

Esaminati nella loro essenzialità i comportamenti di Giovanni Battista e di Erode, possiamo passare ai due personaggi femminili il primo dei quali è

 

Erodiade

A parte i dati che possono essere reperiti nelle Antichità Giudaiche di Giuseppe Flavio, leggiamo al verso 17 che Giovanni Battista era stato “messo in prigione a causa di Erodiade, moglie di suo fratello Filippo, perché l’aveva sposata”: Antipa e lei si erano conosciuti a Roma in un viaggio che Antipa aveva fatto venendo ospitato dal fratello Filippo. Quel “l’aveva sposata”non avvenne dopo il ripudio della prima moglie perché questa, saputo della relazione, si rifugiò presso il padre Areta che mosse guerra al genero, anche per questioni territoriali, sconfiggendolo. Sempre da Giuseppe Flavio possiamo reperire diversi dati sull’ambizione sfrenata di Erodiade, ma leggendo il testo di Marco ricaviamo un dato importante sul perché dell’odio nutrito nei confronti di Giovanni che diceva al marito “Non ti è lecito tenere con te la moglie di tuo fratello”(v.18). Soprattutto, però, era molto preoccupata per l’influenza che il Battista avrebbe potuto avere su Antipa. Ricordiamo le parole “Erode temeva Giovanni, sapendolo uomo giusto e santo, e vigilava su di lui; nell’ascoltarlo restava molto perplesso, tuttavia lo ascoltava volentieri”: ecco, quel “molto perplesso”e “lo ascoltava volentieri”furono per Erodiade dei campanelli d’allarme molto più forti del fastidio che provava nel sentire che, per la Legge, non poteva essere moglie di Erode. Infatti non poteva escludere che, restando “perplesso”alle parole del Battista, non potesse arrivare alla conclusione che effettivamente quel matrimonio non potesse sussistere. Dove infatti sarebbe potuta andare Erodiade, ripudiata dal marito?

Ora la situazione vissuta da quella donna non era certamente facile poiché sapeva benissimo che non avrebbe certo potuto far uccidere Giovanni subissando Antipa di continue richieste in proposito; lo farà anni dopo perché favorisse suo fratello Agrippa, oppure perché si recasse da Caligola per ufficializzare il suo regno (ma fu invece da lui esiliato), tuttavia non sarebbe mai riuscita a spingerlo ad uccidere un uomo da lui temuto e considerato. Un timore che, evidentemente, derivava in parte dalla propria coscienza. Il nostro testo, riguardo ai sentimenti nutriti da Erodiade per Giovanni, recita “lo odiava e voleva farlo uccidere, ma non poteva”anche se la traduzione corretta sarebbe “bramava d’ucciderlo”, quindi un desiderio profondo, costante, che si alimentava vie più che il tempo passava: Erodiade era entrata in un circolo mentalmente vizioso e pericoloso perché quando un desiderio, anziché sfogarsi, si scontra contro il muro dell’impossibilità, torna alla sorgente più forte per ripartire di nuovo contro quel muro, tornare al punto di partenza e così via. Ben Sira infatti scrive “Un cuore ostinato alla fine cadrà nel male. Un cuore ostinato sarà oppresso d’affanni. Il peccatore aggiungerà peccato a peccato”.

C’è poi un altro particolare che può sfuggire in questa vicenda dove si fa più caso allo svolgersi immediato degli eventi che non ai particolari, e cioè che Erode “vigilava su di lui”: perché, visto che nel carcere di Macheronte aveva chi lo sorvegliava? Non resta che concludere che Antipa fosse pienamente consapevole delle intenzioni della moglie e che quindi stava attento affinché non potesse fargli del male in qualche modo. Se poi ciò facesse perché nutriva affetto nei confronti di Giovanni o perché non voleva che in relazione a quella morte scoppiassero dei tumulti da parte del popolo, non sappiamo anche se, essendo la capacità di calcolo la prima “qualità” di un politico o di un regnante, viene da propendere per la seconda ipotesi.

Venne però, come sappiamo, “il giorno propizio”, quello in cui più che in qualunque altro la tanto desiderata morte di Giovanni avrebbe potuto verificarsi: certo Erodiade seppe con un largo anticipo dei festeggiamenti per il compleanno del marito ed ebbe tutto il tempo per organizzarsi nei dettagli, con buona percentuale di riuscita, ma avrebbe avuto bisogno della collaborazione della sua giovane figlia di cui i Vangeli tacciono il nome, ma che sempre Giuseppe Flavio ci dice si chiamasse Salome. Si presume che all’epoca fosse molto giovane, attorno ai dodici anni, e che la danza che fece in quel convito, come si usava anche al tempo, avesse un alto contenuto erotico, come del resto tutte quelle in uso nelle corti non solo orientali del tempo. Non a caso, infatti, le donne di corte appartenenti alla nobiltà non danzavano mai, per lo meno in pubblico, ritenendo la cosa di competenza più delle prostitute che non di persone che conducevano una vita rispettabile.

Erodiade quindi, come purtroppo molte madri ancora oggi, non esitò a sacrificare l’onorabilità della propria figlia per i suoi scopi, evidentemente, molto tempo prima che si trovasse a danzare in quella corte visto che, per eccellere in qualsiasi campo, ci vuole tempo ed assiduità. Il testo di Marco, come quello di Matteo, lascia dei dubbi sulla reale consapevolezza di Salome, salvo che sulla sua vanità, ma non certo su quella della madre che attese gli effetti del vino, mescolato alla concupiscenza, sul marito: Erode finì per fare una promessa che era appunto frutto dei fumi dell’alcool. La dichiarazione che fece davanti a tutti, lo inebriava al pari del resto perché nessun altro avrebbe potuto farla.

E a questo punto c’è un abisso tra l’ingenuità di Salome, che non sapeva cosa chiedere nonostante capisse le parole “fosse anche la metà del mio regno”di cui evidentemente non sapeva che farsene, e la puntualità della risposta della madre, “la testa di Giovanni Battista”: quella di Erodiade fu una strategia che possiamo paragonare a quella di Satana in Eden quando, non potendo arrivare direttamente ad Adamo e neppure ad Eva, utilizzò il serpente che a sua volta sedusse la donna che arrivò al marito. Entrambe furono strategie che mirarono ad un immediato di rovina, ma che poi ricadde, nonostante l’apparenza, sugli autori dell’omicidio più che sulla vittima. Tralasciando il destino finale della persona, quindi dell’anima, anche quello terreno non fu esattamente ciò che i protagonisti si aspettavano: tempo dopo, infatti Giuseppe Flavio scrive: “Acclamato imperatore, Gaio liberò Agrippa e lo nominò re della tetrarchia di Filippo, che era morto. Arrivato nei suoi domini, Agrippa per l’invidia suscitò le ambizioni del tetrarca Erode.  Costui era stimolato al desiderio di diventare re soprattutto da sua moglie Erodiade, che ne biasimava l’inerzia e gli ripeteva che, per non aver voluto recarsi a Roma dall’imperatore, era rimasto privo di più larghi domini: se aveva fatto re Agrippa, un semplice privato, non avrebbe fatto re anche lui, che già era tetrarca?.  Spinto da questi discorsi, Erode si presentò dinanzi a Gaio, il quale però ne punì l’ambizione esiliandolo nella Spagna. Infatti subito dopo di Erode era arrivato ad accusarlo Agrippa, a cui Gaio diede in aggiunta anche la tetrarchia dell’altro. Ed Erode morì nella Spagna, dove l’aveva accompagnato in esilio anche sua moglie”.

S’infransero così i sogni di gloria e di potere esattamente come quelli dell’Avversario quando fu precipitato sulla terra assieme ai suoi angeli, nell’attesa di essere gettato nello “stagno di fuoco e di zolfo”una volta costituito per sempre il regno di Dio.

Ultima interessante considerazione, che però guarda al futuro, la possiamo fare considerando Erodiade come l’antesignana della “donna ebbra del sangue dei santi e del sangue dei martiri di Gesù”dell’Apocalisse, che non versa da sé quel sangue, né ordina nel senso stretto del termine che vengano uccisi, ma che delega alla Bestia, cioè al Potere, che faccia loro guerra, li vinca e li uccida.

 

Salome

È stata qui ipotizzata come vittima inconsapevole della madre, ma fino a un certo punto, poiché se sono ravvisabili dei tratti d’ingenuità nella prima parte, non sapendo cosa chiedere ad Antipa, nulla oppose alla richiesta di Erodiade, anzi la ripeté: “Dammi qui, su un vassoio, la testa di Giovanni il Battista”(Matteo 14.8), per quanto “istigata da sua madre”(ibid.). Non rileviamo poi nessun senso di orrore nelle parole “La sua testa venne portata su un vassoio, fu data alla fanciulla e lei la portò a sua madre”(v.11), quasi come se fosse – come in effetti fu – un tramite impersonale, una sorta di messaggero, a significare che Erodiade aveva chiesto ed a lei andava portata, con una consapevolezza ed un’accettazione del ruolo come fu per Giuda, in cui l’Avversario entrò nel momento in cui accettò il “boccone intinto”che Gesù gli porse.

Il racconto evangelico si presenta, a parte quelli esaminati,

 

Altri personaggi

Sono quelli che non hanno idee precise su Gesù, ma cui bastano quelle frammentarie in loro possesso: “Si diceva: «Giovanni Battista è risorto dai morti e per questo ha il potere di fare prodigi». Altri invece dicevano: «È Elia». Altri ancora dicevano: «È un profeta, come uno dei profeti»”. Ancora oggi, per chi si accontenta del poco che sa senza approfondire, attorno al Cristo esistono le opinioni più disparate. Eppure, basterebbe poco per cercarlo, ma non lo si fa, si preferisce restare in una neutralità, senza mai risolvere da nessuna parte. Ancora Ben Sira scrisse “Se soffi su una scintilla, si accende; se vi sputi sopra, si spegne; eppure ambedue le cose escono dalla tua bocca”. Per chiarire chi sia Gesù, basterebbe poco: sarebbe sufficiente alzarsi e andare a parlargli, o meglio ascoltarlo per poter rispondere come Pietro “Tu sei il Cristo, il Figlio dell’Iddio vivente”.

 

Susanna

Anche se non citata, è l’unica persona che avrebbe potuto riferire a Matteo, Marco e Luca come si svolsero veramente quei fatti, impedendo così loro di scrivere per sentito dire. In quanto moglie di un procuratore di Erode, difficilmente non avrebbe potuto essere presente. Così, la sua scelta di vivere col gruppo di uomini e donne che seguivano Gesù, ci fa capire quanto ritenesse poco importante non solo la vita di corte, ma la sua stessa esistenza, ben sapendo che la scelta di seguire il Cristo avrebbe potuto comportare anche la propria morte. Nulla ci viene detto delle reazioni dei presenti all’evento che, salvo un ripensamento, dovettero aver ritenuto quell’esecuzione come il soddisfacimento alla loro curiosità per vedere se Antipa avesse tenuto fede alla sua promessa.

 

La guardia

Questa persona, ricevuto l’ordine, “Andò, lo decapitò in prigione e ne portò la testa su un vassoio”(v.27): il termine tradotto come “guardia”, o “sergente”da altri, è “speculatore”, cioè un ufficiale addetto ai generali dell’esercito, ma anche agli imperatori, in qualità di aiutante di campo, per recapitare messaggi o altre faccende riservate. Probabilmente ritenne la decapitazione di Giovanni un compito come un altro come fecero i soldati romani che crocifissero Gesù per i quali era uno dei tanti condannati a morte e di cui è scritto “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. In quel contesto, era impensabile che quella “guardia”si opponesse all’ordine ricevuto esattamente come nulla avrebbe potuto, nonostante il grado più alto, Antipa, prigioniero di una promessa assurda. Se quell’ufficiale si fosse opposto, avrebbe subito la stessa sorte di Giovanni senza poterne impedire la morte.

Concludendo, quindi, abbiamo la riuscita di un piano ordito da una persona sola, in grado di porre gli eventi in modo tale che nessuno potesse tirarsi indietro. Certo, questo vale dal punto di vista delle azioni terrene, di una mentalità che influenza e vincola in quanto si assimila col tempo perché, nonostante la vita sia illusoria, alla fine nulla resta se non ciò che si porta davanti al trono del Giudizio o della Grazia e non si fa attenzione. E torniamo così alle parole di Gesù: “Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono coloro che entrano per essa; quanto stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e quando pochi sono quelli che la trovano!”. Amen.

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10.01 – MORTE DI GIOVANNI BATTISTA I (Marco 6.14-29)

10.1 – Morte di Giovanni Battista I (Marco 6.14-29)

 

14Il re Erode sentì parlare di Gesù, perché il suo nome era diventato famoso. Si diceva: «Giovanni il Battista è risorto dai morti e per questo ha il potere di fare prodigi». 15Altri invece dicevano: «È Elia». Altri ancora dicevano: «È un profeta, come uno dei profeti». 16Ma Erode, al sentirne parlare, diceva: «Quel Giovanni che io ho fatto decapitare, è risorto!». 17Proprio Erode, infatti, aveva mandato ad arrestare Giovanni e lo aveva messo in prigione a causa di Erodìade, moglie di suo fratello Filippo, perché l’aveva sposata. 18Giovanni infatti diceva a Erode: «Non ti è lecito tenere con te la moglie di tuo fratello». 19Per questo Erodìade lo odiava e voleva farlo uccidere, ma non poteva, 20perché Erode temeva Giovanni, sapendolo uomo giusto e santo, e vigilava su di lui; nell’ascoltarlo restava molto perplesso, tuttavia lo ascoltava volentieri. 21Venne però il giorno propizio, quando Erode, per il suo compleanno, fece un banchetto per i più alti funzionari della sua corte, gli ufficiali dell’esercito e i notabili della Galilea. 22Entrata la figlia della stessa Erodìade, danzò e piacque a Erode e ai commensali. Allora il re disse alla fanciulla: «Chiedimi quello che vuoi e io te lo darò». 23E le giurò più volte: «Qualsiasi cosa mi chiederai, te la darò, fosse anche la metà del mio regno». 24Ella uscì e disse alla madre: «Che cosa devo chiedere?». Quella rispose: «La testa di Giovanni il Battista». 25E subito, entrata di corsa dal re, fece la richiesta, dicendo: «Voglio che tu mi dia adesso, su un vassoio, la testa di Giovanni il Battista». 26Il re, fattosi molto triste, a motivo del giuramento e dei commensali non volle opporle un rifiuto. 27E subito il re mandò una guardia e ordinò che gli fosse portata la testa di Giovanni. La guardia andò, lo decapitò in prigione 28e ne portò la testa su un vassoio, la diede alla fanciulla e la fanciulla la diede a sua madre. 29I discepoli di Giovanni, saputo il fatto, vennero, ne presero il cadavere e lo posero in un sepolcro”.

 

Episodio di facile comprensione ma per questo non meno complesso, non è collocabile con certezza nel tempo: da un lato pare che i primi versi, da 14 a 16, siano un ponte narrativo: Matteo e Marco pongono Erode Antipa che sente parlare di Gesù mentre i suoi discepoli erano in missione e Lui “partì di là per insegnare e predicare nelle loro città”(Matteo 11.1), ma la morte di Giovanni viene presentata come un fatto già avvenuto. Il verso 16, che riporta le parole “Quel Giovanni che io ho fatto decapitare, è risorto!”, è utilizzato per introdurre ciò che portò alla morte del Battista in un periodo che gli storici collocano tra il febbraio e il marzo dell’anno 29. Scrive Giuseppe Ricciotti “Se egli era stato chiuso in prigione verso il maggio del 28, erano già passati una decina di mesi”: ricordiamo che l’incarcerazione nel Macheronte di Giovanni fu dovuta a vari fattori, ma principalmente alla collaborazione fra i Farisei ed Erode Antipa (che ricordiamo divenne amico di Pilato durante il processo a Gesù): i primi erano seriamente disturbati dalla predicazione di quel profeta, il secondo non poteva accettare i suoi rimproveri di incesto e adulterio secondo la Legge di Mosè. Era quindi necessario incarcerarlo, ma ciò non era possibile fino a quando Giovanni si trovava in un territorio che non fosse sotto la giurisdizione erodiana.

Vale la pena di ricordare che il Battista, prima di venire arrestato, operava ad “Ainon, presso Salim” cioè sotto la città libera di Scitopoli che, in quanto appartenente alla Decapoli, non apparteneva ad Erode. Essendo però Scitopoli praticamente incuneata fra due tronconi del territorio di Antipa si ritiene che, per venire arrestato, Giovanni sia stato attirato da qualcuno in una zona in cui potesse essere legittimamente preso e portato in prigione. Probabilmente i responsabili di quest’azione furono i Farisei, che in Luca 13.32,32 si comportarono con Gesù in modo contrario: quando gli dissero “Partene e vattene via da qui, perché Erode ti vuole uccidere”, lo fecero dietro suggerimento di Antipa stesso che, non volendo sporcarsi le mani con sangue di un altro giusto, sapeva che altri lo avrebbero catturato. Fu in quella circostanza che Nostro Signore definì Erode “volpe”: “Andate e dite a quella volpe: «Ecco, io scaccio demoni e compio guarigioni oggi e domani; e il terzo giorno la mia opera è compiuta. Però è necessario che oggi, domani e il giorno seguente io prosegua nel cammino, perché non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme. Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi coloro che ti sono mandati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figlioli, come la gallina raccoglie i suoi pulcini sotto le sue ali, e non avete voluto! ”.

 

Giovanni Battista

è allora il primo personaggio che esamineremo, rimandando per le sue origini, il ministero e il modo con cui lo esercitò a quanto già scritto alcuni capitoli fa. Conosciamo questo profeta per quello che effettivamente fu, cioè il precursore del Messia, ma se non fosse specificato il suo rimprovero ad Erode, potremmo pensare che si fosse limitato ad annunciare il Cristo, a battezzare e far discepoli. Invece, come profeta, non solo parlava di Dio agli uomini che avrebbero avuto il privilegio di poterlo incontrare in forma umana, ma rimproverava ad Erode un comportamento indegno per uno che avrebbe dovuto rappresentare il popolo su cui regnava, per quanto non fosse ebreo. E la storia dell’Antico Patto è piena di re che ebbero un comportamento moralmente inaccettabile ripresi da Dio per bocca dei profeti. Ricordiamo che Erode Antipa governava sulla Galilea, quindi su ebrei, senza che le autorità religiose avessero nulla da obiettare apertamente sul suo stato coniugale. Ricordiamo le parole della Legge di Mosè in proposito: “Se uno commette adulterio con la moglie del suo prossimo, l’adultero e l’adultera dovranno essere messi a morte”(Lev. 20.10). Antipa infatti era sposato con la figlia del re dei Nabatei Areta IV e, convivendo con Erodiade moglie del proprio fratello Filippo, si era reso colpevole anche di incesto secondo Levitico 18.16 “Non scoprirai la nudità di tua cognata: è la nudità di tuo fratello”condizione definita anche “impurità”in 20.21: “Se uno prende la moglie del fratello, è un’impurità: ha scoperto la nudità del fratello: non avranno figli”.

Giovanni allora riprendeva Erode ricordandogli “Non ti è lecito tenere con te la moglie di tuo fratello”(v. 18, identico anche in Matteo) e Antipa, che non provava per lui sentimenti di rancore particolare, lo fece mettere in prigione perché nessuno poteva riprendere un re senza portarne le conseguenze. Svilupperemo più avanti la psicologia di questo personaggio, ma quel che per ora è importante è sottolineare che un profeta non è tale solo quando porta un messaggio di conforto, ma anche di riprensione indipendentemente da come questo viene accolto dagli interessati. In altri termini Giovanni non andò a parlare ad Erode con astio perché lo giudicava un immorale, ma come messaggero, inviato di Dio che tramite lui lo invitava a ravvedersi. “Non ti è lecito tenere con te la moglie di tuo fratello”. Non si trattava di un rimprovero personale o perbenista, ma di una sottolineatura, un avvertimento a guardarsi da azioni che avrebbero comportato un giudizio imminente anche sulla propria persona. Giovanni si comportò con Erode come Nathan con Davide che andò personalmente a riprenderlo perché aveva preso la moglie di Uria facendo in modo che morisse in battaglia per poter disporre liberamente di lei (2 Samuele 12). Giovanni, come profeta e quindi strumento nelle mani di Dio, fu l’unico ad avere il coraggio di opporsi ad Erode e non fu una sua vittima, ma subì la perfidia e l’odio provato da Erodiade, strumento nelle mani dell’Avversario.

 

Erode Antipa

era figlio di Erode il Grande e di Maltace, sua quarta moglie. Sappiamo che avrebbe dovuto avere in eredità il regno del padre, che poco prima di morire decise di lascarlo ad Archelao. Per decisione di Roma, il territorio di Erode fu diviso in quattro regioni fra i suoi tre figli Archelao, Filippo ed Antipatro, detto appunto Antipa, che ottenne la Giudea e la Perea. Poiché le notizie storiche su di lui sono reperibili da Giuseppe Flavio, esaminiamolo dal punto di vista della persona come appare dai Vangeli, che vanno letti con ottica spirituale. Il primo dato lo otteniamo dalle parole di Gesù che abbiamo citato, quando lo definisce “volpe”, animale che per noi è sinonimo di furbizia e scaltrezza. Con questo termine però poteva indicarsi anche lo sciacallo, immondo come lei, ma con la caratteristica di cibarsi, a parte di piccoli animali, di carogne per cui era ritenuta grandemente impura stante il fatto che un uomo, per aver toccato un cadavere, tale diventava.

Del sacerdote è detto “non si avvicinerà ad alcun cadavere; non potrà rendersi impuro neppure per suo padre e per sua madre”(Levitico 21.11). Per gli uomini comuni valeva questa regola: “Quando qualcuno, senza avvedersene, tocca una cosa impura come il cadavere di una bestia selvatica o il cadavere di un animale domestico o quello di un rettile, rimarrà egli stesso impuro e in condizione di colpa”(5.2). Nel caso di persone, poi, leggiamo “Chi avrà toccato il cadavere di qualsiasi persona, sarà impuro per sette giorni”. Penso allora che l’accostamento allo sciacallo da parte di Gesù sia da riferirsi all’impurità di Antipa che aveva preso la moglie del proprio fratello mentre questo era ancora in vita.

Altra caratteristica di Erode era la sua superstizione che rileviamo quando s’interrogò su chi fosse Gesù. Sappiamo che molti, anziché andare direttamente da Nostro Signore, si chiedevano chi fosse e ognuno si dava una risposta, ma Antipa disse in un primo momento “Giovanni l’ho fatto decapitare io; chi è dunque costui, del quale sento dire queste cose?”(Luca 9.9). Immediatamente Luca aggiunge “E cercava di vederlo”, cosa che gli riuscirà quando gli sarà inviato da Pilato. Comunque, non riuscendo a farselo portare a corte nonostante gli avesse sguinzagliato dietro i suoi informatori e agenti, concluderà “Costui è Giovanni il Battista. È risorto dai morti e per questo ha il potere di fare prodigi!”(Matteo 14.2) oppure, più sinteticamente in Marco, “Quel Giovanni che ho fatto decapitare, è risorto”(v. 16). Non meditò sull’inutilità del suo gesto né, di fronte a quella supposta risurrezione, pensò a ravvedersi, ma rimase esattamente l’uomo curioso e viziato che era, con una coscienza superficiale, la stessa che gli aveva fatto sottovalutare quella promessa così avventata fatta “più volte”in pubblico a Salome, “Qualsiasi cosa mi chiederai, te la darò, fosse anche la metà del mio regno”(v.23).

Antipa non era un malvagio nel senso umano del termine: era certo un calcolatore perché, “benché volesse farlo morire (Giovanni)ebbe paura della folla perché lo considerava un profeta”(Matteo 14.5), ma è quel “lo ascoltava volentieri”che ci parla di una personalità in bilico tra il fare e il non fare quando si tratta di mettere in pratica ciò che Dio si aspetta dall’uomo. Certo, quando Erode parlava con Giovanni, questi non si limitava a ripetergli come un pappagallo che non poteva tenere con sé la moglie del fratello, ma in quanto maggiore di tutti i profeti venuti prima di lui chissà quanti argomenti portò alla sua attenzione con fine di farlo giungere a un ravvedimento. Questo “volentieri”, che può essere tradotto anche “di buon grado, con piacere, spontaneamente”, non andava però oltre al soddisfacimento di quella curiosità personale che tanto si identificava con la spettacolarità, poco importava se del venire informato senza sforzo o dell’essere testimone di uno spettacolo particolare. Antipa ascoltava “volentieri”Giovanni così come “sperava di vedere qualche miracolo”fatto da Gesù, il tutto senza coinvolgere cuore e anima. Mi sono chiesto perché Erode “lo interrogò, facendogli molte domande”(Luca 23.8-12): fu perché voleva soddisfare la sua curiosità più immediata, avere dei dati che lo facessero stupire, ma di cui non solo non avrebbe saputo che farsene, ma che avrebbe anche disprezzato. Dunque, guardando questo episodio, se Giovanni cercava di far riflettere Antipa parlandogli della responsabilità che aveva come regnante sul popolo oltre che sulla sua persona, sulla necessità di lasciare la vita che aveva condotto fino ad allora e ravvedersi, Gesù, parlando ad Erode, avrebbe dato ciò che è santo ai cani e le sue perle ai porci (Matteo 7.6). Sarà proprio il mutismo di Nostro Signore a scatenare in Antipa la reazione tipica dell’adulto bambino, quello malizioso e vendicativo: “Allora anche Erode, coi suoi soldati, lo insultò, si fece beffe di lui, gli mise addosso una splendida veste– in chiaro segno di scherno – e lo rimandò a Pilato”.

Tornando all’episodio in esame, Antipa si rivela come un uomo prigioniero del proprio Io, non una persona “cattiva” come molti altri personaggi che si possono incontrare negli scritti dell’Antico e nel Nuovo Patto, ma un re coi suoi capricci da uomo ricco, spiritualmente appartenente al primo terreno, quello della strada battuta sulla quale si precipitano gli uccelli che facilmente possono prendere il seme che vi cade sopra.

Abbiamo detto vittima del proprio Io, ma anche di Erodiade, la vera organizzatrice dell’esecuzione del Battista all’interno della quale Antipa si trovò intrappolato perché, fatta quella promessa irresponsabilmente e in preda al vino e alla concupiscenza, l’avrebbe dovuta mantenere in quanto parola di re. Erode aveva fatto mettere in catene Giovanni e lì avrebbe dovuto restare, considerandolo quasi un suo giocattolo personale per i motivi di cui abbiamo parlato, ma il fatto stesso che dava al prigioniero la possibilità di ricevere le visite dei suoi discepoli ci parla di come non vi fosse un particolare accanimento nel regime carcerario cui lo aveva sottoposto.

Per fare qualcosa di diverso, interrompere l’ovattata monotonia della vita di corte nonostante i problemi del regno, ecco arrivare il suo compleanno – che gli ebrei non osservavano ritenendola idolatra – e l’opportunità di un banchetto particolare, quello in cui nulla deve mancare a livello di piaceri non solo di gola. Erano presenti funzionari civili, militari e i personaggi più ricchi ed influenti della sua provincia ed ecco perché Antipa avrebbe dovuto stare molto attento a ciò che avrebbe detto qualora avesse promesso qualcosa.

Di fronte a Salome, figlia di Erodiade della quale è tramandato il nome grazie a Giuseppe Flavio, inebetito dal vino oltre che dalla concupiscenza per la nipote, ecco la promessa assurda: le avrebbe dato qualunque cosa, anche la metà del regno (che gli fruttava 200 talenti annui). Trattandosi di una promessa regale fatta in pubblico, avrebbe dovuto mantenerla. Faremo altre considerazioni quando esamineremo i caratteri dei restanti personaggi, ma per ora valutiamo le reazioni una volta presentata la richiesta: “il re, fattosi molto triste, a motivo del giuramento e dei commensali, non volle opporle un rifiuto”(v.26). Non poteva fare altro. “Fattosi molto triste”, di quella “tristezza del mondo”che “porta alla morte”, parente stretta di quella che proverà Giuda Iscariotha. Potrei ipotizzare che, condannando a morte il Battista, Erode pose un enorme macigno a chiusura della sua coscienza, talché più tardi dirà con naturalezza “Giovanni l’ho fatto decapitare io; chi è dunque costui, del quale sento dire queste cose?”.

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09.16 – LA MISSIONE DEI DODICI XV: CHI ACCOGLIE VOI (Matteo 10.40-42)

9.16 – La missione dei dodici: XV. Chi accoglie voi (Matteo 10.40-42)

 

40Chi accoglie voi, accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato. 41Chi accoglie un profeta perché è un profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto perché è un giusto, avrà la ricompensa del giusto. 42Chi avrà dato da bere anche solo un bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa”.

 

Quanto abbiamo letto ci parlano di identità e reciprocità oltre a descrivere una realtà spesso sottovalutata dai credenti. Qui Nostro Signore conclude il suo discorso e in 11.1 leggiamo “Quando Gesù ebbe terminato di dare queste istruzioni ai suoi dodici discepoli, si partì di là per insegnare e predicare nelle loro città”: questi versi allora costituiscono il coronamento di tutto ciò che Lui disse, cioè che a prescindere da quanto gli uomini avrebbero fatto ai discepoli, nulla vi sarebbe stato di nascosto davanti al Padre che avrebbe provveduto loro; non avrebbero avuto ragione di temere nulla salvo “Colui che può far perire nella Geenna l’anima e il corpo”e dare la precedenza assoluta alla missione per la quale erano stati inviati. Ciò che i dodici udirono per la prima volta fu dunque un discorso tecnico-spirituale, che anticipava la vera, totale missione che (tranne Giuda Iscariotha) avrebbero avuto dopo la discesa dello Spirito Santo. Si tratta di parole attuali anche oggi nonostante la forma che la Chiesa ha assunto. Chiedendomi come sviluppare l’argomento ho ritenuto opportuno affrontare i nostri versi limitandomi al loro significato più stretto, lasciando a ciascuno la possibilità di ampliarlo e fare i dovuti paragoni con la propria realtà.

“Chi accoglie voi”, cioè uomini con un mandato preciso, quello di predicare “dicendo che il regno dei cieli è vicino”, regno inteso come progetto indipendentemente dal fatto che fosse in embrione ai tempi di Adamo ed Eva, o in progressione sotto le varie dispensazioni in attesa del suo definitivo compimento. Quel “voi”è quindi comprensivo della persona umana che, senza la missione affidatale da Gesù, sarebbe una, anonima in mezzo alle tante. I dodici non andavano accolti come individui che vivevano in quei territori, ma come persone che annunciavano la vicinanza del regno. Allora, e solo in quel caso, sarebbe stato come se accogliessero il Cristo stesso e quindi Colui che aveva progettato l’opera di recupero dell’essere umano per averlo con sé per sempre. È un concetto che verrà ripetuto più volte, come nell’episodio dell’ultima cena coi discepoli in cui fu detto loro “In verità, in verità io vi dico: chi accoglie colui che io manderò, accoglie me; chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato”(Giovanni 13.20). Pensiamo all’onore e alla responsabilità di cui è rivestito chi ha creduto e cammina nella Parola di Dio.

Sono versi che ci parlano della grande responsabilità che hanno coloro che, anche oggi, sono inviati da Dio per portare il Vangelo agli altri perché non si può decidere autonomamente di farlo, ma occorre sentirne l’inevitabilità e la forza, non pensando a come portare un messaggio efficace in termini pubblicitari, ma formandosi attraverso un percorso fatto di esperienze esattamente come i dodici che prima furono uomini come tutti gli altri (e certo non se ne dimenticarono mai), poi furono chiamati e iniziarono un percorso fatto di fraintendimenti, errori, incomprensioni e riprensioni prima di capire con precisione quale era il loro posto nella Chiesa.

“Voi”“me”“Colui che mi ha mandato”ci parlano sì di un’identità, ma attenzione a non definirla, darla automaticamente per scontata perché, affinché possa realizzarsi, va inquadrata sotto il rapporto che intercorreva tra il Figlio ed il Padre: Gesù, uomo, era soggetto a tutte le limitazioni che gli imponeva la carne (alla quale però non cedette mai salvo che nella morte), ma nonostante questo si dimostrò talmente perfetto – pensiamo alla prima grande prova vista nelle tentazioni nel deserto – da non incrinare mai il suo rapporto con Chi lo aveva inviato. Ora tutta la vita degli undici ci parla di una progressione continua verso l’Alto: la missione loro affidata, la loro identità si costruì giorno per giorno, ma era comunque presente ed assimilata in Lui ed è (anche) qui che si rivela l’amore di Dio che, come avvenuto sempre dai tempi antichi, scelse degli uomini perché potessero dar corso ai Suoi piani.

Nel“Voi”di Gesù oggi allora sono compresi coloro ai quali è stato dato “il dono della parola e quello della conoscenza”(1 Corinti 1.4), parola che prima come appartenenti al mondo non avevano, quelli che “cooperano alla preghiera”(2 Corinti 1.11) e in essa vegliano (Colossesi 4.2), che si custodiscono secondo le parole di Colossesi 2.6,7: “Come dunque avete accolto Cristo Gesù, il Signore, in lui camminate, radicati e costruiti su di lui, saldi nella fede come vi è stato insegnato, sovrabbondando nel rendimento di grazie. Fate attenzione che nessuno faccia di voi la sua preda con la filosofia e con vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo”(Colossesi 2.6,7). È un cammino non facile, in cui il discernimento non sarà mai abbastanza stante le astuzie di Satana e dei suoi angeli, per la correttezza del quale non pregheremo mai abbastanza. Il verso successivo, sempre in questa lettera, illustra pienamente il senso delle parole dette ai dodici, a conferma della loro estensibilità anche a quelli che sarebbero venuti dopo di loro: “È in lui che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità, e voi partecipate alla pienezza di lui, che è il capo di ogni Principato e Potenza”. Ciò in opposizione a tutti quanti sostengono che Gesù sia una sorta di “dio minore” o un profeta, per quanto di alto livello.

C’è allora la visione “pessimista” di chi ha concluso che tutti “vedono il sepolcro”, che “animali e uomini vanno nello stesso luogo”, che ogni cosa è vanità perché impotente a risolvere il problema del fine ultimo della vita dell’essere umano, cui fa da contrappeso il grido del salmista “Per questo gioisce il mio cuore ed esulta la mia anima; anche il mio corpo riposa al sicuro, perché non abbandonerai la mia vita negli inferi, né lascerai che il tuo fedele veda la fossa”(68.9,10) e “Hai mutato il mio lamento in danza, mi hai tolto l’abito di sacco, mi hai rivestito di gioia, perché ti canti il mio cuore, senza tacere; Signore, mio Dio, ti renderò grazie per sempre”(30.12,13). Chi scrive queste parole si identifica in questi concetti che rientra nel “Voi”, per quanto io possa capire il sentimento che animò Salomone nello scrivere l’Ecclesiaste (o Qoèlet) nell’ultimo periodo della sua vita, e discernerne il valore. L’Ecclesiaste, infatti, è un accorato appello rivolto all’uomo affinché possa aggrapparsi con tutte le sue forze al Cristo risorto. Viceversa conoscerà la sconfitta.

“Voi”“me”“Colui che mi ha mandato”sono parole che costituiscono un muro contro l’autonomia dell’essere umano nel senso che, se Gesù riferiva tutto ciò che dal Padre aveva visto e udito, la stessa cosa la devono fare i discepoli, che devono essere consapevoli del fatto che non possono aggiungere né togliere nulla a quanto loro ordinato o, peggio, fingere ciò che non sono pena un profondo insuccesso e la somiglianza coi religiosi visti negli Scribi e Farisei che avevano finito per ridurre la Legge morale a pura formalità e orgoglio personale.

Il verso 41 prosegue con le parole “Chi accoglie un profeta perché è un profeta, avrà la ricompensa del profeta”: abbiamo così un collegamento alla vicenda di Elia e la vedova di Sarepta che, ricevendolo sapendo chi fosse, non solo si sfamò per molti giorni in un periodo di carestia, ma fu anche testimone della resurrezione del proprio figlio e concluse dicendo “Ora so veramente che tu sei uomo di Dio e che la parola del Signore nella tua bocca è verità”. Accogliere un profeta, anche solo ascoltandolo e riconoscendo la sua funzione, non è un’azione che rimane a vuoto, ma produce dei benefici in chi lo riceve non in quanto uomo, ma come “Anghelos”. Pensiamo alla Sunamita che, riconosciuto in Eliseo un uomo di Dio ed approntandogli una stanza d’accordo col marito, ebbe il figlio che desiderava nonostante l’avanzata età del coniuge; ed è bello vedere in questo episodio che il premio di questa donna non fu dato a caso, ma studiato diligentemente da Eliseo che chiese per due volte cosa avrebbe potuto fare per lei (vedi 2 Re 4.8 e segg.). L’insegnamento che possiamo trarre da questi due episodi è che l’accogliere un profeta in quanto tale implica l’assistenza di Dio in modo tale da porre chi lo riceve nella condizione di valutare da sé ciò che Lui stesso e non l’uomo in quanto tale ha da proporgli. E a trovare una strada nuova da percorrere. Possiamo vedere sotto quest’ottica anche gli stessi miracoli compiuti da Gesù su tutti coloro che gli chiesero aiuto con fede: nessuno di loro non ebbe un ritorno, neppure quel famoso “giovane ricco” che, infatti, si escluse da sé. Il profeta vero, a differenza di quello falso, è uno strumento nella mani di Dio perché sta bene attento a non metterci del suo, ma fa ciò che gli viene detto e rivelato senz’altro interesse oltre a quello di servire.

Così “chi accoglie un giusto perché è un giusto, avrà la ricompensa del giusto”: anche qui il richiamo è agli scritti dell’Antico Patto e ad episodi indicativi, a partire dall’invidia che portò alla congiura di due eunuchi contro Mardocheo in Ester 2.21-23, fallita miseramente e conclusasi con la loro impiccagione. Ancora, possiamo vedere la descrizione che Giobbe dà di se stesso quando esercitava funzioni pubbliche in 29.7-17, ma forse gli esempi migliori per esaminare il significato del termine “giusto” li troviamo nel libro dei Proverbi in cui il viene frequentemente posto in antitesi all’empio, o nel Salmo 1: “Beato l’uomo che non entra nel consiglio dei malvagi, non resta nella via dei peccatori e non siede in compagnia degli arroganti, ma nella legge del Signore trova la sua gioia, la sua legge medita giorno e notte– perché non la capirà mai abbastanza –. È come albero piantato lungo corsi d’acqua, che dà frutto a suo tempo – opportuno, non quando vuole lui–: le sue foglie non appassiscono e tutto quello che fa, riesce bene. Non così, non così i malvagi, ma come pula che il vento disperde: perciò non si alzeranno i malvagi nel giudizio né i peccatori nell’assemblea dei giusti, poiché il signore veglia sul cammino dei giusti, mentre la via dei malvagi va in rovina”.

Sono parole che contrappongono il giusto, che è e sarà, al malvagio che come il giusto è, e crede di essere, ma che è destinato a non alzarsi in giudizio né ad essere ammesso all’ “assemblea dei giusti”in cui è agevole intravedere la cittadinanza del Regno che i discepoli dovevano annunciare.

Siccome però l’amore di Dio è totale e non tralascia nulla, dal più grande al minimo, ecco che Gesù parla dei “piccoli”non per mettere un distinguo, ma in quanto desidera comprendere tutti quelli che in Lui hanno creduto, più o meno forti, più o meno deboli: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno di questi miei fratelli più piccoli, lo avete fatto a me”(Matteo 25.40). Attenzione perché la frase può essere letta tanto in positivo, cioè con dare aiuto, quanto in negativo, cioè disprezzandoli e ostacolandoli. Attenzione perché questo verso può comportare un premio o una pena.

Il bicchiere d’acqua è una cosa semplice, poca cosa che assume valore unico se quando lo si riceve se ne ha bisogno: ebbene anche qui, a parte l’indubbio valore di un’azione tesa a dare aiuto a un essere umano, Gesù afferma “Chiunque infatti vi darà da bere un bicchier d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa”(Marco 9.41). Siamo oltre alla buona azione, ma all’interno di un circuito in cui gli elementi determinanti sono “nel mio nome”e “perché siete di Cristo”, cioè la collaborazione, l’aiuto e il soccorso fraterno.

L’apostolo Paolo testimonia in alcune sue lettere i nomi di quelli che lo aiutarono nel momento del bisogno non solo materiale; ad esempio “Il Signore conceda misericordia alla famiglia di Onesiforo, perché egli mi ha più volte confortato e non si è vergognato delle mie catene; anzi, venuto a Roma, mi ha cercato con premura, finché non mi ha trovato. Gli conceda il Signore di trovare misericordia presso Dio in quel giorno. E quanti servii egli abbia reso a Efeso, tu lo sai meglio di me”(2 Timoteo 1.16-18). Scrivendo la lettera agli Ebrei, dice “Dio infatti non è ingiusto tanto da dimenticare il vostro lavoro e la carità che avete dimostrato verso il suo nome, con i servizi che avete reso e che tuttora rendete ai santi”.

“Voi”. “Un profeta”, “un giusto”,“uno di questi piccoli”, tutti termini che rivestono un significato solo se raccordati al “me”e quindi a “Colui che mi ha mandato”: e concludendo, possiamo ricordare quanto scritto in 2 Corinti 5.20: “In nome di Cristo, dunque, vi siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che vi esorta. Vi supplichiamo nel nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio. Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore. Perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio”.

E qui troviamo espresse le ragioni del valore di gesti che, altrimenti, sarebbero tutto sommato ordinari. Amen.

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09.15 – LA MISSIONE DEI DODICI: PACE SULLA TERRA II (Matteo 10.37-39)

9.15 – La missione dei dodici: Pace sulla terra II (Matteo 10.37-39)

37Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me; 38chi non prende  la propria croce e non mi segue, non è degno di me. 39Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà”.

La divisione provocata dalla spada di cui ha parlato Gesù nei due versi precedenti, anche se potrebbe non sembrare, compare anche in questi in cui si parla del modo in cui gli affetti condizionano la nostra vita perché l’uomo pensa, progetta, ama prima se stesso e ciò di cui si circonda. Ora i dodici avevano appena ascoltato le parole “Sono infatti venuto a separare l’uomo da suo padre e la figlia da sua madre e la nuora da sua suocera, e nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa”(vv.35 e 36) e qui viene evidenziata la possibilità che, a fronte di una chiamata o della necessità di fare scelte ritenute spiacevoli dal proprio nucleo famigliare, si rinunci ad essa per non turbare degli equilibri affettivi che coinvolgono o ai quali, anche per convenienza, non si vuole rinunciare.

Non mi soffermerei però sul letterale del verso, ma piuttosto sul fatto che Nostro Signore, in questo discorso ai dodici, parte dalle relazioni famigliari come spunto immediato per concludere al verso trentanovesimo con “chi avrà tenuto per sé la propri vita”: allora il discorso egoista comprende ogni interesse per cui padre, madre, figlio o figlia, marito o moglie sono solo degli esempi, dei riferimenti. Infatti, quante persone conosciamo poco sensibili a questi affetti, che però amano allo stesso modo, se non di più, quanto posseggono?

Tenere. È un verbo importante che come primo significato ha “Trattenere, afferrare qualcuno o qualcosa con le mani perché non sfugga o non cada e stia fermo”. Poi abbiamo anche “conservare, custodire, mettere da parte qualcuno o qualcosa che riteniamo sia nostro”. Possiamo tenere un oggetto particolarmente caro affinché appartenga solo a noi, ma qui il collegamento è alla “propria vita”per cui il discorso si fa enormemente ampio, essendo essa ciò che possediamo e, nella maggior parte dei casi, non vorremmo mai perdere. La “vita”non sta in un cuore che batte e nel sangue che circola, ma è tutto ciò che siamo, che possiamo fare e che coinvolge i nostri sensi, che si dice siano cinque: vivere significa non solo vedere, ascoltare, odorare, gustare o toccare, ma soprattutto decidere, reagire.

C’è un vivere rappresentato dalle reazioni immediate ai sensi e c’è un vivere che fa tesoro di queste esperienze per progettare. Crescendo, impariamo ben presto a conoscere ciò che ci fa star bene o male e chiaramente ci adoperiamo affinché la prima condizione venga mantenuta. Crescendo, scopriamo di avere delle attitudini e ci costruiamo un avvenire, pensiamo al futuro. In base al nostro carattere, proveremo un attaccamento maggiore o minore a ciò che ci apparterrà: persone, cose, condizione sociale, stima e considerazione dei nostri simili. Vivremo circondati nel nostro perimetro che sarà ampio o stretto, dall’orgoglio, dalle nostre necessità che o soddisferemo o ci adopreremo affinché vengano soddisfatte. La vita sarà il più delle volte una corsa verso obiettivi primari o secondari e, di fronte al loro conseguimento, raramente ci sarà spazio per gli altri nonostante il loro frequentarli in quanto animali più o meno sociali.

Credo che Gesù usi il termine “propria vita”perché ciascuno pensa appunto a se stesso prima che al suo prossimo secondo i tre detti cardine, “mors tua vita mea”, “meglio a te che a me”, “oggi a me, domani a te”. Nella Scrittura, esempi di persone che si sono trovate di fronte alla necessità o meno di tenere “per sé la propria vita”,ve ne sono tante; ciascuna di loro si è rivelata nel momento preciso in cui ha dovuto fare una scelta e ciò è avvenuto quando ha avvertito che, se Dio fosse stato accolto, avrebbe provocato una spaccatura profonda che avrebbe comportato una rinuncia. Nel Vangelo abbiamo incontrato e incontreremo Nicodemo, che ebbe bisogno di molto più tempo dei discepoli per dichiararsi. Pensando ai dodici, non possiamo che guardare alla vita tranquilla che conducevano prima di incontrare Gesù: Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni vivevano da benestanti coi proventi del loro lavoro, Matteo era un onesto daziere, Giovanna moglie di Cuza aveva la corte di Erode e certamente non le mancava nulla dal punto di vista terreno. Giuda Iscariotha stesso, che vendette il suo Maestro al Sinedrio per una somma oggi quantificabile in 1200 – 1500 euro, ascoltò le parole che stiamo meditando ed ebbe l’opportunità, dalle parole di Gesù e vedendo i suoi miracoli, di ravvedersi e rinunciare alla propria mentalità che vedeva nel furto una ragione di vita. Il “giovane ricco”si allontanò rattristato a seguito dell’invito a dare tutto ciò che aveva ai poveri, quando fino ad allora si crogiolava nell’osservanza dei precetti della Legge di Mosè che lo soddisfacevano.

L’attaccamento che l’uomo ha al proprio vivere è ben conosciuto dall’Avversario che, nel libro più antico della Scrittura, quando scommette con Dio su Giobbe, dirà “Tutto quello che possiede, l’uomo è pronto a darlo per la sua vita”(2.4), parole che contengono una verità assoluta e implicitamente racchiudono l’impossibilità a mutare il nostro destino finale quando arriveremo termine perché, come individui, persone, saremo stati responsabili dei nostri atti: “Certo, l’uomo non può riscattare se stesso né pagare a Dio il proprio prezzo. Troppo caro sarebbe il riscatto di una vita: non sarà mai sufficiente per vivere senza fine e non veder la fossa”(Salmo 49.8-10).

Ancora: “Ma nella prosperità l’uomo non dura: è simile alle bestie che muoiono. Questa è la via di chi confida in se stesso, la fine di chi si compiace dei propri discorsi. Come pecore sono destinati agli inferi, sarà loro pastore la morte; scenderanno a precipizio nel sepolcro, svanirà di loro ogni traccia, gli inferi saranno la loro dimora”(vv. 11-15): sottolineiamo la parola “pecore”, che abbiamo incontrato diverse volte riferita tanto a quelle di Dio che di Satana e pensiamo ai due destini opposti che hanno in particolare le seconde, che scenderanno a precipizio praticamente senza accorgersene. Questo sarebbe il destino di tutti se, al verso 16, non trovassimo “Certo, Dio riscatterà la mia vita, mi strapperà dalla mano degli inferi”dove abbiamo esposta una seconda verità, quella del riscatto impossibile all’uomo, ma possibile a Dio che interviene con mano tesa a salvare, se questa viene afferrata sapendo che nessun altro può liberare l’anima dal suo destino di morte.

Il Salmo 49 si conclude così: “Nella prosperità l’uomo non comprende, è simile alle bestie che muoiono”. Ecco l’inganno, ecco la “vita”che non si vuole perdere e per questo la si tiene per sé, senza pensare che così facendo si rimanda solamente il momento in cui tutto andrà lasciato e si perderà irrimediabilmente: “Non temere se un uomo arricchisce, se aumenta la gloria della sua casa. Quando muore, infatti, con sé non porta nulla né scende con lui la sua gloria. Anche se da vivo benediceva se stesso: «Si congratuleranno, perché ti è andata bene», andrà con la generazione dei suoi padri, che non vedranno mai più la luce”(vv.11-20). È un tema che troveremo sviluppato da Salomone nel Qoèlet, o Ecclesiaste, quando, giunto nell’ultimo periodo della sua vita e voltatosi indietro, concludendo che “tutto è vanità”, si porrà la domanda “Quale guadagno viene all’uomo per tutta la fatica con cui si affanna sotto il sole?”(1.3) e tante altre, con uno sguardo concreto e implacabile sul senso dell’esistenza fine a se stessa.

Il problema è quindi “tenere per sé”oppure “perdere”, ma senza uno scopo preciso che vede la vita eterna con Cristo, parleremmo inutilmente perché c’è stato chi alla vita terrena ha rinunciato anche per un ideale: pensiamo a quanti sono morti per la propria nazione, per evitare il sacrificio di persone innocenti, per salvarle da pericoli, alle medaglie conferite al valore, civile o militare. Eppure, nonostante questi atti eroici, qui Gesù parla di perdere la propria vita “per causa mia”e non altre. “Perdere” cioè cessare di “possedere” che è il suo esatto contrario. Oggi, ora, ho, domani non ho più, cessa l’ Io, si dissolve, scompare, finisce, non è più. Ma il suo finire può ritrovarsi con Cristo oppure no, visto nelle parole “per causa mia”. Mia e di nessun altra filosofia, religione, fede. Perché anche il “mangiamo e beviamo perché domani morremo”potrebbe essere un motto condivisibile se dopo la morte del corpo non incontrassimo un’altra vita o un’altra morte.

Arriviamo poi a un altro problema posto da Gesù, e cioè la necessità di essere degni di lui, condizione che qui viene vista come condizione, prospettiva che esula dalle nostre possibilità e di cui al tempo stesso ne viene stabilito l’essere. Quando qualcuno viene ritenuto degno di qualcosa è perché viene considerato o giudicato meritevole in base a criteri di valutazione oggettivi. Sappiamo che chiunque crede è ritenuto “amico”di Cristo “se”fa le cose che Lui comanda. Ebbene, ai dodici, al verso 38, dice “Chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me”, che si raccorda al perdere la propria vita o al trovarla.

La“croce”, una parola semplice che purtroppo è stata impiegata e interpretata a sproposito complice il detto “ognuno ha la sua croce” con la quale s’allude ai problemi e alle sofferenze che s’incontrano nel quotidiano. In realtà, la “croce”di cui parla Gesù è costituita da tutte le negatività con le quali presto o tardi ci troveremo a fare i conti in quanto figli di Dio. La “croce”che il cristiano è chiamato a portare è “sua”e di nessun altro, calibrata in rapporto al peso e alle forze, alle capacità, alla chiamata e anche di questo avremmo di che ringraziare perché, prendendola, non siamo lasciati soli, ma invitati a percorrere un cammino che ha, ancora una volta, il Salvatore stesso come guida. La “croce”non è certo costituita da quei “pesi”che i Farisei imponevano al popolo e che loro non volevano toccare “neppure con un dito”!

La frase sulla “croce”verrà ancora ripetuta in 16.24-26 di questo stesso Vangelo: “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso– cioè riconosca di essere nessuno di fronte a Lui, capitoli con la sua volontà terrena –, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la sua vita per causa mia, la troverà. Infatti quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita? O che cosa un uomo potrà dare in cambio della propria vita?”. Si tratta di una traduzione non corretta perché, negli ultimi versi, andrebbe sostituito “vita”con “anima”, cioè tutto il sentire psichico dell’essere umano che, quando ne verrà privato, proverà “pianto e stridore di denti”.

In Marco 8.35 Gesù aggiunge “chi perderà la propria vita a causa mia e del Vangelo, la troverà”, Luca 9.23 specifica che la croce va presa “ogni giorno”e, infine, Giovanni 12.25 “Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua– non senza la croce – e dove sono io, là sarà anche il mio servitore”.

Con queste parole che stabiliscono la destinazione finale di tutti coloro che avranno creduto, credo si possano concludere queste nostre riflessioni. La raggiunta “pace con Dio” non può che venir confermata tramite il rinnegare noi stessi, cioè ciò che siamo per la carne. Non è qualcosa che avviene all’improvviso, ma è una scelta alla quale si giunge tramite il confronto continuo con il Padre e con il Figlio, autore della nostra redenzione. Quando il verso “Io so che in me non abita alcun bene”sarà compreso e assimilato come realtà e non come modo di dire per sventolare una falsa umiltà, potremo iniziare a seguirLo con tutta la nostra pochezza. Amen.

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09.14 – LA MISSIONE DEI DODICI: PACE SULLA TERRA I (Matteo 10.34-36)

9.14 – La missione dei dodici: XIII. La pace sulla terra (Matteo 10.34-36)

 

34Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; sono venuto a portare non pace, ma spada. 35Sono infatti venuto a separare l’uomo da suo padre e la figlia da sua madre e la nuora da sua suocera; 36e i nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa”.

 

Nel versi precedenti abbiamo visto come, quando gli uomini si troveranno davanti a Cristo, verranno da Lui riconosciuti o rinnegati. A parte le considerazioni fatte in proposito si può dire che questi versi, pur riguardando tutti gli uomini, non escludono quelli che nella Chiesa si professano credenti, ma poi vivono con una condotta non consona alla loro professione di fede o l’abbandonano o ancora, a fronte di dover pubblicamente riconoscere la propria appartenenza a Cristo, la negano per ragioni di interesse personale. Si tratta di un tema molto delicato che l’apostolo Paolo, parlando di quelli che “sono stati una volta illuminati e hanno gustato il dono celeste, sono diventati partecipi dello Spirito Santo e hanno gustato la buona parola di Dio e i prodigi del mondo futuro”, afferma che possono arrivare a un punto estremo, di non ritorno: “tuttavia, se sono caduti, è impossibile rinnovarli un’altra volta portandoli alla conversione, dal momento che, per quanto sta in loro, essi crocifiggono di nuovo il Figlio di Dio e lo espongono all’infamia” (Ebrei 6.4,6). Sono parole importanti e quel “se cadono” non è riferito a quei peccati che possiamo sempre commettere nella nostra carne, appunto cadendo, ma a un ritorno definitivo e volontario all’uomo vecchio, allo stato di separazione da Dio che si aveva prima della conversione, quindi un rinnegamento. È come dire, a fronte di una fede professata pubblicamente, “mi sono sbagliato”.

Ricordiamo poi che il “riconoscere” da parte di Gesù non comporterà solo il conferimento di quel “lasciapassare” perché “concittadini dei santi e membri della famiglia di Dio”, ma l’attribuzione di un posto preciso nella “casa dalle molte stanze” che avverrà non senza sorprese visto che “molti ultimi saranno primi e molti primi ultimi”. Si tratta di occupare un posto preannunciato molte volte negli scritti del Nuovo Patto ed esposto in parabole, come quella delle dieci vergini o del gran convito in cui viene trovato uno che non aveva il vestito delle nozze, ma anche nei posti in un banchetto in cui ci sarà chi si troverà vicino o lontano da chi è a capotavola o, ancora, in quel “vuoto incolmabile”, o “gran voragine” che separa il ricco da Lazzaro, per non parlare dei talenti ricevuti e ridomandati.

Ciò che rileviamo immediatamente dai versi di oggi, però, è quello che potremmo definire un controsenso visto nel “Principe della pace” che sulla terra, anziché essa, porta “la spada”, strumento di offesa e difesa al tempo stesso. Per la prima volta la spada è citata in Genesi 3.24, quando viene consegnata ai Cherubini perché difendano l’accesso al giardino di Eden che aveva visto una relazione perfetta con il Creatore diventata poi impossibile a causa del peccato. Da lì in poi la “spada” fu per gli uomini uno strumento spesso terribile e portatore di morte anche su vasta scala, con lo sterminio di interi popoli. Figura anche del giudizio di Dio è comunque fondamentalmente riferita alle conseguenze dell’opera dello Spirito Santo e della Sua parola, che sappiamo essere “più acuta di una spada a doppio taglio” perché, appunto, separa ed è su quest’azione che si baserà non tanto il nostro studio, ma la nostra stessa vita.

Quando mi sono chiesto da dove iniziare la lettura cronologica del Vangelo ho deliberatamente scelto di non partire dalle genealogie di Matteo e Luca come sarebbe stato logico aspettarsi, ma dall’inno con cui Giovanni apre il suo scritto, che subito parla contemporaneamente di benedizione e gioia, ma anche di esclusione: “A tutti coloro che l’hanno accolto, ha dato il potere di diventare figli di Dio”. Non tutti gli uomini hanno creduto e crederanno. Possiamo dire allora che il Vangelo si apre immediatamente con una distinzione tra chi è figlio di Dio e chi no, annuncia questa importante verità in modo che tutti scelgano di appartenere a Gesù Cristo.

Non solo, ma qualora si andasse a Matteo 1, non si potrebbe fare a meno di notare che anche lì esiste una profonda divisione, un taglio netto, con la citazione di personaggi che svilupperemo limitatamente a questo contesto: al versi 2 e 3 leggiamo infatti “Abrahamo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuda e i suoi fratelli. Giuda generò Fares e Zara da Tamar…”. Ciò che potrebbe apparire, anche nei versi successivi, come un elenco di nomi tesi a dimostrare che Gesù fosse realmente discendente da Davide e quindi di Abrahamo, nasconde dei significati che potrebbero applicarsi anche a tutti i suoi discendenti.

Abrahamo, il cui nome originario era Abramo, fu chiamato quando era ancora idolatra e non conosceva il Signore: “Vattene dalla tua terra – nella quale sei cresciuto e che conosci –, dalla tua parentela – quindi dai tuoi legami affettivi più profondi, ma anche abitudinari – e dalla casa di tuo padre – che ti ha cresciuto e al quale hai ubbidito –, verso la terra che io ti indicherò”, quindi senza sapere dove, affidandosi a Lui completamente (cap. 12).

Più tardi Abrahamo, per suggellare il patto con YHWH che più volte gli aveva rivelato i Suoi piani per lui, dovette istituire la circoncisione come segno esteriore di appartenenza al popolo di Dio cui dovevano sottoporsi anche gli stranieri che venivano accolti. Rifiutare la circoncisione equivaleva a volersi esentare dall’elezione, rifiutare il patto con Dio, ed era punita con la morte.

Proseguendo, leggiamo il nome di Isacco, che associamo immediatamente all’episodio del suo sacrificio dimenticando che, prima di questo, c’era stata una separazione spirituale dal fratello Ismaele, dal quale discenderanno i popoli arabi, che usava prepotenza verso di lui e lo dileggiava: “Sara vide che il figlio di Agar l’egiziana, quello che lei aveva partorito ad Abrahamo, scherzava – nel senso di dileggiarlo – con il figlio Isacco” (Genesi 6.9). E Ismaele, per quanto aiutato da Dio, “abitò nel deserto e divenne un tiratore d’arco” (21.21) mentre Isacco proseguì, compatibilmente con la dispensazione nella quale viveva, il suo percorso spirituale non senza affrontare le difficoltà della vita come tutti.

La spada la vediamo ancora con Giacobbe, che propose ad Esaù, che in quanto primogenito doveva essere il più responsabile e d’esempio, di vendergli la primogenitura, cosa che fece, ritenendola di valore inferiore a una minestra. Di questi due fratelli leggiamo che “…Esaù divenne abile nella caccia, un uomo della steppa, mentre Giacobbe era un uomo tranquillo, che dimorava sotto le tende” (25.27). Tutto il cammino di questi due uomini testimonia interessi e atteggiamenti opposti, per quanto la spada in senso letterale, cioè come violenza, non compaia mai salvo come intenzione perché, per un certo tempo, Esaù voleva uccidere il fratello.

Quando poi leggiamo in Matteo 1.2 “Giacobbe generò Giuda e i suoi fratelli”, la separazione si fa ancora più acuta: pensiamo a Simeone che profanò il talamo del padre, ancora a lui e Levi che sterminarono i Sichemiti dopo un piano studiato accuratamente, a tutti i fratelli (tranne Beniamino) che furono concordi nello sbarazzarsi di Giuseppe, vendendolo a una carovana di Ismaeliti. Il motivo fu non tanto di antipatia nei suoi confronti, ma perché non potevano sopportare il fatto che non fosse come loro: “Or Giuseppe riferì al padre di chiacchiere maligne su di loro” (Genesi 37.2), là dove una traduzione più corretta riporta “riferì la mala fama che andava intorno a loro”.

Infine, arriviamo a “Giuda generò Fares e Zara da Tamar”: come Giacobbe ed Esaù erano gemelli e nacquero in modo curioso perché “Durante il parto, uno di loro mise fuori una mano e la levatrice prese un filo scarlatto e lo legò attorno a quella mano dicendo: «Questi è uscito per primo». Ma poi ritirò la mano, ed ecco, venne alla luce suo fratello. Allora ella esclamò: «Come ti sei aperto una breccia? E fu chiamato Fares – cioè rottura, separazione –. Poi uscì suo fratello, che aveva il filo scarlatto alla mano, e fu chiamato Zara – cioè nascita dolce, agevole –“ (Genesi 38.28,29). Due nomi eloquenti.

Ora, con questi riferimenti all’Antico Patto, vediamo che è sempre esistito un confine tra gli uomini, una divisione tra chi tendeva verso Dio e chi invece lo respingeva preferendo i territori della propria carne. Ebbene ancor di più questo si verifica nella nuova era della Grazia, in cui lo Spirito Santo agisce apertamente avendo costituito un popolo che non abita più in una terra promessa, ma in mezzo alle genti, al paganesimo davvero multiforme, a un mondo che mira più che in passato a infrangere le barriere anche solo morali dimentico del fatto che “Dio ha messo l’Eterno nel cuore dell’uomo” (Ecclesiaste 3.11), quindi un naturale tendere a lui molto più rilevabile nel passato, quando c’era un codice d’onore e dignità, che nei tempi in cui viviamo.

Avendo citato spesso il libro della Genesi, ricordiamoci quanto detto da YHWH al serpente: “Io porrò inimicizia fra te e la donna – perché da essa sarebbe un giorno venuto il Cristo – fra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno”. Sappiamo molto bene quale sia il significato delle ultime parole, ma si fa meno caso al fatto che qui si parli di due stirpi, una che proviene dal serpente e l’altra dalla donna: naturalmente il riferimento è a quella della genealogia menzionata da Matteo e Luca, ma per riflesso comprende quella di coloro che “da Dio sono nati”. Ecco allora che l’inimicizia fra la progenie della donna e quella del serpente, secondo le parole di Gesù che molti hanno sperimentato su di loro, si sarebbe insinuata anche nelle famiglie dove i legami avrebbero dovuto essere più forti che altrove.

Nostro Signore quindi non dice parole nuove come potrebbe sembrare, ma cita Michea 7.6 “Il figlio insulta suo padre, la figlia si rivolta contro la madre, la nuora contro la suocera e i nemici dell’uomo sono quelli di casa sua”, dimostrando così che esiste uno scorrere del tempo e il manifestarsi di forze avverse in crescendo che non deve meravigliare il discepolo, anzi rallegrarlo perché attraverso queste manifestazioni ha un segnale dell’avvicinarsi del gran Giorno: “L’uomo è scomparso dalla terra, non c’è più un giusto tra gli uomini: tutti stanno in agguato per spargere sangue, ognuno con la rete dà la caccia al fratello. Le loro mani sono pronte per il male: il principe avanza pretese, il giudice si lascia comprare, il grande manifesta la cupidigia, e così distorcono tutto. Il migliore di loro è come un rovo, il più retto una siepe di spine” (7.2-4).

Le parole di Gesù, che purtroppo per ragioni di tempo stiamo spezzando in più episodi, vengono pronunciate per preparare il discepolo a vedere le manifestazioni negative del suo prossimo, che presto o tardi si troverà a sperimentare, come un effetto naturale e inevitabile. Disse anche in un’altra occasione: “Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia. (…). Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi; se hanno osservato la mia parola, osserveranno ance la vostra. Ma tutto questo vi faranno a causa del mio nome, perché non conoscono colui che mi ha mandato” (Giovanni 15.18-21).

C’è quindi un conoscere e un non conoscere, entrambi risultato di una volontà di essere dalla parte di Dio, costantemente, o di quella del mondo naturale destinato a perire. La spada che Gesù è venuto a portare, è allora la naturale conseguenza della Sua elezione a figli verso di noi. Ma al di là di tutto, ciò che tutta la Storia sacra insegna a partire da quando Adamo e sua moglie furono estromessi da Eden, è che Iddio tesse un piano per ciascuno dei suoi figli non meno complesso del suo stendere i cieli nell’universo. Amen.

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09.13 – LA MISSIONE DEI DODICI: CHI MI RICONOSCERÀ II (Matteo 10.32,33)

9.13 – La missione dei dodici: XII. Chi mi riconoscerà II/II(Matteo 10.32,33)

 

32Perciò chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; 33chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli”.

 

Nel capitolo scorso ho cercato di affrontare il passato e il presente della persona che, a un certo punto della vita, fa un’esperienza personale con il Dio Creatore e Salvatore. Il “presente” è stato sviluppato guardando un solo aspetto, credo attinente ai versi di Gesù che stiamo sviluppando e può essere quindi considerato come tutta quella serie di azioni e comportamenti, positivi o negativi, che compiamo nel nostro quotidiano ogni giorno della nostra vita e che portiamo con noi. In pratica, il bagaglio di peccato che avevamo prima dell’incontro col Figlio è stato da Lui tolto con la nuova nascita; con ciò abbiamo avuto la possibilità di ripartire da zero, di iniziare una nuova vita esattamente come può avvenire per un ergastolano cui viene concessa la grazia.

Il presente allora rappresenta un concetto molto più complesso di quello cui siamo abituati nel senso che, pur essendo costituito dall’oggi, dall’attuale, dalla contemporaneità, comprende anche tutta la storia dell’uomo salvato e redento da Dio dal momento in cui sa di avere ricevuto il Suo perdono e Lo riconosce come unico in grado di guidare la propria vita.

Sono stato crocifisso con Cristo e non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Galati 2. 19,20): pur passando gli anni, come credenti, ci troviamo in un ambito simile a quello dei dodici inviati in missione, di cui sappiamo che non avrebbero dovuto portare con sé nulla a parte la promessa-certezza che sarebbero stati oggetti di tutta l’assistenza del Padre, oltre che a quella del Figlio. Certamente i giorni sarebbero trascorsi, ma sempre sotto l’ottica di quel “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del tempo”, o come altri traducono “dell’età presente”, o “del mondo”.

Il nostro presente è fatto di momenti che si assommano, si accumulano portando gli elementi della vita che concretiamo giorno dopo giorno per cui il passato non è lo ieri tecnico, quello che definiamo abitualmente, in quanto sempre facente parte dell’oggi. Può apparire un concetto filosofico, ma non lo è. Come cristiani il passato non ci appartiene più esattamente come il futuro umano stante il fatto che la nostra unica prospettiva, stante l’incertezza della vita, è la nostra eternità in Cristo. Sarà nella misura in cui avremo riconosciuto il Figlio nel presente come linea continua che determinerà il nostro futuro, cioè il Suo “riconoscerò”: questo determinerà la separazione netta fra ciò che gli uomini avranno vissuto nel peccato o nella grazia.

Si realizzeranno così le parole dell’apostolo Paolo in 2 Timoteo 2.19-22 che descrivono la vita cristiana: “Tuttavia le solide fondamenta gettate da Dio resistono e portano questo sigillo: Il Signore conosce quelli che sono suoi, e ancora: Si allontani dall’iniquità chiunque invoca il nome del Signore. In una casa grande però non vi sono soltanto vasi d’oro e d’argento, ma anche di legno e di argilla; alcuni per usi nobili, altri per usi spregevoli. Chi si manterrà puro da queste cose – cioè da un comportamento non consono alla fede – sarà come un vaso nobile, santificato, utile al padrone di casa, pronto per ogni opera buona. Sta’ lontano dalle passioni della gioventù; cerca la giustizia, la fede, la carità, la pace, insieme a quelli che invocano il nome del Signore con cuore puro – perché lo si può invocare anche mantenendo la propria carnalità, ma senza risultato –“.

 

IL FUTURO

“Cerca di capire quello che ti dico, e il Signore ti aiuterà a comprendere ogni cosa – perché senza il Suo intervento anche la Parola rimane impenetrabile –. Ricòrdati di Gesù Cristo, risorto dai morti, discendente di Davide, come io annuncio nel mio Vangelo, per il quale soffro fino a portare le catene come un malfattore. Ma la parola di Dio non è incatenata! Perciò io sopporto ogni cosa per quelli che Dio ha scelto, perché anch’essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna. Questa parola è degna di fede: se perseveriamo con lui, con lui anche vivremo; se lo rinneghiamo, lui pure ci rinnegherà; se siamo infedeli, lui rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso” (Ibid. vv. 7-13).

A parte gli innumerevoli approfondimenti possibili su questi versi, nella parte finale abbiamo tre “se” ai quali si associano le relative conseguenze. Il primo ci parla di perseveranza, cioè il persistere, mantenersi fermo e costante nei propositi, nelle azioni, nello svolgimento di un’attività. Questa azione comporta il vivere futuro, cioè il non conoscere la morte dell’anima, la fine, oltrepassandola: “Se perseveriamo con lui, con lui anche vivremo”.

Il secondo “se” si riferisce al rinnegamento e, perché avvenga, deve riguardare chi un giorno ha creduto, poiché il significato della parola implica “il dichiarare – quindi pubblicamente, a uno o più testimoni – di non aver conosciuto una persona che si è conosciuta, rifiutando con questo atto gli obblighi o i legami di obbedienza, di affetto o di rispetto che a essa legano”. “Se lo rinneghiamo, lui pure ci rinnegherà” sono parole che indubbiamente si legano al nostro verso 33, “anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli”. Anche questo è futuro.

Il terzo “se” sottolinea la nostra defettibilità, fragilità umana che tocchiamo con mano tutti i giorni nonostante i nostri buoni propositi e il nostro parlare: “se siamo infedeli”. L’infedeltà è un contrassegno negativo che a nessun uomo maturo piace ammettere perché denota debolezza, volubilità che porta a non osservare la fede dovuta. L’infedele abusa della fiducia risposta in lui da altri. È incostante nell’amore, negli affetti e in genere nel rispetto di quei vincoli che sono imposti dalla natura o da un patto. Ebbene, piaccia o no, così siamo tutti più o meno, perché soggetti a cadere, distrarci, dare la prevalenza alla carne quel tanto o quel poco che basta per rovinare quanto abbiamo fatto. Siamo inaffidabili, come testimonia il comportamento umano di Pietro che per tre volte disse di non conoscere il suo Maestro avendo alla fine quasi una crisi nervosa: “Allora egli cominciò a imprecare e a giurare: «Non conosco quell’uomo!»” (Matteo 26.77), là dove altri traducono “cominciò a maledirsi”. La fedeltà di Dio, però, lo perdonò e lo accolse portandolo al futuro dopo il suo presente – attenzione – non di rinnegatore, ma di salvato per fede e di Suo strumento fino alla morte. “Se siamo infedeli” allude quindi a tutti quei comportamenti che possiamo sempre assumere temporaneamente che contraddicono l’impegno assunto con Cristo e si concludono con il perdono, certo dopo la nostra confessione di peccato e relativo abbandono di quanto ci ha caratterizzato negativamente.

In Salmo 17.15 leggiamo “…ma io nella giustizia contemplerò il suo volto, al risveglio mi sazierò della tua immagine”, futuro che attende chiunque ha creduto vivendo in positivo i tre “se” di cui abbiamo accennato. Fu sempre l’apostolo Paolo a descrivere il divario tra l’essere uomo nella carne e l’esistere nel cielo: “Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto” (1 Cor. 13.12). L’adesso, il presente, è comunque caratterizzato dall’imperfezione, dal vedere “come in uno specchio”, quindi orientandosi con difficoltà perché la visione in uno specchio è al contrario, e dal conoscere “in modo confuso” perché la sapienza di Dio, al contrario della nostra, è perfetta. Ed è bello considerare che il Padre, dall’eternità che non contempla tempi, ci conosce già ora in toto, al contrario di noi: infatti leggiamo al futuro, “ma allora conoscerò perfettamente, come io sono conosciuto”.

Anche l’apostolo Giovanni, consapevole della difficoltà di descrivere umanamente quale sarà il nostro futuro se non per simboli, dopo aver ribadito che già possediamo la cittadinanza del regno dei cieli, usa parole che pongono l’accento sulla totale identità che troveremo nell’Unico Dio, vivente e vero: “Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è” (1 Giovanni 3.2). Cadranno quindi tutte quelle barriere che avevano fino ad allora impedito agli uomini di vederlo perché “l’uomo non può vedermi e vivere” (Esodo 33.23).

Sul futuro della nostra vita dopo la morte, per lo meno per quelli che dovranno passare attraverso di essa, si potrebbero citare molti altri passi, ma non credo che si possa sapere nei dettagli cosa e come saremo. Paolo, riferendosi a tutta la Chiesa al suo rapimento, scrive “E prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi, che viviamo e che saremo ancora in vita, verremo rapiti insieme con loro nelle nubi, per andare incontro al Signore in alto, e così per sempre saremo con il Signore” (1 Tessalonicesi 4.16,17). In quel “per sempre” ciascuno troverà la sua collocazione precisa ed eterna in base alle sua aspettative spirituali più profonde per cui, parlando per simboli, vivrà per sempre o dentro o a margine della società del cielo, mai fuori. Perché sappiamo che molti ultimi saranno primi e viceversa, così come in un gran convito ci sono posti vicini o lontani da colui che ha mandato gli inviti. Perché avremo un nome “che nessuno conosce se non chi lo riceve” (Apocalisse 2.17)

Squarci di luce ce li dà il libro dell’Apocalisse che riporta lodi incessanti che si ripetono davanti al Trono di Dio: abbiamo la descrizione di una comunione totale, diversa perché la preghiera che già ognuno di noi, pur nella sua limitatezza, eleva al Padre per lo Spirito, risente comunque della nostra dimensione umana; in quella spirituale celeste, però esisterà una perfezione trovata e una gioia incontenibile mai provata prima. Sarà scomparso ogni ricordo, difetto o timore. Ed ogni uomo, così com’è, deve finire nella morte o nella vita, entrambe eterne.

Il Figlio, quindi, riconoscerà o rinnegherà ciascun essere umano perché, in quanto autore dell’unico sacrificio perfetto, nessun altro potrà dare il Suo benestare a che l’anima di ciascuno venga accolta. Amen.

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09.12 – LA MISSIONE DEI DODICI: CHI MI RICONOSCERÀ I (Matteo 10.32,33)

9.12 – La missione dei dodici: XI. Chi mi riconoscerà I: passato e presente (Matteo 10.32,33)

 

32Perciò chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; 33chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli”.

 

Possiamo dire che “Perciò” fa riferimento a tutti i discorsi precedenti coi quali Gesù ha dato ai discepoli degli avvertimenti, oltre che rassicurarli della cura che il Padre avrebbe avuto di loro nonostante fossero stati, e siano, “pecore in mezzo ai lupi” che avrebbero così subito persecuzioni, ostacoli, disistima da parte del prossimo, avversione, essere “odiati da tutti”. A questi elementi così negativi, ma inevitabili, fa da contrasto la Rocca, il Rifugio, l’Onniscienza di Dio con la quale i cristiani formano, secondo la promessa, un tutt’uno, condizionato dal “riconoscere” l’Unico in grado di provvedere veramente a loro. Questa unicità, poi, mette in guardia chi crede dalla necessità di una verifica che è sempre tenuto a fare su di sé, guardandosi dal misticismo, dal protagonismo visto nel sermone sul monte quando fu trattata tutta una serie di azioni, come l’elemosina e la preghiera fatte in pubblico per essere notati dagli altri, o dalla moltitudine di parole che si vorrebbe usare convinti di essere meglio ascoltati.

Tutto parte dal “riconoscere”, verbo particolare che comprende vari significati e racchiude il passato, il presente e il futuro della vita dell’essere umano. “Riconoscere” significa percepire o individuare qualcuno o qualcosa come già noto, distinguere, discernere cogliendone le caratteristiche specifiche, ammettere, accettare per vero, confessare, dichiarare di conoscere, approvare, accettare ufficialmente come legittimo. “Riconoscere”, quindi, è un verbo che implica una storia, quella di ciascun credente che, grazie alla rivelazione di Gesù Cristo, ha un passato, un presente e un futuro.

 

IL PASSATO

È ciò che appartiene al tempo trascorso. È qualcosa che può influenzare il presente, è un carico che portiamo con noi e col quale, presto o tardi ci troviamo a fare i conti. Ognuno di noi ne ha uno ed è qualcosa che non può tornare, purtroppo o per fortuna a seconda delle esperienze vissute. Il carattere della persona, in parte ereditato dai propri genitori, si forma con gli anni a partire dall’infanzia e dall’educazione ricevuta e risale, come deduciamo senza ombra di dubbio dal libro della Genesi, dalle origini, quindi alla storia della propria famiglia se non addirittura alla nazione stessa di appartenenza, è quello che qualcuno ha definito “bagaglio storico”. Non scegliamo quindi solo di nascere, ma neppure il tipo di nucleo famigliare nel quale saremo inseriti, quindi poveri, benestanti o ricchi, persone d’onore, ladri o sfruttatori. Tutto questo parlando a grandi linee e per fare sinteticamente un’introduzione. C’è un passato collettivo visto nella storia di un popolo, e ce n’è uno individuale, del singolo, di cui ci occuperemo, poiché l’esperienza che ciascuno può avere con Dio è prima strettamente personale e poi si concreta nella collettività, cioè nella Chiesa che il Cristo rappresenta con la sua testimonianza e presenza nel mondo.

Si nasce, si cresce, emergono col tempo attitudini, aspirazioni, interessi, viviamo prendendo progressivamente coscienza del fatto che non tutto ciò che vorremmo essere o diventare potrà concretarsi, reagiremo tanto alla gioia quanto alla sofferenza in base alla nostra personalità che nel frattempo si consoliderà, ma a prescindere dal reddito, dal lavoro e da tutto quanto comporterà la vita orizzontale, resteranno le domande importanti di sempre, cioè chi sono, perché esisto, dove vado. E scopriremo che avremo bisogno di uno scopo per vivere perché senza di questo, senza un progetto, la vita non avrà senso. Comunque sia ci verrà proposto, in maniera diretta o indiretta, il messaggio del Vangelo al quale saremo liberi di rispondere accogliendolo o rifiutandolo: “Oggi, se udite la sua voce, non indurite i vostri cuori” (Ebr. 3.7,8).

Il più delle volte non si tratterà di un annuncio a sorpresa, ma di un incontro, di un arrivo dopo un percorso di ricerca al quale si giungerà dopo un tempo speso a risolvere i molti perché ai quali nessuno avrà potuto rispondere: non la politica, non il volontariato, non la scienza, non la psicologia o la psicoanalisi che a volte possono aiutare nel percorso orizzontale, quello della vita terrena. Se si verificherà l’incontro personale con Gesù Cristo, dopo un cammino in cui non si saranno subite passivamente i precetti di una religione, ma si saranno cercate nel Vangelo le risposte ai dubbi chiedendosi il perché delle cose, vorrà dire che lo Spirito stesso avrà condotto la persona a Lui. E allora, e solo allora, l’uomo scoprirà di non avere alcuna speranza se non in Colui che in Isaia 48.12 e 16 si presentò con queste parole: “Sono io, io solo, il primo e anche l’ultimo. Sì, la mia mano ha posto le fondamenta della terra, la mia destra ha disteso i cieli. (…) sin da quando questo avveniva, io ero là”.

Di colpo, il passato cesserà di esistere nel senso che non avrà più alcun valore perché sarà stato oggetto di perdóno. Amos scrive “Non ero profeta, né figlio di profeta; ero un mandriano e coltivavo piante di sicomòro. Il Signore mi prese, mi chiamò mentre seguivo il gregge” (7.14) e non esiste vero credente che non ricordi il momento in cui è stato chiamato e in cui ha risposto, ricordando com’era: “Io ero insensato e non capivo, stavo davanti a te come una bestia”, dice il salmista in 73.2.

Il passato, quello che ci aveva caratterizzato fino a poco prima, sarà veramente tale perché chi avrà creduto sarà messo di fronte alla cancellazione, remissione di quel debito di peccato che non avrebbe mai potuto pagare a Dio e che il Cristo ha estinto al suo posto sulla croce come Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo. Sarà posto nella condizione di non essere più uno schiavo perché, guardandosi indietro, potrà rispondere come in Deuteronomio 6.22 “Eravamo schiavi del faraone in Egitto e il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente”, dove quel Paese e il suo capo sono figura del mondo e di Colui che in realtà lo governa.

Il passato di chi crede è anche descritto con parole che illustrano la banalità del vivere secondo i desideri dell’anima allevata nel peccato, termine nel quale va incluso tutto ciò che non è spirituale: “Anche tutti noi, come loro – quelli che vivono nel mondo e per esso – un tempo siamo vissuti nelle nostre passioni carnali secondo le voglie della carne e dei pensieri cattivi: eravamo per natura meritevoli d’ira, come gli altri. Ma Dio, ricco in misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo: per grazia siete stati salvati” (Efesi 2.3-5).

Purtroppo quando si parla di “passioni” o “desideri della carne”, o anche “peccato”, per la cultura pagana fuorviante dalla quale proveniamo, viene spontanea l’associazione al sesso, ma non è così, essendo il “peccato” una pratica oppositiva alle esigenze di Dio e la “carne” , di cui siamo fatti, tutto ciò che è estranea allo Spirito. Di qui la necessità di dominarla. Forse il modo migliore per descrivere scritturalmente questo stato è reperibile in Tito 3.3: “Anche noi un tempo eravamo insensati, disobbedienti, corrotti, schiavi di ogni sorta di passioni e di piaceri, vivendo nella malvagità e nell’invidia, odiosi e odiandoci a vicenda”.

Il passato rientra anche in Ebrei 8.12 “Perché io perdonerò le loro iniquità e non mi ricorderò più dei loro peccati”, e sarà ed è lì che si potrà chiudere col periodo trascorso ciascuno nella sua via per iniziarne uno nuovo. Il passato lascerà posto al presente.

 

IL PRESENTE

È l’inserimento come “concittadini dei santi e membri della famiglia di Dio”, che col passato dà un taglio netto, non ricucibile a meno che non si tratti di un’adesione a Cristo temporanea, frutto di un moto di un animo instabile: “Non illudetevi – e l’illudersi comporta molti aspetti –: né immorali, né adulteri, né depravati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né calunniatori, né rapinatori – ecco i frutti della “carne” spiegati in breve – erediteranno il regno di Dio. E tali eravate alcuni di voi! Ma siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio” (1 Corinti 6.9-11). Questo lavacro consiste in un perdóno incondizionato, cioè indipendentemente dai peccati commessi, in un trapianto da un ambito in cui la carne era dominante in un altro in cui essa può e deve essere dominata, cioè nel passaggio “dalla morte alla vita”. La creatura umana vive così una condizione che consiste nell’avere una responsabilità vista nel mantenimento della nuova dignità ricevuta: infatti “Un tempo anche voi eravate stranieri e nemici, con la mente intenta alle opere cattive; ora egli vi ha riconciliati nel corpo della sua carne mediante la morte, per presentarvi santi, immacolati e irreprensibili dinnanzi a lui; purché restiate fondati e fermi nella fede, irremovibili nella speranza del Vangelo che avete ascoltato, il quale è stato annunciato in tutta la creazione che è sotto il cielo e del quale io, Paolo, sono diventato ministro” (Colossesi 1.21-23).

C’è quindi un presente che è punto di partenza, e una linea di continuità vista nel “purché”, un presente di luce che tiene memoria del passato buio che ciascuno di noi ha avuto, perché “Un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come figli della luce; ora il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità” (Efesi 5.8). Sono parole impegnative che costituiscono la nuova vita del credente, perché se alla “bontà” non seguono le altre avremo un comportamento squilibrato, privo di dignità e quindi suscettibile a fraintendimenti da parte del nostro prossimo.

Il presente è un “ora”, un “adesso” continuo, tutti i giorni della nostra vita, che si apre verso il futuro riservato a coloro che, come abbiamo letto all’inizio di questa serie di studi “non di sangue, né di volontà di carne, né di volontà di uomo, sono nati da Dio”. Perché “Con Lui – Gesù Cristo risorto – Dio ha dato vita anche a voi, che eravate morti a causa delle colpe e della non circoncisione della vostra carne, perdonandoci tutte le colpe” (Colossesi 2.13), verso dedicato proprio ai pagani un tempo alieni dal popolo di Dio.

Il presente comporta quindi un primo riconoscere, quello di non avere altre alternative per la propria esistenza futura se non in Gesù Cristo, attribuendo a Lui solo il merito della nostra nuova nascita: questo avviene prima personalmente, accogliendolo, poi pubblicamente attraverso il battesimo e un’esistenza di testimonianza mediante un lungo percorso di identificazione e formazione in cui si giunge al punto in cui il “riconoscere” assume i connotati di una testimonianza diretta e specifica al nostro prossimo.

“Chi mi riconoscerà davanti agli uomini” comporta l’uscita da un involucro personale e intimo per evolversi verso una professione di fede pubblica indipendentemente dal quantitativo di individui cui ci si rivolge. E contiene la promessa “anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli”, per la quale ogni cristiano vive e nella quale trova senso alla sua esistenza. Perché può dire, come l’anonimo guarito in Giovanni 9.25, “Una cosa io so: ero cieco, e ora ci vedo”. Amen.

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09.11 – LA MISSIONE DEI DODICI: NON ABBIATE PAURA III (Matteo 10.26-31)

9.11 – La missione dei dodici: X. Non abbiate paura III: voi valete (Matteo 10.26-31)

 

26Non abbiate dunque paura di loro, poiché nulla vi è di nascosto che non sarà svelato né di segreto che non sarà conosciuto.27Quello che io vi dico nelle tenebre voi ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio voi annunciatelo nelle terrazze. 28E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; abbiate paura piuttosto di colui che ha il potere di far perire nella Geenna e l’anima e il corpo. 29Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il volere del Padre vostro. 30Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati. 31Non abbiate dunque paura: voi valete più di molti passeri.

 

Il terzo invito a non avere paura, sottolineato dal “dunque” come il primo, ha la caratteristica di venire formulato dopo un breve ragionamento che riguarda i passeri e i capelli contati.

Il passero, animale che fino a poche decine di anni fa era molto diffuso in città e campagne, oggi sta scomparendo per varie ragioni (drastica riduzione degli insetti correlata all’inquinamento e soprattutto all’aumento dei pesticidi), ma era ben conosciuto anche 4mila anni fa: curiosamente attivo, socievole, che con le sue dimensioni e comportamento suggerisce qualcosa di piccolo, pacifico e indifeso, nidifica in colonie ma non disdegna momenti in cui si apparta per osservare l’ambiente circostante, come osservato in Salmo 102.8 (“Resto a vegliare: sono come un passero solitario sopra il tetto”). Stante la sua diffusione e la facilità con cui poteva esserne notato il comportamento, è citato negli scritti dell’Antico Patto in altri due passi: ricordiamo Salmo 84.4 “Anche il passero trova una casa e la rondine il nido dove porre i suoi piccoli” e Proverbi 26.2 “Come il passero che svolazza, come la rondine che volteggia, così una maledizione immotivata non ha effetto”.

Ora viviamo in una cultura basata fondamentalmente sul freddo interiore, sulla fretta, sulla frenesia nel lavoro, negli spostamenti da un luogo all’altro e sulla superficialità delle relazioni sociali: in un simile contesto, in cui c’è posto solo per i propri pensieri senza far caso all’ambiente circostante, l’uomo dimentica che esiste un mondo che vive al di là dei suoi egoismi e dei progetti che fa di tutto per realizzare; in altre parole non pensa che c’è un Dio Creatore che non ha mai smesso né di curarsi della sua opera, ma che questa è finalizzata ad un’altra, quel mondo perfetto su cui Satana e il peccato non avranno alcun potere perché non esisteranno più. Nell’ambiente in cui vivevano gli Autori dei libri in riferimento è detto degli animali, allora inseriti in ecosistemi ancora non compromessi, “Tutti da te si aspettano che tu dia loro cibo a tempo opportuno, tu lo provvedi, essi lo raccolgono; apri la tua mano, si saziano di beni. Nascondi il tuo volto, li assale il terrore; togli loro il respiro: muoiono, e ritornano nella loro polvere. Mandi il tuo spirito, sono creati, e rinnovi la faccia della terra” (Salmo 104. 27-31). Questo perché “Sono mie tutte le bestie della foresta, animali a migliaia sui monti. Conosco tutti gli uccelli del cielo, è mio tutto ciò che si muove nella campagna” (Salmo 50.11).

Bene, la citazione di questi passi colloca le frasi di Gesù in un contesto in cui anche le creature più piccole e apparentemente insignificanti hanno un ruolo sulla terra, quello di vivere contribuendo alla vita stessa sulla terra, e che non sono abbandonate a loro stesse, neppure i “due passeri” che in Matteo “non si vendono forse per due soldi?” e in Luca “Cinque passeri non si vendono forse per due soldi?” (12.6): va detto, per chi vuole approfondire brevemente, che qui la nostra traduzione semplifica perché si tratta dell’asse romano, moneta di rame equivalente a un decimo del denaro, d’argento. Sotto l’asse vi erano il quadrante (che di lui era la quarta parte) e il picciolo che dell’asse ne era l’ottava.

Quindi una persona poteva comprare due passeri per un quattrino, ma se ne prendeva cinque uno di loro praticamente non veniva contato, pagandoli come se fossero quattro: una creatura alla quale veniva attribuito scarso valore. Eppure Luca, a seguito del passo parallelo citato, aggiunge “eppure nemmeno uno di essi è dimenticato davanti a Dio”, cioè Gesù ci dice che per ciascuno di loro il Signore ha una cura personale perché se così non fosse avrebbe sbagliato a crearli. E si può sottolineare che tutto avviene nonostante il mondo che conosciamo sia destinato a logorarsi e finire, distrutto dall’avidità e dell’assoluta irresponsabilità dell’uomo che oggi, ignorando gli innumerevoli allarmi lanciati da studiosi e scienziati, sembra faccia tutto il possibile per abbatterne l’equilibrio. Ignorare l’esistenza delle altre forme di vita equivale a porre le basi perché la propria venga progressivamente annullata. E così sarà.

Tornando in tema, ciò che dice Gesù ai dodici è l’estensione di un concetto già espresso nel sermone sul monte quando disse “Guardate gli uccelli del cielo: non seminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro?” (Matteo 6.26): allora Nostro Signore invitava le folle a considerare la differenza fra le creature inferiori, cui Iddio dà cibo al tempo opportuno, e l’uomo per il quale esiste un piano di salvezza; qui invece c’è una dichiarazione specifica, “voi valete più di molti passeri”, dove “più” e “molti” esprime il concetto di superiorità che ha l’uomo di fronte a Lui. Se quindi Dio si occupa delle cose minute, come i passeri cui viene attribuito un valore così basso, quanto maggiormente avrà cura dell’uomo che Lo accoglie?

E qui s’inserisce un nuovo elemento, quello dei capelli del nostro capo, il cui significato va oltre l’immediata lettura del verso che ci autorizza a pensare che il Signore sappia di noi ogni cosa. Il capello, nella Scrittura, ha diversi significati: indipendente dalla calvizie, una loro disposizione irregolare sul capo andava approfondita perché non si trattasse di lebbra, malattia diversa da quella oggi conosciuta. Ricordiamo Levitico 13.40 Chi perde i capelli del capo è calvo, ma è puro. 41Se i capelli gli sono caduti dal lato della fronte, è calvo davanti, ma è puro. 42Ma se sulla parte calva del cranio o della fronte appare una piaga bianco-rossastra, è lebbra scoppiata sulla calvizie del cranio o della fronte; 43il sacerdote lo esaminerà: se riscontra che il tumore della piaga nella parte calva del cranio o della fronte è bianco-rossastro, simile alla lebbra della pelle del corpo, 44quel tale è un lebbroso; è impuro e lo dovrà dichiarare impuro: il male lo ha colpito al capo”.

I capelli caratterizzavano esteriormente chi li portava e, pur potendo venir tagliati, non erano ammesse acconciature tese a variare forzatamente la fisionomia della persona: “Non vi taglierete in tondo il margine dei capelli, né deturperai ai margini la tua barba. Non vi farete incisioni sul corpo per un defunto, né vi farete segni di tatuaggio. Io sono il Signore” (Levitico 19.27,28). I capelli erano lasciati crescere nel caso del Nazireo, il consacrato a YHWH, strapparseli era segno di grande sdegno, come fece Esdra di fronte alla mescolanza della “stirpe santa” con popolazioni pagane: “All’udire questa parola, stracciai il mio vestito e il mio mantello, mi strappai i capelli del capo e la barba e mi sedetti costernato”. Tagliarseli con rasatura era segno di grande duolo: “Tàgliati i capelli, ràsati la testa per via dei tuoi figli, tue delizie: allarga la tua calvizie come un avvoltoio, perché vanno in esilio lontano da te” (Michea 1.16) e, infine, qualificano l’uomo di Dio come persona saggia: “I capelli bianchi sono una corona d’onore ed essa si trova sulla via della giustizia” (Proverbi 16.31).

Data questa breve ed essenziale panoramica, vediamo dei riferimenti più concettualmente vicini al nostro caso: il capello è qualcosa di molto sottile potendo variare in spessore da 0,06 a 0,1 millimetri. Ne perdiamo da 40 a 120 al giorno quasi senza che ce ne accorgiamo e per questo uno di essi viene utilizzato come elemento per rafforzare un concetto già chiaro di per sé; ricordiamo Salomone, che disse di Adonia “Se si comporterà come un uomo leale, neppure un suo capello cadrà a terra; ma se in lui sarà trovato qualche male, morirà” (1 Re 1.52).

Il capello può quindi essere una sorta di unità di misura riferito all’insignificante, ma anche alla precisione, come nel caso dei seicento uomini ambidestri, “capaci di colpire con la fionda un capello senza mancarlo” (Giudici 20.16) eppure, nonostante sia così sottile e privo di valore, dice Gesù che “non puoi fare un solo capello bianco, o nero” (Matteo 5.36) a conferma di quanto siamo impotenti di fronte a ciò che non controlliamo perché esula dalla nostra competenza. Tinture a parte, ovviamente.

Tirando le file di questo lungo passare attraverso versi che comunque andavano citati, leggiamo le parole di Luca che riferisce anch’esso le parole di Gesù ai discepoli: “Sarete traditi perfino dai genitori, dai parenti e dagli amici, e uccideranno alcuni di voi; sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto” (21.16.18), parole che, riguardo alla frase finale, verranno ripetute tali e quali in Atti 27.34 quando l’apostolo Paolo parlerà ai marinai della nave in tempesta che lo trasportava a Roma. Le parole di Gesù, quindi, nei versi di Luca vanno oltre la morte perché, nonostante questo avvenimento, non perderemo nulla di ciò che è nostro.

Poi, tornando al nostro passo, c’è quel “Perfino”, cioè “anche” – come scrive Luca –, o “addirittura” a conferma della totalità del piano di Dio per l’uomo che non ha tralasciato nulla affinché possa realizzarsi in Lui. Del resto, così ha fatto quando ha stabilito i perfetti equilibri di un Universo e di una Terra destinata a passare, ma non le Sue parole.

Il “valete più di molti passeri” è da tener presente soprattutto alla luce dei versi riportati in Luca 17.7-10 che vogliono porre l’accento non su un signore dispotico, ma sulla necessità che il servizio sia scevro da pretese o ambizioni varie, lasciando a Dio il compito della retribuzione e di ogni decisione a nostro riguardo: “Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà quando rientra dal campo: «Vieni subito e mettiti a tavola?». Non gli dirà piuttosto: «Preparami da mangiare, rimboccati la veste e servimi, finché io abbia mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai anche tu»? Si riterrà obbligato verso il suo servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: «Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare»”.

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09.10 – LA MISSIONE DEI DODICI: NON ABBIATE PAURA II (Matteo 10.26-31)

9.10–La missione dei dodici:  IX. Non abbiate paura II: uccidere l’anima (Matteo 10.26-31)

 

26Non abbiate dunque paura di loro, poiché nulla vi è di nascosto che non sarà svelato né di segreto che non sarà conosciuto.27Quello che io vi dico nelle tenebre voi ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio voi annunciatelo nelle terrazze. 28E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; abbiate paura piuttosto di colui che ha il potere di far perire nella Geenna e l’anima e il corpo. 29Due passeri non si vendono forse per un soldi? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il volere del Padre vostro. 30Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati. 31Non abbiate dunque paura: voi valete più di molti passeri.

 

Le tre esortazioni a non avere paura sono rivolte al non subire gli effetti negativi di altrettanti elementi precisi: gli oppositori del discepolo, ostili in quanto portatore di un messaggio a loro estraneo, quelli che possono uccidere il corpo (ma non l’anima), e l’idea che può sorgere, di fronte a gravi difficoltà, secondo la quale Dio abbia poca considerazione nei confronti di chi crede. Ricordiamo in proposito che Giovanni Battista, prigioniero di Erode Antipa al Macheronte, provato dal carcere e convinto che Gesù fosse il Liberatore di Israele, chiese a Gesù se era Lui quello che doveva venire, oppure dovevano aspettare un altro.

La paura è uno stato emotivo intenso, innato che, pur potendo degenerare in panico o fobie, di norma ha un alto valore funzionale finalizzato alla sopravvivenza di chi la prova: grazie ad essa si può fuggire da svariate situazioni di pericolo, ma non è di questo che parla Nostro Signore, riferendosi a una reazione non appropriata di fronte ad eventi che, se possono spaventare umanamente, spiritualmente non hanno senso in quanto lo Spirito deve, o dovrebbe, essere sempre dominante sulla carne.

Esaminato nello scorso capitolo il “Non abbiate paura di loro”, riferito agli ostili in varie forme, Gesù passa a “quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima”, riferendosi non solo a persone precise, come avvenne per Lui stesso, per il diacono Stefano e l’apostolo Giacomo (tanto per citare i primi), ma anche ad altri agenti, come le malattie o situazioni di pericolo in cui ci si può involontariamente trovare. E ci possiamo chiedere se la paura fosse stato un sentimento provato da Gesù nell’imminenza o durante il suo arresto, visto che l’esortazione al non temere venne proprio da Lui. La risposta non può essere che negativa in quanto l’unica frase che riporta un suo sentimento in proposito fu “L’anima mia è oppressa da tristezza fino alla morte” (Matteo 14.34), che rivela un profondo senso di smarrimento dovuto al fatto che sapeva che avrebbe dovuto portare su di sé “il peccato del mondo” pur non avendolo mai commesso. Si avvicinava il tempo in cui avrebbe dovuto essere davvero “L’Agnello di Dio” sacrificato.

Sono interessanti le considerazioni di San Giustino martire, che nel 130 circa collegò il fatto che l’agnello pasquale veniva arrostito facendolo passare verticalmente da un bastone di melograno e orizzontalmente per le spalle, al fatto che in tal modo si veniva a formare una croce. Portare il peccato e venire appeso in croce avrebbe comportato l’interruzione della comunione col Padre e di qui la “tristezza mortale”, o “fino alla morte” a secondo della traduzione che abbiamo.

Temere non chi può uccidere il corpo, ma “colui che ha il potere di far perire nella Geenna l’anima e il corpo”. Della Geenna abbiamo già parlato come fuoco perenne che bruciava i rifiuti della città di Gerusalemme, ma molti, leggendo questo verso, pongono in relazione chi ha il potere di distruggere anima e corpo umano con Satana ed il peccato. Non penso però che questa sia un’applicazione corretta perché, se c’è un riferimento all’Avversario, ciò avviene per riflesso in quanto avente competenza sul corpo e non sull’anima che, se mai, può venire a lui affidata dall’uomo per scelta o seduzione.

Sappiamo bene che l’anima è proprietà di Dio: per Lui fu sufficiente soffiarla nelle narici di Adamo perché diventasse “anima vivente”. Adamo, e poi Eva, fu così differenziato dagli altri animali in cui c’era solo vita e istinto per sopravvivere. Anima e libero arbitrio che l’uomo ha, ma non gli altri esseri viventi che per questo non sbagliano mai, seguendo un istinto posto in loro per la propria sopravvivenza.

L’anima è incorporea, ma si esprime attraverso il corpo ed il pensiero è a sua volta dominato, controllato dallo spirito che coabita con essa: l’anima è libera e responsabile, è la parte che decide, sceglie, opera, costruisce e proprio in quanto tale è quella che verrà giudicata vivendo oltre e dopo la morte del corpo destinato comunque a risorgere rivestendo incorruttibilità o mortalità a seconda delle scelte che la persona avrà fatto in vita.

“Colui che ha il potere di far perire nella Geenna l’anima e il corpo” è solo Dio Padre dopo il giudizio che dell’anima e del corpo sancirà la vita o la morte; di qui la necessità di temerlo anche se è necessario un distinguo: una cosa è il vaglio delle opere di chi avrà creduto, perché “chi crede non viene in giudizio, ma è passato dalla morte alla vita”, e un’altra quella del mondo. Si tratta di un tema enormemente vasto che non è possibile affrontare qui.

Ora non si tratta tanto di temere Dio perché a lui appartiene ogni cosa, quindi anche la nostra vita, ma di andare a monte del problema e cioè: se è Lui ad averci creato, significa che solo in Lui possiamo trovare la nostra identità piena e totale. Più ci avviciniamo a Dio Padre tramite il Figlio, più viviamo in armonia con Lui e con noi stessi perché nulla ci manca. E più l’essere umano vive lontano da lui, più diventa sconnesso e disarticolato, alla ricerca di una dimensione che non può trovare. Ammesso che riesca a realizzare i suoi progetti, dovrà fare i conti presto o tardi con il loro crollo senza possibilità di recupero perché uno degli inganni dell’Avversario è proprio illudere che ciò che è transitorio sia stabile, che il tempo non passi mai e che la vecchiaia, coi suoi effetti devastanti, non arrivi, come la morte, ritenuta certo eventuale, ma rimossa quanto a possibilità. In poche parole, il motto è: “c’è tempo”. Il timore di Dio penso che sia la consapevolezza di quanto sia terribile avere a che fare con Lui come giudice, ma anche quanto sia inutile l’esistenza umana senza il Suo amore.

La vita dell’uomo, allora, se non si vuole conoscere la distruzione, non può che essere caratterizzata dalla ricerca di Dio e, una volta trovato, da un’altra ricerca per una vita a Lui conforme – attenzione – nell’amore per Lui e non nel divieto, nel precetto, nelle formule ripetute che generano stanchezza, noia, sterilità. Quando Gesù disse di prendere su di noi il suo giogo perché leggero, si riferiva proprio a questo: la vita dell’uomo o della donna sulla terra, che si svolge comunque secondo il giudizio pronunciato in Eden, può condursi nella luce o nelle tenebre, nella giustizia o nell’ingiustizia, nella dignità o nell’abiezione e, quindi, nell’essere o nel non essere per cui “chi non crede è già condannato”. Ricordiamo le parole dell’apostolo Paolo che, considerato il dualismo che lo caratterizzava come uomo, scrisse in Romani 7.24 “Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore!”.

Chiunque crede nell’opera totale di Gesù Cristo diventa, riconoscendosi in Lui, parte dell’ “Io sono”, di “Colui che è”, dell’ “Iddio vivente” che nella Geenna può far perire l’anima e il corpo, cioè tutto ciò che costituisce l’essere umano. Morte come fine dopo atroci sofferenze viste nello stagno ardente di fuoco e zolfo in cui verranno gettati Satana e i suoi angeli.

Il senso delle parole di Gesù ai suoi allora è questo: posto che avete scelto di essere miei discepoli con tutto quel che ne consegue, temere gli uomini non ha alcun senso e, se dovrete soffrire a causa loro, sappiate che tutto questo riguarderà un tempo limitato che non può essere paragonabile al nulla eterno che attende coloro che vi avranno perseguitato. Nelle scorse riflessioni abbiamo citato i versi che parlano della riduzione “al nulla”.

La Chiesa post apostolica, che al posto di formare uomini e donne di Dio ha preferito optare per un’evangelizzazione di massa importando elementi estranei alla dottrina ammettendo usi ed elementi appartenenti al paganesimo, ha cercato di incutere la paura dell’inferno come luogo eterno di tormenti popolato da diavoli crudeli incaricati di tormentare i dannati, ma non ha spiegato che il cosiddetto “inferno” è il luogo dell’assenza, il ritorno al nulla, all’ “informe e vuoto” prima che Dio ordinasse “Sia la luce” generatrice di calore e vita. L’inferno quindi altro non è che la morte cosciente in un mondo privo di luce, calore, esistenza, logica. È il ritorno a quella cosa “deserta e vacua” senza “lo Spirito di Dio che si muoveva sopra la superficie delle acque” per cui non sarà possibile un’altra creazione e un ritorno alla vita. L’inferno è allora un luogo di non prospettiva, di impossibilità di riscatto cui si aggiungerà la presenza di un concreto, inesorabile nulla di cui vi sarà coscienza.

Possiamo a questo punto ricordare due realtà, entrambe reperibili nel libro dell’Apocalisse; la prima riguarda chi avrà temuto l’Iddio vivente, Colui che può far perire l’anima e il corpo nella Geenna: “E non vi sarà più maledizione. Nella città vi sarà il trono di Dio e dell’Agnello: i suoi servi lo adoreranno; vedranno il suo volto e porteranno il suo nome sulla fronte. Non vi sarà più notte, e non avranno più bisogno di luce di lampada né di  luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà. E regneranno nei secoli dei secoli” (22.3-5).

La seconda realtà invece è per chi avrà preferito ascoltare se stesso o i suoi simili per orientare la propria vita: “E vidi un grande trono bianco e Colui che vi sedeva. Scomparvero dalla sua presenza la terra e il cielo senza lasciare traccia di sé. E vidi i morti, grandi e piccoli, in piedi davanti a suo trono. E i libri furono aperti. Fu aperto anche un altro libro, quello della vita. I morti vennero giudicati secondo le loro opere, in base a ciò che era scritto in quei libri. Il mare restituì i morti che esso custodiva, la Morte e gli inferi resero i morti da loro custoditi e ciascuno venne giudicato secondo le sue opere. Poi la Morte e gli inferi furono gettati nello stagno di fuoco. Questa è la seconda morte, lo stagno di fuoco. E chi non risultò scritto nel libro della vita fu gettato nello stagno di fuoco”. In proposito, va specificato che i “morti grandi e piccoli” non saranno adulti e bambini, ma i potenti e tutti gli altri, più o meno ricchi, facoltosi o indigenti che avranno seguito la carne anziché lo Spirito.

Il cristiano, se ha davvero aderito con il cuore e la mente all’invito di Gesù, è costantemente davanti e con Lui ogni istante, “tutti i giorni fino alla fine del mondo” e, al contrario dei suoi simili che non credono, ha la garanzia della vita eterna. Credo che discutere se il cosiddetto “inferno” sia eterno, oppure se le anime di chi avrà vissuto un’esistenza contraria a Dio verranno distrutte, sia una questione secondaria perché a noi estranea secondo le parole dei primi versi del Salmo 1: “Beato l’uomo che non segue il consiglio degli empi, non indugia nella via dei peccatori e non siede in compagnia degli stolti; ma si compiace nella legge del Signore, la sua legge medita giorno e notte”. Credo che l’importante sia vivere degnamente questo tempo d’attesa, certi – non sperando – delle “molte stanze” che il Signore sta preparando per noi. Amen.

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09.09 – LA MISSIONE DEI DODICI: NON ABBIATE PAURA I (Matteo 10.26-31)

9.09 – La missione dei dodici: VIII. Non abbiate paura I: nulla è nascosto (Matteo 10.26-31)

 

26Non abbiate dunque paura di loro, poiché nulla vi è di nascosto che non sarà svelato né di segreto che non sarà conosciuto. 27Quello che io vi dico nelle tenebre voi ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio voi annunciatelo nelle terrazze. 28E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; abbiate paura piuttosto di colui che ha il potere di far perire nella Geenna e l’anima e il corpo. 29Due passeri non si vendono forse per un soldi? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il volere del Padre vostro. 30Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati. 31Non abbiate dunque paura: voi valete più di molti passeri.

 

Dopo l’appello alla prudenza, uno sguardo sugli avvenimenti futuri e il corretto atteggiamento che il discepolo deve avere nei confronti del maestro e il servo del suo signore, Gesù esorta per tre volte “non abbiate paura”. Così facendo viene spiegato perché la presenza di questo sentimento non aveva ragione di essere non solo nei dodici, ma in tutti quei credenti che si sarebbero identificati con loro.

Abbiamo allora il primo invito, “Non abbiate dunque paura di loro, poiché nulla vi è di nascosto che non sarà svelato, né di segreto che non sarà conosciuto”: la prima cosa che notiamo è la presenza del “dunque”, congiunzione di valore conclusivo riferita a quanto detto nel verso precedente, cioè che i discepoli sarebbero stati identificati con Belzebùl, quindi ritenuti spazzatura, sovversivi, accusati di voler sovvertire il potere costituito, religioso o temporale. I “loro” è così un riferimento a chi ha già fatto una scelta precisa vista nell’opposizione pratica al Vangelo ponendosi apertamente contro, ostacolandone la predicazione o anche solo l’esercizio privato.

È bello considerare che in questo primo punto Gesù parla ai dodici riferendosi anche alla sua persona, come leggiamo in Isaia 41.10 che descrive l’assistenza di Dio al Suo Eletto: “Non temere, perché io sono con te; non smarrirti, perché io sono il tuo Dio. Ti rendo forte e ti vengo in aiuto e ti sostengo con la destra della mia giustizia. Ecco, saranno svergognati e confusi quanti s’infuriavano contro di te; saranno ridotti al nulla e periranno gli uomini che si opponevano a te”. Così avvenne ed avverrà anche per il credente, che non seguirà certo la sorte di quelli che saranno “ridotti al nulla” e “periranno” in quanto parte di Colui che lo ha salvato.

Lo stesso messaggio fu rivolto a Geremia: “Non aver paura di fronte a loro, perché io sono con te per proteggerti. Tu dunque, stringi la veste ai fianchi, àlzati e di’ loro tutto ciò che ti ordinerò; non spaventarti di fronte a loro, altrimenti sarò io a farti paura davanti a loro. Ed ecco, oggi io faccio di te come una città fortificata, una colonna di ferro e un muro di bronzo contro tutto il paese, contro i re di Giuda e i suoi capi, contro i suoi sacerdoti e il popolo del paese. Ti faranno guerra, ma non ti vinceranno, perché io sono con te per salvarti” (1.8; 1.17,18).

Possiamo ricordare anche le parole di Ezechiele 2.4-6: “Quelli ai quali ti mando sono figli testardi e dal cuore indurito. Tu dirai loro: «Dice il Signore Dio». Ascoltino o non ascoltino. Dal momento che sono una genìa di ribelli, sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro. Ma tu, figlio dell’uomo, non li temere, non avere paura delle loro parole. Essi saranno per te come cardi e spine e tra loro ti troverai in mezzo a scorpioni, ma tu non temere le loro parole, non t’impressionino le loro facce: sono una genìa di ribelli”.

Allora, lette queste parole, comprendiamo che esiste una linea comune, mai interrotta da Abele in poi, più avanti sostituito da Set, in cui chi si è posto dalla parte di Dio è sempre stato al sicuro, non avendo nulla da temere perché, se il corpo può sempre cedere per i motivi più svariati (abbiamo appena citato Abele vittima del fratello), non così la nostra essenza intima, l’anima che non può essere uccisa. Il fatto del “non avere paura” non significa che nessuno potrà mai farci del male, ma trova fondamento nell’appartenenza a Lui e nella risurrezione immortale della carne, come sapeva Abrahamo che per questo, prima che l’Angelo lo fermasse, era disposto a sacrificare Isacco. Abrahamo sapeva che il figlio sarebbe risorto e fu questo a guidarlo e a non farlo crollare perché, obiettivamente, la prova richiestagli era terribile e, senza la certezza della resurrezione, sarebbe stato come sacrificare se stesso senza alcuna speranza di vita ulteriore. Abrahamo invece si basava sulle promesse che Dio gli aveva fatto e ripetuto più volte. Così infatti scrive l’autore della lettera agli Ebrei in 11.17,18: “Per fede Abrahamo, messo alla prova, offrì Isacco, e proprio lui, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unigenito figlio, del quale era stato detto: Mediante Isacco avrai una discendenza. Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti: per questo lo riebbe anche come simbolo”.

Possiamo ricordare la priorità su ciò che è terreno espressa nel Salmo 27.1-5: “Il Signore è mia luce e mia salvezza: di chi avrò timore? Quando mi assalgono i malvagi per divorarmi la carne, sono essi, avversari e nemici, a inciampare e cadere. Se contro di me si accampa un esercito, il mio cuore non teme; se contro di me si scatena una guerra, anche allora ho fiducia. Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco – ecco perché tutto il resto non conta –: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita, per contemplare la bellezza del Signore e ammirare il suo santuario. Nella sua dimora mi offre riparo nel giorno della sventura. Mi nasconde nel segreto della sua tenda, sopra una roccia mi innalza”-.

Infine, a conclusione del primo “Non abbiate paura”, possiamo sottolineare come questa esortazione sia stata compresa dagli apostoli Pietro e Giovanni quando, davanti al Sinedrio che aveva loro imposto di “non parlare in alcun modo né di insegnare nel nome di Gesù”, replicarono “Se sia giusto dinnanzi a Dio obbedire a voi invece che a Dio, giudicatelo voi” (Atti 4,13,19).

L’invito a non temere però prosegue con le parole “…poiché nulla vi è di nascosto che non sarà rivelato, né di segreto che sarà conosciuto”: c’è stato un tempo in cui ho creduto che una possibile spiegazione del verso fosse la rivelazione dei segreti di ciascuno nel giudizio finale, o delle trame di Stato e dei delitti irrisolti o delle verità occultate. È questa, tra l’altro, un’opinione diffusa, ma non credo sia così o, per lo meno non solo; piuttosto il riferimento è alla perfetta conoscenza che Dio ha di ciascuno e al tempo stesso ai Suoi segreti che verranno manifestati. Infatti scriverà Paolo di Tarso “Non vogliate perciò giudicare nulla prima del tempo, fino a quando il Signore verrà. Egli metterà in luce i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori; allora ciascuno riceverà da Dio la lode” (1 Corinti 4.5): ecco allora che emergeranno – parlando dei cristiani – i veri e i falsi, chi avrà agito mosso dalla propria vanità e chi correttamente con coscienza e purezza di cuore. I “pensieri di molti saranno rivelati” perché evaporeranno come l’acqua sotto il sole e perché quegli “occhi di fuoco” del Cristo glorificato, figura appunto del vaglio e di una separazione automatica fra ciò che è santo oppure no, tutti li vedranno e soprattutto saranno visti da Lui. Cesserà l’ipocrisia e chi si sarà dato alla doppiezza non esisterà più perché il giudizio di Dio rivelerà i simulatori, gli ingannatori, i falsi profeti.

La stessa frase sul nulla di segreto che non sarà svelato è detta da Gesù subito avere avvertito “Guardatevi bene dal lievito dei farisei, che è l’ipocrisia” collegandolo al nostro testo in modo simile: “Quindi ciò che avrete detto nelle tenebre sarà udito in piena luce, e ciò che avete detto all’orecchio nelle stanze più interne sarà annunciato nelle terrazze” (Luca 12.2.3), cioè le verità di Dio ignorate da chi non le vuol cercare né ascoltare per i propri interessi carnali non saranno più ignorabili perché talmente presenti da prevalere sulle altre, quelle false dei “liberi pensatori”, falsi profeti ciascuno con una verità propria destinata a scontrarsi con quella di Dio cui non sarà possibile sopravvivere.

Il discorso sul segreto nascosto è infatti collegato al nostro verso 27, “Quello che io vi dico nelle tenebre voi ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio voi annunciatelo nelle terrazze”: era finito il tempo in cui le verità e le promesse contenute nella Legge e nei Profeti sarebbero state monopolio di pochi, ma si era levato il Sole del Vangelo che scalda e illumina, per cui ciò che Gesù aveva rivelato ai discepoli “nelle tenebre”, quindi nella chiusura di una stanza privata come effettivamente avvenuto, sarebbero state diffuse. Li invia in missione anche con queste parole, in realtà profetiche. Pensiamo alla differenza tra il momento, già ricordato nel precedente capitolo, in cui fu detto “a voi è dato di conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato” e a quanto dettagliata fu la predicazione degli apostoli una volta costituita la Chiesa, pensiamo all’imponente opera svolta dall’apostolo Paolo, senza le cui lettere praticamente saremmo tutti dei “buoni” generici, soggetti a gravi fraintendimenti tra Legge e Grazia non avendo gli elementi per comprendere pienamente il Vangelo. Tra le cose “ascoltate all’orecchio”, quindi le rivelazioni individuali, possiamo includere anche l’Apocalisse, scritto indefinibile per vastità e panorama, che permette ai credenti degli “ultimi tempi” di riconoscerne personaggi e segni, oltre che capirne i piani del sistema della Bestia e individuarne le connessioni. E si tratta di un libro che comunque, da sempre, ha orientato tutti i veri cristiani nella storia della Chiesa.

Possiamo ricordare, a proposito della necessità di una predicazione particolareggiata, Colossesi 1.25,26 “Di essa – la Parola – sono diventato ministro, secondo la missione affidatami da Dio verso di voi di portare a compimento la parola di Dio, il mistero nascosto da secoli e da generazioni, ma ora manifestato ai suoi santi”, dove “nascosto” e “manifestato” ci aiutano a capire le parole di Gesù, che parlò di “terrazze” o, traducendo più appropriatamente, di “tetti” perché in Palestina erano di forma piana e punti di ritrovo oltre che luogo ideale per farsi udire da un maggior numero di persone che non parlando in una sala.

Anche in questo caso abbiamo ubbidienza alle parole di Nostro Signore, poiché gli apostoli scelsero il portico di Salomone nel Tempio per predicare e lì tornarono, ad esempio, una volta liberati dall’angelo in carcere, che disse loro “Andate e proclamate al popolo, nel tempio, tutte queste parole di vita. Udito questo, entrarono nel tempio sul far del giorno e si misero a insegnare” (Atti 5.20,21).

Con questo primo “Non abbiate paura”, dunque, Nostro Signore spiega ai dodici un aspetto della differenza tra l’essere suoi discepoli e il rientrare nelle categorie del mondo: “Ascoltatemi, esperti della giustizia, popolo che porti nel cuore la mia legge. Non temete l’insulto degli uomini, non vi spaventate per i loro scherni; poiché le tarme li roderanno come una veste, e la tignola li roderà come la lana, ma la mia giustizia durerà per sempre, la mia salvezza di generazione in generazione” (Isaia 51.12,13). Fino alla fine. Amen.

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09.08 – LA MISSIONE DEI DODICI: DISCEPOLI E MAESTRO (Matteo 10.24,25)

9.08 – La missione dei dodici: VII. Discepoli e maestro (Matteo 10.24,25)

 

24Un discepolo non è più grande del suo maestro, né un servo è più grande del suo signore; 25è sufficiente per il discepolo diventare come il suo maestro e per il servo come il suo signore. Se hanno chiamato Beelzebùl il padrone di casa, quanto più quelli della sua famiglia!

 

Il verso che apre il capitolo 10 riferisce che Gesù chiama a sé i suoi dodici discepoli e dà loro “potere sugli spiriti immondi per cacciarli e guarire ogni malattia e infermità”, cioè quanto può essere in una persona transitorio o permanente. Era la prima volta che ciò accadeva e siccome era necessario prevenire che i dodici fraintendessero l’esercizio del dono ricevuto, abbiamo la proibizione, di ordine morale, di accettare dei compensi per le opere che avrebbero compiuto. Fu un ordine che sicuramente scandalizzò Giuda, che essendo ladro vedeva sfuggirsi la possibilità di arricchirsi, non capendo come fosse possibile non approfittare della situazione.

Se quindi avevano ricevuto gratuitamente quei poteri, altrettanto gratuitamente avrebbero dovuto esercitarli, demolendo così quella massima “nessuno fa niente per niente” che trae la sua origine nel constatare obiettivamente la natura dell’uomo, ma non quella di Dio e di chi è un suo inviato. I miracoli che gli apostoli avrebbero compiuto nella loro missione, allora, erano la dimostrazione pratica del fatto che si era aperta la nuova economia della Grazia, che la salvezza si dimostrava praticamente con la guarigione da ogni male, morte compresa: Dio aveva la signoria su di essa, andava oltre ogni limite non oltrepassabile dall’uomo e quello era il vero significato delle resurrezioni operate da Gesù e dagli apostoli.

Ora, se la prima proibizione, quella di non accettare denaro, andava a bloccare l’istinto umano, carnale di arricchirsi con beni materiali, la massima in base alla quale “un discepolo non è più grande del suo maestro, né un servo è più grande del suo signore” evita il fraintendimento portato dall’orgoglio (sempre di carne si tratta) perché i dodici, sui quali lo Spirito Santo non era ancora sceso, avrebbero potuto pensare di essere diventati superiori a Gesù, compiendo le sue stesse opere. Piuttosto avrebbero dovuto identificarsi, riconoscersi in Lui a tal punto da volergli assomigliare perché il maestro è colui che sa, che insegna, termine che significa “porre un segno nella mente”. Anche questa fu una massima destinata a stabilire una norma per i cristiani che sarebbero venuti in futuro perché Gesù, non potendo essere fisicamente presente in ogni luogo allora né operativo quanto al corpo oggi, stabilì che “chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie voi accoglie Colui che mi ha mandato” (v.40) e qui abbiamo la spiegazione del diventare come il maestro e come il signore per il servo.

Non solo, ma siccome l’essere discepoli è una scelta che viene fatta una volta compresa la necessità di diventarlo, ecco che l’amore per Gesù Cristo, se autentico, ha la precedenza su tutti gli altri affetti naturali visti nel “padre, madre, figlio o figlia” (vv.37-39), che per maggior completezza vanno inquadrati nelle categorie che troviamo in Marco 19.29: “Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna”. Certo questo “lasciare” non allude a un abbandono irresponsabile lasciando la propria famiglia priva di sostentamento. Luca 18.29 include anche l’abbandono della moglie, evidentemente quando questa rappresenta un impedimento allo sviluppo e alla missione cristiana; ricordiamo che la moglie di Pietro condivideva con lui le fatiche apostoliche. Inquadrando quindi il termine “lasciare” alla realtà storica di allora e a quella di oggi, significa interrogarsi profondamente su cosa rappresentino per noi effettivamente queste persone e dare loro il giusto spazio nella nostra vita, porre dei confini per far sì che non pretendano una dipendenza e un servizio invadendo quegli spazi che spettano al Signore perché solo lui sorgente di amore puro. Da sempre gli altri ci amano a modo loro, secondo metri personali, a volte interesse la cui morbosità è in stretta relazione con il livello di maturazione e l’equilibrio psichico che hanno raggiunto.

Va sottolineato che la qualifica di “discepolo” implica una posizione precisa, cioè quella di colui che ammette la propria ignoranza, decide di sapere, sceglie volontariamente il proprio maestro, lo segue e a seconda dell’impegno profuso, delle sue possibilità e del carattere, raggiunge un risultato più o meno elevato. E l’abbandono di ciò che rappresenta la persona del discepolo, visto nel temine “propria vita” indica appunto un percorso, l’acquisizione del principio in base al quale ciò che abbiamo di più caro non solo non ci appartiene, ma può essere di ostacolo al nostro cammino spirituale. Si abbandona ciò che si ha non per sforzo masochistico, non perché spinti da un entusiasmo che spesso si rivela transitorio (ricordiamo la piantina che muore perché non ha radice), ma perché si scopre che ciò che si possiede è inutile, di peso, è diventato una zavorra di cui è necessario liberarsi. L’abbandono autentico è il frutto di una ricerca che giunge ad una scelta che non si può evitare.

Nostro Signore infatti non mandò in missione delle persone esaltate, ma uomini che, nonostante i limiti, avevano già lasciato ciò che aveva caratterizzato la loro vita precedente: una casa, un lavoro, una reputazione. Le stesse cose avevano fatto le donne che facevano parte del gruppo dei discepoli. Quelle persone avevano condiviso con il loro maestro, chi più, chi meno, circa tre anni della loro vita e ciò che videro e udirono da lui ci è stato trasmesso in minima parte: pensiamo alle domande che gli avranno posto su ogni aspetto dell’esistenza e alle sue risposte, ai chiarimenti sulle frasi che diceva alla folla quando non capivano: Gesù non disse solo “A voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato”, ma si raccordò sempre alla limitatezza della loro mente umana che, se non illuminata dalla Grazia e dallo Spirito, non può comprendere nulla. Pensiamo che, una volta sceso lo Spirito Santo, non capirono “tutto e subito”, ma furono necessarie visioni e rivelazioni dirette perché crescessero e diventassero in grado di esercitare le loro funzioni nella Chiesa. Perché non esiste progresso senza rivelazione da una parte e fatica dall’altra come dimostra, ad esempio, il soggiorno di Paolo e Barnaba ad Antiochia, la prima Chiesa formata da giudei e pagani: “Rimasero insieme un anno intero in quella Chiesa e istruirono molta gente” (Atti 11.26); è un verso che dice molto in contrapposizione a quella teoria che vorrebbe le rivelazioni dello Spirito distinte dall’impegno, come purtroppo molti insegnano.

Tornando al testo, la seconda parte del verso 24 parla del servo cui basta diventare come il suo signore, riferimento alla realtà di allora in cui i ricchi possidenti, a seconda del comportamento dei loro servi, potevano affidare loro cariche importanti giungendo a dar loro la gestione dei propri beni. Esempio in proposito è Eliezer di Damasco, in cui Abramo riponeva la propria fiducia, destinato ad essere suo erede prima che nascesse Ismaele, da Agar, e Isacco, da Sara. È importante poi sottolineare che tanto i servi quanto i discepoli avrebbero confermato la loro posizione di “fedeli” o “infedeli” solo col tempo: pensiamo ad esempio a Dema, che ebbe il privilegio di diventare collaboratore dell’apostolo Paolo, citato con altri nella lettera a Filemone (v.24 e Colossesi 4.14), che a un certo punto si ritrasse dalla predicazione “avendo preferito le cose di questo mondo, ed è partito per Tessalonica” (2 Timoteo 4.10) o a un certo “Alessandro il fabbro” che “mi ha procurato molti danni: il Signore gli renderà secondo le sue opere (…) perché si è accanito contro la nostra predicazione” (v.14,15). Per quanto riguarda i servi, poi, pensiamo alla parabola dei talenti in cui il padrone, prima di partire per un lungo viaggio, dà loro un quantitativo di denaro per farlo fruttare in proporzione delle loro capacità, e a quello che, ricevutone uno solo, avendo paura, lo sotterrò senza farlo fruttare (Matteo 25.25,26): per tutti, tranne che per lui, le parole furono “entra nella gioia del tuo padrone” a conferma che ciascuno era utile a patto che si fosse impegnato, in un modo o in un altro, a far fruttare ciò che gli era stato affidato.

Il servo, quindi, dev’essere una persona consapevole del fatto che il Signore si è fidato di lui dandogli qualcosa che non gli apparteneva, ma che è tenuto a far fruttare; per questo dobbiamo chiederci sempre cosa facciamo della nostra anima che Dio ha rigenerato, che con uno o più talenti ha connessione. Ricordiamoci di quanto scrive l’apostolo Giovanni che, ricordando le parole di Gesù che stiamo meditando, riporta “In verità, in verità io vi dico: un servo non è più grande del suo padrone, né un inviato è più grande di chi lo ha mandato. Sapendo queste cose, siete beati se le mettete in pratica” (13.16,17).

Infine, a conferma del fatto che discepoli o servi siano un tutt’uno col loro Signore, abbiamo l’ultima parte del verso: “Se hanno chiamato Beelzebul il padrone di casa, quanto più quelli della sua famiglia!”. Il nome si rifà a Baalzebub, una delle principali divinità dei Filistei che tradotto significa “Dio delle mosche”. Questo termine va letto sotto due aspetti: il primo è quello che, da lettori del Vangelo, conosciamo, cioè rappresenta un riferimento a Satana. Sappiamo che Gesù fu accusato dal Giudei di cacciare i demòni col suo aiuto (Matteo 9.34; Marco 3.22; Luca 11.5; Giovanni 7.19,20). C’è però un senso lato: per esprimere scherno o disprezzo, Scribi e Farisei storpiavano il nome di ciò che odiavano e così l’originale Baalzebub divenne Beelzebul. Un fratello scrisse che “la parola Zebul venne ad essere usata dagli scrittori rabbinici per significare prima letame, e quindi idoli, cioè oggetti offensivi ed abominevoli, cosicché il nome può significare Re degli idoli, o Re delle immondizie”.

Zebul può significare anche “casa, abitazione” per cui il riferimento a chi è colui che abita il corpo dell’uomo spregiato è evidente: i discepoli, i servi di Gesù, sarebbero così stati non solo disprezzati, ma anche accusati di operare grazie alle forze del male, di essere dei sovversivi, termine utilizzato nel mondo pagano più che in quello ebraico. Di tutte queste cose Gesù avverte i discepoli e i servi: avrebbero subìto la sua stessa sorte, fisicamente o moralmente, oppure entrambe le cose. Ma, come vedremo nel prossimo capitolo, l’esortazione è sempre la stessa, “Non li temiate”.

Possiamo concludere queste considerazioni con le parole di Gesù: “Ricordatevi della parola che io vi ho detto: «Un servo non è più grande del suo padrone». Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi; se hanno osservato la mia parola, osserveranno anche la vostra. Ma faranno a voi tutto questo a causa del mio nome, perché non conoscono colui che mi ha mandato. Se io non fossi venuto e non avessi parlato loro, non avrebbero alcun peccato; ma ora non hanno scusa per il loro peccato. Chi odia me, odia anche il Padre mio”.

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09.07 – LA MISSIONE DEI DODICI: FINO ALLA FINE (Matteo 10.21-23)

9.07 – La missione dei dodici: VI. Fino alla fine (Matteo 10.21-23)

 

21Il fratello farà morire il fratello e il padre il figlio, e i figli si alzeranno ad accusare i genitori e li uccideranno. 22Sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma chi avrà perseverato fino alla fine sarà salvato.23Quando sarete perseguitati in una città, fuggite in un’altra; in verità io vi dico: non avrete finito di percorrere le città d’Israele, prima che venga il Figlio dell’uomo”.

 

Con questi versi termina la sezione degli “avvertimenti” di Gesù agli apostoli che partono dal dato del verso 16 (“Ecco, io vi mando come pecore in mezzo a lupi; siate dunque prudenti come serpenti e semplici come le colombe”); da qui poi il discorso si apre verso prospettive future in una panoramica i cui avvenimenti non si sono ancora conclusi, come vediamo dalle parole “fino alla fine” e “prima che venga il Figlio dell’uomo”. Leggere le parole dette ai dodici, allora, significa tener conto di un modo di esporre i fatti diverso dal nostro nel senso che, per i metodi che ci sono stati insegnati, tendiamo a classificare, ordinare, spiegare per essere il più chiari possibile, mentre per gli uomini del tempo di cui ci stiamo occupando non era così, Gesù compreso. Pensiamo solo ai libri della Scrittura, che non avevano capitoli né versetti, eppure erano meditati e conosciuti meglio di adesso. Ed anche imparati a memoria. L’importante era che chi scriveva o parlava affrontasse argomenti che sarebbero stati compresi e si sarebbero verificati al momento opportuno. Ad esempio, prendendo alla lettera la prima parte del verso 12, non risulta, limitatamente alla loro missione, che gli apostoli fossero costretti a fuggire in una città diversa da quella in cui predicavano, ma il libro degli Atti è pieno di casi simili: pensiamo a Paolo, che a Damasco aveva irritato i suoi “fratelli” di fede ebraica a tal punto che “per riuscire ad eliminarlo, essi sorvegliavano anche le porte della città, giorno e notte; ma i suoi discepoli, di notte, lo presero e lo fecero scendere lungo le mura, calandolo giù in una cesta” (9.24,25). Ancora, pensiamo a 8.1-4 in cui leggiamo che “In quel giorno scoppiò una violenta persecuzione contro la Chiesa di Gerusalemme; tutti, ad eccezione degli apostoli, si dispersero nelle regioni della Giudea e della Samaria. (…) Saulo intanto cercava di distruggere la Chiesa: entrava nelle case, prendeva uomini e donne e li faceva mettere in carcere. Quelli che però si erano dispersi andarono di luogo in luogo annunciando la Parola” (8.1-4).

Ecco allora che quanto detto da Gesù riguarda realtà che comprendono una finestra temporale molto ampia e sulla quale tornerà nel corso del suo Ministero diverse volte, sempre aggiungendo particolari, dal tempo in cui era in vita sulla terra a quello del suo ritorno, tema che non riguarda solo un evento. Nei versi che abbiamo preso come tema di riflessione esistono tre punti precisi, il primo dei quali è “il fratello farà morire il fratello”, frase che si riferisce tanto a quelli carnali che di fede ebraica, considerandosi tutti “figli d’Abrahamo”. Ebbene in quel contesto Nostro Signore disse “Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; sono venuto a portare non la pace, ma la spada. Sono infatti venuto a separare l’uomo da sua padre e la figlia da sua madre e la nuora dalla suocera, nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa” (vv. 34-36 di questo stesso capitolo).

La panoramica in proposito è desolante, perché in un mondo dominato dal peccato non potrebbe essere diversamente: “Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione. D’ora innanzi, se in una famiglia vi sono cinque persone, saranno divisi tre contro due e due contro tre; si divideranno padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera” (Luca 12.51-53). Gesù porta divisione e non potrebbe essere altrimenti visto che la sua Parola è una spada a due tagli che, per il tema trattato, agisce proprio in quel nucleo che più di tutti dovrebbe restare unito, cioè la famiglia: quando uno non condivide ciò su cui questa si basa, le sue credenze, gli ideali, lo stile di vita, immediatamente ne turba l’equilibrio e ciò avviene soprattutto nel momento in cui la fede porta a non adeguarsi, identificarsi più nelle stesse cose che prima avevano valore per tutti. Ricordiamoci di Abramo: “Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò” (Genesi 12.1).

Parlando Nostro Signore qui principalmente della famiglia religiosa ebraica, allude a una struttura granitica che si basava sull’osservanza della Legge, con tutti quei corollari e orpelli sui quali credeva di vivere illudendosi di essere per questo santa. In una società simile, la pace, nel momento in cui uno dichiarava di seguire Cristo e non la Legge, il tradimento dei genitori, fratelli, parenti e amici che “uccideranno alcuni di voi” (Luca 21.16), sarebbe stata impossibile. Dicendo “il fratello darà il fratello alla morte”, poi, Gesù fa un collegamento immediato a Caino e Abele (ma anche a tanti altri): Caino era il primogenito per cui avrebbe dovuto essere d’esempio al fratello, ma lo uccise perché constatava che era Abele e non lui a beneficiare delle benedizioni di Dio. In altri termini, per quanto Caino potesse fare, visto che l’unica cosa per cambiare la situazione che si era venuta a creare avrebbe dovuto implicare un cambiamento di metodo e coscienza da parte sua, preferì restare com’era e attuare un omicidio, il primo della storia. E lo stesso odio i giudei osservanti, nei confronti dei cristiani, lo impiegarono a partire proprio da Gesù, non potendolo contrastare in dottrina né tantomeno in opere. Poi, guardando alla Storia, ogni qual volta il cristianesimo è diventato religione ufficiale e si è snaturato della fede per abbracciare la politica, la superstizione e gli interessi mondani, è avvenuta la stessa cosa: pensiamo all’inquisizione e ai conseguenti omicidi, delazioni, torture che hanno subìto innumerevoli innocenti. La religione (o un governo) cioè quel sistema organizzato, basato sulla menzogna per illudere l’uomo di avere un dio sensibile a riti, atteggiamenti, “divinità” estranee, usi e credenze, non può che voler eliminare chi dell’Iddio vivente e vero è figlio. Pensiamo ai cristiani che vivono in India, Cina, Paesi arabi ed altri.

C’è però in tutto questo livore, che è descritto con parole semplici, “sarete odiati da tutti a causa del mio nome”, una frase di riferimento molto importante, cioè “Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto” (Luca 21.18) che ci parla dell’assoluta cura di Dio Padre nei confronti dei suoi figli e del premio che li attende. Perché va temuto non chi può uccidere il corpo, ma l’anima. E la salvezza del credente ha un prezzo pagato da Gesù Cristo, ma anche dalla persona stessa che può sempre essere vittima di chi è spinto dall’Avversario.

Il verso 22 avvisa quindi “sarete odiati da tutti a causa del mio nome” dove quei “tutti” sono gli uomini che vivono la loro vita fondata su una fede nel loro presente e futuro egoistico: faccio, posso, voglio. E qui entriamo anche nel concetto secondario dell’odio, che implica “amare meno”, quindi trascurare nel senso di “non curarsi di”: allora ecco che si emargina, si deprezza, disistima, si fa quel che si può pur di mettere la persona che con la propria testimonianza, sia “attiva” o “passiva”, nell’impossibilità di disturbare. Perché “Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma vi ho scelti io dal mondo, per questo il mondo vi odia” (Giovanni 15.18.19). Dovremmo sempre tenere presente che abbiamo ricevuto in dono non solo la salvezza, ma anche la Sua Parola: “Io ho dato loro la tua parola e il mondo li ha odiati, perché essi non sono del monto, come io non sono del mondo” (17.14); quindi, presto o tardi, troveremo il nostro Caino, nel senso di persona avversa. Anche tutti i giorni. Perché questo personaggio “era dal Maligno e uccise suo fratello (…) perché le sue opere erano malvagie, mentre quelle di suo fratello erano giuste. Non meravigliatevi se il mondo vi odia” (1 Giovanni 3.12-16).

Quindi abbiamo un’estensione alla condizione di essere delle “pecore in mezzo ai lupi” che i discepoli di Gesù, anche moderni, potranno trovare addirittura nelle loro famiglie, quelle che prima di incontrarLo ritenevano magari fonte di quiete e di riferimento.

L’ultima parte del verso 22 ci responsabilizza enormemente e può essere disturbante per coloro che credono non serva impegnarsi perché tanto “salvati e amici” di Dio a prescindere da come si comportino: “Chi avrà perseverato fino alla fine sarà salvato”. La salvezza, dono gratuito di Dio, è il primo gradino, l’abilitazione ad avere un rapporto con Dio riservato a chi lo ha accolto, ma non può esservi chi la prende e la tiene per sé come quel servo che, ricevuto un talento, lo nascose per renderlo al suo signore al suo ritorno. Non va dimenticato mai che Dio “renderà a ciascuno le sue opere: la vita eterna a coloro che, perseverando nelle opere di bene, cercano gloria, onore, incorruttibilità” non certo umana (Romani 2.6,7).

Non è concepibile un credente che si culla in uno stato di quiete mondana, pensando solo a se stesso, facendo le stesse cose di quando non conosceva il Vangelo, perché “Siamo diventati partecipi di Cristo a condizione di mantenere salda fino alla fine la fiducia che abbiamo avuto fin dall’inizio” (Ebrei 3.14). Fino alla fine, cioè fino a quando non saremo da lui chiamati con la morte oppure con la trasformazione del corpo al Suo ritorno.

Resta un ultimo punto da considerare ed è la frase “Non avrete finito di percorrere le città di Israele prima che venga il Figlio dell’Uomo”, dalla quale sembra che il ritorno di Gesù fosse quanto mai imminente, addirittura prima che i dodici rientrassero dalla loro missione, che non comprese tutto il territorio israelita. Credo che per risolvere il significato della frase vada prima compreso quello della venuta del Figlio dell’Uomo, che per noi che lo attendiamo rappresenta un avvenimento preciso e liberatorio, mentre allora si conosceva il “giorno della vendetta del Signore” in cui ogni abitudine sarebbe stata sovvertita come avvenne per Babele, il diluvio, la distruzione di Sodoma, Gomorra e delle città della pianura (Adma e Seboim).

Abbiamo così questa doppia valenza da riconoscere, cioè il Ritorno e quel giorno di giudizio che si abbatté su Gerusalemme nel 70 quando fu distrutta dalle truppe romane, mentre quello definitivo sarà il giudizio finale sui popoli e nazioni, ancora a venire. Le parole di Gesù sulla venuta del “Figlio dell’Uomo” sono così da identificare anche, a parte nella Sua nascita, morte e resurrezione, col giudizio su Gerusalemme e l’orrore che contrassegnò quei tre anni a partire dall’assedio fino alla caduta di Masada.

Possiamo dire, a conclusione di questo capitolo, che una parte del sermone profetico di Gesù in Matteo 24 allude proprio al tempo di questa rovina. Per questo disse allora quelli che sono in Giudea fuggano sui monti, chi si trova sulla terrazza non scenda a prendere le cose di casa sua, e chi si trova nel campo non torni indietro a prendere il suo mantello. In quei giorni guai alle donne incinte e a quelle che allattano!  Pregate che la vostra fuga non accada d’inverno o di sabato. (…) Non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga”.  Perché i disegni di Dio si compiono sempre, dai più piccoli, quindi anche quelli per noi, ai più grandi. Amen.

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09.06: LA MISSIONE DEI DODICI: PECORE IN MEZZO AI LUPI (2). (Matteo 10.16-20)

9.06 – La missione dei dodici: V. Pecore in mezzo ai lupi II/II (Matteo 10.16-20)

 

16Ecco, io vi mando come pecore in mezzo ai lupi, siate dunque prudenti come serpenti e semplici come le colombe. 17Guardatevi dagli uomini, perché vi consegneranno ai loro tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe:18e sarete condotti davanti ai governanti e ai re per causa mia, per dare testimonianza a loro e ai pagani. 19E quando vi consegneranno nelle loro mani, non vi preoccupate di come e di che cosa dovrete dire, perché vi sarà suggerito in quel momento di che cosa dovrete dire;20non siete infatti voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi.”.

 

Dopo avere affrontato il tema a livello generale, scendiamo nel particolare tenendo presente che il testo riporta parole indirizzate prima di tutto ai dodici ma, tramandate dai sinottici e da Matteo in particolare, si tratta di concetti che hanno mantenuto la loro validità nel tempo. Possiamo considerare le parole di Gesù come delle verità destinate a venire aggiornate sia attraverso l’esperienza personale di ciascuno, sia tramite l’insegnamento degli apostoli anni dopo, soprattutto di Paolo nella lettera agli Efesi in cui mette in guardia i credenti sull’importanza di un percorso ben definito al fine di salvaguardare la propria vita spirituale. Esaminiamo così ciò che scrive in 6.10-18.

 

 

10Per il resto, rafforzatevi nel Signore e nel vigore della sua potenza”.

 

Chi non lo fa, per quanto salvato, è destinato a soccombere nel senso che non avrà le forze per reagire nel momento in cui sarà necessario. Se non ci si rafforza, si vivrà un percorso interiore sterile, destinato ad arricchirsi sempre più di vuoto, inconcludenza. Ricordiamo che il Padre è glorificato nel fatto che noi portiamo “molto frutto”. Rafforzarsi significa “diventare più forti”, e farlo “nel Signore e nel vigore della sua potenza” implica coltivare la fede per crescere nell’ascolto e messa in pratica della Sua parola abbandonando progressivamente tutto ciò che ritarda il nostro cammino con Lui. Ricordiamo sempre che quel giovane che, dopo l’incontro con Gesù che lo esortava a seguirlo dopo aver dato il ricavato dei suoi beni ai poveri, “se ne andò contristato perché aveva molte ricchezze”: il problema non erano le sostanze di quella persona, ma il suo attaccamento ad esse. Quel giovane avrebbe potuto avere qualsiasi altra cosa e non volerla abbandonare. A volte si pensa che ciò che ritarda il nostro avanzamento spirituale possa essere costituito da quanto abbiamo di più caro e non si considera che il problema vero risiede in noi, che se rimaniamo ancorati ai nostri beni materiali è perché non abbiamo ancora realizzato che possono essere solo strumenti e non costituire una fonte di riferimento, appagamento, un’espressione o un prolungamento di noi stessi.

 

 

11Indossate l’armatura di Dio per poter resistere alle insidie del diavolo”.

 

Il testo originale ha “tutta l’armatura” a sottolineare che vivere il giorno senza di lei, o mancante di alcune parti, può essere pericoloso alla luce delle “insidie” perché il diavolo, cioè “colui che disunisce, mette male, calunnia, contraddice” rivolge la sua azione distruttrice verso chiunque è figlio di Dio. E “insidie” è un termine generico proprio per sottolineare la multiformità delle azioni di questo personaggio la cui violenza non necessariamente dev’essere immediata. In Romani 13.12 leggiamo “La notte è avanzata, il giorno è vicino. Perciò gettiamo via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce”, che sono tutti i mezzi che Dio ci ha donato, primo fra tutti la preghiera che è dialogo, ma soprattutto confronto derivante dalla consapevolezza di essere nulla senza di Lui (ricordiamo le parole “Io so che in me non abita alcun bene”). Il confronto tenebre – luce, o “notte – giorno” lo vediamo in 1 Tessalonicesi 5.8: “Quelli che dormono, dormono di notte e quelli che si ubriacano, di notte si ubriacano. Noi, invece, che apparteniamo al giorno, siamo sobri, vestiti con la corazza della fede e della carità e avendo come elmo la speranza della salvezza”. Nel nostro percorso, come dal verso 12, il cristiano si trova ad affrontare un combattimento che solo apparentemente ha a che fare con semplici uomini, ma con le forze che li dominano visto che le insidie vengono portate da loro in quanto strumenti dell’Avversario. Ricordiamo il Millennio, quel periodo in cui, essendo Satana legato appunto per mille anni, non ci sarà nessuna forma di violenza.

 

 

12La nostra battaglia infatti non è contro la carne e il sangue, ma contro i Principati e le Potenze, contro i dominatori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti”.

 

È un verso importante, fondamentale perché senza di lui tenderemmo a considerare quanto accade di negativo nella nostra vita come un fatto accidentale, ma non è così: sappiamo infatti che Satana si è opposto sempre a Dio di riflesso e non frontalmente, apertamente, perché altrimenti non avrebbe avuto, né soprattutto avrà, alcuna possibilità di sopravvivere. Piuttosto, come al principio, il diavolo agisce contro l’uomo e sempre usando gli strumenti più congeniali allo scopo. E qui pensiamo al serpente, poi a Caino e alla sua discendenza che continua ancora oggi, spiritualmente e carnalmente. Dietro gli uomini avversi, quindi “carne e sangue”, c’è ben altro: sono i “Principati” e le “Potenze” spirituali negative, così chiamate per la loro pericolosità e forza cui Dio concede di avere potere sul mondo per selezionare, provare, vagliare, separare ciò che è santo da ciò che non lo è. Se quindi sono valide per i credenti le parole “nessuno potrà strapparli dalla mia mano”, è altrettanto vera la possibilità di menomare il rapporto con Lui impedendo la comunione che potrebbe instaurarsi. Ricordiamo ad esempio quanto avvenne a Giobbe che, per quanto inconsapevole del dialogo tra YHWH e Satana, nonostante quanto gli avvenne, fu ristabilito e non maledisse il suo Creatore. E infatti “Io sono persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore” (Romani 8.38).

E va sottolineato che l’armatura che siamo chiamati a indossare non è nostra nel senso che non l’abbiamo costruita, ma è fornita direttamente da Gesù, di cui è detto che alla croce ha “privato della loro forza i Principati e le Potenze, ne ha fatto pubblico spettacolo, trionfando su di loro in Cristo” (Colossesi 2.15). Alla croce, con la Sua morte e resurrezione, li ha infatti ridotti al nulla nel senso che ha dimostrato quanto fossero impotenti nei Suoi confronti.

In un mondo di tenebre, la luce di Cristo è la sola in grado di orientare e di condurre “al porto sospirato” (Salmo 107.30). L’abitare degli spiriti del male “nelle regioni celesti”, poi, è un modo che l’apostolo Paolo ha per designare le dimensioni che sovrastano la vita dell’uomo e sul quale, a seconda della scelta che questi ha, hanno potere.

Come già sottolineato più volte, dobbiamo pensare che l’opera di Satana non sempre si manifesta con esempi eclatanti come nel caso degli indemoniati gadareni, ma può essere di semplice disturbo come nel caso in cui Abramo, dopo aver ricevuto la promessa secondo la quale avrebbe posseduto la terra di Canaan, fece un sacrificio di ringraziamento: leggiamo che, quando si concluse, “degli uccelli discesero sopra quei corpi morti, ed Abramo sbuffando li cacciò” (Genesi 15.11). Leggendo il verso verrebbe spontaneo considerarlo un evento naturale, ma se lo fosse stato l’autore (o gli autori) del libro non lo avrebbe menzionato: diciamo che, piuttosto, con quegli uccelli Satana volle disturbare quel momento di comunione tra Dio e Abramo, per quanto il sacrificio fosse tecnicamente terminato. Ora credo che questi due esempi possano chiarire molto bene cosa significhi “battaglia non contro la carne e il sangue, ma contro i Principati e Potenze”.

 

13Prendete dunque l’armatura di Dio, perché possiate resistere nel giorno cattivo e restare saldi dopo aver superato tutte le prove”.

 

L’esortazione qui contenuta fa esplicito riferimento a un “giorno cattivo” che non credo si riferisca a uno come tanti con tentazioni “ordinarie”, ma a quello che porta situazioni, persone, condizioni che il credente si troverà ad affrontare senza volerlo o senza averle previste perché destinate ad arrivare “come un ladro di notte”, cioè cogliendo sempre la persona di sorpresa. Sarà in quel frangente che, se l’armatura di Dio sarà indossata come prevenzione, sarà possibile “restare saldi dopo aver superato tutte le prove”. E l’accostamento alle due case, una costruita sulla roccia e l’altra sulla sabbia, è inevitabile. Mi sono chiesto se l’armatura di cui parla l’apostolo Paolo in questa lettera sia qualcosa che va indossata continuamente, oppure no. Credo che si tratti di utensili da tenere a portata di mano, pronti all’uso perché il soldato, per quanto inviato in guerra, può benissimo non sapere quando verrà l’attacco. Ed ecco perché il vero cristiano deve tener sempre presente la propria missione, che non è quella di “suonare la tromba” davanti a sé per farsi vedere dagli altri, ma di essere preparato e pronto ad ogni evenienza. A questo punto Paolo cita gli elementi dell’armatura:

 

 

14State saldi, dunque: attorno ai fianchi, la verità; indosso, la corazza della giustizia; 15i piedi, calzati e pronti a propagare il vangelo della pace. 16Afferrate sempre lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutte le frecce infuocate del Maligno; 17prendete anche l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito, che è la parola di Dio”.

 

Leggendo il testo vediamo che nessuna parte del corpo è scoperta. Il testo originale dice “Preparatevi dunque al combattimento cinti di verità attorno ai lombi”, che dà un quadro diverso dai semplici “fianchi” di questa traduzione che suggeriscono l’operosità, ad esempio, del lavoratore dei campi di allora che, per non essere impedito nei movimenti, si tirava su la veste fissandola con una cintura. Cingersi la regione lombare indica voler proteggere i muscoli che sostengono il corpo, che gli garantiscono mobilità, come sanno bene anche quelli che soffrono di lombalgia e si ritrovano per periodi più o meno lunghi impediti nei movimenti anche più semplici. Avvolgersi in fasce i muscoli lombari, allora, equivaleva a salvaguardarli da quei colpi che avrebbero potuto essere trasmessi attraverso la corazza e avrebbero reso la persona più o meno temporaneamente invalida al combattimento. Un colpo ai lombari avrebbe reso il guerriero nell’impossibilità di difendersi e a venire trafitto da una spada o da una lancia. La verità è quindi la prima caratteristica che si deve indossare a protezione del corpo per il suo sostegno. Il verso 14 e ci rimanda anche Nostro Signore di cui è detto che “la giustizia sarà la fascia dei suoi lombi e la fedeltà la cintura dei suoi fianchi” (Isaia 11.5).

Secondo elemento è la corazza, chiaramente fatta per proteggere il corpo dai colpi, ma soprattutto il cuore, vero bersaglio di un nemico in un combattimento frontale. Quindi l’apostolo parla di indossare la giustizia, quella che ci è stata data quando abbiamo conosciuto il Padre attraverso il Figlio, quella che altrimenti non avremmo e che in quanto tale esclude l’ipocrisia, cioè la finzione, i secondi fini, il calcolo, l’agire per tornaconto personale. In poche parole significa obbedire a quell’ordine dato ad Abramo – visto che lo abbiamo citato – quando Dio lo chiamò dopo ben tredici anni di silenzio: “Io sono l’Iddio onnipotente. Cammina davanti a me, e sii integro” (Genesi 17.1). Ed essere integri non si riferisce a una condotta santa, ma a tutto il nostro essere, cioè ad averLo sempre presente nella nostra mente, riposare in Lui per fede e da Lui dipendere, oltre a tener sempre presente la Sua volontà.

Terzo elemento, i calzari ai piedi, per noi simbolo del cammino, della strada percorrere per “propagare il Vangelo della pace”. I calzari proteggono il piede impedendo ferite o traumi. A sua volta i piedi ci parlano dell’episodio di quanto Gesù li lavò agli apostoli perché altrimenti, simbolicamente, non avrebbero mai potuto affrontare un cammino spirituale, come rileviamo dalle parole dette a Pietro “se io non ti lavo, tu non avrai alcuna parte con me”. Riguardo ai calzari va detto che qui non si allude a una sorta di sandali, ma sono parte dell’armatura per cui proteggevano anche le gambe. Questi “calzari” si riferiscono a strumenti idonei per affrontare un terreno accidentato che logorerebbe subito delle calzature ordinarie.

Quarto elemento, lo scudo della fede, la sola a poter spegnere “tutte le frecce infuocate del Maligno”. La freccia era allora la più pericolosa fra le armi a disposizione. Veniva scagliata prendendo la mira, oppure lanciata dagli arcieri a gruppi verso l’alto e cadeva a grappoli sulle truppe, spesso decimandole. Colpisce in un punto preciso, ha un’alta capacità di penetrazione e mette immediatamente fuori combattimento anche se non colpisce organi vitali. È in grado di forare una corazza. “Spegnere tutte le frecce”, quindi non alcune, significa privare il dardo della sua pericolosità primaria vista nel fuoco, poiché si parla di materiale ad alto potenziale incendiario. E qui viene spontaneo pensare a quegli scudi che si portavano sul dorso nella formazione romana detta “a testuggine”. Avere lo scudo, quindi, significa possedere la fede che viene messa alla prova tutti i giorni, ma soprattutto in quel “giorno cattivo” di cui abbiamo parlato. Nelle frecce vediamo quindi tutte quelle prove destinate a colpirci nel profondo, logorarci, farci dubitare chiamando in causa la nostra mente che viene colpita per prima. Non a caso, il sesto elemento è l’elmo e viene citato subito dopo.

L’elmo è quello che protegge il capo, quindi il cervello, sede dell’anima e dello spirito dell’uomo e proprio per questo è il componente dell’armatura più importante: senza la salvezza, che ha portato lo Spirito Santo in dono e pegno, ogni combattimento è privo di senso perché già perso in partenza. Operare senza l’elmo e ciò che rappresenta significa essere già perdenti, mancare di coordinazione, intelligenza, sarebbe come se un soldato venisse inviato in battaglia senza alcun addestramento o comandanti. La salvezza, invece, abilita alla comunione con Dio e quindi alla formazione per passare indenni attraverso questo mondo che Lo rifiuta. Certo, vivere nel mondo non è cosa che lascia indifferenti. Pensiamo a Lot, di cui è detto che era contristato per quando vedeva, impotente, a Sodoma dove abitava, ma in 2 Pietro 2.7 leggiamo che Dio “Liberò invece Lot, uomo giusto, che era angustiato per la condotta immorale di uomini senza legge”. Ultima considerazione: l’elmo protegge la mente, quindi la possibilità di analizzare – spiritualmente stante la salvezza ad essa collegata – quando sta avvenendo e quindi trovare le strategie di reazione opportune.

La spada è il settimo ed ultimo strumento. È citato assieme al precedente, a lui unito dalla congiunzione “e” perché è quello che completa l’equipaggiamento e, stante l’importanza del numero sette, viene spontaneo pensare che presentarsi al combattimento mancanti di un solo di questi strumenti cadremmo nel sei, quindi nell’imperfezione e nella sconfitta. La spada è quella dello Spirito, della Parola di Dio che guida, insegna, protegge, forma, annienta tutto ciò che non ha a che fare con lei ed ecco perché costituisce un formidabile strumento di difesa e al tempo stesso di attacco.

Abbiamo poi il verso 18, a mio giudizio scritto a coronamento del tutto, a sostegno che nulla possiamo da noi stessi:

 

 

18In ogni occasione, pregate con ogni sorta di preghiere e suppliche nello Spirito, e a questo scopo vegliate con ogni perseveranza e supplica per tutti i santi”.

 

Abbiamo qui la descrizione della continuità che ci deve caratterizzare: “in ogni occasione”, “ogni sorta”, vegliate”, “ogni perseveranza e supplica”, quattro punti. La scrittura è perfetta, resiste al tempo per il nostro unico avanzamento e per la salvezza di quanti Dio lo cercano o lo attendono. Alla preghiera non c’è limite. La veglia serve a non venir sorpresi e la perseveranza è la sola che possa condurre ad un risultato, come quello che raggiunge l’atleta che si allena quotidianamente, o il concertista o chiunque abbia necessità di esprimere qualità rare al momento opportuno. La “supplica per tutti i santi”, invece, sta a testimoniare che i fratelli e le sorelle non possono essere lasciati soli nel loro cammino, ma occorre pregare per loro, perché siano sostenuti, protetti, aiutati. Perché la Chiesa non è composta da uomini e donne isolati, ma da anime che formano un tutt’uno con il Corpo di Cristo. Amen.

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09.05: LA MISSIONE DEI DODICI: PECORE IN MEZZO AI LUPI (1). (Matteo 10.16-20)

9.05 – La missione dei dodici: IV Pecore in mezzo ai lupi I/II (Matteo 10.16-20)

 

16Ecco, io vi mando come pecore in mezzo ai lupi, siate dunque prudenti come serpenti e semplici come le colombe. 17Guardatevi dagli uomini, perché vi consegneranno ai loro tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe:18e sarete condotti davanti ai governanti e ai re per causa mia, per dare testimonianza a loro e ai pagani. 19E quando vi consegneranno nelle loro mani, non vi preoccupate di come e di che cosa dovrete dire, perché vi sarà suggerito in quel momento di che cosa dovrete dire;20non siete infatti voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi.”.

 

Entriamo qui nel settore degli avvertimenti di Gesù ai dodici in cui non posiamo escludere che Matteo abbia radunato contenuti espressi in altre occasioni. La Parola di Dio, fiume che scorre, messaggio che si attualizza e si rinnova nel tempo con contenuti che si adattano progressivamente nella e alla storia umana, dà livelli di lettura che allargano il tema non solo alla missione che stava per essere intrapresa, ma alla Chiesa e a ciò che ogni discepolo di Gesù avrebbe incontrato. Quanto Nostro Signore predice ai Suoi, quindi, non è più ristretto allo specifico del mandato temporaneo di annuncio della vicinanza del Regno, ma si allarga a tutto il cristianesimo secondo i suoi differenti stadi e, infatti, non è difficile scorgere un primo adempimento delle parole di Gesù con quanto narrato nel libro degli Atti e con le persecuzioni che Pietro, Paolo ed altri, Stefano compreso, subirono fino al martirio. In questo capitolo, quindi, cercheremo di leggere il significato immediato delle parole del brano, e di attualizzarlo in parte ai nostri tempi.

Il verso 16, dopo l’ “Ecco” iniziale che annuncia un nuovo corso degli avvenimenti, si apre con “Io” che sottolinea la potenza e la volontà di chi manda ed è garanzia del fatto che Gesù conosca perfettamente i pericoli che corrono le sue “pecore“, animali incapaci difendersi che addirittura, in Luca 10.3 quando vi sarà la missione dei settanta, verranno paragonati ad “agnelli in mezzo ai lupi”. Si tratta di una realtà che copre un raggio molto vasto e che, limitatamente ai dodici, riguardava i pericoli che avrebbero potuto correre ma, per noi, contempla la possibilità che dai lupi non ne sia risparmiata neppure la Chiesa. Da notare che gli animali citati, pecore, lupi, serpenti e colombe, non sono “buoni” o “cattivi”, ma hanno un comportamento insito in loro: così sono per indole, istinto, “programmazione” al di là di qualsiasi giudizio morale; il loro comportamento è un dato di fatto, costituisce l’appartenenza a un ambito specifico di azione, un ruolo nell’ecosistema così creato. Certo, se il lupo in quanto animale non ha colpe, per quello spirituale va fatto un serio distinguo.

L’apostolo Paolo, parlando agli anziani di Mileto, disse “Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha costituiti come custodi per essere pastori della Chiesa di Dio, che si è acquistata col sangue del proprio figlio. Io so che dopo la mia partenza verranno fra voi dei lupi rapaci – certo non inviati da Cristo – che non risparmieranno il gregge” (Atti 20.28,29). Ecco allora che in mezzo a questo quadro desolante, se non ci fosse quell’ “Io” del verso 16, credo che mancherebbero le forze a chiunque, che nessuno avrebbe una speranza di riuscita nella sua missione o anche solo la più piccola possibilità di sopravvivere perché il lupo, animale predatore che può trovarsi in branco oppure da solo, non sempre uccide con l’unico scopo di nutrirsi.

Quindi, per evitare di venire sbranati, Gesù avverte “siate dunque – nel vostro interesse – prudenti come serpenti e semplici come colombe”, cioè andando contro il vostro istinto, ora naturale, di nuove creature, paradossalmente prendendo a modello l’essere che ha causato la rovina del genere umano, il serpente di cui in Genesi 3.1 è detto che era “il più astuto di tutti gli animali selvatici che Dio aveva fatto”. Naturalmente il serpente, non certo chi allora lo aveva abitato e che approfittò di questa sua caratteristica. Sappiamo che Satana agì in questo animale proprio per il suo carattere, ampliandolo e adattandolo ai suoi scopi di rovina. Certo non è un argomento sviluppabile in un solo capitolo, ma dando delle linee fondamentali a ciò che Gesù vuol dire ai dodici e a noi è che esiste una quantità enorme di fattori da considerare se davvero abbiamo intenzione di sviluppare un ministero di testimonianza e predicazione: l’essere inviati come “pecore in mezzo ai lupi” non significa venire mandati al macello, ma in un territorio in cui la presenza di questi predatori è certa. Eppure bisogna avere a che fare presto o tardi con loro per cercare di recuperare, mediante il Vangelo, chi lupo non è. Ecco allora che la prudenza e l’astuzia del discepolo non si manifesta con il mimetismo, ma con il reperimento delle strategie opportune per salvaguardarsi dall’opera dei lupi senza rinunciare alla semplicità della colomba, animale che, al pari della pecora, non è in grado di portare avanti linee di condotta in cui vi sia violenza. Ricordiamo in che forma discese su Gesù lo Spirito Santo. E queste due condizioni, l’essere mandati in mezzo ai predatori e l’essere prudenti e semplici, confluiscono in un solo principio, “Guardatevi dagli uomini“: là dove un animale avendo a che fare col proprio simile trova solitamente un’intesa o cooperazione, per l’uomo è diverso perché può sempre scoprire, spesso quando è troppo tardi, un nemico sotto mentite spoglie. E la storia umana, a qualunque disciplina si riferisca, è piena di soprusi, tradimenti, prevaricazioni. Chi ha creduto, per la stessa definizione di Gesù “I figli di questo mondo, nelle relazioni con quelli della loro generazione, sono più avveduti dei figli della luce”, non ha la necessaria astuzia per fronteggiarli, ma se non s’impone la prudenza come metodo, il calcolo e il discernimento mentre ha a che fare con loro, è destinato a subire conseguenze anche pesanti, a subire congiure, piani vessatori, tradimenti e pagarne le conseguenze.

Ora, al verso 17, questi “uomini” da cui Gesù raccomanda di guardarsi avrebbero consegnato i suoi discepoli ai “tribunali”, parola interpretata più che tradotta perché l’originale ha “concistori”, i cosiddetti “tribunali dei sette” istituiti in tutte le città a giudicare i reati “minori” somministrando pene amministrative o corporali, spettando ai romani comminare la pena di morte. La frase “vi flagelleranno nelle loro sinagoghe”, poi, si riferisce alle reazioni scomposte e isteriche, ma non per questo innocue, di cui abbiamo testimonianza nel libro degli Atti (la già citata morte di Stefano) e, ancor prima, con il processo a Gesù, l’Agnello di Dio per eccellenza di cui il salmista profetizza “Un branco di cani mi circonda, mi accerchia una banda di malfattori, hanno scavato le mie mani e i miei piedi. Posso contare tutte le mie ossa, essi stanno a guardare e mi osservano: si dividono le mie vesti, sulla mia tunica gettano la sorte” (Salmo 22.17-19). La lettura del secondo libro di Luca, poi, è piena di false accuse e complotti verso colo che annunciavano il Vangelo convertendo anche i giudei.

“Guardatevi dagli uomini”, dunque, cioè da chi non possiede altra caratteristica se non quella di vivere l’orizzontalità e non la verticalità della vita, quindi da chi appartiene al mondo e per il mondo vive fondando su di lui tutto il proprio essere. Questo comprende tutti gli affetti che possiamo avere, le amicizie estranee al nostro mondo spirituale che coltiviamo a nostro rischio, spesso dimenticando – parlo anche per esperienza e non solo perché così è scritto – che tra luce e tenebre non vi può essere nulla in comune. Spesso i tradimenti di varia natura o le perdite che subiamo trovano la loro origine in un nostro errore. “Guardatevi dagli uomini” è un consiglio amorevole che Gesù rivolge a tutti coloro che si ritengono o desiderano essere suoi discepoli, arrivando a scavare anche in quelli che dovrebbero essere gli affetti più cari: in questo stesso discorso dirà “i nemici dell’uomo saranno quelli stessi di casa sua” (v.36). L’appartenenza a Cristo e la relativa conversione, infatti, crea automaticamente una grande spaccatura che si fa tanto più profonda quanto più il seguire Gesù si fa evidente agli occhi di chi ci ha circondato fino a poco prima del nostro incontro con Lui. E qui ci sarebbe molto da dire sul fraintendimento colossale che inseriscono certe organizzazioni religiose pronte a vantarsi delle “persecuzioni” che i loro adepti subiscono da parte di familiari preoccupati per atteggiamenti e metodi che riguardano prese di posizione tese ad apparire più che il risultato dell’opera dello Spirito.

“Guardatevi dagli uomini” è un modo per ricordare che l’appartenere a questo genere, se qualifica ogni uomo e donna come individuo dotato di anima e quindi come essere superiore, può collocarlo tanto nella luce che nelle tenebre. Anzi, ricordiamo che l’apostolo Paolo giunge a dire “Un tempo eravate tenebre”, cioè vi identificavate con esse e avevate la loro medesima caratteristica (Efesi 5.5). Ricordiamo anche la frase “…figli di Dio innocenti in mezzo a una generazione malvagia e perversa” (Filippesi 2.14).

“Guardatevi da” indica allora la metodologia per una profilassi preventiva e, nella Scrittura, incontriamo solo dieci inviti preceduti da questo verbo: abbiamo

 

1) il guardarsi dal praticare la nostra giustizia davanti agli uomini, primo passo verso l’ipocrisia;

2) dai falsi profeti per non cadere nelle loro reti;

3) dagli uomini (il nostro caso);

4) dal “disprezzare alcuno di questi piccoli” cioè chi è veramente semplice (18.10);

5) dal lievito degli scribi e dei farisei, collegato all’esercizio della falsa giustizia;

6) da ogni avarizia che poi è considerare una cosa esclusivamente come nostra (Lc 12.15);

7,8) dai cani e dai cattivi operai;

9) da quelli della mutilazione (Fil. 3.2) strettamente collegati a quegli ebrei che ponevano la circoncisione come indispensabile per essere considerati popolo di Dio;

10) dagli idoli (1 Gv 5.21).

 

Rinviando al un prossimo capitolo l’esame del metodo che può consentire alla pecora in mezzo ai lupi di sopravvivere, cerchiamo di concludere la lettura immediata del nostro passo: i discepoli sarebbero stati condotti “davanti ai governanti e ai re per causa mia”, letteralmente “rettori e re”, quindi davanti ai magistrati romani di vari ordini e gradi, proconsoli, pretori e procuratori oltre che ai “re”, riferimento ad Erode Agrippa e ai “Cesari” romani.

Ebbene, in questo frangente non saranno i discepoli a parlare, ma lo Spirito Santo dimorante in loro: non si tratterà di riportare frasi fatte, di compiere miracoli, ma di raccogliere ed esporre le proprie esperienze e conoscenze in modo tale da mettere quelle persone nelle condizioni di scegliere se continuare ad opporsi allo Spirito stesso, o cedere davanti a lui. Ricordiamo che se gli apostoli, dal primo all’ultimo, avessero dovuto assemblare i loro ricordi per evangelizzare senza venire illuminati dallo Spirito, avrebbero miseramente fallito. Ma ringraziamo Nostro Signore Gesù Cristo perché disse loro “Vi ho detto queste cose mentre io sono ancora presso di voi. Ma il Consolatore, lo spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto quello che io vi ho detto” (Giovanni 14.26). Amen.

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09.04 – LA MISSIONE DEI DODICI: LA GRATUITÀ DEL DONARE E LA GESTIONE DI SÉ (Matteo 10.8-14)

9.04–La missione dei dodici: III. Gratuità del donare e la gestione di sé (Matteo 10.8-14)

 

8Guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demòni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date. 9Non procuratevi oro né argento né denaro nelle vostre cinture, 10né sacca da viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone, perché chi lavora ha diritto al suo nutrimento. 11In qualunque città o villaggio entriate, domandate chi là sia degno e rimanetevi finché non sarete partiti. 12Entrando nella casa, rivolgetele il saluto. 13Se quella casa ne è degna, la vostra pace scenda su di essa; ma se non ne è degna, la vostra pace ritorni a voi. 14Se qualcuno poi non vi accoglie e non dà ascolto alle vostre parole, uscite da quella casa o da quella città e scuotete la polvere dei vostri piedi. 15In verità io vi dico: nel giorno del giudizio la terra di Sòdoma e Gomorra sarà trattata meno duramente di quella città.”.

 

Abbiamo qui le istruzioni di Gesù ai dodici che per la prima volta sarebbero diventati davvero operativi, protagonisti della predicazione anche se in modo diverso da quanto avverrà dopo l’ascensione e la discesa dello Spirito Santo. Siamo infatti al tempo in cui la diffusione del Vangelo consisteva nell’annuncio del Regno di Dio “vicino” o “giunto” a Israele, popolo eletto che, credendo nel Messia promesso, avrebbe potuto determinare un nuovo corso storico per sé e per gli altri popoli. La vicinanza del Regno andava dichiarata a tutti indipendentemente dal loro grado di istruzione o condizione sociale e ciò avveniva ininterrottamente secondo il raccordarsi dell’eternità di Dio col tempo degli uomini: pensiamo che, a partire dall’annuncio della nascita di Gesù, nel giro di pochi decenni si erano registrati eventi miracolosi (le tante teofanie angeliche e tutti gli episodi ad esse collegati), la predicazione e il battesimo di Giovanni, il ministero di Gesù, i suoi discepoli che Lo seguivano e collaboravano con Lui per quanto potevano, la predicazione sostenuta dai miracoli. Ora abbiamo l’invio dei dodici dopo aver ricevuto potere su tutto ciò che era d’impedimento per una vita totalmente piena, cioè la malattia, la morte, la lebbra e la possessione demoniaca. Si tratta di quattro elementi di cui due sicuramente ”naturali” perché malattia e morte rientrano nella vita; gli altri invece non si sa come affrontare, sfuggono alla comprensione perché appartengono a una dimensione alla quale l’essere umano non pensa e vi si ritrova coinvolto suo malgrado. La lebbra, per la quale non c’era cura, modo che Dio allora aveva per giudicare la persona nella carne, sappiamo che rendeva chi ne era affetto totalmente emarginato dalla società e senza diritti. L’indemoniato, poi, non avendo più il controllo su di sé, viveva succube di colui, o coloro, che lo abitavano. Ecco allora la totalità dell’intervento che i dodici erano in grado di portare a quanti avrebbero accolto il loro annuncio, a conferma del fatto che non possono esservi limiti all’intervento di Dio.

Penso a come si saranno sentiti i dodici nell’esercizio delle loro funzioni che Gesù aveva conferito loro, che da battezzatori che ricalcavano le orme di Giovanni Battista, si ritrovavano a compiere quei miracoli che mai avrebbero pensato di poter fare, meditando così sulla differenza tra il seguire un profeta o il Figlio di Dio.

Va comunque rilevato che “risuscitate i morti” manca nei manoscritti più antichi e che, nei racconti evangelici, non abbiamo nessun dato circa resurrezioni operate dagli apostoli in questo primo periodo. Poco cambia perché Gesù, se avesse conferito ai Suoi tre ambiti di contrasto e non quattro, si sarebbe riservato quello sulla morte. Concedendo poi ai dodici di intervenire sugli altri elementi, quindi malattia, lebbra e possessione, avrebbe mantenuto il necessario distinguo fra coloro che esercitavano dei poteri concessi e Lui, Figlio dell’uomo e dell’Iddio vivente. Eppure, quel “chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie Colui che mi ha mandato”, ci parla di un’identità totale.

Leggiamo poi il primo ordine impartito, “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”, strettamente connesso a quanto appena conferito ai dodici tra i quali anche Giuda Iscariotha. Si tratta di un verità con la quale Nostro Signore stabilisce un primo, fondamentale pilastro dei rapporti che devono intercorrere fra chi del Vangelo è un operatore e chi un fruitore: Gesù aveva conferito un potere ai dodici e il suo ordine è teso potenzialmente ad evitare quei fraintendimenti carnali che si manifestarono altrove, come nel caso del mago Simone, che pregò gli apostoli di dare anche a lui il potere di trasmettere il dono dello Spirito Santo con l’imposizione delle mani (Atti 8.9-24). Questo Simone voleva che ciò avvenisse per poi fare altrettanto, ma facendosi pagare. Ricordiamo le parole di Pietro in proposito: “Possa andare in rovina tu e il tuo denaro, perché hai pensato di comprare con soldi il dono di Dio! Non hai nulla da spartire né da guadagnare in questa cosa, perché il tuo cuore non è retto davanti a Dio. Convertiti dunque da questa tua iniquità e prega il signore che ti sia perdonata l’intenzione del tuo cuore”.

Tanto le parole di Gesù ai dodici quanto quelle di Pietro al mago Simone aiutano a valutare la condizione spirituale di quelle Chiese, o credenti, che chiedono un contributo economico per opere che non possono essere valutate con un metro umano e quindi il denaro, doveroso compenso per una qualsiasi attività lavorativa, è qui completamente fuori luogo. Ecco allora che qualunque dono un credente abbia ricevuto non può venire esercitato a pagamento, ma dev’essere un libero donarsi per quanto, come vedremo, con accortezza.

Già con la proibizione di accettare denaro dai beneficiari dei miracoli abbiamo un primo, profondo distacco dal modo di ragionare umano, ma la seconda istruzione irrompe anche nel senso di prudenza che qualunque viaggiatore doveva (e deve) avere, predisponendo quanto potrà aiutarlo nel viaggio: gli apostoli non dovevano portare con sé oro, argento e denaro, tutti indici di una coscienziosa previdenza in quanto elementi che potevano essere scambiati in denaro e quindi ciò avrebbe evitato di portare con sé il peso eccessivo di molte monete. Poi niente sacca da viaggio (utilizzata per semplici provviste alimentari), vestiti di ricambio e sandali che però, venendo raccomandati in Marco, viene da pensare che ne fosse proibito un ulteriore paio. Infine, nell’elenco, non viene ammesso addirittura il bastone per sostenersi quando stanchi o da usare per difendersi da animali aggressivi. Il bastone era soprattutto quello strumento che qualificava la tribù di appartenenza della persona. Matteo specifica tutto ciò mentre Luca riporta “non prendete nulla per il viaggio”: i dodici avrebbero dovuto andare così com’erano, senza nient’altro che loro stessi e, soprattutto, la benedizione del loro Maestro perché “chi lavora ha diritto al suo nutrimento” cioè “io stesso provvederò a voi”.

Inviando i dodici in missione Gesù intende far scoprire loro cosa voglia dire lavorare per Lui, cioè stare sotto le Sue ali protettive e quindi dipendendo da Dio in tutto e per tutto ma, attenzione, fu uno stato temporaneo sul quale occorre riflettere per non cadere nell’approssimazione o peggio in un “romanticismo” fuori luogo: vero è che davanti a Nostro Signore ci siamo sempre, vero è che chi dirige la nostra vita è Lui come è Lui a proteggere e provvedere continuamente, ma non si può fare di questi principi una regola assoluta, qualcosa che debba avvenire per forza come lo fu per gli apostoli in missione. In altri termini, per chiarire il concetto senza ombre, Gesù inviò i Suoi con questi ordini per far capire loro quanto fosse fondamentale attenersi alla Sua provvidenza, ma successivamente non fu più così, anzi, ricordando proprio questa missione disse loro: “«Quando vi ho mandato senza borsa, né sacca, né sandali, vi è forse mancato qualcosa?» Risposero: «Nulla». Ed egli soggiunse: «Ma ora, chi ha una borsa la prenda, e così chi ha una sacca; chi non ha spada, venda il mantello e ne compri una. Perché io vi dico, deve compiersi in me questa parola della Scrittura: E fu annoverato fra gli empi»” (Luca 22.35-37).

Sappiamo che quando Gesù “Fu annoverato fra gli empi” ne accettò le conseguenze anche di fronte al Padre che lo abbandonò e per questo, in quel lasso di tempo per quanto breve, non avrebbe potuto far nulla né per sé, né per altri: “Bisogna che noi compiano le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la note, quando nessuno può agire” (Giovanni 9.4)

Ricordiamo, a proposito del mantenersi, l’apostolo Paolo che lavorava perché non voleva essere di peso agli altri che avrebbero voluto sostenerlo con le offerte: “Voi ricordate, fratelli, il nostro duro lavoro e la nostra fatica: lavorando notte e giorno per non essere di peso a nessuno di voi, vi abbiamo annunciato il Vangelo di Dio” (1 Tessalonicesi 2.9). Ancora, “Noi non siamo rimasti oziosi in mezzo a voi, né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato duramente, notte e giorno, per non essere di peso ad alcuno di voi. Non che non ne avessimo diritto, ma per darci a voi come modello da imitare” (2 Tessalonicesi 3.7-9). E più avanti si dirà che “Chi non vuole lavorare, non deve neppure mangiare” (v.10).

Quanto Gesù ordinò ai dodici nel nostro episodio, quindi, aveva lo scopo di far comprendere loro che erano un tutt’uno con Lui e che a Lui avrebbero sempre dovuto far riferimento per qualunque loro esigenza, ma questo non li esimeva dal sostenersi da sé in futuro, quando avrebbero poi affrontato la predicazione per formare la Chiesa, posto che il concetto di lavoro era molto diverso dal nostro così come il tempo che a lui si dedicava. Ecco che quindi fare di un episodio “dispensazionale” una regola appare fuori luogo e fuorviante, buono tuttalpiù per del “romanticismo cristiano” che rischia poi di evaporare alla luce della realtà della vita e portare al fallimento o a compromessi di varia natura per sopravvivere.

L’opera cristiana non può essere lasciata al caso, ma proseguendo nella lettura vediamo che è frutto di calcolo e previdenza perché, al verso 11, vengono date le indicazioni per l’alloggio, cercando una casa il cui proprietario sia una persona “degna” nel senso che goda la stima della città o del villaggio, oltre che appartenere alla categoria dei “giusti” come intesi allora. Il verbo impiegato per “cercare”, ecsetàsate, implica un “laborioso ricercare onde scoprire il vero”, quindi facendo appello anche al proprio discernimento. Lì i discepoli, a coppie, avrebbero dovuto dimorare, ma solo se la “casa” si fosse confermata disponibile all’accoglienza del messaggio che essi portavano. Nonostante “Pace a questa casa” fosse ed è tutt’ora un saluto comune in Oriente, in quel caso non si porgeva un augurio sincero e benevolo, ma la pace di Cristo, quella del Regno dei cieli vicino, del Vangelo: essendo impossibile non dichiararsi subito favorevoli o contrari, visto che non può esistere neutralità, ecco che quella “pace” avrebbe potuto scendere sui membri della famiglia, o tornare agli apostoli perché il Vangelo è veramente l’annuncio della “pace” fatta tra Dio e gli uomini che gli appartengono. E la vicinanza del Regno era appunto l’unico annuncio di pace possibile.

È interessante Luca che nel suo racconto fa dire a Gesù “Non passate di casa in casa” perché non solo cambiando dimora avrebbero potuto urtare la suscettibilità del primo ospitante e quindi turbare degli equilibri emotivi che dovevano restare fermi, ma anche avrebbero dimostrato poca oculatezza e sensibilità oltre a venir scambiati per girovaghi, o questuanti, o entrambe le cose. E certo i discepoli di Gesù non vivevano di espedienti.

Una casa, più case, un paese o una città avrebbero avuto la responsabilità di accogliere o rifiutare il messaggio evangelico e la reazione, in quel caso, avrebbe dovuto essere “scuotete la polvere dei vostri piedi”, secondo Marco 6.1 cui Luca 9.5 aggiunge “in testimonianza contro di loro”: lo scuotimento della polvere era un gesto che poteva essere capito molto bene perché usato dai Farisei che, rientrando in Giudea da un paese pagano, scuotevano la polvere dai sandali alla frontiera in segno di esclusione da qualsiasi rapporto coi gentili. Per gli apostoli questo gesto significava che non solo non intendevano portare con sé nulla che appartenesse a quella gente, ma che si liberavano da qualsiasi responsabilità derivante dalla condanna che avrebbe seguito il loro rifiuto. Lo scuotimento della polvere lo troviamo nel libro degli Atti ad Antiochia, quando “…i giudei sobillarono le pie donne della nobiltà e i notabili della città e suscitarono una persecuzione contro Paolo e Barnaba e li cacciarono dal loro territorio. Allora essi, scossa contro di loro la polvere dei piedi, andarono a Icònio” (Atti 13.50,51). Anche qui si trattò di un gesto che fu capito dai Giudei e con il quale i due, Paolo e Barnaba, si dichiararono non responsabili del giudizio che sarebbe caduto su quelli.

L’uomo che non conosce il messaggio del Vangelo, nel momento in cui gli viene offerto, ha davvero l’opportunità di determinare il proprio destino di eternità con o senza Cristo secondo quanto leggiamo in Romani 2.5-8: “Tu, però, con il tuo cuore duro e ostinato, accumuli collera su di te per il giorno dell’ira e della rivelazione del giusto giudizio di Dio, che renderà a ciascuno secondo le sue opere: la vita eterna a coloro che perseverando nelle opere di bene, cercano gloria, onore, incorruttibilità; ira e sdegno contro coloro che, per ribellione, disobbediscono alla verità e obbediscono all’ingiustizia”. L’uomo quindi, come già detto, deve inevitabilmente obbedire a qualcuno, è uno schiavo comunque nonostante non si ritenga tale. La differenza tra chi servire risiede nel fatto che con Cristo si ha sempre una scelta, mentre con Satana no.

C’è poi il riferimento a Sodoma e Gomorra, città tristemente note nell’antichità per il loro voler vivere in modo totalmente libero non tanto e non solo la sessualità, ma per il disprezzo assoluto delle esigenze altrui, dell’ospitalità e della correttezza dei rapporti umani. Ebbene gli abitanti di quei luoghi, educati agli istinti primitivi fin dall’adolescenza, che non ebbero informazioni o una predicazione su quali fossero le esigenze di Dio, saranno trattate nel giudizio finale meno duramente rispetto a tutti quelli che hanno disprezzato coscienziosamente la testimonianza del Vangelo. E tale affermazione è sostenuta dall’Amen di Gesù, “In verità io vi dico”. Ecco perché il messaggio è “Oggi, se udite la sua voce, non indurite i vostri cuori”. Amen.

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09.03 – LA MISSIONE DEI DODICI: DA CHI ANDARE (Matteo 10.5-14)

9.03 – La missione dei dodici: II. Da chi andare (Matteo 10.5-14)

 

5Questi sono i Dodici che Gesù inviò, ordinando loro: «Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani; 6rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d’Israele. 7Strada facendo, predicate, dicendo che il regno dei cieli è vicino. 8Guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demòni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date. 9Non procuratevi oro né argento né denaro nelle vostre cinture, 10né sacca da viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone, perché chi lavora ha diritto al suo nutrimento. 11In qualunque città o villaggio entriate, domandate chi là sia degno e rimanetevi finché non sarete partiti. 12Entrando nella casa, rivolgetele il saluto. 13Se quella casa ne è degna, la vostra pace scenda su di essa; ma se non ne è degna, la vostra pace ritorni a voi. 14Se qualcuno poi non vi accoglie e non dà ascolto alle vostre parole, uscite da quella casa o da quella città e scuotete la polvere dei vostri piedi. 15In verità io vi dico: nel giorno del giudizio la terra di Sòdoma e Gomorra sarà trattata meno duramente di quella città.”.

 

“Chiamare” e “dare” sono i due verbi sui quali ci siamo soffermati nello scorso capitolo. Nella nostra lettura ora se ne aggiunge un terzo, “ordinare”, che contiene le norme di comportamento dell’apostolo in missione, alcune delle quali limitate al periodo in cui gli inviati da Gesù avrebbero operato. Il discorso ai dodici è interessante perché non solo dà loro delle regole, ma anche, come vedremo, tutta una serie di avvertimenti perché non si trovassero impreparati di fronte alle manifestazioni negative che vi sarebbero state in conseguenza della loro missione. Per gli Apostoli furono sufficienti le parole del loro Maestro, per noi valgono tutte le numerose indicazioni-esortazioni che troviamo nelle epistole di Paolo, Pietro, Giacomo, Giuda e Giovanni lasciate alla Chiesa perché i suoi componenti le mettessero in pratica nel loro interesse.

La prima norma, quelle di non andare fra i pagani e non entrare nelle città dei samaritani, rivolgendosi piuttosto alle pecore perdute della casa d’Israele, è di facile comprensione poiché non era ancora giunto il tempo per cui il Vangelo fosse predicato a chi non apparteneva al popolo eletto. Questo avverrà apertamente dopo il rifiuto delle autorità religiose della Sinagoga di Antiochia quando Paolo e Barnaba parlarono dicendo: “Era necessario che fosse proclamata prima di tutto a voi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, noi ci rivolgiamo ai pagani” (Atti 13.46), realtà che vediamo implicitamente nel dono delle lingue parlate dai “centoventi” che componevano la Chiesa di Gerusalemme (2.1-13).

Gesù non compila un itinerario che i Suoi avrebbero dovuto rispettare, ma proibisce loro di entrare nelle città greche situate nella Decapoli dalla quale molti arrivavano per ascoltarlo e vedere i miracoli che faceva. Questa proibizione, come osservato da molti, fu di breve durata, ma necessaria per compiere il piano di Dio di fondare la Chiesa cristiana partendo dagli Ebrei. I Samaritani poi erano una razza mista, in origine pagani introdotti nel regno di Israele dagli Assiri per riempire il vuoto lasciato dalle dieci tribù deportate oltre l’Eufrate: quelli s’imparentarono così col rimanente ebraico lasciato in patria e a loro si assimilarono adottando la Legge di Mosè, ma venerando ancora i loro dèi. Quando il popolo, tornando da Babilonia, rifiutò di accettare la loro cooperazione nel costruire il Tempio a Gerusalemme, i Samaritani se ne costruirono uno sul monte Gherizim. Sappiamo che Gesù visitò i loro territori, come visto nell’episodio della donna samaritana e che là predicò, ma solo Lui sapeva cosa dire e poteva rivolgere loro un messaggio mirato. Da notare poi che, una volta risorto, le parole di Nostro Signore furono differenti: “…ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria fino a tutti i confini della terra” (Atti 1.8).

Ancora una volta troviamo la definizione “pecore perdute”: così, come già accennato, era descritto il popolo lasciato solo, o peggio male amministrato da pastori indegni. Isaia 53.6 scrive “Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada”, cioè pecore non in grado neppure di stare unite. Affondando le sue radici nell’Ebraismo, anche nel Cristianesimo vale la figura della pecora perduta, ma a causa della solitudine e disorientamento derivante dal peccato; l’apostolo Pietro scriverà “Eravate erranti come pecore, ma ora siete stati ricondotti al pastore e custode delle anime vostre” (! Pietro 2.25). Gesù in persona quindi custodisce le anime di chi lo ascolta, fa la Sua volontà e viene così considerato Suo “amico”.

Per la regola in base alla quale ciò che troviamo scritto nel Vangelo ha una valenza per le persone che vivevano in quel tempo e ne ha un’altra – certo non di opposto significato – per noi, essere “pecora perduta” a causa del peccato e della propria eredità storica pagana con tutto ciò che questo comporta (filosofie di ogni tipo, metodologie di espressione e contenuti), è diverso da essere “pecora perduta” perché abbandonata a sé stessa da chi avrebbe dovuto occuparsi di lei, cioè gli Scribi e Farisei. Il fallimento dei pastori del popolo di allora, ma anche prima, è descritto in modo drammatico in Geremia che addirittura prende ad esempio alcuni animali che, a differenza degli uomini, hanno l’istinto che suggerisce loro cosa fare al tempo opportuno. Sono parole che valgono anche oggi: “Ho ascoltato attentamente: non parlano come dovrebbero. Nessuno si pente della sua malizia e si domanda «Cos’ho fatto?». Ognuno prosegue la sua corsa senza voltarsi, come un cavallo lanciato nella battaglia. La cicogna nel cielo conosce il tempo per migrare, la tortora, la rondine e la gru osservano il tempo del ritorno; il mio popolo, invece, non conosce l’ordine stabilito dal Signore. Come potete dire «Noi siamo saggi perché abbiamo la legge del Signore»? A menzogna l’ha ridotta lo stilo menzognero degli scribi! I saggi restano confusi, sconcertati e presi come in un laccio. Ecco, hanno rigettato la parola del Signore: quale sapienza possono avere?” (8.6-9).

Illuminante poi la profezia di Ezechiele 34.2-6 che oggi molti pastori del cristianesimo, indipendentemente dalla denominazione di appartenenza e/o gerarchia, dovrebbero meditare per ravvedersi: “Figlio dell’uomo, profetizza contro i pastori d’Israele, profetizza e riferisci ai pastori: «Così dice il Signore Iddio: guai ai pastori d’Israele, che pascono se stessi! I pastori non dovrebbero forse pascere il gregge? Vi nutrite di latte, vi rivestite di lana, ammazzate le pecore più grasse, ma non pascolate il gregge. Non avete reso forti le pecore deboli, non avete curato le inferme, non avete fasciato quelle ferite, non avete riportato le disperse. Non siete andati in cerca delle smarrite, ma le avete guidate con crudeltà e violenza. Per colpa del pastore si sono disperse e sono preda di tutte le bestie selvatiche: sono sbandate. Vanno errando le mie pecore su tutti i monti e su ogni colle elevato e nessuno va in cerca di loro e se ne cura”.

Ecco perché i dodici dovevano rivolgersi a Israele. Anteporre la predicazione ad altri quando l’elezione di quel popolo richiedeva un intervento che lo facesse tornare tale nella pratica, per di più con la presenza del Messia in mezzo a loro, rendeva qualunque altra iniziativa priva di senso, perché la precedenza non è qualcosa che si può interpretare, ma solo accogliere e rispettare. I Pastori che avevano fallito con le pecore di Israele non è che di punto in bianco avessero cambiato carattere e metodi, ma fu un processo molto graduale, avvenuto quasi senza accorgersene, dando spazio all’aggiungere e togliere elementi che la Legge proibiva: abbiamo letto le parole “A menzogna l’ha ridotta lo stilo menzognero degli scribi”. Poco a poco, introducendo nuove interpretazioni, incapaci di guardare il generale senza cui il particolare si svuota di significato, quei pastori avevano ridotto la pratica e la fede a una religione completamente arida e inutile. Ai tempi di Gesù si trattava di custodire, tramandare, insegnare una visione corretta dell’ebraismo, ai nostri si tratta di non inquinare le verità da Lui annunciate e sviluppate dagli Apostoli che parlarono e scrissero sotto la guida infallibile dello Spirito Santo.

E mi piace concludere questa parte con le parole di un illustre studioso della Scuola di Gerusalemme: “Anche nella storia della Chiesa il Grande Codice fu considerato cava da cui estrarre versetti infallibili perché rapiti dal loro contesto e denucleati della loro significazione, o unico orizzonte in cui circoscrivere il pensiero su Dio e sul Creato”. Senza contare l’azione infestante e dannosa che ha l’aggiungere e il togliere, che genera sempre un grave squilibrio nella relazione con Dio e nella creatura che, disinformata, non può che rientrare nella categoria delle pecore senza pastore. Aggiungo  su questo importante tema Geremia 50.6,7: “Gregge di pecore sperdute era il mio popolo, i loro pastori le avevano sviate, le avevano fatte smarrire per i monti; esse andavano di monte in colle, avevano dimenticato il loro ovile. Quanti le trovavano le divoravano e i loro nemici dicevano: «Non ne siamo colpevoli, perché essi hanno peccato contro il Signore, sede di giustizia e speranza dei loro padri»”.

Rimane a questo punto da riflettere sul verso 7, qui tradotto meglio che in altre versioni, “Strada facendo, predicate”: il messaggio abbiamo visto che allora doveva essere diretto a Israele, inteso a destare principalmente attenzione, svegliare le coscienze addormentate, preparare la via ad un più ampio ed esplicito insegnamento. Certo la frase “Il regno dei cieli è vicino” era ora supportata da molti più elementi rispetto a quelli che predicava Giovanni Battista, di cui è detto che non sorse tra i nati di donna uno maggiore di lui perché sappiamo che quando gli mandò a dire “Sei tu quello che doveva venire, o dobbiamo aspettarne un altro?” Gesù rispose: “…i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciata la buona notizia”. Ebbene ora anche dodici discepoli facevano lo stesso, salvo la predicazione nelle Sinagoghe perché non ne sarebbero stati in grado. Quello lo faceva Gesù e lo faranno gli stessi Apostoli una volta sceso lo Spirito Santo.

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09.02 – LA MISSIONE DEI DODICI: CHIAMARE E DARE (Matteo 10.1-4)

9.02 – La missione dei dodici: I. Chiamare e dare (Matteo 10.1-14)

 

1Chiamati a sé i suoi dodici discepoli, diede loro potere sugli spiriti impuri per scacciarli e guarire ogni malattia e ogni infermità. 2I nomi dei dodici apostoli sono: primo, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello; Giacomo, figlio di Zebedeo, e Giovanni suo fratello; 3Filippo e Bartolomeo; Tommaso e Matteo il pubblicano; Giacomo, figlio di Alfeo, e Taddeo; 4Simone il Cananeo e Giuda l’Iscariota, colui che poi lo tradì. 5Questi sono i Dodici che Gesù inviò, ordinando loro: «Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani; 6rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d’Israele. 7Strada facendo, predicate, dicendo che il regno dei cieli è vicino. 8Guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demòni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date. 9Non procuratevi oro né argento né denaro nelle vostre cinture, 10né sacca da viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone, perché chi lavora ha diritto al suo nutrimento. 11In qualunque città o villaggio entriate, domandate chi là sia degno e rimanetevi finché non sarete partiti. 12Entrando nella casa, rivolgetele il saluto. 13Se quella casa ne è degna, la vostra pace scenda su di essa; ma se non ne è degna, la vostra pace ritorni a voi. 14Se qualcuno poi non vi accoglie e non dà ascolto alle vostre parole, uscite da quella casa o da quella città e scuotete la polvere dei vostri piedi. 15In verità io vi dico: nel giorno del giudizio la terra di Sòdoma e Gomorra sarà trattata meno duramente di quella città.”.

 

I traduttori del nostro testo hanno omesso un “Poi” davanti al “Chiamati a sé” a mio giudizio importante perché pone maggiormente l’accento sulla successione degli eventi. “Poi”, cioè “dopo queste cose”, che obbliga il lettore ad un collegamento con la presa d’atto di Gesù sulla condizione in cui versavano le folle, stanche e sfinite “come pecore che non hanno pastore”. Il “Poi” obbliga anche a ricordare che Gesù invitò i dodici a pregare perché il Signore mandasse “degli operai nella sua messe” e che ora era giunto il momento per chiamarli e inviarli. Gesù quindi, con la richiesta ai suoi di pregare per quel motivo, fece loro capire che ogni decisione, soprattutto spirituale, doveva essere prima di tutto soggetta a preghiera solo dopo una risposta, un “semaforo verde” che una volta apertosi avrebbe loro consentito di muoversi.

A questo punto abbiamo la descrizione di due azioni, “chiamati a sé” e “diede loro potere”: Gesù chiama alla sua presenza diretta e senza interferenze di terzi delle persone per un discorso, rivelazione e incarico strettamente individuale. Sappiamo che i dodici erano già stati scelti dopo una notte in preghiera (Luca 6.12) e che ora vengono chiamati all’operatività attraverso un incarico preciso segnando una tappa ulteriore nel cammino verso l’annuncio del regno di Dio. Era talmente tanta la messe che dovevano essere mandati a lavorarla i primi operai. Chiamare significa “invitare qualcuno ad avvicinarsi, intervenire, accorrere, comparire pronunciandone il nome o con un altro appellativo, per uno scopo”. Come significato secondario abbiamo anche “dire o definire le cose come effettivamente sono”, ad esempio la sostituzione di quello che era il popolo di Dio (Israele) con un altro del tutto nuovo (composto tanto da pagani quanto ebrei convertiti). L’apostolo Paolo cita infatti Osea che scrisse “Chiamerò mio popolo quello che non era mio popolo, e mia amata quella che non era l’amata”, cioè la Chiesa anziché Gerusalemme.

La convocazione di Gesù ai dodici ha un significato contingente, cioè lo fa per un motivo preciso visto nell’inviarli in missione dopo aver fornito loro gli elementi indispensabili per la sua riuscita, ma ne ha anche uno più ampio che non abbiamo avuto modo di sviluppare prima e che si estende a tutti gli esseri umani indipendentemente dalla loro professione di fede e condotta. Perché anche lì esiste un chiamare per dare: chiamare a entrare nella gioia del Signore, a un rendiconto e conseguente giudizio perché la “chiamata” è per tutti gli uomini che vengono a conoscenza del Vangelo e scelgono se accoglierlo o respingerlo, portandone la responsabilità nel bene o nel male. Possiamo ricordare le parole dell’inno che Giovanni pone all’inizio del suo Vangelo: “A tutti quanti lo hanno accolto, ha dato il potere di diventare figli di Dio”. È un cambiamento totale, una rivoluzione perché chi crede non è in un rapporto di sudditanza, ma di amicizia che si esplica attraverso una forma dignitosa, confidenziale e di rispetto allo stesso tempo: “Voi siete miei amici, se fate ciò che vi comando – ecco perché il rapporto con Gesù non può essere gestito alla leggera –. Non vi chiamo più servi perché il servo non sa cosa fa il suo padrone, ma vi ho chiamato amici perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi” (Giovanni 15.14,15). Di fronte a un amico non ci si nasconde.

Il “chiamare” nel senso di definire una posizione, attribuire una funzione che prima non si aveva, è al tempo stesso una realtà, una condizione di vita e una promessa, un attributo che comporta un rapporto esclusivo che coinvolge a tal punto da impedire una comunicazione-interazione piena con chi appartiene al mondo terreno. Sempre Giovanni nella sua prima lettera scrive “Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio. E lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui”.

La chiamata viene sempre da parte di Dio – l’uomo può solo invocarne l’aiuto – in seguito a un progetto specifico di salvezza in cui rientrava anche quando non Lo conosceva ed era un peccatore professionale. Prima di incontrarLo, non sapevo che il mio nome era nel libro della vita che Giovanni vide e riportò come scritto all’interno e all’esterno, chiuso con sette sigilli che nessuno poteva aprire se non uno “somigliante a un figlio d’uomo”. E qui si apre la conoscenza che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo hanno di ciascuno che a loro appartiene, o prossimo ad appartenergli. Questa verità è così espressa dall’apostolo Paolo: “Quelli che ha da sempre conosciuto, li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito di molti fratelli; quelli che poi ha predestinato, li ha anche chiamati; quelli che ha chiamato, li ha anche giustificati; quelli che ha giustificato, li ha anche glorificati” (Romani 8.29,30).

Predestinazione nel senso che già Dio sapeva le scelte che avremmo fatto e non sottintende in alcun modo il fatto che, per quanto possa volerlo, un uomo non potrà mai pervenire alla salvezza se così non è stato decretato. In altri termini, Giuda non era predestinato a tradire, ma scelse di farlo nonostante anche a lui fosse stato affidato il compito di predicare l’avvicinarsi del Regno, di guarire, di prendere atto continuamente delle opere che il suo Maestro compiva ogni giorno vissuto con Lui. Certo il suo tradimento era stato profetizzato, ma lo mise in atto di sua volontà e usando il proprio libero arbitrio.

Ancora sulla chiamata, sempre personale, sempre Paolo si definisce “Apostolo per chiamata, scelto per annunciare il Vangelo di Dio” (Romani 1.1), ma anche tutti i credenti sono “chiamati da Gesù Cristo ad essere santi” (v.6) “secondo il suo progetto” (8.28). Oggi come dalla costituzione della Chiesa, siamo “Chiamati alla comunione col Figlio suo Gesù Cristo” (1 Corinti 1.9), “a vivere in pace” (7.15), “a libertà” (Galati 5.13), “ad un’unica speranza” (Efesi 4.4). È l’appartenere a un ambito diverso, non terreno, cercare di rimanere a lui uniti perché “Dio non ci ha chiamati all’impurità, ma alla santificazione. Perciò chi disprezza queste cose non disprezza un uomo, ma Dio stesso, che vi dona il suo Santo Spirito” (1 Tessalonicesi 4.7). Abbiamo visto in sintesi la chiamata da parte del Signore per uno scopo che possiamo concludere con queste parole: “E il Dio di ogni grazia, il quale vi ha chiamati alla sua gloria eterna in Cristo Gesù, egli stesso, dopo che avrete un poco sofferto, vi ristabilirà, vi confermerà, vi rafforzerà, vi darà solide fondamenta” (1 Pietro 5.10).

Quindi Dio chiama sempre per dare e, nel caso del nostro episodio, possiamo osservare che non ordina ai dodici di andare “e basta” ma provvede, dopo aver conferito loro potere sugli effetti del peccato, a informarli, dar loro delle linee guida, il che equivale al fatto che il servitore del Signore non si può improvvisare. Non si può cioè dire “Facciamo, andiamo” senza fare un calcolo, un progetto preventivo che non tenga conto degli imprevisti possibili e di come affrontarli, ignorando le basi e soprattutto chiederci profondamente se abbiamo un mandato da Dio o siamo noi a prendercelo. Gesù chiama a sé i dodici per dare loro il potere su ciò che più di ogni altra cosa poteva far pensare agli uomini di quei territori che il volto di Dio si stava davvero volgendosi verso di loro, che davvero il Signore stava visitando il suo popolo. E il “potere sugli spiriti impuri per scacciarli e guarire ogni malattia e ogni infermità” andava a colpire tutte le manifestazioni tangibili dell’Avversario.

Dalla lettura del mandato ai dodici rileviamo che erano autorizzati ad una forma di predicazione elementare, “Predicate dicendo che il regno dei cieli è vicino”, la stessa di Giovanni Battista e di Gesù nel suo aspetto più urgente, cioè tralasciando i suoi insegnamenti che non sarebbero stati in grado di sviluppare e ricordare se non in modo sommario, approssimativo. Non essendo ancora sceso lo Spirito Santo i dodici non potevano predicare in modo diverso ma, sostenuto dagli stessi miracoli che compiva il loro Maestro, avrebbero dimostrato una perfetta identità con Lui. Marco infatti scrive che “Partiti, proclamavano alla gente che si convertisse, scacciavano molti demoni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano” (6.12) e Luca “Allora essi uscirono e giravano di villaggio in villaggio, ovunque annunciando la buona notizia e operando guarigioni” (9.6).

Va sottolineato che l’unzione degli infermi fatta dai dodici non era stata ordinata da Gesù e che probabilmente la praticavano perché tanto chi stava per essere guarito, quanto eventuali parenti o amici, avesse una visualizzazione concreta di quanto erano lì per fare: ciò che usavano non era un olio miracoloso, ma il simbolo dello Spirito di Dio secondo la concezione dell’Antico Patto in cui appunto l’olio veniva impiegato e inteso. In modo specifico è menzionato in Giacomo 5.15: “Chi è malato, chiami presso di sé i presbiteri della Chiesa ed essi preghino su di lui, ungendolo con olio nel nome del Signore. E la preghiera della fede salverà il malato”.

È chiaro che in questo caso l’efficacia non è data dall’olio, ma dalla preghiera dei “presbiteri”, cioè degli anziani che devono essere, a prescindere dall’età, uomini puri, con “i sensi esercitati per abitudine a distinguere il bene dal male” (Ebrei 5.14). Da sottolineare quel “per abitudine” che ci parla di continuità nel tempo, di una vita dedicata e non di momenti occasionali in cui ci si sente disposti a fare qualcosa.

Giacomo qui non suggerisce un rito per superstiziosi, ma chiama in causa la scienza spirituale obiettivo di ogni credente, per cui chi mettesse in atto il verso di Giacomo senza averne i requisiti fallirebbe miseramente. Sono convinto che il dono della guarigione possa esistere ancora oggi, ma appartenga più alla nascita del cristianesimo che non al suo sviluppo, in cui l’uomo è chiamato ad accettare per fede gli avvenimenti che la Scrittura testimonia.

Tornando al nostro testo, possiamo immaginare la gioia di Gesù nel constatare che andavano a lavorare nella messe i primi operai.

Non ci soffermeremo sui dodici che abbiamo sviluppato nel volume quarto; possiamo vedere che nell’elenco di Matteo sono suddivisi in tre gruppi di quattro uomini ciascuno, numeri importanti come il dodici, e il due che garantiva loro il sostegno reciproco. Il “due”, poi, è quello minimo richiesto per la costituzione della Chiesa locale, per quanto allora non ancora esistente.

Riassumendo: il popolo d’Israele ebbe prima la predicazione di Giovanni Battista, poi quella di Gesù, ora quella dei dodici, tutte riguardanti la necessità di ravvedersi perché il regno dei cieli era vicino. Era impossibile non vedere uno sviluppo perché Giovanni non faceva miracoli, ma Gesù certamente sì. Ora i dodici che aveva scelto, dando loro una missione mirata come vedremo, testimoniavano anche la crescita, la trasmissione di un potere che da soli non avrebbero certamente avuto.

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09.01 – LA MISSIONE DEI DODICI, INTRODUZIONE (Matteo 9.35-38)

9.01 – La missione dei dodici: introduzione (Matteo 9.35-38)

 

35Gesù percorreva tutte le città e i villaggi, insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il vangelo del Regno e guarendo ogni malattia e infermità. 36Vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore. 37Allora disse ai suoi discepoli: «La messe è abbondante, ma son pochi gli operai! 38Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe!»”.

 

Iniziamo una serie di riflessioni sull’invio dei dodici apostoli in missione ed è naturale che risalga dal momento in cui, come leggiamo in Matteo 10.1 in poi o nei paralleli, Gesù li chiama a sé dando loro “potere sugli spiriti impuri per scacciare e guarire ogni malattia e ogni infermità”. È chiaramente così, ma i versi che ho scelto come introduzione a questo tema fondamentale hanno la funzione di rivelarci cosa mosse Nostro Signore per mandare i Suoi in predicazione. Matteo prima ci informa di Nostro Signore che percorre città e villaggi, insegna nelle sinagoghe “annunciando il Vangelo del Regno”, cioè spiegando quei passi profetici che Lo riguardavano e le modalità con cui il regno di Dio si sarebbe manifestato, oltre che guarire ogni tipo di infermità. Da notare che le guarigioni occupano l’ultimo posto nell’elenco, venendo prima l’insegnamento e l’annuncio del regno. In altri termini, era il Vangelo che doveva avere la prevalenza sui miracoli ed ecco perché, dopo che avvenivano, quando avevano carattere privato, ne veniva proibita la divulgazione.

Quanto riportato da Matteo in questi versi lascerebbe pensare al fatto che Gesù intraprese un secondo viaggio missionario, ma il fatto che la versione greca usi il tempo imperfetto (anziché l’aoristo) può significare che Matteo alluda agli spostamenti giornalieri, da un paese all’altro della Galilea anziché riferirsi ad un viaggio vero e proprio. La questione è e rimane aperta, ma credo che a contare sia ciò che traspare dalle parole di Matteo: Gesù opera incessantemente, percorre “tutte le città e i villaggi” senza tralasciare neppure le Sinagoghe più piccole, quelle composte da dieci persone, senza fare distinzione tra centri importanti o meno perché ogni uomo era ugualmente unico e irripetibile così come non faceva distinzione tra malattie più o meno gravi perché tutte riconducevano a una condizione di peccato della quale ciascuno era vittima. Le persone cui si rivolgeva erano i “poveri”, i “malati” secondo la Sua definizione, coloro che non avevano scelto deliberatamente la via degli empi, ma non avevano modo di andare oltre la miopia della carne, subendola senza poter porvi rimedio.

Ed è qui che Matteo fornisce un dato sull’indole e l’amore di Gesù: “Vedendo le folle…”, non radunate in un luogo particolare, ma quelle che accorrevano a Lui da ogni città o villaggio e lo seguivano, “…ne ebbe compassione”, termine che, descrivendo un atteggiamento comprensivo e soccorrevole verso uno stato penoso, trova la sua origine nel latino cum-patior, vale a dire “patire assieme”, quindi Nostro Signore si immedesimò in quella gente a tal punto da soffrire per chi, probabilmente, non si rendeva neppure conto dello stato in cui versava.

Infatti subito dopo abbiamo la spiegazione di questo sentimento: “perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore”. Questa era la valutazione che Gesù fece di loro. Erano gli “stanchi e oppressi” che avevano bisogno del Suo ristoro anche senza sapere esattamente chi fosse Colui al quale si rivolgevano. E la confusione attorno alla Sua persona  era grande, come leggiamo in Marco 8.28 “La gente chi dice che io sia? Ed essi gli risposero: «Giovanni Battista, altri poi Elia e altri uno dei profeti”.

È bello vedere che Gesù, quando cerca e trova un uomo, non dia importanza al fatto che questi sappia o meno chi è chi gli parla, ma aspetti di essere da lui riconosciuto: “Tu sei il Cristo, il Figlio dell’Iddio vivente”. Fino a quel momento, l’uomo è “stanco e sfinito” perché il mondo che conosciamo non può fare altro che produrre nella creatura questo stato, come possiamo vedere nel paragone con la pecora che non ha pastore. Ricordiamoci sempre che possiamo identificare la stanchezza e lo sfinimento del mondo a patto che riguardi i tempi nostri, mentre quella di allora si riferiva sempre allo stato spirituale del popolo che gemeva sotto il giogo dell’insegnamento tradizionale degli Scribi e dei Farisei: questo aveva portato non alla costituzione di un gregge ordinato e compatto, ma il disorientamento e la dispersione delle pecore teoricamente loro affidate.

Riguardo alla pecora, si può dire che è un animale in grado di riconoscere fino a cinquanta propri simili, distingue un volto umano imbronciato da uno sorridente dando la preferenza a quest’ultimo e ha in sé il senso della cooperazione. Il pastore è da lei riconosciuto fisicamente e dalla voce anche quando le chiama una ad una – e una ad una rispondono e vanno da lui –, ma non possiede il senso dell’orientamento e ha bisogno di essere guidata costantemente, come provato dai recinti in cui è contenuto il gregge che, quando è libero, va continuamente compattato dai cani. Anche se agli orgogliosi può non far piacere, l’uomo è spesso paragonato alla pecora perché nonostante l’intelligenza di cui è dotato, è spiritualmente soggetto a perdersi di continuo e ha bisogno che Dio lo guidi costantemente. Tutti, nessuno escluso.

Sappiamo che Gesù ebbe compassione delle folle perché prese atto che erano “stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore”, cioè lo stato in cui versavano non era tanto imputabile a loro, quanto all’assenza dei pastori nonostante vi fossero quelli che si dichiarassero tali. Ma cosa distingue il pastore bravo da uno che non lo è? La sua abilità non risiede nel tenere unito il gregge ed evitare che la pecora si perda; piuttosto il buon pastore sa gestire il pascolo ottenendo una crescita equilibrata del manto erboso e quindi una corretta alimentazione degli animali. La pecora tende ad essere ingorda ed è golosa, non possiede il senso di sazietà, per cui chi si prende cura di lei deve fare attenzione a che non si ingozzi e deve regolare il tempo di permanenza in un pascolo particolarmente appetibile. Il pastore ha quindi le funzioni di guida al pascolo più idoneo, si deve occupare interamente di loro anche perché se l’erba che assumono, per quanto a loro gradita, è sempre la stessa, si stancano. Il gregge allora deve avere a disposizione una nutrita quantità di erbe e pascoli diversi. Sono poi animali che hanno paura dell’acqua e solo se il pastore è vicino a loro riescono a guadare un torrente, o anche solo un ruscello. Ecco perché si tratta di un mestiere che non si può improvvisare e soprattutto richiede dedizione. Ricordiamo che Abele fu pastore, mentre Caino agricoltore.

Ecco, Gesù constata tutto questo: le folle erano “stanche e sfinite” perché nessuno si prendeva cura di loro, o lo faceva talmente male che era come se il pastore non ci fosse. Di qui la compassione di Gesù, che conosceva i pensieri di ogni componente di quei gruppi, chi gli sarebbe appartenuto e chi no, come disse ai Farisei un giorno: “Voi non credete perché non siete delle mie pecore” (Giovanni 10.26). Il suo sentire quelle cose fece sì che iniziasse un periodo nuovo preceduto dalla richiesta ai Suoi di pregare: la messe era grande e pochi gli operai; c’era urgenza di provvedere a tutta quella massa di gente che Matteo descrive come un gregge senza pastore mentre Gesù lo vede come una messe che va a male per mancanza di mietitori e la Sua reazione non è quella di dire ai discepoli di agire, “fare qualcosa” per loro, ma di pregare “perché (il Signore) mandi degli operai nella sua messe”. Da soli, senza istruzioni, senza sapere come agire, cosa aspettarsi, senza capire, i dodici avrebbero aggiunto danni a quelli già esistenti. Perché se il pastore non può essere improvvisato, chi annuncia il Vangelo non può essere una persona impreparata e non avere la protezione di Dio su di sé.

A conferma l’apostolo Paolo scriverà in 2 Tessalonicesi 3.1-3: “…pregate per noi, perché la parola del Signore corra e sia glorificata, come lo è anche tra voi, e veniamo liberati dagli uomini corrotti e malvagi. La fede infatti non è di tutti. Ma il Signore è fedele: egli vi confermerà e vi custodirà dal maligno”. La richiesta di pregare rivolta ai membri della Chiesa di Tessalonica rivela il nuovo bisogno di quel tempo: c’era necessità di pastori, ma anche coloro che già operavano andavano sostenuti in quanto è nel momento che un cristiano parla del Vangelo che diventa un obiettivo per l’Avversario e i suoi angeli, siano essi umani o entità spirituali negative.

Ma il piano di Dio è diverso: “Lascerò ancora che la casa d’Israele mi supplichi e le concederò questo: moltiplicherò gli uomini come greggi, come greggi consacrate, come un gregge di Gerusalemme nelle sue solennità. Allora le città rovinate saranno ripiene di greggi di uomini e sapranno che io sono il Signore” (Ezechiele 36.37).

Tornando all’episodio vediamo che, contrariamente all’istinto che spinge gli uomini ad agire per “fare qualcosa” di fronte a un problema, la preghiera dev’essere al primo posto e costituire il primo passo; quelli che erano già stati chiamati apostoli prima del sermone sul monte ubbidirono all’invito del loro maestro, pregarono perché il Signore mandasse degli operai nella sua messe e qualche tempo dopo, che non possiamo quantificare, vennero inviati in missione con un mandato preciso. Come vedremo, Gesù non li mandò allo sbaraglio, ma li informò dei pericoli che avrebbero corso, dei tipi di uomini che avrebbero incontrato, oltre a dotarli delle elementari regole di comportamento e conferendo loro il potere di guarire e resuscitare i morti. E, lui Figlio di Dio e dell’uomo, avrebbe pregato per loro.

Concludendo, nel nostro ultimo verso Nostro Signore non dice agli apostoli di chiedere a lui, ma “Pregate il Signore della messe”, quindi Colui che Lo aveva mandato, perché solo così avrebbero avuto l’approvazione del Padre in un’opera formidabile non di proselitismo, ma di liberazione dell’uomo dal peccato e dalla morte.

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08.10 – LA SECONDA VISITA A NAZARETH (Marco 6.1-6)

8.10 – La seconda visita a Nazareth (Marco 6.1-6)

 

 

1Partì di là e venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono. 2Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? 3Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». Ed era per loro motivo di scandalo. 4Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». 5E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. 6aE si meravigliava della loro incredulità”.

 

 

È indubbio che il racconto della seconda (o terza, secondo altri) visita a Nazareth contenga degli elementi comuni alla prima, per quanto con più particolari visto che, per questo episodio, abbiamo a disposizione anche la versione di Matteo 13. Comunque sia l’importanza di questo ritorno “nella sua patria” risiede nel fatto che laddove una qualunque persona, rifiutata con le modalità che abbiamo visto, avrebbe definitivamente chiuso con quell’ambiente, Gesù decide di dare una seconda opportunità ai suoi ex concittadini e lo fa dopo un certo tempo. In altri termini Nostro Signore lasciò che a Nazareth giungessero altre notizie sulla sua predicazione e sui miracoli affinché la gente si interrogasse silenziosamente, nel cuore, nelle case. Soprattutto, si confrontassero con le letture e i commenti che ad esse venivano fatte nella Sinagoga.

Teniamo presente che, comunque, molto era stato seminato in quel luogo: pensiamo al passo che Gesù commentò e sul quale ci siamo soffermati, alle parole “Oggi si è compiuta questa scrittura che avete ascoltato”, al fatto che, se ci fosse stato un cuore desideroso di venire purificato, il raccordare i miracoli riferiti e avvenuti altrove con quanto ascoltato avrebbe potuto prepararlo ad un secondo, proficuo incontro, quello con la Parola fatta carne. Succede sempre, alle anime sensibili, di pensare e ripensare a determinati episodi della propria vita, ricordarli non per una questione sentimentale, ma per comprendere meglio certi eventi o le persone con le quali hanno avuto a che fare. O per ricordare i propri errori col fine di non commetterne di analoghi. Nel caso di Nazareth credo che Gesù abbia voluto tornare proprio per non lasciare nulla d’intentato anche solo per recuperare una persona.

E qui possiamo inserire alcune considerazioni proprio sul tempo che Dio dà all’uomo per riflettere, o cambiare il suo modo di considerare il valore della vita che gli è stata data in prestito. Fu sempre così, come rileviamo dal fatto che, dopo il diluvio, alla creatura venne fissato un termine di 120 anni di vita per ravvedersi e salvarsi dalle acque che avrebbero ricoperto la terra. Un Midrash ebraico infatti, interpretando il testo di Genesi 6.5 “Il mio spirito non resterà sempre nell’uomo, perché egli è carne e la sua vita sarà di 120 anni“, afferma che Noè attese 120 anni prima di costruire l’Arca sia per dar modo alle piantine di cedro che aveva messo a dimora per crescere, sia ai suoi conterranei di ravvedersi. In altri termini, il diluvio non fu un fatto improvviso, ma venne dopo un periodo di tempo in cui gli uomini, quei “figli di Dio” che si scelsero fra tutte per mogli le “figlie degli uomini“, videro crescere quei cedri e poi Noè, coi figli, costruire l’Arca. Il testo di Genesi, infatti, pone Noè in età di cinquecento anni quando generò i suoi tre figli, e 600 quando entrò nell’Arca, 1656 anni dopo che Adamo ed Eva vennero estromessi da Eden. Il 120, allora, è il 12 x 10, il numero della pazienza di Dio così come il 40 è quello dell’isolamento. Ed è interessante notare che proprio la data del diluvio, che indubbiamente fu la più grande catastrofe mai avvenuta, abbia proprio questo numero, 1656 in cui sommando  5 e 1 abbiamo 6 6 6 che, evidentemente, è sì un “numero d’uomo” come dice la Scrittura, ma ci parla anche di morte, sterminio, annientamento, il nulla definitivo dopo un presente, più o meno lungo, illusorio.

Anche la seconda visita di Gesù a Nazareth, allora, ci parla di un tempo dato all’uomo per approfittare della grazia di Dio e non solo: arrivava l’Emmanuele, il “Dio con noi”, quel Re mansueto ed umile che voleva portare la Parola di Dio in mezzo a loro dando l’opportunità di far tesoro dei suoi insegnamenti, di immedesimarsi in essi, di cogliere l’opportunità e l’onore di parlare con lui, di accoglierlo e di venire guariti da malattie per le quali non si soffre come con le altre. Chi è cieco, sordo, ha un tumore o altro di invalidante sa di averlo, ma non così come per la presunzione, l’orgoglio, la saccenza, la chiusura mentale.

Il verso 1, “Partì di là e venne nella sua patria e i discepoli lo seguirono” ci fornisce un primo dato nuovo, cioè che Gesù questa volta non arriva a Nazareth da solo, ma con dei testimoni ai quali era necessario non solo mostrare quanto può operare la fede di una persona che ottiene un miracolo liberatorio – lo sapevano già –, ma come può essere limitante vivere senza di essa non ponendosi il problema rimanendo nell’abitudinario quotidiano.

Personalmente, per come narrano Marco e Matteo, non credo che Gesù sia sia presentato un sabato, sia entrato nella Sinagoga e si sia messo a leggere: piuttosto il verso 1 ci dice “venne” e al 2 abbiamo “giunto il sabato”, segno che nella sua città si fermò coi suoi qualche giorno e che non rimasero certo in casa, ma uscirono e stavano nelle strade, magari andando a trovare qualche conoscente visto che in quella città Nostro Signore aveva vissuto fino a circa trent’anni, credo sufficienti per essere conosciuto da tutti.

A differenza della prima visita, poi, ignoriamo il soggetto d’insegnamento di quel sabato, ma certo sappiamo che fu autorevole come gli altri avvenuti in molte Sinagoghe e vediamo che “Molti, ascoltando, rimanevano stupiti”, dove quell’ “ascoltando” ci parla di un uditorio non certo distratto, ma che non fu in grado di effettuare considerazioni pertinenti su quanto veniva loro proposto.

Leggendo l’episodio poi occorre tener presente un errore di lettura che spesso compiono i credenti, che tendono a porsi di fronte al testo biblico affrontandolo come uno dei tanti, con una trama e una successione di eventi da leggere in superficie e, così facendo, ben difficilmente sarà possibile comprendere al di là del narrato. Il lettore spirituale, invece, si pone domande, cerca eventuali, apparenti contraddizioni tra le versioni e scopre le ragioni delle reazioni dei presenti alla luce della realtà, della mentalità del tempo e dell’uomo. Ci dobbiamo sempre chiedere perché, come scritto tempo fa.

La versione di Luca esaminata nei due capitoli precedenti, riguardo a Nostro Signore da parte dei Nazareni, ad esempio, è diversa: per loro Gesù era “Il figlio di Giuseppe” ma qui, secondo Marco, è “il falegname, figlio di Maria, fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone”. Secondo Matteo “il figlio del falegname, sua madre si chiama Maria e i suoi fratelli Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda e le sue sorelle sono fra noi”. Non si tratta di particolari insignificanti, ma al contrario sono elementi che offrono un panorama desolante del contesto perché denotano un esame più approfonditamente incredulo dei presenti nella Sinagoga: la prima volta era “il figlio di Giuseppe”, qui è “il falegname” o suo figlio (Matteo 13) e a conferma che secondo loro era impossibile che Gesù parlasse davvero così chiamano in causa Maria e gli altri suoi figli che conoscevano molto bene. Il rifiuto del messaggio del Figlio di Dio è allora per ancorarlo alla terra, alle loro stesse origini umili e di peccatori: doveva essere uno di loro e, in quanto tale,  era impossibile che insegnasse con una sapienza che gli veniva dall’alto nonostante le testimonianze che arrivavano al villaggio e la presenza dei discepoli, assenti la prima volta. È probabile che Nostro Signore se li portò perché capissero il significato della frase che verrà loro detta quando verranno inviati in missione: “Se in qualche luogo non vi accolgono e non vi ascoltano, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza contro di loro” (Marco 6.12).

Il ragionamento dei nazareni, allora, rivela ancora di più l’ottusità e la difesa allo Spirito di Dio che manifestarono la prima volta. Ottusità perché tali erano per natura, difesa perché per loro era importante che la vita continuasse come prima. Le parole di Gesù, se ascoltate, avrebbero richiesto una sosta, la messa in discussione integrale delle loro azioni e modo di pensare, avrebbero dovuto capire che le loro strade e sentieri erano sbagliati e ciò avrebbe richiesto un abbandono per affrontarne di nuove: “Lasci l’empio la sua via”. E abbandonare le proprie consuetudini significa rinunciare a se stessi lasciando che sia Dio ad occuparsi della propria vita e non noi.

Il fatto che Gesù sia indicato come “il falegname, figlio di Maria” con quel che segue lo vedo come posto in senso spregiativo e mi lascia supporre che, a quel tempo, Giuseppe si fosse già addormentato coi suoi padri. Ricordiamo che alle nozze di Cana non era menzionato come presente.

C’è un particolare che entrambi gli evangelisti riportano, e cioè che il fatto che Gesù parlasse loro avendo quelle origini “era per loro motivo di scandalo”, cioè d’inciampo: facevano di un dettaglio insignificante una questione fondamentale, si trovavano di fronte a un muro che loro stessi avevano costruito che impediva di ascoltare e quindi credere.

Così anche oggi, in tutti i campi, dove non solo per essere ascoltata una persona deve avere un titolo di studio, ma deve anche essere riconosciuta da un’organizzazione, da un ordine, da un collegio di presunti sapienti. Se qualcuno parla usando il solo buon senso raramente è ascoltato e, peggio, viene deriso da incompetenti che vogliono un  imprimatur.

Le giornate di Nazareth, dunque, furono molto tristi non certo per Gesù, che a prescindere dal tipo di ascolto che gli veniva dato era e restava “il figlio dell’Iddio vivente”, ma per i nazareni stessi. “E lì non poteva compiere alcuni prodigi, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì”. “Pochi malati” non sappiamo di cosa, ma viene da pensare che fossero guarigioni private e il senso dominante di una prevenzione nei Suoi confronti impedì quelle grandi manifestazioni procedenti dalla fede di uomini e donne che, altrove, si rivolgevano a Lui.

In un modo o in un altro gli abitanti di Nazareth chiusero intenzionalmente le loro porte all’amore di Dio e poi e ne disinteressarono. Quando l’uomo fa così, anche oggi, di fatto, chiude volontariamente quella porta che poi troverà chiusa quando vorrà entrare nel Regno di Dio e non potrà farlo. E quel “pianto e stridore di denti” allude proprio alla reazione disperata di quelle anime che capiranno di essersi distrutte da sole proprio chiudendo quella porta che Dio voleva aprissero mentre erano in vita. Gesù, proponendosi all’uomo, lo onora del Suo interessamento ma questi, come i nazareni, gli chiude la porta. E la bestemmia contro lo Spirito Santo, è scritto che non sarà perdonata. Amen.

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08.09 – LA PRIMA VISITA A NAZARETH II/II (Luca 4. 24-30)

8.09 – La prima visita a Nazareth 2 (Luca 4.24-30)

 

24Poi aggiunse: «In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria. 25Anzi, in verità io vi dico: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elia, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; 26ma a nessuna di esse fu mandato Elia, se non a una vedova a Sarepta di Sidone. 27C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo; ma nessuno di loro fu purificato, se non Naamàn, il Siro». 28All’udire queste cose, tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. 29Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù. 30Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino”.

 

C’è un senso conclusivo nel concetto in base al quale “nessun profeta è bene accetto nella sua patria” e infatti alcuni studiosi sostengono che i richiami ad Elia e Naaman, con tutto quel che seguì, quindi i versi da 25 a 30, appartengano ad una terza visita a Nazareth che Gesù avrebbe compiuto. La frase di Gesù, che poi divenne proverbio tuttora in uso, preceduta dal suo amen, “in verità”, fu pronunciata quale triste commento ai pensieri dei suoi concittadini e denuncia la tendenza umana ad apprezzare più ciò che viene da fuori anziché quanto si ha naturalmente a disposizione. Guardiamo le varianti di questa frase: Matteo scrive “Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua” (13.57), Marco “tra i suoi parenti e in casa sua” (6.4) e Giovanni “Gesù aveva dichiarato che nessun profeta riceve onore nella sua patria” (4.44); se si fosse trattato di un proverbio già esistente, tutti e quattro lo avrebbero riportato identico.

La cerchia familiare stretta e allargata, così come l’ambito sociale in cui una persona cresce, fa sì che nei suoi membri si fissino i ricordi di quello che è stata anziché valutarne i progressi e soprattutto quello che è diventato realmente, spesso a prezzo di esperienze dolorose. Chi “viene da fuori” invece, di cui non si sa nulla e quindi dal quale ci si attende chissà cosa, viene ascoltato proiettando istintivamente su di lui le aspettative che si hanno. In una comunità che ho frequentato ho assistito a questo fenomeno tante volte, ma qualunque “profeta”, cioè chi parla di Dio, ha un messaggio che, una volta udito, occorre valutare indipendentemente dalla provenienza che questo ha.

Gesù, in pratica, per i nazareni era “il figlio di Giuseppe” e tale doveva restare. Le sue “parole di grazia” che avevano ascoltato, anziché venire accolte e metabolizzate, destavano incredulità perché era impossibile che il figlio di un falegname parlasse in quel modo. E il triste è che, nonostante l’affermazione sul profeta non accetto in patria, i Suoi concittadini pensarono ancora peggio in una volta successiva perché coinvolsero Maria, i fratelli e le sorelle di Gesù a sostenere che la Sua conoscenza delle Scritture non poteva essere reale. Quindi, come scrive un importante esegeta, “considerazioni egoistiche, interessi locali e pregiudizi nati da una lunga familiarità, si mescolarono assieme” impedendo loro un giudizio obiettivo.

E arriviamo al verso 25 in cui viene portato il primo esempio, quello di Elia e la vedova di Sarepta. Si tratta di un fatto avvenuto approssimativamente 850 anni prima del nostro episodio, quando regnava Achab che, come diversi suoi predecessori, portò il popolo all’idolatria. Conseguentemente gli fu preannunciato da Elia il castigo consistente in tre anni di carestia, per il quale fu lo stesso profeta a pregare che ciò avvenisse. Da notare che il Re era colui che guidava Israele ed era responsabile della sua condotta, e che il popolo stesso doveva sapere molto bene che non vi era altro dio al di fuori di YHWH: accettando di adorare elementi estranei, si rese colpevole allo stesso modo. Questo era il comportamento degli israeliti che invece erano stati eletti, scelti dal Creatore perché fosse luce alle genti, quelle che guardava – come oggi – con disprezzo.

Ebbene pensiamo alla situazione che dovette verificarsi in quel periodo di carestia, con ricchi che vivevano con difficoltà e poveri nella disperazione, per non parlare delle vedove che si trovavano nell’impossibilità di sostenere anche i loro figli, qualora ne avessero avuti, e trovando disattese le promesse di Dio nei loro confronti proprio a motivo del comportamento idolatra che aveva coinvolto tutti, loro comprese. Vanno tenuti presenti i due significati del termine “idolatria”: da un lato l’adorazione di uno o più idoli, ma dall’altro amore e devozione per elementi che non hanno ragione di averla. Perché ciò accada è necessario abbandonare ciò che si è seguito in precedenza e Israele, scegliendo di adorare dèi estranei, non è che “cambiasse religione” o una moda, ma sostituiva il reale con l’immaginario, rinnegando tutte le esperienze soprannaturali di cui era stato l’unico beneficiario nel corso dei secoli.

Elia, a carestia inoltrata, viene “mandato” a Sarepta, in territorio fenicio, in cui c’era “una vedova alla quale ho dato ordine di sostenerti” (1 Re 17.9): Dio allora aveva parlato a una pagana, una donna povera che fu testimone del miracolo della farina e dell’olio che non si esaurirono e del ritorno in vita del proprio figlio. Quindi, citando l’episodio, Gesù ricorda ai suoi ex concittadini che Dio si serve delle cose “pazze del mondo per svergognare le savie”, cioè davanti a Lui nel confronto tra l’umile e il presuntuoso a vincere è sempre il primo. In più, in questo passo, abbiamo l’abbandono delle attenzioni di un profeta per i suoi connazionali a favore di una donna pagana che tuttavia il Signore lo cercava, per quanto “a tentoni”.

La figura di Naaman, poi, siriano, è altrettanto singolare ed emerge al tempo in cui viveva Eliseo, che di Elia prese il posto. Nonostante la presenza di questo profeta sul territorio, a lui non si rivolse nessun lebbroso israelita, ma fu Joram, re di Siria, dietro suggerimento indiretto di una ragazza ebrea, a inviare Naaman da lui. La lettura del quinto capitolo di 2 Re può aiutarci a capire nel dettaglio la vicenda, ma appare chiaro che la condotta di questo generale, inizialmente, fu caratterizzata dall’incredulità dovuta a ignoranza e non da un ostinato rigetto della luce e della verità come in Israele a quel tempo. La confessione di fede di quest’uomo, “Ora so che non c’è Dio su tutta la terra se non in Israele” (v. 19) suona indubbiamente come una condanna nei confronti di tutti quelli che videro i miracoli di Nostro Signore e non si convertirono.

Ebbene quando Gesù, nel portare gli esempi di questi personaggi, pronunciò le parole “ve ne erano tanti… eppure”, scoppiarono i sentimenti dello sdegno e dell’ira nel cuore dei presenti nella Sinagoga. È stato giustamente osservato che con queste parole Nostro Signore accusa i nazareni di indegnità ammonendoli che dovevano fare molta attenzione a che il medesimo abbandono ricordato nei tempi antichi non si verificasse anche per loro, con conseguenze peggiori di quelle che avvennero in quei tre anni di carestia.

È singolare che, per la prima e unica volta nei Vangeli, c’è la testimonianza dell’interruzione di una riunione sacra: i presenti quindi erano talmente sdegnati da perdere ogni controllo e perché feriti nel proprio orgoglio e campanilismo. Non vi fu spazio per un esame di coscienza, per una riflessione, pur breve, ma solo per una reazione violenta: tutti volevano cacciarlo dalla città e, evidentemente la maggioranza, voleva gettarlo giù da uno dei dirupi che allora erano presenti nei pressi della città, essendo costruita sull’orlo di un monte, in una posizione diversa da quella della Nazareth odierna.

Prima di spiegare come fece Gesù a sottrarsi alla loro volontà omicida, ricordiamoci che la reazione violenta a una contestazione verbale appartiene sempre a chi, pur essendo adulto, vuole difendere in modo infantile il proprio modo di pensare e agire senza preoccuparsi del fatto che questo sia giusto o sbagliato. Ciò avviene soprattutto nell’ambito religioso, o politico. Violenza fisica in questo caso, oppure verbale e con metodi altrettanto violenti che prevedono, oggi perché la gente è ritenuta più “civile” senza esserlo, l’umiliazione e l’isolamento fino ad arrivare, se possibile, all’annientamento delle idee e della volontà di chi li rimprovera. Perché chi contesta con argomenti validi e colpisce le coscienze va annichilito, perché chi sceglie la violenza e l’urlo sa che non può controbattere in altro modo.

Ai tempi di Gesù e poco dopo, parlo del libro degli Atti, abbiamo due esempi: il primo si verifica con la lapidazione di Stefano quando viene descritta, al termine dei suo discorso dinnanzi al Sinedrio che si concluse con le parole “Ecco, contemplo i cieli aperti e il Figlio dell’uomo che sta alla destra di Dio”, la reazione dei suoi membri: “Allora, gridando a gran voce, si turarono le orecchie e si scagliarono tutti insieme contro di lui, lo trascinarono fuori dalla città e si misero a lapidarlo” (Atti 7.56-58).

Lo stesso apostolo Paolo, allora conosciuto come Saulo di Tarso ai cui piedi avevano deposto i loro mantelli, allora consenziente con quella esecuzione, si troverà a fare i conti con questo atteggiamento quando, dopo aver riferito le parole che Gesù gli disse, “Va’, perché io ti manderò lontano, alle nazioni”, sapiamo che “Fino a queste parole erano stati ad ascoltarlo, ma a questo punto alzarono la voce gridando: «Togli di mezzo costui, non deve più vivere!». E poiché continuavano a urlare, gettare via i mantelli e a lanciare polvere in aria, il comandante lo fece portare nella fortezza, ordinando di interrogarlo a colpi di flagello, per sapere perché mai gli gridassero contro in quel modo”. (Atti 22.21-24). In tutti questi esempi, nazareni compresi, non esiste un solo attimo in cui si dà spazio all’autoesame, ma alla reazione infantile di adulti irrisolti.

Reazione ben diversa vi fu da parte degli ebrei testimoni della discesa dello Spirito Santo al capitolo due, sempre del libro degli Atti: quando infatti Pietro, a conclusione del suo primo discorso pubblico, “Sappia dunque con certezza tutta la casa d’Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso” , leggiamo che “All’udire queste cose si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: «Fratelli, che cosa dobbiamo fare?» (2.36,37). Quella volta è scritto che “coloro che accolsero la sua parola  furono battezzati e quel giorno furono aggiunte circa tremila persone” (v.41).

Tornando al nostro episodio, è una breve frase a concluderlo: “Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino”. Nessuno, nonostante quelle manifestazioni isteriche, poté mettere in atto i suoi propositi. Come già rilevato, non era ancora giunto il momento in cui Gesù doveva essere dato in mano agli uomini e questo sicuramente fu il motivo per cui non poterono fargli nulla e nessuno, visto che è sempre da uno che parte un’azione offensiva, osò affrontarLo per primo, forse perché intimoriti dalla Sua autorità. Gesù era l’ “Io sono”, “lo stesso di ieri, di oggi e di sempre” che ancora oggi chiama e riprende la sua creatura perché lo accetti, lo segua, diventi con Lui figlio del Padre. Amen.

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08.08 – LA PRIMA VISITA A NAZARETH (Luca 4.16-30) I/II

8.08 – La prima visita a Nazareth 1 (Luca 4.16)

 

Premessa

Affrontare la o le visite di Gesù a Nazareth pone problemi sul numero di volte in cui si recò nella città che lo vide diventare adulto, da quando aveva circa tre anni e mezzo fino ai trenta. A parte il ritorno dall’Egitto, la questione di quante furono le volte in cui si recò “nella sua città” è ancora aperta anche se, leggendo i racconti dei sinottici, si possono distinguere due episodi, per quanto vi sia chi sostiene fossero stati tre. Luca, nel passo che esamineremo, introduce quanto avvenne con le parole “Gesù, sospinto dallo Spirito, se ne tornò in Galilea e la sua fama andò per tutta la contrada circonvicina. Ed egli insegnava nelle loro sinagoghe, essendo onorato da tutti. E venne in Nazareth, dove era stato cresciuto” (4.14-16): si tratta di una premessa di ampio respiro al nostro episodio, che comprende molte attività svolte da Nostro Signore e il particolare dei concittadini che volevano buttarlo giù da una rupe, non citato da Matteo e Marco, lascia intendere che i due evangelisti non si riferiscano allo stesso avvenimento.

Considerando il mio metodo d’indagine, lo stesso peraltro di molti, è indubbio che leggere cronologicamente il Vangelo può portare a capire meglio alcuni fatti, evitare una lettura approssimativa e valutare più agevolmente il perché di certe frasi, ma è anche innegabile che la questione dell’esatta disposizione temporale non sia stata considerata rilevante dagli evangelisti che giustamente decisero di scrivere dei libri “aperti”, che parlassero a tutti nell’immediato essendo il “regno dei cieli”, allora come oggi, “vicino”. Luca lascia intendere che Gesù andò una prima volta a Nazareth quando entrò nella Galilea per stabilirvisi; Matteo (13) la colloca dopo l’esposizione delle parabole del Regno e Marco (6) prima dell’invio dei dodici in missione: è il loro racconto, più o meno temporalmente coincidente, a farmi optare per il fatto che quella città fu visitata due volte. Vediamo, sotto questo mio modo di disporre gli episodi, ciò che scrive Luca:

 

16Venne a Nàzaret, dove era cresciuto, e secondo il suo solito, di sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere. 17Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; aprì il rotolo e trovò il passo dove era scritto: 18Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, 19a proclamare l’anno di grazia del Signore. 20Riavvolse il rotolo, lo riconsegnò all’inserviente e sedette. Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui. 21Allora cominciò a dire loro: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato».  22Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?». 23Ma egli rispose loro: «Certamente voi mi citerete questo proverbio: «Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui, nella tua patria!»». 24Poi aggiunse: «In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria. 25Anzi, in verità io vi dico: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elia, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; 26ma a nessuna di esse fu mandato Elia, se non a una vedova a Sarepta di Sidone. 27C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo; ma nessuno di loro fu purificato, se non Naamàn, il Siro». 28All’udire queste cose, tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. 29Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù. 30Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino”.

 

Il verso 16 inizia in modo solo apparentemente banale: la prima pericope “Venne a Nazareth” racchiude uno scopo, un piano per gli abitanti di quella città e lascerebbe intendere, se non conoscessimo ciò che avvenne, uno sviluppo positivo di quell’arrivo in mezzo a loro. “Venne a Nazareth” ci autorizzerebbe a pensare che contenga una speranza, un accoglimento del “lieto annunzio” da parte degli abitanti di quella città che, proprio perché conoscevano Gesù, lo avrebbero accettato. La seconda pericope, “dove era cresciuto”, ne accentua l’idea perché l’essere cresciuto in una cittadina equivale all’avere una reputazione, nel bene o nel male. E sappiamo che proprio a Nazareth è scritto che “…il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui” (Luca 2.40), particolare che dobbiamo tener presente perché quanto detto nel verso non costituiva un fatto privato, ma pubblico nel senso che era impossibile non riconoscere quanto avveniva in quel giovane. Il verso citato si riferisce al Gesù bambino, fino ai dodici anni; ma ciò che fu dopo il suo bar mitzwah, quindi dopo i tredici, è detto che “…cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini” (v.52). Ora, calcolando che la permanenza in Egitto durò dai due ai tre anni e mezzo, gli abitanti di Nazareth ebbero modo di farsi un’opinione su Gesù per 27 anni circa in cui lo videro lavorare, lo sentirono parlare e lo videro agire non certo a sproposito, frequentare la Sinagoga assiduamente così come prendere la parola come consuetudine nelle sue riunioni. Va ricordato che i bambini erano ammessi nelle Sinagoghe dall’età di sei anni e dovevano frequentarle con assiduità dopo i tredici. Quindi la conoscenza che gli abitanti di Nazareth avevano di Gesù, che lo incontravano ogni sabato nelle assemblee, fu costante per quattordici anni, sempre parlando approssimativamente.

Viene spontaneo pensare che, se quando Gesù era dodicenne parlava in mezzo ai sapienti di Gerusalemme e “…tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte” (Luca 2.47), le volte in cui fu invitato a parlare e commentare dei passi nella Sinagoga in Nazareth non furono poche. Riesce difficile pensare che, fino a quando non iniziò il Suo Ministero, Gesù abbia taciuto sulle verità scritturali nonostante sarà la vittoria sull’Avversario nel deserto a sancire ufficialmente l’inizio del Suo Ministero, che era veramente Lui “l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo”.

Non credo sia azzardato pensare che Nostro Signore “si alzò” perché invitato dal responsabile dell’assemblea – come in uso ancora oggi ance se con qualche variante –, ma dobbiamo porre la nostra attenzione su quel “gli fu dato il rotolo…” e “trovò il passo”.

Qui va fatta una premessa, cioè che la lettura della Legge o dei Profeti, come parte del servizio nella Sinagoga, rendeva necessaria la loro divisione in sezioni in modo tale che, nel giro di tre anni, tutta la Scrittura potesse essere letta e commentata interamente. La Chiesa di Roma ha adottato questo stesso metodo nelle letture che vengono proposte nella Messa quotidiana in cui, appunto in tre anni, viene letta tutta la Bibbia anche se, purtroppo, ben pochi se ne accorgono o frequentano le sue assemblee quotidianamente.

Secondo quest’usanza ebraica, allora, Gesù “trovò il passo” richiesto per quel sabato in cui ricorreva il giorno della purificazione, quello dell’espiazione dei peccati che si celebrava il 10 di Tizri (ottobre). Era lo Yom Kippur, considerato il giorno più santo e solenne dell’anno ancora oggi. Credo che in quella Sinagoga stava avvenendo qualcosa di straordinario: nel giorno della purificazione si leggeva Isaia 61.1,2 “Lo spirito del Signore Dio è su di me – come visualizzato al Suo battesimo – perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione – le credenziali del perfetto inviato, il Cristo, il Messia –; mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l’anno di grazia del Signore”.

Oggi” si compiva “questa scrittura” che i presenti avevano “ascoltato”. Si trattava di un annuncio formidabile che avrebbe dovuto riempire di gioia i suoi uditori anche perché molti erano gli elementi che andavano a convergere in un unico punto, cioè Gesù stesso. È fondamentale sottolineare che il verso di Isaia 61.2 è letto parzialmente, essendo nella sua interezza “…a promulgare l’anno di grazia del signore, il giorno di vendetta del nostro Dio, per consolare gli afflitti”: perché Gesù si fermò, nella sua lettura, all’ “anno di grazia”?  Oppure: perché Matteo non scrive interamente il passo? Perché intendeva sottolineare qualcosa che gli israeliti conoscevano molto bene, cioè il Giubileo che ricorreva ogni 50 anni in cui venivano rimessi tutti i debiti, messi i prigionieri in libertà, affrancati gli schiavi e le terre che erano state confiscate venivano restituite ai proprietari (Levitico 25.9-17). Il Giubileo era stato quindi istituito come simbolo per  anticipare le conseguenze della venuta del Cristo. È interessante, nel capitolo citato del Levitico, il fatto della terra restituita: terra dove abitare che rimanda sia a quella promessa, scelta da Dio per il suo popolo, sia a quella nuova, ai famosi “nuovi cieli e nuova terra”; questa almeno è l’applicazione che mi sento di fare attorno al verso 23 di Levitico 25: “Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e ospiti. Perciò, in tutta la terra che avete in possesso, concederete il diritto di riscatto per i terreni”. È un verso che allora rivendicava il potere di YHWH sul creato, ma che oggi pone chi crede in una posizione radicalmente diversa: “Voi non siete più stranieri né ospiti, ma concittadini dei santi e membri della famiglia di Dio” (Efesi 2.12).

Leggiamo che prima di parlare “Gli occhi di tutti erano fissi su di lui”, cioè sapevano chi era e ancor più come stava operando nelle città a loro vicine e lontane, ma non si soffermarono sulla frase d’esordio, “Oggi si è compiuta questa Scrittura che avete ascoltato”. Ascoltarono, ma non compresero, o non vi dettero peso. Certo Gesù non si limitò a quella, ma il suo discorso fu teso a dimostrare il perché di quelle parole, delle Sue e di quelle del testo, e da ciò che leggiamo, “Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati dalle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca”, è impossibile che non rispondessero emotivamente di fronte a quella predicazione. “Tutti gli davano testimonianza” sta a significare che riconoscevano che le voci che erano giunte a Nazareth sulla forza delle parole e dei ragionamenti del loro concittadino erano vere, che “parlava con autorità” e che era in grado di spiegare la Scrittura meglio di qualunque Scriba o Fariseo. E il responsabile della Sinagoga che Lo invitò a leggere e commentare Lo conosceva.

Purtroppo, alla positività racchiusa nella prima reazione, quella cioè di dargli “testimonianza”, subito se ne aggiunge una negativa vista nel fatto che “erano meravigliati”: i presenti cioè non erano in preda ad un sentimento di stupore entusiasta che porta ad aderire a una posizione precisa, ma erano all’inizio di un tentativo per giustificare razionalmente quanto stava avvenendo in quella Sinagoga. In pratica tutto quanto Gesù diceva loro non veniva accolto nel cuore e nella mente, ma passava attraverso il filtro della diffidenza vanificando le Sue parole. A differenza di ciò che avverrà nella seconda visita in quella città, si chiesero: “Non è costui il figlio di Giuseppe?”, quindi uno di noi, nato qui, uno che ha lavorato il legno fino a poco tempo prima di andarsene a predicare e fare miracoli?

Ecco, è proprio da quella definizione, “il figlio di Giuseppe”, che inizia il processo di screditamento: dimenticavano che Giuseppe discendeva da Davide come Gesù, le promesse ascoltate per chissà quanto tempo nella Sinagoga sul Cristo che sarebbe arrivato, le voci a loro giunte sui miracoli operati e su quanto potente fosse la Sua predicazione. Quella “testimonianza” resta all’inizio si era trasformata in livore perché alla diffidenza cui erano passati si aggiunse l’orgoglio campanilista di cui Gesù si accorse subito e iniziò a parlare dicendo “Certamente voi mi citerete questo proverbio: «Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito accadde a Capernaum, fallo anche qui, nella tua patria!»” (v. 23).

Il proverbio citato, “Medico, cura te stesso”, in uso ancora oggi, non sta a sottintendere che gli abitanti di Nazareth vedessero in Gesù un malato che prima di guarire gli altri doveva pensare a curarsi, ma che in quel “te stesso” rientrassero a pieno titolo loro in quanto Suo prossimo storico e diretto. In altri termini, prima di fare miracoli e predicare all’esterno del loro territorio, avrebbe dovuto iniziare da lì, dalla città di Nazareth, per renderla illustre come Capernaum, oppure fermarsi e compiere in mezzo a loro le identiche, potenti operazioni.

Sappiamo però che Gesù non fece mai un miracolo per soddisfare la curiosità della gente o peggio per pubblicizzare un territorio, ma per testimonianza che doveva essere ricevuta di chi voleva comprendere il piano di Dio: “le opere che il Padre mi ha dato da compiere, quelle stesse opere che io sto facendo, testimoniano di me che il Padre mi ha mandato” (Giovanni 5.36).

Il ragionamento dei nazareni, invece, si configurava nelle parole successive a quelle ora riportate: “Ma voi non avete mai ascoltato la sua voce né mai avete visto il suo volto, e la sua parola non rimane in voi: infatti non credete a colui che egli ha mandato” (vv 36,38).

Concludendo questa prima parte: Gesù, come suo solito, predicò con autorità, grazia e verità, elementi che furono riconosciuti da quanti lo ascoltavano. Il suo fu però un seme caduto sulla strada, subito asportato dagli uccelli del cielo, figura in questo caso dell’Avversario che per la prima volta cercò di ucciderlo, spingendo gli abitanti di Nazareth a buttarlo giù “dal ciglio del monte”. Anche questa volta rimase sconfitto.

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08.07 – IL MUTO INDEMONIATO (Matteo 9.32-34; Luca 11.14-20)

8.07 – Il muto indemoniato (Matteo 9.32-34; Luca 11.14-20)

 

32Usciti costoro, gli presentarono un muto indemoniato. 33E dopo che il demonio fu scacciato, quel muto cominciò a parlare. E le folle, prese da stupore, dicevano: «Non si è mai vista una cosa simile in Israele». 34Ma i Farisei dicevano: «Egli scaccia i demoni per opera del principe dei demoni”.

 

Prima di affrontare l’episodio è giusto sfatare un’opinione errata che purtroppo compare in diversi commentari i cui autori, trovando delle analogie con il racconto del cieco muto (indemoniato) reperibile in 12.22, sostengono essere il medesimo. È però chiaro che Matteo, che non scrisse il suo Vangelo con disattenzione, non poteva ripetersi e per questo distingue il muto dal cieco muto nonostante sia identica la reazione dei Farisei sostenenti che, se i demoni uscivano dalle persone, era perché Gesù li scacciava con l’aiuto del loro principe. Questa frase, una volta escogitata, verrà presa quasi come norma e ripetuta altre volte dagli avversari di Nostro Signore per spiegare gli esorcismi che operava. Loro intento era quello di confondere la folla, ammirata per quello che vedeva quando era Lui a intervenire: “Non si è mai vista una cosa simile il Israele”. Lasciando quindi l’episodio dell’indemoniato cieco muto ad un successivo commento, possiamo occuparci della versione di Luca, più ricca dal punto di vista dei dialoghi coi detrattori del Signore.

 

14Gesù stava scacciando un demonio che era muto. Uscito il demonio, il muto cominciò a parlare e le folle furono prese da stupore. 15Ma alcuni dissero: «È per mezzo di Beelzebul, capo dei demoni, che egli scaccia i demoni». 16Altri poi, per metterlo alla prova, gli domandavano un segno dal cielo. 17Egli, conoscendo le loro intenzioni, disse: «Ogni regno diviso in se stesso va in rovina e una casa cade sull’altra. 18Ora, se anche Satana è diviso in se stesso, come potrà stare in piedi il suo regno? Voi dite che io scaccio i demoni per Beelzebul. 19Ma se io scaccio i demoni per mezzo di Beelzebul, i vostri figli per mezzo di chi li scacciano? Per questo saranno loro i vostri giudici. 20Se invece io scaccio i demoni con il dito di Dio, allora è giunto a voi il regno di Dio»”.

 

Venendo all’episodio, è importante partire da Matteo perché leggiamo “Usciti costoro”, ancora una volta traduzione dettata dall’opportunità narrativa dall’originale “venendo fuori” che pone maggiormente l’accento sulla continuità dell’opera di Gesù che aveva appena guarito i due ciechi. Leggiamo poi “gli presentarono” che ci parla della solidarietà, penso di amici e/o parenti, che abbiamo già incontrato nel caso del paralitico che, sempre in quella stessa casa, fu calato dal tetto perché entrarvi era impossibile a causa della folla. A differenza di tutti gli altri infermi che lo avevano preceduto, l’indemoniato muto non sarebbe mai stato in grado di chiedere aiuto da solo. Mi spiego: l’handicap di quella persona era il mutismo e pertanto avrebbe teoricamente potuto andare da Nostro Signore ed esprimersi con Lui a gesti ma, essendo indemoniato, era impedito a farlo dallo spirito impuro che lo abitava. Di qui l’intervento di amici e parenti che glielo portarono.

Poi, in questo miracolo, di singolare c’è la causa del mutismo dovuta non a sordità, cecità o a un grave trauma infantile, ma al demonio che si era impossessato di quella persona lasciandolo così, incapace di comunicare senza che avesse manifestazioni considerate eclatanti come l’aggressività vista a Gherghesa. Da ciò consegue che Satana può servirsi non solo di uomini a lui soggetti per far male ad altri (indipendentemente dalla quantità), ma anche accanirsi su un singolo per danneggiarlo. Nella complessa trattazione dell’indemoniato di Gherghesa ho citato alcuni tipi di spiriti immondi in base a come si caratterizzano senza citare quello muto perché in un certo senso li compendia tutti in quanto rende chi è dipendente da questo spirito nell’impossibilità non solo di formulare qualunque concetto spirituale, ma neppure di concepirlo lontanamente. Si può essere muti anche parlando e si può parlare facendo del male anche senza essere indemoniati: tutto dipende dalla misura in cui si è abitati e da chi si è abitati. Nel caso dell’innominato protagonista dell’episodio lo spirito impuro gli impediva qualsiasi forma di comunicazione perché, se scopo del parlare è manifestare il proprio pensiero e volontà, limitarsi ad impedire il semplice interloquire non avrebbe avuto senso in quanto chi è muto ricorre a gesti, magari scrive o escogita altri sistemi. Oggi ad esempio, nei casi più gravi, ci sono tetraplegici o persone colpite da ictus gravi che riescono a comunicare guardando le lettere su uno schermo.

Tornando all’episodio sta di fatto che il demonio, in presenza di chi è più forte di lui, a un certo punto – e chiaramente dietro ordine di Gesù – non può fare altro che uscire provocando immediatamente una reazione vista nel cominciare a parlare. A questo punto Matteo riassume in poche parole quanto avvenne, mentre Luca dà più spazio alle reazioni dei presenti: ancora una volta le persone “normali” si stupiscono, ma i Farisei, compresi quelli venuti da Gerusalemme, spiegano, come abbiamo letto, il perché di quell’esorcismo. Alcuni di loro addirittura hanno una reazione forse peggiore, cioè chiedono “un segno per metterlo alla prova” o, come altri traducono “tentandolo”, cioè per avere altri elementi per deriderlo, ma ancora di più accusarlo. Da notare che quella gente non chiede un segno generico, ma “dal cielo”, cioè un avvenimento che fosse inequivocabilmente attribuibile a Dio, quale non riesco a comprendere, quasi che tutto quanto avvenuto anche solo quel giorno, cioè la guarigione della donna emorraissa, della giovanissima figlia di Giairo e dei due ciechi, non fosse sufficiente. A costoro Gesù non risponde nemmeno.

Interessante invece è il personaggio nominato, Beelzebul, o Beelzebub, riferentesi ad una divinità filistea da Baal (signore, padrone) e Zebub (mosca). “Zebul”, però, significava anche letame, idoli, oggetti offensivi e abominevoli per cui il nome può significare “Dio delle mosche” o “delle immondizie”. Era diventato il nome che gli ebrei davano a Satana , come in questo caso.

Siccome però l’ebraico, che se ci pensiamo è la lingua che parlava Dio con Adamo ed Eva e quella in uso prima della confusione a Babele, non può non avere una caratteristica spirituale, ecco che “zebul”, secondo un’accezione totalmente diversa, significa anche “casa, abitazione” per cui Baalzebul è anche il “Signore della casa” visto nel corpo della persona che abita. Ecco perché Gesù, dopo l’ovvio richiamo all’impossibilità che ha un regno diviso si resistere, passerà a parlare di un’abitazione, l’uomo, che non può che venire occupata dallo Spirito di Dio o da un demonio cacciato in precedenza.

Rimaniamo però ai nostri versi: “un regno diviso in se stesso va in rovina”. Col termine “regno” possiamo intendere qualunque sistema organizzato, quindi uno Stato indipendentemente dal tipo di governo, ma anche una famiglia oltre alla stessa, singola persona. Tutto ciò che ha una struttura ha bisogno di un’unitarietà di intenti, progetti, aspirazioni, mete. Quando, ad esempio nel rapporto di coppia, l’uomo e la donna agiscono in modo non tanto indipendente, quanto contrario alle esigenze e alle visioni dell’altro, inevitabilmente questo è destinato a sfaldarsi. E così tutti gli altri rapporti umani indipendentemente dal grado di parentela. Allo stesso modo una persona che subisce delle contraddizioni forti e violente, non in grado di gestire la coerenza, che oggi prova una cosa e domani il suo esatto contrario, non può che sdoppiarsi all’estremo e vivere in una condizione meschina che gli precluderà un rapporto sano col prossimo oltre che con se stesso. Questo è uno dei motivi per cui è scritto “Dio non è un dio di confusione, ma di ordine” (1 Corinti 11.33), frase riferita alle assemblee di una Chiesa e alla Chiesa stessa indipendentemente dalla regione in cui si colloca. Anche lei, certo parlando di quella locale, può sfaldarsi e conoscere defezioni fino a estinguersi, spegnersi, trasformarsi in un’organizzazione in cui prevalgono tradizioni, credenze e riti estranei alla fede.

Quindi Gesù, parlando ai Farisei, fa un primo enunciato sul fatto che Satana ha un regno ben organizzato e non può cacciare se stesso; se mai sappiamo che “si traveste da angelo di luce”, altra frase che aprirebbe considerazioni infinite sulle presunte manifestazioni ritenute “sacre” nella storia anche recente. Il regno di Satana, poi, deve sussistere fino a quando non sarà distrutto, per cui questo personaggio non può permettersi che l’uomo possa venire guarito o salvato. E Gesù era ed è l’unico in grado di potersi a lui opporre.

A questo punto ecco una domanda che ammutolì i detrattori di Gesù: “Se io scaccio i demoni per mezzo di Beelzebul, i vostri figli per mezzo di chi li scacciano?” (v.19). Questa frase ci consente di aprire una parentesi storica. I Padri della Chiesa hanno creduto di riconoscere ne “i vostri figli” gli apostoli in quanto ebrei, ma si tratta di un’ipotesi che non regge anche perché, a quel tempo, nessuno di loro aveva ancora compiuto un miracolo a parte quando furono inviati in missione. Piuttosto sappiamo da Giuseppe Flavio e da un episodio in Atti 19.13 che in Israele a quel tempo c’erano degli esorcisti che ogni tanto qualche risultato lo ottenevano. Si badi bene: ogni tanto, perché altrimenti gli indemoniati li avrebbero portati a loro e non a Gesù. Ebbene questi esorcisti appartenevano alla cerchia degli Scribi e Farisei, più precisamente erano dei loro discepoli che venivano chiamati “figli dei Profeti”.

Gli esorcisti di allora vanno inquadrati nella dispensazione della Legge, in cui la loro efficacia era direttamente proporzionale a quella della Legge stessa paragonata a quella della Grazia che Gesù era venuto ad annunciare non senza adempiere compiutamente quella precedente. Ricordiamoci bene del cortocircuito che si scatenò nel passo di Atti 19.13-16: “Alcuni giudei, che erano esorcisti itineranti, provarono anch’essi a invocare il nome del Signore Gesù sopra quanti avevano spiriti cattivi, dicendo: «Vi scongiuro per quel Gesù che Paolo predica». Così facevano i figli di un certo Sceva, uno dei capi dei sacerdoti, giudeo. Ma lo spirito cattivo rispose loro: «Conosco Gesù e so chi è Paolo, ma voi chi siete?». E l’uomo che aveva lo spirito cattivo si scagliò contro di loro, ebbe il sopravvento su tutti e li trattò con tale violenza che essi fuggirono da quella casa nudi e coperti di ferite”.

Sta di fatto che comunque Scribi e Farisei avevano i loro esorcisti e che credevano nelle loro imprese, ma a questo punto dovevano spiegare chi stava realmente dietro a tutto: anche “i loro figli” scacciavano i demoni per Beelzebul? Quegli uomini certo non potevano rispondere affermativamente. Non solo, ma sarebbero stati quegli stessi esorcisti a giudicarli, per cui facessero attenzione alle loro parole.

La conclusione quindi è: nel momento in cui Satana non può cacciare se stesso, se Gesù lo mandava via con “il dito di Dio”, espressione che si rifaceva all’intervento persona di YHWH, altro non poteva significare che era giunto a loro quel regno che con estrema ostinazione rifiutavano.

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08.06 – DUE CIECHI (Matteo 9.27-31)

8.06 – Due ciechi (Matteo 9.27-31)

 

27Mentre Gesù si allontanava di là, due ciechi lo seguirono gridando: «Figlio di Davide, abbi pietà di noi!». 28Entrato in casa, i ciechi gli si avvicinarono e Gesù disse loro: «Credete che io possa fare questo?» Gli risposero: «Sì, o Signore!» 29Allora toccò loro gli occhi e disse: «Avvenga per voi secondo la vostra fede». 30E si aprirono loro li occhi. Quindi Gesù li ammonì dicendo: «Badate che nessuno lo sappia!» 31Ma essi, appena usciti, ne diffusero la notizia in tutta quella regione”.

 

Concluso l’episodio del ritorno in vita della figlia di Giairo, Marco riferisce che Gesù partì da Capernaum per Nazareth e Luca passa a trattare l’invio dei dodici in missione. In effetti sono entrambi eventi prossimi. Matteo però inserisce due miracoli particolari: quello della guarigione di due ciechi e, subito dopo, di un muto indemoniato, cui fa seguito un cenno ad un Suo giro missionario compiuto mentre i suoi facevano altrettanto. La guarigione di cui abbiamo letto viene collocata subito dopo quanto avvenuto a casa di Giairo, “Mentre Gesù si allontanava di là”, quando due ciechi seppero che Lui stava passando.

A quei tempi la cecità poteva essere causata fondamentalmente dalla cataratta, che rende opaco il cristallino, o dal glaucoma, danno progressivo del nervo ottico. Erano quelli territori caratterizzati da una forte presenza di raggi solari i cui effetti, aumentati dal riverbero del terreno, causavano un’infiammazione acuta della congiuntiva e della cornea che andava progressivamente aggravandosi perché la gente continuava a vivere all’aperto e non si proteggeva dalla luce del giorno. Aggiungiamo poi infiammazioni varie causate da polvere e sabbia che raramente venivano curate e abbiamo un quadro abbastanza drammatico sul numero dei ciechi che potevano essere presenti nei territori di quel tempo. Non è una credenza popolare il fatto che la mancanza della vista affina i sensi rimanenti che vanno a compensare quello mancante, per cui quando leggiamo “i ciechi lo seguirono” significa che si orientarono sfruttando in particolare l’udito, seguendo non il rumore dei passi di Gesù che ben difficilmente era solo, ma quello della gente che lo seguiva.

Sappiamo che i due ciechi lo seguirono fino a casa sua gridando una breve frase che esprime tutto il loro sentimento: prima abbiamo l’appellativo “Figlio di Davide” che incontriamo per la prima volta nella lettura cronologica dei Vangeli. Con queste parole viene espressa una giusta credenza popolare in base alla quale il Messia sarebbe stato un discendente di Davide. Ciò è provato da Matteo 22.41,42 quando Gesù, interrogando i Farisei per metterli in difficoltà chiese loro “«Cosa pensate del Cristo? Di chi è figlio?»; gli risposero: «Di Davide»”. E tanto Matteo che Luca, nella loro genealogia, si preoccupano di mettere questa discendenza in risalto. Una nota a margine della Bibbia di Gerusalemme afferma giustamente che “Gesù accettò quel titolo con riserva perché implicava una concezione troppo umana del Messia e preferì il titolo di Figlio dell’uomo”.

“Figlio di Davide” lo troviamo infatti poche volte negli scritti del Nuovo Patto: pensiamo alla donna sirofenicia che Lo chiamò così (Matteo 15.22), ai ciechi di Gerico in un episodio definito speculare a questo (20.30) e soprattutto alla folla che Lo accolse in Gerusalemme che, nonostante gli avesse dato quel titolo e lo osannasse, scomparve dopo quell’episodio guardandosi bene dall’intervenire in sua difesa. Eppure “La folla che lo precedeva e quella che lo seguiva gridava: «Osanna al figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nel più alto dei cieli!»” (21.9). Da notare che la parola “Hoshana”, in ebraico e aramaico, significa “Salvaci” e col tempo il cristianesimo gli ha associato in senso di giubilo. Ebbene, dopo quelle manifestazioni in cui Gesù fu “portato in trionfo”, in cui “tutta la città fu presa da agitazione”, fece seguito il nulla.

“Figlio di Davide” è un fatto che fu poi, alla luce di tutte le manifestazioni con cui Gesù si qualificò al mondo, è dato per scontato; pensiamo all’apostolo Paolo che, scrivendo ai credenti di Roma, ne accenna solamente parlando del “…Figlio suo, nato dal seme di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza, secondo lo Spirito di Santità, in virtù della resurrezione dei morti” (1.3) e in 2 Timoteo 2.8, “Ricordati di Gesù Cristo, risorto dai morti, discendente di Davide”. I due ciechi allora si rivolsero a Nostro Signore chiamandolo così, dimostrando di credere chi effettivamente fosse, facendo affidamento sulla promessa di Isaia 35.5 “Allora saranno aperti gli occhi dei ciechi”.

“Abbi pietà di noi” sono parole dette non da questuanti, ma da chi è convinto che Gesù possa avere un intervento risolutore nei loro confronti, come il padre dell’epilettico che gli disse “Signore, abbi pietà di mio figlio”, o i due lebbrosi, “Gesù maestro, abbi pietà di noi”. E la pietà è un sentimento di partecipazione all’infelicità altrui che non è mai fine a se stessa, non ha niente a che vedere con quella pena che ci possono fare certe persone che vediamo in una triste condizione senza che abbiamo possibilità di far qualcosa per loro. La pietà la prova chi può far qualcosa per un altro e decide di non rimanere immobile perché le circostanze che si sono venute a creare fanno sì che dipenda dalla sua persona un intervento che può mutare radicalmente le condizioni dell’altro. La preghiera dei due ciechi, e come loro di altri che incontreremo, non è “guarisici”, ma “abbi pietà”, cioè in altre parole “Tu solo che puoi, aiutaci”. E questa preghiera non cessò, ma proseguì fino a quando Gesù non entrò in casa sua.

Quello di Nostro Signore non fu un gioco crudele, ma un insegnamento sulla necessità dell’insistere: in questo caso abbiamo due uomini per cui era vitale recuperare la vista, ma il loro seguire Gesù ripetendogli di avere pietà di loro è figura del nostro cercare di avere delle risposte alle nostre necessità spirituali, della preghiera che solo una reale necessità può spingere ad essere continua. Luca 18.1, prima di esporre la parabola del giudice e della vedova, scrive “Diceva loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai” ed è quello che fecero i due ciechi. La loro non era la preghiera di due bambini capricciosi: quei due uomini chiedevano e arrivarono fino alla casa di Gesù perché sapevano che avrebbero potuto venire guariti, forti delle notizie di analoghi miracoli operati nei confronti di altri. Sapevano che, in quanto “Figlio di Davide” secondo l’ottica che abbiamo esaminato, Gesù avrebbe potuto avere pietà di loro.

E qui dobbiamo prestare attenzione a ciò che fu detto: “Credete che io possa fare questo?”. Gesù non chiede se loro credessero davvero che Lui fosse il Cristo, ma se ritenevano che veramente fosse in grado di guarirli, cioè se la loro fede era reale: per riconoscere un titolo a una persona è sufficiente pronunciare delle parole (“Figlio di Davide”), ma credere che gli effetti della sua funzione possano riversarsi su chi la dichiara è una cosa differente. Senza l’intervento di Gesù quei due ciechi avrebbero continuato a condurre una vita umiliante, soggetta alla derisione, allo sfruttamento e al dipendere da altri nonostante avessero dimostrato di essere autonomi. E il loro gridare è un esempio per noi, che ciechi non siamo fisicamente, ma spiritualmente sì, chi più, chi meno. Alla luce rivelata vista nel dono della salvezza, infatti, deve seguire un cammino in cui la vista spirituale si acuisce poco a poco in quanto diversa da quella fisica e certo i due ciechi non tornarono più da Gesù chiedendogli di essere riguariti o per delle visite di controllo. Ma noi di Lui abbiamo bisogno sempre e non possiamo esimerci dal pregare perché le nostre imperfezioni siano smussate e, ancora di più, che le nostre convinzioni personali siano rafforzate o demolite esistendo sempre quel “peccato di inavvertenza” che ci può sempre penalizzare.

Solo di fronte a una risposta affermativa da parte loro Gesù intervenne e lo fece direttamente, personalmente nel senso che avrebbe potuto dire “Sì, lo voglio” e sarebbero stati guariti, ma prima toccò i loro occhi, confermando fisicamente un Suo diretto interessamento. Le parole “Siavi fatto secondo la vostra fede” sottolineano che non può esistere un intervento risolutore di Dio senza una partecipazione umana attraverso la fede perché senza di essa non può operare, come avvenne in altre circostanze; ricordiamo quando a Nazareth Marco scrive “E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità” (6.5,6).

La fede quindi, se correttamente indirizzata, porta a una risoluzione: toccando gli occhi ai due ciechi Gesù fa la sua parte, ma la guarigione avviene solo quando viene dimostrata la proporzione tra fede e il gesto. Solo allora è scritto che “si aprirono i loro occhi”. A questo punto è invitabile chiederci quando “vediamo” realmente noi: credo molto poco e male. E proprio per questo la preghiera dei due ciechi dev’essere anche la nostra, perché possiamo essere in grado di orientarci, conoscere, vedere.

Certo la loro guarigione non poteva rimanere nascosta come tutti gli altri miracoli, compreso quello precedente della figlia di Giairo, eppure leggiamo che “Gesù li ammonì dicendo: «Badate che nessuno lo sappia!»”. Perché? Nessuno avrebbe dovuto scambiare Gesù solo per un guaritore, rivolgersi a Lui come risolutore di un problema esclusivamente materiale. I miracoli infatti erano la conseguenza della Sua missione, non certo la ragione.

Ci chiediamo: allora come oggi era ed è più importante conoscere Cristo come uno che può fare un miracolo, o come Colui che può e vuole salvare? I due ciechi, diffondendo “la notizia per tutta la regione” non aiutarono il progresso del Vangelo come fece l’innominato indemoniato gadareno, ma posero l’accento sulla loro disabilità scomparsa alimentando ancora di più le aspettative delle folle che pensavano al proprio tornaconto, salvo quelli che desideravano saziarsi con parole di vita.

I due ciechi sono allora la figura di quanti, ricevuta una grazia dal Signore, gestiscono le sue conseguenze in modo non appropriato. L’opposto del paralitico di Capernaum che “subito si alzò e andò a casa sua, glorificando Iddio” (Luca 5.25). Fu allora l’umanità a prevalere su queste due persone, mentre la dignità del perdono ricevuto la vediamo più nel paralitico.

Tenere per sé l’avvenuta guarigione non comportava continuare a simulare la cecità, ma vivere una vita nuova dando spiegazione dell’avvenuto cambiamento a chi ne chiedeva la ragione ed era in grado di capirne la risposta, perché le manifestazioni di piazza appartengono al superficiale, all’immediatezza. E il Vangelo e la fede sono molto diverse da quelle.

Concludendo queste riflessioni, va sottolineato che Gesù guarì questi due uomini nonostante sapesse la loro indole impulsiva, guardando alla loro fede segno che la salvezza non è destinata soltanto a uomini di razze e nazionalità diverse, ma anche indipendentemente dal carattere, risultato della genetica e delle esperienze vissute.

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08.05 – LA FIGLIA DI GIAIRO (Marco 5.21-24, 35-43)

8.05 – La figlia di Giairo (Marco 5.21-24; 35-43)

 

21Essendo Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. 22E venne uno dei capi della Sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi 23e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva». 24Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno. (…) 35Stava ancora parlando, quando dalla casa del capo della Sinagoga vennero a dire: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». 36Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della Sinagoga: «Non temere. Soltanto, abbi fede». 37E non permise a nessuno di seguirlo, fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo. 38Giunsero alla casa del capo della Sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava forte. 39Entrato, disse loro: «Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme. 40E lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della bambina e quelli che erano con lui ed entrò dov’era la bambina. 41Prese la mano della bambina e le disse «Talità kum», che significa “Fanciulla, io ti dico, alzati!» 42E subito la fanciulla si alzò e camminava; aveva infatti dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. 43E raccomandò con insistenza che nessuno venisse a saperlo e disse di darle da mangiare”.

 

Fra i tanti che attendevano il ritorno di Gesù che si era allontanato in barca alla riva opposta del lago nel territorio della Decàpoli, i più ansiosi erano senza dubbio Giairo e la donna emorroissa. La figura di Giairo è particolare per il suo ruolo oltre che per carattere: Matteo non lo cita per nome e lo qualifica come “uno dei capi”, Marco “uno dei capi della Sinagoga” e poco dopo “capo della Sinagoga”. E Luca fa lo stesso definendolo “capo”. Non credo ci sia discordanza nel modo in cui quest’uomo è definito, poiché la Sinagoga poteva venir governata, a seconda della sua importanza, tanto da un collegio di rabbini che facevano riferimento a un presidente, quando da uno solo. Poi, gli stessi erano anche magistrati preposti agli affari della comunità giudaica e avevano autorità di infliggere sanzioni di vario genere.

Guardando alla figura di Giairo e come si era posto nei confronti di Gesù, possiamo concludere che, se non lo avesse stimato e ritenuto in grado di guarire la propria figlia, non si sarebbe certamente rivolto a Lui nel senso che non va da Gesù come “ultima spiaggia”, ma per fede. Giairo era stato sicuramente tra quelli che avevano parlato in bene di quel centurione che, tempo prima, Gli aveva chiesto di guarire il suo servo. Ricordando l’episodio, avevamo letto che il centurione “gli mandò alcuni anziani dei Giudei – e Giairo era il più importante – a pregarlo di venire e di salvare il suo servo. Costoro, giunti da Gesù, lo pregavano con insistenza: «Egli merita che tu gli faccia questa grazia – dicevano – perché ama il nostro popolo ed è stato lui a costruirci la sinagoga»” (Luca 7.3-5). Interessatosi quindi assieme ad altri perché Gesù si prendesse carico del caso del centurione, è impossibile che non avesse saputo del miracolo. Ora però Giairo si ritrovava nella stessa condizione, con una figlia dodicenne che stava morendo, non sappiamo se per una malattia o per un incidente occorsole; sta di fatto che l’attesa che il Signore tornasse dal viaggio fu molto penosa e che, non appena lo vide, gli si gettò ai piedi, atteggiamento che esprime tanto la deferenza che nutriva nei Suoi confronti, quando l’estrema gravità dell’occasione.

Sappiamo che in quei momenti si intrecciarono due casi importanti, Giairo e l’anonima emorroissa, ma anche due “dodici” visti negli anni della giovane e in quelli di patimento della donna. Coi primi stava per finire l’infanzia e si entrava nell’età adulta (diversamente dai nostri usi, la figlia di Giairo aveva appena raggiunto o stava per avere età da marito) quindi si trattava di un numero importante che suggeriva speranza anziché morte; i secondi invece, quelli della donna, sappiamo che ci parlano di sofferenza e umiliazione.

Giairo quindi si getta ai piedi di Gesù supplicandolo “con insistenza”, quella che credo solo un padre angosciato per l’imminente perdita di una figlia possa avere. Nessuno se non Lui avrebbe potuto aiutarlo anche perché dalle versioni che abbiamo emerge che Giairo non poteva sapere se la ragazzina fosse viva o meno. Teniamo anche presente che tra le rive del lago e Capernaum intercorrevano circa 4km, che percorsi di buon passo avrebbero richiesto almeno 40 minuti. In più, dopo le parole “Vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva”, ecco frapporsi il caso della donna con la sua confessione di fede, per cui possiamo immaginarci con quanta ansia Giairo avesse atteso la conclusione della vicenda. Quell’uomo voleva che Gesù imponesse le mani alla figlia perché guarisse: quindi Lo considerava un profeta in grado di intervenire là dov’era umanamente impossibile, idea che accomuna entrambi i protagonisti di quei momenti, Giairo e l’emorroissa. Possiamo dire che, quel giorno, Nostro Signore fu riconosciuto tale da due esponenti che rappresentavano il popolo comune da una parte e l’autorità religiosa dall’altra. Giairo non era un dottore della legge venuto da Gerusalemme per condannare a priori, chiuso nel proprio formalismo, ma un responsabile che aveva avuto modo di meditare gli insegnamenti di Gesù e constatarne gli effetti attraverso l’edificazione dei componenti della Sinagoga e i miracoli fatti a Capernaum, per cui sapeva esattamente a chi si stava rivolgendo. Certo, il tutto considerando la limitatezza delle idee che allora si avevano su di Lui perché sappiamo che ci volle molto tempo prima che fosse riconosciuto come “…il Cristo, il Figlio dell’Iddio vivente”.

La reazione di Gesù fu proporzionale alla richiesta, “andò con lui”. A questo punto sappiamo che si inserisce la guarigione della donna con relativa testimonianza e, al termine, l’arrivo di un messaggero che porta la notizia del decesso della giovane. Le sue parole sono di una realtà cruda dalla quale traspare l’inevitabile umano: “Tua figlia è morta, perché disturbi ancora il Maestro?”, oppure, secondo Luca, “non disturbare più il Maestro”. In pratica, secondo quella persona e chi l’aveva mandata era giusto chiedere a Gesù un intervento mentre la giovane era in vita, ma nel momento in cui la morte aveva posto il proprio sigillo scrivendo la parola “fine” alla sua esistenza, ogni preghiera avrebbe cessato di avere senso. Ecco, qui abbiamo già un’anticipazione del miracolo perché le parole “Non temere, soltanto abbi fede”, che provenivano da chi aveva autorità sulla vita e sulla morte fanno da contrasto a ogni idea, mentalità, ragionamento umano.

Da una parte abbiamo l’invito “Non disturbare più il Maestro” sottintendendo “perché tanto non può fare più nulla”, dall’altra, contro ogni logica umana, c’è un appello a Giairo a non temere e ad avere fede. È una chiamata diretta, precisa, individuale, in direzione contraria a tutto ciò che gli altri pensavano, al loro acquisito. “Non temere, soltanto abbi fede” sono le stesse parole che il Signore rivolge ad ogni essere umano anche oggi, invitandolo a staccarsi dal metro valutativo terreno che contiene sempre una conoscenza esclusivamente carnale, dimostrando che è la Sua l’unica logica possibile. significava porgli dei limiti o presumere che li avesse, proprio come avviene ora in cui la conoscenza umana è progredita, certo non dal punto di vista spirituale.

Questo passo, per il modo con cui gli evangelisti sviluppano i personaggi, dimostra che siamo noi non solo a porre dei limiti alla potenza di Dio, ma che corriamo il pericolo di non avere di Lui una corretta opinione se non ci dedichiamo allo studio della Sua parola. Le dinamiche dell’episodio, poi, sottolineano che questo applicarsi serve a ben poco se non si mette lo Spirito Santo nelle condizioni di agire in noi per illuminarci per primi e renderci così utili. Per questo ci vuole molta umiltà e vigilanza, un confronto serio, un giudizio continuo su noi stessi valutando i risultati delle nostre azioni dopo un attento esame. Ricordiamoci dei dodici e della loro missione, quando “Al loro ritorno, gli apostoli raccontarono a Gesù tutto quello che avevano fatto” (Luca 9.10) . La stessa cosa dobbiamo fare noi, quando la giornata concessaci sta per concludersi, per discutere alla Sua presenza di come abbiamo speso il nostro tempo e i risultati ottenuti, come e se abbiamo saputo reagire alle negatività, se abbiamo conseguito successi o fallimenti e probabilmente li avremo riportati entrambi. Ma il fallimento, che indica la nostra umanità e debolezza, dev’essere strumento di crescita per la costituzione di quell’armatura che solo noi possiamo procurarci attivamente. Un risultato mancante trova sempre la sua origine in un difetto della nostra “armatura”.

Andiamo in Efesi 6.10-17: “Per il resto, rafforzatevi nel Signore e nel vigore della sua potenza – quindi il credente, se non agisce così, rimane debole –. Indossate l’armatura di Dio per poter resistere alle insidie del diavolo. La nostra battaglia infatti non è contro la carne e il sangue, ma contro i Principati e le Potenze, contro i dominatori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti – cioè in territori diversi dai nostri, “cieli” come tutto ciò che non possiamo raggiungere –. Prendete dunque l’armatura di Dio, perché possiate resistere nel giorno cattivo e restare saldi dopo aver superato tutte le prove – e superare è l’opposto della sconfitta –. Siate saldi, dunque: attorno ai fianchi, la verità; indosso, la corazza della giustizia; i piedi, calzati e pronti a propagare il vangelo della pace. Afferrate sempre lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutte le frecce infuocate del Maligno; prendete anche l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito che è la Parola di Dio”.

Bene. A Giairo Gesù, che a quel tempo poneva le basi anche per un edificio spirituale che poi sarà lo Spirito Santo a costruire, chiede fede perché quella freccia che il Maligno aveva scagliato e aveva colpito a morte la figlia potesse essere spenta.

Dalla lettura dei sinottici sappiamo che la gente seguì Gesù fino davanti alla casa in cui tutti facevano il solito cordoglio fuori luogo che si manifestava, anziché tramite un dolore dignitoso e nobile, attraverso musiche e soprattutto l’opera di piangitrici di professione pagate per emettere alte grida e invitare alla commozione generale, vera o finta non importava. Ecco perché abbiamo letto che la gente “piangeva e urlava forte”, traduzione che letteralmente suona con “facevano un grande strepito, gente che piangeva e faceva un grande urlare”. Erano tutti elementi di tradizione pagana che andavano a snaturare la nobiltà e dignità del dolore.

A questo punto ci troviamo di fronte ad una frase illuminante di Gesù sulla quale si è molto discusso, “La bambina non è morta, ma dorme”, abbiamo “bambina”, non “fanciulla” o “ragazza” perché qui il termine usato è neutro, “to paidìon”, adattabile a qualsiasi genere in quanto la figlia di Giairo è vista come creatura al di là del sesso e non aveva ancora raggiunto i 13 anni in cui sarebbe stata dichiarata “figlia del comandamento”. Sul significato del “dormire”, che fu preso dai presenti come un controsenso e quindi motivo di derisione nei confronti di Gesù, molto è stato scritto e detto, ma l’unica lettura possibile è che con la frase “non è morta, ma dorme”, Lui intenda correggere l’opinione che la quasi totalità del genere umano ha del decesso, cioè la fine di tutto, a parte usare una strategia che vedremo a breve.

La “morte” intesa come cessazione del battito cardiaco e la consunzione del corpo certo è un dato di fatto, ma in realtà le persone “si addormentano” perché destinate alla resurrezione e sarà lì che avverrà lo “smistamento” tra la vera vita e la vera morte. È triste constatare che alcune Bibbie, per semplificare, hanno stravolto il senso profondo di questo termine e così, ad esempio in 1 Tessalonicesi 4.15, leggiamo “Non vogliamo, fratelli, lasciarvi nell’ignoranza a proposito di quelli che sono morti”, quando l’originale è “di quelli che dormono”, o “si sono addormentati”. L’uomo infatti non muore mai e se ciò accadrà, sarà per quelli che non avranno accolto il sacrificio di Gesù per essere salvati. Infatti: “Poi la Morte e gli inferi furono gettati nello stagno di fuoco. Questa è la seconda morte, lo stagno di fuoco. E chi non risultò scritto nel libro della vita fu gettato nello stagno di fuoco” (Apocalisse 20.14).

Tornando all’episodio, a questo punto Gesù non ammette che la soglia di casa sia varcata da nessuno salvo un gruppo molto stretto di persone, Pietro, Giacomo e Giovanni (Luca 8.51) oltre a Giairo e sua moglie; parla alla giovane in aramaico, “Talita kum”, cioè “Fanciulla, alzati”, richiamandola in vita e dimostrando di avere potere tanto sulla vita quanto sulla morte. Questo era lo scopo che Nostro Signore si prefiggeva, perché nonostante il dare sollievo a due genitori affranti non fosse certo cosa da poco, riportare in vita una bambina destinata a morire comunque più avanti avrebbe avuto senso solo se inquadrato nel concetto “Io ho le chiavi della morte e degli inferi”, uno dei cardini della dottrina cristiana.

Mi sono chiesto perché Gesù abbia ordinato “che nessuno venisse a saperlo” quando sarebbe stato impossibile: credo che si riferisse alle modalità con la quale aveva operato quella resurrezione in opposizione all’incredulità manifestata dai presenti che lo avevano deriso. Il miracolo non solo era stato operato alla presenza di  cinque testimoni, ma si era manifestato con modalità che agli altri non dovevano interessare. I tre apostoli sono la figura del credente spirituale cui sono affidate responsabilità che altri non hanno, sono la rappresentazione del fatto che l’essere “fratelli” non è cosa che si può generalizzare esistendo credenti vittime della propria carnalità e altri che si sono appartati e hanno ricevuto posizioni e doni diversi. Giairo e la moglie invece rappresentano chi sperimenta su di sé i benefici del Vangelo, potenza che non ha né può avere limiti. Agli altri però, quelli che avevano reagito deridendo Gesù, si sarebbe potuto dire che la bambina era caduta in una sorta di sonno molto profondo che, per quanto spiegabile, era tale. Alla ragazzina, infine, fu dato da mangiare non per recuperare le forze, ma perché fosse dimostrato tramite il prender cibo che era tornata in possesso di tutte le facoltà vitali esattamente come al paralitico, sempre in Capernaum, fu ordinato di prendere la propria barella e tornarsene a casa.

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08.04 – LA DONNA EMORROISSA (Marco 5.21-34)

8.04 – La donna emorroissa (Marco 5.21-34)

 

21Essendo Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. 22E venne uno dei capi della Sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi 23e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva». 24Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno. 25Ora una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni 26e aveva molto sofferto per opera di molti medici spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi, piuttosto peggiorando, 27udito parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. 28Diceva infatti: «Se riuscirò solo a toccare le sue vesti, sarò salvata». 29E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male. 30E subito Gesù, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: Chi ha toccato le mie vesti?» 31I suoi discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici «Chi mi ha toccato?»». 32Egli guardava attorno, per vedere colei che aveva fatto questo. 33E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. 34Egli le disse: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male”.

 

Narrato dai sinottici, è un miracolo particolare perché tutti lo incuneano nella narrazione della risurrezione della figlia di Giàiro. È stato definito un “miracolo Giacobbiano” da Giacobbe, il cui nome non significa “soppiantatore” come molti interpretano, ma “colui che precede”. Matteo dedica all’episodio tre versi (9.20-22), mentre Marco e Luca aprono spazi ricchi di particolari utili, inquadrando prima di tutto il clima di aspettative che si era creato nei confronti di Gesù che era stato assente da Capernaum e dintorni per poco tempo: partito la sera su una barca coi discepoli, seguito da molti su altre, era approdato in territorio gadareno al mattino dal quale aveva fatto rientro nel pomeriggio. Ebbene, furono sufficienti poche ore perché la gente ne sentisse la mancanza per le ragioni più disparate: riconoscenza, stima, desiderio ascoltare le Sue parole, ma anche voler vedere miracoli o solo ascoltare le sue risposte in caso di conflitto dottrinale con qualche scriba o fariseo, senza contare l’attesa di Lui che avevano i malati, tra i quali Giàiro per sua figlia e la donna col flusso di sangue..

Luca scrive che, non appena approdò, “fu accolto dalla folla, perché tutti erano in attesa di lui” (8.40), situazione che ancora una volta dimostra il significato della frase detta al discepolo “le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il figlio dell’uomo non ha dove posare il capo” (Matteo 8.20), o le parole pronunciate in territorio samaritano, “Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera” (Giovanni 4.34). Un’opera incessante, che non conosceva soste, in mezzo agli uomini altrimenti perduti.

Riflettiamo ora sulla frase detta ai discepoli: “Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: «Vado a prepararvi un posto»? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. E del luogo dove io vado, sapete anche la via” (Giovanni 14.2,3). Anche qui abbiamo un’opera incessante vista nel preparare “il posto” a tutti coloro che avrebbero creduto nel corso dei secoli, che culminerà con Suo ritorno: a Capernaum lo si aspettava sulla riva del mare perché tornasse a dissetare con la Sua parola, nella terra corrotta del futuro altri uomini e donne Lo avrebbero atteso perché li liberasse per sempre da un corpo votato alla morte intesa non come cessazione del battito cardiaco, ma come condizione perché tutto ciò che ci circonda è, appunto, morte. Ogni cosa è destinata ad avere una fine e porta in sé gli elementi del peccato.

Mettiamo da parte la figura di Giàiro, oggetto del prossimo studio, e soffermiamoci ora sulla donna conosciuta come emorroissa, dal greco “aimorroéo”, “perdere sangue”. La sua condizione la escludeva dalla comunità secondo Levitico 15.25-28: “La donna che ha un flusso di sangue per molti giorni, fuori del tempo delle mestruazioni, o che lo abbia più del normale, sarà impura per tutto il tempo del flusso, come durante le sue mestruazioni. Ogni giaciglio sul quale si coricherà durante tutto il tempo del flusso sarà per lei come il giaciglio sul quale si corica quando ha le mestruazioni; ogni oggetto sul quale si siederà sarà impuro, come lo è quando ha le mestruazioni. Chiunque toccherà quelle cose sarà impuro; dovrà lavarsi le vesti, bagnarsi nell’acqua e sarà impuro fino a sera. Se sarà guarita dal suo flusso, conterà sette giorni e poi sarà pura”. Il fatto che chi toccasse una donna impura lo rimanesse fino a sera e che addirittura “ogni mobile sul quale si sarà seduta sarà impuro” come ogni oggetto da lei toccato (vv.19-23), credo renda sufficientemente l’idea dello stato di emarginazione in cui quella donna era costretta a vivere da dodici anni, numero che in questo caso ci parla di sottomissione forzata e sofferta che porta alla ribellione come nel caso dei cinque re che furono soggetti per tale tempo a Chedorlaomer, re di Siria (Genesi 14.4).

Possiamo allora immaginare il grado di sofferenza in cui versava quella donna innominata: isolata, privata di rapporti sociali, aveva interpellato i medici di allora, dal primo che le era capitato al più bravo o ritenuto tale, ogni volta sperando di guarire e puntualmente restando delusa. Il testo di Marco dice “aveva molto sofferto per opera di molti medici”, due “molto”, certo fisicamente e moralmente, tra l’altro raggiungendo la povertà, segno che un tempo era di condizione agiata.

Certo la malattia che un medico o la medicina non riesce a curare indica il limite che ha la scienza umana a prescindere dall’epoca e di tale limite approfitta Satana che, tramite guaritori, maghi o pranoterapeuti illude l’essere umano di una possibile guarigione lasciandolo alla fine ancora più angosciato, solo e umiliato. Così, temendo la propria fine e interiormente disarticolata dalle sofferenze fisiche e morali, la creatura inferma non sa più a chi votarsi e, oggi, un pellegrinaggio a Lourdes o altre località simili prendono il posto delle illusioni precedenti.

Giuseppe Ricciotti annota che a volte erano gli stessi rabbini a svolgere la funzione di medico, ma con metodi che definire superstiziosi è poco. Ad esempio facevano “sedere la donna malata alla biforcazione di una strada facendole tenere in mano un bicchiere di vino; qualcuno, ad un tratto, venendole di soppiatto alle spalle, doveva gridarle che cessasse il profluvio di sangue”. Oppure si prendeva “un granello d’orzo trovato nello stabbio (recinto) di un mulo bianco: prendendolo per un giorno il profluvio sarebbe cessato per due giorni, per due sarebbe cessato per tre e prendendolo per tre si sarebbe ottenuta la guarigione completa e per sempre. Altre ricette richiedevano l’impiego di droghe rare e costose, e quindi comportavano grandi spese da parte della malata”.

Ora la donna del nostro episodio aveva forse sperimentato anche questi rimedi, che avevano generato in lei credo un senso di solitudine ancora maggiore, e forse interrogativi seri nei confronti di una religione e ministri che non l’avevano saputa guarire; ricordiamo le parole “spendendo tutti i suoi avere senza avere alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando”. Nel suo caso, tutti i tentativi per guarire davano come risultato l’esatto contrario. Però, a un certo punto sente parlare di Gesù, chissà se direttamente dalla gente o da una persona da lui miracolata e inizia un percorso tutto particolare. Ci dobbiamo chiedere quale ragionamento avesse fatto per concludere che le sarebbe bastato “anche solo toccare le sue vesti” – precisamente “il lembo del mantello” secondo Luca 8.44 – per guarire dalla sua impurità e dal peccato che l’aveva provocata. Ricordiamo infatti che quella donna era un’israelita, per cui per lei in quanto tale valeva la regola che all’origine della malattia ci fosse un peccato e questa non rientrasse nei casi della vita come per gli altri popoli.

Ebbene, la prima conclusione cui la donna giunse fu che Gesù fosse veramente chi diceva di essere perché altrimenti non pensò a toccare la sua veste, che a quel tempo rappresentava la persona, la sua dignità e l’ufficio che rivestiva. In altre parole ciò che voleva fare non aveva nulla a che vedere con un gesto scaramantico paragonabile a quello di chi oggi bacia un’immagine “sacra”, una statua o una reliquia immaginando chissà cosa, ma il venire a contatto con una persona che la propria santità e missione la dimostrava quotidianamente guarendo ogni malattia. E la veste era un tutt’uno con lei. Teniamo presente che, se per guarire fosse bastato solamente “toccare” Nostro Signore, tutti coloro che sulle rive del lago lo stringevano attorno si sarebbero sentiti meglio e – mi si perdoni il paragone – sarebbero guariti anche da un banale raffreddore o anche solo dalla stanchezza, cosa che naturalmente i Vangeli non dicono. Interessante Marco 6.56 che scrive “E là dove giungeva, in villaggi o città o campagne, deponevano i malati nelle piazze e lo supplicavano di poter toccare almeno il lembo del suo mantello; e quanti lo toccavano venivano salvati”.

Perché? Il “lembo” era la frangia viola che si trovava sugli orli della veste: “Avrete tali frange e, quando le guarderete, vi ricorderete di tutti i comandi del Signore e li eseguirete; non andrete vagando dietro il vostro cuore e i vostri occhi, seguendo i quali vi prostituireste. Così vi ricorderete di tutti i miei comandi, li metterete in pratica e sarete santi per il vostro Dio” (Numeri 15.39,40). Non vi fu un comandamento che Gesù disattese, lui, “venuto non per abolire, ma per adempiere”. Dunque, toccandogli la veste per essere guariti si dimostrava di credere nel suo ruolo, toccare il lembo era un modo per riconoscerne la santità operante la guarigione.

In conseguenza di quel gesto “immediatamente l’emorragia si arrestò” e allo stesso tempo Gesù chiese chi lo avesse toccato perché “una forza era uscita da lui”. Certo, come già rilevato in altro episodio, Lui sapeva chi aveva agito così, ma voleva che si rivelasse. Quella donna avrebbe potuto benissimo non dire nulla e andarsene, poiché quel “vedendo che non poteva rimaner nascosta” in Luca 8.47 si riferisce a una condizione morale e non di fatto: l’innominata avrebbe potuto eclissarsi tra la folla, ma si manifesta “impaurita e tremante” per la moltitudine di sentimenti che l’occupavano, gettandoglisi ai piedi perché la riconoscenza non poteva che spingerla a questo, oltre alla consapevolezza di essere una peccatrice di fronte a Colui che l’aveva guarita non volontariamente, ma per emanazione.

Sappiamo cosa avvenne: “Gli disse tutta la verità”, o “Dichiarò davanti a tutto il popolo per quale motivo l’aveva toccato e com’era stata guarita all’istante” (Luca 8.47); raccontò quindi la sua storia, i ragionamenti, le conclusioni che l’avevano portata ad agire in quel modo. Non c’è quindi spirito, da Dio o dall’Avversario come nel caso dell’indemoniato gadareno, che non possa rivelarsi di fronte a Gesù Cristo.

Con le parole “Figlia – perché tale era diventata avendo accolto la Sua parola – la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male”, Gesù le accorda la Sua benedizione, dicendole che era stata salvata, cioè posta nelle condizioni di essere dei Suoi, di rientrare in coloro che un giorno lo avrebbero incontrato nella gloria. In pratica, la donna era stata guarita dal suo peccato, poiché ciò che nel nostro testo è tradotto con “male” è in realtà “flagello”, termine che nella Scrittura si riferisce a una punizione di Dio.

Scrive un fratello: “Quella guarigione che la donna aveva carpito di nascosto perché non sarebbe potuta stare tra la gente comune, dopo la sua confessione aveva ben altro valore. Tutti coloro che la conoscevano l’avrebbero interrogata in proposito, per cui poteva rispondere parlando bene di Gesù perché altri beneficiassero del suo intervento”.

Infine, abbiamo la fede. Non consiste in un tentativo che si fa cercando di autoconvincersi, ma attraverso una certezza interiore che non può essere insegnata. Alla fede, come avvenuto per la donna emorroissa, si giunge da soli. A volte a suscitarla è un ragionamento, in altre l’istinto, ma sta di fatto che è lei che giustifica l’uomo davanti a Dio (Romani 1.28) ed è “certezza di cose che si sperano, dimostrazione di realtà che non si vedono” (Ebrei 11.1,2). Certezza e dimostrazione che nessuno può togliere e che ogni cristiano conosce. Amen.

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08.03 – GADARA III/III (Marco 5.1-20)

8.03 – Gadara III/III (Marco 5.1-20)

 

1Giunsero all’altra riva del mare, nel paese dei geraseni. 2Sceso dalla barca, subito dai sepolcri gli venne incontro un uomo posseduto da uno spirito impuro. 3Costui aveva la sua dimora fra le tombe e nessuno riusciva a tenerlo legato, neanche con catene, 4perché più volte era stato legato con ceppi e catene, ma aveva spezzato le catene e spaccato i ceppi, e nessuno riusciva più a domarlo. 5Continuamente, notte e giorno, fra le tombe e sui monti, gridava e si percuoteva con pietre. 6Visto Gesù da lontano, accorse, gli si gettò ai piedi 7e, urlando a gran voce, disse: «Che vuoi da me, Gesù, Figlio del Dio altissimo? Ti scongiuro, in nome di Dio, non tormentarmi!». 8Gli diceva infatti: «Esci, spirito impuro, da quest’uomo!» 9E gli domandò: «Qual è il tuo nome?». «Il mio nome è Legione – gli rispose – perché siamo in molti. 10E lo scongiurava con insistenza perché non li cacciasse fuori dal paese. 11C’era là, sul monte, una numerosa mandria di porci al pascolo. 12E lo scongiurarono: «Mandaci da quei porci, perché entriamo in essi». 13Glielo permise. E gli spiriti impuri, dopo essere usciti, entrarono nei porci e la mandria si precipitò giù dalla rupe nel mare; erano circa duemila e affogarono nel mare. 14I loro mandriani allora fuggirono, portarono la notizia nella città e nelle campagne e la gente venne a vedere che cosa fosse accaduto. 15Giunsero da Gesù, videro l’indemoniato seduto, vestito e sano di mente, lui che era stato posseduto dalla Legione, ed ebbero paura. 16Quelli che avevano visto, spiegarono loro che cosa era accaduto all’indemoniato e il fatto dei porci. 17Ed essi si misero a pregarlo di andarsene dal loro territorio. 18Mentre risaliva nella barca, colui che era stato indemoniato lo supplicava di poter restare con lui. 19Non glielo permise, ma gli disse: «Va’ nella tua casa, dai tuoi, annuncia loro ciò che il Signore ti ha fatto e la misericordia che ha avuto per te». 20Egli se ne andò e si mise a proclamare per la Decàpoli quello che Gesù aveva fatto per lui e tutti erano meravigliati”.

 

I GUARDIANI

Sono spettatori che reagiscono immediatamente quando vedono svanire la loro fonte di guadagno, o meglio quella dei loro padroni, tramite il “suicidio collettivo” dei porci. Mi sono chiesto dove si trovassero queste persone, ma il testo si limita a riportare che “a qualche distanza da loro c’era una numerosa mandria di porci al pascolo” (Matteo); per Marco e Luca quegli animali si trovavano “sul monte”, per cui tutto lascia supporre che i guardiani osservassero la scena a distanza di sicurezza per timore degli indemoniati e che non abbiano realizzato immediatamente la loro guarigione, ma che la scena di duemila maiali che si misero a correre verso il mare all’improvviso finendovi dentro annegando li avesse letteralmente terrorizzati. Dobbiamo pensare che ben difficilmente, vista la barca approdare e sapendo della presenza dei due ossessi, non avessero seguito attentamente ciò che accadeva. A quel punto, dopo la guarigione e il conseguente rovinare dei porci nel lago, “Fuggirono, portarono la notizia nella città e nelle campagne e la gente venne a vedere cosa fosse accaduto”. I guardiani sono allora persone che annunciano un evento inspiegabile, mai avvenuto prima, e questo portò la gente ad andare a verificare di persona. È poi molto probabile che quella mandria fosse composta da capi appartenenti a più proprietari conosciuti in città e nella campagna circostante.

 

LA GENTE E L’UOMO GUARITO

Sappiamo che la notizia portata a Gherghesa si allargò rapidamente a macchia d’olio anche fuori della città e gli abitanti della zona accorsero a vedere. C’erano praticamente tutti, dai capi alla gente comune e la curiosità, oltre che all’apprensione per la sorte della fonte di guadagno rappresentata dai porci, ebbe la meglio sul timore dovuto alla presenza dell’indemoniato, che trovarono guarito, ritratto da Marco con le parole “seduto, vestito e sano di mente, lui che era stato posseduto dalla Legione”. Luca aggiunge “seduto ai piedi di Gesù”, atteggiamento che non avrebbe mai potuto avere se fosse stato nella condizione in cui era prima. La gente “vide”, cioè si rese conto, constatò un cambiamento impossibile. Isaia 49.25 scrive che “Anche il prigioniero sarà strappato al forte, la preda sfuggirà al tiranno”, parole cui si raccorderà l’apostolo Paolo in Romani 16.20: “Il Dio della pace schiaccerà ben presto Satana sotto i vostri piedi”. Ebbene Gesù lo dimostra già qui e il terrore della Legione era dovuto proprio a questo, il presagio della fine che solo Cristo, “venuto per distruggere le opere del diavolo” (1 Giovanni 3.8) poteva determinare, decretare, compiere.

Prestiamo attenzione al verbo “Distruggere” che implica “abbattere, guastare, disfare, per lo più con azione o con mezzi violenti, scomponendo le parti di un oggetto dissolvendolo, riducendo in rovina, in modo che la cosa sia resa definitivamente inutilizzabile o non ne rimangano talora neppure le tracce”. E in effetti, questa distruzione della legione fu tangibile a tutti nel vedere l’ormai ex indemoniato “seduto”, cioè tranquillo, non “sdraiato a terra”, che ci lascerebbe pensare a spossatezza o sfinimento. Non vi era in quell’uomo nessun segno di nervosismo, ogni impulso di autolesionismo era svanito così come erano ormai scomparsi tutti quei comportamenti, estranei alla sua persona normale, che lo spingevano a vagare ed aggredire.

Ma a “seduto” Luca aggiunge “ai piedi di Gesù” e personalmente lo trovo un particolare commovente, così come la sua volontà di seguirlo. Possiamo pensare che quella posizione rifletteva al tempo stesso riconoscenza e deferenza, oltre che essere la stessa postura del discepolo desideroso di apprendere; ricordiamo Paolo che usò la stessa espressione per indicare la sua appartenenza alla scuola di Gamaliele (Atti 22.3). L’ignoto indemoniato non si mise a sedere esausto da qualche parte su un sasso, ma ai piedi di Gesù e probabilmente parlava, perché viceversa i presenti non lo avrebbero potuto classificare come “sano di mente” e Marco avrebbe scritto che se ne stava muto e tranquillo. Invece, l’indemoniato guarito aveva trovato una dimensione nuova, su misura per lui: “Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò” (Matteo 11.28).

Prima di ritenerlo sano, comunque, la gente vide che quell’uomo era vestito, cioè aveva ritrovato la propria dignità senza fare nulla: Gesù lo liberò, poi fu coperto con un abito – ipotizzo – fornito dai discepoli e infine fu sicuramente abitato da un altro Spirito, certo non più immondo. Sono tre azioni importanti. La prima e la terza sono forse le più semplici da capire, mentre si tende a inquadrare la seconda, il dare un abito, nel campo della normalità e così può sembrare; in realtà il vestire un essere umano nudo, o con l’abito strappato o comunque impresentabile agli altri, è indice della carità di Dio che conferisce dignità alla persona. E sappiamo che Dio vestì i nostri progenitori. Senza un vestito non ci si può mostrare al prossimo e molto spesso la sua qualità e fattura si adegua agli eventi cui partecipiamo, ma non si può prescindere dalla presentabilità. Ciò che fecero i discepoli a quell’uomo solo apparentemente è indice di un gesto provvisorio teso a far cessare la sua umiliazione: il realtà è simbolo della totalità delle attenzioni di Dio con gli stessi scopi, ma spirituali, che troviamo nella parabola degli invitati alle nozze che, come in uso a quel tempo, avevano ricevuto il vestito per la festa. E sappiamo cosa successe: “«Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale»? E quello ammutolì. Allora il re ordinò ai servi: «Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà il pianto e lo stridore di denti»” (Matteo 22.12,13).

L’apostolo Paolo, riferendosi all’episodio, scriverà nella sua seconda lettera ai Corinzi “Sappiamo infatti che, quando sarà distrutta la nostra dimora terrena che è come una tenda – il corpo che contiene anima e spirito –, riceveremo da Dio un’abitazione, una dimora non costruita da mani d’uomo, eterna, nei cieli. Perciò, in questa condizione, noi gemiamo e desideriamo rivestirci della nostra abitazione celeste purché siamo trovati vestiti, non nudi” (5.1-3). Gesù, quindi, si occupò di quell’indemoniato integralmente per il suo risollevamento esattamente come Satana per la sua distruzione.

Il testo torna a parlarci dei presenti: vedono quell’uomo nelle condizioni appena descritte e, a differenza di quanto avvenuto in casi precedenti, non si “stupiscono” o provano “meraviglia”, ma provano un sentimento di “paura”. È la prima reazione istintiva di fronte a una manifestazione che non si riesce a spiegare, all’irrazionale perché l’uomo è abituato a far leva sulla ragione che ha una risposta per tutto. La paura è l’unica reazione di fronte a ciò che non si può gestire, controllare, spiegare, difendere proprio come avveniva di fronte all’indemoniato quando era posseduto. E fu allora nuovamente spiegato alla folla, dai guardiani con più particolari per quanto potevano, “che cosa era avvenuto all’indemoniato e il fatto dei porci”: i ghergheseni si trovarono così di fronte a un avvenimento in cui loro stessi erano entrati direttamente vedendo, constatando la guarigione del loro concittadino.

Ebbene, anziché rallegrarsi con lui per questa liberazione, vengono sopraffatti dall’interesse e credo abbiano pensato “non so cos’è successo e non mi riguarda, ma è andata distrutta la mia fonte di guadagno”, nessun pensiero magari ad altri nelle condizioni di quell’uomo, o a malati da portargli che certamente esistevano in città, ma solo una costante preoccupazione per l’economia della zona e che venisse turbata la loro tranquillità quotidiana. Non credo che Gherghesa fosse una città ricca e i suoi abitanti vivessero in condizioni particolarmente agiate, ma dobbiamo tener presente che il “ricco” non è solo chi ha molti beni, ma chi è attaccato alle sue cose e non le vuole condividere con altri. C’è chi è attaccato ai propri beni (case, ville, castelli, fabbriche, auto) esattamente come un povero può considerare allo stesso modo la misera baracca in cui abita o qualsiasi altra cosa. Anche una vita tranquilla costituisce una ricchezza che uno può avere timore di perdere. Nel caso dei ghergheseni, più che un loro simile, un concittadino, valevano i maiali. E oggi, più che questi animali, vale la “libertà” del vivere senza Cristo, per cui si preferisce tenerlo fuori dai propri confini senza il bisogno di pregarlo di andarsene. Così leggiamo in Giobbe 21.12-15 quando, sofferente, si chiedeva il perché del successo dei malvagi: “Cantano al ritmo di tamburelli e cetre, si divertono al suono dei flauti. Finiscono nel benessere i loro giorni e scendono tranquilli nel regno dei morti. Eppure dicevano a Dio «Allontànati da noi, non vogliamo conoscere le tue vie. Chi è l’Onnipotente, perché dobbiamo seguirlo? E a che giova pregarlo?»”. Credo sia un ritratto perfetto di quella gente radunata attorno all’indemoniato e a chi lo aveva guarito.

Nessun testo ci dice che, in relazione all’invito dei ghergheseni ad andarsene, Gesù abbia fatto rimostranze o profezie di distruzione nei loro confronti: la folla stessa aveva scelto così, tranne il guarito che voleva restare con chi lo aveva liberato, ma il Maestro non volle prenderlo con sé perché andava lasciata una testimonianza di ciò che era accaduto: “Va’ nella tua casa, dai tuoi, annuncia loro ciò che il Signore ti ha fatto e la misericordia che ha avuto per te”. Ecco, qui abbiamo la progressione della testimonianza, del seme gettato: i primi a dover conoscere davvero i fatti, supportati da una condotta nuova, avrebbero dovuto essere i famigliari di quell’uomo che meglio di altri, attraverso il contatto quotidiano, avrebbero potuto chiedersi le ragioni di quel cambiamento fino ad allora impossibile.

Marco passa poi ad informarci di cosa successe dopo: “Egli se ne andò e si mise a proclamare per la Decàpoli quello che aveva fatto per lui e tutti erano meravigliati”. Questa volta, meraviglia e non paura. Quell’anonimo, da vittima nelle mani di Satana, si trasformò in strumento nelle mani di Dio e sappiamo che, in quei territori, non proclamava qualcosa di completamente nuovo (salvo a quanti non avevano sentito parlare di Gesù) perché la fama del “Figlio dell’uomo” si stava già spargendo; abbiamo già letto che “Gran folle cominciarono a seguirlo dalla Galilea, dalla Decàpoli, da Gerusalemme, dalla Giudea e da oltre il Giordano” (Matteo 4.25). Chissà se tempo dopo, quando venuto “presso il mare in pieno territorio della Decàpoli, gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano” (Marco 7), ciò avvenne anche in conseguenza della testimonianza dell’indemoniato guarito.

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08.02 – GADARA II/III (Marco 5.1-20)

8.02 – Gadara II (Marco 5.1-20)

 

1Giunsero all’altra riva del mare, nel paese dei geraseni. 2Sceso dalla barca, subito dai sepolcri gli venne incontro un uomo posseduto da uno spirito impuro. 3Costui aveva la sua dimora fra le tombe e nessuno riusciva a tenerlo legato, neanche con catene, 4perché più volte era stato legato con ceppi e catene, ma aveva spezzato le catene e spaccato i ceppi, e nessuno riusciva più a domarlo. 5Continuamente, notte e giorno, fra le tombe e sui monti, gridava e si percuoteva con pietre. 6Visto Gesù da lontano, accorse, gli si gettò ai piedi 7e, urlando a gran voce, disse: «Che vuoi da me, Gesù, Figlio del Dio altissimo? Ti scongiuro, in nome di Dio, non tormentarmi!». 8Gli diceva infatti: «Esci, spirito impuro, da quest’uomo!» 9E gli domandò: «Qual è il tuo nome?». «Il mio nome è Legione – gli rispose – perché siamo in molti. 10E lo scongiurava con insistenza perché non li cacciasse fuori dal paese. 11C’era là, sul monte, una numerosa mandria di porci al pascolo. 12E lo scongiurarono: «Mandaci da quei porci, perché entriamo in essi». 13Glielo permise. E gli spiriti impuri, dopo essere usciti, entrarono nei porci e la mandria si precipitò giù dalla rupe nel mare; erano circa duemila e affogarono nel mare. 14I loro mandriani allora fuggirono, portarono la notizia nella città e nelle campagne e la gente venne a vedere che cosa fosse accaduto. 15Giunsero da Gesù, videro l’indemoniato seduto, vestito e sano di mente, lui che era stato posseduto dalla Legione, ed ebbero paura. 16Quelli che avevano visto, spiegarono loro che cosa era accaduto all’indemoniato e il fatto dei porci. 17Ed essi si misero a pregarlo di andarsene dal loro territorio. 18Mentre risaliva nella barca, colui che era stato indemoniato lo supplicava di poter restare con lui. 19Non glielo permise, ma gli disse: «Va’ nella tua casa, dai tuoi, annuncia loro ciò che il Signore ti ha fatto e la misericordia che ha avuto per te». 20Egli se ne andò e si mise a proclamare per la Decàpoli quello che Gesù aveva fatto per lui e tutti erano meravigliati”.

 

I DEMÒNI

Fatte le necessarie considerazioni sul territorio di Gadara – Gerasa – Gherghesa e sugli indemoniati, passiamo ad affrontare i demòni, argomento estremamente complesso che affronteremo limitatamente ai loro nomi, collegandoli al proprio modo di manifestarsi. Chiedendo “Qual è il tuo nome?” Gesù non dimostra di ignorarlo, ma di costringere lo spirito impuro a dichiararsi, “Il mio nome è Legione, perché siamo in molti”: personalità multipla, sfida? Caos, coacervo di impulsi contrastanti, malvagità poliedrica? Luca riporta “Legione, poiché molti demòni erano entrati in lui”. Una legione romana ammontava a seimila uomini, ma non credo che qualificandosi così lo spirito impuro dominante intendesse dare una cifra; piuttosto si riferiva ad una forza organizzata per distruggere; come faceva notare un fratello, “lo spirito immondo è uno e molti al tempo stesso e può parlare indifferentemente al plurale e al singolare, avendo il male molti volti. Satana infatti è un grande mistificatore e si identifica nelle forme più impensate, come il serpente nel giardino di Eden”. Pensiamo a cosa fa oggi, seducendo anche coloro che avrebbero gli elementi per salvarsi rivolgendosi a Cristo e preferiscono darsi al marianesimo, seguendo presunte apparizioni o miracoli che, secondo la dottrina autentica trasmessaci dagli apostoli, non possono avvenire o, se questo avviene, si tratta di manifestazioni che provengono da Colui che può assumere le sembianze anche di “angelo di luce” (2 Corinti 11.14). Un’imitazione, un tentativo maldestro che seduce chi a Cristo non appartiene.

Legione”, quindi, è la risposta che lo spirito immondo dà a Gesù riguardo al nome che aveva, ma non va inteso come proprio, piuttosto quanto rivelatore di una caratteristica. Ecco allora che questo ci consente di estendere il ragionamento al tipo di spiriti che agiscono sull’uomo (e a suo danno) secondo la Scrittura fermo restando che, per poter operare, queste forze necessitano di un ambiente favorevole e preparato da tempo che ha loro concesso volutamente degli spazi.

Da Numeri 5.14 sappiamo che esiste uno “spirito di gelosia”, che troviamo nel caso di un rapporto coniugale, ma è possibile estenderlo a tutti i quei casi in cui vi sono tradimenti e congiure. Generatore di odio profondo, non si placa neppure di fronte all’evidente innocenza della persona di cui si sospetta. Questo spirito trova tra le sue manifestazioni anche con l’invidia attiva, poiché la gelosia è un sentimento tormentante a molti livelli e quasi sempre pensa di trovare un acquietamento nell’eliminazione, in un modo o in un altro, del soggetto ritenuto avverso. Primo esempio, in questo caso, fu Caino.

1 Samuele 16.14 ci dice “Lo spirito del Signore si era ritirato da Saul e cominciò a turbarlo uno spirito malvagio, venuto dal Signore”. Non che da Dio possa venire il male: solamente il Signore, togliendogli il suo spirito, permise a un altro di entrare in Saul. È una legge fisico-spirituale. In cosa si manifesta questo spirito? Nell’opposto della pietà e carità di Dio vista nel dono dello Spirito Santo. “Malvagio” è chi opera il male compiacendosene o restando indifferenze alle conseguenze che esso provoca, chi tende a delinquere che, ai tempi della Legge, sarebbe stato “estirpato dal popolo” con la condanna a morte e, se presente oggi nella Chiesa, va affrontato per non lasciargli alcuna possibilità di espressione. Per lo spirito malvagio, ma anche per gli altri, vale la regola che può agire se l’uomo glielo consente esattamente come avvenne per Saul, il cui spirito di Dio gli fu tolto perché aveva compiuto scelte autonome in opposizione a quando gli era stato da Lui ordinato (1 Sam. 15.9).

Altro tipo di spirito, subdolo e seduttore, è lo “spirito di divinazione”, o “di pitone” secondo altre traduzioni. Lo troviamo espressamente citato in Atti 16.16: “Mentre andavamo alla preghiera, venne verso di noi una schiava che aveva uno spirito di divinazione: costei, facendo l’indovina, procurava molto guadagno ai suoi padroni”. Qui va prestata attenzione, poiché le Scritture si riferiscono sia ai ciarlatani, sia a quelli che sono in grado di aprire “porte che devono restare chiuse”, come avvenne per Saul e la negromante che consultò perché non otteneva risposte dal Signore (1 Sam. 28.7-9). Lo “spirito di divinazione” è quindi un’alternativa di comodo, che consente a chi non può o non vuole rivolgersi a Dio di avere un risultato apparentemente appagante. Sono molti quelli che vanno in rovina spendendo cifre enormi per ottenere risposte da queste persone attorno al loro futuro e per risolvere problemi di lavoro o di ciò che è falsamente chiamato “amore”. Oggi come in passato, molti governanti e politici vi ricorrono o vi hanno ricorso, per non parlare di attori, scrittori, editori e imprenditori anche molto conosciuti. Purtroppo, anche se si tenta a crederlo, importanti medici. Ricordiamo in opposizione Levitico 19.31 “Non vi rivolgete agli spiriti, né agli indovini; non li consultate per non contaminarvi a causa loro. Io sono il Signore, vostro Dio”. Ancora più dettagliate le parole di Deuteronomio 18.10-12: “Non si trovi in mezzo a te chi fa passare per il fuoco il suo figlio o la sua figlia – sacrifici umani –, né chi esercita la divinazione o il sortilegio o il presagio o la magia, né chi faccia incantesimi, né chi consulti i negromanti o gli indovini, né chi interroghi i morti, perché chiunque fa queste cose è in abominio al Signore”. Per finire si possono ricordare le parole in Isaia 8.19,20: “Quando vi diranno: «Interrogate i negromanti e gli indovini che bisbigliano e mormorano formule. Forse un popolo non deve consultare i suoi dèi? Per i vivi consultare i morti?», attenetevi all’insegnamento e alla testimonianza. Se non faranno un discorso come questo, non ci sarà aurora per loro”.

Al quinto posto troviamo lo “spirito di smarrimento”, tradotto anche con “stordimento” (ma anche quello “di errore”) menzionato in Isaia 19.14 che, per il tempo in cui viviamo, possiamo riconoscere anche nelle dipendenze da sostanze stupefacenti, dall’alcool al gioco d’azzardo al sesso compulsivo, alla ricerca di filosofie alternative a una condotta degna dell’uomo pensante, tutto ciò insomma che rende le persone schiave e incapaci di condurre una vita libera e indipendente da esse.

Il sesto è lo “spirito muto e sordo” citato in Marco 9.25 che un fratello giustamente individua nell’eredità genetica a causa di incesti, rapporti fra consanguinei o privi di profilassi preventiva tanto nel concepimento che in gravidanza.

Infine il settimo, lo “spirito d’infermità” citato in Luca 13.11, connesso con il disfacimento del nostro corpo, definito dall’apostolo Paolo “corpo dell’umiliazione” o con la frase “il nostro uomo esteriore che si va disfacendo” (Filippesi 3.20; 2 Corinti 4.16).

L’opera di Satana dunque, “principe di questo mondo”, si concreta nella disubbidienza o nell’errore che puntualmente si paga e oggi, con i progressi della scienza medica, lo posiamo riconoscere nel momento in cui questa si rivela impotente a porvi rimedio esattamente come, a Gherghesa, quell’uomo “più volte era stato legato con catene e ceppi, ma aveva spezzato le catene e spaccato i ceppi, e nessuno riusciva più a domarlo”, oppure secondo Luca 8.29 “Allora lo tenevano chiuso, legato con catene e ceppi ai piedi, ma egli spezzava i legami e veniva spinto dal demonio in luoghi deserti”. Catene e ceppi nei quali possiamo identificare quei farmaci, o interventi invasivi, che tendono ad annullare la volontà distruttiva della persona ritenuta malata di mente, ma sono impotenti a ristabilirla, a restituirle quella dignità che Satana le ha tolto.

Tornando al nostro episodio: lo spirito immondo sa di dover lasciare quel corpo che ormai di umano aveva solo la forma ma, non volendo abbandonare un territorio a lui non ostile, individua subito nel branco di maiali i suoi nuovi, ideali elementi idonei ad ospitare lui e i suoi simili. Ecco perché i demoni non “chiedono”, ma “scongiurano” Gesù di lasciarli andare da loro, verbo che accomuna tutti e tre i racconti e che ci parla del fatto che Satana, per quanto forte, di fronte alla persona di Gesù gli deve sottostare. In effetti, in una creatura classificata dalla Legge come “impura”, l’Avversario avrebbe potuto trovare una sistemazione, cosa che poi avverrà per un tempo molto breve. Senz’altro indispensabile l’annotazione di Luca che scrive in 8.31 “E lo scongiuravano che non ordinasse loro di andarsene nell’abisso”, l’unico luogo che per loro è dimora ma che evidentemente rifiutano: “Dio infatti non risparmiò gli angeli che avevano peccato, ma li precipitò in abissi tenebrosi, tenendoli prigionieri per il giudizio” (2 Pietro 2.4). Riferimenti sull’abisso li abbiamo in Apocalisse 9.1,2; 11.7; 17.8 e soprattutto 20.1-3: “E vidi un angelo che scendeva dal cielo con in mano la chiave dell’abisso e una grande catena. Afferrò il drago, il serpente antico, che è diavolo e il Satana, e lo incatenò per mille anni; lo gettò nell’abisso, lo rinchiuse e pose il sigillo sopra di lui, perché non seducesse più le nazioni, fino al compimento dei mille anni, dopo i quali deve essere lasciato libero per un po’ di tempo”.

 

I MAIALI

Sappiamo che la Legge ebraica classifica gli animali come “puri” o “impuri” fondamentalmente per uso alimentare. In particolare il maiale ha una carne tossica che si accentua soprattutto nelle zone calde, ma anche in quelle fredde per quanto in misura minore. Il consumo abituale della sua carne causa dipendenza e finisce inevitabilmente per intossicare l’organismo causando calcoli biliari, obesità e inflaccidimento muscolare perché, contenendo molto zolfo, indebolisce i muscoli e li rende facili a subire lesioni. Compatibile con quella umana, si sospetta fortemente che, nei consumatori abituali di questa carne, ci sia una maggiore insorgenza di patologie specifiche come Alzheimer e Parkinson.

Se però andiamo a cercare gli esempi, o i paragoni, in cui il maiale è protagonista nella Scrittura a parte la sua classificazione legale, scopriamo elementi interessanti che lo collegano all’immondizia morale pur essendo, in quanto animale, al di là del bene e del male:

 

  1. Un anello d’oro al naso di un porco, tale è la donna bella priva di senno” (Proverbi 11.22), aforisma che chiama in causa tutte quelle donne, ma oggi anche uomini, giovani o meno, che modellano in loro stile di vita rendendosi strumenti dell’Avversario, sedotte dalla vanità a tal punto, come scrive un fratello, “da penalizzare il proprio corpo sia come immagine che per prestazione”. E i riferimenti possibili sono davvero innumerevoli e sotto gli occhi di tutti.
  2. Non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle ai porci, perché non le calpestino con le zampe e poi si voltino per sbranarvi” (Matteo 7.6), frase in cui, al di là delle numerose riflessioni che abbiamo fatto nell’affrontarla, possiamo individuare la proibizione al proselitismo che spesso genera entusiasmi presuntuosi fuori luogo dai quali germinano ignoranza, estremismo, integralismo e violenza, come purtroppo la storia antica e moderna insegna.
  3. …avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci, ma nessuno gliene dava” (Luca 15.16). È un verso conosciuto appartenente alla parabola del figlio prodigo che lasciò la casa paterna per andare in un paese straniero dove sperperò tutta la sua eredità, morale, spirituale e materiale con le prostitute per poi alla fine ritrovarsi senza avere di che mangiare.
  4. Si è verificato per loro il proverbio: «Il cane è tornato al suo vomito e la scrofa lavata è tornata ad avvoltolarsi nel fango»” (2 Pietro 2.22). Qui bisogna prestare attenzione: Pietro scrive dell’eventualità in cui una persona abbia deliberatamente scelto di abbandonare la fede abbracciata e di cui ha personalmente sperimentato gli effetti: “Se infatti, dopo essere sfuggiti alle corruzioni del mondo per mezzo della conoscenza del nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo, rimangono di nuovo in esse invischiati e vinti – la differenza fra la crisi passeggera e l’abbandono – la loro ultima condizione è divenuta peggiore della prima. Meglio sarebbe stato per loro non aver mai conosciuto la via della giustizia piuttosto che, dopo averla conosciuta, voltare le spalle al santo comandamento che era stato loro tramesso”.

 

Ecco, scongiurando Gesù di mandarli nei porci, gli spiriti immondi, tramite il loro rappresentante, dimostrano di trovare in quegli animali i loro ospiti ideali dal punto di vista morale; una volta entrati in loro però, proprio i maiali, presi dal terrore, li rifiutarono precipitando nel mare, non avendo un senso del pericolo e della morte con il nostro.

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08.01 – GADARA I/III (Marco 5.1-20)

8.01 – Gadara I (Marco 5.1-20)

 

1Giunsero all’altra riva del mare, nel paese dei geraseni. 2Sceso dalla barca, subito dai sepolcri gli venne incontro un uomo posseduto da uno spirito impuro. 3Costui aveva la sua dimora fra le tombe e nessuno riusciva a tenerlo legato, neanche con catene, 4perché più volte era stato legato con ceppi e catene, ma aveva spezzato le catene e spaccato i ceppi, e nessuno riusciva più a domarlo. 5Continuamente, notte e giorno, fra le tombe e sui monti, gridava e si percuoteva con pietre. 6Visto Gesù da lontano, accorse, gli si gettò ai piedi 7e, urlando a gran voce, disse: «Che vuoi da me, Gesù, Figlio del Dio altissimo? Ti scongiuro, in nome di Dio, non tormentarmi!». 8Gli diceva infatti: «Esci, spirito impuro, da quest’uomo!» 9E gli domandò: «Qual è il tuo nome?». «Il mio nome è Legione – gli rispose – perché siamo in molti. 10E lo scongiurava con insistenza perché non li cacciasse fuori dal paese. 11C’era là, sul monte, una numerosa mandria di porci al pascolo. 12E lo scongiurarono: «Mandaci da quei porci, perché entriamo in essi». 13Glielo permise. E gli spiriti impuri, dopo essere usciti, entrarono nei porci e la mandria si precipitò giù dalla rupe nel mare; erano circa duemila e affogarono nel mare. 14I loro mandriani allora fuggirono, portarono la notizia nella città e nelle campagne e la gente venne a vedere che cosa fosse accaduto. 15Giunsero da Gesù, videro l’indemoniato seduto, vestito e sano di mente, lui che era stato posseduto dalla Legione, ed ebbero paura. 16Quelli che avevano visto, spiegarono loro che cosa era accaduto all’indemoniato e il fatto dei porci. 17Ed essi si misero a pregarlo di andarsene dal loro territorio. 18Mentre risaliva nella barca, colui che era stato indemoniato lo supplicava di poter restare con lui. 19Non glielo permise, ma gli disse: «Va’ nella tua casa, dai tuoi, annuncia loro ciò che il Signore ti ha fatto e la misericordia che ha avuto per te». 20Egli se ne andò e si mise a proclamare per la Decàpoli quello che Gesù aveva fatto per lui e tutti erano meravigliati”.

 

Con questo passo ci troviamo di fronte ad un racconto impegnativo per diverse ragioni: è infatti un episodio contestato, quanto a veridicità, per il modo diverso con cui è raccontato dai sinottici, per le indicazioni geografiche apparentemente improbabili e contrastanti, per la zona considerata da molti commentatori territorio pagano e altro. Per quel che ci riguarda, il passo di Marco in particolare ci offre una cronaca estremamente ricca di elementi dottrinali e spirituali, non affrontabile in un unico capitolo, o incontro.

Iniziamo inquadrando il nome del territorio: il testo di Matteo riporta “Xòran ton Gerghesenòn”, cioè “Contrada dei Gergheseni”, mentre Marco e Luca “Gadarenòn”, “Gadareni”, che molti, sulla base di altri testi antichi, hanno voluto sostituire con la parola “Gherasenòn”, “Geraseni”. Potremmo dire che “nella zona”, per quanto distanti una ventina di chilometri circa, c’erano due città, Gerasa e Gadara, la prima troppo lontana dal lago per cui difficilmente avrebbe potuto dare nome a quel distretto mentre la seconda, più vicina, una delle città greche della Decàpoli e capitale della Perea, avrebbe potuto meglio costituire un riferimento geografico, per quanto non corrispondente alla località effettiva in cui avvenne l’episodio. Gerasa non era molto conosciuta, ma Gadara sì e in questo modo chiamare quel luogo “la contrada dei Gadareni” era plausibile. Abbiamo così Gerasa e Gadara, ma anche Gherghesa, la cui esistenza è attestata da Origene ed Eusebio (200 d.C. circa), posta ad Oriente del lago, il cui nome poi fu mutato in Gersa, o Kerza. Gherghesa era posta nelle immediate vicinanze del lido e, sopra di lei, sorge a picco un monte in cui si trovano delle antiche tombe che rendono tecnicamente plausibile il racconto dei sinottici e che quindi fosse quello il paese nei pressi del quale Gesù fosse approdato coi discepoli.

Va ricordato che gli Autori dei Vangeli non scrivono per dare dei resoconti unitari, ma con scopi spirituali, cosa ben diversa rispetto al dare testimonianza – faccio per dire – in un processo in cui ciò che dicono i testi deve coincidere.

Fermiamoci un attimo, leggiamo i passi paralleli e chiediamoci chi degli Apostoli fosse presente: certamente Matteo e Pietro. Il primo scrive autonomamente, il secondo racconta l’episodio a Marco con molti più dettagli, forse spronato con domande e chiarimenti dall’evangelista stesso. Leggendo Matteo 8.28-34 vediamo che l’episodio viene affrontato quasi accennandolo con molti particolari in meno rispetto a Marco e Luca, che scrive dopo aver fatto ricerche accurate e intervistato i testimoni: Matteo parla di due indemoniati tratteggiandoli a grandi linee mentre gli altri si soffermano su uno solo, ma riesce difficile parlare di discordanza proprio per la prospettiva spirituale che tutti loro si prefiggono in quando la questione non è narrare un fatto storico, ma presentarlo in modo unico anziché univoco.

La nostra attenzione, per ora, si deve focalizzare sul nome “Gadara” che, come da radice, apparteneva alla tribù di Gad la quale, assieme a quella di Ruben e alla metà di Manasse, chiese a Mosè di non passare il Giordano e che gli fosse assegnato il paese di Galaad, ricco di pascoli perché possedevano parecchio bestiame (Numeri 32.1). Ricordiamo infatti le loro parole: “Se abbiamo trovato grazia ai tuoi occhi, sia concesso ai tuoi servi il possesso di questa regione: non farci passare il Giordano” (v.5). Fu una richiesta certo dettata da interesse, ma non per questo quelle tribù non rifiutarono di dare il loro contributo militare alla conquista del Paese al di là del fiume. Per questo fu loro risposto: “Se fate questo, se vi armerete davanti al Signore per andare a combattere, se tutti quelli di voi che si armeranno passeranno il Giordano davanti al Signore finché egli abbia scacciato i suoi nemici dalla sua presenza, se non tornerete fin quando la terra sia stata sottomessa davanti al Signore, voi sarete innocenti di fronte al Signore e di fronte a Israele, e questa terra sarà vostra proprietà alla presenza del Signore. Ma se non fate così, voi peccherete contro il Signore; sappiate che il vostro peccato vi raggiungerà. Costruitevi pure città per i vostri fanciulli e recinti per le vostre greggi, ma fate quello che la vostra bocca ha promesso” (vv.20-24). E così avvenne, con Gad, Ruben e Manasse che mantennero la loro parola.

A parte quindi il nome greco di tutta la regione, Decàpoli, il fatto che fosse un territorio più “aperto” ad altre culture e che indubbiamente fosse più forte l’influenza greca rispetto a quella dell’Israele propriamente detto, Gesù, approdando in territorio Gadareno, riconobbe quella zona parte integrante dei confini assegnati da Mosè e Giosuè al popolo ebraico. Viceversa, cioè se la Decàpoli fosse stata un territorio esclusivamente pagano, vi sarebbe una palese contraddizione con le parole dette alla donna Sirofenicia, “Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa di Israele” (Marco 7.24-30). Non era ancora giunto il tempo per cui del Vangelo avrebbero potuto beneficiare tutti i popoli.

Non si può concludere questa introduzione senza notare che il miracolo degli indemoniati gadareni occupa un punto centrale, importante, determinante, essendo il secondo dei tre esorcismi riportati da Marco: il primo fu quello dell’indemoniato nella Sinagoga di Capernaum e il terzo, ancora da trattare, fu “di riparazione” perché i discepoli, tranne Pietro, Giacomo e Giovanni presenti alla trasfigurazione, non erano riusciti a guarirlo (9.14-29). Dopo aver accennato al territorio, passiamo ad esaminare i protagonisti del miracolo, cioè gli indemoniati,  i demòni, i porci, i mandriani e gli abitanti di Gerghésa.

 

GLI INDEMONIATI

La prima questione che si pone, cioè se fossero due o uno, credo di risolva da sola nel senso che Matteo, che non scende nei dettagli, scrive che erano due, entrambi con le stesse manifestazioni: “Due indemoniati, uscendo dai sepolcri, gli andarono incontro; erano tanto furiosi che nessuno poteva passare per quella strada” (8.28). Da qui in poi l’evangelista parla sempre al plurale, ma non li tratteggia come Marco e Luca. A questo punto le supposizioni sono due: o erano entrambi identici nei comportamenti, o uno li aveva più accentuati e si caratterizzava di più per cui gli altri evangelisti si soffermano su uno. Il numero due, poi, indica tanto associazione quanto opposizione per cui già di per sé abbiamo un indice di disordine, divisione, discordia, sconnessione, qualcosa che non può durare nel tempo. Pensiamo a quanto siano drammatici i disturbi della personalità. Alla luce quindi di quanto leggiamo nelle due altre cronache dello stesso episodio, quindi, d’ora in avanti i due indemoniati verranno considerati come uno solo. Luca riporta “Da molto tempo non portava vestiti, né abitava in casa, ma in mezzo alle tombe” (8.27), “sepolcri” o “tombe” diversi da come le conosciamo noi, essendo grotte naturali o scavate nelle rocce. Quegli indemoniati dunque occupavano le tombe ancora libere perché in tal modo potevano ripararsi dalle intemperie, come animali. Abitavano in un luogo impuro, di silenzio e morte cui si aggiungeva la loro disperazione caratterizzata da uno stato mentale profondamente alterato. Parlando al singolare per le ragioni sopra esposte, viene ritratto da Marco e Luca un individuo sconnesso che vive fuori dalla società, caratterizzato da gesti insensati e violenti, indomabile. Il fatto che per proteggere loro stessi i suoi concittadini avessero trovato come unico rimedio quello di legarlo con catene senza successo, poiché “nessuno riusciva a tenerlo legato, neanche con catene, perché più volte era stato legato con ceppi e catene, ma aveva spezzato le catene e spaccato i ceppi, e nessuno riusciva più a domarlo” ci parla dell’impotenza dell’uomo di fronte a un’entità, come quella satanica, a lui superiore.

Presumo che quei “ceppi e catene” utilizzati siano stati sempre più forti man mano che questo personaggio li rompeva eppure, nonostante gli stratagemmi, ogni contenzione era impossibile. Marco ci dice che “continuamente, notte e giorno, fra le tombe e sui monti, si percuoteva con pietre”, quindi gli spiriti che lo possedevano, anziché avere riguardo per lui, lo oltraggiavano ancora di più, facendogli del male. Quell’uomo, o uomini, erano stati privati di qualsiasi forma di dignità e ragione fino all’annullamento del loro istinto di sopravvivenza, avendo raggiunto il più alto livello di dipendenza dall’Avversario che li aveva colpiti nella ragione. La stessa cosa avviene anche oggi, quando uno spirito impuro si impadronisce di una persona indipendentemente dal grado di possessione: dimentichiamo l’immagine che danno i media dell’indemoniato e soffermiamoci sulla mancanza di dignità alla quale porta il continuo rifiuto del messaggio di ravvedimento del Vangelo. Senza di lui siamo abbandonati a noi stessi, preda dei nostri desideri e istinti coi quali ci feriamo non fisicamente ma, come vedremo quando esamineremo i nomi degli spiriti immondi, moralmente. La sofferenza di quell’uomo non conosceva periodi di pausa, ma vagava “notte e giorno”, nemico prima di se stesso e poi dei propri simili che di fronte a lui/loro provavano l’unica reazione possibile: ribrezzo e soprattutto paura, talché “nessuno poteva passare per quella strada” (Matteo 8.28).

Ebbene lo spirto impuro (erano molti, ma ce n’era uno più forte degli altri), vedendo Gesù, prende immediatamente coscienza del fatto che era arrivato chi lo avrebbe sconfitto e subito corre da lui, gli si getta ai piedi e gli dice “Che vuoi da me Gesù, figlio del Dio altissimo? Ti scongiuro in nome di Dio di non tormentarmi!”. Di fronte a un’altra traduzione, “Che hai in comune con me?”, un fratello annota “Tanto Satana che Gesù si identificano nell’uomo, ma con scopi totalmente diversi”. L’uomo è infatti al tempo stesso oggetto dell’odio dell’uno e dell’amore dell’altro, con la differenza che il primo si impone violentemente e l’altro si propone lasciando libera scelta.

Satana riconosce Gesù come “Figlio del Dio altissimo” prima degli uomini, ma lo fa perché sa chi è; ancora di più sa che il suo destino è il tormento nello “stagno di fuoco e zolfo”. Ricordiamo che Matteo riporta “Sei venuto a tormentarci prima del tempo?” (v.29), frase con cui la “Legione” gli ricorda che non era ancora giunto quel momento, per cui avrebbe dovuto lasciarli stare dov’erano. Per quanto forte sull’essere umano che gli ha dato spazio – ricordiamo le parole “fuggite il male, ed egli fuggirà da voi” –, nessuna entità avversa potrà conseguire una vittoria sul Cristo ed è costretta ad ubbidirgli per cui anche in quel caso, pur di non allontanarsi da quel territorio, leggiamo che “lo scongiurava con insistenza perché non li cacciasse fuori dal paese” e “Mandaci da quei porci, perché entriamo in essi”.

Isaia 65.2-5 ci fornisce un interessante e triste ritratto delle condizioni di chi viveva in quel Paese: “Ho teso la mano ogni giorno a un popolo ribelle; essi andavano per una strada non buona, seguendo i loro propositi, un popolo che mi provocava sempre, con sfacciataggine. Essi sacrificavano nei giardini – non nel Tempio –, offrivano incenso sui mattoni – non sull’altare – abitavano nei sepolcri – gli indemoniati? –, passavano la notte in nascondigli, mangiavano carne suina – la mandria custodita – e cibi immondi nei loro piatti. Essi dicono: «Sta’ lontano! Non accostarti a me, che per te sono sacro»”.

Abbiamo qui la forma di ribellione più subdola, peggiore del rifiuto aperto di fronte al tema dell’esistenza di Dio perché qui è riconosciuto, ma a patto che Lui si adatti al volere della creatura che di fatto lo ha abbandonato, pretendendo che si pieghi al suo volere: il sacrificio nei giardini e l’incenso sui mattoni sono un’interpretazione carnale e comoda di fronte a un comandamento chiaro che vedeva nel Tempio il luogo comune in cui si dovevano incontrare YHWH e il suo popolo. Il Tempio era luogo sacro, protetto e permeato di santità che si realizzava nell’incontro tra Lui e il popolo adorante; l’altare, poi, costruito con misure e materiali che prefiguravano la perfezione del sacrificio del Figlio in relazione alle aspettative del Padre, era stato sostituito da un materiale, il mattone, che non aveva alcuna connessione con Lui, estraneo come le menti di chi aveva concepito quel sistema religioso con fini completamente diversi.

Il risultato lo vediamo leggendo l’episodio degli indemoniati: la presenza della mandria di porci e dei guardiani ci dice che era scomparso il concetto di puro e impuro, gli abitanti di Gherghesa pregheranno Gesù di andarsene perché aveva causato loro un danno economico senza considerare i benefici spirituali che avrebbero ottenuto ascoltando la Sua predicazione. È scritto infatti che “…quando arrivarono da Gesù, trovarono l’uomo dal quale erano usciti i demòni, vestito e sano di mente, che sedeva ai piedi di Gesù, ed ebbero paura” (Luca 8.35). Paura e non gioia per quel loro concittadino/i finalmente liberato. Paura di pensare, di prendere in considerazione che poteva esserci una realtà diversa, di abbandonare le loro convinzioni: per loro sarebbe stato meglio che le cose restassero com’erano, era preferibile continuare ad evitare la strada su cui avrebbero potuto trovarsi quegli indemoniati, che non aprire un’altra pagina della loro storia e vita.

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07.25 – CINQUE CANTICI V.V (Isaia 53.10-12)

7.25 – Cinque cantici V-V (Isaia 53.10-12)

 

10Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con i dolori. Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. 11Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità. 12Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha spogliato se stesso fino alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i colpevoli”.

 

Se nelle riflessioni precedenti abbiamo visto ciò che il Servo ha dovuto subire dagli uomini a Lui avversi e in particolare i loro piani per risolvere il problema che costituiva la Sua predicazione – ricordiamo le parole “tolto di mezzo” e “sradichiamolo dalla terra dei viventi, di lui non rimanga alcun ricordo” – il verso 10 inizia con un “Ma” che contrappone la loro volontà a quella di Dio. Allora leggiamo che “…al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori” nel senso che ha dato il proprio benestare al fatto che gli uomini potessero fargli ciò che avevano in animo, ma – attenzione – non fu mai nulla di più di quanto era stato stabilito: ricordiamo che ci fu un solo momento fissato per questo e che solo in quell’istante ebbero potere su di Lui. Possiamo pensare quando a Nazareth intendevano buttarlo giù da una rupe, a quando vollero farlo re dopo aver moltiplicato i pani e i pesci, a quando “caddero a terra” dopo che Gesù, al Getsemane, disse “Sono io”.

Quindi l’uomo, che mai come nel momento in cui aveva Nostro Signore nelle mani si sentì autonomo e libero di fargli ciò che voleva, in realtà si mosse all’interno di confini ristretti e ben precisi. Ricordiamo che non ebbe potere neppure sul Suo corpo poiché non fu consentito ai torturatori di spezzargli neppure un osso. Così scrive Giovanni in 19.31-37: “Era il giorno della Parasceve– il giorno della preparazione della festività del sabato – e i giudei, perché i corpi non rimanessero sulla croce durante il sabato (era infatti un giorno solenne quel sabato), chiesero che fossero spezzate loro le gambe e fossero portati via. Vennero dunque i soldati e spezzarono le gambe all’uno e all’altro che erano stati crocifissi insieme con lui. Venuti però da Gesù, vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue ed acqua. Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate. Questo infatti avvenne perché si compisse la Scrittura: «Non gli sarà spezzato alcun osso». E un altro passo della Scrittura dice ancora: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto»”.

In particolare il primo riferimento possibile è all’agnello pasquale, cui era comandato che nessun osso gli fosse rotto (Esodo 12. 3-14 e Numeri 9.12).  E “Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato” (1 Corinti 5.7) quale Agnello di Dio perfetto. Il primo riferimento all’Antico Patto attese circa 1500 anni prima di adempiersi nel sacrificio di Gesù e la pericope “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto” è di Zaccaria 12.10, cioè circa 500 anni prima che Cristo assumesse una forma umana. Il Cristo doveva venire “trafitto” e certo quell’anonimo soldato, dandogli quel colpo, non immaginava di adempiere ciò che era stato stabilito. L’uomo, quindi, non fa mai in ogni caso ciò che vuole, ma solo quello che Dio gli consente.

Proseguendo nella lettura del decimo verso del canto, l’attenzione di Isaia si focalizza sul Servo, che “si offrirà in sacrificio di riparazione”. E qui risiede il mistero a lungo tempo nascosto nella storia sul perché sia richiesta una vita innocente per pagare il prezzo del peccato: chi ha un animo sensibile prova disagio in questo, al fatto che dal peccato di Adamo ed Eva sia sempre stata una vita estranea alla trasgressione a subirne le conseguenze, ma se ci pensiamo si tratta di un pensiero non correttamente formulato ed influenzato dalla repulsione che suscita la morte di un animale. Dobbiamo pensare che ai nostri progenitori era stata affidata la tenuta responsabile del territorio di Eden e che la sopravvivenza di tutto quel santo ecosistema, in cui morte e violenza non esistevano, dipendeva da loro perché superiori a tutti gli altri esseri viventi essendo dotati di libero arbitrio e di coscienza. Astenendosi dal cibarsi del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male a vantaggio di quello della vita, rinnovavano quotidianamente l’amore per il loro creatore da un lato, per loro stessi dall’altro perché in tal modo mantenevano l’equilibrio di quella vita perfetta che si rifletteva su tutto il creato che erano chiamati ad amare e difendere. La morte non esisteva quindi né per loro, né per tutte le altre creature. Il fatto che fossero nudi e non se ne vergognassero significa anche che la temperatura di quell’ambiente rendeva superfluo qualunque vestito che riparasse dal freddo, dal vento, dalle intemperie e dal disagio. Ogni cosa era permeata dalla presenza di Dio e dalla loro. L’assenza del vestito, inoltre, stava ad indicare che non vi era nulla da nascondere, non vi erano riserve in quel rapporto, la fiducia era totale tanto fra creature che fra loro e il creatore.

Col peccato il primo sacrificio avvenne proprio in Eden: l’uomo, divenuto incompatibile con la santità di quel luogo, avrebbe dovuto avere un riparo, essere protetto da un vestito e Dio provvide a fargli una tunica in pelle di animale perché i nostri progenitori non sapevano come fare a coprirsi. Le foglie di fico intrecciate non servivano a nulla. Lì morì il primo, o i primi innocenti. L’animale non aveva peccato, ma subì le conseguenze del peccato dell’uomo. Da lì in poi ne morirono tanti di loro, uccisi da altri perché il disequilibrio, conseguenza della trasgressione, aveva oramai irrimediabilmente corrotto il creato. Tutti erano fuori dal Giardino di Dio.

La cultura pagana che abbiamo purtroppo acquisito fin da bambini ci ha fatto assimilare alla parola “sacrificio” qualcosa di personalmente sgradevole e ancora oggi la intendiamo in questo modo, pensando che significhi rinunciare a qualcosa di nostro; eppure “sacri-ficio” significa “faccio una cosa sacra”, quindi che appartiene a una dimensione che non è la mia, che non posso giudicare perché il mondo del sacro, se mi coinvolge, lo fa senza rendermi totalmente partecipe e non potrebbe farlo perché è lontano da me. Ho i piedi piantati per terra, non posso alzarmi in volo senza ricorrere a strumenti che mi aiutino e, in ogni caso, presto o tardi tornerò inevitabilmente al suolo. Parlo di me come uomo di carne, ovviamente.

Il sacrificio dell’innocente non è qualcosa che posso capire o giudicare, mentre ho la facoltà di scegliere se cibarmi di carne e pesce oppure no, per non essere coinvolto in morti che non condivido. Ma il fatto che il sacrificio sia “una cosa santa al Signore” è proprio quel “al Signore” che pone un confine tra le mie possibilità intellettive e la Sua realtà, posto che oggi il sacrificio dell’Antico Patto è cosa superata e inutile. Perché comunque “conosciamo in parte”. Tutto questo tenendo ben presente che la mentalità di una persona e di un popolo è profondamente radicata nella propria epoca e nel territorio in cui vive e il sacrificio, nella sua accezione originaria, va appunto dalla caduta di Adamo ed Eva fino alla morte di Gesù, quell’ultimo Adamo fatto “in spirito vivificante” che, a differenza di quello dell’animale, dà la vita ed è stato fatto “una volta per sempre”.

Secondo il nostro verso decimo “vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore” proprio perché perfetto, compiuto, senz’altro elemento da aggiungere. Altrimenti non avrebbe avuto la totalità come caratteristica.

Nel “vedrà una discendenza” individuiamo la Chiesa, certo non quella dei (pre)potenti, della grande finanza, della violenza o della superstizione, ma dei “beati” con cui si apre il sermone sul monte, quella degli Atti e delle lettere, quella dei salvati che operano in base ai doni ricevuti oggi sparsi nelle denominazioni nessuna delle quali può arrogarsi il diritto di definirsi unica. In ciascuna esiste il “rimanente fedele” che attende il ritorno del Suo Signore. Il Servo “vivrà a lungo”, cioè per tutto il tempo che durerà la terra e oltre, quindi nell’eternità, “nei secoli dei secoli”, vivrà ben oltre al metro umano che vede una morte a circa 33 anni il fermarsi di una vita nel pieno vigore. Ricordiamo le parole del Risorto all’apostolo Giovanni: “Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi” (Apocalisse 1. 18).

Isaia al verso 11 dà una spiegazione sobria di un aspetto del “sacrificio di riparazione” del Servo con le parole “Dopo il suo intimo tormento” in cui la Sua sofferenza viene quantificata: “intimo” cioè “che si trova nella parte più interna e profonda”, che non fu circoscritto al dolore fisico nonostante fosse atroce. Il “tormento” non è un dolore generico, ma qualcosa che rode con insistenza senza dare tregua: quando questo sarà finito, e si concluderà col “gran grido” che precedette di pochi istanti la Sua morte (per infarto), “vedrà la luce” dopo aver conosciuto per la prima e unica volta le tenebre del peccato che alla croce prese su di sé venendo privato dell’assistenza del Padre. La frase “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato” non fu detta da una persona in preda alla sofferenza fisica, ma a quella spirituale. Ricordiamo Romani 5.25: “È lui che Dio ha stabilito apertamente come strumento di espiazione, per mezzo della fede, nel suo sangue, a manifestazione della sua giustizia per la remissione dei peccati passati”.

Ebbene il Servo, dopo aver visto la luce, “si sazierà della sua conoscenza”, traduzione che può trarre in inganno essendo il verso corretto “Egli godrà della fatica dell’anima sua e ne sarà saziato” che prosegue con “giustificherà molti, si addosserà le loro iniquità” (notare il plurale): solo da Lui sarebbe potuta uscire una “stirpe eletta, un sacerdozio regale, una nazione santa, un popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua meravigliosa luce. Un tempo voi eravate un non-popolo, ora invece siete popolo di Dio; un tempo eravate esclusi dalla misericordia, ora invece avete avuto misericordia” (1 Pietro 2.9,10). E qui Pietro ci fa rientrare già nel dodicesimo verso del canto, “Io gli darò in premio le moltitudini”.

Infine, proprio questo verso anticipa le conseguenze del sacrificio del Servo e del suo abbassarsi, dello spogliarsi “fino alla morte” cioè lì fu il suo culmine. “Dei potenti farà bottino” è una profezia che va ancora oltre nei secoli e copre il periodo dell’era della Grazia fino al tempo del giudizio che era stato rivelato già a Davide: “Oracolo del Signore al mio Signore: «Siedi alla mia destra finché io ponga i tuoi nemici a sgabello dei miei piedi. (…) Egli abbatterà i re nel giorno della sua ira, sarò giudice tra le genti, ammucchierà i cadaveri, abbatterà teste su vasta terra” (Salmo 110. 1,5,6), immagine cruda che si realizzerà nel tempo della fine che rappresenta l’alt definitivo di Dio ai progetti degli uomini che Lo escludono.

Annoverato tra gli empi “mentre portava il peccato di molti”, quindi non di tutti perché è solo nel momento in cui l’essere umano accetta quel sacrificio per la propria salvezza eterna che si ottiene il perdono eterno. E nel “mentre intercedeva per i colpevoli” vediamo nell’immediatezza la richiesta di perdono, “perché non sanno quello che fanno”, per i soldati secondo i quali Gesù era un malfattore come tanti, ma anche quella per tutti coloro che sarebbero venuti nel tempo fino ai nostri giorni. Anche noi, prima del nostro incontro con Cristo, non sapevamo quello che facevamo. Ma abbiamo ottenuto perdóno, intercessione e difesa perché “…se qualcuno ha peccato, abbiamo un Avvocato presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto. È lui la vittima di espiazione per i nostri peccato; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo” (1 Giovanni 2.1,2). Amen.

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07.24 – CINQUE CANTICI V.IV (Isaia 53.7-9)

7.24 – Cinque cantici V-IV (Isaia 53.7-9)

 

7Maltrattato si lasciò umiliare e non aprì la bocca. Era come un agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori e non aprì la sua bocca. 8Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo; chi si affligge per la sua posterità? Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi, per la colpa del mio popolo fu messo a morte. 9Gli si diede sepoltura con gli empi, con il ricco fu il suo tumulo, sebbene non avesse commesso violenza né vi fosse inganno sulla sua bocca. 10Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con i dolori. Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. 11Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità. 12Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha spogliato se stesso fino alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i colpevoli.

 

Il sacrificio del Servo (vv. 7-9) e le sue conseguenze (vv. 10-12) sono l’oggetto dell’ultima parte del quinto cantico. “Maltrattato si lasciò umiliare” è una frase che prende in esame tutto ciò che avvenne dall’arresto ai processi che subì, che furono quattro: il primo davanti al Sinedrio, il secondo davanti a Pilato (flagellazione) che lo mandò a Erode il quale a sua volta lo rinviò al governatore. È da notare come tanto nelle parole di Isaia quanto in quelle degli Evangelisti siano del tutto assenti frasi tendenti a suscitare facili sentimenti di orrore o compassione, ma vi sia una descrizione scarna, asettica: “Maltrattato si lasciò umiliare” perché avrebbe potuto benissimo non farlo. È, come anticipato, la cronistoria dal Suo arresto all’arrivo al Golgotha, parola aramaica che Matteo stesso dice “che significa luogo del cranio” (27.33). “Maltrattato” comprende quindi i quattro processi che Gesù subì in cui leggiamo, ad esempio, che “…mentre i capi dei sacerdoti e gli anziani lo accusavano, non rispose nulla. Allora Pilato gli disse: «Non senti quante testimonianze portano contro di te?». Ma non rispose neanche una parola, tanto che il governatore rimase assai stupito” (26. 63,64).  I maltrattamenti di cui parla Isaia sono riferiti, facendo una sommaria cronologia, da Luca 22. 63-65 quando “prima del processo gli bendavano gli occhi e gli dicevano: «Fa’ il profeta: chi ti ha colpito?» e molte cose gli dicevano, insultandolo”. Davanti al Sinedrio abbiamo poi gli sputi in faccia, schiaffi e percosse varie (Matteo 26. 67,68), la flagellazione da Pilato (27.26; Marco 15.15), la corona di spine calcatagli sul capo con colpi di canna, corona non circolare come siamo abituati a pensare guardando l’iconografia medievale, ma del tipo orientale, cioè un copricapo integrale di spine che andava a perforare una zona estremamente vascolarizzata provocando dolori lancinanti e un’assai copiosa perdita di sangue.

C’è connessione con le parole di Geremia quando scrisse di sé “il Signore me lo ha manifestato e io l’ho saputo; mi ha fatto vedere i loro intrighi. E io, come un agnello mansueto che viene portato al macello, non sapevo che tramavano contro di me e dicevano: «Abbattiamo l’albero nel suo pieno vigore, strappiamolo dalla terra dei viventi, nessuno ricordi più il suo nome»” (11. 18,19). In particolare l’ultima frase, “nessuno ricordi più il suo nome”, rispecchia la volontà del Sinedrio, che voleva Gesù condannato sia fisicamente, ma soprattutto all’oblio. Ricordiamo anche tutti i tentativi da loro fatti per soffocare la Chiesa in Gerusalemme e ridurre al silenzio Pietro e Giovanni che là predicavano. Ancora oggi, leggendo le parole su di Lui nel Talmud – quello non censurato per motivi politici e di dialogo cosiddetto interreligioso – c’è da rabbrividire nel leggere le bestemmie tanto sulla Sua persona che su Sua madre e i cristiani.

Tornando alla cronaca della passione e sul “non aprì la bocca”, si potrebbe obiettare che sia un’affermazione non rispondente al vero, poiché Gesù disse delle cose, come ad esempio “D’ora innanzi vedrete il figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire sulle nubi del cielo” (Matteo 26.64), ma Isaia si riferisce al parlare per maledire, cosa che non fece e che l’apostolo Pietro sottolinea con queste parole: “Cristo patì per voi lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme: egli non commise peccato e non si trovò inganno sulla sua bocca; insultato non rispondeva con insulti, maltrattato non minacciava vendetta, ma si affidava a colui che giudica con giustizia” (1 Pietro 2. 21-23).

La seconda parte del verso settimo presenta l’Agnello condotto al macello in cui vediamo il tragitto che gli fecero fare dal pretorio, cioè la fortezza Antonia di Gerusalemme dove risiedeva Pilato, al Calvario, in cui portò la croce che poi fecero trasportare da Simone di Cirene perché Gesù non era in grado di farlo. Occorre rilevare che l’iconografia che ci ha tramandato l’immagine di Nostro Signore, o Simone, che portano la croce con la forma che conosciamo non è corretta, poiché i romani, per loro comodità, erano usi tenere piantato il palo verticale giù terreno già pronto, facendo sì che il condannato arrivasse con quello orizzontale al patibolo.

L’immagine della “pecora muta di fronte ai suoi tosatori” ha poi connessione con “Dopo averlo deriso, lo spogliarono del mantello – di porpora secondo Marco 15.17 – e gli rimisero le sue vesti, poi lo condussero via per crocifiggerlo (Mt.27.31), vesti che poi si divisero tirandole a sorte. Non gli lasciarono nulla, come i tosatori con la pecora.

Proseguendo nella lettura del cantico incontriamo il verso ottavo, di difficile traduzione ma non comprensione, “Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo”: se l’oppressione è quella che abbiamo visto brevemente, a mo’ di panoramica, l’ingiusta sentenza è chiaramente quella della condanna a morte, che un blog ebraico rifiuta quanto a responsabilità di quel popolo, sostenendo che Gesù fu condannato e crocifisso dai romani e non da loro. Ricordiamo però che Pietro, parlando nel Tempio, disse “Il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, il Dio dei nostri padri ha glorificato il suo servo Gesù, che voi avete consegnato e rinnegato di fronte a Pilato, mentre egli aveva deciso di liberarlo; voi invece avete rinnegato il Santo e il Giusto, e avete chiesto che vi fosse graziato un assassino. Avete ucciso l’autore della vita, ma Dio lo ha risuscitato dai morti; noi ne siamo testimoni” (Atti 3.13-15).

Ecco, questo “noi ne siamo testimoni” credo sia un efficace ponte storico con “l’ingiusta sentenza”, poiché per condannare a morte Gesù ci fu, da parte di coloro che avrebbero dovuto essere i custodi della Legge, un’affannosa ricerca di falsi testimoni, in oltraggio al comandamento “Non pronunzierai falsa testimonianza contro il tuo prossimo”. Infatti “I capi dei sacerdoti e tutto il sinedrio cercavano una falsa testimonianza contro Gesù, per metterlo a morte, ma non la trovarono, sebbene si fossero presentati molti falsi testimoni – che evidentemente non avrebbero retto un contraddittorio o di fronte ad un’indagine accurata –. Finalmente se ne presentarono due – il minimo legale – che affermarono: «Costui ha dichiarato: «Posso distruggere il tempio di Dio e ricostruirlo in tre giorni»»” (Matteo 26. 59-61).

La frase riportata dai due testimoni era vera solo in apparenza, poiché Gesù disse “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere”, ma Giovanni annota “Ma egli parlava del tempio del suo corpo”. Poi, alla domanda di Caiafa ”Ti scongiuro, per il Dio vivente, di dirci se sei tu il Cristo, il Figlio di Dio” e alla risposta di Gesù “Tu lo dici” seguita dal verso sul Figlio dell’uomo venire sulle nubi del cielo, seguì l’accusa di bestemmia: “Che ve ne pare? E quelli risposero: «È reo di morte»” (Matteo 27. 62-67).

Credo che le parole “fu tolto di mezzo” rispecchino bene la fretta e la volontà acritica di tutti: la priorità infatti era quella di liberarsi di Gesù a prescindere: Luca scrive che “Pilato, riuniti i capi dei sacerdoti, le autorità e il popolo, disse loro: «Mi avete portato quest’uomo come agitatore del popolo. Ecco, io l’ho esaminato davanti a voi, ma non ho trovato in quest’uomo nessuna delle colpe di cui voi lo accusate, e neanche Erode: infatti ce l’ha rimandato. Ecco, egli non ha fatto nulla che meriti la morte. Perciò, dopo averlo punito – forse perché aveva turbato la sua tranquillità, o credendo di calmare gli animi dei presenti – lo rimetterò in libertà». Ma essi si misero a gridare tutti insieme «Togli di mezzo costui! – ecco Isaia – Rimettici in libertà Barabba». (…) Pilato parlò loro di nuovo, perché voleva rimettere in libertà Gesù. Ma essi urlavano: «Crocifiggilo! Crocifiggilo!». Ed egli, per la terza volta, disse loro: «Ma che male ha fatto costui? Non ho trovato in lui nulla che meriti la morte. Dunque, lo punirò e lo rimetterò in libertà». Essi però insistevano a gran voce, chiedendo che venisse crocifisso, e le loro grida crescevano. Pilato allora decise che la loro richiesta venisse eseguita” (23. 13-24) non prima di dichiararsi ufficialmente estraneo a quell’esecuzione lavandosi le mani in pubblico e dicendo “Sono innocente del sangue – attenzione – di questo giusto; pensateci voi” (Matteo 27.22).

Il verso ottavo si conclude con la domanda “Chi si affliggerà della sua posterità?”, cioè parafrasando: “A chi potrà importare il fatto che da lui non ci sarebbe stata una discendenza?”. E qui arriviamo a un punto interessante e particolare perché tutto il verso, a differenza degli altri, è enigmatico ed è stato tradotto in vari modi. Monsignor Antonio Martini, autore della Bibbia che ne porta il cognome, in una sua nota parla di “passo oscuro” e altri lo definiscono “crux interpretum”. Le versioni che confronteremo però, anziché creare confusione, ci consentono di estendere il significato e trovare nuove vie di comprensione e ciascuno di chi legge questo studio potrà fare le proprie riflessioni:

 

(Ricciotti:)

Dall’oppressione e dal giudizio fu tolto di mezzo: chi potrà narrare la sua generazione, che fu reciso dalla terra dei viventi, percosso dalle colpe del mio popolo?

(Luzzi:)

La morte lo liberò dall’angoscioso giudizio, e fra i contemporanei chi pensava che egli fosse strappato dalla terra dei viventi e colpito per via dei peccati del mio popolo?

(Martini)

Dopo l’oppressione della condanna fu tolto di mezzo. La generazione di lui chi la spiegherà? Or egli dalla terra dei viventi è stato reciso, per le scelleraggini del mio popolo io l’ho percosso

(Diodati 1607)

Egli è stato assunto dalla distretta e dal giudicio: e chi potrà narrar la sua era, benché sia stato reciso dalla terra dei viventi; e, per i misfatti del mio popolo, abbia sofferte battiture?

(Diodati Riveduta)

Fu portato via dall’oppressione e dal giudizio; e della sua generazione chi rifletté che era strappato dalla terra dei viventi e colpito per le trasgressioni del mio popolo?

 

Queste sono le versioni che ho ritenuto di paragonare, tutte corrette perché rispondenti al senso del sacrificio unico e insostituibile, “fatto una volta per sempre”, di Cristo, prima di tutti verso quel popolo che lo rifiutò. In particolare, “la generazione di lui, chi la spiegherà?” si riferisce tanto ai versi coi quali proseguirà il cantico, quanto alla particolarità del Suo tempo, ma anche al fatto secondo cui ben pochi lo riconobbero mentre era in vita. Ricordiamo poi che le sofferenze patite dal Servo sarebbero state le uniche a realizzare quanto descritto da Pietro: “Ma voi siete – nessuno escluso – una generazione eletta, un real sacerdozio, una gente santa, un popolo che Dio si è acquistato, affinché proclamiate le virtù di Colui che vi ha chiamati dalle tenebre alla sua meravigliosa luce” (1 Pietro 2.9). Ecco perché il credente dovrebbe tener ben presente questa descrizione e riflettere prima di compiere qualsiasi scelta.

Resta, prima di concludere, da esaminare il verso nono che, con le parole “sebbene non avesse commesso violenza né vi fosse inganno nella sua bocca”, ricorda ancora una volta l’innocenza perfetta dell’Agnello di Dio. Ma l’inizio, “Gli si diede sepoltura con gli empi, con il ricco fu il suo tumulo” prelude in un certo senso già alla resurrezione e potremmo vederlo come un punto storico-morale di passaggio: la sepoltura coi criminali era quella che avrebbe dovuto avere il corpo di Gesù, gettato in una fossa comune dove certamente finirono i due ladri crocifissi con lui. Successe però un fatto nuovo: “Venuta la sera, giunse un uomo ricco, di Arimatea, chiamato Giuseppe, anche lui era diventato discepolo di Gesù” (Matteo 17.57). Lasciando proseguire Giovanni, “Giuseppe d’Arimatea era discepolo di Gesù, ma di nascosto, per timore dei giudei, (e) chiese a Pilato di prendere il corpo di Gesù. Pilato lo concesse. Allora egli andò e prese il corpo di Gesù. Vi andò anche Nicodemo – quello che in precedenza era andato da lui di notte – e portò circa trenta chili di una mistura di mirra e di aloe. Essi presero allora il corpo di Gesù e lo avvolsero con dei teli, insieme ad aromi, come usano fare i giudei per preparare la sepoltura. Ora, nel luogo dove era stato crocifisso, vi era un giardino e nel giardino un sepolcro nuovo, nel quale nessuno era stato ancora posto. Là dunque, poiché era il giorno della Parasceve dei Giudei e dato che il sepolcro era vicino, posero Gesù” (19. 38-42).

Ecco, questo è ciò il Signore volle rivelare ad Isaia che scrisse queste cose circa 750 anni prima che avvenissero. Certo gli approfondimenti dovrebbero essere ben di più, ma li rimando a quando potremo affrontare la crocifissione con maggiori dettagli.

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07.22 – CINQUE CANTICI V.II (Isaia 53.2-3)

7.22 – Cinque cantici V-II (Isaia 53.2-3)

 

2È cresciuto come un virgulto davanti a lui e come una radice in terra arida. Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere. 3Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo di dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia; era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima. 4Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori; e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. 5Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti. 6Noitutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti. 7Maltrattato si lasciò umiliare e non aprì la bocca. Era come un agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori e non aprì la sua bocca. 8Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo; chi si affligge per la sua posterità? Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi, per la colpa del mio popolo fu messo a morte. 9Gli si diede sepoltura con gli empi, con il ricco fu il suo tumulo, sebbene non avesse commesso violenza né vi fosse inganno sulla sua bocca. 10Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con i dolori. Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. 11Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità. 12Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha spogliato se stesso fino alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i colpevoli.

 

Dopo le due domande introduttive viste nello scorso capitolo in cui Isaia si chiede, alla luce della condotta del popolo costantemente in opposizione ai voleri di Dio, quale frutto avrebbe dato la predicazione profetica e a chi sarebbe stato rivelato “il braccio del Signore”, ecco che il suo sguardo si posa immediatamente sulla figura del Servo, “venuto a salvare ciò che era perito”. Dal verso 2, poi, Isaia passa ad esaminare la figura di questo personaggio che, secondo il metro valutativo umano, è inconcepibile se rapportata a quella di un re, una guida, un liberatore. Un re cresce in una corte, abituato agli agi, ad ottenere ciò che vuole così come si fa da sempre nelle dinastie regnanti o comunque molto ricche. Questo, invece, cresce “davanti a lui”, quindi a Dio e non agli uomini che tuttavia, come sappiamo, ne presero atto quando leggiamo che “cresceva in sapienza, in età e grazia davanti a Dio e davanti agli uomini” (Luca 2.52).

Nella prima parte del secondo verso, però, Isaia sottolinea come si è caratterizzato lo sviluppo della persona di Gesù nel corso della sua esistenza e quel “davanti a lui” ha riferimento con l’unico Suo obiettivo, “fare la volontà di colui che mi ha mandato”: per questo non erano possibili altre alternative al di là del crescere tenendo lo sguardo fisso sul Padre facendo la Sua volontà e avendo con Lui un continuo contatto in preghiera. Lo sviluppo “come un virgulto” e “una radice in terra arida” ci parla poi di un percorso irto di difficoltà e sofferenze: il virgulto, giovane pianta che ha come unico destino quello di crescere, così oggetto di attenzione da parte di chi lo coltiva, nel nostro caso si sviluppa in un terreno ostile perché arido, cioè sterile, povero di umidità ed acqua, con precipitazioni molto scarse. E infatti Gesù, per tutta la sua vita terrena, dovette fare affidamento solo sul Padre per avere quel nutrimento spirituale senza il quale non avrebbe mai potuto affrontare un solo giorno di vita. Ecco la ragione del Suo tempo passato in preghiera, più volte ricordato nei Vangeli. Nella terra arida possiamo agevolmente identificare l’umanità in mezzo alla quale Nostro Signore crebbe, contaminata dal peccato, arsa dal sole, un’umanità che non conosce l’acqua della vita e la confonde con la sabbia. Possiamo vedere anche la terra stessa, non più quella santa del giardino protetto, come leggiamo in Genesi 3.17 “Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie– che ricordiamo era subordinata rispetto ad Adamo – e hai mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato: «Non ne devi mangiare», maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita”.

Il comune essere umano, quindi noi, cresce assorbendo la mentalità e la cultura dell’ambiente in cui è inserito. Salvo rari casi scopre col tempo le sue attitudini, intreccia relazioni e rapporti coi propri simili, diventa una persona affondando le due radici sulle proprie esperienze di cui, in un modo o in un altro, dovrebbe far tesoro: non fu così per Nostro Signore, che sapeva fin da giovanissimo quale sarebbe stato il suo compito, come leggiamo dalle parole che disse a Sua madre che lo rimproverava per essere rimasto a parlare coi sapienti nel Tempio anziché tornare a Nazareth con loro: “Dopo tre giorni lo trovarono nel Tempio, seduto in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li interrogava. E tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte. Al vederlo restarono stupiti e sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre ed io ti cercavamo angosciati». Ed egli risposte: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». Ma essi non compresero ciò che aveva detto loro” (Luca 2.46,50).

Ancora, a proposito della crescita della persona in mezzo ai suoi simili, vero è che ogni uomo si ritrova presto o tardi a fare i conti con la prepotenza, l’umiliazione e la violenza degli altri, ma è altrettanto vero che a volte può contare sul loro aiuto, solidarietà e comprensione, confidarsi. Non fu così per Gesù, che dovette far leva sempre e solo sulle proprie forze e quelle che il Padre gli dava per adempiere il compito per il quale era venuto; pensiamo a tutte le volte in cui non solo non fu capito, ma anche e soprattutto frainteso e ostacolato. Ecco perché sono convinto che la grandezza di Gesù risiede non solo nei miracoli, “piccoli” o “grandi”, nella sua resurrezione, ma, sotto questo aspetto, nella vita di ogni giorno, soprattutto in quella non raccontata. Se penso alla Sua crescita in terra arida sotto i punti di vista cui ho accennato, la mia persona si perde: a differenza di me, di noi, aveva una strada da percorrere senza possibilità di deviazioni, scorciatoie, soste. La Sua opera, come disse un giorno, fu incessante: “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il figlio dell’uomo non ha dove posare il capo” (Matteo 8.20).

La seconda parte del verso sposta l’attenzione del lettore al tempo presente chiamando in causa l’apparenza e la bellezza – attenzione – sotto ogni aspetto, non necessariamente quello fisico, perché Gesù non fece mai del marketing né si rivolse a persone che usavano l’immediatezza per giudicare. Non guardò mai al numero, si ritirò in un luogo isolato quando vollero farlo re, nacque in un ricovero per animali, “figlio di Davide” da un lato, ma di un falegname dall’altro, liberò chi credette in Lui dal potere del peccato che conduce a morte, ma non dall’oppressione straniera. Gesù stravolse il perbenismo, il moralismo, la quiete che l’uomo naturale ha quando s’incontrano – e purtroppo si stabilizzano – religione e carne, là dove “…disse loro: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno dei cieli” (Matteo 21.30),

Riguardo alla “apparenza” (o “forma”) e alla “bellezza” possiamo pensare anche alla Sua persona: non fu come Mosè, che da bambino era “divinamente bello” (altri traducono, svilendone il senso, “molto”), il cui volto risplendeva quando scese dal monte, ma una persona dall’aspetto assolutamente normale, riconoscibile come “figlio dell’Iddio vivente” solo riflettendo su ciò che faceva e diceva, quindi chiamando in causa l’intelligenza, la ragione e il cuore. Dalla somma di questi elementi, se correttamente gestiti, nasce la fede, quella che mosse la donna emorroissa: “aveva perdite di sangue da dodici anni e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando. Udito parlare di Gesù, venne tra la folla e toccò da dietro il suo mantello. Diceva infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata». E subito si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male” (Marco 5.25-29).

L’apparenza umana di Gesù non era importante, né aveva senso l’avesse perché l’immagine esteriore, quella a cui tengono i potenti che si sono sempre fatti ritrarre, in quadri o in foto, con una luce che li illuminasse strategicamente per suggerire qualità fisiche o morali che non avevano, sarebbe stata completamente fuori luogo. Penso a Nicodemo, abituato alla sintesi e alla concretezza, che disse “Maestro, noi sappiamo che tu sei un dottore venuto da Dio, perché nessuno può compiere le opere che tu fai, se Dio non è con lui” (Giovanni 3.2). Ecco allora che Isaia, con quel “Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri guardi, non splendore per poterci piacere”, chiama in causa ciò cui guardano gli uomini distrattamente quando sono intenti a pensare a loro stessi e ai loro bisogni, dediti a seguire la fame di vita che si impossessa di loro. Ed è facile collegare questo atteggiamento istintivo alla via larga e spaziosa che conduce alla perdizione.

È stato ricordato l’episodio in cui giudei volevano fare re Gesù: questo si verificò al primo miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Quella gente disse “Questi è davvero il profeta che deve venire nel mondo” perché era stata sfamata in modo impossibile e quindi poco ci voleva, nella loro mente, a pensare che invece dei pani e dei pesci avrebbe potuto moltiplicare la forza di un esercito, armi, vittorie. Erano incapaci di comprendere che la vera liberazione stava nel togliere il peccato del mondo, in quel “Io posso ogni cosa in Colui che mi fortifica” dell’apostolo Paolo, nella moltiplicazione delle benedizioni, del vivere già da ora essendo in possesso della cittadinanza del regno di Dio.

Quegli uomini che avrebbero dovuto accoglierlo, lo disprezzarono. Il verso terzo dice “Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo di dolore che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia; era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima”: passò nell’indifferenza, a parte il “coprirsi la faccia” per non vedere il Suo volto e ciò che rappresentava. In questo gesto possiamo vedere certamente l’effetto del constatare quanto fosse sfigurato dalle percosse, ma anche il non voler vedere, accettare la loro condizione umana che aveva rivelato. Vedere e passare oltre cercando di dimenticare confidando che il tempo, che molto cancella ma non tutto, copra il ricordo di quanto visto e ascoltato. Perché, lo si ammetta o no, tutti vogliono essere assolti, anche se solo da loro stessi. Da notare che “coprirsi la faccia” suggerisce un’azione diversa da quella che viene in mente leggendo la traduzione di Diodati, che parla di “nascondere”: così, nascondere il volto ci parla di un gesto volontario di autoprotezione: non voglio vedere, non voglio sentire, non voglio cambiare, mi arrocco sulle mie convinzioni perché sono quelle che mi sono state insegnate, rifiuto il confronto.

Così scrive Davide nel suo profetico Salmo 22 citando il disprezzo: “Io sono un verme e non un uomo, rifiuto degli uomini, disprezzato dalla gente. Si fanno beffe di me quelli che mi vedono, storcono le labbra, scuotono il capo. «Si rivolga al Signore, lui lo liberi, lo porti in salvo se davvero lo ama” (6-8).

C’è così il disprezzo collettivo, cui si aggiunge “non ne avevamo alcuna stima” che lo rafforza. Da dizionario, il disprezzo è quel “sentimento di chi, giustamente o ingiustamente, ritiene una persona o una cosa troppo inferiore a sé, o vile in sé stessa, o comunque indegna della propria stima e considerazione”. Chi ha familiarità col Vangelo sa che questo sentimento si manifestò continuamente nei confronti di Gesù, ma venne ufficializzato in modo lampante quando Pilato fece scegliere al popolo chi doveva essere liberato, se Lui o Barabba, che Giovanni definisce “brigante” e che, dai sinottici, possiamo pensare fosse uno zelota omicida, “prigioniero famoso” secondo Matteo 27.16.

Molto interessanti sono le parole di Benedetto XVI al riguardo: “In altre parole Barabba era una figura messianica. La scelta tra Gesù e Barabba non è casuale: due figure messianiche, due forme di messianesimo si confrontano. Questo fatto diventa ancor più evidente se consideriamo che Bar-Abbas significa figlio del padre. È una tipica denominazione messianica, il nome religioso di uno dei capi eminenti del movimento messianico. L’ultima grande guerra messianica degli ebrei fu condotta nel 132 da Bar-Kochba, Figlio della stella. È la stessa composizione del nome; rappresenta la stessa intenzione. Da Origene apprendiamo un ulteriore dettaglio interessante: in molti manoscritti dei Vangeli fino al III secolo l’uomo in questione si chiamava Gesù Barabbas, Gesù figlio del padre. Si pone come una sorta di alter ego di Gesù, che rivendica la stessa pretesa, in modo però completamente diverso. La scelta è quindi tra un Messia che capeggia una lotta, che promette libertà e il suo proprio regno, e questo misterioso Gesù, che annuncia come via alla vita il perdere se stessi”.

Il popolo e i suoi capi, quindi, preferirono affidare la loro vita e destino a Barabba piuttosto che a Nostro Signore: non è questa un’affermazione esagerata se la colleghiamo alla terribile frase, poi adempiutasi, “Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli” (Matteo 27.25). Suggerisco di leggere i versi da 15 a 26 di Matteo perché da essi possono scaturire molte considerazioni sulle dinamiche che portarono Pilato a far scegliere al popolo chi liberare, dichiarandosi non responsabile di quel sangue, e molto altro.

La “stima” è una valutazione di un bene o di una persona. Non si può fare alla leggera, è una conclusione alla quale si perviene dopo averne soppesato il valore: una “stima” in proposito la fecero la peccatrice innominata e Maria sorella di Lazzaro, che versarono su Gesù un olio del valore di un anno di paga di un operaio. Giuda Iscariotha stimò il suo Maestro trenta sicli d’argento, il prezzo di uno schiavo o la paga di un giorno di un operaio. Molti cristiani, compresi alcuni apostoli, ritennero di offrire la loro vita col martirio. Altri, sempre per amore e per la stima effettuata sul loro Salvatore, vivono resistendo al male, e quindi alla sua fonte, non chiedendosi mai chi o cosa glielo faccia fare mentre il loro prossimo vive come se Dio non esistesse. Ma a ciascuno verrà data retribuzione, per il bene e per il male. Amen.

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07.21 – CINQUE CANTICI V.I (Isaia 53.1-12)

7.21 – Cinque cantici V-I (Isaia 53.1-12)

 

QUINTO CANTICO

 

1Chi avrebbe creduto al nostro annuncio? A chi sarebbe stato manifestato il braccio del Signore? 2È cresciuto come un virgulto davanti a lui e come una radice in terra arida. Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere. 3Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo di dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia; era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima. 4Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori; e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. 5Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti. 6Noitutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti. 7Maltrattato si lasciò umiliare e non aprì la bocca. Era come un agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori e non aprì la sua bocca. 8Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo; chi si affligge per la sua posterità? Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi, per la colpa del mio popolo fu messo a morte. 9Gli si diede sepoltura con gli empi, con il ricco fu il suo tumulo, sebbene non avesse commesso violenza né vi fosse inganno sulla sua bocca. 10Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con i dolori. Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. 11Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità. 12Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha spogliato se stesso fino alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i colpevoli.

 

L’analisi del quinto canto è suscettibile ad un’infinità di applicazioni e verrà affrontata in diversi passaggi, o capitoli. Prima di qualsiasi riflessione, occorre andare all’episodio in cui il diacono Filippo, uno dei sette scelti dalla Chiesa di Gerusalemme perché si occupassero delle vedove e dei poveri, incontrò l’eunuco etiope: era un funzionario, un amministratore della regina di Candace, proselito ebreo che faceva ritorno in patria sul suo carro e, lungo il viaggio, leggeva a voce alta un passo della Scrittura particolare. Il testo degli Atti ci informa che Filippo “…udito che leggeva il profeta Isaia, gli disse: «Capisci quello che stai leggendo?». Quegli rispose: «E come potrei, se nessuno mi istruisce?». E invitò Filippo a salire, e a sedersi accanto a lui. Il passo della Scrittura che stava leggendo era questo: Come un agnello egli fu condotto al macello e come una pecora senza voce innanzi a chi lo tosa, così egli non apre la sua bocca. Nella sua umiliazione il giudizio gli è stato negato,la sua discendenza chi potrà descriverla?Poiché è stata recisa dalla terra la sua vita. Rivolgendosi a Filippo, l’eunuco disse: «Ti prego, di quale persona il profeta dice questo? Di se stesso o di qualcun altro?». Filippo, prendendo la parola e partendo da quel passo della Scrittura, annunciò a lui Gesù” (Atti 8. 29-35). Trovo questi versi illuminanti e destinati a chiudere la questione se il “Servo” di cui trattano i cantici sia riferito ad Israele, oppure a Nostro Signore Gesù Cristo poiché se la prima ipotesi fosse vera, Filippo avrebbe parlato diversamente.

Dando uno sguardo generale al cantico, non è possibile fare a meno di notare l’impiego di numerosi tempi verbali: Isaia, che avrebbe potuto benissimo scrivere in modo grammaticalmente più corretto, preferisce riunire in un testo di 12 versi il passato prossimo, il remoto, il condizionale, il presente ed il futuro: egli vede il Servo, ne contempla i dolori, il sacrificio e soprattutto gli effetti per finire con la visione delle moltitudini date a Lui in premio. Questo profeta non ha tempo per spiegare in modo chiaro e ordinato ciò che vede in una successione temporale definita, ma solo quello di annotare eventi che saranno poi i lettori e gli uditori, usando l’intelligenza spirituale, a capire il senso delle sue parole e a riconoscere il momento in cui queste si adempiranno. Si è fatto così da sempre e ogni credente attento può testimoniare che la lettura di passi apparentemente semplici, ad esempio dei Vangeli, nasconde, implica l’assimilazione di significati che verranno compresi col tempo, se e quando il Signore deciderà di rivelarli, esattamente come descritto nel libro dei Proverbi circa la ricerca della sapienza, versi che abbiamo più volte ricordato: va cercata “come i tesori”.

Ora veniamo al primo verso, che contiene due domande: “Chi avrebbe creduto al nostro annuncio?”e “A chi sarebbe stato manifestato il braccio del Signore?”. Questi due interrogativi sono stati per lo più interpretati come posti dal Figlio al Padre nel corso del suo ministero terreno, stante il numero esiguo delle persone che ne accettarono il messaggio a fronte dell’intero popolo d’Israele e così le spiega l’apostolo Giovanni quando, in 12.37-40, riporta che “Sebbene avesse compiuto segni così grandi davanti a loro, non credevano in lui, perché si adempisse la parola detta dal profeta Isaia: Signore, chi ha creduto alla nostra parola? E la forza del Signore, a chi è stata rivelata?. Per questo non potevano credere, perché ancora Isaia disse: Ha reso ciechi i loro occhi e duro il loro cuore, perché non vedano con gli occhi e non comprendano con il cuore, e non si convertano e io non li guarisca”.

Per molto tempo mi sono attenuto a questo collegamento, indubbiamente vero, ma considerarlo come la sola applicazione possibile è errato: dobbiamo tenere presente che quel “nostro”,riferito all’annuncio, appare più come da intendersi in senso collettivo a livello dei profeti che certamente trovano il loro punto più alto, e insuperabile, nella predicazione del Servo, il Figlio.

Isaia, infatti, come tutti i profeti, è e si considera intimamente legato al suo popolo; basti la lettura finale del verso ottavo, “Per la colpa del mio popolo è stato messo a morte”, dove il possessivo usato è molto significativo. Isaia condivide l’esperienza di Israele: scrive “le nostre colpe”, non “le vostre”, “siamo stati guariti” e non “siete stati”, questo perché il profeta è cosciente di essere un peccatore come gli altri, per quanto beneficiato della rivelazione di JHWH. Quando allora al verso primo parla di “nostro annuncio”, o come altri traducono “nostra predicazione”, Isaia prende atto del risultato a cui portò l’attività dei profeti prima, durante e dopo di lui, quando era stato loro ordinato fondamentalmente di predicare e annunciare il ravvedimento per scampare dal giusto giudizio di Dio.

In pratica, se si vuole capire il senso della prima domanda di apertura del cantico, “Chi avrebbe creduto al nostro annuncio?”, occorre andare alle parole di Gesù quando espose la parabola dei malvagi vignaioli ai responsabili religiosi di Gerusalemme: “Un uomo piantò una vigna, vi fece attorno una siepe, vi scavò un luogo ove pigiare l’uva, vi costruì una torre e l’affidò a dei vignaioli, poi se ne andò lontano. Nella stagione della raccolta inviò a quei vignaioli un servo per ricevere da loro la sua parte del frutto della vigna. Ma essi lo presero lo batterono e lo rimandarono a mani vuote. Egli mandò loro di nuovo un altro servo, ma essi, dopo avergli tirate delle pietre, lo ferirono alla testa e lo rimandarono vilipeso. Ne inviò ancora un altro e questi lo uccisero. Poi ne mandò molti altri e di questi alcuni furono percossi, altri uccisi. Gli restava ancora uno da mandare: il suo amato figlio. Per ultimo mandò loro anche lui, dicendo: «Avranno almeno rispetto per mio figlio». Ma quei vignaioli dissero fra loro: «Costui è l’erede. Venite, uccidiamolo e l’eredità sarà nostra». Così lo presero, lo uccisero e lo gettarono fuori della vigna. Che farà dunque il padrone della vigna? Egli verrà e sterminerà quei vignaioli e darà la vigna ad altri” (Marco 12.1-9).

Questa parabola viene riportata da Matteo che ci parla di una domanda di Gesù cui segue la risposta dei suoi stessi uditori: “Ora, quando verrà il padrone della vigna, cosa farà a quei vignaioli?». Essi gli dissero: «Farà perire miseramente quegli scellerati e affiderà la vigna ad altri vignaioli, i quali gli renderanno i frutti a suo tempo»” (21.40,41), che si collega a Isaia 65.15, dal contenuto terribile: “Il Signore, l’Eterno, ti farà morire, ma darà ai suoi servi un altro nome”.

Ecco, qui comincia a delinearsi la risposta alla seconda domanda del nostro testo, “A chi sarà manifestato il braccio del Signore?”: si noti che “il braccio del Signore” è un’espressione, una definizione usata nell’Antico Patto per indicare l’assistenza di Dio al Suo popolo: incontriamo per la prima volta questo definire l’intervento divino in Esodo 6.6 quando Lui stesso disse a Mosè: “Perciò di’ ai figli di Israele: «Io sono l’Eterno, vi sottrarrò dai duri lavori impostivi dagli egiziani, vi libererò dalla loro schiavitù e vi riscatterò con braccio steso e con grandi castighi”.

La risposta alla seconda domanda di Isaia, allora, che si chiede a chi sarebbe stato rivelato “il braccio del Signore”, si trova nelle parole di Gesù con l’esempio dei vignaioli e, essendo un argomento che andava chiarito senza possibilità di errore, con quelle dell’apostolo Paolo che la espone così: “Dice ancora in Osea: «Io chiamerò il mio popolo quello che non è mio popolo– cioè i pagani – e amata quella che non è mia amata– cioè la Chiesa, che ancora non esisteva, al posto di Gerusalemme -. E avverrà che là dove fu loro detto «Voi non siete mio popolo», saranno chiamati figli dell’Iddio vivente. Ma Isaia esclama riguardo a Israele: «Anche se il numero dei figli di Israele fosse come la sabbia del mare, solo il residuo sarà salvato».(…)Che diremo dunque? Che i gentili, che non cercavano la giustizia, hanno ottenuto la giustizia, quella però che deriva dalla fede. Mentre Israele, che cercava la legge della giustizia non vi è arrivato. Perché? Perché la cercava non tramite la fede, ma mediante le opere della legge; essi infatti hanno urtato nella pietra d’inciampo, come sta scritto: «Ecco, io pongo in Sion una pietra d’inciampo e una roccia di scandalo, ma chiunque crede in lui non sarà svergognato»(Romani 9.25-33).

Proprio al termine della parabola dei vignaioli, Gesù disse ai giudei “Non avete voi mai letto nelle Scritture «La pietra che i costruttori hanno scartato, è diventata pietra d’angolo; ciò è stato fatto dal Signore ed è cosa meravigliosa ai nostri occhi?». Perciò io vi dico che il regno di Dio vi sarà tolto e sarà dato ad una gente che farà i suoi frutti” (Matteo 21.42,43).

Riflettiamo un attimo: abbiamo dei costruttori, cioè persone teoricamente esperte, che quando procedono alla realizzazione di un edificio scelgono accuratamente la pietra d’angolo consapevoli del fatto che deve sorreggere l’intero edificio. Eppure, hanno scartato proprio la più importante, fallendo miseramente nel compito loro affidatogli.

Infine, ecco la parte finale: “Sarà dato ad una gente che farà i suoi frutti”, dove “suoi” è riferito a quelli del regno. Per quanto venga istintivo fare un accostamento gente – gentili, sbaglieremmo perché col termine il testo intende “persone diverse”, cioè un insieme dato dai pagani e dagli ebrei convertiti, il famoso “residuo” che in Gerusalemme e non solo credette affrontando così le persecuzioni dei propri ex correligionari.

Concludendo, Isaia apre il quinto canto del servo con due domande. Non dà una risposta immediata, ma focalizza subito l’attenzione del lettore sul percorso spirituale del servo, cresciuto “come un virgulto davanti a lui e come un radice in terra arida” per la nostra salvezza. Amen.

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