15.35 – LA PARABOLA DELLE DIECI MINE III/III (Luca 19.15.27)

15.35 – La parabola delle dieci mine III: consegna e verifica (Luca 19.15-27)

 

15Dopo aver ricevuto il titolo di re, egli ritornò e fece chiamare quei servi a cui aveva consegnato il denaro, per sapere quanto ciascuno avesse guadagnato. 16Si presentò il primo e disse: «Signore, la tua moneta d’oro ne ha fruttate dieci». 17Gli disse: «Bene, servo buono! Poiché ti sei mostrato fedele nel poco, ricevi il potere sopra dieci città». 18Poi si presentò il secondo e disse: «Signore, la tua moneta d’oro ne ha fruttate cinque». 19Anche a questo disse: «Tu pure sarai a capo di cinque città». 20Venne poi anche un altro e disse: «Signore, ecco la tua moneta d’oro, che ho tenuto nascosta in un fazzoletto; 21avevo paura di te, che sei un uomo severo: prendi quello che non hai messo in deposito e mieti quello che non hai seminato». 22Gli rispose: «Dalle tue stesse parole ti giudico, servo malvagio! Sapevi che sono un uomo severo, che prendo quello che non ho messo in deposito e mieto quello che non ho seminato: 23perché allora non hai consegnato il mio denaro a una banca? Al mio ritorno l’avrei riscosso con gli interessi». 24Disse poi ai presenti: «Toglietegli la moneta d’oro e datela a colui che ne ha dieci». 25Gli risposero: «Signore, ne ha già dieci!». 26«Io vi dico: A chi ha, sarà dato; invece a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha. 27E quei miei nemici, che non volevano che io diventassi loro re, conduceteli qui e uccideteli davanti a me»».

 

Prima di entrare in questo capitolo, va ricordata la natura dell’incarico dato ai servi: è stato scritto che l’ “uomo di nobile famiglia” non li prende a caso, ma non è stato ancora dato alcun cenno sul fatto che la moneta consegnata era d’oro, metallo che nella Bibbia ha sempre riferimento a Dio. Se quell’uomo avesse dato ai servi una moneta d’argento, di rame o di bronzo, la parabola non avrebbe avuto senso. Certo sarebbe rimasto il principio dell’impegno a far fruttare quel denaro, dell’operosità e inoperosità, ma non sarebbe mai stato messo in risalto, in modo chiaro e assoluto, il fatto che quei personaggi ricevono qualcosa di prezioso che non solo non è loro, ma che viene da Dio e quindi ciascun servitore riceve una Sua piccola parte.

Questo amplia notevolmente e integra quanto scritto nello scorso studio perché ricevere una moneta d’oro comporta una responsabilità estrema in quanto non si tratta di maneggiare e impiegare un materiale qualsiasi: l’oro è diverso da tutti gli altri metalli, non ossida, ai tempi dell’Antico e Nuovo Testamento era inattaccabile ai composti chimici. Ecco allora che, per quei servi, ricevere una mina di quel metallo non poteva far sì che pensassero sempre al compito e all’onore ricevuti da quell’uomo che partiva per un paese lontano.

Quando nella prima parte di questo studio abbiamo fatto il confronto con la parabola dei talenti è stato fatto notare come la quantità affidata ai servi sia la stessa, quindi va da sé che il riferimento non possa essere allo stesso argomento: il talento viene consegnato in misura maggiore o minore, la mina è sempre e solo una e questo ci parla di due posizioni diverse nonostante il principio sia il medesimo. Da tener presente fra l’altro che, essendo la mina la sessantesima parte del talento, i significati delle due parabole devono essere differenti. La moneta d’oro che quei servi ricevono, a differenza dei talenti, ha connessione a ciò che viene consegnato a ciascun credente a monte, cioè la salvezza e il dono dell’acquisizione a figlio di Dio. Ad ogni credente viene affidata la responsabilità di condurre una vita degna della propria fede e del portare un “frutto”, che possiamo individuare anche solo in una posizione di coerenza che, di questi tempi, non è poco.

Rileviamo dal nostro testo che, all’atto della consegna della moneta, non viene dato ai servi alcun obiettivo da raggiungere nel senso che viene loro di farla fruttare, ma non quanto perché avrebbero dovuto farlo in base alle loro capacità, cosa che avvenne. Ognuno dei dieci è lasciato libero di agire come meglio crede con l’unica preoccupazione di portare un risultato, indipendentemente dall’ammontare della somma.

 

E giungiamo così al ritorno: chi ha consegnato le mine ora torna come re, tutto è cambiato: un re ha un potere assoluto, decide la vita e la morte dei suoi sudditi, non deve rispondere ad alcuno se non a se stesso, è padrone di tutto e il verso 15, così come è citato, è tradotto impropriamente poiché sarebbe “Accadde che, quanto tornò, dopo aver preso possesso del suo regno, ordinò che fossero chiamati i servi…”. “Dopo aver preso possesso del suo regno”, quindi una volta adempiute tutte le formalità necessarie e ricevuta l’investitura. Questo è un richiamo a tutti quegli avvenimenti che caratterizzeranno il ritorno di Gesù una volta per sempre, quello ufficiale e la presa di possesso del regno sarà caratterizzata dalla constatazione assoluta della Sua potenza e gloria, quando “ogni occhio lo vedrà” (anche quelli di quanti che non avranno creduto in Lui) perché nel Nome di Gesù sappiamo che dovrà piegarsi “ogni ginocchio”. Indipendentemente dal fatto che appartenga al numero dei servi o a quello di coloro che non lo volevano come re, tutti saranno costretti a inginocchiarsi, non esisteranno alternative come quelle escogitate prima del Suo ritorno per non credere, gli dèi illusori creati dagli uomini. Ricordiamo Filippesi 2.10 citato più volte nel corso di questi studi: “Perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: «Gesù è il Signore!» a gloria di Dio Padre”.

Ora sappiamo che “chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita” (Giovanni 5.24), ma anche del rendiconto, del giustificare il nostro operato proprio davanti a quel re che ha donato una moneta d’oro a ciascuno e – attenzione – non la vuole indietro, ma desidera constatare l’uso che ne abbiamo fatto. Tra l’altro va sottolineata la proporzione fra il risultato ottenuto dai servi e l’equivalenza in “città” loro consegnate, riferimento al premio e alla responsabilità nel mondo spirituale che ci attende.

Ora le dinamiche presentateci da questa parabola sono simili a quella dei talenti alla quale rimando, ma credo sia doveroso esaminare l’ultimo caso, quello del servitore infedele perché, anziché far fruttare la moneta come gli altri, la nasconde in un fazzoletto nell’attesa di restituirla al legittimo proprietario, e qui la meditazione si fa impegnativa perché sotto un’ottica prettamente umana quest’uomo non fa poi qualcosa di tanto deprecabile: non ruba, anzi restituisce ciò che gli era stato consegnato dichiarando la propria stima nei confronti del suo re che prende “quello che non ha messo in deposito e miete dove non ha seminato”. Però questo modo di vedere non considera prima di tutto l’oltraggio che viene fatto al re non avendo risposto con l’operosità e la fatica all’onore ricevuto: “io, che sono re, che raccolgo ciò che non ho depositato e mieto ciò che non ho seminato, chiedo la tua collaborazione”. E quello disattende in toto le aspettative del sovrano.

Non solo, ma possiamo considerare che, riponendo la moneta nel fazzoletto, quel servo abbia trascorso il tempo tra la partenza e il ritorno del suo padrone senza far nulla, mentre gli altri suoi pari si davano da fare per far fruttare il deposito ricevuto. È proprio il far nulla, ma ancor di più il totale disinteresse, a condannarlo perché, come viene detto anche nell’altra parabola, “perché allora non hai consegnato il mio denaro a una banca? Lo avrei riscosso con gli interessi” (v. 23).

Ecco allora che qui vengono messe in rilievo le capacità: quel servo è vero che ricevette una moneta e l’ordine di metterla a reddito come gli altri, ma non gli era stato detto come, era lui che avrebbe dovuto trovare il modo per farlo in base alla proprie forze e possibilità anche perché Gesù qui parla non di tutti i dieci servi, ma solo di quelli che portano il decuplo e il quintuplo, quindi il testo ci autorizza a pensare che gli altri otto abbiano portato tutte le quantità intermedie da dieci fino a due e che tutti vengano ricompensati. Quindi non importa quanto si fa, ma come e perché, qual è il motore del tutto. Se la moneta d’oro è assimilabile ad un’anima redenta, allora le dieci fruttate dal primo servitore sono altre anime e quella messa nel fazzoletto è chi, pur avendo creduto, resta immobile a livello di pensiero, di azione, senza che nessuno sappia niente di lui.

Ancora, se l’oro è oro e non può essere confuso con altro metallo, va da sé che la Chiesa non può barare o cercare, come avvenuto in passato, l’evangelizzazione delle masse e scambiare l’adesione formale delle persone con la conversione e la santificazione, possibile solo quando si ha chiara la propria responsabilità come figli di Dio e questa, purtroppo, viene raramente insegnata.

Appare allora chiara l’urgenza della comprensione del nostro testo che non afferma l’esistenza di una scala di merito, ma evidenzia il fatto che ciascuno dei servi, tranne uno, ha lavorato portando un risultato adempiendo così ai voleri di colui che, partito per ricevere l’investitura, non aveva fissato né un minimo, né un massimo perché il loro lavoro fosse considerato accettabile.

Emergono a questo punto dei personaggi ai quali si fa poco caso, cioè “i presenti”, certamente le guardie reali, pronte ad eseguire gli ordini, nei quali possiamo identificare gli Angeli, i perfetti esecutori delle volontà di Dio così come descritti in Matteo 25.31, “Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra”.

Troviamo gli Angeli anche in 2 Tessalonicesi 1.7, “…quando si manifesterà il Signore Gesù dal cielo, insieme agli angeli della sua gloria, con fuoco ardente, per punire quelli che non riconoscono e che non obbediscono al vangelo del Signore nostro Gesù”, e nella parabola della zizzania, “Come dunque si raccoglie la zizzania e la si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, che raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e quelli che commettono iniquità e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro” (Matteo 13.40-43).

A questo punto abbiamo un breve intermezzo, vale a dire un’osservazione a Gesù da parte di quanti lo ascoltavano, evidentemente stupiti dell’ordine dato alle guardie del re “prendete la moneta d’oro e datela a colui che ne ha dieci”: secondo costoro era troppo, perché il servo fedele era già stato premiato e aveva già abbastanza mine, ma non secondo il Maestro che stabilì un concetto importante, cioè che “A chi ha sarà dato, a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha”, cioè sarà privato anche del nulla cioè di ciò che credeva di avere, o meglio di quello che ha ricevuto, ma non ha voluto far fruttare. È questa l’unica punizione che rileviamo nella parabola, a parte la logica conclusione dei contrari al regno, e questo ci parla della benignità di Dio che non è un despota pretenzioso, ma valuta nella Sua perfezione l’opera dell’uomo da Lui onorato con un incarico, o dono che dir si voglia.

Con altrettanta perfezione, poi, Gesù fa emergere la condizione di quell’unico servitore che dice“ho avuto paura di te, che sei un uomo severo”, ma che in realtà non aveva avuto alcuna voglia di agire perché, appunto, viceversa sarebbe andato in banca ad affidare la moneta ricevuta, che qui credo sia la figura istituzionale della Chiesa nel senso di cooperazione e dedizione a compiti che, magari non “onorevoli” in senso umano come il Ministero, il Dottorato, la Predicazione etc., sono comunque necessari. Spesso, leggendo la Scrittura, tendiamo a vedere le “cose grandi” come alla nostra portata, ma dimentichiamo che prima dobbiamo dimostrare di saper gestire le piccole secondo Luca 16.10, “Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti”.

Al servitore che non aveva ottemperato l’ordine ricevuto, viene tolta la mina avuta, ma non ne viene rivelata la sorte. Non è cioè assimilato ai nemici del re e nemmeno di lui viene detto, come nella parabola dei talenti, “Il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti” (Matteo 25.30). Perché? Personalmente tendo a considerare il talento/i come uno specifico dono dello Spirito, mentre nella moneta d’oro la salvezza, il titolo di figlio di Dio che non può essere tolto e quindi quel servo poté restare nel palazzo, ma non certo con i privilegi e la posizione dei suoi simili, vivendo una vita a margine che prima non aveva. Per lo meno questo è ciò che mi pare di capire, a differenza dell’omologo di Matteo che chiaramente non tiene in alcun conto quanto ricevuto, cioè una somma più importante dalla quale il suo signore si aspettava di ricavare un reddito.

Le ultime parole di Gesù in questa parabola sono per i nemici che non lo hanno voluto come re: c’è quindi volontà nel rifiuto, visto che davanti a Lui non esiste possibilità di essere neutrali, esattamente come è una scelta non aprire quando Lui bussa alla porta della nostra vita. “Non volere” Gesù come re significa ostinarsi nelle proprie convinzioni, convinti di essere noi con la nostra vita – che poi nostra non è – a valere più di Lui. Significa non distogliere lo sguardo da ciò che siamo per rivolgerlo verso la perfezione, in pratica concretare l’amara constatazione di Gesù, “Quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia i suoi pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto!” (Luca 13.34). È il pianto di Gesù su Gerusalemme, nell’attesa che fosse lei a piangere davvero. Amen.

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15.34 – LA PARABOLE DELLE DIECI MINE II/III (Luca 19.15-27)

15.34 – La parabola delle dieci mine II: la partenza (Luca 19.15-27)

 

11Mentre essi stavano ad ascoltare queste cose, disse ancora una parabola, perché era vicino a Gerusalemme ed essi pensavano che il regno di Dio dovesse manifestarsi da un momento all’altro. 12Disse dunque: «Un uomo di nobile famiglia partì per un paese lontano, per ricevere il titolo di re e poi ritornare. 13Chiamati dieci dei suoi servi, consegnò loro dieci monete d’oro, dicendo: «Fatele fruttare fino al mio ritorno». 14Ma i suoi cittadini lo odiavano e mandarono dietro di lui una delegazione a dire: «Non vogliamo che costui venga a regnare su di noi». 

 

Anche se il capitolo precedente è stato dedicato allo sviluppo dei primi versi, possiamo ricordare che il dodicesimo corregge il falso concetto che i presenti avevano di Gesù, vale a dire che a Gerusalemme si sarebbe manifestato come Messia ed avrebbe instaurato il regno di Israele. Certo che, essendo a lei vicino, vi era qualcosa che stava per accadere, ma ciò era la Sua passione, morte e risurrezione: da lì sarebbe partito “per un paese lontano, per ricevere il titolo di re e poi ritornare”, non la definitiva instaurazione del Suo regno.

Ora, proseguendo la lettura della parabola, vediamo che l’uomo “di nobile famiglia”, quindi di rango elevato, aveva a disposizione una servitù composta da persone di vari profili professionali e ne chiama dieci, numero che non ha riferimento agli apostoli, ma all’esattezza e alla precisione. Più volte il dieci è stato associato soprattutto a quello dei comandamenti, detti “il sommario della Legge” perché quello è il numero riferito a ciò che Iddio si aspetta dall’uomo. Nei “dieci servi” e nelle altrettante monete vediamo allora la cura e premura perché tutto fosse fatto al meglio nel senso che viene organizzata ogni cosa perché fosse l’ideale, l’ottimo a disposizione perché il frutto portato potesse corrispondere pienamente alle aspettative di colui che avrebbe dovuto partire, una volta tornato.

C’è nelle prime parole di questo verso, “un uomo di nobile famiglia partì per un paese lontano” un concetto di distanza implicito nel senso che il “lontano” è chiaramente usato per chi rimane a casa, nel palazzo, ma non per lui. “Lontano” è un termine che implica a qualcosa di poco conosciuto, un luogo in cui le usanze sono diverse, presumibilmente anche la lingua, il modo di esprimersi, capire e intendere le cose. È l’ “uomo nobile” che vi può andare, è lui ad essere atteso in quel luogo, è lui che è destinato a tornare per occupare un posto che è solo il Suo tanto nel “paese lontano” quanto in quello che troverà al Suo ritorno. Tanto i servi quanto le monete, allora, non vanno prese letteralmente cercando di identificarle in personaggi precisi, ma sono figure nel senso che i dieci servi non possono essere gli apostoli, che erano e resteranno dodici anche dopo la morte di Giuda, ma tutti coloro che hanno ricevuto da Gesù un dono per servirlo, visto nella moneta d’oro.

Mine o talenti appartengono solo ed esclusivamente al Signore che le affida ai “servi” con l’unico scopo che vengano da loro usati perché il Suo reddito possa aumentare. Credo che non vi sia un collegamento più pertinente a questa procedura se non in Marco 16.15,16 quando, risorto e prima dell’ascensione, disse “Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato”. Ora è importante sottolineare che prima di queste parole, in Luca 24.45, leggiamo che “aprì loro la mente per comprendere le scritture”. Fu da questo momento che gli Undici, prima che Mattia entrasse nel Gruppo, poterono “comprendere”, quindi agire e parlare non più come “brave persone” che avevano dato quanto potevano al loro Maestro, ma come esseri spiritualmente responsabili e coscienti di ciò che erano, questo nell’attesa che fossero “rivestiti di potenza dall’alto” (v.49).

Ora, confrontando l’atto del chiamare i dieci servi, nel dar loro altrettante mine e nel dire “Fatele fruttare fino a mio ritorno” e quanto avvenuto dopo la resurrezione di Gesù, appare chiaro che il mandato viene conferito a persone di esperienza umana e di contatto profondo con Lui. Gli apostoli, nel contesto che abbiamo citato, non erano giunti a un punto di arrivo, ma a quello di partenza; dopo aver affidatoGli la vita per circa tre anni e mezzo, dopo averlo ascoltato, seguito, visto guarire ogni sorta di malattia e infermità di un popolo, ricevono l’abilitazione a comprendere le Scritture come nessuna scuola scientifica rabbinica avrebbe mai potuto insegnar loro. Sarebbero andati “in tutto il mondo” (conosciuto), ma non mandati allo sbaraglio senza avere idea di cosa avrebbero detto o fatto, avendo certezza della presenza costante di Gesù in e con loro.

La frase che viene detta ai dieci servi è emblematica, “Fatele fruttare fino al mio ritorno”, perché contiene l’istruzione e la durata dell’incarico. E qui si aprono numerosi argomenti di riflessione, il primo e più comodo dei quali è sulla qualifica di queste persone, tradotta col termine generico di “servi” che a una lettura superficiale potrebbero essere assimilati a quelli che avevano un profilo di cuoco, o lavapavimenti, ma in realtà erano persone di rango superiore che si trovavano solo nelle grandi famiglie: fra i Romani gli schiavi non erano tutti impiegati a fare i lavori di casa, ma alcuni ricevevano un’istruzione letteraria e venivano impiegati come maestri o scribi, altri ancora esercitavano mestieri e commerci il capitale dei quali era provveduto dai padroni che poi reclamavano una parte o il totale dei profitti.

Ecco allora che i “servi” e il mandato apostolico non possono essere confusi con la condizione che hanno tutti i credenti in genere: questi, in quanto salvati per grazia, possono sempre portare la loro testimonianza al prossimo come e quando lo ritengono opportuno, ma chi è “servo” non può essere altro che una persona preparata. Si tratta di una distinzione molto importante, esattamente come avviene per l’apostolo che oggi non può esistere per il semplice fatto che non ha vissuto, come quelli veri, con Gesù. Se così non fosse, gli Undici non si sarebbero posti il problema di scegliere, una persona che consentisse il numero originariamente stabilito da Gesù. Dopo il suicidio di Giuda, era necessario che fosse scelto “Uno che divenga testimone, insieme a noi, della sua resurrezione, tra coloro che sono stati con noi per tutto il tempo nel quale il Signore Gesù è vissuto fra noi, cominciando dal battesimo di Giovanni fino al giorno in cui è stato in mezzo a noi assunto in cielo” (Atti 1.21,22).

Se quindi agli Apostoli Gesù diede il mandato dopo tre anni e mezzo, se le mine vengono affidate ai servi dopo una formazione adeguata, allo stesso modo portare il Vangelo con efficacia richiede fondamenti il più delle volte sofferti, attraverso una plasmatura e un lavoro non indifferente di esperienza ed orientamento senza il quale si rischia di non giungere ad  un risultato apprezzabile; si potranno avere dei seguaci, degli adepti, dei religiosi, ma non persone in grado di essere illuminate dalla Verità del Vangelo.

Tornando alla frase “Fatele fruttare fino al mio ritorno” ci dà la durata, non definita, dell’incarico: i servi cioè sanno che il compito ricevuto è a tempo indeterminato. Da quel giorno in poi fu un succedersi di questi attraverso i secoli che hanno portato avanti lo stesso incarico, con efficacia maggiore o minore, come vedremo. L’importante è ricevere la mina, nel quale è indubbio distinguere il dono, e la funzione: non può esservi l’uno senza l’altro e chi porta il Vangelo in un modo o in un altro deve chiedersi se possiede entrambi, per evitare conseguenze devastanti.

“Fino al mio ritorno”, poi, è una frase che implica un’attività continua, che avrà una scadenza non quando lo decideranno i servi, ma quando avverrà il ritorno promesso. Sappiamo da parabole collegate al ritorno di Gesù che alcuni si addormenteranno, si stancheranno, avranno l’idea che obiettivamente il Signore “tarda a venire” e allora si dedicheranno all’inutilità delle cose della vita se non addirittura a sopraffare gli altri, potranno avere la tentazione di nascondere la mina o il talento senza far nulla perché in fondo quanto dato verrà restituito, ma la verità è depositata nel concetto del ritorno dell’ “uomo di nobile famiglia”.

A questo punto Gesù, che si trovava a Gerico e che per questo espose una parabola che, a motivo della reggia e delle vicende ad essa legate, poteva essere ben compresa, include un altro elemento di cui leggiamo al verso 14, “Ma i suoi concittadini lo odiavano e mandarono dietro di lui una delegazione a dire: «Non vogliamo che costui regni sopra di noi»”. Certo è facile individuare in questi personaggi le autorità religiose del popolo o anche solo quanti, fra lo stesso, erano contrari a Gesù, ma in queste parole c’è un riferimento preciso a tempi da poco trascorsi perché, quando in Giudea si seppe che Archelao, figlio di Erode il Grande, era partito per Roma per ottenere da Augusto il diritto a regnare su quel territorio, i suoi sudditi, conoscendo il suo carattere e sapendo a quali conseguenze avrebbe portato un regno diretto da lui, mandarono a Roma un’ambasciata per protestare contro la sua nomina e impedirla in ogni maniera. In realtà le cose furono molto più complesse perché vi fu un processo, Salome sorella del padre lo accusò di cattiva gestione, in Giudea scoppiarono disordini poi repressi da due legioni romane, ma di questo si può prendere atto leggendo i libri di storia.

Fatto sta che qui Gesù, citando i concittadini dell’uomo nobile che lo rifiutano come re, fa un richiamo politico assimilando il rifiuto dei capi religiosi del popolo a riceverlo come “Colui che viene nel nome del Signore” a quelli che non volevano che Archelao regnasse su di loro, cosa che poi avvenne anche se per breve tempo.

Già in queste parole c’è l’impressione di una sentenza imminente e al tempo stesso del fatto che i dieci servi sarebbero stati assolutamente indifferenti al rifiuto di quelli; a loro era stato detto “Fatele fruttare fino al mio ritorno” senza preoccuparsi di altro, come leggiamo dalle parole di Paolo a Timoteo nella sua seconda lettera: “E tu, figlio mio, attingi forza dalla grazia che è in Cristo Gesù: le cose che hai udito da me davanti a molti testimoni, trasmettile a persona fidate, le quali a loro volta siano in grado di insegnare agli altri. Come un buon soldato di Gesù Cristo, soffri insieme con me. Nessuno, quando presta servizio militare, si lascia prendere dalle faccende della vita comune, se vuol piacere a colui che lo ha arruolato. Anche l’atleta non riceve il premio se non ha lottato secondo le regole. Il contadino, che lavora duramente, dev’essere il primo a raccogliere i frutti della terra. Cerca di capire quello che dico, e il Signore ti aiuterà a comprendere ogni cosa” (2.1-7). Amen.

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15.33 – LA PARABOLA DELLE DIECI MINE I/III (Luca 19.11-57)

15.33 – La parabola delle dieci mine I/III: il paese lontano (Luca 19.11-27)

 

11Mentre essi stavano ad ascoltare queste cose, disse ancora una parabola, perché era vicino a Gerusalemme ed essi pensavano che il regno di Dio dovesse manifestarsi da un momento all’altro. 12Disse dunque: «Un uomo di nobile famiglia partì per un paese lontano, per ricevere il titolo di re e poi ritornare. 13Chiamati dieci dei suoi servi, consegnò loro dieci monete d’oro, dicendo: «Fatele fruttare fino al mio ritorno». 14Ma i suoi cittadini lo odiavano e mandarono dietro di lui una delegazione a dire: «Non vogliamo che costui venga a regnare su di noi». 15Dopo aver ricevuto il titolo di re, egli ritornò e fece chiamare quei servi a cui aveva consegnato il denaro, per sapere quanto ciascuno avesse guadagnato. 16Si presentò il primo e disse: «Signore, la tua moneta d’oro ne ha fruttate dieci». 17Gli disse: «Bene, servo buono! Poiché ti sei mostrato fedele nel poco, ricevi il potere sopra dieci città». 18Poi si presentò il secondo e disse: «Signore, la tua moneta d’oro ne ha fruttate cinque». 19Anche a questo disse: «Tu pure sarai a capo di cinque città». 20Venne poi anche un altro e disse: «Signore, ecco la tua moneta d’oro, che ho tenuto nascosta in un fazzoletto; 21avevo paura di te, che sei un uomo severo: prendi quello che non hai messo in deposito e mieti quello che non hai seminato». 22Gli rispose: «Dalle tue stesse parole ti giudico, servo malvagio! Sapevi che sono un uomo severo, che prendo quello che non ho messo in deposito e mieto quello che non ho seminato: 23perché allora non hai consegnato il mio denaro a una banca? Al mio ritorno l’avrei riscosso con gli interessi». 24Disse poi ai presenti: «Toglietegli la moneta d’oro e datela a colui che ne ha dieci». 25Gli risposero: «Signore, ne ha già dieci!». 26«Io vi dico: A chi ha, sarà dato; invece a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha. 27E quei miei nemici, che non volevano che io diventassi loro re, conduceteli qui e uccideteli davanti a me»».

 

Questa parabola, detta anche “dei dieci servi”, fu esposta con ogni probabilità al convito organizzato da Zaccheo in casa sua per salutare Gesù, preceduto dalla professione di fede che abbiamo esaminato. Viene istintivo accomunarla a quella, forse più celebre, dei talenti, ma ne differisce nei particolari: questa fu esposta poco prima di iniziare il viaggio da Gerico a Gerusalemme, l’altra sul Monte degli Ulivi; una fu esposta a tutti i presenti, quindi Apostoli, Discepoli e tutti gli ospiti di Zaccheo, l’altra ai soli Dodici. Da questo particolare rileviamo allora che ad ascoltare le parabole vi era anche Giuda, che nonostante tutto si assunse la responsabilità del tradimento. La parabola delle mine, poi, non parla solo di servitori come quella dei talenti, ma anche di cittadini che non vogliono riconoscere la sovranità di chi è partito e deve tornare. Poi qui ogni servo riceve la stessa somma, mentre nell’altra il numero cambia. In compenso, entrambe le parabole contengono il verdetto di condanna per il servo che nulla fa di quanto gli era stato ordinato.

Il testo che stiamo per esaminare, seppur brevemente, fu esposto “perché era vicino a Gerusalemme ed essi pensavano che il regno di Dio dovesse manifestarsi da un momento all’altro”: infatti, tra i Dodici, i discepoli e quelli che accompagnavano Gesù per varie ragioni, si era diffusa l’opinione che nell’imminente Pasqua si sarebbe verificato un non meglio precisato evento che avrebbe portato il Cristo ad instaurare a Gerusalemme il suo regno messianico. Ecco perché Salome, Giacomo e Giovanni si presentarono a Gesù per chiedergli di poter sedere l’uno alla sua destra e l’altro alla sua sinistra nel Suo regno, ed ecco il motivo per cui gli altri si sdegnarono non essendo riusciti a chiedere la stessa cosa prima di loro; può anche essere questo il motivo che fece dire a Cleofa e all’altro discepolo innominato, quando apparve loro in altra forma, “Noi speravamo che fosse lui quello che avrebbe liberato Israele” (Luca 24.21).

Possiamo dire che l’idea della restaurazione del regno rimase nella mente dei discepoli anche dopo la Sua risurrezione, quando in Atti 1.6-8, prima che il Consolatore si manifestasse, gli chiesero “Signore, è questo il tempo nel quale ricostruirai il regno per Israele? Ma egli rispose: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra»”.

Nella prima parte della nostra parabola Gesù, parlando di “un uomo di nobile famiglia” che parte “per un paese lontano per ricevere il titolo di re e poi tornare”, è certo di attirare l’attenzione dei presenti perché era noto che, da quando i Romani avevano unito al loro impero la Siria e la Palestina, tutti coloro che esercitavano un’autorità come re locali (vedi Erode il Grande, Archelao, i figli ed Erode Agrippa) dovevano andare a Roma per ricevere l’investitura.

Ecco allora la descrizione che Nostro Signore dà di sé: “un uomo di nobile famiglia”. Non “il Figlio di Dio” potente, colui che “prima che il mondo fosse, Io sono”, ma “un uomo” che non era come gli altri perché la “nobile famiglia” cui fa riferimento è quella di Abrahamo e di Davide dai quali discendeva.

“Per ricevere il titolo di re e poi ritornare” è lo scopo dell’assenza di quella persona dalle sue terre e dalla sua casa. Questo comporta un viaggio, un soggiorno nel Paese che lo avrebbe investito di quella carica, e un ritorno – attenzione – non fra i suoi famigliari, ma fra la sua gente, “i suoi concittadini” che “l’odiavano” che inviarono “una delegazione” a far presente che non volevano fosse lui a regnare su di loro.

È indubbiamente singolare la limpidità di questo racconto e i riferimenti che Gesù dà di sé stesso, poiché effettivamente, con la Sua ascensione, se ne andrà “per un paese lontano a ricevere il titolo di re” che prima non aveva nel senso che, pur essendo Dio e Uno con il Padre, non era ancora stato rivelato all’uomo, per lo meno non come nel tempo della Grazia. Gesù salì al Padre quaranta giorni dopo la Sua risurrezione e da allora è seduto alla Sua destra “finché io ponga i tuoi nemici – e già possiamo vedere i concittadini – a sgabello dei tuoi piedi” (Salmo 110.1) in attesa, come disse l’apostolo Pietro nel tempio, della Sua manifestazione: “Bisogna che il cielo lo accolga fino ai tempi della ricostituzione di tutte le cose, delle quali Dio ha parlato per bocca dei suoi santi profeti fin dall’antichità” (Atti 3.21).

Il protagonista della parabola parte “per un Paese lontano”, in quella dei talenti è scritto che “partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni” (Matteo25.14), da cui rileviamo l’enorme responsabilità di cui quelle persone furono rivestite. Qui, invece, abbiamo un “uomo nobile” che diventa re e poi, come anche nell’altro racconto, torna, soltanto che solo qui sappiamo dell’investitura quale Dio rivelato all’uomo una volta per sempre.

Quel “paese” era “lontano”, sia per i suoi uditori, ma anche per Lui perché dobbiamo ricordarci che “prese forma di servo”, rinunciò al proprio vivere nelle sfere celesti per scendere sulla terra e vivere trentatré anni circa come un qualunque essere umano. Il suo salire al cielo, figura dell’ingresso in una dimensione diversa e invisibile, ci parla non solo della vittoria sulla morte, ma della sua totale purezza nel senso che, se così non fosse stato, non avrebbe potuto risorgere. Nulla di impuro lo aveva intaccato, perché ogni cosa si era adempiuta e compiuta.

Il partire di Gesù per il “paese lontano” significa proprio questo, l’andare presentandosi al Padre come Colui che aveva con successo svolto quell’opera volontariamente scelta per salvare l’uomo che avrebbe creduto in Lui beneficiando della Sua Opera perfetta. In Efesi 1.20-23 leggiamo che la grandezza della Sua potenza verso di noi “la manifestò in Cristo, quando lo risuscitò dai morti e lo fece sedere alla sua destra nei cieli, al di sopra di ogni Principato e Potenza, al di sopra di ogni Forza e Dominazione e di ogni nome che viene nominato non solo nel tempo presente, ma anche in quello futuro”. Il Dio Figlio ricevette la posizione che Paolo ci ha ricordato proprio per il suo vissuto umano trionfante sul peccato, sul dubbio, sull’esitare, sull’inaffidabilità umana che non ebbe, solidarizzando con la creatura caduta senza cadere.

Non può esservi altro nome più grande al di fuori di quello di Gesù, e naturalmente del Padre che lo ha inviato. Se penso alle alternative che il mondo propone, mi viene male perché ognuna di esse, escogitata per non ascoltarlo, non accoglierlo e agire di conseguenza di fronte a Lui sarà dissolta. E dolorosamente.

In Filippesi 2.5-11 leggiamo che Gesù, “dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò un nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!» a gloria di Dio Padre”. Notiamo che è scritto “Signore” senza l’articolo davanti, perché anche un determinativo ne ridurrebbe la portata. Signore di tutto, senza possibilità di non essere accolti per alcuni e nemmeno di evitare una condanna per altri, come nel finale della parabola che qui limito ai concittadini contrari: “A quei nemici che non volevano che io diventassi loro re, conduceteli qui e uccideteli davanti a me”. In pratica, finisce il tempo del servo e inizia quello del regnante che dà il compenso per quanto si avrà operato, in bene o in male.

C’è un particolare in quest’ultimo verso, “ogni ginocchio si pieghi” che dà al tempo stesso l’idea della spontaneità e della costrizione: di fronte a Lui ci sarà chi si inginocchierà per rispetto spontaneo, desideroso di onorarlo finalmente alla Sua presenza, e chi non ne potrà fare a meno nonostante il suo averlo costantemente respinto, disprezzato, rinnegato. Sarà un piegare le ginocchia per sconfitta.

Altro passo su quanto avviene dal e nel “paese lontano” e la realtà delle cose l’abbiamo in Colossesi 1.17-20: “Egli è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono. Egli è anche il capo del corpo, della Chiesa. Egli è il principio, primogenito di quelli che risorgono dai morti, perché sia lui ad avere il primato su tutte le cose. È piaciuto infatti a Dio che abiti in lui tutta la pienezza e che per mezzo di lui e in vista di lui siano riconciliate tutte le cose, avendo pacificato con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli”.

Non sono parole messe a caso, non è una dossologia da recitare con enfasi rendendola inconcludente, ma la verità espressa sull’invisibile: “per mezzo di lui e in vista di lui” è un concetto che parte dalla creazione del mondo che conosciamo e termina con quella Nuova. Abbiamo poi letto che il sangue sparso alla croce ha “pacificato sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli”, vale a dire che il disequilibrio causato dalla disubbidienza dei nostri progenitori è stato eliminato, pur restando come conseguenza la morte, che verrà eliminata assieme a tutto ciò che è negativo con la nuova creazione.

L’ultimo verso, poi, quello sulla pacificazione, non sta ad indicare altro se non il riunire sotto la figura di Gesù glorificato ogni cosa, cioè “ricondurre al Cristo, unico capo, tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra”. Amen.

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15.32 – ZACCHEO (Luca 19.1-10)

15.32 – Zaccheo (Luca 19.1-10)

 

1 Entrò nella città di Gerico e la stava attraversando, 2quand’ecco un uomo, di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, 3cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura. 4Allora corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomòro, perché doveva passare di là. 5Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». 6Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia. 7Vedendo ciò, tutti mormoravano: «È entrato in casa di un peccatore!». 8Ma Zaccheo, alzatosi, disse al Signore: «Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto». 9Gesù gli rispose: «Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch’egli è figlio di Abramo. 10Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto».

 

Come avvenuto prima di affrontare il personaggio Bartimeo, anche l’introduzione di Luca “Entrò nella città di Gerico e la stava attraversando” merita un breve approfondimento che dovrà tener conto della geografia della zona e dei due (o tre secondo altri) ciechi lì guariti. Riflettendo sui racconti dei sinottici, abbiamo: “Mentre si avvicinava a Gerico, un cieco era seduto lungo la strada a mendicare” (Luca 18.35), “Mentre partiva da Gerico” (Marco 10.16) e “Mentre uscivano da Gerico, (…) due ciechi, seduti lungo la strada a mendicare…” (Matteo 20.29). Sapendo che esisteva una città vecchia e una nuova, ritengo più che plausibile che Matteo abbia riassunto in uno solo due incontri diversi che avvennero rispettivamente all’uscita dalla città vecchia e prima di quella nuova, che Marco abbia riferito del solo Bartimeo, che si era sistemato tra le due, e che Luca faccia un riferimento analogo. In più, sempre Luca in 18.43, abbiamo un dettaglio interessante e cioè che Bartimeo “Subito ci vide di nuovo e cominciò a seguirlo glorificando Dio. E tutto il popolo – della Gerico nuova –, vedendo, diede lode a Dio”.

Ecco allora che, quando leggiamo nel nostro testo al verso 1 “Entrò nella città di Gerico e la stava attraversando”, il miracolo della guarigione di Bartimeo era già avvenuto ed è facile immaginarsi la scena: la folla era entusiasta e acclamava Gesù; tutti, anche quelli che erano ignari del miracolo, non potevano fare altro che notare quella gente esultante con Bartimeo che vedeva perfettamente; la notizia si spargeva sempre di più ed era un accorrere generale verso il corteo dei discepoli che via via s’ingrandiva.

A questo punto inizia ad emergere la figura di Zaccheo, che significa “puro” o “innocente”. Era il “capo dei pubblicani ed era ricco” stante la città che amministrava per conto del Governo di Roma: ricordiamo che da lì si esportava il balsamo demdrom miræ e che, per il passaggio delle carovane, il traffico delle merci e delle persone era molto rilevante, quindi anche le riscossioni dei tributi. Zaccheo, per poter avere in appalto la gestione delle tasse, doveva essere già ricco di suo perché il Governo di Roma, per poter concederne l’appalto, richiedeva a chi ne faceva richiesta una forte cauzione.

Naturalmente malvisto più dei semplici pubblicani, quell’uomo era basso di statura e, in mezzo a tutta la confusione che si era venuta a creare e la gente più alta di lui, proprio non gli riusciva di vedere Gesù né tantomeno di farsi notare da lui, qualora fosse quello il suo intento.

E qui sorge spontaneo confrontare Bartimeo e Zaccheo: il primo pregava Iddio perché potesse passare per Gerico e guarirlo, il secondo invece suppongo avesse semplicemente sentito parlare di Gesù e volesse rendersi conto di persona chi fosse, quali fattezze avesse. Come tutti i suoi concittadini sapeva dei miracoli, della Sua predicazione e probabilmente gli era noto che, a differenza degli altri israeliti, non disprezzava i pubblicani, anzi a volte aveva loro insegnato e chissà se Zaccheo sapeva che, fra i discepoli, c’era qualcuno che faceva (o aveva fatto) il suo stesso mestiere, Matteo primo fra tutti.

La volontà di Zaccheo di vedere Gesù non era superficiale perché, se così fosse stato, non avrebbe certo escogitato un sistema per vederlo, anticipandone il percorso e arrampicandosi su uno dei tanti sicomori, piante simili ai gelso, che crescevano spontaneamente lungo la strada. Chissà perché, mi sono sempre immaginato la scena raccontata da Luca come avvenuta in una piazza, ma credo che Zaccheo abbia corso e trovato il punto più favorevole per vedere Gesù all’uscita della città; proprio fuori dalla Gerico nuova infatti, prendendo la strada per Gerusalemme come riferimento, Erode il Grande aveva fatto costruire diverse case e, dalla dinamica degli avvenimenti, può essere benissimo che Zaccheo abitasse in una di quelle.

Per quest’uomo era arrivato dunque il momento di rendersi conto personalmente di chi fosse Gesù: voleva “vederlo” nel senso di capire che persona fosse, cogliere quei particolari che solo quelle persone che hanno esperienza dell’uomo possono. In Zaccheo quindi esisteva il germe del dubbio nel senso che, prima di credere, voleva verificare con mano, scrutare l’esteriorità di Gesù per valutarlo come uomo, cosa alla quale era abituato nel scegliere i propri collaboratori ed esaminare la sincerità dei propri interlocutori che, oltre a disprezzarlo, cercavano sempre il modo migliore per pagare meno tributi possibili.

Arrampicandosi sul sicomoro, cosa non difficile per la conformazione di quest’albero, Zaccheo mostra un desiderio di capire così forte da renderlo incurante dell’eventuale, ridicola “figura” alla quale si sarebbe sottoposto qualora fosse stato visto dai suoi concittadini. La volgarità delle persone, infatti, si manifesta sempre attraverso la presa in giro, lo scherzo o il dileggio, come ricorda Salomone in Proverbi 26.18,19: “Come un pazzo che scaglia tizzoni e frecce di morte, così è colui che inganna il suo prossimo e poi dice: «Ma sì, è stato uno scherzo!»”.

Zaccheo quindi si arrampica: nulla ha da chiedere o da dire a Nostro Signore, ma vuole solo rendersi conto del personaggio, ma non sa che, così come Natanaele era stato visto “sotto il fico”, lui sarebbe stato visto “sopra il sicomoro”. Si può dire che, se il capo dei pubblicani aspettava di vedere Gesù, Lui aspettava di incontrarlo e di fermarsi a casa sua, e questo ci parla di quanto siamo sempre profondamente ignoranti: viviamo, pensiamo, progettiamo e poi, alla fine, le uniche cose che restano sono quelle che sempre Lui permette e prepara per noi. Zaccheo aveva tutto un programma, cioè rendersi conto personalmente chi fosse Gesù e poi incontra Uno che lo onora della Sua presenza e si lascia conoscere.

Leggiamo in una traduzione più corretta della nostra che “Come fu giunto in quel luogo, Gesù alzò gli occhi, e lo vide, e gli disse: Zaccheo, scendi giù in fretta, perché oggi devo albergare in casa tua”. Questo verso ci insegna molte cose, prima fra tutte il fatto che, quando è Dio a cercarci in salvezza o in giudizio, non possiamo nasconderci. E Zaccheo sono convinto che si fosse ben mimetizzato tra le fronde spesse di quel sicomoro. Seconda, Gesù “alzò gli occhi” proprio in quel punto, mentre di solito un albero lo si guarda da lontano per poi passargli vicino senza badargli: “alzò gli occhi e lo vide”, quindi sapeva di essere atteso da quell’uomo, anche se non per chiedergli un miracolo. Terzo, conosce il suo nome e non avrebbe potuto essere altrimenti. C’è chi ha detto che nessuno va in cerca di Cristo senza poi sapere che anche Cristo era in cerca di lui, ed è vero, credo che sia una realtà che ciascun credente ha provato.

Ecco allora che il vedersi scoperto quando credeva di essere ben nascosto e il sentire il suo nome pronunciato da chi non l’aveva mai visto, trafissero la mente e la coscienza di Zaccheo e lo convinsero subito che Colui che gli parlava non era un uomo come gli altri e che quindi non c’era alcuna ragione di valutarlo come faceva da tempo con i suoi simili.

La nostra traduzione dice “scendi giù perché devo fermarmi a casa tua”, ma non rende l’idea perché Gesù dice in greco mèinai, cioè “albergare”, quindi “fermarmi” non solo per un pasto, ma per la notte. Poi sottolineiamo che non viene detto “voglio”, ma “devo”, verbo che ci parla di un progetto, di qualcosa del tipo “se non mi fermo da te, sono passato di qui invano”, nonostante il miracolo di Bartimeo e dell’altro cieco, o ciechi. “Devo” perché l’itinerario preparato dal Padre prevedeva il ricupero di due persone, lui e Bartimeo per intervento diretto, senza contare le altre che credettero e “glorificarono Dio”.

Tralascio il commento del pubblico presente, “È entrato in casa di un peccatore!”, per concentrarmi sulla reazione di Zaccheo, che scende subito dall’albero sicuramente trasformato nel suo intimo per tutte le ragioni che abbiamo esposto. “Scese in fretta e accolse Gesù pieno di gioia”, sentimento che è incompatibile con la diffidenza e anzi è indice di completa disponibilità, chiaramente nella sua casa. Nulla sappiamo dei dialoghi che intercorsero fra i due, ma è agevole pensare che ci furono un pomeriggio, una sera e una notte di dialoghi, con qualche ora forse dedicata al riposo.

A questo punto sorge spontanea una domanda, e cioè quando si realizzò il verso 8, “Ma Zaccheo, alzatosi, disse al Signore…”: da una lettura sommaria, sembrerebbe che ciò si sia verificato quasi subito, una volta che Gesù e i Dodici si fossero accomodati, ma è molto più probabile che quelle parole furono pronunciate il giorno seguente, quando Gesù concluderà con “Oggi per questa casa è avvenuta la salvezza”; in pratica, se la frase di Zaccheo sul dare ai poveri e il restituire il quadruplo fosse stata presentata prima, come una credenziale, quell’uomo si sarebbe già sentito a posto con la propria coscienza e davanti a Dio, almeno secondo la Legge. In altri termini le sue parole sarebbero state identiche a quelle del fariseo al Tempio che, a differenza del pubblicano, sciorinava davanti a Dio i suoi meriti.

Se però quelle parole fossero state il frutto di una conversione, ecco che assumerebbero una valenza completamente diversa e inquadrerebbero quelle di Gesù in un contesto più appropriato. Non dimentichiamo che quel capo dei pubblicani, all’inizio del racconto, viene presentato solo come “ricco” e non come un buon uomo, un onesto o un benefattore: era una persona come tante, non insensibile né ai racconti che gli venivano presentati su Gesù e – credo – a fronte della guarigione di Bartimeo, ma niente di più; soltanto dopo un numero di ore che non possiamo quantificare a colloquio con Gesù, “Si alzò” – altri traducono “Si presentò al Signore” – e gli disse quanto riportato al verso 8, cioè dopo avere meditato e probabilmente aver capito che il vero guadagno consisteva nel credere e nella conversione: “do la metà di tutti i miei beni ai poveri”.

Quei beni che già possedeva, ma che si erano accresciuti col proprio lavoro, quindi beni cercati e conseguiti con impegno, ora hanno assunto un significato molto più relativo. Soprattutto, qualora avesse “rubato a qualcuno”, gli avrebbe restituito “quattro volte tanto”, parole molto importanti per capire il personaggio e la trasformazione operata in lui dalla Grazia perché il restituire il quadruplo era cosa che avveniva qualora l’autore di un furto fosse stato scoperto, ma, nel caso in cui vi fosse stata una riconsegna spontanea, sarebbe stata sufficiente la consegna della sola somma sottratta.

Zaccheo, prima della conversione, non era un uomo cattivo, ma semplicemente una persona che curava i propri interessi per star bene con la propria famiglia , rubando agli altri sulle percentuali dovute quel poco che bastava per non essere scoperto, un comportamento certo non deprecabile per il mondo che tante cose giustifica.

I dialoghi avuti con Gesù, invece, portano a uno stravolgimento completo perché al credere in Lui corrisponde immediatamente l’individuazione severa delle proprie mancanze e il desiderio di porvi rimedio. In pratica, si realizza Romani 10.10, “Con il cuore si crede per ottenere la giustizia, e con la bocca si fa professione di fede per ottenere la salvezza”.

Prima ancora, però, Zaccheo dovette scendere dal sicomoro, qui figura di una posizione conquistata con fatica, la stessa, idealmente parlando, che aveva portato quell’uomo ad aumentare la propria ricchezza. Scendendo da quell’albero, quel pubblicano dimostrò di essere disponibile a ripensare tutta la sua vita. Idealmente parlando, salì con tutte le proprie convinzioni, ma ne scese consapevole che ne avrebbe assunte delle altre, anche se non sapeva quali. Lo stesso avviene a qualunque essere umano alla ricerca di Dio, lo stesso avviene quando lo si trova. Amen.

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15.12 – GESÙ BENEDICE I BAMBINI (Luca 18.15-17)

15.12 –Gesù benedice i bambini (Luca 18.15-17)

 

15Gli presentavano anche i bambini piccoli perché li toccasse, ma i discepoli, vedendo ciò, li rimproveravano. 16Allora Gesù li chiamò a sé e disse: «Lasciate che i bambini vengano a me e non glielo impedite; a chi è come loro, infatti, appartiene il regno di Dio. 17In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come l’accoglie un bambino, non entrerà in esso».

 

Luca, dopo l’esposizione della parabola del fariseo e del pubblicano, si collega ai racconti di Matteo e Marco che narrano della disputa, sempre coi Giudei, riguardo al matrimonio e la benedizione dei bambini. È un tema che abbiamo già trattato, ma più con le applicazioni relative alla necessità, da parte dell’uomo che ha accolto il Vangelo, di essere come loro perché “In verità io vi dico, se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli” (Matteo 18.3).

Proseguendo la lettura di Matteo, anche il capitolo 19 ha forti analogie col racconto di Luca perché, subito dopo l’episodio, abbiamo l’incontro col giovane ricco, di cui abbiamo già parlato. Il parallelo di Matteo 19.13-15 ci aiuta a comprendere quanto avvenne: “Allora gli furono portati dei bambini perché imponesse loro le mani e pregasse, ma i discepoli li rimproverarono. Gesù però disse: «Lasciateli, non impedite che i bambini vengano a me; a chi è come loro, infatti, appartiene il regno dei cieli». E, dopo avere imposto loro le mani andò via di là”.

Cerchiamo di concentrarci ora sulla scena: Gesù aveva appena concluso il suo insegnamento, parlando davanti a tutti, gente comune, farisei, pubblicani e peccatori. Tra di loro solo la categoria dei religiosi (ma non tutti) lo disprezzava e odiava, ma quando leggiamo che “gli presentavano anche i bambini piccoli perché li toccasse”, vediamo che le madri presenti gli portavano i loro figli, quelli ancora in fasce o poco più grandi, perché era in uso in Israele condurre i piccoli ai rabbini più importanti perché li benedicessero. Così facendo dimostrano proprio agli avversari di Gesù che, indipendentemente dal fatto che volessero seguirlo o convertirsi o meno, Lo ritenevano molto più autorevole di loro. Ricordiamo le parole dei due discepoli sulla via di Emmaus, che ricordando il loro Maestro lo definirono “profeta potente in parole e in opere, davanti a Dio e a tutto il popolo” (Luca 24.19) e quelle di Giuseppe Flavio, già ricordate all’inizio di questa serie di studi, che scrisse “Ci fu verso questo tempo Gesù, uomo saggio, se pure bisogna chiamarlo uomo: era infatti autore di opere straordinarie, maestro di uomini che accolgono con piacere la verità, ed attirò a sé molti Giudei, e anche molti dei greci. Questi era il Cristo. E quando Pilato, per denunzia degli uomini notabili fra noi, lo punì di croce, non cessarono coloro che da principio lo avevano amato. Egli infatti apparve loro al terzo giorno nuovamente vivo, avendo già annunziato i divini profeti queste e migliaia d’altre meraviglie riguardo a lui. Ancor oggi non è venuta meno la tribù di quelli che, da costui, sono chiamati Cristiani” (Ant. XVIII, 63-64).

Va detto che l’imposizione delle mani era un atto simbolico e non la trasmissione di una sorta di potere magico. Colui che la riceveva, fosse un adulto o un bambino come nel caso di questo episodio, non riceveva altro se non l’approvazione, l’attestazione del fatto che nulla di negativo si frapponeva fra lui e Dio. Imponendo le mani, o “toccando” la persona, si chiedeva che si potesse idealmente trasmettere la volontà di chi agiva in tal senso al fine di porlo in un condizione futura diversa da quella di prima. Portando a Gesù i bambini, quelle madri Gli chiedevano di agire in modo favorevole ai loro figli, nella speranza-certezza che potessero diventare un giorno uomini di Dio.

Imporre le mani a qualcuno, uomo o animale nell’Antico Patto, era un modo per trasmettere ritualmente un’autorità, un dono, ma anche una maledizione. Era un atto formale, valeva come una dichiarazione scritta, un attestato e tutto questo andrebbe praticato ancora oggi nelle Chiese locali nel caso di credenti in cui si distingue un dono, al fine di porlo ufficialmente nelle condizioni di svilupparlo e ricercarlo al meglio: un riconoscimento pubblico. Così fu per Saulo da Tarso, Barnaba, Timoteo e molti altri.

Sappiamo che molti furono guariti toccando Lui o il lembo della sua veste, che impose le mani a molte persone e le guarì (Luca 4.40). Anche l’apostolo Paolo usò questa forma per guarire, ad esempio, il padre di Publio, governatore dell’isola di Malta, episodio in cui leggiamo che “Paolo andò a trovarlo e, dopo aver pregato, gli impose le mani e lo guarì” (Atti 28.8).

Altra considerazione possibile su quelle madri è che non erano animate da un sentimento di superstizione, ma erano consce della differenza che intercorreva fra il Cristo e gli altri uomini che, magari autorevoli tra il popolo a livello religioso, non avrebbero potuto benedire i loro figli con la stessa autorevolezza; da qui possiamo dedurre che tutto questo avvenisse con una certa urgenza e trepidazione, cosa che provocò nei discepoli fastidio perché leggiamo che “li rimproveravano”, convinti anche del fatto che il Suo ministero fosse riservato agli adulti.

Però Marco 10.14 precisa che “Gesù, al vedere questo, si indignò e disse loro…”, quindi ancora una volta furono posti di fronte al fatto che non erano in grado di interpretare correttamente il senso delle cose: certo quei bambini, di età inferiore ai quattro anni come abbiamo ricordato, non avrebbero potuto capire nulla né del peccato, né della necessità di essere salvati, ma erano comunque degni dell’attenzione di Dio talché sempre Marco scrive “E, prendendoli tra le braccia, li benediceva, imponendo le mani su di loro” (v.16). Pensiamo al fatto che non è un caso se proprio Marco, informato da Pietro, scrive queste cose.

E, in merito a questo particolare, penso a quelle creature innocenti, che, senza nulla capire, nulla sapere di ciò che un giorno sarebbero diventate, una volta cresciuti avrebbero appreso di essere stati in braccio e benedetti dalla Parola fatta carne, venuta a dimorare in mezzo a noi. È una piccola cosa, ma che è pervasa d’infinito, ci parla del piano esistente per ognuno di loro (e quindi noi), dello sguardo di Gesù che trapassa il tempo, fatto di secondi e millenni, di attesa e di accoglienza nel suo regno. Per fede quelle donne gli portavano i loro figli e già Lui pregava per loro. Ecco, i discepoli, frapponendosi tra lui e quelli, ancora una volta dimostrarono di pensare secondo la terra e quel che è peggio è che, forse, io avrei fatto altrettanto pensando, in quanto discepolo e operatore fattivo del regno di Dio, di avere fatto già abbastanza e di avere il diritto di riposare.

Invece non si finisce mai di imparare, soprattutto nel campo spirituale: se mi aspetto che il Signore arrivi da una parte, ecco che giunge da quella opposta. Se mi aspetto che si manifesti nelle cose grandi o gravi, eccolo nelle minute, nel dettaglio, nell’assoluto inatteso e le Sue parole, “lasciate” e “non glielo impedite”, riguardano tanto la pratica fisica dell’ostacolare quanto quella mentalità della disapprovazione a priori, la convinzione di sapere ciò che è giusto e sbagliato senza prima riflettere.

I discepoli, che tante volte avevano sentito Gesù parlare di pecore e di “buon pastore” avevano dimenticato che il gregge non è composto solo di animali della stessa età, come ricorda Isaia 40.11: “Come un pastore gli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore madri”. Il bambino quindi non ha bisogno di venire battezzato in quanto, fino a quando non raggiunge l’età delle scelte e non si caratterizza come figlio di Dio oppure no, appartiene già al Suo regno. Sarà poi il tempo a qualificarlo, caratterizzarlo, una volta cresciuto.

Il bambino, prima di diventare autonomo, guarda ogni cosa con stupore e occhi grandi che poi non avrà più. E allo stesso modo il credente, quando viene messo di fronte alle cose di Dio e al progetto che ha per lui.

Il bambino, prima di diventare autonomo, ha bisogno delle cure di genitori preparati (mai abbastanza e imperfetti viste le parole “Se voi, che siete cattivi, siete in grado di dare cose buone ai vostri figli…”) e le accoglie, allo stesso modo il credente deve affidarsi interamente a Lui se desidera imparare, sopravvivere al mondo contaminante e ostile in cui vive. Sarà solo crescendo che, posto di fronte a delle scelte, dovrà decidere da quale parte stare.

E guardando il suo essere indifeso, la sua assoluta necessità di protezione, capiamo quanto sia inevitabile il nostro dipendere da Dio. Il bambino è quindi il metro di paragone fra ciò che siamo e ciò che dovremmo essere nelle nostre dinamiche spirituali.

Il bambino non è certo quello petulante, capriccioso ed egoista che quasi sempre incontriamo, non accuratamente cresciuto da genitori distratti; se mai, quello lo si trova – o si dovrebbe trovare – fuori dalla Chiesa.

E questo chiama in causa un’altra, terribile eventualità, cioè che proprio nella Comunità ci si trovi davanti a degli adulti che in realtà sono bambini mal cresciuti che generano fraintendimenti ed assumono comportamenti molto tristi e disturbanti: inevitabile ricordare la raccomandazione di Paolo ai Corinti, “Non comportatevi da bambini nei giudizi. Quanto a malizia, siate bambini, ma quanto a giudizi, comportatevi da uomini maturi” (1a, 14.20).

Credo sia una frase che possa istruire molto, perché la crescita cristiana nella Parola porta a rimanere bambini quanto alla dipendenza da Dio, ma a una maturità, che solo la pratica di Essa può dare, per valutare accuratamente tutto quanto ci si presenta davanti, sia un evento personale, un consiglio da dare, una persona che ci si propone. Da qui la necessità che l’uomo ha del coltivare il proprio interno mantenendo la sua caratteristica di bambino da un lato, ma dall’altro procedere a una crescita che in parte proviene dalle esperienze fatte e dall’altra dalla dottrina.

Davide scrisse “Signore, non si esalta il mio cuore né i miei occhi guardano in alto – come quelli del fariseo della parabola da poco esaminata –; non vado cercando cose grandi né meraviglie più alte di me. Io invece resto quieto e sereno; come un bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è in me l’anima mia” (Salmo 131.1,2). Lui, re e uomo di guerra, realizzò questa condizione e i fratelli che ci hanno preceduto, compresa la necessità di dare dei riferimenti scritturali agli episodi della Bibbia e del Vangelo, inserirono questi versi connettendoli proprio al passo di Paolo ai Corinti che abbiamo ricordato.

Abbiamo poi l’ultima frase, “Chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso”: non necessariamente il Vangelo dev’essere accettato in toto, passivamente e senza dubbi. Se c’è scritto “venite e discutiamo insieme” un motivo c’è e riguarda proprio il confronto fra Dio e l’uomo, ma dev’essere sempre affrontato con la coscienza di chi siamo noi e di chi è Lui. Un bambino accoglie qualcosa senza riserve, senza anteposizioni di qualsiasi natura, non ha preconcetti, non è ancora influenzato dalle aspirazioni materne o paterne su di lui, quando presenti.

Ecco perché si tratta di un regno che, per molti, è distante. Ecco perché in quel regno, di questi molti non entreranno mai. Amen.

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15.10 – IL FARISEO E IL PUBBLICANO I/II (Luca 18.9-14)

15.10 – Il fariseo e il pubblicano I/II (Luca 18.9-14)

 

9Disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: 10«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. 11Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: «O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. 12Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo». 13Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: «O Dio, abbi pietà di me peccatore». 14Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

 

Questa parabola, una delle più note del Vangelo e anche una delle più commentate, ha una particolarità espressa nella dedica del verso 9: “per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri”. Mentre gli altri evangelisti inquadrano le parabole che Gesù espone a volte specificando il luogo o i destinatari (popolo o discepoli), Luca introduce l’argomento con parole sue, come ad esempio abbiamo visto con la parabola del giudice iniquo (“sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai”, 18.1) o quella delle dieci mine, ancora da analizzare: “Disse ancora una parabola, perché erano vicini a Gerusalemme ed essi pensavano che il regno di Dio dovesse manifestarsi da un momento all’altro” (19.11). Quindi, nell’esposizione delle parabole di Gesù, c’è sempre una dedica e uno scopo preciso affinché la gente possa riconoscersi e meditare.

La parabola del fariseo e del pubblicano è efficace perché pone a confronto due posizioni, due mentalità diametralmente opposte, la prima delle quali è purtroppo presente allora come oggi in molti credenti che, come i farisei del tempo, si credono superiori agli altri e li guardano dall’alto in basso. Per costoro valgono le parole di Romani 12.3 in cui l’apostolo Paolo scrive “Non valutatevi più di quanto conviene, ma valutatevi in modo saggio e giusto, ciascuno secondo la misura di fede che Dio gli ha dato”. Disprezzare gli altri è la conseguenza inevitabile della presunzione che porta a tenere l’altro in nessuna considerazione senza far caso alle qualità che può avere; l’esatto contrario di quanto leggiamo in Filippesi 2.3, “Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiore a se stesso”. Ecco perché la parabola ha valore universale nel tempo e coinvolge tutti, certo non solo i due protagonisti e le categorie storiche che rappresentano.

Nel corso di questi scritti molti dati abbiamo portato sui farisei, sul loro formalismo religioso esasperato, camuffato da un sapere fine a sé stesso che li portava a “filtrare il moscerino e ad inghiottire il cammello” (Matteo 23.24), poche sui pubblicani, categoria che non subì mai rimproveri  da Gesù come la prima.

Costoro avevano in appalto, dal governo romano al quale pagavano un fisso annuale, la riscossione delle imposte. L’esazione delle entrate era stabilita dalla legge romana ed era inferiore all’incasso reale previsto, per cui il guadagno dei pubblicani consisteva nel tenere per sé la somma eccedente e spesso, per aumentarla, cercavano di far versare ai contribuenti più di quanto dovuto arrivando a fare delle vere e proprie estorsioni. Il termine “pubblicano” nei Vangeli indica sia l’appaltatore, come ad esempio Zaccheo, ma molto più spesso i semplici esattori, che dipendevano da chi aveva ufficialmente l’appalto. Sappiamo che costoro venivano sempre associati ai “peccatori” perché mal considerati e invisi alla società che li vedeva come dei venduti all’occupante pagano; non parliamo poi dell’opinione che dovevano avere di loro i farisei, che se disprezzavano gli israeliti non appartenenti alla loro categoria, dovevano odiare profondamente coloro che, riscuotendo tasse secondo loro non dovute – ricordiamo la domanda sulla legittimità della riscossione del tributo a Cesare posta a Gesù – le derubavano ai loro correligionari e al Tempio.

La prima sottolineatura possibile è sulle prime parole, “Due uomini salirono al tempio a pregare”, che istintivamente può suscitare in noi un sentimento di comunione sia perché capiamo il loro impulso, sia perché viene spontaneo considerarli fratelli tra loro, uniti almeno nel sentimento della preghiera perché appartenenti allo stesso popolo di Dio. Queste due persone percorrono più o meno il medesimo tratto di strada, compiono lo stesso sforzo del salire che non farebbero se non ne avvertissero il bisogno. I due uomini “salgono” perché hanno bisogno di farlo, perché la preghiera in casa propria non basta e il Tempio, allora, era la dimora di Dio che stava nel “Luogo santissimo” in cui, come sappiamo, poteva accedere solo il Sommo Sacerdote una volta all’anno.

I due quindi arrivano al Tempio, superano il Cortile del Gentili, quello delle Donne ed entrano nell’altro, degli Uomini, e lì si fermano perché oltre non potevano andare. Il Fariseo percorre tutto quel cortile, giunge davanti al Luogo Santo e lì si ferma, il pubblicano invece leggiamo “fermatosi a distanza”, quindi dal fariseo e dal Santuario. Il primo, rispettoso dei ruoli tra l’essere fariseo e sacerdote, non invade il luogo a loro riservato, ma va fino al limite estremo a lui consentito, come siamo autorizzati a pensare dalle parole “stando in piedi” che, se si riferissero a una mera posizione, non avrebbero senso perché tutti, indipendentemente dalla classe sociale, pregavano in quel modo, quindi anche il pubblicano.

“Stando in piedi” indica allora non la posizione del corpo, ma il contegno, l’atteggiamento, mentre “in disparte”, contrariamente a quanto potrebbe apparire, non intende collocare la persona ai margini del cortile, ad esempio vicino a una colonna o a un muro, ma semplicemente che la sua preghiera fu muta, “tra sé” come propriamente traduce una sola versione, quella di don Emilio Ottaviano.

Ecco allora che già qui abbiamo un primo indicatore di ciò che animava i due personaggi avanti che iniziassero a parlare: il fariseo era colui che, secondo lui conoscendo la Scrittura e praticando la Legge, aveva pieno diritto a stare “davanti”, ad “avere i primi posti”, come dirà Gesù in un altro contesto; il pubblicano non sa dove stare, al di là del fatto che, essendo un uomo, poteva avere accesso a quel settore del Tempio. Ma si ferma “a distanza”, cioè appena all’ingresso, evidentemente non sentendosi degno di avvicinarsi, ma come vedremo avendo ben chiaro come pregare.

Vediamo allora la preghiera del fariseo, che inizia con un ringraziamento, il che di per sé sarebbe positivo se non fosse solo una scusa per glorificare se stesso: “Ti ringrazio perché non sono – cioè non esisto, non mi estrinseco – come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri e neppure come questo pubblicano”. La sua preghiera si divide in due parti: nella prima elenca ciò che non è, ma è lui a dirlo e non YHWH a cui si rivolge. Quest’uomo in poche parole si dichiara giusto da se stesso e in quanto tale ritiene di collocarsi a pieno diritto davanti al Luogo Santo, lui puro non solo per il suo non essere “come gli altri uomini”, ma anche per tutte le formalità cui adempie e che elencherà subito dopo.

Il dramma della sua “superiorità” personalmente lo individuo nelle parole “e neppure come questo pubblicano”, segno che si era accorto della sua presenza guardandosi attorno prima di iniziare a snocciolare in preghiera le proprie presunte qualità, oppure fin dalla salita al Tempio. “Neppure come questo pubblicano” è il confronto sprezzante con un’altra creatura di Dio venuta lì per pregarLo, alla quale nega la possibilità di venire ascoltato perché, se il fariseo è puro e separato, l’altro rappresenta l’esatto suo contrario, quindi, secondo quest’ottica, chi merita ascolto è sempre e solo uno, che non può essere altri se non chi è puro, “non come gli altri uomini”.

E qui occorre fare attenzione perché si tratta di una presunzione istintiva e al tempo stesso ragionata, visto come si consideravano i farisei, ma che trova nella Scrittura una forte e chiara opposizione. Così troviamo in Isaia 1.15-17: “Quando venite a presentarvi a me, chi richiede a voi questo, che veniate a calpestare i miei atri? – quelli del Tempio – Smettete di presentare offerte inutili; l’incenso – pure ordinato da Dio – per me è un abominio, i noviluni – i giorni di festa –, i sabati e le assemblee sacre: non posso sopportare delitto e solennità. Io detesto i vostri noviluni e le vostre feste; per me sono un peso, sono stanco di sopportarli. Quando stendete le mani, io distolgo gli occhi da voi. Anche se moltiplicaste le preghiere, io non le ascolterei: le vostre mani grondano sangue. Lavatevi, purificatevi, allontanate dai miei occhi il male delle vostre azioni. Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, cercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova”. Ancora in 58.1,2: “Grida a squarciagola, non avere riguardo: alza la voce come il corno, dichiara al mio popolo i suoi delitti, alla casa di Giacobbe i suoi peccati. Mi cercano ogni giorno, bramano conoscere le mie vie, come un popolo che pratichi la giustizia e non abbia abbandonato il diritto del suo Dio; mi chiedono giudizi giusti, bramano la vicinanza di Dio”.

Si può pretendere di pregare e di essere ascoltati, come questo fariseo, senza avere la minima idea di ciò che si è veramente, di sentirsi superiori perché si appartiene non più a un’etnia quanto a una Chiesa o denominazione, soprattutto perché si osserva tutta la forma che una religione prescrive e, infatti, la seconda parte della preghiera del nostro personaggio si snoda attraverso una serie di osservanze, “digiuno due volte la settimana e pago la decima di tutto quanto posseggo” (v.12): azioni che certo non coinvolgono la persona nel suo intimo, nella coscienza.

La Legge di Mosè prescriveva un giorno solo di digiuno in un anno e ciò avveniva per il giorno dell’espiazione (Levitico 16.29,30; Numeri 19.7) cioè lo yom kippur caratterizzato dall’invio del capro espiatorio, ma col tempo si aggiunsero molti altri digiuni volontari e i farisei, per loro, ne avevano istituito due alla settimana, corrispondenti al nostro lunedì e giovedì. Anche sulla decima la Legge prescriveva si pagasse sul bestiame e i frutti della terra (Numeri 18.21; Levitico 28.30; Deuteronomio 14.22), ma quest’uomo le pagava su “tutto quanto” possedeva, le cose minute come “la menta, l’aneto e il cumino” (Matteo 23.23), tema su cui le scuole giudaiche si interrogavano se fossero dovute o meno. Erbe aromatiche, a volte dalle quali si estraeva un olio di gradevole sapore che aveva proprietà riscaldanti e stimolanti, erano oggetto di decima, ma poi si trascuravano “le cose più gravi della legge, il giudizio, e la misericordia, e la fede” (ibidem)

Concludendo questa prima parte, lo studio delle minuzie aveva trascurato la pietà e la pratica vera dell’essere popolo di Dio, come già sappiamo. Eppure Geremia 2.35 dichiara “Tu dici: «Io sono innocente, perciò la sua ira si è allontanata da me». Ecco, io ti chiamo in giudizio perché hai detto: «Non ho peccato»”. Ricordiamo anche Apocalisse 3.17, la chiesa di Laodicea di cui ci siamo occupati da poco. Questo si verifica quanto la metodologia della carne, sempre la stessa, opprimente, banale, schiavizzante, prende il posto di quella vera, spirituale, unica a dare una prospettiva nel tempo: “C’è gente che si crede pura, ma non si è lavata dalla sua lordura”.

Non credo che a questa gente interessi “lavarsi”: si reputano presentabili, non hanno bisogno di pentirsi di nulla, tantomeno di guardarsi dentro perché, avendo loro stessi, credono di avere ogni cosa perché l’Io è il contenitore totale, perché siamo e l’essere comporta il potere e il volere. Tutto possono, tutto vogliono. E oltre a ciò, pretendono che Dio li ascolti. Amen.

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15.09 – LA FEDE SULLA TERRA III/III (Apocalisse 3.14-21; Luca 18.8)

15.09 – La fede sulla terra III/III: Apocalisse 3.14-21 (Luca 18.8)

 

17Tu dici: Sono ricco, mi sono arricchito, non ho bisogno di nulla. Ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo”.

 

Presunzione. La stessa che s’impossessa di chi si scorda, quando ha svolto tutti i compiti affidatigli, di appartenere alla categoria dei “servi inutili”. Al limite, credo che siamo autorizzati a prendere atto che qualcuno degli incarichi lo abbiamo svolto con diligenza e ci è riuscito bene, ma non per questo possiamo ritenerci importanti. Come abbiamo letto non tanto tempo fa, l’unico commento possibile è “Abbiamo fatto quanto dovevamo fare” (Luca 17.10).

Invece, dando spazio all’orgoglio, i Laodicesi anziché interrogarsi sulla loro reale posizione spirituale davanti a Dio, si consideravano semplicemente nel giusto secondo la loro ottica, che poi era quella del popolo, convinzione forse derivante dalla realtà che vivevano come appartenenti a una città, appunto ricca, confondendo la vita nel mondo con quella spirituale. Si tratta di una convinzione non certo appartenente solo a loro, ma proveniente da una sopravvalutazione delle possibilità e realtà che avevano, come certi Corinti di cui Paolo dice nella sua prima lettera “Voi siete già sazi, siete già diventati ricchi; senza di noi, voi già siete diventati re” (4.8) per concludere “…mi renderò conto delle parole non già di quelli che sono gonfi d’orgoglio, ma di ciò che veramente sanno fare” (v.19).

Stridono con la posizione dei Laodicesi, e di chiunque li imita, le parole di Giacomo, “fratello del Signore”: “Siate di quelli che mettono in pratica la Parola del Signore, e non ascoltatori soltanto, illudendo voi stessi; perché, se uno ascolta la Parola e non la mette in pratica, costui assomiglia a un uomo che giarda il proprio volto allo specchio: appena si è guardato, se ne va, e subito dimentica com’era. Chi invece fissa lo sguardo sulla sua legge perfetta, la legge della libertà – precisazione importante, perché altrimenti potremmo pensare a quella di Mosè – e le resta fedele, non come un ascoltatore smemorato ma come uno che la mette in pratica, questi troverà la sua felicità nel praticarla” (1.22).

“Non ho bisogno di nulla” è un’affermazione indicativa perché non ha riferimento all’autosufficienza di chi da Dio dipende, ma di chi è convinto che quel poco che ha appreso sia sufficiente a prescindere da come agisce, pensa, progetta. Ignazio, vescovo di Antiochia, scrivendo ai Corinti attorno all’anno 107, usa infatti queste parole: “Non vi comando come Pietro e Paolo: loro furono apostoli, mentre io non sono altro che un rifiuto”.

La realtà che l’ “Amen” mette di fronte ai Laodicesi l’abbiamo letta: “Non sai – cioè non ti rendi conto perché sazio di te stesso – di essere – cioè vivere, che in realtà esisti come – un infelice, un miserabile – che vivi nella desolazione, nella miseria -, un povero – privo di risorse, non in grado di mantenersi – cieco – non in grado di vedere, valutare, comportarsi in modo a quel tempo e non solo presentabile – e nudo – privo di quei vestiti che solo Dio può dare”.

 

 

18Ti consiglio di comperare da me oro purificato dal fuoco per diventare ricco e abiti bianchi per vestirti e perché non appaia la tua vergognosa nudità, e collirio per ungerti gli occhi, e recuperare la vista.

 

“Consiglio”, non “ordino”. Dio non obbliga nessuno, ma dà indicazioni nel solo interesse della sua creatura. Sappiamo che da Lui si compera “senza denari e senza prezzo”, ma cosa vuol dire? Che l’unica “moneta” è la conversione, le “opere degne” di essa che consistono in un profondo stravolgimento delle nostre abituali azioni, modo di pensare. Se prima eravamo indifferenti a qualunque richiamo o invito spirituale pensando solo alla santificazione del nostro orgoglio, al portare avanti sempre ed ostinatamente le nostre esigenze, con la conversione viene tutto eliminato per un vantaggio nuovo, un premio nei cieli. Non si tratta di rinunciare a tutto ciò che ci circonda, ma solo a ciò che torna a nostro danno spirituale.

Gli “abiti bianchi per vestirti” rivelano, nel colore dell’innocenza e della purezza, l’uomo non più asservito alla mentalità inculcata dall’Avversario e finalmente libero dai suoi vincoli. E infatti il vero cristiano è colui che è stato “strappato dall’attuale, malvagio secolo”.

Indicativo è il “collirio”, che a Laodicea veniva prodotto assieme ad altre sostanze idonee a curare il corpo, per “recuperare la vista”, ricordo di quella perfetta che Adamo possedeva in Eden. “Oro purificato dal fuoco” – quindi attraverso la sofferenza, la fede, la preghiera, la nuova ottica proveniente da esse -, “abiti bianchi” e “collirio” vanno “comperati”, come dissero le vergini savie alle stolte in Matteo 26.9, “No, perché – l’olio, figura dello Spirito Santo – non venga a mancare a noi e a voi; andate piuttosto dai venditori e compratene”. Ricordiamo anche la parabola del tesoro nascosto, “Il regno dei cieli è simile ad un tesoro nascosto in un campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo” (13.44). Impossibile comprare senza rinuncia, senza sbarazzarsi dell’inutile avere, quel bagaglio che ognuno di noi porta con sé non senza fatica ed ecco perché “il mio gioco è dolce e il mio carico leggero”. Nessuno comprerebbe mai qualcosa che gli è veramente utile senza rinunciare al denaro, o parte di esso, che possiede ed è solo quando la ricchezza materiale viene vista come un ostacolo alla vita spirituale che questo può avvenire.

I “vestiti bianchi” sono per coprirsi e al tempo stesso i soli, perché comprati da Dio, che possono impedire la vergogna antica di Adamo e sua moglie che, una volta che ”i loro occhi si aprirono”, si scopersero privi di qualsiasi forma di presentabilità di fronte a Colui che li aveva creati per amarli ed essere amato.

 

Quindi, prima di passare all’esame dei versi successivi e a conclusione di questo primo blocco, possiamo concludere che Gesù parla in maniera inequivocabile ai Laodicesi usando termini che potevano ben capire: con gli aggettivi “freddo – caldo – tiepido” chiama in causa l’acqua che avevano, che partiva pressoché bollente da Ierapoli, o fredda dalle sorgenti di Colosse, ma arrivava da loro tiepida. Poi i termini “ricco” e “arricchito” trovavano constatazione nella condizione agiata dei cittadini. L’ “oro purificato dal fuoco” è quello più puro possibile, al 999,99% che non contempla la presenza di altri metalli come l’argento, il rame o il palladio che ne abbassano la caratura, né tantomeno quelle impurità che vengono eliminate da una continua fusione e rifusione passando per il crogiuolo. Quando Gesù parla di questo oro, sapeva di essere immediatamente compreso. Lo stesso avviene per i “vestiti”, perché Laodicea li produceva: vengono richieste vesti bianche, quindi prive di quei colori ricercati che tanto piacevano ed erano tesi ad esaltare la ricchezza delle persone. Infine, anche quando viene citato “il collirio”, abbiamo la stessa cosa, essendo anch’esso un prodotto Laodicense.

Sta all’essere umano fare i necessari collegamenti: vivere in quella città equivaleva ad avere tutto, essere autosufficienti (la zecca, gli altri manufatti e i conseguenti guadagni), ma proprio perché ciò che avevano consentiva un’autonomia raramente riscontrabile, sono chiamati a capire che il vero benessere è un altro, che se dal punto di vista della vita orizzontale avevano tutto, non erano affatto autorizzati a sentirsi tali dal punto di vista spirituale perché, in realtà, non avevano nulla ed erano esattamente come quei poveri che disprezzavano e costituivano per loro motivo di imbarazzo.

Quale insegnamento per noi e per loro? Possiamo citare, partendo dall’Antico Patto, il consiglio in Proverbi 3.7, “Non ti stimare savio da te stesso; temi il Signore e allontanati dal male”, e per il Nuovo abbiamo le importanti parole dell’apostolo Paolo in  Galati 6.5: “Se uno pensa qualcosa pur essendo nulla, inganna se stesso. Ciascuno esamini invece l’opera propria, così avrà modo di vantarsi in rapporto a se stesso e non perché si paragona ad altri”. Capiamo? È evidente che il primo nemico lo abbiamo nel nostro uomo carnale, il primo a ingannare quello spirituale; e l’autoinganno si verifica anche nella vita reale quando sottovalutiamo o sopravvalutiamo determinate circostanze. Invece, siamo chiamati ad esaminare il risultato delle nostre opere dalle quali potremo trarre o motivo di soddisfazione, sempre nell’ottica dell’inutilità del servo, o di critica costruttiva per migliorare. Anche questo fa parte del cammino, del pellegrinaggio perché, migliorando noi, i talenti affidatici iniziano a fare frutto.

Infatti: “Voi, mettendoci da parte vostra ogni impegno – ecco l’essere “caldi” – aggiungete alla vostra fede la virtù. Alla virtù la conoscenza – perché senza di lei si commettono molti errori –; alla conoscenza l’autocontrollo; all’autocontrollo la pazienza; alla pazienza la pietà; alla pietà l’affetto fraterno e all’affetto fraterno l’amore. Perché se queste cose si trovano in voi, non vi renderanno né pigri, né sterili – tiepidi – nella conoscenza del nostro Signore Gesù Cristo. Ma colui che non ha queste cose è cieco o miope, avendo dimenticato di essere stato purificato dei suoi vecchi peccati” (2a, 3.7-10).

Abbiamo da queste parole una lezione molto importante: ci sono credenti che, fraintendendo i doni dello Spirito con l’entusiasmo, non hanno compreso che il cammino cristiano passa attraverso le tappe indicate dall’apostolo: impegno – fede – virtù – conoscenza – autocontrollo – pazienza – pietà – affetto fraterno e amore, tappe interdipendenti nel senso che non è che una volta raggiunta una debba ritenersi cosa conclusa per passare alla successiva. E basta poco per rendersi conto che certo a Laodicea tutto questo non veniva praticato.

A questo punto torniamo alla domanda di Gesù che ha dato origine a queste riflessioni, “Ma il figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?”: la Chiesa di Laodicea sarà quella che Lo vedrà, come del resto anche tutti gli uomini di quel tempo. Anche se molti cristiani sono incappati nell’inganno della simulazione, dell’ascolto della Parola senza praticarla, della superficialità nella religione che non salva, Laodicea è un sistema di vita praticato, predicato, profondamente avvertito, sentito, istituzionalizzato ed è qui che sta la sua colpa: nell’insieme, perché è la Chiesa del fallimento in quanto ha disatteso il proprio compito di “colonna e sostegno della verità”. Quando parla il popolo, chiude la bocca a Dio nel senso che gli impedisce di parlare e rivelarsi se non quando è troppo tardi, a meno che non intervenga in ravvedimento, non “compri” da Lui il necessario.

Ecco perché subito dopo Gesù dice “tutti quelli che amo li riprendo e li correggo. Sii dunque zelante, e ravvediti”, ultimo verso che considereremo. Se il Signore non ci riprendesse e correggesse, non saremmo Suoi figli. La correzione mette a disagio, fa soffrire, costringe a cercarne le ragioni, ad un esame rigoroso. E l’esortazione della seconda parte del verso è di per sé un filtro, perché può esservi zelo senza conoscenza (quindi spiritualmente inconcludente, portatore di errori perché soggetto a fraintendimenti colossali), o può esservi conoscenza senza zelo (altrettanto inconcludente, con l’aggravante dell’indifferenza). E tutto converge ancora una volta nel ravvedimento, greco metànoia, cioè “trasformazione della mente”. È quanto di più facile e al tempo stesso difficile che ci sia perché richiede che l’uomo si abbandoni a Dio, si lasci amare, lasciando da parte le proprie aspirazioni e interessi terreni, tenendo la propria mano nell’attesa che Lui stesso la prenda. Amen.

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15.08 – LA FEDE SULLA TERRA II/III (Apocalisse 3.14-21; Luca 18.8)

15.08 – La fede sulla terra II/III: Apocalisse 3.14-21 (Luca 18.8)

 

8Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».

 

Proseguendo nelle nostre meditazioni sulla domanda di Gesù, resta da esaminare il testo di Apocalisse 3.14-22, lettera alla Chiesa di Laodicea il cui nome significa “Giustizia al popolo” oppure “Il popolo parla”. Dando uno sguardo veloce al significato delle sette Chiese, va specificato che queste in primo luogo sono reali e appartengono al tempo in cui Giovanni scrive ma sono anche figura, stante le loro caratteristiche profondamente diverse l’una dall’altra, delle varie epoche attraverso le quali è passato il cristianesimo; ciascuna di esse, quindi, ha un periodo storico in cui ha operato nel senso che si parte da Efeso, figura della Chiesa primitiva, per arrivare appunto a Laodicea che è quella degli ultimi tempi, colei che finirà con il rapimento, senza nulla togliere alle realtà che queste avevano al tempo in cui Giovanni scrive questo libro.

Ogni lettera è indirizzata all’angelo di ciascuna Comunità, cioè al responsabile, colui che ha il dono della sua presidenza, che veglia sul suo andamento morale, spirituale e dottrinale come descritto in 1 Timoteo 5,17, “I presbìteri – o vescovi, coloro cui è affidato il governo della Comunità – che esercitano bene la presidenza siano considerati meritevoli di un duplice riconoscimento, soprattutto quelli che si affaticano nella predicazione e nell’insegnamento”.

Il presbìtero è colui che veglia su se stesso per essere irreprensibile e al tempo stesso sugli altri perché non entrino all’interno della Chiesa dottrine estranee a quella del Vangelo ed è responsabile della condotta globale di essa. Agisce non in termini e modi dispotici, ma mette a frutto e in pratica ciò che ha appreso e gli è stato rivelato dallo Spirito, non anteponendo la propria umanità ed essere, ma ha disinteressatamente a cuore che tutti camminino secondo verità e carità essendo, appunto, responsabile del comportamento e condotta sua e degli altri.

Va da sé che in questo suo agire non può essere solo, ma necessita della collaborazione e pratica di vita da parte di tutti che, col loro battesimo e confessione di fede, hanno dato il proprio benestare affinché l’amore di Dio e di Gesù Cristo potesse agire in loro. Ecco allora che, sotto questo profilo, la responsabilità dell’angelo della Chiesa è proporzionalmente la stessa di ogni appartenente ad essa e così ogni lettera è, per connessione, indirizzata ad ogni credente. Una Chiesa non ha un “capo”, ma una persona che è connessa vicendevolmente con gli altri e l’unica distinzione è il dono e le capacità affidategli. L’angelo della Chiesa locale agisce indirizzando gli altri senza costringerli, forzarli, tenendo conto delle capacità e attitudini di ciascuno.

Per capire Laodicea, e per connessione ciascuna delle sette Chiese, è allora necessario acquisire i dati basilari su di esse. La città in cui si trovava quella Comunità era molto ricca, un centro commerciale sede di numerose banche e di una zecca. Laodicea era rinomata per la sua attività produttiva (tessuti in particolare) e aveva una scuola di medicina che preparava unguenti. Il problema di Laodicea – altro motivo di applicazioni spirituali che ciascuno di noi può fare liberamente – era quello dell’acqua perché per questo dipendeva da due città vicine, Ierapoli e Colosse.

Strabone e Vitruvio, storico e geografo il primo, architetto e scrittore il secondo, riportano che l’acqua di Laodicea conteneva sedimenti minerali a tal punto da costringere gli ingegneri romani ad installare dei filtri per limitare la dannosa quantità di calcare ed evitare che le tubature scoppiassero. L’acqua di Laodicea, di per sé, era imbevibile.

Siccome Paolo non risulta vi sia stato, si ipotizza fosse stata fondata da Epàfra basandosi su Colossesi 4.12,13 ove leggiamo “Epafra, che è dei vostri del è servo di Cristo Gesù, vi saluta. Egli lotta sempre per voi nelle sue preghiere perché siate saldi, come uomini compiuti, completamente disposti a fare la volontà di Dio. Infatti gli rendo testimonianza che si dà molta pena per voi, per quelli di Laodicea e per quelli di Ierapoli”.

Al verso 16, poi, abbiamo “Quando questa lettera sarà letta da voi – a Colosse – fate che venga letta anche nella Chiesa dei Laodicesi e anche voi leggete quella inviata ai Laodicesi”, andata perduta. Dal tenore della lettera data da Nostro Signore Gesù Cristo a Giovanni nell’Apocalisse, abbiamo la conferma che tutti gli elementi negativi di Laodicea come città, cioè l’autonomia conseguente alla constatazione dell’importanza avuta nel mondo, alle conquiste in campo commerciale e scientifico di allora, avevano finito per raffreddare pressoché completamente il messaggio cristiano nella sua essenza e pratica. I Laodicesi confondevano il benessere materiale con quello spirituale.

Infatti:

 

14Così parla l’Amen, il testimone degno di fede e veritiero, il Principio della creazione di Dio.”

 

Abbiamo qui le credenziali della fonte che sta per parlare: in primo luogo l’Amen, parola in cui si racchiude il tutto, cioè la Verità, essendo questa la sua traduzione corretta, ben diversa da “così sia” come comunemente accettato. Oltre a questo, troviamo “il testimone degno di fede e veritiero” che l’Amen rafforza. Giovanni, al contrario di quanto ha fatto per il Vangelo, qui scrive sotto dettatura, non inserisce né aggiunge nulla di suo come farà per tutto il libro, salvo brevi annotazioni che rendono se possibile ancora più vero ciò che riporta. Giovani infatti aggiunge, nel libro, preziose note sulla sua esperienza, come fecero alcuni profeti prima di lui.

Abbiamo poi “Il principio della creazione di Dio” dove con questo termine possiamo includere tutti quei riferimenti alla parola “principio” che troviamo nella Scrittura a partire dalla Genesi fino a questo libro. “Principio” inteso certo come “inizio”, ma soprattutto come “scopo”, quello vero della creazione, che contemplava tanto le sei “ere” quanto la conoscenza e il rimedio del/al peccato di Adamo e sua moglie, quindi la redenzione dell’uomo attraverso i millenni. Il verso 14 costituisce un avvertimento a tutti i credenti di quella Chiesa e al tempo stesso fornisce loro, in ventun parole (3×7) la firma, il sigillo d’autorità che precede il messaggio.

 

15Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo!”

 

L’ “Amen”, con tutti gli altri due attributi, “conosce”. Il suo sapere è dato dalla perfezione che costituisce la Sua stessa Essenza, da sempre, quale “Io sono”. Il “Conosco” non è una semplice presa d’atto di un dato o condizione, ma il risultato di una profonda analisi, valutazione dei pro e dei contro, dei motivi che hanno portato l’angelo, e per correlazione tutti i credenti di quella Chiesa, a una condizione spirituale che non può classificarsi né come apertamente positiva o negativa esattamente come fu, per connessione, per quel servitore che, ricevuto un talento in una conosciutissima parabola, non crea al suo padrone né un danno né un guadagno. Quella moneta che viene restituita, in pratica, è la summa della neutralità: tanto mi hai dato, tanto ti restituisco, il tuo dovuto è questo; in pratica è come se dicesse “non ho lavorato per te, ma non nemmeno ho peccato perché non ti ho tolto nulla”. Dimenticando che “In questo è glorificato il Padre mio, che voi portiate molto frutto”.

“Le tue opere” e la conoscenza di esse, oltre a sottolineare ancora una volta la totale, perfetta conoscenza del Gesù glorificato, sono il risultato dell’amore per Lui e della fede al tempo stesso che qui, evidentemente, difettano in maniera profonda perché i termini “freddo” e “caldo” hanno riferimento con la posizione spirituale dei Laodicesi che, se fossero freddi, sarebbe come se non avessero mai conosciuto il messaggio del Vangelo e quindi avrebbero modo di riceverlo e, se “caldi”, godrebbero di quella posizione felice di dipendenza da Dio con fede. Il risultato delle loro “opere”, invece è “tiepido”, cioè si colloca nella dimensione dell’ambiguità, nella pratica del “un colpo al cerchio e uno alla bótte”, privo di entusiasmo, fervore, amore, ma basato sul compromesso. Come ha scritto un fratello, il credente di Laodicea “non è contrario alla pratica cristiana, ma nemmeno è acceso di ardore per la verità, di amore per Dio: si adagia nella mediocrità di un cuore diviso”.

Perché? Le ragioni vanno ricercate nel significato del suo nome, “il popolo parla”. Appunto l’attenzione a ciò che dice e vuole il popolo hanno preso il posto all’osservanza della parola di Dio. Gli appartenenti a Laodicea, allora, non hanno né danno un’identità precisa, non illuminano, non conducono in un luogo o verso una direzione chiara, predicano usanze e riti, sono religiosi, dicono magari “Signore, Signore, ma il loro cuore è lontano da me”. Non solo, ma inseriscono nel loro credo e metodo di vita l’apparenza intesa come sostituzione della fonte: praticano la solidarietà, ma esaltandola come pratica del “buon uomo”, portano avanti un Vangelo adulterato, con aggiunte ed eliminazioni per non turbare una “pace” che consiste nel non disturbare prima di tutto la coscienza, insomma l’esatto contrario del vero messaggio cristiano portato avanti dagli Apostoli e da tutti coloro che ne hanno accolto le parole, le spiegazioni, gli esempi forniti loro dal Maestro.

Il popolo parla, vuole un messaggio su misura. Prende il Vangelo e lo adatta alle proprie esigenze, ricorda ciò che gli piace e scarta tutto quanto non gli fa comodo e così insegna a fare. E proprio per questo è tiepido. Coltiva la religione e non la sostanza, pecca con comodità e naturalezza perché “tanto poi si pente” con una pratica-visione errata della confessione, non fa propria la freschezza della parola di Dio che non solo non lo disseta, ma impedisce agli altri di potersi dissetare. E l’acqua di Laodicea, come sappiamo, era imbevibile a meno che non provenisse – ma fino a un certo punto – dalle due città di Colosse e Ierapoli, non eccessivamente distanti da lei.

Tra l’altro, sempre a proposito di acqua, anche quella proveniente da Ierapoli, che usciva bollente dalle sue sorgenti, quando arrivava a Laodicea era tiepida, ma i depositi calcarei che conteneva, le davano ancora un sapore sgradevole che provocava spesso il vomito causato dal carbonato di calcio. Quella proveniente da Colosse, poi, fresca e dissetante  in loco, giungeva dopo un percorso di 17 km circa e dissetava poco perché aveva perso la sua freschezza originale. A Laodicea, quindi, nessuno poteva bere da una fonte fresca, figura della Parola di Dio, di “Chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete in eterno”.

Abbiamo poi la frase “Magari tu fossi freddo, o caldo!” che è a mio giudizio terribile perché, secondo quanto mi pare di capire, la condizione di chi è ateo è preferibile a quella di chi è religioso formalmente, che magari chiama in causa principi cristiani e poi li disattende, ma soprattutto è rimasto e intende rimanere quello di prima, rifiuta la conversione, cerca o pratica un equilibrio esclusivamente egoistico. Abbiamo allora la Chiesa del fallimento.

 

16Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca”

 

Gesù parla ai Laodicesi in modo che capiscano molto bene il Suo messaggio, in quanto l’acqua tiepida era l’unica che potevano bere, con tutti gli inconvenienti del caso. Notiamo però che, nonostante la gravità dei termini con cui si esprime, non dice “Ti ho vomitato”, ma “Sto per”, oppure come altre versioni “ti vomiterò”, a sostegno del fatto che così avverrà se i membri di quella Chiesa non si ravvedranno, non riprenderanno a considerare tutte le loro azioni.

Per non appesantire, concludo il capitolo, che volutamente non va mai oltre, salvo rari casi, i tre fogli dattiloscritti. Laodicea è una Chiesa immobile. Non fa passi né in avanti, verso l’uomo portando un messaggio che potrebbe liberarlo, né indietro perché a parole non rinnega nulla di quanto le è stato affidato, ma lo fa coi fatti. Dovrebbe illuminare, ma porta pallidi riflessi che altro non fanno se non allungare o esaltare le ombre. Dovrebbe scaldare i cuori, ma provoca al limite dei battiti curiosi e anomali. Dovrebbe porsi come fonte di verità, ma preferisce andare a braccetto con idee sociali e buone azioni dimenticando di avere avuto un ruolo ben diverso. Amen.

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15.07 – LA FEDE SULLA TERRA I/III (Luca 18.8)

15.07 – La fede sulla terra I/III (Luca 18.8)

 

8Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».

 

È il verso che, come ricorderemo, conclude la parabola del giudice iniquo e, per l’importanza che assume, non può essere ignorato sia per il tema che propone, quando per l’apparente anomalia del contenuto, oggettivamente spiazzante: Gesù parla del pregare senza stancarsi, secondo l’ottica con cui abbiamo inquadrato questa azione, sulla Sua promessa di intervenire “prontamente” per far ragione delle ingiustizie subite dai credenti, e tutto ad un tratto abbiamo “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà fa fede sulla terra?”, che coinvolge tutta una serie quasi infinita di elementi e circostanze che non possono portare solamente ad un generico “No” come risposta, essendo dubitativa già in partenza.

È chiaro infatti che quel “quando verrà” non può che riferirsi al Suo ritorno, quello descritto in tante parabole quando si parla di “un uomo” che parte per un paese lontano e lascia incarichi ai suoi servi vuoi per far fruttare il denaro avuto in consegna, vuoi per amministrare il suo palazzo, oppure per attendere che arrivi col corteo nuziale.

La domanda di Gesù fu posta e soprattutto scritta perché giungesse intatta attraverso i secoli fino ai legittimi destinatari, cioè quei credenti che vivranno i cosiddetti “ultimi tempi”, quelli in cui sarà concesso all’Avversario di agire come mai gli era stato dato per poter realizzare il suo capolavoro effimero costituito da un impero terribile che avrà una durata di tre anni e mezzo. SI noti il numero, che non è né tre, perfezione, né quattro, numero dell’equilibrio.

La domanda di Gesù chiama in causa altri concetti da Lui espressi che anticipano le sofferenze della Chiesa e che riprendono, ampliandola, la parabola della zizzania nel campo in cui le piantine di grano sono condannate a “convivere” con le altre, dannose, fino al raccolto conclusivo, quando agli angeli verrà affidato il compito di raccoglierle tutte e separarle. Posto che è ovvio che “la fede sulla terra” riguardi la Chiesa, posto che sappiamo che “Molti falsi profeti sorgeranno e ne sedurranno molti” (Matteo 24.11), che il “molti” di Gesù ha una valenza enorme e che possiamo constatare nelle vere eresie sorte, che “per il dilagare dell’iniquità, si raffredderà l’amore di molti” (ibidem), vediamo nell’interrogativo di Nostro Signore un ammonimento, un richiamo proprio a coloro che si ritroveranno a vivere un periodo più difficile rispetto a quelli vissuti dai fratelli che li hanno preceduti, trovandosi a impattare con esseri profondamente corrotti e privi di qualunque remora.

Scrive l’apostolo Paolo al suo discepolo Timoteo: “Lo Spirito dice apertamente che negli ultimi tempi alcuni si allontaneranno dalla fede, dando retta a spiriti ingannatori – si noti “spiriti” e non “persone”, che saranno animate da loro – e a dottrine diaboliche, a causa di spiriti impostori, già bollati a fuoco nella loro coscienza” (1a, 4.1).

Poi nella sua seconda lettera, “Sappi che negli ultimi tempi verranno momenti difficili. Gli uomini saranno egoisti, amanti del denaro, vanitosi, orgogliosi, bestemmiatori, ribelli ai genitori, ingrati, empi, senza amore, sleali, calunniatori, intemperanti, intrattabili, disumani, traditori, sfrontati, accecati dall’orgoglio, amanti del piacere più che di Dio, gente che ha una religiosità solo apparente, ma ne disprezza la forza interiore” (3.1-5). Notiamo come particolarmente indicative “senza amore” (a parte per loro stessi), “intrattabili” (cioè sarà impossibile qualunque forma di dialogo e correzione), “disumani” (cioè privi di qualsivoglia qualità morale) e “accecati dall’orgoglio” perché in assenza di Dio l’unica possibilità di adorazione va all’uomo corrotto di per sé che non può che santificare ciò che è miserabile. È un quadro che va oltre alla società conosciuta nella storia, coi suoi errori e i suoi crimini che comunque erano perpetrati da una parte di essa e non da tutti, escluse le guerre che da sempre hanno generato soltanto mostri.

Ora abbiamo il dovere di discernere gli “ultimi tempi”, perché dalla lettura delle caratteristiche degli uomini elencate in questi versi, apparentemente, non vediamo nulla di straordinario: quando non sono stati egoisti o amanti del denaro, o non hanno avuto le altre caratteristiche che abbiamo letto? Si potrebbe rispondere “da sempre” e sarebbe vero visto che l’uomo senza Cristo nella sua vita tende e tenderà sempre a questo; eppure qui si tratta di contrassegni negativi che una collettività eleggerà a norma di vita, e lo possiamo vedere – o per lo meno iniziare a vedere – nel nostro tempo.

Non ci inganni il principio che molti portano avanti secondo il quale “queste cose ci sono sempre state” poiché, se questo è vero, lo è altrettanto il fatto che mai fino ad ora c’è stato un disprezzo così accentuato per le norme della convivenza morale e civile, la giustizia è assente, mai fino ad ora si sono venute a creare le condizioni per una pubblicità martellante non tanto su determinati prodotti, ma sul raggiungimento della soddisfazione personale a qualunque costo e con qualunque mezzo. Mai fino ad ora si stanno promulgando leggi liberticide nel profondo che vanno a colpire non chi delinque o persegue condotte contrarie alle più elementari regole dell’educazione e del buon senso, ma le persone comuni, spesso oneste, che si trovano impossibilitate a far valere i propri diritti più elementari.

Ecco allora l’importanza della preghiera ancora una volta intesa non come elenco di richieste, ma come cammino di unità con Dio. E questo credo che possiamo vederlo in due passi assolutamente lampanti, il primo nella parabola delle dieci vergini (Matteo 25.1-13), il secondo nella lettera alla Chiesa di Laodicea (Apocalisse 3.14-22).

Nella parabola abbiamo dieci vergini, cinque savie ed altrettante stolte, tutte invitate a far parte di un corteo nuziale, tutte che si presentano lungo la via ad attendere “lo sposo”. Tutte portano con sé la lampada con il materiale per illuminare, ma solo la metà di esse hanno olio sufficiente ad adempiere la loro chiamata. Eppure tutte, indipendentemente dalla loro caratteristica interiore, cadono in uno stato di torpore perché “lo sposo tardava”: è esattamente quello che non deve accadere, è quella condizione che caratterizzò anche i discepoli in un momento terribile per il loro Maestro, al Getsemani: “Poi venne dai discepoli e li trovò addormentati. E disse a Pietro: «Così, non siete stati capaci di vegliare con me una sola ora? Vegliate e pregate, per non entrare in tentazione»” (Matteo 26.40,41).

“Vegliare” e “pregare” sono i due verbi, impossibile non praticarli entrambi, pena l’inefficacia tanto della veglia che della preghiera. Vegliare è in un certo senso andare contro corrente, fare qualcosa di difficile, di contrario alle esigenze dell’organismo (quindi della carne). “Pregate”, dice Gesù ai suoi, “per non entrare in tentazione”, cioè chiedere il sostegno, nella fattispecie, per non cedere alla paura, allo scoraggiamento perché, per la prima volta, i discepoli si sarebbero trovati soli con loro stessi, privi del Maestro come riferimento e rifugio come tante volte accaduto. E infatti, guardando al contingente, proprio Pietro rinnegò il Maestro per tre volte, in preda ad una crisi di nervi vista nelle parole “cominciò a maledirsi”. Sappiamo che si stava adempiendo il testo di Zaccaria 13.7, “Percuoterò il pastore, e le pecore saranno disperse”.

Quando la vita assume una direzione a noi umanamente favorevole, siamo portati a ringraziare il Signore perché ci riteniamo protetti, ma nel momento in cui questa assume un andamento a noi contrario, ecco che possiamo rimanere scandalizzati nel senso aderente del termine, cioè avere degli intoppi nel nostro cammino spirituale. E il rischio di “addormentarsi” si fa reale perché si può vacillare, ci si può fermare, si può perdere di vista l’obiettivo, in poche parole si inizia a trascurare ciò per cui viviamo e siamo. È anche il sonno derivante dalla frase “Il Padrone tarda ad arrivare”.

C’è un bellissimo verso in Ebrei 2.1, “Per questo bisogna che ci dedichiamo con maggiore impegno alle cose che abbiamo ascoltato, per non andare fuori rotta”, cosa che può avere conseguenze disastrose per chi naviga. Quindi, più la prova è forte, o citando un episodio del Vangelo, più “il vento era – è – contrario”, più deve crescere l’impegno a ciò che abbiamo ascoltato. E di tutto questo occorre far tesoro proprio quando “ascoltiamo”, cioè leggiamo e studiamo la Scrittura, che poi è quel tempo che Dio ci concede per prepararci.

Tornando alla parabola delle dieci vergini, vediamo che a farle entrare a pieno titolo nel corteo nuziale e nel cortile della festa prima che la porta fosse chiusa fu proprio l’olio che avevano conservato, atto a garantire alle “lampade”, che poi erano delle torce, il funzionamento continuo, quindi in tutto questo vediamo la differenza fra la fede reale – che c’era comunque nonostante l’assopirsi – delle savie e quella apparente, convenzionale, formale, finta, delle stolte. E questo ci parla del fatto che lo Spirito, che non lascia mai solo il credente, è memoria e appartenenza che non può essere tolta dall’Avversario che, se gli fosse possibile, sedurrebbe anche gli eletti. Amen.

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15.06 – IL GIUDICE E LA VEDOVA (Luca 18.1-8)

15.06 – Il giudice e la vedova (Luca 18.1-8)

 

1 Diceva loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai: 2«In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. 3In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: «Fammi giustizia contro il mio avversario». 4Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: «Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, 5dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi»». 6E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. 7E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? 8Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».

 

Questa parabola è da considerarsi non come qualcosa di nuovo rispetto al capitolo precedente, quasi che Luca abbia voluto citarla come intermezzo a sé stante verso nuovi episodi, ma in quanto il discorso già in atto si sta avviando verso la sua conclusione. Ricordiamo il capitolo 17 in cui Gesù volle dare indicazioni consolatorie sui “giorni del Figlio dell’uomo”, ma certo non ha omesso il fatto che sarebbero stati di sofferenza. Ecco perché abbiamo letto “diceva loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai”, parole che, inquadrate in quel contesto, demoliscono ancora una volta il falso concetto della preghiera che molti cristiani hanno, ricorrendo ad essa unicamente quando hanno bisogno di qualcosa che va al di là delle loro possibilità: spesso, persone che vivono la loro vita come se Dio non esistesse, spinte dal timore pregano per guarire, per essere liberati da qualcosa che li opprime, fanno gesti scaramantico-religiosi come il “segno della croce”, portano talismani, medagliette ed altro, ma non si interrogano sulla posizione che hanno davanti a Lui e, se “l’emergenza” viene a cessare per i motivi più svariati, tornano alle loro attività e interessi come se niente fosse, pronti comunque a riprendere i loro riti se e solo ce ne fosse bisogno.

Contrariamente, la “necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai”, trova la sua necessità nell’acquisizione del fatto che siamo nulla, che senza di Lui niente possiamo fare, che abbiamo bisogno ogni istante della Sua assistenza, in ogni cosa. Credo che un esempio in tal senso ce l’abbia lasciato proprio Nostro Signore, che pregava sempre perché, se poteva ogni cosa per l’uomo, così non era per Lui. E infatti non fece mai nessun miracolo per se stesso.

Il Dio in terra, il Figlio fattosi uomo, in quanto tale viveva e poteva fare affidamento  unicamente sul Padre per avere il necessario sostegno.

“Sempre” e “senza stancarsi mai” sono le due indicazioni date e la prima è riferita alle occasioni e ai momenti, più che stare a indicare una continuità totale: “sempre” non vuol dire giorno e notte senza interruzione, ma “in ogni momento”, “per ogni cosa”. Troppo spesso la vita ci porta a ritenere che gran parte di ciò che affrontiamo in essa dipenda da noi, in ossequio al detto “potere è volere”, ma così è per il mondo che ci circonda, non per il credente e se chiunque abbia studiato o lavori sa che si tratta di attività che richiedono fatica, fisica o mentale che sia, come credenti siamo tenuti a pregare per avere sostegno anche in quelli. Pregare quando siamo stanchi, quando siamo deboli, quando siamo perplessi, quando dobbiamo per una qualsiasi ragione compiere una scelta, quando ci troviamo di fronte al silenzio e, ascoltandolo, ci sentiamo parte di lui e scopriamo di non sapere. A parte quest’ultima situazione, Gesù provò tutte le altre. A parte il pregare perché – ad esempio – non venisse meno la fede dei discepoli, nei suoi dialoghi col Padre sono convinto abbia chiesto sostegno e soprattutto si sia consultato per i Suoi itinerari, le persone che avrebbe incontrato proprio in quanto, come detto all’inizio, era Figlio di Dio e al tempo stesso Figlio dell’uomo.

“Senza stancarsi mai”, poi, trova il suo riferimento più chiaro in questa parabola: di fronte al silenzio di Dio provare scoraggiamento è la cosa più inutile che possiamo fare, mentre è produttivo continuare fino a quando non abbiamo avuto da Lui una risposta che – attenzione – può essere positiva, cioè rispecchiare quanto chiediamo, oppure negativa, quindi il suo contrario, ma comunque costituisce una risposta. Ho conosciuto persone che si sono sentite profondamente offese dal fatto che Dio rispondesse l’opposto di quanto chiedevano, non riuscendo a capire che l’importante non era tanto un esaudimento in positivo, ma un segnale, una risposta che li togliesse dal dubbio o dalle false speranze, da quella fastidiosissima, insopportabile condizione che è l’incertezza. E invece no, volevano che Dio rispondesse come loro volevano, senza pensare che spesso il piano per la creatura è differente da quello che lei pretenderebbe poiché, in quanto esseri limitati, non sappiamo cosa è realmente per il nostro bene, mentre Lui sì. Chi non chiede una risposta, ma pretende che Dio sia succube dei propri desideri, è una persona che non si è mai distaccata dal bambino capriccioso che si porta dentro, quello che continua a chiedere una caramella e strilla fino allo sfinimento se non la ottiene.

Il pregare “sempre”, “senza stancarsi mai” non è l’interloquire petulante di chi mendica un’attenzione da parte di Dio, ma di chi si presenta a Lui perché ne ha il privilegio dell’accesso in quando suo figlio/a. C’è chi lo fa di giorno, chi di notte, chi parla, chi ascolta, chi produce suoni, ma tutti costoro sanno che la risposta non può non arrivare e qui abbiamo il confronto fra i nostri tempi e i Suoi, così differenti, e quando leggiamo che chi chiede deve farlo “con fede, senza stare in dubbio” non abbiamo una chiave per l’esaudimento, ma nel fatto che, se quanto richiesto lo consideriamo ricevuto, quando ciò arriva è un dettaglio, è quasi virtuale. Io almeno posso dire di avere provato questo. L’attesa nel silenzio non è così diversa dall’avere quanto richiesto e infatti, quando ciò avviene, è come se al ringraziamento necessario e dovuto venga annesso un senso di già posseduto, non so se riesco a spiegarmi. La preghiera è tante cose, fondamentalmente la gioia per il fatto che siamo comunque ascoltati e il silenzio può bastare a farci rendere conto della presenza di Dio. O anche denunciare la Sua assenza, quando ci troviamo in una condizione di peccato per cui si rende necessario confessarlo e abbandonarlo.

Veniamo ora alla parabola, che ci permette di dare un breve quadro sull’amministrazione della giustizia nell’antico Israele che troviamo, quanto ad organizzazione in Deuteronomio 16.18: “Ti costituirai giudici e scribi in tutte le città che il Signore, tuo Dio, ti dà, tribù per tribù; essi giudicheranno il popolo con giuste sentenze. Non lederai il diritto, non avrai riguardi personali e non accetterai regali, perché il regalo acceca gli occhi dei saggi e corrompe le parole dei giusti. La giustizia e solo la giustizia seguirai, per poter vivere e possedere la terra che il Signore tuo Dio, sta per darti”. A parte il Sinedrio, il Tribunale supremo di appello, vi erano in tutte le città della Palestina delle corti inferiori ed altre ancora che decidevano in merito a cause civili di importanza minore composte da un giudice unico, come in questo caso.

Il carattere del giudice della parabola, “Non temeva Iddio, né aveva riguardo per alcuno” è l’esatto contrario di tutte le norme in merito alla giustizia, come Esodo 23.6, “Non ledere il diritto del tuo povero nel suo processo”, Levitico 19.15, “Non commetterete ingiustizia in giudizio; non tratterai con parzialità il povero né userai preferenze verso il potente: giudicherai il tuo prossimo con giustizia”, Deuteronomio 1.16, “Ascoltate le cause dei vostri fratelli e decidete con giustizia fra un uomo e suo fratello o lo straniero che sta presso di lui”.

Possiamo infine ricordare le parole di Giosafat, re di Giuda, proprio ai giudici: “Guardate a quello che fate, perché non giudicate per gli uomini, ma per il Signore, il quale sarà con voi quando pronuncerete la sentenza. Ora il terrore del Signore sia con voi; nell’agire badate che nel Signore, nostro Dio, non c’è nessuna iniquità: egli non ha preferenze personali né accetta doni” (2 Cronache 19.6,7). Queste sono quindi le parole che il giudice della parabola avrebbe dovuto osservare: al di là delle prescrizioni della Legge, il “non giudicate per gli uomini, ma per il Signore” e “il terrore del Signore sia con voi” costituiscono una definizione di terribile gravità per il giudice – e per noi oggi per chi ha il ministero – che tuttavia, nel nostro caso, non osservava.

Abbiamo poi la vedova, persona che dovette richiamare immediatamente l’attenzione dei discepoli o di qualunque altro ebreo che sapeva quanto fosse penosa la condizione di quelle persone in Israele: senza protezione, erano alla mercé di oppressioni e ingiustizie, oltre a vivere in povertà. Per questo nella Legge godevano di particolare tutela a partire da esodo 22.22, “Non maltratterai la vedova e l’orfano”, Deuteronomio 24.17, “Non lederai il diritto dello straniero e dell’orfano e non prenderai in pegno la veste della vedova”, 27.19, “«Maledetto chi lede il diritto del forestiero, dell’orfano e della vedova». Tutto il popolo dirà: «Amen»”.

Ebbene, una dei protagonisti della parabola va da questo personaggio, che esercitava il suo ufficio alle porte della città, sede abituale per l’amministrazione della giustizia, a chiedere “Fammi giustizia contro il mio avversario” quindi non che questo fosse condannato, ma che fosse finalmente pronunciata una sentenza che quel giudice continuava a procrastinare. “Fammi giustizia” nel senso di “Non ignorarmi”, richiesta che viene rivolta ad una persona profondamente negativa perché trascurava completamente tutti i riferimenti alla condizione di giudice che abbiamo ricordato. Inutile fare appello alla sua umanità, perché non l’aveva, quindi inutile sperare, come purtroppo fanno le persone sensibili, che questa persona potesse provare una pur piccola forma di empatia per cui si decidesse ad esaminare la causa e a provvedere.

Abbiamo letto che quel giudice “non aveva riguardo per alcuno”, e quindi tutte le sue attenzioni erano rivolte alla propria persona, quindi l’unico modo per cercare di avere giustizia da lui era quello di importunarlo andando a toccarlo proprio su quanto gli stava più a cuore, la tranquillità, il far nulla. Quell’uomo “non aveva riguardo per alcuno”, quindi nemmeno per un avvertimento a mio giudizio terribile cui ben pochi, allora e ancor di più oggi, prestano attenzione, quello di Isaia 10.1-4, “Guai a coloro che fanno decreti iniqui e scrivono in fretta sentenze oppressive, per negare la giustizia ai miseri e per frodare del diritto i poveri del mio popolo, per fare delle vedove la loro preda e per defraudare gli orfani. Ma che cosa farete nel giorno del castigo, quando da lontano sopraggiungerà la rovina? A chi ricorrerete per protezione? Dove lascerete la vostra ricchezza? Non vi resterà che curvare la schiena, o cadere fra i morti” (Isaia 10.1-4).

Le parole del “giudice disonesto” sono chiare, eppure Gesù dice “Ascoltate ciò che dice”, quindi “fatene tesoro”, “meditate”: ci troviamo di fronte a una parabola che riguarda la preghiera solo apparentemente, per quanto siano possibili molte applicazioni su di essa, perché in questo caso il vero scopo di Gesù è rincuorare tutti coloro che si aspettano giustizia da Lui quanto a provvedimenti verso persone che magari li opprimono, ne hanno approfittato o comunque patiscono le conseguenze di trovarsi in una condizione di debolezza rispetto a una prepotenza come probabilmente era per questa vedova.

“Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che giorno e notte gridano verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente”, che un’altra versione scrive “li vendicherà”. Occorre sottolineare che un altro testo, dopo “aspettare a lungo”, aggiunge “benché sia lento ad adirarsi per loro” in quanto Gli preme il recupero del peccatore. Ritengo questo testo più rispondente al pensiero originale di Gesù, perché mette molto bene in evidenza il contrasto fra l’impazienza dell’uomo, che vorrebbe tutto subito nonostante la pratica spirituale ne abbia attenuato le aspettative, e il metodo di Dio, il solo che verrà a capo di ogni cosa.

Sono però le ultime parole ad indicarci che Nostro Signore si riferisce soprattutto ai tempi del Suo ritorno, “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?”: sappiamo infatti che “si raffredderà l’amore di molti per il dilagare dell’iniquità”, per cui la pratica dell’ingiustizia contagerà tutti, “se possibile, anche gli eletti” ed ecco perché leggiamo che “chi persevererà fino alla fine, sarà salvato” (Matteo 24.12,13). L’apostolo Paolo scriverà “Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è degno di fede colui che ha promesso” (Ebrei 10.13).

Ecco, io credo che da questo ultimo verso veniamo riportati all’inizio, alla preghiera senza stancarsi. Perché abbiamo bisogno, tanto nei momenti in cui la calma è apparente perché prelude sempre a nuove situazioni o prove, quanto ancora di più nei momenti di oppressione, della comunione con il Padre e il Figlio attraverso quei “sospiri ineffabili” mediante i quali lo Spirito Santo interviene per noi (Romani 8.26). Amen.

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15.05 – QUANDO VERRÀ IL REGNO DI DIO IV/IV (Luca 17.33-37)

15.05 – Quando verrà il Regno di Dio IV/IV (Luca 17.33-37)

 

33Chi cercherà di salvare la propria vita, la perderà; ma chi la perderà, la manterrà viva. 34Io vi dico: in quella notte, due si troveranno nello stesso letto: l’uno verrà portato via e l’altro lasciato; 35due donne staranno a macinare nello stesso luogo: l’una verrà portata via e l’altra lasciata». [ 36] 37Allora gli chiesero: «Dove, Signore?». Ed egli disse loro: «Dove sarà il cadavere, lì si raduneranno insieme anche gli avvoltoi».

 

Conosciamo il verso 33 per averlo citato e spiegato sommariamente in altri capitoli; qui, però, è citato in un contesto che non lascia adito a dubbi quanto a interpretazione, perché collegato a quanto abbiamo letto negli scorsi capitoli: “Come avvenne ai tempi di Noè, così ancora avverrà ai tempi del Figlio dell’uomo. Gli uomini mangiavano, bevevano, sposavano mogli, si maritavano, fino al giorno che Noè entrò nell’Arca; e il diluvio venne, e li fece tutti perire. Parimente ancora, come avvenne ai giorni di Lor, la gente mangiava, beveva, comperava, vendeva piantava e costruiva; ma nel giorno che Lot uscì da Sodoma, piovve dal cielo fuoco e zolfo, e li fece tutti perire: tal sarà il giorno, nel quale il Figlio dell’uomo apparirà. In quel giorno, colui che sarà sopra il tetto della casa, e avrà le sue masserizia dentro la casa, non scenda per toglierle e allo stesso modo chi sarà nella campagna non torni indietro. Ricordatevi della moglie di Lot” (vv.26-32).

Ora cosa ci rappresentano tutti questi esempi? La volontà di svincolarsi, da parte dell’uomo, rispetto a ciò che Lui vuole dalla Sua creatura. Abbiamo da poco sviluppato il tema di Noè e dei suoi contemporanei così come quello di Lot, ma meno quello degli altri. In ogni caso, Noè per salvarsi dovette rinunciare alla sua vita, che presumiamo tranquilla con la propria famiglia, per dedicarsi interamente alla costruzione dell’arca (e abbiamo visto cosa comportò il realizzarla), fatica che non si risolse certo con l’avvento del diluvio, ma che proseguì fino alla sua fine, dopo di che fu necessario ricominciare tutto da capo: coltivare, costruire, allevare animali. Noè e i suoi figli, quindi, furono tra quelli che non cercarono “di salvare la propria vita” intesa come la volevano i loro contemporanei, e per questo la trovarono. Allo stesso modo Lot, che si distinse dal resto dei Sodomiti e degli altri prima coltivando pietà e giustizia, poi abbandonando tutto ciò che aveva – per quanto con forte esitazione – assieme ai suoi parenti, così salvandosi.

Allo stesso modo abbiamo gli esempi di chi si trova sul tetto della casa e di chi a lavorare nei campi: di fronte alle parole di Gesù che invita a fuggire senza badare a ciò che si possiede, quindi lasciando in casa ciò che si ha (anche di più caro), sia esso a portata di mano o lontano. È questa, se ci pensiamo, una specie di morte perché si tratta di abbandonare qualunque cosa, perderla, scappare coi soli vestiti indosso. E penso a coloro che, come abbiamo visto precedentemente, si comportarono così avendo salva la vita nel senso che non perirono nella distruzione di Gerusalemme come gli altri. Certo, per poter ubbidire all’ordine di Gesù non dovevano appartenere a quella categoria di persone che vede nel possesso di cose e/o persone la propria espressione di sé.

Abbiamo poi l’esempio della moglie di Lot, la cui morte singolare trova una delle sue ragioni in 1 Corinti 10.6, “Ciò avvenne come esempio per noi, perché non desiderassimo cose cattive, come essi le desiderarono”. Mi sono chiesto il perché del voltarsi indietro di questa donna, che certamente avrà ascoltato le parole di Lot che a sua volta le aveva avute dell’angelo “Fuggi, per la tua vita. Non guardare indietro e non fermarti dentro la valle: fuggi sulle montagne, per non essere travolto!” (Genesi 19.17): non trovo altri motivi nel suo riguardare se non nella curiosità o nel dolore (o in entrambi) perché, con la distruzione di quella città, moriva anche una parte dei suoi affetti e abitudini. Qualunque sia stata la sua reale motivazione, si tratta di un comportamento umanamente comprensibile, ma non spiritualmente perché avrebbe dovuto ascoltare la Parola di Dio. Se lei divenne “una statua di sale”, cioè un corpo morto, secco, direi cristallizzato, fu perché dette ascolto istintivamente alla propria carne che, paradossalmente, fu quella che la condannò. Per non voltarsi indietro, la moglie di Lot avrebbe dovuto annullare profondamente il proprio Io, cosa che non avvenne ed ecco che il voler “salvare la propria vita” riguarda anche quella più profonda, quella istintiva, nostra, che va persa se la si vuole “mantenere viva”. Io non vivo solo perché il mio battito cardiaco esiste, ma perché penso, voglio, ho, credo comunque in qualcosa e quando Gesù parla di “perdere la propria vita” fa proprio riferimento a ciò che possediamo e ci caratterizza come persone. Certo che siamo e restiamo unici, col nostro carattere e non saremo mai automi, ma qui si parla di “uomini nuovi”, di “nuove creature” che con quella di prima non hanno più niente a che fare.

E arrivare a questa condizione non è cosa che si possa fare in poco tempo, perché si finirebbe per tornare indietro; l’abbandono dev’essere qualcosa di progressivo, dev’essere attuato quando se ne è maturata la necessità, quando è Gesù ad abitare la persona e tutto il resto diventa superfluo. La rinuncia non è mai dolore, ma qualcosa che avviene con una spontaneità disarmante; quello che può provocare sofferenza è il trovarsi in situazioni dove la carne vorrebbe conseguire un risultato, ma questo non è ottenibile a meno di non perdere delle caratteristiche spirituali conquistate comunque con rinuncia. In altri termini Pietro e Andrea, Giacomo e Giovanni – per citare i primi quattro – rinunciarono a una tranquilla vita (sottolineo agiata) di pescatori perché consci di aver trovato il Messia, ma faticarono comunque e soprattutto soffrirono una volta diventati ufficialmente figli di Dio e servi di Gesù Cristo, comprendendo però l’importanza della scelta che avevano fatto e ben lieti che fosse stata irrevocabile.

 

Tenuto presente che qui Nostro Signore parla senza seguire una cronologia precisa, leggiamo di due persone che si troveranno in determinate attività e che di queste “una sarà presa, l’altra lasciata”: posto che è impossibile che queste parole si rifacciano alla distruzione di Gerusalemme, non resta altro che collegare il prendere e il lasciare al rapimento della Chiesa, “Perché il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi, che viviamo e che saremo ancora in vita, verremo rapiti insieme con loro nelle nubi, per andare incontro al Signore in alto, e così per sempre saremo con il Signore” (1 Tessalonicesi 4.16,17).  Ancora, sappiamo che questo avverrà all’improvviso, con un’estrema rapidità: “Ecco, io vi annuncio un mistero: noi tutti non moriremo, ma tutti saremo trasformati, in un istante, in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba. Essa infatti suonerà e i morti risorgeranno incorruttibili e noi saremo trasformati. È necessario infatti che questo corpo corruttibile si vesta d’incorruttibilità e questo corpo mortale d’immortalità” (1 Corinti 15.51-53).

Abbiamo però letto “In quella notte”: quale? Non è notte perché si sarà a letto a dormire, ma il riferimento è a quella della Sua assenza, quella in cui, in contrapposizione al “giorno” della Sua venuta, quando era il mezzo a noi, tutto farà presumere la sua mancanza, quando l’umanità avrà fatto definitivamente a meno di Lui e, forse, se ne sarà dimenticata. In Belgio si pensa di abolire l’ora di religione nelle scuole elementari – che comunque un riferimento a Gesù lo dava, per quanto blando – con quella di filosofia, in cui i bambini cresceranno nella confusione delle teorie, incapaci di orientarsi. O, meglio, verranno orientati in base alle direttive di uno Stato che obbedirà al “Principe di questo mondo”. Ora credo che, se non viviamo propriamente in quella “notte”, siamo comunque nella sera che la precede.

Non sarà certo sfuggita, nella lettura del nostro testo, l’assenza in questa versione del verso 36 e ciò è dovuto al fatto che, con ogni probabilità, si tratta di un aggiunta di un anonimo copista che, mosso dall’idea di completare un concetto secondo lui rimasto in sospeso, ha preso in prestito il testo di Matteo; il verso 36 infatti recita “Due saranno nella campagna; uno sarà preso, l’altro lasciato”. Le attività umane, essere a letto, macinare e stare ai campi, sono tese a dimostrare l’universalità dell’azione della chiamata attraverso i fusi orari.

A questo punto non poteva mancare la domanda dei discepoli che chiedono “Dove, Signore?”: in effetti Gesù non aveva menzionato alcun luogo e, soprattutto, mescolato eventi che sarebbero appartenuti ad epoche diverse e, a conferma che il comportamento umano sarebbe rimasto invariato rispetto a quello dei tempi di Noè, di Lot e di tutti gli altri, risponde in modo che per i discepoli sarebbe stato certamente criptico: “dove sarà il cadavere, lì si raduneranno insieme anche gli avvoltoi”. È interessante notare il sostantivo greco per indicare “cadavere” e qui occorre dar ragione a quanti sostengono che, purtroppo, nessuna traduzione potrà mai rendere lo stesso concetto della lingua originale: ptòma, oltre che “cadavere”, significa “caduta, disgrazia, sciagura, disfatta, errore, rovina, rottame”, per cui l’allusione è a tutto ciò che è conseguenza del peccato inteso come risultato dell’allontanamento volontario da Dio.

È quindi chiaro che la frase “dove sarà il cadavere, qui si raduneranno gli avvoltoi” allude non a una salma prossima ad essere divorata da quei rapaci, ma ha un senso molto più elevato ed ampio, riferendosi prima di tutto ad un’umanità già morta anche se vivente, che ha quindi perso senza alcuna possibilità di recupero qualsiasi possibilità di salvezza proprio perché avrà cercato di “salvare la propria vita”. E il ricordo della frase detta a quel tale che disse “Permettimi prima di seppellire mio padre”, “lascia i morti seppellire i loro morti”, può aiutarci nella comprensione.

“Gli avvoltoi”, tradotti anche con “aquile”, sono allora gli esecutori dei piani di Dio, siano essi un popolo con l’effige dell’aquila che si comporterà secondo i criteri di Deuteronomio 28.49 e seguenti, come abbiamo citato, oppure gli angeli, radunati per eseguire gli ordini negli ultimi giorni, o tempi, come parla diffusamente l’apostolo Giovanni nella sua Apocalisse, che hanno la funzione ora di aquila (animale che non lascia nessuno scampo) ora di avvoltoio, chiamato anche “spazzino del deserto”.

Concludendo, Gesù con questo discorso profetico dà ai discepoli una prima indicazione di qualcosa di molto più ampio che affronterà in seguito, cui Matteo dedica due capitoli e Marco uno. Partire, in questo panorama di eventi futuri, dal Luca, è importante perché, essendo il discorso più “leggero”, ci fornisce le chiavi interpretative per il successivo, che Dio concedendo affronteremo quando Nostro Signore starà a Gerusalemme per il poco tempo ancora a lui dato per concludere il Suo Ministero. Amen.

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15.04 – QUANDO VERRÀ IL REGNO DI DIO III/IV (Luca 17.26-32)

15.04 – Quando verrà il Regno di Dio III/IV (Luca 17.26-32)

 

26Come avvenne nei giorni di Noè, così sarà nei giorni del Figlio dell’uomo: 27mangiavano, bevevano, prendevano moglie, prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca e venne il diluvio e li fece morire tutti. 28Come avvenne anche nei giorni di Lot: mangiavano, bevevano, compravano, vendevano, piantavano, costruivano; 29ma, nel giorno in cui Lot uscì da Sòdoma, piovve fuoco e zolfo dal cielo e li fece morire tutti. 30Così accadrà nel giorno in cui il Figlio dell’uomo si manifesterà. 31In quel giorno, chi si troverà sulla terrazza e avrà lasciato le sue cose in casa, non scenda a prenderle; così, chi si troverà nel campo, non torni indietro. 32Ricordatevi della moglie di Lot.

 

Nel verso 24 Gesù aveva parlato di Lui e del Suo giorno paragonandolo alla folgore che splende improvvisa da un capo all’altro del cielo e che sorprende tutti, ma al 26 usa il plurale, “mangiavano, bevevano” etc.:“così sarà nei giorni del Figlio dell’uomo” a conferma che ogni qualvolta Lui si manifesta, indipendentemente dalle sue forme e dal tipo di giorno, ci sarà sempre chi resterà annientato e chi si salverà. E vengono scelti due esempi immediati, il diluvio su cui abbiamo dato qualche cenno nello scorso capitolo e la distruzione del territorio di Sodoma.

Vediamo brevemente i due contesti a partire da “i giorni di Noè”. Genesi 6.1-3 introduce la vicenda del diluvio così: “Quando gli uomini cominciarono a moltiplicarsi sulla terra e nacquero loro delle figlie, i figli di Dio videro che le figlie degli uomini erano belle e ne presero per mogli a loro scelta. Allora il Signore disse: «Il mio spirito non resterà sempre nell’uomo, perché egli non è altro che carne e la sua vita sarà di centoventi anni»”.

Ora si tratta di versi su cui si potrebbero spendere molte parole, ma rimanendo aderenti al testo dobbiamo considerare che quanto ci viene presentato riguarda il fatto che la visione umana della vita aveva finito per ridursi esclusivamente al quotidiano, alla sua orizzontalità dimenticando completamente l’esistenza di Dio. Questa condotta aveva riguardato anche “i figli di Dio”, termine che indica coloro che si erano un tempo a lui votati secondo Genesi 4.26 “Anche a Set nacque un figlio, che chiamò Enos. Allora si cominciò a invocare il Nome del Signore”. “I figli di Dio” erano allora quelli che avevano uno scopo spirituale ed erano destinati, secondo il progetto del Creatore, ad ereditare le Sue promesse.

Ora, da quanto abbiamo letto, il peccato degli uomini ai tempi di Noè fu proprio quello di avere abbandonato il tendere naturale verso Dio seguendo la coscienza – perché tale era la dispensazione di allora – a vantaggio della propria carne che l’annullò, la ridusse, la cauterizzò; facciamo infatti attenzione a ciò che si cela dietro le parole “Vedendo che le figlie degli uomini – cioè di chi non era come loro, i profani e penso alla generazione dei figli di Caino – erano belle – cioè diverse da quelle che avevano loro, quindi più sensuali, che curavano l’aspetto del proprio corpo per sedurre – ne presero per mogli a loro scelta”: i “figli di Dio” guardarono solo alla propria soddisfazione, fisica ed estetica e probabilmente impostarono la propria vita sull’appagamento sessuale fine a se stesso.

La scelta di quei “figli di Dio” non fu volta alla ricerca di una compagna che collaborasse al piano di Dio costruendo un rapporto di coppia volto al servizio e ai figli visto che, a differenza di oggi, c’era una terra da popolare, ma a qualcosa di distruttivo a lungo andare come sarà descritto in Esodo 34.16, quindi nella dispensazione della Legge: “Non prendere per mogli dei tuoi figli le loro figlie – quelle dei popoli vicini a Israele –, altrimenti, quando esse si prostituiranno ai loro dèi, indurrebbero anche i tuoi figli a prostituirsi ad essi”, e l’apostolo Paolo, considerando l’argomento nella sua globalità, scriverà “Non lasciatevi legare al giogo estraneo dei non credenti. Quale rapporto infatti può esservi fra giustizia e iniquità e quale comunione fra luce e tenebre?” (2 Corinti 6.14).

Ecco, ai tempi di Noè da questa mescolanza di usi e costumi giunse la deriva del genere umano cui il Creatore volle inizialmente risparmiare lo sterminio attendendo centoventi anni prima di agire, lo spazio intercorrente tra il piantare gli alberi necessari alla costruzione dell’arca e il diluvio che avvenne 1656 anni dopo che Adamo ed Eva furono esclusi da Eden. Basta poco per collegare 1656 a 666, numero che più di qualunque altro ha attinenza con ciò che è immondo ed assolutamente imperfetto, incompatibile a Dio. E altrettanto poco basta per individuare nel 120 il numero della pazienza di Dio, 12×10.

Ora, tornando al testo, cosa dice Gesù? Che “nei giorni del Figlio dell’uomo”, cioè ogni volta che vi sarà un intervento in giudizio, sarà perché gli uomini Lo avranno dimenticato: “mangiavano, bevevano, prendevano moglie, prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca e venne il diluvio e li fece morire tutti”. Se sostituiamo a “venne il diluvio” “finì la pazienza di Dio” abbiamo il senso di ciò che intende dire Nostro Signore. Tanto ai tempi di Noè quanto a ai “giorni del Figlio dell’uomo” il mondo sarà immerso nella totale indifferenza alle Sue aspettative, alla Sua esistenza, al Suo sacrificio e non credo sia un caso se si legge sempre con maggiore frequenza sulla stampa la parola “Dio” scritta in minuscolo: da Persona, è diventato un ingombrante oggetto che ormai appartiene al passato perché, se così non fosse, l’espansione umana verso la libertà egoistica non potrebbe realizzarsi. La libertà di fare e farsi del male, perché ciò che facciamo agli altri inevitabilmente torna indietro. L’appagamento personale predicato dev’essere pórto come qualcosa di legittimo, perché sia raggiunto non può essere considerato come egoismo.

Ora Luca è l’unico, dopo Matteo e Marco che riportano l’esempio di Noè, a parlare di Lot, e lo fa inquadrando il suo tempo e relativa morale vigente nella regione di Sodoma, con verbi diversi da quelli impiegati prima, cioè leggiamo “mangiavano, bevevano, compravano, vendevano, piantavano, costruivano; ma, nel giorno in cui Lot uscì da Sòdoma, piovve fuoco e zolfo dal cielo e li fece morire tutti”: mangiare e bere riguardano il sostentamento, ma qui sono chiaramente usati nel senso di indifferenza allo stare davanti a Dio per rendere grazie di ciò che si mangia e si beve o render conto di ciò che si progetta e realizza. C’è poi una grande differenza fra il nutrirsi di chi conduce vita sobria e di chi porta avanti la filosofia del “mangiamo e beviamo perché domani morremo” (1 Corinti 5.32). Ancora una volta, quindi, i due verbi sono impiegati per designare una ricerca, una dedizione, una schiavitù al mangiare e al bere visto come piacere cui dedicarsi senza essere mai sazi.

Gli altri verbi, poi, sono operativi e indicano una volontà di sviluppo; comprare e vendere, quindi il commercio, per poi piantare e costruire che ci rimanda ancora una volta al voler conquistare un’autonomia che escluda una volta per tutte l’uomo da Dio, il non dover rendergli conto. E qui possiamo andare all’episodio della torre di Babele, le cui intenzioni furono molto simili: “Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo, e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra” (Genesi 11.4). Il “nome” doveva essere dato alla città e alla torre che arrivasse al cielo (in opposizione a quello di Dio), simbolo dell’ingegno e della potenza umana di allora, espediente per impressionare gli altri popoli che avrebbero potuto così temere chi fosse in grado di costruire un simile prodigio e aderire così al loro progetto di autonomia.

I popoli pre-diluvio e i costruttori di Babele sono gli antesignani di coloro che poi costruirono e fondarono gli imperi e coadiuveranno l’Avversario nell’ultimo suo capolavoro che si realizzerà con la Bestia e il Falso Profeta.

Uscito Lot da Sodoma, “piovve fuoco e zolfo dal cielo e li fece morire tutti”, altro grande giudizio dal quale però furono risparmiati i giusti che vivevano in quel territorio, cioè Lot e coloro che beneficiavano delle sue benedizioni cioè il genero, i suoi figli e figlie “e quanti aveva in città”, che ci parla del fatto che alcuni, in Sodoma, si erano dimostrati sensibili a uno stile di vita opposto a quello della maggioranza (Genesi 19.12).

A proposito della “pioggia di fuoco e zolfo” che distrusse la regione, è interessante rilevare che la scienza ha escluso un’attività vulcanica, ma ha optato per l’esplosione di una meteorite individuandola nella presenza, in quella regione, del cosiddetto “quarzo da impatto”, cioè di una formazione rocciosa spiegabile solo ipotizzando una variazione di pressione estremamente elevata, del genere di quella causata dall’esplosione di un asteriode in aria. Si è calcolato che questa abbia rilasciato circa 1000 volte l’energia della bomba che colpì Hiroshima: nella regione di Sodoma morirono più di 8mila persone e la frammentazione degli scheletri individuata dagli archeologi sembrerebbe indicare un evento di enorme violenza. Addirittura si pensa che lo sbalzo di pressione provocato dall’immane esplosione sui cieli di Sodoma possa essere la causa della particolare salinità del vicino Mar Morto e le prove sembrano indicare che notevoli quantità di sale si siano alzate dal terreno, provocando anche la desertificazione delle zone circostanti. Ricordiamo infatti che la zona, prima del giudizio di Dio, fu descritta in 13.10 con queste parole: “Allora Lot alzò gli occhi e vide che tutta la valle del Giordano era un luogo irrigato da ogni parte, prima che il Signore distruggesse Sodoma e Gomorra, come il giardino del Signore, come la terra d’Egitto fino a Soar”.

Ancora, le parole “li fece morire tutti” ci parlano della fine di tutto, quindi della non più esistenza del mangiare, bere, comprare, vendere, piantare, costruire, di ogni progetto, ci parlano dell’alt di Dio alle iniziative dell’essere umano che da sempre a Lui è ribelle. E abbiamo letto “Ma, nel giorno in cui Lot uscì da Sodoma”, cioè di fronte alle rivendicazioni di autonomia da Dio esisterà sempre il Suo “Ma”.

 

Abbiamo così il verso 30, “Così accadrà nel giorno in cui il Figlio dell’uomo si manifesterà” in cui Gesù allude a tutti quei momenti in cui farà irruzione nella storia per variare i piani dell’uomo che Lo avrà rifiutato e, in questo caso, parla appunto della distruzione di Gerusalemme, poiché esorta i credenti di allora a scappare senza preoccuparsi di nient’altro: chi si sarebbe trovato sulla terrazza, che nelle case di allora era il tetto al quale si accedeva con una scala dall’esterno, non sarebbe dovuto passare a prendere qualcosa nell’alloggio, e così chi si sarebbe trovato “nel campo” non avrebbe dovuto tornare indietro, pena le perdita della vita.

È bello sapere che nella distruzione di Gerusalemme non perì nessun cristiano perché, come scrive Eusebio nel III° secolo, l’avevano abbandonata prima obbedendo ad un ordine profetico. Infatti, citando Matteo, Gesù disse ai Suoi come riconoscere il tempo della fuga, “Quando dunque vedrete presente nel luogo santo l’abominio della devastazione di cui parlò il profeta Daniele…” e con questo termine si allude certamente alla profanazione del tempio ad opera di Antioco Epifane, ma estende il fatto alla distruzione di tutto ciò che era santo, compresa la città, per cui tra il vedere le insegne romane e l’assedio dovette passare davvero pochissimo tempo; dopo fuggire sarebbe stato impossibile anche perché a vigilare affinché nessuno uscisse dalla città c’erano gli zeloti, che ammazzavano chiunque ci provasse. E comunque, quand’anche uno fosse riuscito a scampare a loro, in città, avrebbe trovato i romani ad attenderlo fuori.

 

Infine abbiamo l’avvertimento “Ricordatevi della moglie di Lot”, che si voltò indietro e divenne “una statua di sale”: commise l’errore di pensare al suo passato, volle tornare indietro, indugiò mentre avrebbe dovuto pensare solo a scappare. Il suo errore fu quello di non aver dato retta alle parole dell’angelo, “Fuggi, per la tua vita. Non guardare indietro e non fermarti dentro la valle: fuggi sulle montagne per non essere travolto”. Da notare che comunque Lot e la sua famiglia abbandonarono Sodoma con esitazione al punto tale che gli angeli “presero lui, la sua moglie e le sue due figlie per la mano e lo fecero uscire e lo misero fuori dalla città”.

Allo stesso modo, il non ubbidire all’ordine profetico di Gesù avrebbe comportato la morte sotto l’assedio della città.

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15.03 – QUANDO VERRÀ IL REGNO DI DIO II/IV ( Luca 17.22-25)

15.03 – Quando verrà il Regno di Dio 2 (Luca 17.22,25)

 

22Disse poi ai discepoli: «Verranno giorni in cui desidererete vedere anche uno solo dei giorni del Figlio dell’uomo, ma non lo vedrete. 23Vi diranno: «Eccolo là», oppure: «Eccolo qui»; non andateci, non seguiteli. 24Perché come la folgore, guizzando, brilla da un capo all’altro del cielo, così sarà il Figlio dell’uomo nel suo giorno. 25Ma prima è necessario che egli soffra molto e venga rifiutato da questa generazione.

 

Se ai farisei furono rivolte parole indispensabili per correggere la falsa opinione che avevano sulla venuta del regno di Dio, ai discepoli disse molto di più e, come già anticipato, possiamo interpretare questo breve discorso come un’anticipazione di quello detto “escatologico” che Matteo e Marco riporteranno più nei dettagli. Non ci troviamo infatti di fronte ad un frammento evangelico, ma ad un discorso autonomo col quale Nostro Signore fornisce dei contenuti che i suoi avrebbero dovuto assimilare nell’attesa di una trattazione più ampia.

Tutta la vista spirituale, non solo loro ma di tutti i credenti, si basa sull’ascolto di concetti che magari non si comprendono immediatamente, ma restano impressi nella mente in attesa che lo Spirito faccia sì che germoglino spontaneamente o con esperienze che ne diano dimostrazione, li rendano concreti. Certo, anche sul tornare con ripetizioni e l’aggiunta di nuovi particolari o elementi che poi vadano a comporre un quadro più ampio.

I farisei, nonostante le parole di Gesù, avrebbero sicuramente continuato nella ricerca di “segni” sulla venuta del regno e del Messia, avranno detto “Eccolo qui, eccolo là” incapaci di individuare quello vero, ma non così i discepoli, che nelle varie epoche avrebbero voluto riconoscere i segni preannuncianti il ritorno del loro Signore e la fine del mondo, ma non avrebbero dovuto equivocarli, fraintendere.

Va specificato cosa si debba intendere con “i giorni del Figlio dell’uomo”, che secondo lo stesso Gesù nel verso in esame sono diversi, o “la venuta del Figlio dell’uomo”, perché istintivamente tendiamo a identificarli con il Suo Ritorno, il che è giusto in parte o, meglio, così è per noi e per i tempi che restano, ma all’epoca in cui furono pronunciate queste parole il significato era diverso perché così si indicavano altri eventi. Ad esempio, leggendo con la nostra forma mentis le parole “In verità io vi dico: vi sono alcuni tra i presenti che non moriranno, prima di aver visto venire il Figlio dell’uomo con il suo regno” (Matteo 16.28) si potrebbe concludere che Gesù non abbia detto il vero o si sia comunque sbagliato poiché per noi la Sua venuta sarà secondo Apocalisse 1.7, “Ecco, Egli viene con le nuvole e ogni occhio lo vedrà: lo vedranno anche quelli che lo trafissero, e tutte le tribù della terra faranno lamenti per lui. Sì, Amen”. L’apostolo Paolo, poi in 2 Tessalonicesi 2.8-11 annuncia un ritorno del Signore per la distruzione dell’Anticristo e l’inaugurazione del Millennio.

Si tratta di parole importanti perché, oltre a segnalare ciò che avverrà, spiegano alcune dinamiche di Dio: “Allora l’empio sarà rivelato e il Signore Gesù lo distruggerà con il soffio della sua bocca e lo annienterà con lo splendore della sua venuta. La venuta dell’empio avverrà nella potenza di Satana, con ogni specie di miracoli e segni e prodigi menzogneri e con tutte le seduzioni dell’iniquità, a danno di quelli che vanno in rovina perché non accolsero l’amore della verità per essere salvati. Dio perciò manda loro una forza di seduzione, perché essi credano alla menzogna e siano condannati tutti quelli che, invece di credere alla verità, si sono compiaciuti dell’iniquità”.

Ecco allora che tutti gli avvenimenti che caratterizzarono le reazioni di Dio all’empietà dell’uomo, dalla distruzione di Gerusalemme in poi, possano essere definiti come un “ritorno del Figlio dell’uomo”, e parlo naturalmente dei grandi eventi che la storia ha registrato e di cui troviamo traccia negli scritti dell’Antico e soprattutto del Nuovo Patto. Certo, tutto questo avrà il punto culminante e finale con la Sua apparizione personale “quando si manifesterà il Signore Gesù dal cielo, insieme agli angeli della sua potenza, con fuoco ardente, per punire quelli che non riconoscono Dio e quelli che non obbediscono al vangelo del Signore nostro Gesù. Essi saranno castigati con una rovina eterna, lontano dal volto del Signore e dalla sua gloriosa potenza. In quel giorno egli verrà per essere glorificato nei suoi santi ed essere riconosciuto mirabile da tutti quelli che avranno creduto” (2 Tessalonicesi 1.7-10).

Ma cosa significano le parole del verso 22, “Verranno giorni in cui desidererete vedere anche uno solo dei giorni del Figlio dell’uomo, ma non lo vedrete”? Il riferimento è proprio al senso di smarrimento che molti di loro avrebbero provato a fronte degli avvenimenti terribili di distruzione della santa città, che avrebbero suscitato in loro un ardente desiderio di vedere “uno solo dei giorni” di Gesù trionfante che li consolasse dal loro sentirsi inermi.

Se insisto sulla distruzione di Gerusalemme non è per ribadire un concetto già noto, ma perché fu un avvenimento atroce a tal punto che Gesù lo definì con queste parole, “…una tribolazione grande, quale non vi è mai stata dall’inizio del mondo fino ad ora, né mai più vi sarà” (Matteo 24.21). E infatti le cronache degli storici di allora, oggi dimenticate e relegate ad un ristretto numero di studiosi, ci parlano di seicentomila cadaveri buttati giù dalle mura e di 115.880 portati fuori da una sola porta della città.

E possiamo anche prendere atto delle parole di Deuteronomio 28 sulle conseguenze del non ascolto della Parola del Signore, qui Gesù Cristo: “Il signore solleverà contro di te da lontano, dalle estremità della terra, una nazione che si slancia a volo come aquila – notare che i Romani e non solo la ebbero come emblema – una nazione della quale non capirai la lingua – perché di ceppo non semita –, una nazione dall’aspetto feroce, che non avrà riguardo per il vecchio né avrà compassione del fanciullo. Mangerà il frutto del tuo bestiame e il frutto del tuo suolo, finché tu non sia distrutto e non ti lascerà alcun residuo di frumento, di mosto, di olio, dei parti delle tue vacche e dei nati delle tue pecore, finché ti avrà fatto perire. (…) Durante l’assedio e l’angoscia alla quale ti ridurrà il tuo nemico, mangerai il frutto delle tue viscere, le carni dei tuoi figli e delle tue figlie che il Signore tuo Dio ti avrà dato”. Riporto i versi da 49 a 53, ma andrebbe letto tutto il capitolo. Certo, fare i conti con Dio in giudizio è sempre stato e sarà cosa terribile.

Ecco allora che Gesù, con questo verso, vuol dire ai Suoi che, benché il Regno di Dio fosse dentro di loro e in mezzo a loro, non per questo Lui avrebbe accompagnato i discepoli in un cammino glorioso in senso umano. Certo avrebbe lasciato loro lo Spirito Santo, che non per nulla è definito “Il Consolatore”, ma le Sue manifestazioni non sarebbero state così immediate come l’averlo in carne ed ossa in mezzo a loro nel senso che, col passare anche di un secolo, l’accettazione per fede sarebbe stata sempre più impegnativa. Infatti dirà: “Ancora per poco sono con voi; voi mi cercherete ma, come ho detto ai Giudei ora lo dico anche a voi: dove vado io, voi non potete venire” (Giovanni 13.33), Sarebbe giunto un tempo in cui “chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio” (16.2).

Le altre parole di Gesù sono affrontabili sotto due prospettive, quella primaria del tempo a venire nel giro di qualche decennio, e quella futura, allora lontana nel tempo umanamente misurabile. Avrebbero detto “Eccolo là” o “Eccolo qui”: questo era il Messia tanto cercato e atteso, ma altrettanto ignorato che i Giudei crederanno di riconoscere, ma è un’espressione per indicare tutte quelle manifestazioni false di Dio portate avanti da altrettanto falsi profeti per loro scopi personali e basta pensare alle fortune economico-finanziarie costruite sulla religione per rendersene conto. Ecco allora che l’imperativo “Non andateci, non seguiteli” ha senso sia nell’una che nelle altre epoche perché i discepoli e chi segue Gesù anche oggi hanno già avuto il loro maestro e lo hanno ancora secondo la sua promessa “Io sono con voi fino alla fine del mondo”; andare a cercarlo là dove non può essere, non ha senso, è una perdita di tempo.

Le ultime parole, secondo la suddivisione che ho dato a questi studi, sono “Perché come la folgore, guizzando, brilla da un capo all’altro del cielo, così sarà il Figlio dell’uomo nel suo giorno”: è la spiegazione, il riporto alla vera realtà che vede da una parte uomini che attendono il Messia e lo cercano secondo le loro aspettative, dall’altra uomini che hanno trovato “il Figlio dell’uomo”, il loro personale Salvatore.

Anche qui, qual è il “giorno” del Figlio dell’uomo: quello imminente per i discepoli del 70 d.C., o quello finale, l’ultimo, in cui la zizzania verrà bruciata e il grano riposto? E ancora, cosa si intende per “Fine”, sono “I cieli e la terra” che “passeranno”? O la discesa della Nuova Gerusalemme, il gettare Satana e i suoi angeli “nello stagno ardente”? La risposta corretta credo che sia “tutti”, così come tutti loro dipendono dal verso 25, “Ma prima è necessario che egli soffra molto e venga rifiutato da questa generazione”, cioè quella dei Giudei che Lo avrebbe condannato in vita, nel momento in cui parlava. Sono parole simili al primo annuncio della passione, dopo quelle di Pietro che lo riconosceva come il Cristo di Dio: “Il figlio dell’uomo deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno” (Luca 9.22), anche loro entrambi “giorni” del Figlio dell’uomo perché in essi ha fatto cose fondamentali per la salvezza del peccatore, immolandosi come “Agnello di Dio che prende su di sé il peccato del mondo” e dimostrando una volta per tutte di esserlo, visto che la resurrezione altro non è che la conferma di tutto quanto detto da Lui e dal profeti.

“È necessario che prima soffra molto” dove “molto” non è inteso come “tanto”, come potrebbe sembrare, ma nel senso di “molte cose”, come traducono altri, facendo riferimento ai tanti tipi di sofferenze che dovette affrontare. La condizione per la quale sarebbe poi arrivato il Suo Giorno, termine che abbiamo visto racchiudere tante situazioni e significati, era proprio il soffrire, il morire ed il risorgere. Amen.

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15.02 – QUANDO VERRÀ IL REGNO DI DIO I/IV Luca 17.20,21)

15.02 – Quando verrà il Regno di Dio 1/4 (Luca 17.20,21)

 

 

20I farisei gli domandarono: «Quando verrà il regno di Dio?». Egli rispose loro: «Il regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione, 21e nessuno dirà: «Eccolo qui», oppure: «Eccolo là». Perché, ecco, il regno di Dio è in mezzo a voi!».

 

Entriamo ora in un ambito molto delicato per una quantità innumerevole di motivi. Luca pone qui un discorso di Gesù ai farisei (e poi ai discepoli) che troviamo in quello detto “escatologico” riportato da Matteo e Marco. L’Evangelista quindi anticipa una trattazione che, più avanti nell’ultima settimana della Passione, si farà estremamente più complessa e la fa originare da una domanda dei farisei. È assai probabile che l’argomento sia stato affrontato da Gesù due volte, una prima quando la colloca Luca e una seconda a Gerusalemme. Ora, poiché la richiesta dei farisei come vedremo era del tutto strumentale, Nostro Signore risponderà loro per il minimo indispensabile, dando qualche accenno in più ai discepoli che comunque lo avrebbero correttamente interpretato una volta sceso lo Spirito Santo.

Una premessa di basilare importanza va fatta sulle parole di Gesù sui tempi futuri in genere, che vengono spesso lette dai credenti con troppa superficialità nel senso che tendono a considerarle come se riguardassero soltanto loro e l’epoca in cui vivono, o al limite i tempi futuri; lo stesso avviene nella lettura dei profeti dell’Antico Patto, ma ci si dimentica che le parole che leggiamo sono state scritte per tutti, indipendentemente dall’epoca in cui sono vissuti per cui una parte di esse si è già adempiuta ed un’altra deve ancora accadere. Non solo, ma siccome il linguaggio dello Spirito non segue i criteri umani, spesso un significato ha valenza per più tempi e comprende più elementi, procedendo il messaggio per simboli, idee che nulla hanno di preconcetto, messaggi la cui comprensione si apre e si chiude secondo una logica che non è quella dell’ “uomo naturale” che conosciamo.

Così questo nuovo episodio si apre con una domanda dei farisei, cui nulla importava apprendere da Gesù, su un tema che a loro stava molto a cuore, cioè la venuta del regno di Dio. Questa era impossibile che avvenisse, secondo loro, senza la presenza operante di quel Messia vittorioso, risolutore dei problemi della Nazione ebraica che avrebbe eliminato l’oppressione di Roma. Il Messia che aspettavano avrebbe dovuto governare e guidare il popolo verso un’era di pace e prosperità per tutti i popoli, primo fra tutti Israele (ecco perché Gesù si ritirò sul monte quando “volevano farlo re” in Giovanni 6.15).

L’attesa del Messia si può dire che per Israele fosse (e sia) spasmodica: era venuto Giovanni il Battista che Lo aveva annunciato, ma secondo loro Colui che attendevano non si era visto e allora scrutavano e interpretavano i segni anche minimi nella storia per poterli cogliere ed essere in grado di riceverLo. E lo avevano lì, davanti a loro! Quindi la domanda “Quando verrà il regno di Dio?” fa riferimento al loro stato d’animo di ricerca – attesa (ipocrita), ma al tempo stesso alla loro ostilità nei confronti di Gesù, alla speranza di coglierlo in flagrante attraverso non tanto una risposta, ma tramite tutti i discorsi che ne sarebbero conseguiti e che non avrebbero portato da nessuna parte. Se Gesù avesse risposto “il regno di Dio è qui, è adesso, sono io che ve lo porto”, non avrebbe avuto senso perché erano tutti concetti che aveva già portato avanti e ampiamente dimostrato.

Era come se i farisei avessero detto: “Noi non vediamo alcun segno glorioso che ci faccia pensare che sia tu a portarci il regno di Dio; aspettiamo il Messia esattamente come i nostri padri, ma non sappiamo quando questo potrà realizzarsi: diccelo tu, visto che ci parli continuamente di questo”. Possiamo anche dire che quando al verso 21 e 23 troveremo la stessa espressione, “Eccolo là, oppure Eccolo qui”, il riferimento sarà (anche) all’attesa che Israele continuerà avere per quel Messia non riconosciuto ma tanto atteso e a tutte le fedi riposte in falsi cristi.

La risposta di Nostro Signore ai farisei fu lapidaria e assolutamente veritiera, mostrando loro quanto fossero distanti dalla comprensione di un concetto che invece era stato certamente accolto dai Padri da cui si vantavano di discendere: “Il regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione”, primo enunciato. La traduzione non è corretta perché sarebbe “in modo da potersi osservare”, greco paratéresis che allude a uno scrutare continuo, come quello dei Magi d’Oriente che aspettavano una stella che indicasse la nascita del “Re dei giudei”, uno stare all’erta per scoprire qualcosa che altrimenti passerebbe inosservato.

Il regno di Dio quindi, secondo queste parole, è qualcosa che trascende, cioè non è riconducibile alle determinazioni dell’esperienza in quanto sussiste indipendentemente dalla realtà di cui è peraltro il presupposto. Infatti ricordiamo cosa disse Gesù a Pilato: “Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù” (Giovanni 18.36). Quindi il regno di Dio è qualcosa che sfugge alla logica umana, non si vede, geograficamente è introvabile e, se aspetti che si riveli attraverso manifestazioni eclatanti, rimarrai fermo e deluso. Il regno dei cieli non può essere “toccato con mano”, visto coi nostri occhi che il peccato un tempo ha “aperto” a realtà ben diverse e, quando ciò sarà possibile, verrà preclusa ogni salvezza a tutti coloro che non l’avranno accolto. Non si può dire “«Eccolo qui» o «Eccolo là»” cioè andando alla ricerca di un luogo più santo di altri, di manifestazioni appariscenti, di fenomeni inspiegabili per poter finalmente credere, di qualcosa che dissipi uno stato d’animo che altro non è che la ferrea volontà di rimanere ciò che si è e tenere ciò che si ha.

Perché la vera rivelazione è “ecco, il regno dei cieli è in mezzo a voi”, greco “enròs umòn” traducibile anche con “dentro di voi”, entrambe esatte perché, tra l’altro, prese assieme mostrano il progressivo sviluppo della “nuova creatura” che si realizza in Cristo. Dire che Dio è in mezzo agli uomini mi sembra eccessivo perché tra essi è stato, ma è accanto a chi lo cerca ed è proprio una volta lasciatosi trovare che viene ad essere “dentro” di loro anche secondo Apocalisse 3.20 “Ecco, io sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, cenerò con lui ed egli con me”.

Quando poi si realizza la nuova nascita, ecco che il “regno di Dio” è anche “in mezzo” perché si crea la Chiesa, la Comunità dei credenti, dei “chiamati fuori” da un mondo al quale appartenevano e che ora non riconoscono più come prima in quanto ormai privo di attrattive.

Quella che abbiamo dato, però, è una lettura che allora non era possibile, per cui ne va cercata un’altra che non credo possa essere diversa da quella che vede il regno di Dio in mezzo a “voi”, farisei, perché Gesù era presente in mezzo a loro, pronto a leggere i cuori di ognuno e a salvare e sono convinto che, se tra quelle persone ci fosse stato qualcuno che credeva in Gesù e non si manifestava come discepolo per timore, questi avrebbe compreso immediatamente ciò che voleva dire. Quelle persone vivevano “in mezzo” al regno di Dio, eppure continuavano a non vederlo e a cercarlo da un’altra parte perché la sua venuta gli era sfuggita o, più propriamente, non avevano voluto vederla.

Allora, con questi pochi dati che abbiamo raccolto, possiamo tornare indietro alla prima frase, “Il regno di Dio non viene in modo da potersi osservare”, e adattarla ai giorni nostri in cui il regno di Dio certo non occupa i pensieri della gente, anzi esiste tutta una strategia per elevare una creatura insignificante come l’uomo a signore assoluto, padrone del proprio destino, delle proprie scelte e del mondo intero. Qui il “non potersi osservare”, o il meno adatto “attirare l’attenzione” significa da un lato che, come in ogni altro tempo, il regno va cercato, e dall’altro che quando si manifesterà sarà troppo tardi perché la miopia autoinflitta dagli uomini avrà impedito loro di riconoscerlo, e qui possiamo effettuare un piccolo “sconfinamento” sul grandissimo discorso escatologico di Gesù ai suoi che darà in proposito almeno due indizi importanti. E siccome il regno implica il ritorno di Cristo, andiamo a vederli brevemente.

Il primo indizio è di carattere storico e si sarà sicuramente impresso in modo indelebile in tutti e lo troviamo pochi versi più avanti: “Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del figlio dell’uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell’uomo” (Matteo 24.37,39; vv. 26,27 del nostro capitolo). Questo è un atto di accusa perché anche a quel tempo nessuno volle vedere: tutti noi sappiamo che Noè fu il costruttore dell’Arca, ma spesso ci sfugge il lavoro che quest’opera immensa richiese ed il fatto che è impossibile che sia passata inosservata dai suoi conterranei: è stato calcolato che per costruirla – occorrerà attendere la fine del 1800 per avere una “nave” pari a quelle dimensioni – ci vollero circa 40mila piante di cedro o di pini di Aleppo da prelevare in un bosco estensivo di circa 8000 ettari; ogni albero poi doveva essere abbattuto, pulito dai rami, scortecciato e sommariamente squadrato e solo per queste operazioni una persona impiega un giorno per ogni pianta; poi questi dovevano essere trasportati in un punto di raccolta che era l’area dove doveva essere costruita l’arca. In ogni albero, per permettere la giunzione, dovevano essere praticati minimo (6+6) fori in cui innestare i relativi pioli. Poi i diversi alberi dovevano essere accatastati e giuntati. Alla fine bisognava calatafare il tutto con circa 300 q.li di pece bollente; per fare il tutto circa 160 persone avrebbero dovuto lavorare per circa 400 giorni. Da notare che, secondo una tradizione ebraica, Noè ha effettivamente diffuso tra gli uomini l’avvertimento divino della distruzione ed ha piantato dei cedri quasi centoventi anni prima dell’inondazione perché i peccatori avessero il tempo di prendere coscienza del loro vivere errato e di convertirsi.

Ecco perché il 120 è il numero della pazienza di Dio.

Credo che questa non sia affatto un’interpretazione azzardata perché l’apostolo Pietro ci dice che Noè “fu un predicatore di giustizia” (IIa, 2.5). Eppure, non si accorsero di nulla.

Il secondo indizio lo possiamo trovare in 1 Tessalonicesi 5.2,3, “Infatti voi ben sapete che come un ladro di notte, così verrà il giorno del Signore. E quando si dirà: «Pace e sicurezza», allora d’improvviso li colpirà la rovina, come le doglie una donna incinta, e nessuno scamperà”. Credo che si tratti di un verso auto referenziante.

Concludendo, in questa prima parte Gesù replica ai farisei che, con quella domanda, gli fanno capire di non credere affatto in Lui. “Quando verrà il regno di Dio?” contiene infatti l’affermazione in base alla quale, visto che secondo loro non era certo Lui a portarlo, gli chiedono quando ciò sarebbe avvenuto. Oppure, peggio ancora, la loro richiesta era quella di “muoversi ad agire” perché, se era Lui quello che avrebbe portato il regno, allora beh, non lo aveva ancora fatto. Se teniamo buona questa lettura, una delle tante possibili, la risposta calma di Nostro Signore assume ancora più valore: “È in mezzo a voi”, o “è dentro di voi”; se nonostante tutta la vostra scienza religiosa non lo sapete trovare, è solo colpa vostra.

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15.01 – I DIECI LEBBROSI (Luca 17.11-19)

15.01 – I dieci lebbrosi (Luca 17.11-19)

 

11Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samaria e la Galilea. 12Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza 13e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». 14Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati. 15Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, 16e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano. 17Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? 18Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». 19E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».

 

Il verso 11 è utilizzato da Luca per inquadrare il periodo dedicato al viaggio di Gesù verso Gerusalemme, città dalla quale si era allontanato, come abbiamo visto, dopo gli eventi riportati da Giovanni 10 alla festa della Dedicazione. Ricordiamo che lo stesso evangelista, ai versi 40-42 , scrive che Gesù “ritornò quindi nuovamente al di là del Giordano, nel luogo dove prima Giovanni battezzava, e qui rimase. Molti andarono da lui e dicevano: «Giovanni non ha compiuto nessun segno, ma tutto quello che Giovanni ha detto di costui era vero». E in quel luogo molti credettero in lui”. Qui, con la cronaca di Luca, siamo già ufficialmente nell’ultimo viaggio verso la città in cui Nostro Signore avrebbe dovuto affrontare il Suo Sacrificio. Questo “attraversava la Samaria e la Galilea” è più probabile che in realtà alluda ad un transitare attraverso i confini delle due regioni per poi portarsi in Perea in cui era Betania dove risusciterà Lazzaro.

Abbiamo quindi un episodio particolare non solo per gli insegnamenti contenuti, ma anche per il passare di Gesù per un villaggio di cui non ci è detto il nome, alle cui porte stavano dieci lebbrosi, persone che abbiamo già affrontato quanto a significato della malattia e al tipo di vita che conducevano, essenzialmente condannati alla totale emarginazione: venivano cacciati dalla loro famiglia e dal villaggio, per il loro sostentamento dipendevano unicamente dalla compassione di chi portava loro qualcosa da mangiare, tenendosi accuratamente a distanza.

Il lebbroso doveva portare indumenti stracciati, tenere il capo scoperto, il labbro superiore velato e doveva gridare, quando una o più persone si avvicinavano a lui, “L’immondo! L’immondo!”, poi “…starà solo finché durerà in lui il male – quindi fino a quando non sarà guarito da Dio con successiva attestazione del sacerdote –; è impuro, se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento” (Levitico 13.46). Lo stare “solo”, riferito al fatto che nessuna persona sana poteva avvicinarsi a lui, non impediva che il lebbroso potesse accompagnarsi ad altri come lui ed è quello che si verifica nel nostro episodio in cui abbiamo un gruppo composto da nove giudei e un samaritano, segno che la loro triste condizione aveva annullato la tradizionale rivalità e disprezzo che intercorreva fra i due popoli.

Cerchiamo ora di esaminare la scena: Gesù e i discepoli, non sappiamo quanti, sono in avvicinamento all’ignoto villaggio e, giungendo nei pressi ma non dentro, incontrano i lebbrosi che si fermano “a distanza”, cioè rispettosi della Legge, dopo averlo riconosciuto, e comunicano per quanto possono “dicendo ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Mi sono chiesto a che distanza potessero trovarsi fra loro i due gruppi: il lebbroso doveva stare sempre controvento rispetto ad un eventuale incrociante, ma credo fosse la prudenza a regolarla, posto che tra il viandante occasionale che li incontrava e loro raramente potevano esservi dialoghi.

Qui, la richiesta dei dieci fu ridotta al minimo; dimostrano di conoscerlo, lo chiamano “maestro” e lo pregano di immedesimarsi in loro, indice del fatto che, onestamente, non imputavano la condizione in cui versavano a Dio, ma alle loro colpe: l’isolamento sociale e la sofferenza che provavano nel corpo e nell’anima era solo una parte di ciò che sperimentavano quotidianamente perché cosa significasse davvero l’essere estromessi dalla comunità del villaggio lo leggiamo in Numeri 5.1 e segg.: “…li allontanerete dall’accampamento, così non renderanno impuro il loro accampamento, dove io abito tra loro”: capiamo? L’Iddio di Israele abitava con gli altri, i sani, ma non con i lebbrosi. All’isolamento sociale, quindi, si accompagnava anche quello dell’anima, un esilio perché impuri e più peccatori degli altri.

E Gesù, l’Emmanuele, il “Dio con noi”, dà loro una risposta immediata, diversa dalle solite perché non dice, ad esempio, “Lo voglio, siate guariti”, ma ordina loro di andare a presentarsi ai sacerdoti, i soli che potevano legalmente dichiarare la guarigione in un caso del genere e quindi la riammissione della persona nella società. E il controllo da parte dei sacerdoti doveva essere ripetuto per tre volte a distanza di tempo, non è che l’assenza di macchie autorizzava a un ingresso nella congregazione. L’andare dai sacerdoti, quindi, era quanto Gesù richiedeva da loro, che così fecero ponendo quindi la loro fede in quell’ordine ricevuto. “Andate a presentarvi ai sacerdoti”, non chiese nient’altro e dobbiamo prestare attenzione al fatto che Gesù disse ciò non “appena li vide” come troviamo tradotto, ma “dopo averli visti”.

Il “dopo” ci dice che intercorse uno spazio di tempo, Nostro Signore non fece qualcosa di avventato o perché essendo misericordioso voleva far del bene quanto più possibile, no: in realtà li valutò. Considerò la loro sofferenza, il loro gridare, gli anni passati nell’esclusione, nell’essere ignorati, nel constatare la loro malattia che si aggravava senza possibilità di un riscatto, nel vedere il loro corpo disfarsi poco a poco, cadere letteralmente a pezzi. Il “vedere” di Gesù non comporta mai indifferenza come nella parabola del “buon samaritano”, unico a “vedere” e a non “passare oltre” come avevano fatto tutti coloro che lo avevano preceduto nel transito.

Gesù guarda e cerca sempre qualcuno che lo cerchi, o che lo riconosca e, naturalmente, gridi a lui, come in questo caso. E quei dieci lebbrosi sapevano che Lui era l’unico al quale potevano rivolgersi per essere guariti; dagli altri uomini, al limite, potevano avere un gesto di riluttante consegna di qualcosa da mangiare per non morire di fame, ma già morti dentro, come sapevano i quattro lebbrosi di 2 Re 7.3,4 per i quali, fra il vivere e il morire, non intercorreva differenza alcuna: “Ora c’erano quattro lebbrosi sulla soglia della porta – di Samaria –. Essi dicevano fra di loro: «Perché stiamo seduti qui ad aspettare le morte? Se decidiamo di andare in città, in città c’è la carestia e vi moriremo. Se stiamo qui, moriremo. Ora, su, passiamo all’accampamento degli Aramei: se ci lasceranno in vita, vivremo; se ci faranno morire, moriremo».

“Andate a presentarvi ai sacerdoti” era quanto veniva richiesto a queste persone che infatti si incamminarono subito, senza chiedersi come mai non li aveva voluti guarire subito, anche se sapevano benissimo che senza una dichiarazione sacerdotale era impossibile venire riammessi in società. E allora andarono, ma anche qui va prestata attenzione perché non è detto che in quel villaggio il sacerdote vi fosse e in ogni caso si dovettero separare perché il lebbroso samaritano avrebbe dovuto venire dichiarato guarito dal sacerdote del suo rito e non da quello ebraico, per quanto sia i samaritani che gli ebrei si rifacessero alla stessa Legge di Mosè.

Ancora mal tradotto è “Mentre essi andarono” che lascia supporre una guarigione progressiva mentre il testo più propriamente ha “Come essi andarono, furono purificati”, cioè non appena si misero in cammino, cioè non appena manifestarono la loro fede ubbidendo all’ordine ricevuto: Gesù aveva detto così? Tanto bastava. Non fecero quindi come il generale Naaman, che quando Eliseo gli ordinò, per guarire, di bagnarsi sette volte nel Giordano, disse “Ecco, io pensavo: «Certo verrà fuori e, stando in piedi, invocherà il nome del Signore, suo Dio, agiterà la sua mano verso la parte malata e toglierà la lebbra». Forse l’Abanà e il Parpar, fiumi di Damasco, non sono migliori di tutte le acque d’Israele? Non potrei bagnarmi in quelli per purificarmi?»” (2 Re 5.11,12), ma ubbidirono e andarono.

Però il parallelo con Naaman rimane nella sua parte finale, quando, dopo avere obbedito all’ordine di Eliseo, guarì ed è scritto che “il suo corpo ridivenne come il corpo di un ragazzo, egli era purificato”, quindi non solo la lebbra andò via, ma la pelle non era più quella di prima; non sappiamo quanti anni avesse quell’uomo, ma era “comandante dell’esercito del re di Aram, personaggio autorevole presso il suo signore e stimato” (v.1) e certo non aveva la pelle di un ragazzo. La guarigione di Gesù, quindi, supererò ogni aspettativa.

Si verifica però un fatto nuovo e cioè, vistisi guariti ma bisognosi di un attestato, i nove ebrei accelerarono ancora di più il passo verso i sacerdoti, ma il samaritano, “vedendosi guarito” pensò immediatamente a ringraziare Colui che lo aveva reso così. In questi uomini, tutti con un passato identico di vita (ma di peccato diverso), accomunati dalla stessa guarigione e dallo stesso guaritore, si crea immediatamente una priorità: nove vogliono tornare al più presto alla loro casa e ai loro parenti, rioccupare il loro posto nella società, ma uno pensa in modo diverso: tutto ciò che gli altri desideravano si compisse al più presto, per lui poteva attendere, sarebbe arrivato a suo tempo, la priorità era esprimere la sua riconoscenza all’Unico che avrebbe potuto guarirlo, cioè Dio nella persona del Figlio. Per cui abbiamo letto che “tornò indietro glorificando Dio a gran voce”, modalità da non dare per scontata: non andò gridando – faccio per dire – “che bello, sono guarito”, ma “Dio mi ha guarito”, come i tanti venuti prima di lui.

Possiamo ricordare in proposito Salmo 30.12,13, “Hai mutato il mio lamento in danza, mi hai tolto l’abito di sacco, mi hai rivestito di gioia, perché canti il mio cuore, senza tacere; Signore, mio Dio, ti renderò grazie per sempre”, oppure 103.2,4: “Benedici il Signore, anima mia, non dimenticare tutti i suoi benefici – perché si possono dimenticare –. Egli perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue infermità, salva dalla fossa la tua vita, ti circonda di bontà e misericordia”.

Ecco, mentre i nove lebbrosi provarono la guarigione, il decimo provò la gioia della lode, che non a tutti è data. Quel samaritano conobbe da subito, spontaneamente, la priorità del ringraziamento, era per lui impossibile tacere. In pratica i nove, vedendosi guariti, non pensarono al ringraziamento perché, secondo la loro ottica, Gesù li aveva ascoltati e infondo aveva fatto ciò per cui era venuto per cui si reimpossessarono immediatamente dei loro spazi esattamente come prima della malattia. Per loro nulla era cambiato e poco importava che fossero stati posti in una prospettiva che fino all’esaudimento della loro preghiera era assolutamente impensabile. La stessa cosa la fanno anche oggi i cristiani cosiddetti “nominali”, che quando hanno bisogno pregano, magari partecipano a funzioni religiose e poi, una volta secondo loro ottenuto quanto richiesto, tornano imperturbabili alla vita di prima.

Anche il modo del samaritano è importante, cioè gli si getta ai piedi, in posizione subordinata, sottolineo adorante a riconoscergli chi fosse e la sua gratitudine che troviamo sicuramente espressa nei due Salmi citati in cui ciò che emerge è il principio in base al quale Dio – e non potrebbe essere altrimenti – è il tutto: “perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue infermità”, nessuna esclusa e proprio perdonando le colpe guarisce le infermità che sono ad essa conseguenti, per i lebbrosi la loro malattia, per noi la nostra miopia, egoismo, le nostre antitesi, sopraffazioni, la guerra dell’uno nei confronti dell’altro che, non conoscendo e quindi diffidando del proprio simile, trova nella difesa, violenta in un modo o in un altro, l’ unica soluzione.

Nello studio di un medico un po’ particolare che ho conosciuto c’è un cartello con su scritto “Dio c’è, ma non sei tu. Rilàssati”, ma il verbo andrebbe sostituito con “lasciati amare”, molto più impegnativo perché richiede fondamentalmente l’abbandono, quello che è più difficile da realizzare. Ci fidiamo di Dio? E se sì, fino a che punto, ammesso che ci sia? Dandoci queste risposte, credo che possiamo avere la temperatura dell’amore e della fede che abbiamo in Lui e per Lui.

Concludendo il nostro episodio, Gesù aveva guarito dieci lebbrosi, numero che ci collega ai comandamenti, che qui presumo infranti, tanto quelli verso Dio che quelli verso l’uomo, per cui possiamo dire che aveva perdonato a tutto tondo, in modo perfetto, come diversamente non avrebbe potuto fare. Eppure, uno solo era tornato, per giunta straniero per cui uno che avrebbe potuto benissimo evitare di farlo. Eppure, quell’uno solo fu salvato, a differenza degli altri che furono soltanto guariti e che, contrariamente alle loro aspettative, si sarebbero trovati con il loro problema fondamentale irrisolto. Amen.

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14.24 – QUATTRO DISCORSI DI GESÙ IV: I SERVI INUTILI (Luca 17.7-10)

14.24 – Discorsi 4: servi inutili (Luca 17.7-10)

 

7Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: «Vieni subito e mettiti a tavola»? 8Non gli dirà piuttosto: «Prepara da mangiare, stringiti le vesti ai fianchi e servimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu»? 9Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? 10Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: «Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare»».

 

Sono tanti gli interrogativi che un credente si pone dopo aver letto l’insegnamento conclusivo di Gesù, che finora ha toccato come temi gli scandali provocati, una colpa eventualmente commessa da un fratello e il perdóno. Ebbene i versi che abbiamo appena letto forniscono agli apostoli un importante aspetto della dottrina cristiana che da un lato vede la persona come un salvato, amato da Dio al punto da dare in dono il Figlio “affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna” (Giovanni 3.16), non più straniero né avventizio, “ma concittadino dei santi e membro della famiglia di Dio” (Efesi 2.19), eppure dall’altro un semplice servo, certo non trattato in modo umiliante, ma comunque una persona che non può aspettarsi la gratitudine del padrone perché, a fine compito, non ha svolto altro che il proprio dovere.

Sono convinto che, se qui manca del tutto l’onore che il padrone conferisce in Luca 12.37 (“Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli”) è solo perché il cristiano, per quanto faccia, studi, aiuti il suo prossimo ed evangelizzi, deve guardarsi bene dal sentirsi importante o presumere per questo di avere una corsia preferenziale di ascolto o considerazione da parte di Dio al di là di quanto promesso. Si tratta di un atteggiamento che può portare ad importanti e dannose manifestazioni di orgoglio che contraddirebbero l’esortazione più volte prodotta all’attenzione dei discepoli in base alla quale, se uno vuole essere maggiore degli altri, deve essere “l’ultimo di tutti e il servo di tutti” (Marco 8.35).

Il fatto di non avere meriti, allora, viene ancora una volta confermato poiché non siamo salvati per le nostre opere, affinché nessuno si insuperbisca altrimenti la Grazia non sarebbe più tale; piuttosto siamo stati “comprati a caro prezzo” (1 Corinti 6,20; 7.23) e come tali siamo chiamati a vivere per cui, quando lavoriamo per Lui, non facciamo altro che dargli ciò che è Suo, noi e la nostra fatica. È interessante che per la parola “servo” il greco ha due sostantivi diversi, uno per indicare quello salariato e l’altro, doulos, per quello comprato ed è quest’ultima la parola impiegata nei versi oggetto di attenzione. Una persona comprata al pari di un bue, una pecora o un asino perché adatta a un certo tipo di lavoro o produzione, nient’altro, per lo meno in questo contesto anche se non va dimenticato che si tratta di un servitore nel senso giudaico e non presso altri popoli, che non aveva solo doveri, ma anche diritti e uno stato sociale, che poteva essere riscattato o decidere di rimanere a servizio.

Molti, in proposito, gridano alla contraddizione, come in tanti altri punti della Scrittura in cui pare vi sia contrasto ma si dimenticano che qui, come in altri punti, a variare è il contesto e quindi la considerazione di Dio o, meglio, quella che deve avere di sé l’uomo che per Lui opera. È la negazione dell’orgoglio, come fu per Davide quando, nella sua preghiera di ringraziamento alla presenza di tutta l’assemblea, disse “Chi sono io e chi è il mio popolo, per essere in grado di offrirti tutto questo spontaneamente? Tutto proviene da te: noi, dopo aver ricevuto dalla tua mano, te l’abbiamo dato. Noi siamo forestieri davanti a te e ospiti come tutti i nostri padri – vedi l’aggiornamento in Efesi che abbiamo citato all’inizio –. Come un’ombra sono i nostri giorni sulla terra e non c’è speranza – al di fuori di te –. Signore, nostro Dio, quanto noi abbiamo preparato per costruire una casa al tuo santo nome proviene da te ed è tutto tuo” (1 Cronache 29.14-16).

Ebbene da queste parole vediamo che manca totalmente qualsiasi dichiarazione di merito presunto ed è da sottolineare che in questa stessa preghiera Davide aveva dichiarato “Da te provengono la ricchezza e la gloria, tu domini tutto; nella tua mano c’è forza e potenza, con la tua mano dai a tutti ricchezza e potere” (v.12), quindi ancora una volta viene dichiarato che, al di fuori di Lui, nulla ha senso e nulla esiste. Davide non si presenta davanti a Dio come qualcuno che ha raggiunto degli obiettivi o ha risolto problemi, ma come una persona che semplicemente ha avuto dal suo Signore in dono degli elementi per i quali non ha fatto nulla per conquistarli e quindi non ha alcun merito. Tutto questo nonostante la sua storia, guardando a tutto quanto riuscì a compiere in difesa del Nome e del suo popolo. Se umanamente Davide può avere avuto dei meriti, spiritualmente non ne ha in quanto si è solo prestato per un’opera, un lavoro che, per quanto importante, non stava a lui portare avanti per poi gloriarsene.

 

Altri versi istruttivi li troviamo nel libro di Giobbe, per quanto vadano lette con prudenza soprattutto le dichiarazioni dei tre suoi “amici” Elifaz, Bildad e Sofar perché riferiscono la saggezza del tempo, ma non adatta alla situazione che quell’uomo viveva: “Può forse l’uomo giovare a Dio, dato che il saggio può giovare solo a se stesso? Quale interesse ne viene all’Onnipotente che tu sia giusto, o che vantaggio ha, se tieni una condotta integra?” (22.2,3). Qui viene dato lo stesso concetto espresso da Gesù: se è vero che Dio ha bisogno dell’uomo perché l’amore non può che espandersi per cui ha creato Adamo e tratto da lui Eva, è altrettanto vero che i suoi progetti vanno avanti comunque e troverà sempre chi sarà disposto a farsi carico di cooperare a realizzarli, come insegna la storia del popolo di Israele che, a un certo punto, si ritrovò escluso dalla funzione di testimone per cui fu detto “Il regno di Dio vi sarà tolto e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare”. La frase “dato che il saggio può giovare solo a se stesso” intende sottolineare l’interesse che ha l’uomo a farsi servo di Dio e, se ciò non avviene, va solo a suo danno. Infatti “Il mio Signore sei tu, solo in te è il mio bene” (Salmo 16,2) nel senso che, nel rapporto tra Dio e l’uomo, è il secondo ad avvantaggiarsene un po’ come quando andiamo ad abbeverarci a una fonte. L’unica cosa che YHWH fa, è chiamare a sé in quanto amore, ma la scelta se andare a Lui o no appartiene all’essere umano. E chi risponde può essere solo ed unicamente il diretto interpellato, come fu per tutti i credenti antichi e moderni il cui nome sappiamo che è “scritto fin dalla fondazione del mondo”.

Altro verso di interesse lo troviamo in 35.7 dello stesso libro: “Se pecchi, cosa gli fai? Se aumenti i tuoi delitti, che danno gli arrechi? Se tu sei giusto, che cosa gli dai o che cosa riceve dalla tua mano?”; l’uomo non ha modo migliore per farsi del male se non quello di ignorare la voce di Dio e, se “giusto” non fa altro che ricevere una retribuzione positiva come fu per tutti coloro che ci hanno preceduto e per quanti sono in vita su questa terra continuando nel loro cammino davanti a Lui. Uno dei più grandi equivoci è che l’essere umano sia debitore nei Suoi confronti: “Ora, Israele, che cosa ti chiede il Signore, tuo Dio, se non che tu tema il Signore, tuo Dio, che tu cammini per tutte le sue vie, che tu lo ami, che tu serva il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore e con tutta l’anima, che tu osservi i comandi del Signore e le sue leggi, che oggi ti do per il tuo bene?” (Deuteronomio 10.13).

Notare, “per il tuo bene” e non “per il mio”, perché tutte le iniziative prese da Dio sono state sempre gratuite e per il bene della Sua creatura: gratuitamente, dopo averla creata, l’ha posta in Eden ed altrettanto gratuitamente ha poi dato inizio a tutto un progetto per il suo pieno recupero passando attraverso le dispensazioni. Fu proprio quella della Legge la più impegnativa sotto il profilo dell’adempiere, del fare e del non fare, prima che arrivasse quella della Grazia che, nonostante la sua leggerezza, è quella che fa delle scremature ancora maggiori.

Ed è l’uomo che a un certo punto, nonostante il peccato, scegliendo di appartenergli e servirgli, determina il proprio stato assicurandosi o meno un futuro tante volte descritto da Gesù con le parabole in cui, parlando di “servi”, annuncia comunque una retribuzione futura, una prospettiva in cui il “servo” non è mai trattato con asprezza, ma con libertà e amore unici. Non solo, ma chi crede ed è salvato, è chiamato anche “fratello” e “amico” di Cristo ed ecco perché lo stato di servitù descritto con le parole oggetto di meditazione vanno tenute presente in relazione ad un aspetto, cioè uno, ma non unico.

Ed arriviamo così, dopo gli esempi che Gesù fa della giornata lavorativa del servo, che solo dopo aver svolto tutti i suoi compiti potrà sedersi a tavola e magiare e bere, alla conclusione personale cui dobbiamo giungere: “Così anche voi, quando avrete fatto ciò che vi è stato ordinato, dite: «Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”.

Un aforisma che mi ha colpito su questo tema diceva: “Guai all’uomo che Dio chiama inutile, ma felice colui che così chiama se stesso”, e credo che poco si possa aggiungere; ricordiamo la domanda dell’apostolo Paolo in Romani 11.34,35: “Chi ha mai conosciuto il pensiero del Signore, o chi mai è stato suo consigliere? O chi gli ha dato qualcosa per primo tanto da riceverne il contraccambio?”. Piuttosto, dato che per primi siamo noi ad avere ricevuto, proseguiamo il nostro percorso sapendo che il “contraccambio” ci verrà dato al momento opportuno. Da qui l’umiltà, il non pretendere, l’acquisizione della vera coscienza di ciò che siamo realmente.

C’è poi una domanda che sempre Paolo rivolge ad alcuni della Chiesa di Corinto che si vantavano di essere personaggi di chissà quale importanza spirituale: “Chi dunque ti dà questo privilegio? Che cosa possiedi, che tu non l’abbia ricevuto? – quindi se hai un dono non puoi gloriartene perché lo hai, appunto, ricevuto – E se l’hai ricevuto, perché te ne vanti come se non l’avessi ricevuto – cioè come se lo avessi conquistato per tuoi meriti, o con le tue forze –?” (1a, 4.7).  Poi, circa l’annunciare il Vangelo, lui stesso dichiarerà che “non è un vanto, ma una necessità che mi si impone. (…) Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto alla ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato” (9.16,17).

Ecco, così parlò un uomo che ricevette tante rivelazioni da Dio di cui una parte riversò nelle sue lettere e nella predicazione personale. Credo che Paolo, per la colossale opera da lui compiuta, i viaggi, le sofferenze e la salute malferma che ne derivò, sicuramente possa annoverarsi tra i più grandi collaboratori di Dio, ma se può ricevere tutta la nostra ammirazione, in realtà fu un servo che non fece altro che restare fedele agli ordini ricevuti. E così dev’essere per noi, che dobbiamo rimanere nel piccolo orto che il Signore ci ha incaricato di coltivare. Perché, come tutti, non abbiamo alternative. Amen.

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14.23 – QUATTRO DISCORSI DI GESÙ III: FEDE E UMILTÀ (Luca 17.5,6)

14.23 – Discorsi 3: fede e umiltà (Luca 17.5,6)

 

 

5Gli apostoli dissero al Signore: 6«Accresci in noi la fede!». Il Signore rispose: 6«Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: «Sràdicati e vai a piantarti nel mare», ed esso vi obbedirebbe.

 

Sembra strano, eppure, almeno per me, il verso cinque rappresenta un problema perché le ipotesi sono due: o Luca qui riferisce un insegnamento di Gesù avvenuto in un secondo momento rispetto al contesto fin qui rappresentato, oppure, soprattutto tenendo conto di altre traduzioni che riportano “Allora gli apostoli dissero al Signore”, la loro richiesta “Accresci in noi la fede” proveniva dalla consapevolezza di quanto fossero distanti dal comprendere le dinamiche spirituali che venivano loro proposte. Ed effettivamente lo erano, perché lo Spirito Santo non era ancora sceso su di loro. Ancora era possibile che fossero intimoriti dal discorso sugli scandali ed avessero capito che, senza restare uniti a Lui, avrebbero potuto commetterne. ChiedendoGli di accrescere la fede in loro, allora, dimostrano di aver capito che possederla pienamente era il solo modo per camminare correttamente in Lui. Ricordiamo le parole “Ora senza fede è impossibile piacergli; poiché chi si accosta a Dio deve credere che egli è, e che ricompensa tutti quelli che lo cercano” (Ebrei 11.6). Importante in proposito quanto scrive un fratello: “La religione non può piacere a Dio perché è essenzialmente un sistema sviluppato da Satana per contrastare la verità”. Essa infatti non possiede fede, ma credenze indimostrabili se non tramite manifestazioni assolutamente umane, o miracoli costruiti artificiosamente, o ancora preparati dall’Avversario che è in grado di farne. Infatti “Anche Satana si traveste da angelo di luce. Non è dunque cosa eccezionale se anche i suoi servitori si travestono da servitori di giustizia; la loro fine sarà secondo le loro opere” (2 corinti 11.14,15). Ed è cosa che possiamo notare quotidianamente. Anche il Cristianesimo, quindi, se viene inteso come pratiche, riti, credenze e dogmi cui aderire incondizionatamente, può diventare religione e dar luogo a profonde inconcludenze e superstizioni.

La fede è qualcosa che viene provata, come fu per Abrahamo di cui è detto “Egli non vacillò nella fede, pur vedendo già come morto il proprio corpo – aveva circa cento anni – e morto il seno di Sara. Di fronte alla promessa di Dio non esitò per incredulità, ma si rafforzò nella fede e diede gloria a Dio” (Romani 4,19,20) e sappiamo che fu proprio la fede a giustificarlo davanti al signore: “Abrahamo credette a Dio e ciò gli fu imputato a giustizia” (v.4).

Ora gli apostoli – interessante notare che non furono i discepoli – capiscono che non avrebbero mai potuto, senza fede, mettere in atto compiti tanto contrari all’istinto umano come il perdonare senza una forza-dote interiore che sapevano di avere in misura infinitesimale, anzi, fu proprio il concetto del perdóno che li mise in imbarazzo, proprio loro che erano stati inviati da Gesù che “diede loro potere sugli spiriti impuri per scacciarli e guarire ogni infermità” (Matteo 10.1). Pensiamo: gli Apostoli che, tornando dalla loro missione, avevano portato al Maestro un rapporto entusiasta delle loro attività – ricordiamo le parole “Signore, anche i demoni si sottomettono a noi nel tuo nome” (Luca 10.17) ma che in un caso fallirono perché non sapevano che “questa razza di demòni non esce se non mediante preghiera e digiuno” (Matteo 17.21) – sanno di non avere fede sufficiente per arrivare a gestire il perdóno e chiedono aiuto. Piccolo inciso sul verso appena ricordato: la parola “digiuno” è frutto dell’aggiunta probabilmente di un monaco copista che volle inserirla per rafforzare una sua credenza.

Ecco allora che la risposta di Gesù che andiamo ad analizzare, “Se aveste fede quanto un granello di senape…” non è un rimprovero a significare che ne erano sprovvisti o una frase tesa ad umiliarli, ma è piuttosto un’affermazione come quella che troviamo in Marco 9.23, “Tutto è possibile a chi crede”. Sottolineiamo che queste parole furono rivolte al padre di quel ragazzino epilettico che i discepoli non avevano potuto guarire, il quale rispose “Credo; aiuta la mia incredulità”: una disperata richiesta di intervento, l’ennesima che un uomo consapevole dei propri limiti gli rivolse e quel poco di fede che aveva fu sufficiente a far sì che il figlio fosse guarito.

Come fosse la fede degli apostoli la vediamo sempre nello stesso episodio: “Allora i discepoli – presumo i dodici stante l’incarico ricevuto – si avvicinarono a Gesù in disparte e gli chiesero: «Perché non siamo riusciti a scacciarlo?». Ed egli rispose loro: «Per la vostra poca fede. In verità io vi dico: se avrete fede pari a un granello di senape, direte a questo monte: «Spòstati da qui a là» ed esso si sposterà, e nulla vi sarà impossibile” (Matteo 17.19,20). La fede quindi c’era, ma era “poca”, non sufficiente in quel caso perché legata al quotidiano, al contingente, distratta dal vivere camminando sulla terra, guardando l’orizzontale, tutti elementi che contaminano e spesso sfiniscono, prostrano. Ma abbiamo letto “nulla vi sarà impossibile”, naturalmente sotto la prospettiva spirituale, ai risultati. E qui pensiamo a tutte le manifestazioni dello Spirito narrate nel libro degli Atti.

Vediamo ora un po’ più da vicino cosa si intende per “fede” perché darne una definizione è impossibile stante le due sfaccettature. L’apostolo Paolo in Ebrei 11.1 scrive che è “certezza delle cose che si sperano, dimostrazione di cose che non si vedono” e per sviluppare queste parole non basterebbero dei libri. Possiamo dire che la fede nasce in una persona e si sviluppa col tempo a patto di coltivarla e di vivere secondo la Parola, ma la sua base, risolto il problema della ricerca di Dio in quanto trovato, consiste nella certezza – non forzata né forzosa – che sia solo Gesù, il Cristo, a risolvere il problema dell’essere umano riguardo alla propria destinazione finale. Ma poiché vita futura e presente formano un tutt’uno, è certezza di soluzione di qualunque situazione nella quale possiamo venirci a trovare. Non si può scrivere un manuale sulla fede: è consapevolezza, attesa, certezza, preghiera, realizzazione spirituale, è cammino fatta di cadute e di risollevamenti.

Questa, il possesso della fede, fu la caratteristica che permise ai contemporanei di Gesù di venire da lui ascoltati e guariti. Egli infatti non risolse i problemi umani di chiunque, ma solo di quanti si accostavano a lui riconoscendoLo come loro unica fonte di salvezza. Pensiamo al tristissimo commento che fanno gli evangelisti in merito alla visita a Nazareth, quando scrivono che, a parte la guarigione di poche persone malate, non poté fare miracoli “per la loro incredulità”.

Vediamo però la fede operante nel centurione di Capernaum, quando Gesù disse “In verità io vi dico, non ho trovato nessuno in Israele con una fede così grande” (Matteo 8.10), nel paralitico e nei suoi amici che, pur di avere guarigione, giunsero a produrre un’apertura nel tetto della casa e in davvero molti altri casi.

Questa è la fede che potrebbe definirsi “di primo grado”, quella che serve alla persona per avere la cittadinanza celeste, ma poi arriva quella operante, che Gesù chiama in causa nel nostro verso, la stessa che, venendo a mancare, fece sprofondare Pietro nell’acqua: dalla lettura dell’episodio vediamo che fino a quanto in lui rimasero impresse le parole del suo Maestro, “Vieni”, ed accoglierle fu per lui naturale, non successe nulla di spiacevole; quando però vide “che il vento era forte, s’impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: «Signore, salvami!». E subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?»” ( Matteo 14.30,31).

Non oso pensare a quanto Pietro si ritrovò umiliato, anche per il tono di voce e soprattutto lo sguardo di Gesù: aveva iniziato nel migliore dei modi, ma poi la propria umanità non poté fare a meno di emergere. E noi facciamo la stessa cosa, vediamo “che il vento” è “forte”, cioè prendiamo atto che tutti gli elementi che ci circondano creano le premesse per un’impossibilità che si verifichi un fatto del genere. Eppure saremmo in grado di camminare sull’acqua, di spostare le montagne, di dire “a questo gelso – mal tradotto, poiché era un sicomoro – «Sràdicati e vai a piantarti in mare», ed esso vi ubbidirà”.

Ecco la fede cui Nostro Signore faceva riferimento, quella pratica come conseguenza di un mandato ricevuto. Credo che qui Gesù parli agli apostoli, ai portatori del Vangelo e non ai credenti indistintamente, come possiamo prendere atto da Giovanni 14.12: “In verità in verità io vi dico: anche chi crede in me, compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi, perché io vado al Padre”. Il riferimento alle “opere più grandi” non è riferito ai miracoli (che comunque ci furono), ma alla predicazione, alla conversione dei molti che sarebbero venuti il cui numero sicuramente oltrepassa quello di quanti credettero alla predicazione di Nostro Signore mentre era nel corpo.

La frase sullo spostare le montagne e sul sicomoro piantato nel mare è allora non tanto un rimprovero come ve ne furono molti sulla poca fede, ma un invito a valutare noi stessi su quanto realmente la nostra vita terrena influisca negativamente su quella spirituale: le interferenze come quelle che distolsero Pietro dal camminare sull’acqua non sono costituite soltanto dalla presa d’atto che c’è “vento”, ma da tutto ciò che è contaminante provenendo dalla terra e distrae dall’esercizio libero della fede che, altrimenti, non avrebbe ostacoli. Non so spiegarmi diversamente il concetto di “fede” qui utilizzato perché tanto i dodici quanto i discepoli la dimostravano quotidianamente avendo rinunciato a starsene nella quiete delle loro case e al loro tranquillo inserimento nella società del tempo: chi glielo faceva fare, se non l’avessero avuta?

Ecco allora che con gli esempi fatti Gesù intende passare ad un altro livello, quello che porta – vista la distanza con cui pratichiamo non tanto la “fede”, ma quella “fede” – al concetto del “niente è impossibile a chi crede”. La fede non ha e non può avere limiti salvo quelli che noi le imponiamo con la nostra carnalità, e questo lo vedo purtroppo tutti i giorni, naturalmente guardando a me stesso e alla mia immaturità. Ecco perché sgorgò la preghiera “Accresci in noi la fede”! Di fronte alle manifestazioni dello Spirito, i discepoli si trovarono distanti, anche molto. La “poca fede” non solo ci impedisce di trascendere, di non avere limiti, ma anche di fraintendere in modo colossale quel Gesù sempre presente che a volte riteniamo dorma sulla nostra barca col mare in tempesta. Anche lì, quando succede, è perché guardiamo verso il basso ed il fatto stesso che a volte sia così ed altre, nella stessa situazione, avvenga l’esatto contrario è proprio dovuto alla nostra carne che a volte è mortificata ed altre vorrebbe avere il sopravvento.

Ecco perché, nella solitudine apparente del nostro stare davanti a Dio, dobbiamo fare la stessa preghiera che Gli rivolsero i Suoi, “Accresci in noi la fede!”; sapevano che solo lui lo poteva fare e chissà se si ricordarono di quanto aveva detto loro un giorno: “Chi tra di voi al figlio che gli chiede un pane darà una pietra? O se gli chiede un pesce, darà una serpe? Se voi dunque che siete cattivi sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a coloro che gliele domandano!” (Matteo 7.9,10). Amen.

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14.21 – QUATTRO DISCORSI DI GESÙ: I – GLI SCANDALI (LUCA 17.1-3)

14.21 – Quattro discorsi di Gesù: I. Gli scandali (Luca 17.1-3)

 

 

1 Disse ai suoi discepoli: «È inevitabile che vengano scandali, ma guai a colui a causa del quale vengono. 2È meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare, piuttosto che scandalizzare uno di questi piccoli. 3State attenti a voi stessi!

 

Il capitolo 17 di Luca si apre con un gruppo di quattro brevissimi discorsi di Gesù ai suoi discepoli poco prima che si apra ufficialmente quel periodo che Lo porterà a Gerusalemme per l’ultima volta. Lì inizierà la settimana della Passione. Si noti che questo gruppo di dieci versi sembra voler costituire una sorta di intermezzo fra la parabola del ricco e Lazzaro e l’episodio dei dieci lebbrosi. Può essere che effettivamente Luca abbia voluto inserire un ponte narrativo fra un insegnamento pubblico attraverso una parabola e la partenza per così dire “ufficiale” verso Gerusalemme. Leggiamo infatti in 17.11, poco prima dell’incontro coi dieci lebbrosi, “Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samaria e la Galilea”, quindi aveva abbandonato la Transgiordania dove erano avvenuti tutti gli altri episodi che abbiamo esaminato.

Cosa significhi “scandalo” lo abbiamo già sviluppato identificandolo come un ostacolo, qualcosa su cui si inciampa e infatti il greco per questo termine ha “sasso, pietra d’inciampo”; è qualcosa che si trova o si pone su un sentiero perché altri, nel camminare, cadano e si facciano male. Lo scandalo è un ostacolo, un impedimento ad un cammino che ci si augurerebbe sereno a prescindere dai suoi fini. Ad esempio, Siracide 32.15 afferma “Chi scruta la Legge – chiaramente andando oltre alla semplice norma – viene appagato, ma l’ipocrita vi trova motivo di scandalo”, quindi trova difficoltà nel porre in essere le sue trame perché la Legge lo smaschera, deve andare contro corrente rispetto alla sua coscienza, per lo meno all’inizio perché poi la cauterizza, per proseguire.

Altro passo lo troviamo quando viene affrontato il discorso degli abitanti di Nazareth, i quali anziché interrogarsi su Gesù per risolvere il problema di come affrontare l’eternità, “dicevano: «Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». Ed era per loro motivo di scandalo” (Marco 6.3) cioè li ostacolava nella comprensione delle Sue parole, non riuscivano a capire come Lui, “uno di loro”, potesse dire e fare ciò che diceva e faceva. Lo “scandalo”, quindi, è qualcosa che riguarda tutti, anche se differisce profondamente a seconda delle categorie che lo provano, credenti, non credenti e persone che ascoltano Gesù per la prima volta: “Beato è colui che non trova in me motivo di scandalo” (Luca 7.23) rendendolo così in grado di agire sulla sua persona e condurlo alla vita eterna.

Un ostacolo può essere rappresentato da un organo del corpo, sempre collegato alla mente, come la “mano”, l’ “occhio” o il “piede”, come insegnato nel sermone sul monte, ma può essere una persona per ciò che fa o dice consapevolmente: questo accade quando a parlare e ad agire non è lo Spirito Santo, ma quello dell’uomo che inevitabilmente, fatto di terra, non può che guardare a ciò che è basso e squalificante.

 

Ora però consideriamo le parole di Gesù: “È inevitabile che vengano scandali”, prima parte di una frase che di per sé basta comunque a se stessa. “Inevitabile” può essere tradotto con “inammissibile, impossibile” (naturalmente col “non”), tutti termini corretti perché il credente vive in mezzo al mondo.

Pur rifiutando l’idea che non esistano cristiani migliori o peggiori di altri, ma spirituali o carnali sì, è inevitabile che questo generi una condizione per cui paradossalmente gli stessi elementi che si trovano nel mondo, per opera dell’Avversario, si trasferiscano all’interno della Chiesa, cosa confermata da tutto il libro degli Atti e dalle stesse epistole.

L’impossibilità di cui parla Nostro Signore è riferita proprio al fatto che l’amore di Dio, che tanto scalda e sostiene, non è tenuto in considerazione da tutti allo stesso modo e, come la storia del popolo di Israele insegna, basta poco per deviare, lasciarsi trasportare – perché non sufficientemente vigilanti – verso territori diversi. In altri termini, dire che “è inevitabile che avvengano scandali” è come sostenere che è inevitabile che l’uomo pecchi. Certo cadute involontarie, non operate per sfida, non coscientemente, ma perché irretiti da un momento di distrazione che poi può prolungarsi, di scarsa vigilanza in quanto, purtroppo, soggetti a stancarci, magari perché in crisi oppure semplicemente perché sfiancati dal giorno.

Ancora, “è inevitabile che gli scandali avvengano”, è un modo di Gesù per dire che la Chiesa è un territorio santo nella misura in cui i suoi membri vigilano gli uni sugli altri, espressione questa che non allude allo spiare e giudicare, ma a quell’opera di mutuo soccorso, attivo attraverso l’assistenza morale e la preghiera, nel confronto per evitare che si creino divisioni dovuti alla carne, da sempre fautrice di discordie e attriti. Infatti l’apostolo Paolo, nella sua seconda lettera ai Corinto, parlando delle divisioni al suo interno, scrive “È necessario infatti che sorgano fazioni tra voi – ad esempio fra circoncisi e incirconcisi, sul mondo di legare o meno la Legge alla salvezza ed altro ancora come il modo di celebrare il Memoriale – perché in mezzo a voi si manifestino quelli che hanno superato la prova” (11.19).

Molto dolorose infine le parole a Timoteo, seconda lettera, profetiche e dirette al nostro tempo: “Verrà il giorno in cui non si sopporterà più la sana dottrina – ecco il cristianesimo sociale e “benpensante” – ma, pur di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo i propri capricci rifiutando di dare ascolto alla verità per perdersi dietro alle favole” (4.3,4). Sottolineiamo “pur di udire qualcosa” che nascondono una forte, direi violenta necessità di legittimazione che spenga ogni remora: la verità andrà soffocata, serviranno profeti e dottori falsi che pongano l’accento su alcuni passi della Scrittura piuttosto che su altri, che non armonizzino, che anziché cercare una verità secondo Dio si rivolgano a quella secondo l’essere umano, ammettendo tutti in un calderone indistinto in cui sarà impossibile distinguere il vero dal falso.

Gesù non parla dello scandalo inteso come comportamento licenzioso come si credeva un tempo, ma proprio di attentato alla dottrina, quella che scandalizza appunto “questi piccoli che credono in me” come riportato anche da Matteo e da Marco in modo pressoché identico: “Chi invece scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, gli conviene che gli venga appesa al collo una macina da mulino e sia gettato nel profondo del mare. Guai al mondo per gli scandali! È inevitabile che vengano scandali, ma guai all’uomo a causa del quale viene lo scandalo!” (Matteo 18.6,7; Marco 9,42).

E il riferimento alla “macina da mulino” non è a quella enorme che poteva essere mossa soltanto da un asino che girava in tondo collegato ad un meccanismo che la azionava, ma a quella più piccola, che veniva agevolmente comandata a mano. Ecco allora che il “guaio” per chi è fautore di uno scandalo, dottrinale o anche comportamentale, è descritto proprio dalla morte per annegamento che, secondo le parole di Gesù, è preferibile a quella che subirà il fautore del disordine creato.

E a questo punto entriamo in un àmbito molto delicato che è quello del comportamento che deve avere il credente spirituale. Infatti: “D’ora in poi non giudichiamoci più gli uni gli altri; piuttosto fate in modo di non essere causa di inciampo o di scandalo per il fratello. Io so, e ne sono persuaso nel Signore Gesù, che nulla è impuro in se stesso; ma se uno ritiene qualcosa come impuro, per lui è impuro. Ora se per un cibo il tuo fratello resta turbato, tu non ti comporti secondo carità. Non mandare in rovina con il tuo cibo colui per il quale Cristo è morto! Non divenga motivo di rimprovero il bene di cui godete! Il regno di Dio infatti non è cibo o bevanda, ma giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo: chi si fa servitore di Cristo in queste cose è bene accetto a Dio e stimato dagli uomini” (Romani 14.13-15).

Credo che qui si apra un universo. Legando questi versi al contesto primario, essendo la Chiesa di Roma di allora composta da ebrei e gentili va da sé che attorno al cibo sorgessero gravi questioni, che Paolo affronta col principio che abbiamo letto: invece che questionare all’infinito creando risentimenti e intoppi, fate in modo di non essere “causa di inciampo o di scandalo per il fratello” per cui “se per un cibo il tuo fratello resta turbato, tu non ti comporti secondo carità”.

Ora ritengo queste parole molto impegnative perché vanno a stabilire una verità molto particolare: se l’amore è la negazione di sé a vantaggio dell’altro, certo Paolo non accomuna chi prende un certo cibo a un seminatore di scandali, ma a chi non pensa agli altri più deboli sicuramente sì. “Non ti comporti seconda carità”, quindi pensaci, provvedi perché altrove è scritto che “se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita. E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla” (1 Corinti 13.1,2).

Altro elemento degno di nota si trova in Romani 15.1,1: “Noi, che siamo i forti, abbiamo il dovere di portare le infermità dei deboli, senza compiacere noi stessi. Ciascuno di noi cerchi di piacere al prossimo nel bene, per edificarlo. Anche Cristo infatti non cercò di piacere a se stesso”, ma certo nemmeno agli scribi e ai farisei. Ecco allora che va trovato un punto di equilibrio perché, come Gesù entrava in contrasto con chi gli si opponeva spinto dalla propria cecità e dall’Avversario, non è pensabile che il credente finisca per essere succube di quelli che non la pensano come lui e lo vogliono condizionare a usi e comportamenti che hanno molta apparenza e nessuna sostanza. Come sempre, anche qui entra in gioco il discernimento spirituale e la necessità di non urtare la sensibilità dei fratelli e/o sorelle che camminano onestamente verso la verità e non disonestamente nelle loro convinzioni. Qui viene chiamato in causa il dono, il ruolo che una persona ha nell’interno della Comunità nella quale il Signore lo ha posto.

Più selettive in proposito sono le parole in 1 Corinti 8.10-13: “Badate però che questa vostra libertà non divenga occasione di caduta per i più deboli. Se uno infatti vede te, che hai conoscenza, stare a tavola in un tempio di idoli, la coscienza di quest’uomo debole non sarà forse spinta a mangiare le carni sacrificate agli idoli? Ed ecco, per la tua conoscenza, va in rovina il debole, un fratello per il quale Cristo è morto! Peccando così contro i fratelli e ferendo la loro coscienza debole, voi peccate contro Cristo. Per questo, se un cibo scandalizza il mio fratello, non mangerò mai più carne, per non dare scandalo al mio fratello”.

Qui Paolo parla dell’ipotesi in cui una persona, maturato il principio in base al quale non è quello che entra nel corpo a contaminare l’uomo, ma ciò che è al suo interno e di cui la bocca si fa interprete, partecipa ad un pranzo in un tempio pagano: non essendo tale, chiaramente non pecca, ma visto da uno più debole, questo potrebbe fraintendere, male interpretando il suo esempio e quindi potrebbe essere spinto a peccare. Ecco allora che può instaurarsi una reazione a catena che viene sintetizzata con le parole “per la tua conoscenza, va in rovina il debole, un fratello per il quale Cristo è morto!”.

Lo scopo di queste riflessioni attraverso la lettura cronologica del Vangelo, molto spesso, è quello di dare spunti, tracce per sviluppare temi importanti e non concluderli, per cui va sottolineato il modo con cui Gesù conclude il suo intervento in merito agli scandali, “State attenti a voi stessi!”, cioè dovete essere voi i primi giudici di come operate. In altri termini, vestite l’armatura di Dio secondo Efesi 6.

Il riferimento però va a qualcosa di più impegnativo: “Vigilate perché nessuno vi privi della grazia di Dio. Non spunti né cresca in mezzo a voi alcuna radice velenosa, che provochi danni e molti ne siano contagiati” (Ebrei 12.15). Qui i verbi sono al plurale per cui riguardano tutti i componenti (responsabili) della Chiesa che devono parlarsi, discutere avendo come unico faro la Parola di Dio e non le loro misere aspirazioni. Perché proprio la Chiesa è il terreno preferito per le scorrerie dell’Avversario, che semina al suo interno i suoi angeli. Amen.

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14.20 – IL RICCO E LAZZARO III/III (Luca 16.27-31)

14.20 – Il ricco e Lazzaro 3 (Luca 16.27-31)

 

27E quello replicò: «Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, 28perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento». 29Ma Abramo rispose: «Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro». 30E lui replicò: «No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno». 31Abramo rispose: «Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti»».

 

Nello scorso capitolo abbiamo accennato alla psicologia del ricco che, nei versi che abbiamo letto, inizia una sorta di trattativa che potremmo definire “dell’inutilità”, sempre improntata all’egoismo e alla considerazione negativa in cui teneva Lazzaro (abbiamo letto “ti prego di mandare Lazzaro”). Tale modo di agire contrasta terribilmente con un’altra trattativa, quella che Abrahamo aveva instaurato con Dio quando gli comunicò la sua intenzione di distruggere Sodoma in Genesi 18: dalla lettura del capitolo vediamo che tutta l’attenzione di quest’uomo era rivolta alla salvezza dei giusti che avrebbero potuto trovarsi all’interno della regione e al fatto che, nel suo intimo, si ribellava a questo: “Davvero sterminerai il giusto con l’empio?” (v.23). Abrahamo cominciò allora a ipotizzare il fatto che in città avrebbero potuto trovarsi “cinquanta giusti” per poi scendere fino a “dieci”, il numero minimo per poter creare una Sinagoga.

Quando Abrahamo parlò con Dio assunse l’ufficio di intercessore e, in un dialogo in cui la perfezione del Creatore si incontra con l’umanità del proprio servo, abbiamo la domanda “Forse il giudice di tutta la terra non praticherà la giustizia?” (v.25). Da sottolineare che Abrahamo non ricevette un trattamento di ascolto e dialogo dal Signore a caso; infatti leggiamo “Io l’ho scelto perché obblighi i suoi figli e la sua famiglia dopo di lui a osservare la via del Signore e ad agire con giustizia e diritto” (v.19). Anche il cristiano deve meditare e chiedersi per cosa è stato scelto e ad agire di conseguenza incamminandosi per la sua strada.

Abrahamo, nella sua trattativa con Dio, pensava a Lot suo nipote? Certo sapeva che si era stabilito “nelle città della valle” e aveva piantato “le tende vicino a Sodoma”, ma non credo che fu quello l’unico impulso a spingerlo a parlare standogli a cuore la giustizia e ribellavandosi all’idea che un “giusto” a lui sconosciuto perisse “assieme all’empio”, cioè allo stesso modo.

 

Vediamo invece il ricco: ha capito troppo tardi che la sua condotta lo ha portato in una condizione di tormento, ma pensa ai suoi cinque fratelli che, evidentemente ricchi come lui ed altrettanto dediti a soddisfare ogni loro istinto, avrebbero subìto la sua stessa sorte. Ancora una volta va ribadito che non è la ricchezza ad essere un ostacolo a salvarsi, ma la priorità che l’uomo dà ad essa: la rincorre, la desidera e, una volta ottenuta, vuole vivere come un dio, senza rispondere a nessuno delle sue azioni, incurante del domani che considera identico all’oggi all’infinito.

Si badi che l’essere “ricco” non dipende da quanto si possiede, ma dall’attaccamento che si ha per le proprie cose indipendentemente dal loro valore oggettivo. Il gusto del possesso, il non voler condividere con altri ciò che si ha, la difesa ad oltranza dell’avere sono cose che riguardano tanto il plurimilionario che il povero.

L’uomo della parabola sa benissimo che i suoi fratelli, ebbri dell’odierno, non pensano minimamente al fatto che esiste un luogo di tormento in cui finiranno, e chiede che sia proprio Lazzaro, in quanto conosciuto da loro, ad andare e ad ammonirli “severamente”, cioè con tutto il convincimento di cui è capace. Ma Lazzaro era un’anima finalmente in riposo e consolazione, non un profeta.

E a questo punto occorre prestare la massima attenzione alle parole di Abrahamo, “Hanno Mosè e i profeti, ascoltino loro”, che nascondono importanti messaggi. Sempre leggendo la parabola inquadrandola al tempo in cui fu esposta, non va commesso l’errore di ritenere l’osservanza della Legge e dei Profeti come condizione per la salvezza perché altrimenti Gesù sarebbe sceso e morto invano. “Mosè e i Profeti” non erano ascoltati neppure dai farisei che, se lo avessero fatto, sarebbero certo diventati Suoi discepoli perché tanto l’uno che gli altri a Lui conducono, sapendo che “il fine della Legge è Cristo, per la giustificazione di ognuno che crede” (Romani 10.4).

Dove avrebbe potuto portare Mosè i cinque fratelli del ricco? A quella pietà che non esercitavano verso l’affamato, il povero, la vedova, l’orfano e lo straniero (che però per venire accolto doveva farsi circoncidere), ad esempio. E i profeti, posto che lui stesso lo era? Al ravvedimento e all’attesa del Messia promesso che avrebbe richiesto una profonda rivisitazione della propria vita e conversione come predicava Giovanni Battista, il maggiore fra gli uomini “nati di donna”. Del resto, il vero significato del vivere, inteso come scelta, lo spiega proprio Mosè che riporta le parole di Dio al riguardo: “Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male” (Deuteronomio 30.15). Tutto lì.

 

La colpa di questi personaggi fu di coltivare ed utilizzare la ricchezza del mondo ignorando del tutto l’altra (e servendo a “Mammona” non potevano che odiare l’altro padrone): “Il timore del Signore è puro, rimane per sempre; i giudizi del Signore sono fedeli, sono tutti giusti, più preziosi dell’oro, di molto oro fino, più dolci del miele e di un favo stillante”.

L’ascolto di Mosé e dei Profeti è qui raccomandato ed è definito sufficiente per inquadrare correttamente la propria vita, certo tenendo presente l’uditorio cui erano dirette in primis queste parole. Quest’ascolto fu praticato da tanti uomini e donne dell’Antico Patto, e penso a Simeone ed Anna che, sotto certi aspetti, si può dire aprano il Nuovo Testamento.

Tornando al dialogo tra il ricco e Abrahamo, però, vediamo che questo insiste: sa benissimo che lui e i suoi fratelli avevano ricevuto un’istruzione religiosa, ma con basi che avevano ben presto provveduto a rimuovere; se però, secondo lui, avessero fatto un’esperienza diretta, soprannaturale, certamente si sarebbero ravveduti ancor più se rimproverati da Lazzaro, che da loro sarebbe certo stato visto non più coperto di piaghe, ma nella luce.

Questo però è un ragionamento secondo il mondo, fuorviante. E Isaia 8.20 entra nel merito: “Quando vi diranno: «Interrogate i negromanti e gli indovini che bisbigliano e mormorano formule. Forse un popolo non deve consultare i suoi dèi? Per i vivi consultare i morti?», attenetevi all’insegnamento, alla testimonianza. Se non faranno un discorso come questo, non ci sarà aurora per loro”. Invece: “Cercate nel libro del Signore, e leggete: nessuno di essi vi manca, l’uno non deve attendere l’altro, poiché la bocca del Signore lo ha comandato e il suo spirito li raduna” (43.6).

Capiamo? Al miracolo desiderato, alla manifestazione soprannaturale, inspiegabile, spettacolare che l’uomo cerca per credere, è sostituita la lettura del “libro del Signore”, anticipazione di quello della vita, perché lì non manca nulla, compreso il ritrovarsi nella condizione di Lazzaro prima e nei Nuovi Cieli e Nuova Terra poi. Perché “La bocca del Signore lo ha comandato e il suo spirito li raduna”, quindi sono esclusi tutti coloro che condizionano il loro “credere” al “vedere”, al “toccare con mano”. Al contrario, è proprio chi ragiona in questo modo che si perde dietro ricerche o esperienze che portano all’oltre del nulla e del vuoto perché sono proprio le manifestazioni cosiddette “soprannaturali” a perdere le persone.

E in questo possiamo comprendere tutto ciò che esula dalla realtà di Dio ma è ampiamente compreso in quella dell’Avversario, come ad esempio lo spiritismo che, quando non è frutto di artificio, è pericoloso e vietato ai credenti. Ricordiamo infatti le parole di Deuteronomio 18.9: “Quando sarai entrato nella terra che il Signore, tuo Dio, sta per darti, non imparerai a commettere gli abomini di quelle nazioni. Non si trovi in mezzo a te chi fa passare per il fuoco il suo figlio o la figlia, né chi faccia incantesimi, né chi consulti i negromanti o gli indovini, né chi interroghi i morti, perché chiunque fa queste cose è in abominio al Signore”.

Lazzaro non avrebbe mai potuto essere mandato ai fratelli dei ricco perché il volere di Dio è che si creda attraverso la Sua Parola e non per miracoli che portano a distorsioni nella fede come quelli avvenuti da quando l’opera apostolica venne a cessare per la chiamata dei Dodici alla presenza del Signore. I miracoli al di fuori dei Vangeli, infatti, hanno sempre portato o alla superstizione o allo stabilire dottrine a lui non conformi che poi hanno generato posizioni estranee che sono perdurate nel tempo, travisando la fede e trasformandola in atteggiamento e pratica carnale. E vivere senza memoria dei fondamenti equivale a vivere senza una direzione.

Certo, anche qui come in molti altri casi da noi affrontati, non si tratta di un argomento che può essere sviluppato in poche righe, ma se analizziamo le ultime parole di Abrahamo al ricco, notiamo che il credere accettevole a Dio è uno solo, quello basato sulle parole “di Mosè ed i Profeti” e quindi, per noi oggi, sulla totalità della Scrittura, sul messaggio del Vangelo: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti” (v. 31). Ecco il materiale su cui ragionare: abbiamo una visione, quella di Lazzaro che ipoteticamente risorge dai morti, che avrebbe lasciato sbalorditi e in preda al terrore i cinque fratelli che avrebbero avuto la prova di una vita dopo la morte, ma poi? Poi tutta quella violenta emozione sarebbe svanita poco a poco, Lazzaro se ne sarebbe tornato da dov’era venuto e loro avrebbero fatto i conti con il loro cuore immutato e la ricchezza ancora lì disponibile, pronta ad essere usata a loro piacimento. Il ricordo di Lazzaro sarebbe stato coperto da una coltre, da una frase del tipo “Ma sì, lo abbiamo visto, ma ci siamo sbagliati, abbiamo avuto un’allucinazione, lui non era reale come invece lo è questa tavola imbandita, mangiamo e beviamo”.

Ricordiamoci di ciò che riferisce Matteo: “i sepolcri si aprirono e molti corpi di santi, che erano morti, risuscitarono. Uscendo dai sepolcri, dopo la sua resurrezione, entrarono nella città santa e apparvero a molti” (27.52.53): se quanto detto dal ricco fosse stato vero, avremmo avuto una conversione in massa di Israele a seguito di quelle apparizioni, cosa che non fu.

Certo che lì per lì i fratelli del ricco avrebbero creduto alle parole che sarebbero state rivolte loro, sarebbe stato impossibile non ascoltarle, ma poi tutto sarebbe tornato come prima e di qui l’inutilità di mandare Lazzaro ad ammonirli “severamente”. Abrahamo dice “Non sarebbero persuasi”, cioè convinti. Di che cosa? Di “peccato, giustizia e giudizio”, cosa che solo lo Spirito Santo può fare provocando la salvezza del peccatore che infatti si converte, lascia poco a poco le cose che riteneva importanti, primarie per la sua vita e ne abbraccia di altre.

 

Se fosse sufficiente venire coinvolti più o meno direttamente in un miracolo per essere salvati, i dieci lebbrosi guariti sarebbero tornati da Gesù tutti e non uno solo. I miracoli propagandati da certe chiese, il più delle volte grotteschi, spesso risibili e contrari alla Scrittura stessa, generano manifestazioni isteriche o iper superstiziose senza apportare alcuna variazione nel comportamento e soprattutto nella mentalità della gente; di qui vediamo perché Abrahamo abbia parlato in quel modo.

C’è invece una sola conversione vista in Ezechiele 14.6, “Convertitevi, abbandonate i vostri idoli e distogliete la faccia da tutti i vostri abomini”, che mostra due azioni: primo, l’abbandono dei nostri idoli, quindi ciò che in noi ha la priorità nella carne, secondo, prendere atto di tutte le azioni sbagliate nei confronti della Parola che, in quanto tali, impediscono uno sviluppo alla sua luce. Infatti, al verso 30 dello stesso capitolo, abbiamo “Convertitevi e desistete da tutte le vostre iniquità“tutte”, quindi individuarle una per una e provvedere -, e l’iniquità non sarà più causa della vostra rovina”, quindi troverete perdono e redenzione.

Infine, adatto al contesto della parabola, 18.32, “Io non godo della morte di chi muore. Oracolo dei Signore Dio. Convertitevi e vivrete”. Ecco una piccola parte del patrimonio spirituale a disposizione dei cinque fratelli di quel ricco. Era lì, certo scritto nei rotoli della Sinagoga, ma lì letto e spiegato, magari con parole non sempre adatte, ma c’era. Purtroppo, una volta ascoltati, quei contenuti venivano prontamente dimenticati oppure passavano sugli astanti senza fermarsi. Per tutti coloro che, anche oggi, la Parola di Dio fa questo effetto, qualsiasi apparizione soprannaturale o miracolo, è inutile. Amen.

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14.19 – IL RICCO E LAZZARO II/III (Luca 16.23-26)

14.19 – Il ricco e Lazzaro 2 (Luca 16. 23-26)

 

 

23Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. 24Allora gridando disse: «Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma». 25Ma Abramo rispose: «Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. 26Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi». 

 

Siamo giunti alla seconda parte della parabola, quella a mio avviso più difficile per gli interrogativi che porta. Per noi “moderni” infatti, forse più rispetto ai contemporanei di Nostro Signore, l’interpretazione delle parabole risulta ostica non tanto nel suo significato generale, quanto del particolare perché si può sempre incorrere in errori, primo fra i quali pretendere che ciascun elemento o situazione in esse descritte debba necessariamente corrispondere a un simbolo, a una realtà del mondo spirituale, a una categoria, siano in atto o a venire.

E il primo grande scoglio da superare è rappresentato proprio dal verso 23, che vede il ricco stare “negli inferi fra i tormenti” che vede “di lontano Abrahamo e Lazzaro accanto a lui”. Dobbiamo chiederci cosa significa perché da questo verso trasparirebbe che gli “inferi” e i “tormenti” siano la retribuzione immediata del peccato e che questa venga prima del giudizio finale: è possibile?

Al tempo di Gesù si credeva che le anime di chi concludeva la propria esistenza terrena andassero nello Sheol, o Ades, che si divideva in due luoghi distinti, il Paradiso per i giusti e la Geenna per gli empi, ma andare oltre nella comprensione non si poteva se non ipotizzare che questo fosse comunque un luogo intermedio prima della resurrezione.

Ora effettivamente pensare a un “luogo intermedio” nell’attesa della resurrezione del corpo e del premio o della pena non è totalmente sbagliato, solo che più che “luogo” dovrebbe parlarsi di “condizione”, o di “condizione che è anche luogo” e, partendo dai casi positivi, viene in mente il ladro pentito sulla croce al quale Gesù disse che “oggi” sarebbe stato con lui in Paradiso, frase messa in discussione dai cosiddetti “Testimoni di Geova” che qui giocano sulla punteggiatura per sostenere le loro tesi.

Abbiamo altri versi a sostegno del fatto che, dopo la morte del corpo, l’anima raggiunga uno stato preciso; ad esempio in 2 Corinti 5.6-8 leggiamo “Dunque, sempre pieni di fiducia e sapendo che siamo in esilio e lontano dal Signore finché abitiamo nel corpo – camminiamo infatti nella fede e non nella visione –, siamo pieni di fiducia e preferiamo andare in esilio dal corpo e abitare presso il Signore”. Appunto, “finché abitiamo nel corpo”, cioè il fatto stesso di abbandonare l’involucro umano significa, per chi crede in Lui, andare alla Sua presenza. Quindi, dopo la morte, ci sarà chi sarà col Signore e chi invece ne sarà lontano e parlo di “condizione” o di “stato” perché ciò che saremo per sempre avverrà solo con la resurrezione del corpo e la conseguente occupazione nella “casa dalle molte stanze”. O si concluderà con il venire gettati nello stagno di “fuoco e zolfo”.

Ancora ricordiamo Filippesi 1.23: “Sono stretto fra queste due cose: ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; ma per voi è più necessario che io rimanga nel corpo”.

Allo stesso tempo, però, non possiamo pensare che l’ “abitare presso il Signore” ai tempi di Paolo e nostri sia cosa identica rispetto a quando il mondo non esisterà più e al suo posto ci sarà il Regno perfetto di Dio, nei Nuovi cieli e Nuova terra.

Allo stesso modo, chi viene sepolto e dovrà passare per il giudizio entra in una condizione in cui necessariamente è escluso dalla Luce e dall’Amore di Dio per cui si stabilisce in un àmbito di tormento perché quegli elementi, Luce e Amore, vengono a mancare. Dopo aver molto riflettuto, credo che sia questa l’unica possibilità come punto dal quale partire perché poi Gesù non parla di un corpo che soffre nella sua realtà di elemento risorto al tempo della fine, ma di posizioni spirituali limitate alla condizione dello “stato” del ricco e di Lazzaro, che non sono certo di incoscienza.

Se così non fosse, se cioè il riferimento fosse a entrambi i personaggi che si ritrovano per così dire “a cose fatte”, cioè dopo il giudizio finale, il riferimento ai parenti del ricco da spingere alla conversione con fenomeni soprannaturali, non avrebbe senso.

Dalla lettura del verso 23, caratterizzato dalla descrizione della condizione del ricco che, fra i tormenti alza gli occhi e vede Lazzaro nel seno di Abrahamo, constatiamo che la loro condizione è caratterizzata dalla coscienza di quello che si è, si prova e si vede, a conferma che anima e spirito hanno una vita autonoma che però dipende dalle azioni commesse quando si era nel corpo.

 

Prima di tutto leggiamo che il ricco è negli inferi (Sheol) fra i tormenti, quindi nella Geenna dove ha memoria di tutto ciò che era e faceva. E infatti riconosce Lazzaro e continua a considerarlo un oggetto. Quali tormenti? La stessa persona parla di “fiamma”, che potrebbe riferirsi a quella che conosciamo, che in questo caso brucia elementi da lei intaccabili, ma anche qualcosa che divora dall’interno e che non può essere spento, quindi il desiderio impossibile di trovarsi in una realtà diversa.

Mi permetto di ricordare i versi 28 e 29 del capitolo 13 di questo stesso Vangelo: “Là sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abrahamo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti del regno di Dio, voi invece cacciati fuori”. Viene da pensare quindi che questa reazione sia causata proprio dalla vista di un mondo precluso per sempre, quello stesso non considerato, valutato adeguatamente quando c’era ancora la possibilità di scegliere la vita. E il ricco vede “da lontano” Abrahamo e Lazzaro proprio a sottolineare la distanza intesa come irraggiungibilità perché altrimenti, se questo “da lontano” fosse stato reale, non avrebbe potuto riconoscerli.

Poi, questo personaggio innominato ha “sete”: per il caldo della fiamma? Come può, se è privo di corpo non essendo risorto? Non si può pensare diversamente se non che quella “sete” e quella “fiamma” fossero interiori, come dalle parole di Gesù “Chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno” (Giovanni 4.14) e, riguardo a Lazzaro, “Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati”.

Sappiamo che, come insegna il Qoèlet o Ecclesiaste, “C’è un tempo per ogni cosa” e questo riguarda anche quella della scelta, oggi, del riconoscere che l’unica possibilità di trovare riposo, pace e rifugio è nel Signore Gesù Cristo, Colui che è “l’Alfa e l’Oméga, il Principio e la Fine. A colui che ha sete io darò gratuitamente da bere alla fonte dell’acqua della vita”. Questa è cosa possibile solo quando si è in vita sulla terra. Ecco perché la “sete” del ricco non poteva essere saziata.

 

Abbiamo però a disposizione altri dati sulla psicologia del ricco, che tale era e tale è rimasta: nella sua ipocrisia giunge a chiamare Abrahamo “padre”, cioè lo invoca sperando di essere ascoltato in quanto ebreo, di avere una corsia preferenziale. Non solo, ma chiede che gli venga usata “pietà”, quella stessa che lui non aveva mai avuto nei confronti di Lazzaro che, giacente in modo penoso alla porta, visto da tutti, sperava di potersi nutrire con gli avanzi che invece venivano dati ai cani. Per quanta fame e sete Lazzaro potesse avere, per quanto cercasse con lo sguardo un minimo di solidarietà umana, gli veniva negata. Ancora: i cani che gli leccavano le piaghe, erano quelli di casa del ricco, oppure randagi?

Ancora una volta le parole di costui ad Abrahamo rivelano soltanto egoismo e che il concetto che aveva di sé come persona potente, da rispettare e/o temere, non era cambiato perché dice “Manda Lazzaro”, cioè considera quell’ex povero comunque un suo sottoposto, un servo, un inutile che deve ubbidire ad Abrahamo perché lui lo chiede. C’è chi ha visto la goccia d’acqua che avrebbe potuto cadere dal dito di Lazzaro corrispondere al pezzo di pane che cadeva dalla tavola del ricco in quel mondo “capovolto”.

Vengono in mente le parole del discorso sul monte “Guai a voi, ricchi, perché già avete ricevuto la vostra consolazione. Guai a voi, che ora siete sazi, perché avrete fame. Guai a voi, che ora ridete, perché sarete nel dolore e piangerete” (Matteo 6.24,25). Un “ora” che non contempla un futuro, ma solo l’illusione che possa continuare per sempre, cosa che non può essere. E va sottolineato che quel “che ora siete sazi” è riferito al ritenere la ricchezza l’unica possibilità di espressione, conquista, realizzazione della persona.

E a questo punto possiamo leggere le parole di Abrahamo che, chiamato “padre” dal ricco, si rivolge a lui chiamandolo “figlio”, che contiene un’accusa perché in quanto “figlio di Abrahamo”, come rivendicavano i Giudei, non si era comportato e infatti lo invita ad andare con la memoria alla sua esistenza finita: “ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato e tu invece sei in mezzo ai tormenti”.

In Proverbi 10.15 leggiamo che “I beni del ricco sono la sua roccaforte”, cioè tutto ciò su cui basa la sua esistenza, il suo essere, la sua speranza, ma ciò che ha “verrà lasciato ad altri e morirà” (Siracide 11.19), “accumula per altri, con i suoi beni faranno festa gli estranei” (14.4).

Le parole di Abrahamo, quindi, non sono rivolte a un ricco che, come Giobbe, aveva ben presente la sofferenza umana di chi era povero e si adoperava per alleviarla, ma a una persona che aveva fatto di sé stesso un arbitro che volgeva ogni cosa a suo esclusivo favore.

C’è qualcosa che accomuna però i “beni” ricevuti dal ricco e i “mali” di Lazzaro e cioè che sono entrambi, per quanto così all’opposto, delle prove che Dio manda per vedere come reagirà la persona: così come il ricco avrebbe potuto gestire i suoi averi per aiutare il prossimo e nulla gli impediva di goderne comunque, allo stesso modo Lazzaro avrebbe potuto incattivirsi come molti nella sua situazione e agire per rubare o, qualora impossibilitato perché – ad esempio – invalido, organizzare furti o rapine informando altri del livello di difesa dell’abitazione presso la cui porta stava. La morale di questo mondo, infatti, si sintetizza nel detto “Mors tua, vita mea” e chi non si adegua, spesso, ne paga le conseguenze, come vediamo soprattutto in campo politico e commerciale dove a soccombere non sono solo le persone che non si adeguano al principio, ma anche gli Stati.

Ebbene, Lazzaro sceglie di guardare oltre al suo contingente, aspetta di essere consolato. Come Davide comunque poteva dire “Non abbandonerai la mia vita negli inferi, né lascerai che il tuo fedele veda la fossa. Mi indicherai il sentiero della vita, gioia piena alla tua presenza, dolcezza senza fine alla tua destra” (Salmo 16.10,11 riferito a Gesù, ma comunque a tutti coloro che nei vari tempi hanno creduto).

Ancora, il 17.14,15, parlando dei “mortali del mondo, la cui sorte è in questa vita”, dice: “Sazia pure dei beni il loro ventre, se ne sazino pure anche i figli e ne avanzi per i loro bambini. Ma io nella giustizia contemplerò il tuo volto, al risveglio mi sazierò della tua immagine”.

Infine Abrahamo conclude spiegando che i due territori, quello della beatitudine e quello dei tormenti, sono organizzati, cioè è stato posto fra loro “un grande abisso”, uno spazio non oltrepassabile colmandolo con terra o detriti né gettando un ponte “talché coloro che vogliono passare da voi non possono, né di lì possono giungere fino a noi”. Il “talché” manca nel nostro testo ed è stato sostituito dai traduttori coi due punti, ma è ben presente nel greco con la parola “òpos” che può essere tradotta con “di modo che”, ma anche “affinché” che rimarca maggiormente il fatto che questo confine è stato stabilito da Dio.

Ebbene questo “grande abisso” non è superabile in alcun modo a prescindere dalle intenzioni espresse nel voler passare da un ambiente all’altro da leggersi come “anche se volessero, non potrebbero”.

“Di qui” e “di lì” sono i limiti stabiliti da Dio. Lazzaro va nel territorio della consolazione, il ricco in quello dei tormenti; purtroppo per i religiosi, non c’è Purgatorio per nessuno, entrambi sono stati ricevuti in un luogo o nell’altro per i pensieri e le conseguenti azioni fatte quando erano in vita e credo che sia a questo punto, che cercheremo di sviluppare con la terza parte, Gesù introduce l’impossibilità di credere e convertirsi affidandosi a manifestazioni miracolose che non possono venire da Dio. Amen.

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14.18 – IL RICCO E LAZZARO I/III (Luca 16.19-31)

14.18 – Il ricco e Lazzaro 1 (Luca 16.19 – 31)

 

19C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. 20Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, 21bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe. 22Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. 

 

Abbiamo letto una delle parabole più celebri dei Vangeli, ma che per questo nasconde aspetti interessanti che vanno al di là delle semplici implicazioni letterali.

I versi da 19 a 21 descrivono i personaggi: il primo, di cui non è detto il nome, è un “uomo ricco” di cui non sappiamo nulla quanto al passato, che vestiva “di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti”. La prima caratteristica di questo personaggio è il vestire, “di porpora”, tintura che si dava su vestiti pregiati e che si ricavava da una conchiglia che anticamente abbondava nei dintorni di Tiro, molto costosa perché ciascuna di esse non dava che pochi ml di liquido per colorare gli abiti. Vestirsi di porpora era cosa che ben poche persone potevano permettersi, come i re o i loro alti dignitari. Chiariscono in proposito le parole del re di Babilonia agli indovini, Caldei e astrologi in Daniele 5.7: “Chiunque leggerà quella scrittura e me ne darà la spiegazione, sarà vestito di porpora, porterà una collana d’oro al collo e sarà terzo nel governo del regno”; ciò avvenne nel famoso episodio in cui, al gran banchetto di Baldassàr, “apparvero le dita di una mano d’uomo che si misero a scrivere sull’intonaco della parete del palazzo reale, di fronte al candelabro, e il re vide il palmo di quella mano che scriveva. Allora il re cambiò colore: spaventosi pensieri lo assalirono, le giunture dei suoi fianchi si allentarono, i suoi ginocchi battevano l’uno contro l’altro” (vv.5,6).

L’abito di porpora formava il vestito esterno dell’uomo ricco, ma l’interno era costituito da una tunica di lino finissimo, noto per la sua bianchezza e la morbidezza, molto apprezzato dai sacerdoti egiziani per queste caratteristiche secondo Plinio il Vecchio che ne parla nella sua “Storia Naturale”.

La frase “ogni giorno si dava a lauti banchetti” è ancora una volta un’interpretazione del letterale “facendo festa ogni giorno splendidamente”, quindi, poiché ben difficilmente una persona può far festa da solo, dava dei ricevimenti che si protraevano per molto tempo e Giovanni Diodati in proposito traduce con “ogni giorno godeva splendidamente” lasciando al lettore di immaginare come. Raccogliendo le diverse traduzioni, quindi, possiamo concludere che la vita di quell’uomo trascorreva senza farsi mancare nulla per i propri piaceri. Quella persona, come tanti oggi anche se non necessariamente hanno le sue ricchezze, viveva ponendo la sua persona al centro del mondo che lo circondava, incurante del suo prossimo visto nel povero Lazzaro, variante di Eleazaro che significa “Dio ha aiutato”, oppure “Aiutato da Dio”. Siamo qui nell’unico caso in cui Gesù dà un nome proprio a un personaggio delle Sue parabole.

Il nostro testo riporta che “stava alla sua porta” (della casa del ricco), ma si tratta di una traduzione troppo blanda: altri traducono “giaceva” dal geco “ebébleto”, letteralmente “era stato gettato”, quindi Lazzaro stava là, come un rifiuto, a margine, e mi sono chiesto come mai quel ricco non avesse dato ordine che fosse portato stonando la sua presenza, le cui piaghe venivano leccate dai cani, con tutta la sontuosità del luogo.

Può essere che l’ego del proprietario fosse giunto a tal punto da compiacersi del fatto che ci fosse qualcuno che desiderasse sfamarsi con gli avanzi che cadevano dalla sua tavola senza poterlo fare.

Infatti il testo non ci dice che Lazzaro si sfamasse, anzi, era “bramoso” di farlo, “ma – avversativo – erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe”, quindi animali impuri che, al contrario di lui, si saziavano davvero con gli avanzi. Il testo non ci dice come venisse trattato quel povero, cioè se qualche servo mosso a compassione gli desse qualcosa da mangiare, ma credo che l’accento sia da porre sul fatto che, là dove la dignità di un uomo veniva costantemente calpestata e oltraggiata senza il minimo senso della carità, ve ne era un altro che soddisfaceva se stesso con tutti i mezzi possibili, senza freni, spendendo il suo denaro.

Si può dire che, sotto il punto di vista dell’esistenza umana, entrambi non avessero un futuro perché Lazzaro non avrebbe mai trovato nessuno disposto a prendersi cura di lui, cioè fasciare le sue piaghe e dargli un lavoro per mantenersi, e il ricco sarebbe stato condannato a continuare con le sue feste e quant’altro per non annoiarsi, condizione che secondo me già provava perché anche le cose più belle e appetibili, quando sono durature, finiscono col generare assuefazione e al tempo stesso quasi infastidire. Si rimane prigionieri del proprio status, protagonisti dell’apparire e cercare una ragione in tutto quel vuoto può condurre a gravi fenomeni nevrotici.

Il povero sogna di avere qualcosa per sfamarsi, il ricco di avere nuovi riempitivi per non essere condannato a ripetere le stesse azioni, né poteva trovare un vero appagamento frequentando i propri simili perché affetti dal suo stesso problema. Di ricchi ne ho conosciuti davvero tanti e posso dire di averli visti soddisfatti solo perché potevano mostrare agli altri cose che questi non avrebbero mai potuto fare. Li ho visti costretti a inventare passatempi, modi di essere, cercare nelle “feste” (come il personaggio della parabola) un senso ad una vita che ne era di per sé priva.

 

Poi arriva la morte per entrambi, come per tutti, quindi più o meno poveri, più o meno ricchi, che pone fine all’esistenza terrena. La morte accomuna, appiattisce, livella, annulla le distanze sociali, economiche, è la negazione dell’esistere, dell’essere in termini umani e infatti la persona cessa di essere tale e si tramuta in cadavere, in salma, qualcosa di cui ci si deve sbarazzare entro un certo limite di tempo. Da persone che erano tanto l’uno, Lazzaro, quanto il ricco innominato, diventano entrambi un peso, qualcosa da chiudere in un sepolcro (fossa comune per l’uno, sepolcro per l’altro) che sarebbe diventato un luogo impuro, contaminante a prescindere dalle sue fattezze.

In realtà però sappiamo che la morte è soltanto una porta attraversata che ci si lascia alle spalle un corpo spento, mentre l’anima e lo spirito restano integre e subiscono un destino che non dipende da Dio, ma è il risultato del vissuto di chi per quella porta obbligatoriamente transita.

E a questo punto nella lettura della parabola occorre prestare attenzione perché parrebbe che Lazzaro abbia un premio solo perché povero mendicante nella vita anteriore e il ricco il tormento solo perché tale un tempo. Gesù, invece, si serve dell’espressione “fu portato dagli angeli accanto ad Abrahamo” (più corretto “nel seno di Abrahamo”) come sinonimo di Paradiso a sottolineare l’importanza del suo atteggiamento interiore confermato dall’operato degli angeli, chiave di lettura della persona di Lazzaro.

In Salmo 34.8 leggiamo “L’angelo del Signore si accampa a coloro che lo temono, e li libera”.  In 91.11,12, che andrebbe comunque letto integralmente, “Egli per te darà ordine ai suoi angeli di custodirti in tutte le tue vie. Sulle mani essi ti porteranno, perché il tuo piede non inciampi nella pietra”.

Infine aggiungiamo 103.20, “Benedite il Signore, angeli suoi, potenti esecutori dei suoi comandi, attenti alla voce della sua parola”, che ci lasciano concludere che Lazzaro non imputava a Dio la sua condizione, ma viveva attendendo una Sua risposta, certo soffrendo ma, come direbbe Paolo di Tarso, “non come quelli che non hanno speranza”. Ho visto e sentito persone morire gridando e bestemmiando, ne ho viste altre andarsene in silenzio, altre ancora in grande quiete, direi pregustando la liberazione da un corpo di carne a vantaggio di una vita in Cristo.

Lazzaro quindi venne – traduzione più idonea della nostra – “portato dagli angeli nel seno d’Abrahamo” non perché questa è la fine che fanno tutti i poveri, ma per conseguenza di ciò in cui credeva.

Si noti a questo punto cosa si dice dell’altro personaggio, “Morì anche il ricco e fu sepolto”. Fine. La morte di Lazzaro è un fatto naturale come quella del ricco, ma a differenza sua prevede un “oltre” che l’altro non ha: la vita del ricco si ferma al presente, è un fermo fotogramma, si chiude con la sepoltura perché il luogo dove va questa persona è un tumulo, per quanto l’anima e lo spirito continuino a vivere un tormento che sembra essere senza fine.

Il ricco “fu sepolto”, fine per lui; sarebbe vissuto per un altro poco nella memoria dei suoi compagni di feste, per poi venire da loro dimenticato non appena qualcun altro ne avrebbe organizzate di nuove.

Per chi, come l’ignoto personaggio di questa parabola, vive allo stesso modo, valgono queste parole: “Essi confidano nella loro forza, si vantano della loro grande ricchezza. Certo, l’uomo non può riscattare se stesso né pagare a Dio il proprio prezzo. Troppo caro sarebbe il riscatto di una vita: non sarà mai sufficiente per vivere senza fine e non vedere la fossa. Vedrai infatti morire i sapienti – secondo questo mondo -: periranno insieme lo stolto e l’insensato e lasceranno ad altri le loro ricchezze. Il sepolcro sarà la loro eterna dimora, loro tenda di generazione in generazione: eppure a terre hanno dato il proprio nome. Ma nella prosperità l’uomo non dura; è simile alle bestie che muoiono. Questa è la vita di chi confida in se stesso, la fine di chi si compiace nei propri discorsi. Come pecore sono destinati agli inferi, sarà loro pastore la morte; scenderanno a precipizio nel sepolcro, svanirà di loro ogni traccia, gli inferi saranno la loro dimora” (Salmo 49.7. 15).

Per essere “portato dagli angeli nel seno d’Abrahamo” credo che Lazzaro avesse fatto proprie le parole finali del Salmo appena citato: “Certo – Amen –, Dio riscatterà la mia vita, mi strapperà dalla mano degli inferi. Non temere se un uomo arricchisce, se aumenta la gloria della sua casa. Quando muore, infatti, con sé non porta nulla né scende con lui la sua gloria – umana –. Anche se da vivo benediceva se stesso: «Si congratuleranno perché ti è andata bene», andrà con la generazione dei suoi padri, che non vedranno mai più la luce. Nella prosperità l’uomo non comprende, è simile alle bestie che muoiono” (vv. 16-21).

A questo punto, per concludere questa prima parte, se abbiamo visto i meriti di Lazzaro, dobbiamo chiederci quali furono le colpe del ricco. Credo che sia stata una sola, e cioè non avere mai pensato a Dio e conseguentemente agli altri, nella fattispecie Lazzaro: “Ad ogni uomo, al quale Iddio concede ricchezze e beni, egli dà facoltà di mangiarne, prendere la sua parte e godere della sua fatica: anche questo è un dono di Dio. Egli infatti non penserà troppo ai giorni della sua vita, poiché Dio lo occupa con la gioia del suo cuore” (Ecclesiaste 5.13-16).

Per quanto l’ultima parte sia chiaramente appartenente a un tempo diverso dal nostro, va da sé che se la ricchezza è un dono di Dio, è al tempo stesso una prova molto severa e importante perché è da lì che si vede la persona carnale, destinata a finire col suo battito, o spirituale: ci sarà chi capirà il dono e darà e chi invece vorrà tenere tutto per sé, soddisfacendosi fino a morirne. Amen.

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14.17 – FEDELI NEL POCO E NEL MOLTO (Luca 16.10-14)

14.17 – Fedeli nel poco e nel molto (Luca 16.10-14)

 

 

10«Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. 11Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? 12E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra?
13Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza».
14I farisei, che erano attaccati al denaro, ascoltavano tutte queste cose e si facevano beffe di lui. 15Egli disse loro: «Voi siete quelli che si ritengono giusti davanti agli uomini, ma Dio conosce i vostri cuori: ciò che fra gli uomini viene esaltato, davanti a Dio è cosa abominevole».

 

Sono parole che troviamo a conclusione della parabola dell’amministratore infedele, quando Gesù sposta l’attenzione del suo uditorio tirando le somme di quanto detto mettendo in evidenza l’esistenza di un rapporto fra ciò che facciamo nella vita quotidiana e quanto siamo spiritualmente.

Vediamo che nei versi da 10 a 12 vengono presentati due tipi di persone che vengono entrambe messe di fronte ad un “poco” che viene loro affidato. “Poco” è un aggettivo che a volte è sgradevole perché descrive sempre una quantità ridotta o un numero limitato di qualcosa che ci interessa e sappiamo che la carne aspira sempre al suo esatto contrario, cioè il “molto”, o le “cose importanti” per il cui conseguimento si effondono spesso molte energie.

Ora siccome il “poco” è qualcosa che in genere si sottovaluta, non si ritiene importante e quindi si tratta con sufficienza, è in realtà un significativo metro valutativo della persona che lo usa: è infatti da come si affrontano “cose di poco conto”, o genericamente il “poco” come nell’originale,  che riveliamo ciò che siamo veramente.

“Fedele” significa comportarsi conformemente alla fiducia che ci è stata accordata, dimostrarsi costanti sul piano dei sentimenti e degli affetti o su quello dei comportamenti pratici o dei pensieri, “disonesto”, anche se più propriamente andrebbe tradotto “infedele”, comporta l’essere privi della rettitudine necessaria in tutti i rapporti sociali che sono fondati sulla reciproca fiducia e, come nella nostra parabola, può riferirsi al modo di amministrare e gestire una cosa o un rapporto fra persone; credo, particolarmente adatto per i tempi in cui viviamo, il riferimento possa adattarsi alla Politica indipendentemente dal colore e dalla nazionalità.

Persone superficiali potrebbero guardare con sufficienza la fedeltà (o la disonestà) nel poco, dimenticando che si tratta di azioni solo in scala, che vanno al di là delle aspirazioni personali e che ciò che importa è il principio di base che guida la persona nelle sue scelte e nei suoi criteri d’azione.

Ricordiamo che quanto detto qui da Gesù è spiegato nella parabola dei talenti, quando leggiamo le parole a commento dell’operato dei servi che li avevano fatti fruttare: “Bene, servo buono e fedele; sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto” (Matteo 25.21). Notiamo che la frase è la stessa indipendentemente dal risultato raggiunto, poiché il servo che aveva ricevuto cinque unità ne produce altrettante e lo stesso fa quello che ne aveva avute due. Certo, c’è anche ci rimane fermo come quel tale che, invece che far fruttare la moneta, la sotterrò, dimostrando di non aver tenuto in alcun conto i voleri del suo padrone.

Costui verrà definito “malvagio e pigro” perché disubbidiente in modo passivo di fronte alle istruzioni ricevute. La “fedeltà” quindi, come ha rilevato un fratello, “non dipende dall’ammontare dato a uno, ma dal sentimento di responsabilità che ha nel cuore”.

Tornando al nostro testo, i versi 11 e 12 vanno più in profondità: “Se non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra?”, parole che mi hanno impegnato molto perché presentano due tipi di averi, quelli “disonesti”, quindi del mondo, e quelli di altri, cioè non nostri, quindi di Dio, comportamenti che richiedono entrambi attenzione e hanno relazione l’uno con l’altro.

Essere “fedeli nella ricchezza disonesta” trova il suo primo riferimento nel protagonista della parabola che abbiamo recentemente esaminato il quale, avendo derubato il proprio datore di lavoro, è figura di quelli che hanno amato “Mammona”, cioè la ricchezza terrena, il “dio denaro”, incompatibile con quello Unico e Vero. E infatti il nostro testo dice “Non potete servire a Dio e alla ricchezza”, “Mammona” nel testo originale. L’amministratore infedele, amando prima di tutto se stesso e quindi la propria carne, con lo sguardo sempre attento ad accrescere le sue sostanze consapevolmente a danno di altri, si precludeva la possibilità di partecipare ad una ricchezza ben diversa, quella spirituale, che mai avrebbe posseduto.

E a questo punto si aprirebbe un capitolo sterminato, perché il paragone fra “ricchezza disonesta” e “ricchezza vera” può benissimo oltrepassare l’esempio appena fatto: la salvezza è già qualcosa di enorme, ma è la base su cui costruire e si pone in relazione a come agiamo su questa terra per cui la “ricchezza vera” sono i doni dello spirito, che sono successivi ad essa e i talenti lo confermano, ricordiamo le parole “Fateli fruttare fino al mio ritorno” (Luca 19.13). E sappiamo che Gesù tornerà.

Ecco allora che la “fedeltà nel poco” e nelle “ricchezze disoneste” si riferiscono a quella gestione elementare tanto della Parola di Dio che ci è affidata, quanto di ciò che abbiamo materialmente volta non ad un arricchimento, ma a un equilibrio complessivo che porta a qualificare la persona come coerente. In altri termini i servi della parabola, per far fruttare i talenti, hanno dovuto seguire un percorso in salita partendo dalle cinque o due monete avute fino al ritorno del padrone, un periodo di tempo non quantificabile anche se tutto lascia supporre che sia stato lungo. Hanno dovuto operare con attenzione, conoscendo giorni di inerzia e giorni di fatica, ma constatando sempre un progresso o rimediando al più presto in caso di stasi.

Così il cristiano che rimane fermo alla salvezza, ragiona su di essa, magari legge la Parola di Dio per avere consolazione ma senza confrontarsi con Lei, non cerca di accrescere la propria conoscenza e comprensione perché si accontenta di ciò che è e ciò che sa, difficilmente otterrà un riconoscimento: “Se non siete fedeli nella ricchezza altrui – quella di Dio come già detto –, chi vi affiderà la vostra – cioè quella che vi aspetta nel Suo regno – ?”. Esiste infatti la ricompensa, meritata, del servo che fa fruttare il talento.

Ecco cosa significa l’essere “fedeli nel poco”, concetto che può anche essere allargato all’uso personale che si fa di quanto di sacro abbiamo davanti, cioè il Vangelo e la Bibbia in genere: sono infatti molti coloro che vorrebbero imitare le gesta dei personaggi importanti dell’Antico o del Nuovo Patto dimenticando che quelle persone sono giunte a conseguire quanto ricevuto prima di tutto per elezione, fatta da Dio e non negoziabile, poi per tutta una serie di contrassegni caratteriali che li hanno portati ad essere ciò che effettivamente furono. Soprattutto, poi, operarono in epoche profondamente diverse dalla nostra.

C’è un’esortazione – che personalmente definisco un ordine – data dall’apostolo Paolo ai credenti di Roma: “Abbiate fra voi un medesimo sentimento; non abbiate l’animo alle cose alte, ma accomodatevi alle basse; non siate savi secondo voi stessi” (21.16). Qui vengono proposti tre livelli, il primo il sentire comune – che comporta rigettare la presunzione, l’ego, il “tu dici, ma io ti dico”, il “fatti più in là perché io sono più santo di te”, ma richiedono comprensione spontanea e reciproca – il secondo è l’accomodarsi “alle basse” perché prima di scalare un monte (terzo livello), ci vuole tutta una preparazione che si acquisisce con gli anni. Chi non fa così appartiene alla categoria di chi è “savio secondo se stesso”.

L’essere “fedeli nella ricchezza altrui” comporta la gestione del talento o dei talenti, anche questa cosa non facile perché, per non avere problemi, andrebbero sotterrati ma sappiamo che il menefreghismo, tanto verso di noi che verso gli altri, non è ammissibile. Ecco, qui per rendere fattive le parole di Gesù in merito dobbiamo esaminare noi stessi e guardarci serenamente, profondamente indietro per vedere se la nostra persona ha fatto progressi nel tempo o se è rimasta quella di prima, cosa abbiamo sviluppato al di là della nostra esperienza, se abbiamo imparato o meno dai nostri errori, se siamo stati perseveranti. Ma il punto nodale non è nemmeno questo: si tratta di crescita e sviluppo, di conoscenza e pratica, di tenersi stretto ciò che si è riusciti a guadagnare prestando la massima attenzione a non perderlo perché, se è vero che farsi un tesoro nel cielo significa avere ricchezze eterne, basta poco per cadere e magari rovinare anni di lavoro.

Scrivendo a Timoteo nella sua seconda lettera, così parla a Timoteo: “Le cose che hai udite da me in presenza di molti testimoni, trasmettile a uomini fedeli, che siano capaci di insegnarle anche ad altri” (2.2). Uomini fedeli, che portano e aspirano alle dinamiche dello Spirito, che rifuggono il sentimentalismo religioso, la retorica, esprimersi con lunghi giri di parole che non arrivano da nessuna parte come fanno gli uomini inconcludenti. Il fedele è colui che va oltre e che pone Dio nelle condizioni di agire attraverso di lui.

Tutto questo discorso è specifico per i credenti e per quelle persone che guardano alle proprie sostanze materiali inquadrandole nel loro giusto àmbito e infatti leggiamo al verso 14 che “I farisei, che erano attaccati al denaro, ascoltavano tutte queste cose e si facevano beffe di lui”: pensiamo a cosa ha prodotto in loro quel verbo bellissimo che è “ascoltare”. Refrattari a qualunque richiamo, loro che vedevano simboli ovunque ed erano sempre pronti a studiare a interpretare, di fronte a tutte le verità di Dio dichiarate, lo deridevano.

E riguardo comunque alla nostra attività, al nostro essere davanti a Lui, credo che possa salvarci dal cadere doloroso solo una linea di continuità di studio, assimilazione e ricerca per quella che è la sola condizione idonea ad orientare la persona nel suo naturale percorso di vita, e cioè la dottrina per evitare quei “peccati di inavvertenza” che finiscono per minare il nostro rapporto col Signore senza che ce ne accorgiamo e possono finire per trasformarci in alberi sterili. Magari belli, con tante foglie, ma nessun frutto. Amen.

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14.16 – LA PARABOLA DELL’AMMINISTRATORE INFEDELE (Luca 16.1-9)

14.16 – La parabola dell’amministratore infedele (Luca 16.1-9)

 

 

1 Diceva anche ai discepoli: «Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. 2Lo chiamò e gli disse: «Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare». 3L’amministratore disse tra sé: «Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. 4So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua». 5Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: «Tu quanto devi al mio padrone?». 6Quello rispose: «Cento barili d’olio». Gli disse: «Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta». 7Poi disse a un altro: «Tu quanto devi?». Rispose: «Cento misure di grano». Gli disse: «Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta». 8Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce.  9Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne.

 

Questa parabola, di difficile comprensione anche perché molte versioni in lingua italiana interpretano più che tradurre, fu pronunciata da Gesù in un contesto diverso da quello della pecora, della dramma e del figlio perduti. La precisazione del verso 1, “diceva anche ai discepoli”, la pone in un contesto più riservato e infatti è riferita alla gestione delle nostre sostanze, definite “ricchezza disonesta” secondo la parabola del ricco stolto che termina con la frase “Così avviene a chi accumula tesori per se stesso, e non è ricco in Dio” (Luca 12.21). La “ricchezza disonesta” è quindi quella che possiamo avere non necessariamente perché abbiamo frodato il prossimo, ma anche grazie ai nostri risparmi, perché la professione ci ha portato a guadagnare cifre importanti o perché abbiamo avuto in eredità dei beni, cose che comunque non potremo portare con noi nel mondo a venire.

Questa ricchezza, quindi, è definita “disonesta” paragonandola a quelli vera, che Gesù esorta a cercare nel sermone sul monte quando dice “Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano; accumulatevi invece tesori nel cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove ladri non scassinano e non rubano. Perché là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore” (Matteo 6.19-21).

Fatta questa importante premessa, possiamo iniziare l’analisi della parabola che presenta “Un uomo ricco (che) aveva un amministratore” evidentemente disonesto perché viene accusato – senza possibilità di accampare scuse perché il padrone aveva in mano prove certe della sua infedeltà – di frodarlo e per questo di rendere conto della sua amministrazione prima del licenziamento.

Ora qui, come in tutto il resto della parabola, abbiamo un continuo rimando fra la vicenda di questo personaggio, che Gesù prende in prestito dal mondo reale in cui i ricchi cercavano servi onesti o comunque che non rubassero oltre misura, e i due assoluti visti nell’ “uomo ricco” e dell’imperativo “rendi conto della tua amministrazione”. Il primo è facilmente riferibile a Dio Padre che in Salmo 24.1 è definito il proprietario della “terra e quanto contiene: il mondo con i suoi abitanti” e il secondo a qualcosa che spesso imbarazza certi cristiani a tal punto da portarli a rimuovere dentro di sé il fatto che verrà un giorno, come nel caso del personaggio del nostro racconto, in cui saremo chiamati a rispondere di tutto ciò che avremo fatto, “in bene e in male”, dove per “male” intendiamo quei peccati che non avremo confessato e lasciato. Quello del rendiconto è un tema che Nostro Signore espose anche nella parabola dei talenti (Matteo 18.23,24; 25.14), ma che troviamo definito in altri passi in modo molto più “diretto”. Non possiamo infatti ingannare noi stessi crogiolandoci sul fatto che siamo salvati tralasciando tutti gli altri elementi che dobbiamo possedere per definirci come degli appartenenti a Cristo.

Ricordiamo Matteo 12.36,37: “Ma io vi dico: di ogni parola vana che gli uomini diranno, dovranno rendere conto nel giorno del giudizio; infatti in base alle tue parole sarai giustificato e in base alle tue parole sarai condannato” perché “Io vivo, dice il Signore: ogni ginocchio si piegherà davanti a me e ogni lingua renderà gloria a Dio. Quindi ciascuno di noi renderà conto di se stesso a Dio” (Romani 14.11,12).

Diretta al credente, in base alle responsabilità che gli sono state affidate, è poi 1 Corinti 4.1,2 “Ognuno ci consideri come servi di Cristo e amministratori dei misteri di Dio. Ora, ciò che si chiede agli amministratori, è che ognuno risulti fedele” perché “Tutti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, per ricevere la ricompensa ciascuno delle opere compiute quando era nel corpo, sia in bene che in male” (2 Corinti 5.10). Se quindi chi ha creduto “non viene in giudizio, ma è passato dalla morte alla vita” (Giovanni 5.24) dovrà comunque avere un incontro in cui non potrà esimersi dal rispondere del proprio operato.

 

A questo punto Gesù inizia a descrivere il metodo dell’amministratore infedele che non ha nulla a che vedere con il credente, ma si riferisce alla cronaca frequente di quel tempo e non solo: si ruba da sempre come da sempre si cerca di fare di tutto per tamponare i danni che arrivano nel momento in cui si è scoperti. Ciò che premeva a Nostro Signore era descrivere il carattere di questa persona e la sua scaltrezza che, per la tecnica usata, arriva a suscitare nel padrone un riconoscimento non in senso positivo, ma una specie di compiacimento, la stessa che possiamo provare noi quando viene fatta una rapina con ingegno (ad esempio le famose “bande del buco”) alle cui spalle magari c’è uno studio di anni e l’impiego di tecniche specializzate. Certo il reato rimane e non evita la condanna in caso di cattura dei colpevoli, ma resta altrettanto la meraviglia e quel senso di vaga ammirazione per l’intelligenza con cui il fatto è stato commesso. Quando Gesù parla del fatto che “il padrone lodò quell’amministratore disonesto perché aveva agito con scaltrezza” si riferisce appunto in questo senso e non col fatto che lo avesse tenuto al suo servizio trovandolo meritevole di qualcosa.

L’amministratore disonesto aveva un carattere particolare: fuggiva il lavoro manuale che non aveva mai svolto (“zappare non ne ho la forza”) e la sua disonestà derivava proprio dal fatto che lo aveva sempre evitato: “Chi è già indolente nel suo lavoro è fratello del dissipatore” (Proverbi 18.9) e “Il desiderio del pigro lo porta alla morte perché le sue mani si rifiutano di lavorare” (21.25). Il vergognarsi a mendicare, poi, sentimento comprensibile perché per farlo si è costretti a rinunciare alla propria dignità, sarebbe stato per lui una sconfitta di fronte al suo prossimo che lo avrebbe deriso per la sua caduta, da persona di alto rango (era propriamente una sorta di amministratore unico) a mendicante.

Ciò che però “salva” quest’uomo è la scaltrezza, la capacità di trarre vantaggio anche da una situazione emergenziale come quella in cui si era venuto a trovare: agevola clamorosamente i debitori del suo padrone i quali si sarebbero sicuramente sentiti di ricambiargli il favore. Per far questo, quindi, costui deruba ulteriormente il proprio padrone utilizzando “una sapienza che non discende dall’alto, anzi è terrena, animale, diabolica” (Giacomo 3.15) che, umanamente, lo salva: il primo dà 50 barili d’olio anziché 100, risparmiando 1705 litri, il secondo si trova a tenere per sé 7 quintali su 34 di grano che doveva, certo non poca cosa in entrambi i casi.

Ora Gesù, dopo aver riferito la reazione del padrone che “lodò quell’amministratore disonesto” nelle modalità che abbiamo visto, stabilisce una verità basilare che tendiamo a non considerare, e cioè che “i figli di questo mondo, verso i loro pari – uomini – sono più scaltri dei figli della luce” (v.8). Ancora una volta siamo costretti a considerare gli opposti: da un lato chi vive sulla e per la terra, è costretto a sopravvivere e per questo basa la propria esistenza sull’inganno a cui ricorre, sistematicamente o saltuariamente non importa, agendo a danno degli altri. Ebbene, la conferma del fatto che il cristiano non ha nulla a vedere con loro la dà l’apostolo Paolo quando scrive che Gesù “ha dato se stesso per i nostri peccati al fine di strapparci da questo secolo malvagio” (Galati 1.3,4).

I secondi, invece, vivono sulla terra, ma non per essa perché hanno ubbidito alle parole di Gesù in Giovanni 12.36: “Mentre avete la luce, credete nella luce e diventate figli della luce”. Questa “luce” è importante e chissà quanti versi possono venire in mente al riguardo, che non cito salvo qualcuno che colloca il credente nel suo ambito corretto. Abbiamo infatti un passato di errori che ci è stato cancellato, condonato perché “un tempo eravate tenebre, ora siete luce nel Signore” (Ef. 5.8). Ancora, “Siete figli della luce e figli del giorno; noi non apparteniamo alla notte, né alle tenebre” (1 Tessalonicesi 5.5) e infine 1 Pietro 2.9, “Voi invece siete la stirpe eletta, sacerdozio regale, popolo che Dio si è acquistato perché proclami le ammirevoli opere di lui, che ci ha chiamato dalle tenebre alla sua meravigliosa luce”.

 

Infine, arriviamo alla conclusione della parabola: “Fatevi degli amici con – quindi usandola – la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare – cioè non sarà più necessaria perché sarà finita la vita – essi vi accolgano nelle dimore eterne”. Ecco, quando ho parlato di interpretazione mi riferivo proprio a questo punto nel senso che “essi” è un’aggiunta e sembrerebbe che il soggetto siano gli amici acquistati con la ricchezza terrena. Il testo originale invece ha solo “vi accolgano…”, plurale riferito a tutti coloro che abitano il cielo, in altri termini “perché possiate entrare nelle dimore eterne”.

Farsi “amici con la ricchezza disonesta” a questo punto è chiaro cosa implichi: il non tenere per sé, non per nulla argomento della prossima parabola. Gesù già parlò di chi invitare ai banchetti, del fatto che “chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un mio discepolo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa” (Matteo 10.41,42), di tutte quelle attenzioni che vanno date a quanti, per un motivo o un altro, si ritrovano sofferenti come conclude Giacomo 1.27: “Religione pura e senza macchia – quindi vera – davanti a Dio è questa: visitare gli orfani e le vedove – che allora non avevano di che sostenersi – nelle sofferenze e non lasciarsi contaminare da questo mondo”. Perché, questo è il punto, se non si sta attenti il mondo contamina credo non tanto con la volgarità di cui ha la gestione, ma con quei princìpi che sono buoni solo in apparenza e che in realtà nascondono un rifiuto anche di una solo blanda idea di Dio. Si vuole dimostrare che l’uomo è buono, solidale, è perfettamente in grado di vivere da solo. Come già detto da qualcuno, se si toglie la “D”, rimane l’ “Io”.

Dobbiamo infine chiederci se, come “figli della luce” siamo tutti illuminati oppure abbiamo delle zone d’ombra che magari custodiamo. Il pensiero al rendiconto dovrebbe infatti essere costante, così come la gestione doverosa delle “ricchezze disoneste” se da noi possedute. Amen.

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14.15 – TRE PARABOLE: IL FIGLIO PRODIGO IV (Luca 15.23)

14.15 – Tre parabole – 3, il figlio prodigo 4 (Luca 15.23)

 

 

25Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; 26chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. 27Quello gli rispose: «Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo». 28Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. 29Ma egli rispose a suo padre: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. 30Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso». 31Gli rispose il padre: «Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; 32ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato»».

 

Possiamo affermare che l’ultima parte della parabola è interamente dedicata alle reazioni e al carattere del figlio maggiore che vediamo gran lavoratore (“si trovava nei campi”), fedele ai compiti che gli dava il padre (“ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando”, attento a quanto succedeva in casa (“chiamò i servi e domandò cosa fosse tutto questo”) e, con un comportamento anche al di fuori dell’ambiente “aziendale”, irreprensibile (accusa il fratello minore di avere “divorato le tue sostanze con le prostitute” dimostrandosi estraneo a tale stile di vita).

Eppure, a queste note positive, ve ne sono di negative perché era incapace di provare qualunque forma di empatia, con un concetto del vivere del tutto particolare escludendo qualsiasi forma di distrazione da quello che era il dovere svolto come un obbligo, unica possibilità di espressione che non includeva il piacere, la soddisfazione nell’operare. Il figlio maggiore, quindi, è un rigido osservante di norme, per lui esistono solo quelle. E qui, nonostante la parabola non porti ad identificare inequivocabilmente alcune sue componenti, abbiamo un riferimento ai Giudei che sicuramente fu compreso da tutti i presenti perché anche loro si ritenevano irreprensibili e guardavano gli altri con disprezzo o, nel migliore dei casi, sufficienza.

 

Esaminando la reazione alla risposta di uno dei servi, “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”, vediamo che “si indignò e non voleva entrare”. Qui osserviamo che, quando il fratello minore se ne era andato, oltre a essere in disaccordo con la sua scelta, aveva emesso dentro di sé un decreto di condanna senza possibilità di appello: le parole “Tuo fratello è qui” lo avevano immediatamente allarmato, certo non rallegrato ed il fatto che il padre avesse voluto far festa usando il vitello migliore e soprattutto avesse “riavuto sano e salvo” quel giovane, lo scandalizzò a tal punto che abbiamo letto che “non voleva entrare”, cioè non si riconosceva più in quell’ambiente per il quale aveva certo dato molto, direi tutto se stesso, prestando un’opera continua per il sostentamento e lo sviluppo di quella casa.

Abbiamo qui una reazione stizzita, dettata dall’orgoglio che precludeva qualunque forma di apertura al rinnovamento, a ciò che andava al di fuori della consuetudine. Da quando il fratello minore si era allontanato, evidentemente quell’uomo si era convinto di essere l’unico erede compiacendosene, dicendo dentro di sé “un giorno tutto questo sarà mio” ed il fatto che il padre avesse riaccolto colui che, legalmente, aveva già avuto tutta l’eredità spettantegli, lo offendeva profondamente. Certo, se fosse stato come il figlio maggiore, quel padre avrebbe potuto benissimo dire al minore che tutto quanto gli spettava gli era stato dato per cui non aveva nulla da pretendere e, quindi, che si arrangiasse come meglio potesse. Infatti, nelle intenzioni originali del figlio più giovane, vi era quella di essere trattato come uno dei servi presi a giornata.

Il maggiore, quindi, nonostante tutto il suo desiderio di servire il padre, aveva agito solo per se stesso perché, nonostante avesse vissuto con lui quotidianamente, non ne aveva assorbito il carattere, non aveva imparato nulla da lui, anzi era rimasto schiavo delle sue convinzioni, come fece Eliab, fratello maggiore di Davide, che lo rimproverò di aver abbandonato poche pecore nel deserto per venire a combattere contro il filisteo Golia, accusandolo di essere malizioso e borioso (1 Sam 17.28).

Ancora, ravvisiamo nel comportamento del figlio maggiore lo stesso di quei Giudei che rimproverarono Pietro a Gerusalemme dicendogli “Sei entrato in casa di uomini non circoncisi e hai mangiato insieme a loro!” (Atti 11.3) ritenendosi superiori. Lo stesso successe con l’apostolo Paolo, quando predicava ad Antiochia (13.45) ed ancor più a Gerusalemme (capp. 21 e 22): qui è interessante quanto avvenne perché fu ascoltato con interesse fino a quando non parlò della sua conversione e del martirio di Stefano.

C’è quindi, in ogni persona religiosa, un punto di non ritorno e proprio lì si scandalizza e cade, proprio come il figlio maggiore della nostra parabola.

C’è un contrasto direi lacerante fra l’ostinazione del maggiore che non vuole entrare e il padre che, con lo stesso amore con il quale aveva accolto l’altro fratello, ora lo prega di partecipare alla mensa.

C’è qualcosa di insanabile nelle parole del figlio “irreprensibile”: al contrario dell’altro, omette di chiamarlo “padre”, ma inizia a autoincensarsi, esattamente come il fariseo della parabola col pubblicano: sicuramente da sottolineare l’ “io” e il “tu” che da sempre, nelle discussioni anche umane, nostre, sono usate automaticamente per dar ragione a una parte e torto all’altra. I versi 29 e 30 mostrano un tragico infantilismo e non potrebbe essere altrimenti perché quando una persona non ha maturato in profondità il vero senso dell’essere, non potrà restare altro se non il bambino capriccioso e insoddisfatto che era un tempo, sempre pronto a vedere soprusi e torti là dove non ci sono, perseguitato dalla sua stessa, inguaribile, insoddisfazione. La frase “tu non mi hai dato nemmeno un capretto per far festa con i miei amici” non solo dimostra che in realtà non aveva mai cercato comunicazione col padre al di là di un arido rapporto di lavoro – perché non chiedergliene uno, quando gliene avrebbe dati certamente di più? –, ma che tutto il suo operare era dettato dall’interesse e non dall’amore e gratitudine per lui.

Poi leggiamo “Ma ora che è tornato questo tuo figlio”, parole che accrescono ulteriormente la distanza da tutto il contesto familiare: quello che poteva essere considerato il figlio buono, irreprensibile, gran lavoratore, ora emerge come una persona insensibile, acida, che in realtà a quella famiglia non era mai appartenuta. E mi viene in mente un’altra parabola, sempre con due figli protagonisti, che troviamo in Matteo 21.28-32 che penso possa raccordarsi a questa: “Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: «Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna». Ed egli rispose: «Non ne ho voglia». Ma poi si pentì e vi andò. Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: «Sì, signore». Ma non vi andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre? Risposero: «Il Primo». E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli”.

Forma e sostanza sono quindi due cose diverse e la prima si rivela sempre nel momento in cui l’essere umano viene provato, come nel caso della parabola su cui stiamo ragionando: la persona, qualunque persona, appare ciò che è nel momento in cui si trova nelle circostanze che la provano: il figlio maggiore è considerato positivo fino a quando non si ribella al fatto che il minore torni pentito.

Gesù non dice come andò a finire quella faccenda famigliare, né era necessario perché ciò che gli premeva era far emergere due condizioni opposte, quelle di un orgoglio che muore visto nelle vicende del figlio minore, e quello che resiste, alberga nel profondo e si mimetizza nel maggiore, persona che viene posta davanti a parole che è libero di condividere o meno: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo, ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”.

Quindi il maggiore era libero di scegliere se unirsi o meno alla festa per il fratello ritrovato, che qui credo sia un’occasione per Gesù di richiamo a quella per eccellenza, quando tutti i credenti si ritroveranno nel regno di Dio e/o alla gioia perché era venuto il Figlio in mezzo a loro: “Le genti invece glorificano Dio per la sua misericordia, come sta scritto: Per questo ti loderò fra le genti e canterò inni al tuo nome. E ancora: Esultate, o nazioni, insieme al suo popolo. E di nuovo: Genti tutte, lodate il Signore; i popoli tutti lo esaltino. E a sua volta Isaia dice: Spunterà il rampollo di Iesse, colui che sorgerà a governare le nazioni: in lui le nazioni spereranno” (Romani 15.9-12). Amen.

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14.14 – TRE PARABOLE: IL FIGLIO PRODIGO 3/4 (Luca 15.22-24)

14.14 – Tre parabole – 3, il figlio prodigo 3 (Luca 15.22-24)

 

22Ma il padre disse ai servi: «Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. 23Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, 24perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». E cominciarono a far festa.

 

Questi due versi sono interamente dedicati alla reazione del padre e alle sue parole ed iniziano con l’avversativa “Ma” che introduce qualcosa che il figlio non si aspettava: era convinto di finire un discorso che si era preparato, quello di chiedere un posto tra i servi, e si ritrova accolto con una gioia che lo sorprende. Non è una banalità affermare che, se si vive in un peccato, professionalmente o incidentalmente a causa della propria defettibile natura (persistendo in esso), quando si ritrova il Padre dopo avergli confessato la colpa e averla abbandonata, si scopre un mondo che va al di là delle nostre aspettative.

Ricordando la frase che il giovane avrebbe voluto pronunciare, “Trattami come uno dei tuoi salariati”, vediamo che il riferimento è a quelle persone che venivano prese e pagate a giornata, come insegna la parabola dei lavoratori delle diverse ore. È una frase che andava a rafforzare la precedente, “Ho peccato verso il Cielo e davanti a te, non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”: conscio del fatto che nella casa paterna non gli apparteneva più nulla, avrebbe voluto dire che da ora in poi avrebbe lavorato per mantenersi.

Il padre non solo non gli lascia finire il discorso, ma ordina che gli fosse fatto indossare “il vestito più bello”, di mettergli “l’anello al dito” – anche se la traduzione corretta è “un” – e “i saldali ai piedi”, anche se vedremo che sandali non erano. Cerchiamo ora di analizzare questi tre elementi.

 

Il vestito più bello

Il vestito, da sempre, qualifica la persona e molto si può capire del suo carattere e condizione osservando come viene indossato e dalla cura con la quale è tenuto. Il vestito a volte rivela la funzione che ha un individuo nella società e in ogni caso serve per renderci presentabili agli altri. Ciò che indossava quel giovane era quanto di più umiliante ci fosse perché non solo si portava addosso lo sporco dei maiali, ma anche il risultato dell’impossibilità di lavarlo decentemente, la polvere, il sudore, insomma tutto quanto si era accumulato nel tempo passato a custodire i porci e a camminare da quel “paese lontano” fino a casa.

Questo ci parla del fatto che quando l’essere umano compare davanti a Dio è sempre impresentabile perché, a prescindere dalla vita che ha vissuto fino a quel punto, si troverà sempre a indossare qualcosa di inadatto: il problema non è cosa si è fatto prima dell’incontro con Lui, ma che il vestito è comunque sporco, impossibile da lavare come leggiamo in Geremia 2.22, “Anche se tu ti lavassi con soda e molta potassa, resterebbe davanti a me la macchia della tua iniquità”. Ecco il perché della parabola degli invitati alle nozze in cui a tutti i convenuti, tranne uno, era stato inviato un vestito dal padrone di casa ed ecco perché proprio quell’uno viene cacciato fuori.

Abbiamo anche Isaia 61.10 che introduce un altro elemento di questa parabola: “Io gioisco pienamente  nel Signore, la mia anima esulta nel mio Dio, perché mi ha rivestito delle vesti della salvezza, mi ha avvolto con il mantello della giustizia, come uno sposo si mette il diadema e come una sposa si adorna di gioielli”. Qui abbiamo un soggetto, il Signore, che riveste una persona, cioè toglie un abito inadeguato e ne mette uno nuovo che mai potrebbe comprare coi propri mezzi: è Lui a vestire con le “vesti della salvezza”, ma non solo, avvolge “con il mantello della giustizia”, la persona.

È solo la gioia del padre, e del suo amore per il figlio ritrovato, che lo porta a far sì che quello indossasse “il vestito più bello”: non “uno” dei tanti, ma “il”, vale a dire che, una volta indossato, quel giovane avrebbe potuto essere considerato più di tutti gli altri perché nessuno avrebbe potuto vestire in quel modo senza il consenso del padrone di casa. Per il solo fatto di essere tornato a casa, quindi, il figlio ex prodigo viene posto in una posizione privilegiata, addirittura migliore di quella del fratello maggiore che, mentre accadevano queste cose, era al lavoro nei campi.

 

Un anello al dito

È importante specificare che un conto è tradurre “un” e un conto “lo”: il determinativo infatti allude a un oggetto unico, l’indeterminativo a qualcosa di generico, per quanto importante trattandosi non di un semplice gioiello, ma di un segno di autorità che va ad affiancarsi al vestito. A proposito dell’anello ricordiamo Giuda, che lo diede a Tamar come pegno (Genesi 38.18), quelli che portavano Giuseppe, Jezebel, Aman, Mardocheo. Per capire l’anello vale la citazione di Genesi 41.41,42: “Il faraone disse a Giuseppe: «Ecco, io ti metto a capo di tutta la terra d’Egitto». Il faraone si tolse di mano l’anello e lo pose sulla mano di Giuseppe – particolare da tenere a mente perché verrà utile più avanti –; lo rivestì di abiti di lino finissimo e gli pose al collo un monile d’oro”.

Ora quel padre, ordinando ai servi di mettere al figlio minore “un anello al dito” non voleva significare che fosse diventato di punto in bianco la sola autorità – o comunque quella più alta – della casa, ma che gli era stata data una responsabilità e una funzione che prima non aveva. E viene da pensare, credo a ragione, che l’anello lo portassero anche il padre e il fratello.

Altra osservazione che costituisce un eccellente parallelo con Giuseppe: in realtà il genitore non dice ai servi “mettetegli l’anello al dito”, ma “date l’anello nella sua mano” e non è una sottigliezza così tanto per fare della pignoleria perché se l’anello fosse stato messo al dito da uno dei servi avrebbe costituito un’azione passiva da parte del figlio ritornato che, invece, doveva accettare, indossandolo, quanto gli veniva dato in mano. Lo stesso fece Giuseppe: entrambi, mettendosi al dito l’anello, si impegnavano a vivere in modo nuovo, accettando non un ordine, ma una proposta. L’anello era in un certo qual modo la firma che veniva apposta al contratto e possiamo paragonarlo al battesimo, fondamentale per la persona che è stata salvata e ha maturato la sua intenzione di entrare nella famiglia di Dio.

 

I sandali

Ancora una volta va fatta una correzione al testo: personalmente, per l’analisi, faccio riferimento a tre versioni, la Diodati del 1641, quindi non ancora deturpata da interventi a volte molto discutibili, la traduzione letterale di Don Piero Ottaviano sul sito Didaskaleion, e il testo greco. Ebbene, Diodati al posto di “sandali” usa “scarpe” e gli altri due “calzari” a indicare che il terzo elemento dato al figlio tornato a casa era qualcosa che i servi non portavano.

Se i sandali erano un oggetto idoneo al camminare per le strade o per svolgere le attività comuni, i calzari erano sinonimo di una vita diversa, che pochi potevano condurre.

 

Considerando quanto finora esaminato, va fatta una precisazione importante e cioè che questa parabola non va vista, in questa parte del pentimento e della riabilitazione, come qualcosa di immediato, ma, nel momento in cui si desidera decifrarla per portarla al mondo reale, di progressivo, qualcosa che dura nel tempo. A parte tutto ciò che è stato scritto, il vestito più bello che viene dato, per noi, ha attinenza sicuramente con la nuova dignità acquistata vista nella nostra “adozione a figli” (Galati 4.5), ma ancor più con il percorso di santificazione al quale siamo chiamati.

E per indossare un nuovo vestito occorre mettere da parte il vecchio, “La notte è avanzata, il giorno è vicino. Perciò gettiamo via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce” (Romani 13.12). Ancora Efesi 4.20-24: “ma voi non così avete imparato a conoscere il Cristo, se davvero gli avete dato ascolto e se in lui siete stati istruiti, secondo la verità che è in Gesù, ad abbandonare con la sua condotta di prima l’uomo vecchio che si corrompe seguendo le passioni ingannevoli, a rinnovarvi nello spirito della vostra mente e a rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità”.

Infine, il passo più impegnativo: “Non dite menzogne gli uni agli altri: vi siete svestiti dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova per una piena conoscenza ad immagine di colui che l’ha creato”. Impegnativo perché non sempre riusciamo a rinnovarci tutti i giorni: fuori dalla meditazione, dalla preghiera personale e dalle riunioni di Chiesa, qualora essa sia degna di tale nome, esiste un mondo dominato da un principe che allarga sempre i più i suoi domìni manifestandosi nel modo che tutti noi constatiamo e restarne fuori non è facile. È un mondo dove l’ingiustizia si traveste da giustizia, in cui se si cerca la giustizia si trova la legge, la dignità è assente e quei sentimenti che, indipendentemente dalla fede, un tempo potevano formare le persone predisponendole alla ricezione di un messaggio anche solo morale, vengono repressi e se possibile cancellati dalla memoria. E questo a volte, quando viene “toccato con mano”, può essere molto disturbante.

Il vestito, l’anello e i calzari sono tutti oggetti che, perdurando la situazione di peccato, quel giovane non avrebbe mai potuto possedere, permettersi; invece, gli sono stati donati gratuitamente. E qui possiamo avere un riferimento a Giosuè, che davanti all’Angelo del Signore “Era rivestito di vesti sporche e stava in piedi davanti all’angelo, il quale prese a dire a coloro che gli stavano intorno: «Toglietegli quelle vesti sporche». Poi disse a Giosuè: «Ecco, io ti tolgo di dosso il peccato, fatti rivestire di abiti preziosi»” ( Zaccaria 3.3,4).

Al figlio prodigo, successe così. All’umiliazione del peccato, fu sostituita la pienezza della grazia e fu posto in grado, con i tre elementi che gli vennero consegnati, di camminare in novità di vita. Solo una volta vestito con gli elementi che il Padre volle che vengano dati al peccatore pentito questi può essere reso presentabile agli occhi di Dio, a se stesso e agli altri; viceversa potrà essere solo protagonista di una mediocre e noiosa commedia recitata da attori scadenti che, a volte, dimenticano la propria parte.

A noi e a chiunque si pente della propria vita e dei propri errori sono stati offerti il vestito, l’anello e i calzari, doni di cui dovremo un giorno rendere conto e di qui la necessità di pregare e agire per non essere colti in un doloroso rimprovero.

Infine, abbiamo la festa che viene data immediatamente con una motivazione che usa termini contrapposti fra loro, “morto – tornato in vita”, “perduto – ritrovato” che sicuramente colpirono l’uditorio di Gesù perché andavano a completare entrambe le parabole prima esposte e contemporaneamente ampliandole perché, lontani dal Padre, c’è sempre uno stato di morte. “Ma Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo: per grazia siete stati salvati” (Efesi 2.4), perché “eravate erranti come pecore, ma ora siete stati ricondotti al pastore e custode delle vostre anime” (1 Pietro 2.25).

Ultima osservazione credo sia doverosa farla sul cibo che il padre avrebbe offerto al figlio pentito, certo non paragonabile a quello che assumeva in quel “paese lontano”: là, caduto in rovina, non poteva neppure prendere le carrube per i porci; tornato dal padre, però, si trovò nella situazione opposta, soprattutto per la dignità che aveva non solo riacquistato, ma che si era in un certo senso accresciuta. Così è stato anche per me e, non essendo un privilegiato nel senso umano del termine, anche per tutti coloro che del figlio prodigo hanno fatto l’esperienza. Amen.

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14.13 – TRE PARABOLE: IL FIGLIO PRODIGO 2/4 (Luca 15.20-21)

14.13 – Tre parabole – Il figlio prodigo 2/4 (Luca 15.20-21)

 

20Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. 21Il figlio gli disse: «Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio».

 

In questa seconda parte cercheremo di affrontare il punto centrale della parabola, cioè il comportamento del padre del giovane che, ricordiamo, aveva fatto una spietata disamina della sua situazione e soprattutto di ciò che l’aveva creata.

Il verso 20 ci presenta cinque azioni che compie il padre verso di lui che non vanno certamente ignorate: lo vide, ne ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. La prima è “lo vide” certo non per caso, non perché, per riposarsi magari dal fare dei conti o dall’aver tenuto una lunga riunione coi suoi amministratori, si affacciò alla finestra per snebbiarsi le idee. Piuttosto, questo scorgere e riconoscere il figlio “quando era ancora lontano”, è indice tanto del fatto che quell’uomo era in attesa del suo ritorno, quanto della conoscenza che aveva del suo carattere. Si può dire che, se accettò di dare al secondogenito la parte di eredità che gli chiedeva, fu per consentirgli di fare delle esperienze dolorose che lo maturassero, conoscendo le sue attitudini, il carattere e le intemperanze. Un padre, se tale è, conosce il proprio figlio e imposta per lui la strategia educativa più idonea per renderlo in grado di presentarsi agli altri senza essere umiliato. Quindi, quello della parabola, acconsentendo alla partenza del proprio figlio minore e dotandolo di quanto gli chiedeva, sapeva come avrebbe speso il suo denaro, cosa avrebbe fatto, i legami sbagliati che avrebbe intessuto, le sue cadute perché in un “paese lontano” non avrebbe saputo vivere autonomamente, soprattutto con dignità, nonostante pensasse l’esatto contrario. Quel territorio era per lui sinonimo di libertà fuori dal controllo di qualsiasi precetto anche solo morale cui altrimenti avrebbe dovuto sottostare.

Ora il padre lo vede e lo riconosce “quando era ancora lontano”: cosa vide? Un puntino, una figura umana? E ancora, quanto era “lontano” dalla casa, uno o due centinaia di metri, o chilometri? Fu visto da un territorio pianeggiante, o da un’altura? L’importante è che lo riconobbe e basta, ma fu quasi un sesto senso, oppure lo vide arrivare da una strada o da una direzione presso la quale passavano in pochi?

In mezzo alle cinque azioni che il padre compie, non possiamo dimenticare che ve n’è una del figlio, cioè che torna a piedi perché non aveva più nulla di suo, tanto meno un mezzo di trasporto animale, asino o cavallo che potesse essere. E quel ritorno lo compie da “un paese lontano” non solo per usi e costumi, ma anche quanto a chilometri, quindi con sofferenza questa volta fisica, senza sandali ai piedi e non sappiamo se, casualmente, nel suo lungo percorso abbia incontrato qualcuno, carovana o mercante, che gli abbia consentito di salire su un carro per alleviargli la fatica di un lungo viaggio, ben diverso da quello che aveva fatto all’andata, pieno di sé, convinto di conquistare chissà chi e chissà cosa.

 

Tutti questi elementi ci portano al secondo punto, “ebbe compassione”, cioè si immedesimò nel vissuto più recente del figlio conoscendo la natura umana sempre pronta a cadere, a sbagliare, non calcolare bene ciò che si è in rapporto a che si vuole, a sopravvalutandosi sempre. Certo, per avere “compassione” quell’uomo non si limitò a considerare che suo figlio aveva vissuto tristi esperienze, ma piuttosto le mise in relazione al pentimento, quello che fa più male degli insuccessi e dei piedi che sanguinano perché si tratta di qualcosa che nasce dal dolore di un cuore sconfitto da se stesso. Chi ha provato pentimento sa che è già punizione, non ha bisogno di altra pena. Chi è autenticamente pentito è perché ha già elaborato, pensato, ha già emesso una sentenza su di lui e questa è sempre molto amara.

Terza azione che, se vista sotto il metro dell’orgoglio umano, lascia stupiti, è “gli corse incontro”, che rivela tanto la gioia del padre, quanto il voler risparmiare al figlio ulteriore fatica. Fosse stata una persona animata da risentimento o si fosse offesa, certamente avrebbe aspettato che il figlio bussasse alla porta e si umiliasse, ma invece gli corre incontro. Un fratello ha scritto in proposito che “se il peccatore fa un passo verso di Lui, Dio ne fa dieci per incontrarlo per mostrargli il suo amore” ed è una dinamica che ogni credente ha sperimentato. Attenzione, perché quando parlo di “credente” e di “cristiano” mi riferisco a chi ha avuto una reale esperienza col Signore, non a quelli che frequentano la Chiesa restando sempre se stessi, lasciandolo fuori dal loro cuore e dalla loro vita ricordandosi di Lui quando desiderano “sentirsi buoni” o provare emozioni false, carnali, ipocrite. E penso a quanti magari recitano il “Padre nostro” offendendo quel “rimetti a noi i nostri debiti come li rimettiamo ai nostri debitori” proseguendo a coltivare rancori, invidie, chiudendo non solo ostinatamente il cuore, ma sigillandolo ancora di più.

 

La quarta e la quinta azione sono le più difficili da capire umanamente, “gli si gettò al collo e lo baciò” perché ci aspetteremmo, forse, che la prima iniziativa debba spettare al figlio che ha sbagliato: lui aveva voluto i soldi e andarsene? Lui avrebbe dovuto chiedere perdono, ma non è così, la sua presenza, com’era vestito e la mancanza di sandali ai piedi era già sufficiente e parlava più di mille richieste di scuse. Certo il nostro testo non potrà mai descrivere gli occhi dell’uno e quelli dell’altro o il linguaggio non verbale che spesso dice molto di più di tante parole. Quel padre, poi, non badò allo stato di impresentabilità in cui il figlio si presentava ed altrettanto fa con chiunque ritorni a lui poiché il peccato rende sempre la persona in tali condizioni che, come vedremo ma comunque già sappiamo, dovrà essere vestita a nuovo.

Nello scorso studio abbiamo citato le parole di Geremia 31.18, “Dopo il mio smarrimento, mi sono pentito; quando me lo hai fatto capire, mi sono battuto il petto, mi sono vergognato e ne provo confusione perché porto l’infamia della mia giovinezza”, ma al 19 Iddio dice “…per questo il mio cuore si commuove per lui e sento per lui profonda tenerezza”.

Il gettarsi al collo del figlio e baciarlo costituiscono un segnale di disponibilità e di perdono assoluto talché ogni parola, da entrambe le parti, era superflua e infatti abbiamo solo la prima parte di quanto quel giovane aveva pensato di dire al padre: manca “non sono più degno di essere considerato tuo figlio, trattami come uno dei tuoi salariati”.

Sia il gettarsi al collo di una persona quanto il baciare sono sinonimi di comunione e appartenenza che supera divisioni e rancori, come possiamo leggere in Genesi 33.4 nell’incontro fra Esaù e Giacobbe: il secondo, per le dinamiche accadute negli anni, temeva fortemente che il fratello avesse intenzioni violente nei suoi confronti, ma “Esaù gli corse incontro, lo abbracciò, gli si gettò al collo, lo baciò e piansero”. Possiamo anche ricordare l’incontro in cui Giuseppe si rivelò ai suoi fratelli che lo avevano venduto a una carovana di egiziani: “Allora egli si gettò al collo di suo fratello Beniamino e pianse. Anche Beniamino piangeva, stretto al suo collo. Poi baciò tutti i fratelli e pianse. Dopo, i suoi fratelli si misero a conversare con lui” (Genesi 45.14,15).

 

Arrivati a questo punto è giusto considerare il significato spirituale delle dinamiche fin qui esposte, cioè andare a reperire, se non tutti, i principali punti di meditazione questa volta offerti, più che ai “pubblicani e peccatori” presenti, all’uditorio colto – e altrettanto indifferente – di Gesù. Parlando la parabola del figlio prodigo di pentimento e perdono, il primo verso cui rivolgersi è reperibile in Salmo 32. 5: “Ti ho fatto conoscere il mio peccato, non ho coperto la mia colpa. Ho detto: «Confesserò al Signore le mie iniquità» e tu hai tolto la mia colpa e il mio peccato”. E infatti il figlio dice “Ho peccato contro il cielo e davanti a te”.

Salmo 103.8-14: “Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore. Non è in lite per sempre, non rimane adirato in eterno. Non ci tratta secondo i nostri peccati e non ci ripaga secondo le nostre colpe. Perché quanto il cielo è alto sulla terra, così la sua misericordia è potente su quelli che lo temono; quanto dista l’oriente dall’occidente, così egli allontana da noi le nostre colpe. Come è tenero un padre verso i figli, così il Signore è tenero verso quelli che lo temono, perché egli sa bene di che siamo plasmati, ricorda che noi siamo polvere”. Quella che avremmo potuto non essere osservando un solo comandamento.

Per la profondità e la stretta attinenza all’episodio è sicuramente da riportare Isaia 57.17,18: “Per l’iniquità della sua avarizia – che è tenere per sé – mi sono adirato, l’ho percosso, mi sono nascosto e sdegnato; eppure egli, voltatosi, se n’è andato per le strade del suo cuore. Ho visto le sue vie, ma voglio sanarlo, guidarlo e offrirgli consolazioni”.

Ezechiele 18.26-28 è dedicato all’errore, al ripensamento delle proprie azioni e alla conversione: “Se il giusto si allontana dalla giustizia e commette il male e a causa di questo muore, egli muore appunto per il male che ha commesso. E se il malvagio si converte dalla sua malvagità che ha commesso e compie ciò che è retto e giusto, egli fa vivere se stesso. Ha riflettuto, si è allontanato da tutte le colpe commesse: egli certo vivrà e non morirà”. Nello specifico, il “giusto” erano i farisei e il “malvagio” i pubblicani, il cui ravvedimento era molto più vicino che non agli altri.

Michea 7.18,19: “Quale dio è come te, che toglie l’iniquità e perdona il peccato al resto della sua eredità? – Israele –. Egli non serba per sempre la sua ira, ma si compiace di manifestare il suo amore. Egli tornerà ad avere pietà di noi, calpesterà le nostre colpe. Tu getterai in fondo al mare tutti i nostri peccati”.

 

Il perdono del padre umano, quindi, è arrivato al pari di quello soprannaturale del quale è figura, perché il pentimento del figlio era assolutamente sincero, reale, frutto di un’elaborazione interiore profonda, come avviene per chiunque si rivolge a Dio per chiedere la remissione di un peccato: “Lavami tutto dalla mia colpa, dal mio peccato rendimi puro. Sì, le mie iniquità io le riconosco, il mio peccato mi sta sempre dinanzi” (Salmo 51.4,5). Perché? Perché senza il perdóno di Dio, il peccato rimane e tortura. Amen.

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14.11 – TRE PARABOLE: LA MONETA PERDUTA (Luca 15.8-10)

14.11 – Tre parabole – 2, la moneta perduta (Luca 15.8-10)

 

8Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? 9E, dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: «Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto». 10Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte.

 

“La moneta”. Purtroppo nelle traduzioni cosiddette moderne il lettore si trova da un lato agevolato a capire nell’immediato di cosa si tratti, ma penalizzato in tutto quello che è il contorno che consente di capire meglio il messaggio, o contesto che sia. Il greco infatti non ci parla di “dieci monete”, il cui valore è quanto mai indefinito, ma di “dramme”.

La dramma, o dracma, costituiva l’unità monetaria principale presso i popoli ellenici dell’antichità, aveva multipli e sottomultipli oltre a poter essere “pesante” o “leggera” e quindi avere un valore diverso. La moneta che ci interessa è quella d’argento, che era assimilata al “denaro” che costituiva la paga ordinaria giornaliera di un operaio. Da qui possiamo dedurre che le “dieci dramme” costituissero i risparmi della protagonista della parabola.

Da notare poi il personaggio, una donna, che nella precedente era un uomo (il pastore) e nella prossima sarà addirittura un padre, a sottolineare l’universalità del problema quando qualcosa che si ha di caro si perde, sia esso animale, cosa o persona. E Gesù offrì tre esempi proprio perché desiderava che i suoi uditori, a seconda della loro personalità, se non tutti, ne comprendessero almeno uno per fare poi le considerazioni del caso e, ricordandosi degli altri due, giungere ad una piena comprensione del messaggio. Da qui possiamo considerare che il Vangelo, e per riflesso tutta la Scrittura, sono semplici quando devono comunicare ciò che serve all’uomo come primo elemento per giungere alla verità dell’amore di Dio per la propria salvezza: non serve cultura, conoscenza del greco o dell’ebraico, ma un cuore onesto che cerchi perché altrimenti quel “cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto” non costituirebbe una verità.

La donna ha “dieci dramme”, anche qui da vedere come numero che esprime la quantità ideale turbata appunto dalla mancanza di quell’ “uno” che rende il “nove”, come il “novantanove” precedente, simbolo dell’incompletezza.

Quelle “dieci dramme” erano il punto di arrivo, il risultato di un risparmio, qualcosa che stava ad indicare una tranquillità raggiunta per poter sopperire a un momento di bisogno che prima o poi sarebbe eventualmente (o certamente) arrivato. Qui sta la chiave di lettura della parabola perché Gesù non avrebbe certo potuto prendere a modello una persona avara, che sì avrebbe cercato la dramma come quella donna, ma unicamente per puro amore di possesso perché quell’ “uno” in meno avrebbe rappresentato qualcosa di intollerabile a fronte di un progetto di arricchimento, cosa che qui non è: la scoperta di un elemento mancante nel gruppo dei dieci e il conseguente accendere la lampada (perché le case dell’epoca erano buie), spazzare la casa e cercare la dramma “accuratamente finché non la trova”, sono tutte azioni che denotano l’importanza che viene dato alla moneta a livello di principio, avendo un valore che, assieme alle altre nove, non è trascurabile.

Ecco allora che Gesù, con la parabola della pecora smarrita, spiega l’amore del pastore per il suo animale e con quella della dramma rivela quanto è prezioso per lui il peccatore. Proviamo a pensare un attimo: entrambe, pecora e dramma, sono ricerche non facili. Il pastore deve rinunciare a starsene in casa, vicino all’ovile, a riposare meritatamente dopo una giornata (o mezza) di lavoro. Per trovare la pecora perduta deve fare della strada, presumibilmente molta, sotto il sole, sa che sarà inutile pensare a una logica nel percorso che può aver fatto il suo animale e per questo deve andare dappertutto, percorrere siepi, fossi, radure, fermarsi ad ascoltare se per caso giunge al suo orecchio qualche belato.

Per la dramma, poi, non so se ci siamo mai trovati nella condizione di cercare qualcosa di piccolo come una moneta, che sappiamo esserci caduta in casa: una moneta, se cade di costa, rotola e può andare a infrattarsi in mille posti. Il principio che quella è preziosa, frutto di un sacrificarsi perché una cosa è il risparmiare e tutt’altra l’accumulare, spinge quella persona a tutta una serie di accorgimenti per il recupero di quell’elemento che si è perso.

Anche qui, come nel caso del pastore, vi è poi il rallegrarsi coi suoi simili a ritrovamento avvenuto: “ho trovato la moneta che avevo perduto”, parole importanti perché quel “che avevo perduto” pone l’accento sull’affanno e la preoccupazione che aveva destato in lei quella perdita. Ha scritto un fratello: “Siccome non è la compassione, ma l’interesse che anima questa donna nella sua ricerca, così l’amore di Dio viene rivelato in una forma tutta nuova. Il peccatore non è più ai Suoi occhi un essere sofferente come la pecora, ma è una creatura preziosa, perché fatta a sua immagine, una sua proprietà la cui perdita provoca un vuoto nel suo tesoro”. Da qui vediamo che anche il peccatore porta dentro di sé come contrassegno il fatto di essere a immagine di Dio, salvo che non sia posseduto da un angelo dell’Avversario, per cui il non credere o peggio porsi in opposizione a lui costituisce un oltraggio che, se non interviene il ravvedimento, comporterà l’essere “gettato di fuori” come i personaggi di parabole che abbiamo incontrato e incontreremo.

Cosa significa allora il ritrovamento della dramma? Il ripristino dell’equilibrio, il ritrovamento di un altro mattone per la costruzione dell’edificio spirituale di Dio, un altro elemento che si aggiungerà ai tanti salvati che costituiranno la Sua Sposa che lo attende.

Possiamo poi osservare le due parabole sotto un altro aspetto: la pecora si perde, per quanto sia priva di orientamento, per sua volontà perché decide si andare da sola, la dramma perché è pesante ed inerte e c’è chi ha giustamente sostenuto che “negli uomini caduti il peccato è al tempo stesso attivo e progressivo. In altri termini i peccatori scelgono il proprio corso e vanno errando per loro decisione – ecco la pecora –, ma gravitano verso il male in virtù di una corruzione innata che agisce come legge nelle loro membra”. E qui abbiamo la dramma, che col suo peso non può che cadere a terra a seguito di un trasporto o di uno spostamento anche breve.

Questo comprende tutti gli uomini e ci porta alle parole dell’apostolo Paolo che, meditando sulla sua natura umana e sull’incapacità della Legge a salvare, paragonando le due dispensazioni, Grazia e Legge, scrive: “Sappiamo che la Legge è spirituale – perché proveniente da Dio –, mentre io sono carnale, venduto come schiavo del peccato – come conseguenza della trasgressione di Adamo –. Non riesco a capire ciò che faccio: infatti io faccio non quello che voglio, ma quello che detesto. (…) Dunque io trovo in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti nel mio intimo acconsento alla Legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che combatte contro quella della mia ragione e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra” (Romani 7.14-23).

Ecco spiegato, credo nel modo migliore, gli effetti del peso della dramma, già comunque constatabile nel fatto che si sia perduta.

Se vi fosse stata immobilità, né la pecora né la moneta si sarebbero perse. Non solo, ma la stessa cosa si può dire qualora, nelle nuove dinamiche di Dio con la creazione, Eva non avesse a un certo punto scelto di infrangere il comandamento ricevuto e Adamo non le avesse dato ascolto facendo la stessa cosa. La leggerezza è di Dio, ma il peso è dell’Avversario e con lui si cade, ci si perde, si rimane umiliati sempre. Si rimane col freddo nell’anima perché il sole proposto da Satana è apparente, illusorio, non scalda; si vede l’immediato e non si va oltre, l’archivio delle rivendicazioni si espande, il rancore causato dalla differenza fra ciò che si desidererebbe e ciò che si ha ci fa implodere, l’attaccamento all’idea di ciò che vorremmo essere o avere, che si scontra con la realtà di ciò che siamo o abbiamo, genera un disagio e una paura patologica. Chi non ha soffre perché è mancante, chi ha soffre ugualmente perché teme di perdere. E qui ricordo la frase “Al malvagio sopraggiunge il male che teme” (Proverbi 10.24).

Allo stesso modo, così come la leggerezza appartiene a Dio e il peso a Satana, l’appartenenza e la separazione sono sempre competenza dell’Uno e dell’Altro.

Ma degno di ringraziamento in preghiera è il verso 24, sempre di Romani 7: “Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte? Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore!”. Al capitolo successivo poi: “Ora, dunque, non c’è nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù. Perché la legge dello Spirito, che dà vita in Cristo Gesù, ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte”.

Ecco allora cosa contempla il ritrovamento della pecora e della dramma: la creazione di un nuovo equilibrio. Princìpi e parole che prima sembravano vuoti/e prendono forma, si inizia a leggere correttamente la vita e le sue prospettive, si ha un porto cui approdare, un riparo certo, l’unico possibile proprio perché trovati da Dio.

E allora arriviamo all’esempio della chioccia che tiene i suoi pulcini sotto le ali, comprendiamo Salmo 40.3 “…mi ha tratto da un pozzo di acque tumultuose, dal fango della palude; ha stabilito i miei piedi sulla roccia, ha reso sicuri i miei passi”. Che in questa vita ci siano degli incerti o persone assolutamente convinte delle loro scelte, in realtà, senza la mano di Dio su di loro, cammineranno sempre nell’errore, in quello che presto o tardi presenta il conto che non potrà che approdare al “pianto e stridore di denti” perché “Il Signore rende sicuri i passi dell’uomo: come può l’essere umano conoscere la sua strada?” (Proverbi 20.24). Ecco perché si perde, ecco il perché della direzione sbagliata e del peso.

Al contrario è l’esperienza di chi è stato ritrovato che troviamo in Salmo 139 1-12: “Signore, tu mi scruti e mi conosci, tu conosci quando mi siedo e quando mi alzo, intendi da lontano i miei pensieri, osservi il mio cammino e il mio riposo, ti sono note tutte le mie vie. La mia parola non è ancora sulla lingua ed ecco, Signore, già la conosci tutta. Alle spalle e di fronte mi circondi e poni su di me la tua mano. Meravigliosa per me la tua conoscenza, troppo alta, per me inaccessibile. Dove andare lontano dal tuo spirito? Dove fuggire dalla tua presenza? Se salgo in cielo, là tu sei; se scendo negli inferi, eccoti. Se prendo le ali dell’aurora per abitare all’estremità del mare, anche là mi guida la tua mano e mi afferra la tua destra. Se dico: «Almeno le tenebre mi accolgano e la luce intorno a me sia notte»m nemmeno le tenebre sono per te tenebre e la notte è luminosa come il giorno; per te le tenebre sono come luce”. Amen.

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14.10 – TRE PARABOLE: LA PECORA SMARRITA (Luca 15.3-7)

14.10 – Tre parabole – 1, la pecora smarrita (Luca 15.3-7)

3Ed egli disse loro questa parabola:4«Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? 5Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, 6va a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: «Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta». 7Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.

Può sembrare anomalo trovare un nuovo commento su una parabola già ampiamente affrontata, così come trattare ancora della pecora, animale sviluppato molte volte in questi incontri e citato da Gesù molto spesso. In realtà queste riflessioni daranno per scontato quanto trattato in precedenza andando a sviluppare particolari non affrontati a suo tempo.

Senz’altro è da sottolineare il “disse loro”, ai “pubblicani e peccatori” che “si accostarono a lui per ascoltarlo”, ma anche agli scribi e farisei che stavano comunque in disparte. Altro elemento da notare è che in questa occasione Nostro Signore non espone una parabola, ma tre, tutte in relazione fra loro e sulle quali saremo chiamati a “tirare le somme” alla fine.

C’è poi necessariamente un compito da adempiere, che è quello di considerare le parole della parabola, apparentemente analoga, riportata da Matteo 18.12-14: “Che cosa vi pare? Se un uomo ha cento pecore e una di loro si smarrisce, non lascerà le novantanove sui monti e andrà a cercare quella che si era smarrita? In verità vi dico: se riesce a trovarla, si rallegrerà per quella più che per le novantanove che non si erano smarrite. Così è volontà del Padre vostro che è nei cieli, che neanche uno di questi piccoli si perda”.

In realtà i due evangelisti riportano la stessa parabola con parole diverse perché differenti furono le circostanze in cui fu esposta: secondo Matteo Gesù desidera porre l’accento su quanto siano preziosi i credenti agli occhi di Dio (“è volontà del Padre vostro che è nei cieli, che neanche uno di questi piccoli si perda”), mentre Luca parla più della perseveranza, fatica e successo del Pastore che ci dà un dettaglio visto nella “allegrezza nel cielo per un solo peccatore che si converte”.

In Matteo Gesù parla ai discepoli, liberi di chiedergli spiegazioni e ulteriori dettagli, in Luca il messaggio è rivolto a una categoria di persone diversa che doveva capire immediatamente il messaggio perché si erano avvicinati a lui “per ascoltarlo”, quindi avevano urgente bisogno di sapere cosa rappresentavano loro per Lui e per il Padre piuttosto che venire ammaestrati attorno alla Legge come, ad esempio, avvenne nel sermone sul monte quando si trattava di presentare, a persone inserite a pieno titolo nella Congregazione di Israele e quindi frequentanti la Sinagoga e i suoi maestri, la Legge e i Profeti.

Qui, il messaggio di Nostro Signore si fa diretto, specifico sulla condizione sociale del suo uditorio, cioè i “perduti”, gli “smarriti”, i “figli bisognosi di un padre misericordioso” più che di un giudice, per quanto giusto. Le parabole sono tre perché dare altri esempi non sarebbe stato possibile in quanto tre è il numero della perfezione di Dio; fossero state quattro, l’accento si sarebbe posto sull’uomo che, nei confronti dell’Eterno, può essere soltanto debitore. Poi, qualora fossero ancora presenti, gli scribi e i farisei avrebbero potuto avere degli elementi in più per capire la loro posizione, fuori tanto dal concetto delle pecore perdute quanto dal numero dei veri “giusti” anche alla luce dei dettagli nascosti nelle parabole, ma che loro avrebbero potuto individuare.

Come già annotato in un precedente capitolo, i numeri 100 e 99 sono figura rispettivamente della completezza e dell’incompletezza, di ciò che si ha e di ciò che viene tolto, della menomazione. La pecora che si perde, una, è un simbolo, cifra che allude al singolo come ce ne sono tanti, ad esempio come l’autore del Salmo 119 che nell’ultimo verso scrive “Mi sono perso come pecora smarrita; cerca il tuo servo: non ho dimenticato i tuoi comandi”, dal quale rileviamo che l’uomo, quando e se si perde, da solo non ha alcuna speranza di ritornare alla via che ha lasciato; ogni suo sforzo in proposito è inutile e solo con l’esaudimento della preghiera, “cerca il tuo servo”, l’ovile può essere ritrovato. “Non ho dimenticato i tuoi comandi”, poi, ha connessione con lo stato di appartenenza a Dio che non può mai essere tolto. Il salmista confessa di essersi “perso come pecora smarrita” per cui ammette tutta la propria fragilità, uno sbaglio di cui non si è forse neppure reso conto, una distrazione che lo ha condotto lontano e per questo comprende tutta la necessità del belare forte per poter essere ritrovato.

Poi, possiamo ricordare Isaia 53 che descrive perché Gesù sia il Pastore per eccellenza: “Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti”: qui le pecore, certamente più di una, ma comunque “una” perché il gregge è composto da individui ciascuno diverso dall’altro, non sono state in grado di seguire il pastore. La Legge, i suoi maestri, le guide del popolo, avevano fallito e la conseguenza era stata la dispersione degli animali. Era un gregge potenziale, ma ciascun elemento vagava seguendo il proprio istinto che certo non contemplava le capacità di orientamento. La frase “ognuno di noi seguiva la sua strada” allude proprio alla pluralità degli interessi, delle idee, degli intendimenti di ciascuno che, senza la fedeltà alla Parola di Dio, portano alla progressiva lontananza da Lui.

E infatti nel nostro testo quando abbiamo letto “non va in cerca di quella perduta, finché non la trova” altro non abbiamo che la descrizione del ruolo di Gesù che disse in Luca 19.10 “il Figlio dell’uomo è venuto a cercare e salvare ciò che era perduto”. Facciamo caso a come di definisce, “Figlio dell’uomo”, cioè non dice “Io sono venuto (etc.)”, ma Gli preme presentarsi come uno di noi, per quanto diverso perché altrimenti avrebbe potuto magari trovare, ma non certo salvare. E questi due verbi sono fondamentali, totali, mostrano la Sua potenza perché, se in Matteo abbiamo letto che “è volontà del Padre vostro che è nei cieli, che neanche uno di questi piccoli si perda”, sappiamo che, una volta trovati, è impossibile che possiamo cadere vittime di chiunque e quindi morire: “Le mie pecore ascoltano la mia voce; io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno mai perdute e nessuno le rapirà dalla mia mano. Il Padre mio che me le ha date è più grande di tutti e nessuno può rapirla dalla mano del Padre mio. Io e il Padre siamo una cosa sola” (Giovanni 10.27-30).

Ricordiamo anche le parole della preghiera di Gesù al Padre in Giovanni 17 a proposito dei discepoli, “Io ho curato coloro che tu mi hai dato e nessuno di loro è perito, se non il figlio della perdizione” (v.12), cioè Giuda Iscariotha.

Tornando al testo, abbiamo “va in cerca di quella perduta, finché non la trova”, cioè si ferma solo una volta raggiunto l’obiettivo e poi la gioia del ritrovamento non gli fa sentire la fatica. E trovare la pecora perduta è figura della sua salvezza perché “Quando però si sono manifestati la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini, egli ci ha salvati non in virtù di opere di giustizia da noi compiute, ma per la sua misericordia mediante un lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo, effusa da lui su di ni abbondantemente per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro, perché giustificati dalla sua grazia diventassimo eredi, secondo la speranza della vita eterna” (Tito 3. 4-7).

Il ritorno all’ovile del pastore è descritto con le parole “pieno di gioia”, dalle quali traspaiono l’amore per quella creatura perduta che, una volta tornata all’ovile, avrebbe ripristinato il numero 100, la pienezza. E qui viene anticipato il tema della “gioia nel cielo” comunque già rivelato in Ezechiele 18.21-23: “Ma se il malvagio si ritrae da tutti i peccati che ha commesso e osserva tutti i miei decreti e agisce con giustizia e rettitudine, egli vivrà, non morirà. Nessuna delle colpe commesse sarà ricordata, ma vivrà per la giustizia che ha praticata. Forse che io ho piacere della morte del malvagio – dice il Signore Dio – o non piuttosto che desista dalla sua condotta e viva?”.

Iddio, tramite Ezechiele, chiama al ravvedimento lasciando all’uomo l’intera responsabilità di questa operazione, certo difficile, quasi spropositata in quanto alle forze che richiede una simile condotta; nel Nuovo Patto, però, se tutto ciò avviene comunque con sforzo, è lo Spirito a guidare nel cammino ed è il Figlio di Dio che si carica la pecora sulle spalle e la riporta all’ovile nel senso che la libera dalla morte certa nel deserto, ma dovrà comunque continuare la propria vita nel gregge, protetta dalle attenzioni del Pastore che ha dato se stesso per lei.

Ancora, nel caricare la pecora sulle spalle vediamo il prendere su di sé il peccatore con tutta la sua storia e non solo: nella Scrittura avere qualcosa sulle spalle è sinonimo di responsabilità (Isaia 9.5, “Sulle sue spalle è il potere”), e questo ci porta a 53.4-6, “Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti. Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti”. Da notare in questo ultimo verso “Noi tutti”  e “ognuno” che pongono l’accento sul fatto che il gregge è una collettività di individui: è importante tanto l’insieme quanto il singolo.

Dettaglio assente in Matteo è il fatto che il pastore “va a casa, chiama i vicini” e li invita a rallegrarsi con lui “perché ho trovato la mia pecora, che era perduta”: il pastore si rallegra assieme ai suoi simili e questo ci spiega la “gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte”. Alla gioia partecipano tutti gli esseri spirituali perché il “regno dei cieli” è l’insieme di tutte quelle entità che hanno partecipato e gioito non alla creazione, ma a tutte le fasi successive che hanno caratterizzato le dispensazioni. E penso agli Angeli, ai Cherubini, ai Serafini, alle schiere celesti e a tutte le anime dei salvati che troviamo descritte nel libro dell’Apocalisse. Infatti al verso 10 di questo stesso capitolo leggiamo “Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte”. Quindi anche noi, quando ci siamo convertiti, abbiamo provocato gioia in cielo. E il perché di questa gioia è descritta non solo nella pecora, ma anche nella moneta perduta e nella figura detta del “figlio prodigo”. Quindi anche noi, proprio per la gioia portata, abbiamo la responsabilità di mantenerla tale con una condotta pura per quanto soggetti a cadere.

Va bene, ma i “novantanove giusti” chi sono? Per rispondere occorre chiedersi chi può essere definito come tale. Si potrebbe ipotizzare che i “giusti” siano tutti coloro che sono stati salvati, perché “giustificati per fede” secondo Romani 5.1 e questo non sarebbe sbagliato anche se resta comunque aperto il problema dei peccati che commettiamo ogni giorno. In realtà, i novantanove in questo caso sono i farisei non nel senso che siano giusti, ma che tali si ritenessero e per questo erano convinti di essere per il loro Dio motivo di compiacimento e gioia. Ricordiamo qual era l’atteggiamento farisaico nella loro preghiera in Luca 18.11,12: “Il fariseo, stando in piedi, pregava così fra sé: «O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”.

Quindi, con questa frase che conclude la parabola, Gesù pone scribi e farisei in secondo piano e pone l’accento sui peccatori che, ascoltandolo, avevano molte più probabilità di loro di risolvere una volta per tutte il problema della loro destinazione finale spirituale. “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati” fu un’altra frase rivolta a loro proprio al convito di Levi Matteo (9.9-13): attenzione a considerarsi dei giusti sempre e comunque, perché così non può essere; tutt’al più, può essere al massimo un’illusione perché “chi crede di stare in piedi, badi di non cadere” (1 Corinti 10.12).

Concludendo, abbiamo cercato di sviluppare la prima parabola. Pecora, moneta (o Dramma) e il figlio prodigo sono tutte figure di chi si è perduto: la pecora dall’ovile, la moneta da un contenitore, il figlio dalla casa del Padre, tre elementi diversi tra loro, ma tutti oggetto di attenzione da parte di Dio. E sulle cure che ha delle pecore, possiamo leggere Ezechiele 34.16: “Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e le farò riposare. Oracolo del Signore. Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile la smarrita, fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia”. Amen.

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14.09 – I PUBBLICANI E I PECCATORI ASCOLTANO GESÙ (Luca 15.1,2)

14.09 – I pubblicani e i peccatori ascoltano Gesù (Luca 15.1,2)

 

 

1Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. 2I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro».

 

Il capitolo 15 di Luca è dedicato al tema del recupero del peccatore attraverso tre parabole: la pecora smarrita, la moneta perduta e il figlio prodigo, ciascuna delle quali si occupa di un aspetto dell’opera di Gesù e di come viene considerato l’uomo da Lui e dal Padre. L’antefatto è simile a quello narrato da Matteo in 9.10-13 che ricordiamo: “Mentre sedeva a tavola nella casa – quella di Matteo che aveva dato un convito per dare l’addio alla sua professione – sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e se ne stavano a tavola con Gesù e con i suoi discepoli. Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: «Come mai il vostro maestro mangia assieme ai pubblicani e peccatori?». Udito questo, disse: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate a imparare che cosa vuol dire: «Misericordia io voglio e non sacrifici». Io non sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori»”.

Lo scenario offertoci da Luca è simile a quello di Matteo anche se, nel suo caso, i “pubblicani e i peccatori” si raccolgono per un profondo interesse sugli insegnamenti di Gesù. Per inquadrare correttamente la scena va specificato che quel “tutti” del verso 1 non vuole comprendere la totalità dei pubblicani e peccatori presenti in città (non ci viene detto quale), ma quelli tra la folla: saputo della Sua presenza, chi di loro era in zona accorse per ascoltarlo e “si avvicinavano a lui”, provocando per reazione il ritrarsi dei farisei e degli scribi che, scandalizzati, Lo accusarono di accogliere i peccatori e mangiare con loro. Sappiamo che era l’esatto contrario che quelle persone facevano nei confronti del loro prossimo, che disprezzavano e dal quale si tenevano accuratamente separati.

Ora, prima di esaminare le tre parabole, credo sia giusto soffermarsi sull’azione dell’ascoltare, verbo che oggi ha perso molto del suo significato originale. In un mondo in cui ciò che è importante è apparire, andare veloci, intuire anziché elaborare, avere una vaga idea di qualcosa (ed è anche troppo), riempire il proprio tempo non importa con cosa ma basta che sia, riesce difficile pensare che l’ascolto coinvolga tutta la persona perché si tratta di un’arte che richiede sforzo. Il vero ascolto si basa attraverso l’analisi, il voler ricordare, è prendere appunti utilizzando la mente come quaderno, è elaborare, mettere da parte alcuni dati per analizzarli immediatamente o dopo a seconda della loro complessità.

Il verso 1 del nostro passo parla dei “pubblicani e peccatori” che “si avvicinarono a lui per ascoltarlo”, non per parlargli, evidentemente ritenendo quanto avevano da dirgli qualcosa di secondario rispetto agli insegnamenti che avrebbero potuto ricevere. Erano lì, consapevoli dell’importanza del personaggio che avevano davanti, che non mandava via nessuno realizzandosi nell’essere servo. Non abbiamo problemi a identificare i pubblicani, riscossori di tasse e tributi per il governo di Roma, ma i “peccatori”? Era un termine che si riferiva a persone che non avevano buona fama, individui che notoriamente trasgredivano la Legge morale o cerimoniale per cui, agli occhi dei farisei e loro accoliti, erano considerati al livello più basso della popolazione che già mal sopportavano. Ebbene queste persone, consapevoli del loro stato, evitate dagli altri, vengono e ascoltano.

L’ascolto è un’azione, una scelta consigliata nei confronti di Dio che porta conseguenze precise: “Sì, lo smarrimento degli inesperti li ucciderà e la spensieratezza degli sciocchi li farà perire; ma chi ascolta me vivrà in pace e sarà sicuro senza temere alcun male” (Proverbi 1.32,33); “Beato l’uomo che mi ascolta, vegliando ogni giorno alle mie porte – per tendere l’orecchio qualora giunga un ordine –, per custodire gli stipiti della mia soglia. Infatti, chi trova me trova la vita e ottiene il favore del Signore; ma chi pecca contro di me fa male a se stesso: quanti mi odiano amano la morte” (8.34). In questo caso, allora, i “pubblicani e i peccatori” compiono il primo passo verso la loro salvezza.

L’ascolto è l’unico mezzo per imparare ed essere in grado di esprimere pensieri appropriati (21.28) “Il falso testimone perirà, ma chi ascolta potrà parlare sempre”), e, se si tratta delle parole di Dio, porta a una conoscenza reciproca che non potrà portare che benefici: “Ho sperato, ho sperato nel Signore, ed egli su di me si è chinato, ha dato ascolto al mio grido” (Salmo 40.1). Ancora, Salmo 66.18,19: “Se nel mio cuore avessi cercato il male, il Signore non mi avrebbe ascoltato. Ma Dio ha ascoltato, si è fatto attento alla voce della mia preghiera”. Cercavano quindi una relazione con Gesù quelle persone? Forse rispondere affermativamente è azzardato, ma nei due versi dei Salmi citati è chiaro che l’ascolto della Paola di Dio, certo con l’intenzione di identificarsi in lei e metterla in pratica, porta a quello di Dio nei confronti dell’uomo. Si tratta di una relazione reciproca che si instaura.

L’ascolto è infatti il modo migliore per ottenere, è un aspetto della rinuncia a se stessi: “Bada ai tuoi passi quando ti rechi alla casa di Dio. Avvicìnati per ascoltare piuttosto che offrire sacrifici, come fanno gli stolti, i quali non sanno di fare del male” (Ecclesiaste 4.17) dove “ascoltare” e “offrire sacrifici” sono la descrizione di ciò che abita nel cuore dell’uomo: chi si mette all’ascolto di Dio sa di avere solo da imparare, che dovrà accogliere quanto gli verrà detto; chi offre sacrifici porta del suo, adempie a una regola, può farlo anche svogliatamente, sbadatamente perché si tratta di una formalità da adempiere esattamente come fanno oggi quei cristiani che frequentano la Chiesa soltanto la domenica e vivono tutti gli altri giorni come se Dio non esistesse. Entrano in un luogo e ne escono esattamente come prima, nulla è cambiato in loro; al limite, si ritengono soddisfatti di avere adempiuto a un precetto o a un’usanza.

Torniamo un attimo sul nostro versetto 1: Luca scrive che “Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo”, ma non che, a un certo punto come avvenne con altre persone, si allontanarono da lui scandalizzati, quindi costituiscono un esempio. Non si dice che si convertirono, ma è talmente grande il divario tra il loro comportamento e quello dei farisei da non porli in opposizione a Gesù. Si è parlato dell’ascolto, ma non del suo contrario, l’indifferenza, il proseguire per la propria strada, l’ostinato rifiuto dell’appello al ravvedimento.

Così leggiamo in 2 Re 17.12-14: “…servirono gli idoli dei quali il Signore aveva detto: «Non farete una cosa simile!». Eppure il Signore, per mezzo di tutti i suoi profeti e dei veggenti, aveva ordinato a Israele e a Giuda: «Convertitevi dalle vostre vie malvagie e osservate i miei comandi e i miei decreti secondo tutta la legge che io ho prescritto ai vostri padri e che ho trasmesso a voi per mezzo dei miei servi, i profeti». Ma essi non ascoltarono, anzi resero dura la loro cervice, come quella dei loro padri, i quali non avevano creduto al Signore, loro Dio”.

Ecco, qui abbiamo la descrizione di comportamenti assurdi da parte del popolo: idolatria, percorrere vie diverse da quelle indicate loro, non ascoltare e infine non credere. Potremmo definirli peccati, eppure Geremia 11.19 Iddio dice “Ma è proprio me che offendono, o non piuttosto se stessi, a loro stessa vergogna?”. Al verso 24 “Essi non ascoltarono né prestarono orecchio alla mia parola; anzi, procedettero ostinatamente secondo il loro cuore malvagio e, invece di rivolgersi verso di me, mi hanno voltato le spalle”.

Il non ascolto della parola di Dio quindi porta alla rovina che, nell’immediato per Israele di allora, si caratterizzava con eventi negativi ad alta sofferenza se non mortali, ma per l’uomo d’oggi si concreta nell’esclusione dal Regno.

I farisei, gli scribi, i rettori del popolo, avevano la possibilità di ascoltare il Figlio di Dio, come dalla voce dal cielo “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento” (Matteo 3.17) e non lo fecero tranne alcuni di loro che rimasero nell’ombra, ma al loro posto ecco arrivare davvero gli ultimi, magari non per povertà, ma certo per disprezzo.

Il non ascolto porta infatti a prestare attenzione a particolari irrilevanti per una corretta visione, se non dei dettagli, almeno d’insieme che è quella che poi conta per determinare il dunque della persona: il verso 2, “I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro»”, non contiene alcun riferimento alle parole che Gesù diceva a tutti, farisei e scribi compresi: le tre parabole furono rivolte anche a loro, non solo ai “pubblicani e ai peccatori” che, ascoltando nel vero senso della parola, avranno capito che non esiste errore e peccato tanto grande da non venire perdonato e che il destino del peccatore, qualora lo voglia davvero, non è quello di “bruciare all’inferno”, ma quello di trovare accoglimento e perdóno. Tutta quella gente raccoltasi attorno a Gesù, stava considerando seriamente se non era il caso di cambiare vita, tornare indietro, diventare membri della famiglia di Dio.

Guardando ai verbi del secondo versetto vediamo il primo, “mormorare”, cioè per l’originale greco “ad alta voce, in crocchi, fra loro”. Anche qui si circondano di un muro ideale e fanno corporativismo facendo leva sul loro stile di vita che ritenevano puro per giudicare chi non potevano, rendendosi in tal modo simili a tutti coloro che, facendo leva sulla loro morale ridotta e su principi assolutamente personali, da sempre si sentono autorizzati a giudicare il loro prossimo senza mai preoccuparsi della loro coerenza.

Il secondo verbo è “dire”. Quando una persona “dice” qualcosa è sempre per esprimere il proprio pensiero o ciò che ha acquisito. Qui possiamo andare a Matteo 12.34 quando, parlando proprio a quella categoria di persone, Gesù così si espresse: “Razza di vipere, come potete dire cose buone, voi che siete cattivi? La bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda”.

Gli ultimi due verbi sono “accogliere” e “mangiare”: il primo significa “ricevere presso di sé, ammettere nel proprio gruppo”, quindi non innalzare barriere. Gesù non mandò via i pubblicani dimostrando di non aderire all’orgoglio nazionale e neppure gridò contro “i peccatori” dando per scontato che la loro posizione fosse di impedimento a venire salvati. Quelle due categorie di persone non andavano a lui per curiosità o per vedere qualche miracolo, ma “per ascoltarlo” e questo faceva di loro persone degne di essere accolte. Il “mangiare” poi è qualcosa che non necessariamente si verificò quel giorno, ma può essere una reminiscenza del convito dato da Levi Matteo, quando fu mossa a Gesù un’identica accusa e fu tramandata stante, per gli scribi e farisei, la sua gravità.

Mangiare con qualcuno, infatti, era sinonimo di familiarità, soprattutto condivisione e identificazione. E Gesù si identificò col peccatore, ma non col peccato, cosa che solo Lui poteva fare. Ricordiamo infatti 1 Corinti 5.11: “Vi ho scritto di non mescolarvi con chi si dice fratello ed è immorale o avaro o idolatra o maldicente o ubriacone o ladro: con questi tali non dovete neanche mangiare insieme”.

Concludendo, penso a quei pubblicani e peccatori che, accostandosi a Lui per ascoltarlo, fecero il primo, importante passo per il loro destino spirituale; il loro sarebbe stato un ascolto che avrebbe portato a una scelta che difficilmente non si sarebbe verificata, quella dell’accoglienza Sua secondo Giovanni 1.12, “A quanti lo hanno accolto, ha dato il potere di diventare figli di Dio”. Amen.

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14.04 – IL LAMENTO DI GESÙ SU GERUSALEMME (Luca 13.34,35)

14.04 – Il lamento di Gesù su Gerusalemme (Luca 13.34,35)         

 

34Gerusalemme, Gerusalemme, tu che uccidi i profeti e lapidi quelli che sono stati mandati a te: quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia i suoi pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto! 35Ecco, la vostra casa è abbandonata a voi! Vi dico infatti che non mi vedrete, finché verrà il tempo in cui direte: Benedetto colui che viene nel nome del Signore!».

 

            Direttamente connesso al verso precedente, quando Gesù disse che “non è possibile – o “conveniente” – che un profeta muoia fuori di Gerusalemme”, il verso 35 è una dichiarazione d’amore alla “Santa Città” che, rimanendo tale nei piani di Dio sotto la prospettiva di quella “celeste”, affidata agli uomini, ha fallito il suo mandato.

Iniziamo allora dal nome, “Gerusalemme”, che tradotto significa “fondazione di pace”, cioè Salem. Questo ci ricorda “Melchidedek, re di Salem” (Genesi 14.18), e soprattutto uno dei due monti su cui essa sorge, sul quale Abrahamo stava per sacrificare Isacco. Altro suo nome è Sion, essenzialmente “Segno”. E “Segno” infatti fu sempre: fu la “Città di Davide” in cui trasportò l’arca dell’alleanza e Salomone vi costruì il Tempio che andò a sostituire la tenda del convegno. L’area del Tempio occupava la cima del monte Moria, quello del sacrificio di Isacco. Sion fu il nome del Moria.

Gerusalemme, proprio in quanto figura spirituale, in un certo senso “Città di Dio” con il Tempio in cui JHWH dimorava, rappresentò sempre il termometro spirituale del popolo di Israele e dei suoi conduttori: fu per giudizio che la città ebbe le mura abbattute e la popolazione fu deportata (2 Re 25.1-21), per perdóno che nel 538 Ciro emanò il famoso editto che autorizzò il ritorno in patria degli ebrei.

Fu retta dai Persiani, occupata da Alessandro Magno (332 a.C.), dai re Tolomei d’Egitto e dai Seleucidi siriani, nel 167 abbiamo la profanazione di Antioco Epifane di cui abbiamo parlato, la riconquista con Giuda Maccabeo e poi nel 63 Pompeo, generale romano, la riconquistò insediandovi come re Erode il Grande.

Quello che è stato definito il “lamento di Gesù su Gerusalemme”, riportato identico da Matteo (13.34,35) anche se probabilmente si verificò in un altro momento, è anche un atto d’accusa: la città che coi suoi abitanti avrebbe dovuto illuminare il mondo, rifiutò questo compito uccidendo i profeti e lapidando quelli che erano stati inviati a lei; tramite loro Dio avrebbe voluto raccogliere il popolo sotto le Sue ali dove avrebbe ricevuto amore e protezione. Nello scorso studio erano stati citati Zaccaria figlio di Ioiadà, ucciso dal re Ioas, ma sono molti di più, come riassume Nehemia 9.25,26 quando leggiamo “Essi si sono impadroniti di città fortificate e di una terra grassa e hanno posseduto case piene di ogni bene, cisterne scavate, vigne, oliveti, alberi da frutto in abbondanza; hanno mangiato e si sono saziati e si sono ingrassati e sono vissuti nelle delizie per la tua grande bontà. Ma poi hanno disobbedito e si sono ribellati contro di te, si sono gettati la tua legge dietro le spalle, hanno ucciso i tuoi profeti che li ammonivano per farli tornare a te, e ti hanno insultato gravemente”. È comunque raccomandabile la lettura dei versi successivi che testimoniano l’indurimento di cuore del popolo cui si contrappone l’amore di Dio che chiama alla conversione.

L’uccisione dei profeti è riportata da molti passi dell’Antico Patto, ad esempio Geremia 2.30 (“La vostra spada ha divorato i vostri profeti come un leone distruttore”), ma è sufficiente andare alle parole di Gesù nella parabola dei contadini omicidi per capire la portata del misfatto operato dal popolo e dai suoi rettori: “Ma i contadini presero i servi e uno lo bastonarono, un altro lo uccisero, un altro lo lapidarono. Mandò di nuovo altri servi, più numerosi dei primi, ma li trattarono allo stesso modo” (Matteo 21-35.36).

È chiaro che l’uccisione di un profeta è il rifiuto più eloquente di ascoltare il messaggio di Dio che lo ha inviato, talché “Il mio popolo non ha ascoltato la mia voce, Israele non mi ha obbedito: l’ho abbandonato alla durezza del suo cuore. Seguano pure i loro progetti!” (Salmo 81.12,13). Ma dove li avrebbero portati questi progetti, anche quelli di oggi? Nel nostro passo abbiamo parole differenti, ancora più crude perché dicendo “la vostra casa è abbandonata a voi”, che una traduzione migliore riporta con “La vostra casa è lasciata deserta”, si allude chiaramente a ciò che contiene, cioè il Tempio, centro di tutto il Giudaismo, in cui l’Iddio di Israele abitava: questi sarebbe stato lasciato vuoto, la presenza del Signore se ne sarebbe andata per sempre e la dimostrazione di ciò sarebbe stato proprio il fatto che tutta Gerusalemme sarebbe stata data in mano ad altri: nel 70 d.C. le armate di Tito conquistarono la città, ne abbatterono le mura e incendiarono il Tempio. In una guerra avvenuta anni dopo, nel 135, l’imperatore Adriano distrusse sistematicamente la città ricostruendola sul modello delle città coloniali romane e, tra l’altro, cambiò in nome da Gerusalemme a Ælia Capitolina.

Confrontando questi dati con le parole del pianto di Gesù su Gerusalemme in Luca 19.42-44 ne vediamo l’adempimento: “Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, quello che porta alla pace! Ma ora è nascosto ai tuoi occhi. Per te verranno giorni in cui i tuoi nemici ti circonderanno di trincee, ti assedieranno e ti stringeranno da ogni parte, distruggeranno te e i tuoi figli dentro di te e non lasceranno in te pietra su pietra, perché non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata”.

Ad aggravare poi la drammaticità del tutto è il fatto che il rifiuto dell’ascolto del Figlio di Dio equivaleva a quello di Dio stesso e il libro del Levitico, quindi la Torah, annunciava le medesime, terribili conseguenze: “Se, nonostante tutto questo non vorrete darmi ascolto, ma vi opporrete a me, anch’io mi opporrò a voi con furore e vi castigherò sette volte di più per i vostri peccati. Mangerete perfino la carne dei vostri figli e mangerete la carne delle vostre figlie. Devasterò le vostre alture, distruggerò i vostri altari per l’incenso, butterò i vostri cadaveri sui cadaveri dei vostri idoli e vi detesterò. Ridurrò le vostre città a deserti, devasterò i vostri santuari e non aspirerò più il profumo dei vostri incensi. Devasterò io stesso la terra, e i vostri nemici, che vi prenderanno dimora, ne saranno stupefatti. Quanto a voi, vi disperderò fra le nazioni e sguainerò la spada dietro di voi; la vostra terra sarà desolata e le vostre città saranno deserte.” (26.27-33). Gerusalemme, allora, qui è un termine che riguarda la città quanto all’uccisione dei profeti, ma tutto Israele quanto a giudizio.

Ebbene, Gesù con le parole “Quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia i pulcini sotto le sue ali”, parla come Pastore del suo popolo e si riferisce non solo ai suoi tre anni di ministero, ma a tutte le Sue iniziative nella storia, attuate da Lui o dai profeti mandati perché lo riconoscessero una volta nato sulla terra. Come dice l’apostolo Pietro nella sua prima lettera (1.11), “essi cercavano di sapere quale momento o quali circostanze indicasse lo Spirito di Cristo che era in loro, quando prediceva le sofferenze destinate a Cristo e le glorie che le avrebbero seguite”. Le “volte” in cui Gesù volle raccogliere i figli di Gerusalemme (come simbolo e destinazione finale) furono davvero innumerevoli.

Il riferimento alle ali, poi, non è una forma poetica, ma la descrizione degli intendimenti di protezione come avvenuto con Giacobbe, poi chiamato Israele di cui è detto “Egli – il Signore – lo trovò in una terra deserta, in una landa di ululati solitari. Lo circondò, lo allevò, lo custodì come la pupilla del suo occhio. Come un’aquila che veglia la sua nidiata, che vola sopra i suoi nati, egli spiegò le ali e lo prese, lo sollevò sulle sue ali” (Deuteronomio 32.10,11). Vediamo che alla “chioccia” qui è sostituita l’ “aquila” non perché rapace, ma per le altezze che è in grado di raggiungere oltre alla vista acuta, mentre il concetto di “nidiata” rimane intatto. Inoltre, la metafora delle ali non era certo sconosciuta: ricordiamo le parole di Booz a Rut in 2.12 del libro omonimo: “…sia davvero piena per te la ricompensa da parte del Signore, Dio d’Israele, sotto le cui ali sei venuta a rifugiarti”. Anche Salmo 36.8 e molti altri passi che non riporto alludono alla stessa situazione: “Quanto è prezioso il tuo amore, o Dio! Si rifugiano gli uomini all’ombra delle tue ali”.

Eppure Gesù dice “e non avete voluto!”. Qui l’attenzione da prestare è grande perché coinvolge anche gli uomini di ogni tempo: non è detto “…e non avete capito”, o “avete frainteso”, ma chiama in causa una volontà cosciente e lucida, una scelta paragonabile a Giovanni 5.40, “Voi non volete venire a me per cambiare vita”. La volontà infatti nasce dal cuore, dall’anima e dallo spirito dell’essere umano che, purtroppo, nella maggioranza dei casi preferisce fare affidamento alle proprie forze, convinto di scegliere e decidere da sé il proprio destino, convinto di vivere sempre un eterno presente e realizzando purtroppo quando ormai è tardi che così non è. E possiamo ricordare Proverbi 1. 28-31: “Allora mi invocheranno, ma io non risponderò, mi cercheranno, ma non mi troveranno. Perché hanno odiato la sapienza e non hanno preferito il timore del Signore, non hanno accettato il mio consiglio e hanno disprezzato ogni mio rimprovero; mangeranno il frutto della loro condotta e si sazieranno delle loro trame”.

Proseguendo nella lettura del nostro passo abbiamo l’ ”Ecco, la vostra casa è abbandonata a voi”, su cui torno ancora un attimo: abbiamo il motivo nel senso che “Ecco” qui ci da la modalità dell’abbandono: “Da ora innanzi non mi vedrete” nel senso che Gesù, Uno col Padre, con la Sua assenza provocherà l’invisibilità di Dio a quello che era il Suo popolo. Il rifiuto del Cristo quale Dio invisibile, “Padre per sempre” secondo Isaia, sarebbe stata cosa ben peggiore rispetto a quando Israele abbracciò l’idolatria e servì dèi stranieri.

A questo punto però vediamo che l’abbandono non sarà definitivo come rilevabile dal “finché diciate”, cioè “non mi riconoscerete per quello che sono”, cioè “Colui che viene nel nome del Signore”, parole tratte da Salmo 118.26 e che, per quanto dette dalla folla quando Gesù fece il suo ingresso trionfale in Gerusalemme (Matteo 21.9), hanno connessione al tempo della fine, quando Israele riconoscerà proprio in Lui il Messia promesso: quando Nostro Signore morì, Giovanni nel suo Vangelo fece due annotazioni in 19.36: “Questo avvenne perché si compisse la scrittura: «Non gli sarà spezzato alcun osso». E un altro passo della Scrittura dice ancora: «Guarderanno a colui che hanno trafitto»”.

Ora, se la prima è chiara perché il colpo di lancia del soldato romano non spezzò nessun osso e a Gesù non furono rotte le gambe perché era già morto, la seconda va oltre alla semplice constatazione del popolo della Sua morte, coinvolgendolo nel futuro: infatti “Non voglio che ignoriate, fratelli, questo mistero, perché non siate presuntuosi – disprezzando Israele –: l’ostinazione di una parte di Israele è in atto fino a quando non saranno entrate tutte le genti – cioè non sarà compiuto il numero dei salvati –. Allora tutto Israele sarà salvato, come sta scritto: «Da Sion uscirà il liberatore, egli toglierà l’empietà da Giacobbe. Sarà questa la mia alleanza con loro quando distruggerò i loro peccati». Quanto al Vangelo, essi sono nemici, per vostro vantaggio – nel senso che, se non lo avessero rifiutato, le dinamiche della salvezza sarebbero state differenti –; ma quanto alla scelta di Dio, essi sono amati a causa dei padri, infatti i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili! Come voi un tempo siete stati disobbedienti a Dio e ora avete ottenuto misericordia a motivo della loro disobbedienza, così anch’essi ora sono diventati disobbedienti a motivo della misericordia da voi ricevuta, perché essi ottengano misericordia.” (Romani 11.25-32).

Sarà cura del prossimo studio esaminare, per quanto consentito dallo Spirito, le modalità del ritorno di Israele a Cristo: lo faremo esaminando il capitolo 14 del libro di Zaccaria.

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14.03 – DITE A QUELLA VOLPE (Luca 13.31-33)

14.03 – Dite a quella volpe (Luca 13.31-33)

 

31In quel momento si avvicinarono alcuni farisei a dirgli: «Parti e vattene via di qui, perché Erode ti vuole uccidere». 32Egli rispose loro: “Andate a dire a quella volpe: «Ecco, io scaccio demòni e compio guarigioni oggi e domani; e il terzo giorno la mia opera è compiuta. 33Però è necessario che oggi, domani e il giorno seguente io prosegua nel cammino, perché non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme»”.

 

            L’episodio si apre con un gruppo di Farisei che esortano Gesù ad andarsene stante le intenzioni ostili di Erode. Ciò avvenne “in quel momento” secondo la nostra traduzione, o “In quello stesso giorno” stando ad altre, dopo la risposta alla domanda “Signore, sono pochi coloro che si salvano?”.

A questo punto, per analizzare il nostro passo, coi Farisei che si avvicinano a Nostro Signore e lo invitano ad andarsene perché Erode voleva ucciderlo, occorre ragionare sulle condizioni che si erano venute a creare: partendo dal “re”, è chiaro che la presenza di Gesù nei suoi territori, la Transgiordania, lo infastidiva anche perché gli rammentava l’omicidio di Giovanni Battista. Ricordiamo infatti Matteo 14.2, “Egli disse ai suoi cortigiani: «Costui è Giovanni Battista. È risorto dai morti e per questo ha il potere di fare prodigi»”, ma anche Marco 6.16 “Ma Erode, al sentirne parlare, diceva: «Quel Giovanni che io ho fatto decapitare, è risorto»”.

Una persona superstiziosa come Erode, quindi, preferì fare in modo che si allontanasse da quei territori utilizzando i Farisei di cui, come abbiamo già avuto modo di considerare, si era già servito per attirare Giovanni nella sua giurisdizione per poterlo catturare.

L’invito ad andarsene da quei luoghi “perché Erode ti vuole uccidere”, poi, rivela come i Giudei non avessero capito nulla di Gesù, essendo convinti che quella frase fosse sufficiente a intimorirlo quasi che fosse un uomo qualunque, desideroso di prolungare la propria vita il più possibile.

La risposta che questi ebbero, “Andate a dire a quella volpe”, conferma i rapporti che intercorrevano tra loro ed Erode: li tratta cioè come suoi agenti e al tempo stesso ne rivela la profonda inadeguatezza davanti alla morale di Dio, essendosi alleati con un uomo sanguinario, un “malvagio” sul quale è “la maledizione del Signore” (Prov. 3.33).

In uno scorso studio ci siamo occupati della “volpe” e ne abbiamo sviluppato il significato; qui possiamo affrontare brevemente il tema della persona calcolatrice e operante a danno degli altri: il malvagio è colui che prova piacere nel fare il male restando indifferente alle conseguenze che esso provoca, ma anche colui che è avverso, cattivo, spiacevole, porta dolore, ha forza negativa. E da queste caratteristiche è facile individuare una relazione con l’Avversario. C’è però un particolare visto nell’indifferenza alle altrui sofferenze, nel disinteresse alle esigenze del nostro simile che è il peccato di Sodoma e dei suoi territori: pensando alla soddisfazione della propria persona e pur di raggiungere la soddisfazione individuale, non si fa caso agli altri né tantomeno a ciò che Dio si aspetta da noi. Il peccato di Sodoma fu proprio l’indifferenza, la sopraffazione, la santificazione dell’egoismo che portò, tra le altre cose, ad esercitare la promiscuità sessuale, omosessualità compresa.

E infatti leggiamo in Romani 1. 18-32: “…L’ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ogni ingiustizia di uomini che soffocano la verità nell’ingiustizia, poiché ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto; Dio stesso lo ha manifestato a loro. Infatti le sue perfezioni invisibili, ossia la sua eterna potenza e divinità, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo attraverso le opere da lui compiute. Essi dunque non hanno alcun motivo di scusa perché, pur avendo conosciuto Dio, non lo hanno glorificato né ringraziato come Dio, ma si sono perduti nei loro vani ragionamenti e la loro mente ottusa si è ottenebrata. Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti e hanno scambiato la gloria del Dio incorruttibile con un’immagine e una figura di uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e rettili – l’idolatria –. Perciò Dio li ha abbandonati all’impurità secondo i desideri del loro cuore, tanto da disonorare fra loro i propri corpi, perché hanno scambiato la verità di Dio con la menzogna e hanno adorato e servito le creature anziché il Creatore, che è benedetto in eterno, amen. Per questo Dio li ha abbandonati a passioni infami; infatti, le loro femmine hanno cambiato i loro rapporti naturali in quelli contro natura. Similmente anche i maschi, lasciando il rapporto naturale con la femmina, si sono accesi di desiderio gli uni per gli altri, commettendo atti ignominiosi maschi con maschi, ricevendo così in se stessi la retribuzione dovuta al loro traviamento. E poiché non ritennero di conoscere Dio adeguatamente, Dio li ha abbandonati alla loro intelligenza depravata ed essi hanno commesso azioni indegne: sono colmi di ogni ingiustizia, di malvagità, di cupidigia, di malizia; maldicenti, nemici di Dio, arroganti, superbi, presuntuosi, ingegnosi nel male, ribelli ai genitori, insensati, sleali, senza cuore, senza misericordia. E, pur conoscendo il iudizio di Dio, che cioè gli autori di tali cose meritano la morte, non solo le commettono, ma anche aprovano chi le fa”.

Un passo lungo che era doveroso riportare e che andrebbe meditato frase per frase per i rimandi che contiene.

 

Rientrando ora al nostro testo i Farisei, che avrebbero dovuto essere le guide spirituali del popolo, intrattenevano cordiali rapporti con una persona, Erode, che apparteneva alla categoria dei malvagi verso i quali la Scrittura ha parole di ferma condanna. Abbiamo poc’anzi citato il libro dei Proverbi: vediamo che “Il malvagio nel suo cuore trama cose perverse” (6.14), quindi non è solo banale cattiveria, su di lui “sopraggiunge il male che teme” (11.8), “non resterà impunito” (11.21), è “travolto dalla propria cattiveria” (14.32), la sua via “è retta ai propri occhi” (12.15), è stato “fatto per il giorno della sventura” (16.4), “non cerca altro che la ribellione, ma gli sarà mandato contro un messaggero senza pietà” (17.11). Interiormente e senza saperlo, poi, “fugge anche se nessuno lo insegue” (28.1) e un fratello un giorno disse che “sta male anche quando sta bene”, tutto questo anche se “vive a lungo nonostante la sua iniquità” (Ecclesiaste 7.15). Infine, per quanto deuterocanonico, Siracide 11.33, “Guàrdati dal malvagio, perché egli prepara il male: che non disonori per sempre anche te”. Ecco il rimprovero, o se preferiamo la realtà, che Gesù dichiara con il “Dite a quella volpe”: possiamo dire che “ce n’è” per Erode, ma anche per i Farisei che con lui formano un tutt’uno.

 

Fatta questa premessa, giungiamo al messaggio di Gesù al verso 32 e 33, che divideremo in due parti. La prima: “Ecco, io scaccio demòni e compio guarigioni oggi e domani; e il terzo giorno la mia opera è compiuta”. Qui Nostro Signore dà la descrizione più visibile, immediata, del Suo operare, cioè ridare la dignità all’uomo visibilmente, oggettivamente schiavo dell’Avversario tanto nelle forme più gravi della possessione, quanto in quelle più “lievi” ma moralmente non meno penose della malattia e del peccato. Poi parla anche di un’ “opera compiuta”, quindi di tutto quello che aveva fatto e farà perché non uno “iota” della Legge passasse, fosse adempiuto.

C’è poi ”oggi”, “domani” e “il terzo giorno la mia opera è compiuta”, espressione proverbiale per indicare un tempo molto breve, ma anche quelli di Dio che non si possono conoscere.

I giorni cui Gesù fa riferimento qui sono i due mesi e mezzo che mancano alla Sua morte, a quel “Tutto è compiuto” che costituisce, in pratica, la firma al Suo testamento, poi sigillato dalla risurrezione.

 

Questa frase di Gesù, poi, è anche un riferimento al fatto che né Erode né i farisei suoi alleati avrebbero potuto fare alcunché per interferire in quel periodo rappresentato da “oggi, domani e il terzo giorno”.

La seconda parte del messaggio ad Erode, quella al verso 33, riprende inizialmente il tema dei tre giorni: era necessario che Gesù continuasse nel Suo cammino “Oggi, domani e il giorno seguente”, il suo ultimo periodo di cui il numero tre attesta la perfezione del compiuto soprattutto alla luce della Sua divinità e partecipazione del Padre e dello Spirito Santo. Sarebbero stati giorni in cui Nostro Signore avrebbe proseguito “nel cammino”, cioè nelle ultime fasi di quell’itinerario preparato per Lui e per Lui solo. La nostra attenzione qui si sposta proprio sul “cammino” che, per quanto abbia attinenza con la geografia, ha comunque le stesse caratteristiche di quello compiuto fino ad allora, cioè di guarigione, insegnamento, liberazione.

Infine abbiamo letto “…perché non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme”: altri più propriamente traducono “non sarebbe conveniente” e si tratta di una frase che ha due significati, il primo che, per quanto Antipa potesse essere crudele, non poteva eguagliare il Sinedrio e i Sommi Sacerdoti che avrebbero istigato il popolo a che fosse condannato, il secondo che proprio Gerusalemme, la “Santa Città” era quella che uccideva i profeti e lapidava coloro che gli erano mandati (Luca 13.34,35) come vedremo nel prossimo studio.

Abbiamo infatti il caso di Zaccaria figlio di Gioiadà, lapidato nel cortile del tempio per ordine del re, reo di aver detto “Perché trasgredite i comandi del Signore? Per questo non avete successo: poiché avete abbandonato il Signore, anch’egli vi abbandona” (2 Cronache 24.20-22), di Uria, figlio di Semaià, passato a fil di spada e gettato nelle fosse della gente comune (Geremia 26.20-23). Ricordiamo anche 2 Cronache 36.15 che ricorda la deportazione babilonese: “Il Signore, il Dio dei loro padri, mandò premurosamente e incessantemente i suoi messaggeri ad ammonirli, perché aveva compassione del suo popolo e della sua dimora. Ma essi si beffarono dei messaggeri di Dio, disprezzarono le sue parole e schernirono i suoi profeti al punto che l’ira del Signore contro il suo popolo raggiunse il culmine, senza più rimedio”.

Altro episodio che possiamo ricordare è in Matteo 23.29-35 quando Gesù ricorda che lo stesso odio contro i messaggeri di Dio viveva ancora nel cuore dei rettori del popolo del suo tempo: “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che costruite le tombe dei profeti e adornate i sepolcri dei giusti, e dite: «Se fossimo vissuti al tempo dei nostri padri, non saremmo loro complici nel versare il sangue dei profeti». Così testimoniate contro voi stessi, di essere figli di chi uccise i profeti. Ebbene, voi colmate la misura dei vostri padri. Serpenti, razza di vipere, come potrete sfuggire alla condanna della Geenna? Perciò ecco, io mando o voi i profeti, sapienti e scrivi: di questi, alcuni li ucciderete  – Stefano, ad esempio – e crocifiggerete, altri li flagellerete nelle vostre sinagoghe e li perseguiterete di città in città; perché ricada su di voi tutto il sangue innocente versato sulla terra, dal sangue di Abele il giusto fino al sangue di Zaccaria, figlio di Barachia – o Gioiadà – che avete ucciso tra il santuario e l’altare. In verità vi dico: tutte queste cose ricadranno su questa generazione”.

Il sacrificio di Gesù il Cristo, sarebbe stato di liberazione e santificazione per pochi, di condanna senza possibilità di appello per molti. Amen.

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14.02 – COLORO CHE SI SALVANO II/II (Luca 13.26-30)

13.19 – Quelli che si salvano II/II (Luca 13.26-30) 

 

26Allora comincerete a dire: «Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze». 27Ma egli vi dichiarerà: «Voi, non so di dove siete. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia!». 28Là ci sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio, voi invece cacciati fuori. 29Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. 30Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi».

 

            Il verso 26 esprime una prima reazione alla risposta “Non so di dove siete” (che verrà ripetuta due volte). Anche qui il Padrone di casa viene trattato dagli esclusi come uno smemorato e un ingrato stante il fatto che disconosceva la relazione di familiarità intercorsa un tempo tra di loro: fanno riferimento all’aver “mangiato e bevuto alla tua presenza” e al fatto che Lui avesse “insegnato nelle nostre piazze”, privilegi di fronte ai quali non avevano però saputo trarre alcun vantaggio spirituale. Di quel mangiare e bere e di quell’insegnamento era rimasto il ricordo formale, ma non l’immedesimazione, il partecipare, la vera appartenenza. E anche qui ci ricolleghiamo al sermone sul monte: “Non chiunque mi dice: «Signore, Signore» entrerà nel regno dei cieli, ma chiunque fa la volontà del padre mio che è nei cieli. In quel giorno molti mi diranno: «Signore, Signore, non abbiamo noi forse profetato nel tuo nome? E nel tuo nome non abbiamo forse scacciato demòni? E nel tuo nome non abbiamo forse compiuto molti prodigi?». Ma allora io dichiarerò loro: «Non vi ho mai conosciuti. Allontanatevi da me, voi che operate l’iniquità»” (Matteo 7.21-23).

Da queste ultime parole, che vanno ad ampliare quelle su cui stiamo meditando e viceversa, vediamo un fatto nuovo e cioè che la categoria di persone che vuole entrare nel regno è differente dalla quella riportata da Luca: in Matteo abbiamo “profetato nel tuo nome”, cioè predicato, parlato di Lui e operato apparentemente per il bene, “scacciato demòni” e “compiuto molti prodigi” a conferma del fatto che il miracolo non sempre è detto che provenga da Dio, ma sia qualcosa di ambivalente nel senso che può attrarre un’anima alla vera fede, o distoglierla. E questa è una prima interpretazione; in realtà, l’ ”abbiamo”, è riferito alla storia di tutto il popolo di cui quei richiedenti si appropriano in quanto a lui appartenenti. Per quanto riguarda i miracoli, invece, a parte che molti furono quelli di cui Israele fu protagonista nella sua storia, credo che sia molto semplice stabilire se un discorrere di Dio o qualsiasi altra manifestazione provenga da Lui o dall’Avversario: basta vedere dove o a chi essa porta, se a Cristo oppure no, è sufficiente non limitarsi al vivere secondo una coscienza cristiana generica, ma a crescere nella dottrina, fondamentale per orientare le scelte della persona per non subire gli effetti di un pressapochismo sempre pericoloso perché, il più delle volte, si affida al semplice, immediato sentimentalismo.

Aprendo una brevissima parentesi, proprio il Vangelo, paradossalmente, si presta ad interpretazioni facili perché non si pensa che le parole di Gesù furono pronunciate stante la necessità di fornire un insegnamento essenziale ai presenti e sarà solo più avanti che gli apostoli, costituita la Chiesa, forniranno istruzioni dettagliate perché quelle fossero comprese ed inquadrate nella giusta misura. Viceversa Pietro, Giovanni, Giacomo, Giuda e Paolo non avrebbero scritto nulla. Senza dottrina non si cresce, non si va da nessuna parte, non è possibile praticare né tantomeno insegnare la Parola, leggere correttamente gli avvenimenti che riguardano noi o altri.

Vagliare gli spiriti, poi, è qualcosa che siamo chiamati a fare quotidianamente, per non cadere vittima di falsi “amici” o “fratelli”, come scrive l’apostolo Giovanni nella sua prima lettera: “Carissimi, non crediate a ogni spirito, ma provate gli spiriti per sapere se sono da Dio, perché molti falsi profeti sono sorti nel mondo. Da questo conoscete lo Spirito di Dio: ogni spirito, il quale riconosce pubblicamente che Gesù Cristo è venuto nella carne, è da Dio; e ogni spirito che non riconosce pubblicamente Gesù, non è da Dio, ma è lo spirito dell’anticristo. Voi avete sentito che deve venire; e ora è già nel mondo” (4.1-6). Sono parole terribili se pensiamo al pressapochismo con il quale a volte valutiamo le persone che hanno a che fare con noi. Ecco perché, nelle nostre relazioni con il prossimo non credente e soprattutto non convertito nei fatti, non dovremmo mai lasciare che, al di là della cordialità e disponibilità comunque dovuta, questa persona diventi dominante su di noi finendo per condizionare le nostre scelte e la nostra vita.

 

Ora, concludendo il verso 26, è facile identificare nei postulanti gli ebrei non cristiani che ipocritamente, trovandosi la porta chiusa, ricorrono alla loro appartenenza formale al Popolo di Dio, mentre quelli di Matteo 7 sono da individuarsi anche nella Chiesa nominale, quella sterile, che sprona alla superstizione, che mira alle masse per scopi diversi dalla salvezza e dalla predicazione del Vangelo, che parla di bontà, pace, fratellanza e solidarietà lasciando accuratamente Cristo fuori da qualsiasi discorso, anteponendo a Lui le opere proprio come abbiamo letto. Infatti, non esiste anima salvata che non conosca Cristo Gesù e viceversa perché “Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me; così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore” (Giovanni 10.14). Questo citando il primo verso che mi viene in mente e sul quale ciascuno può fare i propri, ulteriori collegamenti, precisando che il perdóno, il risollevamento dell’uomo dalla propria condizione umiliante non era certo sconosciuto ai tempi di Gesù, perché “Beato l’uomo a cui è tolta la colpa e coperto il peccato. Beato l’uomo a cui Dio non imputa il delitto e nel cui spirito non è inganno. (…) Ti ho fatto conoscere il mio peccato, non ho coperto la mia colpa. Ho detto: «Confesserò al Signore le mie iniquità» e tu hai tolto la mia colpa e il mio peccato” (Salmo 32. 1-5).

Facendo un breve inciso, vediamo da questo verso che esisteva comunque un rapporto di conoscenza fra YHWH e il suo popolo ma questo, salvo rari casi, non era reciproco né lo poteva essere per l’assenza di un mediatore che sarebbe venuto dopo nella persona di Nostro Signore che avrebbe portato un’identificazione tra Lui e la creatura.

 

Ebbene, abbiamo al verso 27 il secondo disconoscimento del padrone di casa, al quale vengono aggiunte le stesse parole di Matteo, “Allontanatevi da me, voi tutti operatori d’ingiustizia”, fatto che Gesù aveva avvertito che si sarebbe verificato quando disse “Chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli” (Matteo 10.32).

“Operatori d’ingiustizia” in contrapposizione a quelli “di pace, perché saranno chiamati figli di Dio” (Matteo 5.9): quindi la “pace” cui allude Nostro Signore non è quella tra uomo e uomo, ma tra uomo e Dio, indispensabile a costruire il rapporto con Lui (e con fratelli e sorelle) altrimenti perduto col peccato dei nostri progenitori. Infatti, “Giustificati dunque per fede, abbiamo pace con Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore” (Romani 5.1).

La confusione che regna al di fuori di questa regola è enorme e, lasciando scadere la genuinità del principio, lascia il campo aperto a dottrine diverse che portano alla sterilità e alla futura estromissione perché altro non fanno che ampliare l’ingiustizia, la sola che regna nel cuore dell’uomo non rigenerato. Ha scritto Papa Ratzinger: “Per entrare nella giustizia è necessario uscire dall’illusione di autosufficienza, dallo stato profondo di chiusura che caratterizza l’uomo irrigenerato e che è l’origine stessa dell’ingiustizia”.

In opposizione a questo sistema perverso abbiamo la Giustizia di Gesù, che viene dalla Grazia, “Il fatto che l’espiazione avvenga nel sangue di Gesù significa che non sono i sacrifici dell’uomo a liberarlo dal peso delle colpe, ma il gesto dell’amore di Dio che si apre fino all’estremo, fino a far passare in sé la maledizione che spetta all’uomo, per trasmettergli in cambio la benedizione che spetta a Dio”. Infatti “Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della Legge, diventando lui stesso maledizione per noi” (Galati 3.13).

Ecco cosa significa essere “operatori di ingiustizia”: rifiutare l’amore di Dio e ciò che Lui si aspetta dall’uomo perché, agendo così, si rimane vittima della propria condizione umana, si resta unicamente carne, si cresce e si muore senza alcuna prospettiva, si rimane nell’ingiustizia e se ne diventa “operatori”.

Ma c’è di più, perché tutto torna indietro nel senso che viene rispedito al mittente visto nel “pianto e stridore di denti” come reazione a due eventi correlati, cioè il vedere “Abrahamo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio, voi invece cacciati fuori” (v.28): Gesù cita le persone che hanno costruito il Suo Popolo, Abrahamo cui venne fatta la Promessa, Isacco che la rese tangibile, Giacobbe cui fu detto “Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto” (Genesi 32.29). Poi i profeti, tramiti di YHWH per rivelare il Suo volere e piani al popolo.

Siccome però tutto è stato fatto in vista della venuta del Cristo, rifiutato da quelli rimasti fuori dalla porta, il “pianto e stridore di denti” è l’unica reazione possibile una volta compresa l’irrimediabilità della situazione e aver preso coscienza che sì, le cose avrebbero potuto essere diverse qualora si fosse accettato Gesù nel cuore.

Abbiamo allora il pianto per ciò che si è perduto e nello stridore la rabbia per non avere approfittato dell’occasione di salvarsi oltre all’invidia per quelli che sono stati accolti. Il loro sarà un assistere impotenti alla mensa del Signore i cui invitati, accolti e degni, verranno da ogni dove, dai quattro punti cardinali in cui vediamo la totalità delle genti senza distinzione di razza e posizione sociale.

Il sedere “a tavola nel regno di Dio” ha riferimento al banchetto nuziale, quando finalmente i credenti saranno riuniti al loro Redentore e non esisterà nient’altro che il piano di Dio finalmente concretato in tutti i suoi punti. Un banchetto in cui ognuno avrà il suo posto e in cui Gesù dice che sarà lui stesso a servire, come abbiamo letto recentemente nel finale della parabola dei servitori vigilanti: “Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli” (Luca 12.37).

Infine abbiamo il verso 30, divenuto proverbiale anche nel mondo, espresso più volte da Gesù che allude fondamentalmente alla perfetta conoscenza che ha del cuore di ognuno e di giudizio al di là delle apparenze. La frase la esprimerà a conclusione della trattazione sul discepolato, “Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli per il mio nome, riceverà ceto volte tanto e avrà in eredità la vita eterna. Molti dei primi saranno ultimi e molti degli ultimi saranno i primi” (Matteo 19.29,30; Marco 10.31).

Attenzione al “lasciare” che non ha nulla a che vedere con l’abbandono come purtroppo interpretato dalla maggioranza, ma è semplicemente uno spostamento affettivo come per Genesi 2.24: “L’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua moglie e insieme saranno una sola carne”.

Un’altra volta la distinzione ultimi-primi la troviamo alla fine della parabola degli operai delle diverse ore al capitolo 20 dello stesso Vangelo e in tutti i casi, comunque, si tratta di un avvertimento/invito a non adattarsi alle apparenze, all’esteriorità tanto da parte di chi fa distinzione fra “primo” e “ultimo” quando di chi invece si adopera per figurare tra i “primi” o gli “ultimi” per un proprio tornaconto personale.

Credo però che nel caso di specie Gesù, parlando a degli israeliti, voglia far riferimento ai capi religiosi che aspiravano “ai primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti” (Marco 12.39), “i primi posti nelle sinagoghe e i saluti sulle piazze” (Luca 11.43) e, per riflesso, anche a tutti coloro che, nel campo cristiano, agiscono per lo stesso tornaconto personale.

Per concludere, credo che la risposta di Gesù all’anonimo che gli chiese se fossero “pochi coloro che si salvano” sia di una consolazione unica da un lato, ma di una massima drammaticità dall’altro perché l’uomo abituato a pensare che vi siano rimedi e scappatoie per ogni cosa, o che fino ad allora era stato indifferente a qualsiasi richiamo alla conversione, alla fine si troverà nella condizione di non poter tornare indietro da un’esclusione che avrà scelto, responsabilmente, lui stesso. Amen.

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14.01 – COLORO CHE SI SALVANO I/II (Luca 13.22-25)

14.01 – Coloro che si salvano I/II (Luca 13.22-25)      

 

22Passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme. 23Un tale gli chiese: «Signore, sono pochi quelli che si salvano?». Disse loro: 24«Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno. 25Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: «Signore, aprici!». Ma egli vi risponderà: «Non so di dove siete».

 

            Poco dopo la festa della Dedicazione, sappiamo da Giovanni che Gesù si recò nella Perea (10.40-42), nei territori in cui Giovanni Battista aveva svolto il suo ministero. Riprende così l’ultimo viaggio di Gesù prima di tornare a Gerusalemme, anche qui, per l’ultima volta.

Il tema della “porta stretta” fu uno dei primi sviluppati da Nostro Signore e lo abbiamo incontrato nel sermone sul monte quando Matteo così lo condensò: “Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione e pochi sono quelli che vi entrano. Quanto stretta è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e pochi sono quelli che la trovano!” (7.13,14). Se però nel passo di Matteo ci troviamo di fronte a un messaggio universale, pronunciato davanti alla folla venuta per ascoltare, qui abbiamo una risposta (quasi) individuale a fronte di una specifica domanda, oltre ad un panorama più ampio rispetto a quello dato sul monte.

Lasciato il verso 22, che ci parla di quanto siano stati numerosi gli eventi di cui i Dodici furono testimoni e di cui non hanno scritto, troviamo questo “tale” che, per la domanda rivoltagli e alcuni particolari della risposta, non era una persona del popolo, ma un cólto che, udito Gesù parlare, aveva fatto un collegamento con quanto esposto nel IV libro di Esdra, risalente al V secolo a.C. detto anche «Apocalisse di Esdra», in cui si legge che “L’Altissimo ha fatto questa età per molti, ma quella futura per pochi” (8.1), “Molti sono quelli che sono stati creati, ma pochi coloro che si salveranno” (v.3), “Tu non essere curioso sul modo con cui gli empi verranno tormentati, ma chiedi di come saranno salvati i giusti, e di chi sarà il mondo e per chi” (9.15).

Ricordiamo, a parte Matteo 7.13,14, anche il principio secondo cui “Molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti” (20.16), senza contare le numerose parabole che parlano di premio per i servi fedeli e di castigo per gli infedeli, come le ultime su cui abbiamo riflettuto ed altre ancora da sviluppare.

 

Al verso 24 notiamo che alla domanda di un singolo corrisponde una risposta data a molti – “Disse loro” – ed occupa quattro spazi precisi divisi in blocchi di due: “Sforzatevi di entrare per la porta stretta” è il primo e contiene un preciso invito ad agire verso qualcosa, appunto la porta che, in una riflessione precedente, abbiamo individuato come primo riferimento nella “cruna dell’ago” perché tutti noi la connettiamo con la parabola del “cammello”, ma poteva essere anche quella porticina che, nei palazzi dei potenti, serviva anche a far passare gli invitati alle feste per essere sicuri che non entrassero estranei. In pratica, i servi posti all’ingresso verificavano l’identità dei convenuti che si presentavano lì col vestito che il padrone aveva spedito loro precedentemente.

Il verbo utilizzato per “sforzatevi” è “agonìzomai” che ha tra i suoi significati “gareggiare, lottare, combattere, contendere” non solo a livello strettamente fisico, ma anche teorico, come nel caso del dibattere una questione in pubblico o all’impegno per difendersi in un processo. Si tratta comunque di uno sforzo che ben conosceva l’apostolo Paolo che, scrivendo ai Corinti, parla proprio delle fatiche sostenute per il Vangelo: “Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno. Tutto io faccio per il Vangelo, per diventare partecipe con loro. Non sapete che nelle corse allo stadio tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo! Però ogni atleta è temperante in tutto; essi lo fanno per ottenere una corona corruttibile, noi invece incorruttibile. Io dunque corro, ma non come chi è senza meta; faccio il pugilato, ma non come chi batte l’aria, anzi tratto duramente il mio corpo e lo trascino in schiavitù perché non succeda che, dopo aver predicato agli altri, non venga squalificato” (1a, 9.22-27).

Queste parole, che vanno oltre l’insegnamento specifico di Gesù, rivelano quale sia il senso del combattimento e dello sforzo cristiano e quell’ “uno solo” certo non si riferisce al fatto che sarà salvata una sola persona per l’impegno che ha messo, ma è un richiamo a non dare la salvezza per scontata, cioè garantita a prescindere da ciò che facciamo e pensiamo. Poi, parte difficile, al non guardare alla condotta degli altri perché ciascuno deve agire vigilando su se stesso, facendo attenzione a non appartenere alla categoria di quelli che, con la trave nell’occhio, desiderano togliere la pagliuzza da quello degli altri. Di fronte alla necessità di dare un consiglio o un’esortazione, infatti, dobbiamo sempre chiederci se abbiamo il diritto di esprimerlo/a verificando la nostra condotta in proposito.

Lo “sforzatevi” di Gesù implica quindi, sotto l’aspetto del verbo, un totale coinvolgimento del corpo e della mente perché si tratta, certo non da soli ma con l’aiuto dello Spirito Santo, di “gettare via tutte queste cose: ira, animosità, cattiveria, insulti e discorsi osceni che escono dalla vostra bocca. Non dite menzogne gli uni agli altri: vi siete svestiti dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova per una piena conoscenza, ad immagine di Colui che lo ha creato” (Colossesi 3.9,10). Se allora l’uomo vecchio è stato “svestito”, certo non senza “sforzo”, allora va da sé che non saremo, né potremo essere, quelli di prima.

 

Dobbiamo chiederci però, nonostante la correttezza di queste applicazioni, se fosse quello il messaggio di Gesù ai presenti, e la risposta è negativa: se mai quanto letto, coi riferimenti che abbiamo proposto, vale oggi per noi, cioè i versi citati saranno del tutto attuali e veri in un contesto differente, quello della Chiesa che, quando Nostro Signore parlava, non era ancora nata. Lo sforzo cui Gesù allude sì a un combattimento interno ed esterno ma, ancora una volta, contro la religione e il cuore umano indurito, contro le facili scappatoie che da sempre essi propongono, sempre pronti a giustificare e quindi dare una falsa innocenza perché, purtroppo, per ogni crimine esiste sempre una giustificazione, per quanto aberrante essa sia. È il famoso falso buonismo, che purtroppo si è ormai diffuso anche nel cristianesimo, dove la pietà non è più per le vittime, ma per gli autori dei crimini, dove gli aiuti vengono dati ad alcuni a discapito di altri, dove si cerca una solidarietà sociale in realtà totalmente svuotata d’amore e soprattutto giustizia.

Quindi, nel “Regno dei Cieli” entrano tutti coloro che vanno contro corrente, che combattono per far tacere “l’uomo vecchio”, rifiutano la facile filosofia del mondo per incamminarsi per un sentiero diverso. Infatti “Dai giorni di Giovanni Battista fino ad ora, il regno dei cieli subisce violenza e i violenti se ne impadroniscono” (Matteo 11.12), certo non quelli della terra.

 

Venendo ora alla seconda parte del verso 24, “Molti cercheranno di entrare, ma non vi riusciranno”, è un passaggio che suggerisce l’idea di una calca, di confusione e disordine, tutte cose che si contrappongono in antitesi a Dio che non è “un Dio di confusione, ma di ordine” (1 Corinti 14.33), tradotto da altri anche con “pace”.

Altro punto importante è poi la differenza tra lo “Sforzatevi”, che abbiamo sviluppato brevemente,  e il “cercheranno”, verbo “Zetéo” che, se confrontato col precedente, può avere gli stessi significati, ma in modo più blando: abbiamo infatti “andare in cerca di qualcosa, investigare, cercare di ottenere, bramare, chiedere, sentire desiderio di qualcosa”. Nello “sforzarsi” c’è tutta una volontà sostenuta dal voler raggiungere a tutti costi un obiettivo, nel “cercare” c’è un “tendere a” più generico, direi poco convinto. Guardando al tempo in cui visse Gesù, pensiamo a quelli che avevano accolto l’invito di Giovanni Battista “Ravvedetevi perché il Regno dei Cieli è vicino” facendosi battezzare, confessando i loro peccati – e qui abbiamo lo “Sforzatevi” – e quanti invece erano lì, testimoni non coinvolti, tranquilli e convinti di aver già trovato nella Legge e nei loro riti e tradizioni il senso della loro esistenza. Chi non si lasciava coinvolgere dalla conversione o dal pentimento rientrava comunque in quelli che “cercheranno”: infatti avevano tutta la loro cerimonialità in cui rifugiarsi. Avevano preghiere ad orari fissi, abluzioni, letture, frequentavano la Sinagoga e, quando potevano se non distanti da Gerusalemme, il Tempio. Anche queste manifestazioni, per quanto in modo differente e al tempo stesso così simile, le abbiamo nel cristianesimo che ha standardizzato comportamenti, preghiere e funzioni svuotandole completamente di significato. O, meglio, questo c’è, ma rimane occultato da un incedere monotono, da una recitazione sterile che rende molto difficile in cambiamento interiore, la rivoluzione cristiana. E così tutto resta come prima, come sempre, nulla cambia.

Lo “sforzo” allora, è appunto lo spogliarsi dell’uomo vecchio, quello che da sempre rivendica un Ego che non può né deve avere perché, se presente, lo fa dipendere come uno schiavo da tutto ciò che possiede senza essere mai in grado di dire “basta”, come nella parabola di Proverbi 30.15,16 sulle “Tre cose che non si saziano mai, anzi quattro non dicono mai «Basta!»: gli inferi, il grembo sterile, la terra mai sazia d’acqua e il fuoco”.

Come in molti insegnamenti di Gesù, però, c’è una scadenza, qui vista nel “padrone di casa” che “si alzerà e chiuderà la porta” (v. 25), immagine che non lascia adito a dubbi sul fatto che si tratta di un gesto cui le persone di fuori non possono porre più alcun rimedio. In proposito possiamo fare la connessione con Apocalisse 3.7, “Colui che ha la chiave di Davide: quando egli apre, nessuno chiude, e quando chiude nessuno apre”, o “può aprire” secondo altre traduzioni.

A questo punto dobbiamo necessariamente pensare a quelli che restano fuori dalla porta che, dai versi che seguono il nostro passo, sono convinti in un primo momento di essere stati esclusi per una sorta di errore, avendo dato al “Signore” una confidenza che non spettava loro instaurare. Solo per il fatto che avessero “Mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze”, come vedremo, ritenevano di aver diritto ad entrare. E qui vediamo quanto sia mirato il messaggio di Gesù, proprio agli israeliti che ritenevano l’appartenenza al popolo di Dio come qualcosa di acquisto, di automatico e che fosse sufficiente comportarsi così come avveniva da sempre. Del resto, non erano tutti figli di Abrahamo?

Giungiamo così alla fine di questa prima parte, con “Signore, aprici!”, che denota tutta la presunzione dei richiedenti: lo accusano di impazienza, di aver chiuso la porta troppo presto quindi, secondo loro, doveva tornare sui suoi passi perché si era sbagliato. Invece l’essere umano, procrastinatore per natura, che vorrebbe ogni cosa fatta a sua misura come ricordo dell’Eden perduto, non accetta l’idea che quando una cosa è trascorsa, passata, lo è per sempre. Così, in questo caso, lo è per la porta chiusa alla quale i personaggi della parabola bussano, ma il tempo del “bussate e vi sarà aperto”, che resta valido fino a quando proprio il Creatore e Signore di ogni cosa, visibile e invisibile, non ne decreta la fine, è qui concluso. E di tale avvenimento ne aveva ampiamente parlato.

Un fratello ha fatto notare che il passaggio tra il “cercare” e lo “sforzatevi”, nelle persone rimaste fuori, si verifica proprio nel momento in cui la porta viene chiusa: “quando poi quelli che per tutto quel tempo si erano pigramente cullati con l’idea che ci sarebbe sempre stato tempo per entrare, si trovano l’uscio chiuso e la loro energia si risveglia”.

Ultima nota può essere fatta sulla risposta del padrone, “Non so di dove siete”, cioè da dove venite: se quelle persone sono ebree, li dichiara completamente fuori dalla fede e dalla pietà di Abrahamo; se sono cristiani, allora si identificano in quelli rigettati in quanto tiepidi secondo Apocalisse 3. 15,16 che ogni tanto ricordo. Anche qui, abbiamo il cristianesimo di nome e non di fatto. Quello che allontana, inconcludente ed ipocrita, da Lui. Amen.

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13.24 – PER SEGUIRE GESÙ (Luca 14.25,26)

13.24 – Per seguire Gesù (Luca 14.25,26)

25Una folla numerosa andava con lui. Egli si voltò e disse loro: 26«Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. 27Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo.28Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? 29Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, 30dicendo: «Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro». 31Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? 32Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace. 33Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo.il fallimento dell’uomo etico,  

Dalle parole “Si voltò e disse loro”vediamo che Gesù conosceva le ragioni che spingevano quanti si erano messi a seguirlo ovunque andasse. Così come tante erano le opinioni che la gente aveva di Lui, altrettante erano le motivazioni per cui mettersi al suo seguito: alcuni volevano soddisfare la loro curiosità e speravano di vedergli compiere qualche miracolo, altri desideravano ascoltare le sue parole visto che sta scritto che gli riconoscevano un’autorità superiore a quella degli scribi e farisei, altri ancora erano spie dei Giudei, lì unicamente per riferire a chi li aveva inviati. Vi erano poi coloro che si erano interrogati profondamente attorno alla Sua Opera e aspettavano forse l’occasione propizia per presentarsi a Lui e parlargli.

Ebbene Gesù, che conosceva i pensieri di ciascuno, si volta e pronuncia un brevissimo discorso che potremmo definire selettivo perché la pericope “non può essere mio discepolo”esprime il limite, la barriera fra ciò che sono le intenzioni umane e la realtà delle cose perché l’unica condizione per seguirLo oppure, come scrive Matteo 10.37, essere degni di Lui, è “Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me; chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me. Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà”, parole che abbiamo analizzato a suo tempo.

Notiamo che la nostra traduzione riporta “…e non mi ama più di quanto ami…”, che offre l’interpretazione corretta dell’originale “…e non odia suo padre…”perché in effetti il termine “odiare” significa proprio, nella Scrittura, “amare meno” rispetto a qualcun altro. Si tratta di un argomento già trattato, ma sul quale torniamo anche se con riflessioni diverse.

Le parole “Se uno viene a me”sono riferite al fatto che la figura di Gesù attrae molti, o per lo meno attraeva visti i tempi che viviamo in cui a Dio si sostituisce una spiritualità generica, artefatta, posticcia; il più delle volte, infatti, la figura del Figlio di Dio oggi è cercata, anche tramite una lettura dei Vangeli, per porlo in ridicolo di fronte a una critica testuale assolutamente priva di conoscenza e radici e soprattutto è usata col fine di abolirne la figura storica, morale e spirituale. Ancora, la figura di Cristo e del cristiano è sostituita da quella dell’ “uomo etico”: è del 28 agosto 2021 la notizia che il nuovo presidente dei cappellani di Harvard è un ateo che coordina le attività di quaranta comunità, tra cui quella cristiana, ebraica, indù e buddista. Costui ha dichiarato: “C’è un gruppo crescente di persone che non si identificano più con alcuna tradizione religiosa, ma sperimentano ancora un reale bisogno di conversazione e sostegno intorno a ciò che significa essere un buon umano e vivere una vita etica”. Alla religione vuota e del vuoto si sostituisce quella di princìpi mutevoli basati sull’inconsistenza.

Comunque, poiché in ogni caso la lettura della Bibbia non è ancora stata proibita e nella Chiesa esistono ancora credenti che svolgono la loro testimonianza, è sempre possibile che vi sia chi desideri porsi, anche se a distanza di secoli, al seguito di Gesù le cui parole sono dirette ai credenti di ogni tempo.

Allora come oggi, abbiamo letto che non è possibile seguirLo senza una profonda rivoluzione interiore che stravolga le priorità affettive di chi Gli si avvicina. Più che analizzare il significato delle categorie rappresentate dalle persone citate, andrei alla radice del problema offertaci da Deuteronomio 13.7-12 che chiarisce il tipo di rapporto che si instaura tra chi intende rimanere fedele a Dio e chi, suo parente o amico, intende traviarlo; certo, tenendo presente la differenza fra Grazia e Legge: “Qualora il tuo fratello, figlio di tuo padre o figlio di tua madre, o il figlio o la figlia o la moglie che riposa sul tuo petto o l’amico che è come te stesso t’istighi in segreto, dicendo: «Andiamo, serviamo altri dèi», dèi che né tu né i tuoi padri avete conosciuto, divinità dei popoli che vi circondano, vicini a te o da te lontani da un’estremità all’altra della terra, tu non dargli retta, non ascoltarlo. Il tuo occhio non ne abbia compassione: non risparmiarlo, non coprire la sua colpa. Tu anzi devi ucciderlo: la tua mano sia la prima contro di lui per metterlo a morte; poi sarà la mano di tutto il popolo. Lapidalo e muoia, perché ha cercato di trascinarti lontano dal Signore, tuo Dio, che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile. Tutto Israele verrà a saperlo, ne avrà timore e non commetterà in mezzo a te una tale azione malvagia”. Sono parole molto forti, valide per chi viveva in un tempo lontano con mentalità e usanze profondamente diverse dalle nostre. Soprattutto, era fondamentale che Israele seguisse il Signore dal quale poi sarebbe proceduto il Messia. Rimane però il profondo distacco tra chi rimane fedele a Dio e chi invece, facendo leva sulla presenza di un rapporto affettivo, vuole distogliere la sua attenzione da Lui finendo per porlo in una posizione contraria: “Il tuo occhio non abbia compassione, non risparmiarlo”nel senso di non consentire a questa persona, diventata negativa e pericolosa, di attecchire perché non solo si è traviato, ma anche voleva spingere una terza persona a fare lo stesso, diventando un agente dell’Avversario.

Notiamo che anche in questo passo vengono chiamati in causa gli affetti più cari, “la moglie che riposa sul tuo petto o l’amico che è come te stesso”che, nel momento in cui diventano elementi attivi di svio, andavano addirittura uccisi con il diretto interessato che doveva essere il primo a scagliare la pietra nella lapidazione. Da qui, collegandoci al famoso “chi è senza peccato scagli la prima pietra”, vediamo l’assoluta responsabilità di chi avrebbe dovuto agire in tal modo, cioè si assumeva un carico d’innocenza che, nel caso della donna adultera, non poteva avere, mentre in quello dello sviamento verso altre divinità a prevalere era il rifiuto dell’idolatria. In questo modo chi agiva così veniva messo duramente alla prova perché non solo si trattava di agire contro chi era comunque una persona cara, ma doveva fare violenza a se stesso privandosi della moglie o dell’amico, o del figlio o della figlia coi quale intercorreva indubbiamente una forte identificazione. Ribadisco, si era in un’altra dispensazione ed oggi rimane il principio di base, quello del porre nella giusta collocazione gli affetti che non possono essere dominanti, quindi impedire, ostacolare, rallentare il percorso spirituale del credente, uomo o donna che sia.

Ecco allora che, alla luce dei testi fin qui raccolti, Gesù fa presente che, se non è messo al primo posto, a nulla serve mettersi al suo seguito così come chi ha creduto è chiamato a “portare la propria croce”e seguirlo, cioè portare dignitosamente le sofferenze provenienti dalla propria fede. Presto o tardi infatti, per tutti, arriva il momento in cui occorre fare una scelta per il Vangelo che non porterà certo benefici nel senso materiale del termine; pensiamo alle persecuzioni che hanno subìto e subiscono, anche del nostro tempo, i veri cristiani. Pensiamo al futuro sistema che non consentirà di comprare o vendere senza il marchio della bestia o anche alle persecuzioni poste in essere da parte di Satana, che tenta e mette alla prova nei modi più svariati. Ed è fuor di dubbio che, in questo tempo, vediamo tutto in embrione. Credere comporta inevitabilmente anche sofferenza, fisica e morale. Il cristiano è infatti allo stesso tempo sacerdote e vittima.

Abbiamo poi, nella seconda parte dell’intervento di Gesù con gli esempi della torre e della pace con il re nemico, un lapidario invito-elogio alla prudenza di cui purtroppo molti credenti non si appropriano basando le loro scelte e imprese sulla speranza, o fede inopportuna, di un intervento di Dio quando questo si renderà necessario. Per molti di loro la prudenza è vista come qualcosa di fuori luogo, dando una lettura a senso unico del significato vero della fede e dell’aiuto di Dio, che nella parabola di Gesù non è chiamato in causa: perché? Perché la persona deve mettere in atto tutte le precauzioni possibili per non cadere vittima di se stesso. Personalmente ho constatato che la gestione fuori luogo della fede, dando per scontato che solo perché cristiano avrei comunque beneficiato dell’aiuto di Dio, mi ha portato in condizioni simili al costruttore della torre che non riesce a finire, la quale implica e coinvolge tanti elementi non necessariamente legati all’orizzontalità della vita. Certo, questo è avvenuto anche per l’eccessiva confidenza cui sono stato spinto nei confronti di Chi, di base, va trattato con rispetto e temuto essendo molto più in alto dell’uomo. Quante esistenze sono state progettate senza prima ponderare accuratamente se erano presenti le risorse, anche spirituali, necessarie! E quante sono rimaste schiacciate da un peso che si è voluto portare quando non si era chiamati a farlo, solo per il letteralismo usato verso certi versi! E questi inconvenienti li hanno sperimentati in tanti, indipendentemente dalle denominazioni, con clausure non richieste, ma auto inflitte. Così, da un “giogo dolce” e di un “carico leggero”ci si è resi schiavi di qualcosa o di qualcuno quando in realtà si era liberi.

 

Nel caso dei due re ho constatato che Nostro Signore si guarda bene dal nominare tutti quegli episodi in cui Israele vinse nemici più forti di lui anche dal punto di vista numerico e mi sono chiesto perché. Sicuramente evitò la citazione perché si trattava di vittorie profetizzate, rivelate da Dio, che sceglie “le cose pazze del mondo per svergognare le savie”, e penso ad esempio a Davide quando, nel primo libro di Samuele, vinse Golia. Ricordiamo il commento umano alla sua proposta di battersi: “Tu non puoi andare contro questo filisteo a combattere con lui: tu sei un ragazzo e costui è uomo d’armi fin dalla sua adolescenza”(17.33). Se Davide vinse, non fu perché pensò alla prudenza, ma perché difendeva il nome del Signore: “Tu vieni a me con la spada, con la lancia e con l’asta. Io vengo a te nel nome del Signore degli eserciti, Dio delle schiere d’Israele, che tu hai sfidato. In questo stesso giorno, il Signore ti farà cadere nelle mie mani”(v.45).

La situazione non poteva che volgere a suo favore perché l’Iddio d’Israele avrebbe dato un segno della sua presenza: “Quel filisteo maledisse Davide in nome dei suoi dèi”(43).

Nel passo di Luca che stiamo esaminando, quindi, Gesù non promette la riuscita di una nostra impresa a prescindere dalle nostre forze, anzi fa esempi molto concreti quasi a “tenersene fuori” e a dire: “stai attento a quello che fai, ai tuoi limiti, a ciò che puoi permetterti, a non fare il passo più lungo della gamba”. Perché al discepolo non è chiesta né l’inesperienza e nemmeno la stoltezza: “Imparate, inesperti, la prudenza e voi, stolti, fatevi assennati”(Proverbi 8.5). Sono quindi elementi da imparare, perseguire.

Sappiamo che “Il Signore dà la sapienza, dalla sua bocca escono scienza e prudenza”(2.6) e, se si accolgono le Sue parole, si concreterà la promessa “La riflessione ti custodirà e la prudenza veglierà su di te, per salvarti dalla via del male, dall’uomo che parla di propositi perversi, da coloro che abbandonano i retti sentieri per camminare nelle vie delle tenebre, che godono nel fare il male e gioiscono dei loro propositi perversi, i cui sentieri sono tortuosi e le cui strade sono distorte; per salvarti dalla donna straniera, dalla sconosciuta che ha parole seducenti, che abbandona il compagno della sua giovinezza e dimentica l’alleanza con il suo Dio”(2.11-17). E credo che, oggi, l’unico modo che abbiamo per custodire le Sue parole, sia uno studio severo di esse, come del resto è sempre stato. Da lì arriva la protezione.

Tornando sui due esempi, vediamo che il primo uomo della parabola, in caso di insuccesso, viene deriso dagli altri, quindi fallisce nella sua testimonianza; il secondo invece, cercando la pace col re nemico e con un esercito superiore, risparmia i suoi soldati e il popolo da una morte inutile ed evita loro la vergogna della sconfitta.

Arriviamo alla frase finale – perché il sale che diventa insipido lo abbiamo già affrontato –: “Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo”. “Così”sembra la conclusione dei due esempi precedenti, ma non può essere ed è probabile che Luca abbia voluto ribadire un concetto più volte espresso da Gesù sull’abbandono. Qui vengono chiamati in causa “tutti i suoi averi”, quindi anche i nostri, ma la rinuncia non necessariamente implica l’attuazione di quanto detto al giovane ricco, cioè di vendere tutto ciò che aveva, darlo ai poveri, e poi seguire Gesù: gli apostoli prima e i discepoli poi avevano effettivamente “lasciato ogni cosa”nel senso che ciò che avevano, da punto di arrivo e da gestione egoistica, era diventata solo uno strumento, per di più temporaneo perché, quando le esigenze della predicazione lo richiederanno, gestiranno i loro beni in modo diverso.

Rinunciare a tutti i nostri averi, per noi oggi, implica il non considerarli come fondamentali alla nostra sussistenza e sbarazzarcene nel momento in cui questi diventano vincolanti, di ostacolo al nostro avanzamento spirituale esattamente come gli affetti elencati da Gesù al verso 26 o dal passo di Deuteronomio che abbiamo citato. Sarà poi l’intelligenza della persona, in base a ciò per cui è chiamata da Dio, a stabilire ciò che è necessario per la propria vita e ciò che non lo è, liberato per lo Spirito dai suoi egoismi.

Ricordiamo infatti le dinamiche della Testimonianza iniziata da Nostro Signore, inizialmente benestante con la sua famiglia grazie anche ai doni portati dai Magi: sia lui che i discepoli avevano una casa nella quale dimoravano e a cui tornavano dopo le predicazioni, poi vissero col loro gruppo delle offerte con la cassa comune che teneva Giuda Iscariotha; la Chiesa di Gerusalemme aveva molti credenti che vendevano i loro averi e deponevano ai piedi degli apostoli il ricavato per sovvenire ai fratelli più economicamente deboli, ma più avanti troviamo persone, come Lidia, commerciante di porpora a Tiàtira, che ospitava nella sua casa dei credenti, quindi la Chiesa, e che non risulta si sia sbarazzata dei suoi possedimenti. E il suo nome e persona furono importanti a tal punto da comparire nel testo del libro degli Atti.

La gestione della propria persona e conseguentemente dei propri beni il cristiano deve averla alla luce della prudenza e dell’intelligenza, da “acquistare a costo di tutto ciò che possiedi”(Proverbi 4.7) che ben si raccorda alle parole di Gesù e che, assieme all’essere attenti e accorti, ci fanno capire le posizioni da prendere. Amen.

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13.23 – IL GRAN CONVITO III/III (Luca 14.15-24)

13.23 – Il gran convito III (Luca 14.15-24) 

 

15Uno dei commensali, avendo udito questo, gli disse: «Beato chi prenderà cibo nel regno di Dio!». 16Gli rispose: «Un uomo diede una grande cena e fece molti inviti. 17All’ora della cena, mandò il suo servo a dire agli invitati: «Venite, è pronto». 18Ma tutti, uno dopo l’altro, cominciarono a scusarsi. Il primo gli disse: «Ho comprato un campo e devo andare a vederlo; ti prego di scusarmi». 19Un altro disse: «Ho comprato cinque paia di buoi e vado a provarli; ti prego di scusarmi». 20Un altro disse: «Mi sono appena sposato e perciò non posso venire». 21Al suo ritorno il servo riferì tutto questo al suo padrone. Allora il padrone di casa, adirato, disse al servo: «Esci subito per le piazze e per le vie della città e conduci qui i poveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi». 22Il servo disse: «Signore, è stato fatto come hai ordinato, ma c’è ancora posto». 23Il padrone allora disse al servo: «Esci per le strade e lungo le siepi e costringili ad entrare, perché la mia casa si riempia. 24Perché io vi dico: nessuno di quelli che erano stati invitati gusterà la mia cena»».

 

            In questa terza ed ultima parte ci occuperemo dell’ultima delle tre categorie di invitati, non prima di riportare la versione corretta del testo del verso 21, “Va’ fuori per le vie e per le siepi e costringili ad entrare, affinché la mia casa sia piena”. Una migliore traduzione pone ancora di più l’accento sul “fuori”e riporta “Esci per le campagne”, a sottolineare un territorio che non ha a che vedere con quello cittadino e che simboleggia le popolazioni pagane, raggiunte dal messaggio evangelico dopo il rifiuto dei Giudei.

Ricordiamo ciò che disse Gesù alla donna cananea, “Io non sono mandato se non alle pecore perdute d’Israele”quando ancora non vi era stata l’apertura ad altri popoli, ma poi, progressivamente, furono proprio i pagani a rispondere visti nella pericope di Isaia 42.4 “…le isole attendono il suo insegnamento”. Tutto questo senza contare quanto detto a proposito nell’insegnamento sul buon pastore: “Ho altre pecore che non sono di quest’ovile: anche queste io devo condurre”(Giovanni 10.16).

Nella prima e seconda frase dette al servo una volta ricevuto il rifiuto dei legittimi invitati notiamo che c’è una parte comune e una che diverge: la prima è la categoria di persone a cui il servo passa l’annuncio, “i poveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi”, cioè persone menomate in un modo o in un altro, non necessariamente nel corpo, disprezzati o tollerati dalla società. Ricordiamo fra l’altro anche Levitico 21.16-23: “Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla ad Aronne dicendo: «Nelle generazioni future nessun uomo della tua stirpe che abbia qualche deformità potrà accostarsi ad offrire il pane del suo Dio; perché nessun uomo che abbia qualche deformità potrà accostarsi: né un cieco né uno zoppo né uno sfregiato né un deforme, né chi abbia una frattura al piede o alla mano, né un gobbo né un nano né chi abbia una macchia nell’occhio o la scabbia o piaghe purulente o i testicoli schiacciati. Nessun uomo della stirpe del sacerdote Aronne con qualche deformità si accosterà per presentare i sacrifici consumati dal fuoco in onore del Signore. Ha un difetto: non si accosti quindi per offrire il pane del suo Dio. Potrà mangiare il pane del suo Dio, le cose sacrosante e le cose sante; ma non potrà avvicinarsi al velo né accostarsi all’altare, perché ha una deformità. Non dovrà profanare i miei luoghi santi, perché io sono il Signore che li santifico»”.

 

In questo caso la “società” è proprio quella di coloro che rifiutarono il Vangelo ai tempi di Gesù, quella invitata originariamente al convito, ma se andiamo a considerare i termini impiegati nel verso “Esci subito per le piazze e per le vie della città”, vediamo che i luoghi in cui il servo sarebbe dovuto passare comprendono tanto le vie larghe che conducevano alle piazze (plateias), quando quelle secondarie, quelle strette, le traverse, i sentieri (rumas). Il servo, tramite il Vangelo, raggiunge chiunque, non lascia nulla di intentato per arrivare agli uomini nel senso che nessuno di loro viene escluso. Se mai, lo fa da sé.

Diverso invece è per quelli “fuori”dalla città: viene detto all’inviato di andare “per le strade e lungo le siepi e costringili a entrare”. Anche lì ci sono strade, ma sono aperte, fuori dalle mura a sottolineare che la residenza in città è preclusa a chi non può entrare, che la vera società è lì e chi non vi abita ne è escluso. Le mura infatti sono certamente una difesa, ma anche la rivendicazione di uno status. Anche la citazione della siepe è importante, perché anche quella ci parla di una proprietà privata che circonda e difende chi l’ha costruita; anche se può simboleggiare la protezione di Dio come in Giobbe 1.10, quando l’Avversario disse a Dio “Non sei forse tu che hai messo una siepe intorno a lui e alla sua casa e a tutto ciò che è suo? Tu hai benedetto il lavoro delle sue mani e i suoi possedimenti si espandono sulla terra”, la siepe è qualcosa riferito proprio ad una iniziativa di difesa della proprietà umana, come nella parabola delle vigna di Matteo 21.33 o Marco 12.1 di cui è detto che fu circondata da quella, ma possiamo citare anche Siracide 36.27, “Dove non esiste siepe, la proprietà viene saccheggiata”. Chi sta “lungo la siepe”, solitamente molto spinosa, sa di non poterla oltrepassare, può solo percorrerne il perimetro per trovarne la porta e aspettare o chiedere un aiuto caritatevole che non è detto che arrivi. Stare “lungo la siepe”, allora, è indice di una povertà e un bisogno ancora maggiore rispetto ai poveri e ai menomati di prima che, almeno, potevano trovare rifugio nella città.

 

C’è poi un particolare non da poco nelle parole rivolte al servo per questa seconda missione, cioè “costringili a entrare”, che ci parla non di forza o violenza, ma di persuasione, di richiamo, parole che corrispondono al nostro vissuto. Per quanto mi riguarda, quando ho ricevuto l’annuncio del Vangelo non ho risposto subito, pur non avendolo escluso a priori: ho avuto bisogno di tempo per pensare, per chiedermi se quanto mi veniva prospettato fosse vero, di sperimentare, guardarmi attentamente dentro per valutare se quanto provavo fosse reale o qualcosa che era solo nella mia mente. Solo quando sono stato “convinto”, “costretto”ho accettato, e come me credo tutti quelli che ora sono figli di Dio. Perché nascere “di acqua e di spirito”è qualcosa che non si trasmette ereditariamente.

Il “costringili ad entrare”si raccorda allora con la capacità che ha la Parola di Dio, attraverso lo Spirito Santo, di convincere la persona di peccato, giustizia e giudizio e quindi stravolgerne l’esistenza; ricordiamo infatti la Sua caratteristica: “La Parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore. Non vi è creatura che possa nascondersi davanti a lui, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi suoi e noi dobbiamo rendere conto” (Ebrei 4.12,13).

Si potrebbe osservare che ciò vale per tutti gli uomini indipendentemente dalla loro etnia, ma i pagani, a differenza degli ebrei, devono rinunciare a un bagaglio storico penalizzante, anche se la rivoluzione interiore è la stessa. Parlare con un ebreo convertito è un’esperienza molto particolare perché ci si rende conto di quanto per lui sia agevole comprendere la Scrittura, che infatti fu data al suo popolo e non ad altri.

L’esperienza col Dio vivente è stravolgente per chiunque e non per nulla scrive Geremia “Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre. Mi hai fatto violenza, e hai prevalso”(20.7). Ecco perché Gesù disse “Dai giorni di Giovanni il Battista fino ad ora, il regno dei cieli subisce violenza e i violenti se ne impadroniscono”(Matteo 11.22). Chi fu “costretto ad entrare”e subì la violenza di Dio fu Saulo di Tarso quando era diretto a Damasco in Atti 9 e possiamo dire che tutto questo, il costringere, consiste in quella forza d’attrazione che fa Padre sugli uomini in Giovanni 6.44, “Nessuno può venire a me, se il Padre non lo attrae”.

Sotto certi aspetti, la vita stessa del cristiano è fatta di violenza, solo che questa viene esercitata nei confronti dell’ “uomo vecchio”e non certo sul nostro prossimo: nessuno è chiamato ad usare un cilicio o a punizioni corporali, ma a reprimere e gestire gli stimoli della carne che tenderà sempre ad avere il sopravvento; ricordiamo l’amputazione della mano e il cavare l’occhio di cui abbiamo parlato in un precedente capitolo. Ancora meglio, per comprendere il concetto, quanto scrive l’apostolo Paolo ai credenti di Roma: “Quelli che vivono secondo la carne, pensano alle cose della carne; quelli che invece vivono secondo lo Spirito, alle cose dello Spirito. Ma i desideri della carne portano alla morte, mentre i desideri dello Spirito portano alla vita e alla pace. (…) Se vivete secondo la carne, voi morirete; se invece con l’aiuto dello Spirito voi fate morire le opere del corpo, vivrete” (8.5-13).

La costrizione “ad entrare”si verifica proprio nel momento in cui un uomo capitola dinnanzi a Dio facendo morire l’uomo vecchio prima che questo muoia davvero, quando la porta del Regno verrà chiusa e dovrà affrontare quella che è chiamata “la seconda morte”.

Torniamo alla parole del signore al servo: tutto questo mandarlo per la città e fuori ha un solo fine, “perché la mia casa si riempia”. Se ragioniamo secondo il metro umano è qualcosa che non ha senso perché non si capisce per quale ragione una persona altolocata possa desiderare di avere la propria dimora piena di sconosciuti, per di più non certo della sua estrazione sociale. Ho conosciuto rarissime persone che, periodicamente, offrivano pasti a gruppi di indigenti, ma lo facevano sempre fuori dalle proprie abitazioni, senza mangiare con loro; davano incarico ad altri di organizzare la cosa, il pasto avveniva e tutto finiva lì. Oggi abbiamo la Caritas ed altre organizzazioni che si impegnano in tal senso, ma si tratta di qualcosa di ancora diverso: non c’è una festa, ma esistenze che scorrono e si ritrovano il giorno successivo, non c’è una porta che si chiuda per separare i convenuti dagli altri perché è proprio da quel chiudere che comincia una nuova vita.

Nel nostro caso, invece, sì. Un uomo ricco, abitante in una casa immensa come emerge dal contesto, chiama alla sua mensa le categorie di cui abbiamo letto che, senza quell’invito, non solo non sarebbero mai potute entrare, ma tantomeno mangiare cibi che sicuramente non avevano mai gustato. Queste persone vengono prese così come sono e tali entrano nella dimora del padrone: sono sporchi, malvestiti come tutti coloro che vivono a stento, esattamente come qualunque persona che viene invitata ancora oggi da Dio, poiché il tempo della grazia non è finito. Spiritualmente, anche noi non eravamo degni e ci accontentavamo di quel poco d’ombra che poteva offrire una siepe e di mendicare ad altri un nutrimento che non bastava, eppure un giorno è arrivato il Servo e ci ha invitato.

A conclusione viene spontaneo domandarci il perché delle differenti versioni della parabola: questa sicuramente, secondo il costume dei rabbini, fu ripetuta da Gesù più volte e in diverse occasioni, Matteo 22 compresa, stante il fatto che il Suo pubblico non era lo stesso, con varianti che si adattavano alle sfumature che via via Nostro Signore voleva sottolineare.

Qui la parabola termina con parole molto amare che denotano non il fatto che il padrone di casa si sia offeso, ma che è il comportamento di chi rifiuta il suo invito a determinarne l’esclusione: con le parole “Nessuno di quelli che erano stati invitati gusterà la mia cena”, Gesù si mette per la prima volta sullo stesso piano del padrone di casa, anzi, praticamente rivela di essere la stessa cosa come in effetti è, perché “Io e il Padre siamo una cosa sola”(Giovanni 10.30). Possiamo anche fare un raccordo con un passo letto recentemente a conclusione della parabola dei servi che vegliano: “Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà sedere a tavola e passerà a servirli”(Luca 12.37).

Credo non ci potesse essere modo migliore per finire quell’incontro: Gesù era stato invitato da quel capo dei farisei non per riguardo, ma perché potesse essere studiato, attentamente e da vicino; guardando come le persone si accalcavano per avere i posti migliori, inizia una lezione di umiltà che certo non capirono, poi passa a dare un insegnamento su cosa sia la carità che porta alla “ricompensa alla resurrezione dei giusti”e infine, sempre partendo dalla situazione del banchetto, apre un grosso squarcio sulla prospettiva del regno dei cieli, sull’invito più e più volte fatto dai profeti a un popolo che pareva tanto più allontanarsi quanto più Dio si avvicinava loro. Amen.

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13.22 – IL GRAN CONVITO II (Luca 14.15-24)

13.22 – Il gran convito II (Luca 14.15-24)  

 

15Uno dei commensali, avendo udito questo, gli disse: «Beato chi prenderà cibo nel regno di Dio!». 16Gli rispose: «Un uomo diede una grande cena e fece molti inviti. 17All’ora della cena, mandò il suo servo a dire agli invitati: «Venite, è pronto». 18Ma tutti, uno dopo l’altro, cominciarono a scusarsi. Il primo gli disse: «Ho comprato un campo e devo andare a vederlo; ti prego di scusarmi». 19Un altro disse: «Ho comprato cinque paia di buoi e vado a provarli; ti prego di scusarmi». 20Un altro disse: «Mi sono appena sposato e perciò non posso venire». 21Al suo ritorno il servo riferì tutto questo al suo padrone. Allora il padrone di casa, adirato, disse al servo: «Esci subito per le piazze e per le vie della città e conduci qui i poveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi». 22Il servo disse: «Signore, è stato fatto come hai ordinato, ma c’è ancora posto». 23Il padrone allora disse al servo: «Esci per le strade e lungo le siepi e costringili ad entrare, perché la mia casa si riempia. 24Perché io vi dico: nessuno di quelli che erano stati invitati gusterà la mia cena»».

 

            Siamo così giunti alla seconda parte del verso 21 cioè quando, una volta che il servo riferisce al suo signore la reazione degli invitati alla “grande cena”, la reazione è “adirato, disse al servo”. È questo un particolare che ci consente alcune riflessioni perché il verso ci pone davanti ad una delle caratteristiche di Dio, quella dell’adirarsi, non meno importante dell’amore profondo che nutre per la creatura perché, se fosse solo amore, non sarebbe perfetto. Piuttosto, il Signore Iddio è l’essere Vivente (e in quanto tale datore di vita) in cui convivono in modo assolutamente equo pietà, misericordia, carità, giustizia, ira, vendetta e potenza; possiamo dire che il modo in cui si rivela dipende dall’uomo, dal suo comportamento e da ciò che lo abita, posto che l’agire di Dio sarà sempre volto al recupero della creatura prima di condannarla.

Esemplare in proposito Ezechiele 33.11: “Com’è vero che io vivo (oracolo del Signore Dio), io non godo della morte del malvagio, ma che il malvagio si converta dalla sua malvagità e viva. Convertitevi dalla vostra condotta perversa! Perché volete morire, o casa d’Israele?”. In questo richiamo di Dio al popolo, uno dei tanti nel corso della sua storia, vediamo che solo dopo un ostinato rifiuto alla conversione arriverà il giudizio, non prima. E l’invito ad abbandonare un’esistenza disordinata per essere ciò per cui si era stati eletti, cioè servire, è, fatte le debite proporzioni, lo stesso della “grande cena” perché in quel “e viva” di Ezechiele non si allude a una sopravvivenza, ma a una vita piena, di benedizione e crescita davanti a Dio, che del convito altro non è che il preludio.

Ancora, guardando agli attributi di Dio che sono stati elencati, ovviamente in parte, poco sopra, si può considerare che ciascuno di essi, se fosse prevalente, andrebbe a turbare il Suo comportamento e non potremmo fidarci di Lui: in altri termini se Dio fosse solo amore, allora perdonerebbe tutti e il “paradiso” sarebbe popolato dalla stessa accozzaglia umana con la quale siamo costretti a convivere. Se Dio fosse solo giustizia, nessuno di noi scamperebbe e il “paradiso” sarebbe desolatamente vuoto, con solo Lui e le schiere celesti; mancherebbe l’uomo creato proprio perché serviva un essere tratto dalla terra che fosse amato e Lo amasse.

So di dire una frase forte, ma è come se Dio avesse avuto bisogno dell’uomo perché al di fuori di lui nessuno poteva dirsi spirituale e al tempo stesso costituito dalla stessa materia che avrebbe dato nome al pianeta, la Terra. E il nome stesso Adamo significa “fatto di terra”. Adamo e sua moglie furono gli unici esseri chiamati ad esercitare il libero arbitrio al contrario dell’Avversario e dei suoi angeli, che scelsero deliberatamente di ribellarsi. Si tratta di due cose diverse.

Tornando in tema, abbiamo visto gli effetti che vi sarebbero se Dio fosse esclusivamente amore, ma se fosse solo – ad esempio – da temere o (ancora) giustizia, certo dovremmo subire i suoi giudizi attimo dopo attimo, senza speranza di riscatto perché non saremmo mai idonei a sostenerne la presenza tanto nella nostra vita terrena quanto in quella futura. E chi ha vissuto o vive con persone irascibili e disturbate sa cosa voglio dire.

Questa è una delle ragioni per le quali fu ordinato il profumo quale parte integrante dell’incontro con Dio: “Prenditi degli aromi, della resina, della conchiglia odorosa, del galbano, degli aromi, con incenso puro e in dosi uguali; ne farai un profumo composto secondo l’arte del profumiere, salato, puro, santo; ne ridurrai una parte in minutissima polvere, e ne porrai davanti alla testimonianza nella tenda del convegno, dove io m’incontrerò con te. Esso vi sarà una cosa santissima” (Esodo 30.34-36). Ora quel profumo, che non a caso doveva essere presente “dove io m’incontrerò con te”, rappresentava ciò che l’uomo avrebbe dovuto essere e che Dio avrebbe fatto per lui dandogli in dono il Figlio, perfetto in ogni cosa come l’incenso suggeriva: anche nel Figlio, infatti, dimoravano in parti uguali le caratteristiche del Padre. Certo fu l’amore e il servizio instancabile per la creatura ad emergere, ma ciò fu in quanto figlio dell’uomo e in modo ben diverso si rivelerà al Suo ritorno.

Il profumo, poi, ci parla anche di come dobbiamo/dovremmo essere noi tanto nei rapporti con la nostra persona, quanto con gli altri per non caderne vittima: la nostra disponibilità non può trasformarsi in servilismo, mai e per nessuno. Il nostro perdono non può essere dato a prescindere dal comportamento che il nostro prossimo ha per noi. La nostra eventuale “ira” non può sfociare nel peccato, la nostra dignità, come figli di Dio, non può essere calpestata da nessuno. E guardando a Gesù, questo fu il suo comportamento, fatto salvo per la crocifissione per quanto, anche lì, esisteva un limite che nessuno avrebbe potuto superare, come testimonia il fatto della lancia e delle gambe che non furono spezzate, come scritto: “Questo avvenne perché si adempisse la Scrittura: «Non gli sarà spezzato alcun osso». E un altro passo dice “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto” (Giovanni 19.36-37).

A volte si dimentica che non esistono qualità più importanti nel credente, ma che devono albergare in modo bilanciato per fare di noi delle persone equilibrate nel servizio e nella testimonianza, posto che sappiamo la carità essere la più importante di tutte, che però viene temperata dalle altre ed è l’essere “bambini quanto a malizia, ma uomini maturi quanto ai giudizi” (1 Corinti 14.20).

 

Bene, è stata fatta questa premessa perché non sono pochi quanti, a fronte dell’adirarsi di Dio, si sentono in grado di giudicarlo quasi che fosse – come in effetti vorrebbero – pronto a soddisfare ogni loro desiderio, aspettativa, preghiera. Ma si tratta di un Dio creato dall’uomo, non certo di quello Vivente e Vero.

In questa parabola il “signore” si adira perché tutte le scuse accampate dagli invitati sono un oltraggio non solo a lui, ma alla propria disponibilità: voleva accogliere le persone che conosceva e lo conoscevano, col quale c’erano stati dei rapporti e sapevano della sua disponibilità. Ecco perché abbiamo letto “ti prego di scusarmi” e “non posso venire” usando come pretesto una norma legale interpretata.

Anche qui, ricollegandoci a quanto espresso in precedenza, quelle persone avevano equivocato, scambiato la disponibilità con debolezza nel senso che, secondo loro, chi era stato tanto generoso lo sarebbe sicuramente stato ancora, ma sappiamo, anche per la nostra conoscenza sommaria, che quando nelle parabole c’è un convito questo è il riassunto finale delle esistenze che in Dio si compendiano o meno prima che l’eternità abbia inizio, per cui c’è una porta che si chiude per sempre; chi sarà dentro sarà dentro, chi sarà fuori sarà fuori, chi in un mondo, chi in un altro, senza possibilità di interscambio.

Proseguendo, vediamo che al servo viene dato un altro incarico: “Esci subito per le piazze e per le vie della città e conduci qui i poveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi”, la stessa categoria di persone citata da Gesù al capo dei farisei che lo aveva invitato, ma che qui hanno un altro significato perché, paradossalmente, viene chiesto al servo di chiamare proprio quel genere di persone che a quel convito non avrebbero potuto partecipare in quanto si trattava di qualcosa di riservato a chi si conosceva. Viene quindi da pensare che gli invitati da quell’ “uomo” fossero proprio i naturali eredi di quanti avevano tramandato e conservato la Parola di Dio poi trasmessa al popolo insegnandola, queli che per primi avrebbero dovuto riconoscere inequivocabilmente Gesù come l’inviato di Dio, il Messia.

È tra l’altro molto importante tenere presente che chi dà il convito era superiore per rango a tutti gli invitati, che certo non avrebbero mai potuto permettersi di organizzare quanto quel signore aveva apparecchiato per loro.

A questo punto sorge però una questione, e cioè per quale motivo vengono chiamate al banchetto, dopo il rifiuto dei legittimi destinatari, persone che non avevano nulla a che fare con l’ideatore – organizzatore della “gran cena”: escludendo l’ipotesi che ciò sia avvenuto per evitare uno spreco di cibo, non resta altro pensiero se non quello che, adirato con coloro che avevano disprezzato il suo gesto, quell’uomo abbia voluto restare fedele alla sua benignità: prende atto del rifiuto, dell’indifferenza di coloro ai quali l’invito spettava direi “di diritto” per le relazioni con lui, e si rivolge ad altri, sempre però – attenzione – residenti “in città”, quindi all’interno delle mura, quindi sempre, presumiamo con un buon margine di certezza, israeliti benché sprezzati dai loro orgogliosi fratelli in quanto poveri e storpi.

Ecco allora che tutte queste persone rappresentano proprio i disprezzati dai Giudei, cioè quei “pubblicani e peccatori” che invece Gesù accoglieva e lo seguivano, a differenza loro.

Ricordiamo quando avvenne, ad esempio alla chiamata di Levi Matteo, quando offrì anche lui un convito: “Mentre sedeva a tavola nella casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e se ne stavano a tavola con Gesù e con i suoi discepoli, Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli; «Come mai il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?” (9.10,11). Quasi commovente poi è la nota di Luca che precede l’esposizione della parabola della pecora smarrita: “Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro»” (15.1,2).

 

Tornando al testo, il servo di quel signore fa ancora una volta come ordinato, ma il rapporto che presenta denota che l’intento di avere il convito pieno di partecipanti non era ancora stato raggiunto: “È stato fatto come hai ordinato, ma c’è ancora posto”. Ecco, qui credo che sia impossibile non collegare queste parole ad un’altra frase di Gesù relativa alla collocazione che avranno i credenti un giorno: “Il vostro cuore non sia turbato; abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molti posti. Se no, ve l’avrei detto. Io vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io. E del luogo dove io vado, voi conoscete la via” (Giovanni 14.1-4).

“C’è ancora posto” ci consente di considerare la vastità del luogo in cui avrebbe dovuto celebrarsi la “grande cena” perché, pur non sapendo quanti poveri e menomati ci fossero a Gerusalemme a quei tempi, certo il loro numero doveva essere molto grande. È questa frase del servo, “c’è ancora posto”, che apre le prospettive per tutti coloro che non appartengono al popolo d’Israele e verranno invitati esattamente come tutti gli altri: questa volta, infatti, al servo viene detto di uscire “fuori”, particolare non rilevabile dalla nostra traduzione ma presente in altre, da cui vediamo che a venire raccolti sono quanti erano appunto “fuori dalle mura”, “per le strade lungo le siepi” nei pressi delle quali cercavano riparo.

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13.21 – IL GRAN CONVITO I (Luca 14.15-24)

13.21 – Il gran convito I (Luca 14.15-24)   

 

15Uno dei commensali, avendo udito questo, gli disse: «Beato chi prenderà cibo nel regno di Dio!». 16Gli rispose: «Un uomo diede una grande cena e fece molti inviti. 17All’ora della cena, mandò il suo servo a dire agli invitati: «Venite, è pronto». 18Ma tutti, uno dopo l’altro, cominciarono a scusarsi. Il primo gli disse: «Ho comprato un campo e devo andare a vederlo; ti prego di scusarmi». 19Un altro disse: «Ho comprato cinque paia di buoi e vado a provarli; ti prego di scusarmi». 20Un altro disse: «Mi sono appena sposato e perciò non posso venire». 21Al suo ritorno il servo riferì tutto questo al suo padrone. Allora il padrone di casa, adirato, disse al servo: «Esci subito per le piazze e per le vie della città e conduci qui i poveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi». 22Il servo disse: «Signore, è stato fatto come hai ordinato, ma c’è ancora posto». 23Il padrone allora disse al servo: «Esci per le strade e lungo le siepi e costringili ad entrare, perché la mia casa si riempia. 24Perché io vi dico: nessuno di quelli che erano stati invitati gusterà la mia cena»».

 

            Prima di esaminare il nostro passo, di immediata comprensione ma al tempo stesso impegnativo, occorre ricordare quanto avvenuto pochi attimi prima, cioè Gesù che disse a colui che l’aveva invitato “Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici, né i tuoi fratelli, né i tuoi parenti, né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. Quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti” (vv. 12-14).

È quindi lecito pensare che a queste parole seguirono momenti di grande imbarazzo e “uno dei commensali”, quindi un altro fariseo, per alleviare la tensione, fece un collegamento tra quel convito e le parole di Gesù sulla “resurrezione dei giusti” dicendo “Beato chi prenderà cibo nel regno di Dio!”. È questo un punto delicato da interpretare, ma non credo che quell’intervento fosse dettato da ragioni spirituali; piuttosto fu la conoscenza religiosa di quel fariseo che parlò, buttando lì un principio nel tentativo di cambiare argomento; non credo si riferisse a Isaia 25.6-8 relativo al banchetto celeste dei tempi a venire: “Preparerà il Signore degli eserciti – celesti – per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati. Egli strapperà su questo monte il velo che copriva la faccia di tutti i popoli e la coltre – di ignoranza – distesa su tutte le nazioni. Eliminerà la morte per sempre”.  È proprio questo passo che, pur non citato, viene sviluppato da Gesù, prendendo spunto dalla frase che l’ignoto pronunciò nel tentativo di alleggerire la tensione che si era venuta a creare.

La parabola del convito è riportata, con più dettagli, anche da Matteo 22, ma verrà affrontata separatamente stante la sua indipendenza da quella che stiamo esaminando: qui abbiamo “un uomo”, in Matteo “un re”, ma è evidente che, mentre nel nostro caso Gesù espone un concetto basilare, nell’altra occasione lo approfondirà con più dettagli perché erano differenti le circostanze e l’uditorio.

Bene, l’uomo della nostra parabola “diede una gran cena”: non ci è detto il motivo, ma il racconto, per come si sviluppa, è incentrato (anche) sulla volontà di questa persona di offrirla e soprattutto che questa veda la partecipazione di molti. È anche chiaro che vi sia una preferenza, perché i “molti” che quell’uomo invita rientrano in una categoria di persone precisa, quelli che lo conoscevano, avevano un rapporto con lui e viceversa.

È facile riconoscere in questi il popolo di Israele, quello eletto da Dio ad essere suo; ciò lo vediamo non solo quando fu liberato dalla schiavitù d’Egitto (ricordiamo le parole “Lascia andare il mio popolo perché mi serva” in Esodo), ma anche da molto prima, con Abramo di cui abbiamo dedicato diverse riflessioni. Anche da Abramo comunque possiamo andare a ritroso, con Noè e prima ancora a Set, il cui nome significa “Sostituto”, figlio di Adamo che segnò un punto di partenza spirituale perché in Genesi 4.26 leggiamo “Anche a Set nacque un figlio, che chiamò Enos. A quel tempo si cominciò a invocare il nome del Signore”.

Anche da qui, però, possiamo retrocedere nel tempo e arrivare ad Abele, che nella sua coscienza sapeva che il Creatore andava onorato e ringraziato per i doni che gli arrivavano. Da lui risaliamo ad Adamo, “che fu di Dio” (Luca 3.38), e da Adamo a YHWH stesso, progettista e creatore non solo dell’universo e dell’uomo, ma anche del piano di salvezza che si sarebbe dovuto sviluppare dopo la caduta sotto la prospettiva del recupero non di Eden, ma della vita di comunione con l’uomo da Lui voluta. Ecco chi è/sono, a parte ciò che già sappiamo come credenti e lettori del Vangelo, “l’uomo” e gli invitati, discendenti naturali di quei grandi uomini di Dio grazie anche ai quali possiamo esistere spiritualmente.

La “grande cena” è proprio quella in vista dei “nuovi cieli e nuova terra dove dimora stabile la giustizia”, la dimora eterna di Dio con l’uomo, impossibile da raggiungere senza invito né il vestito dato a ciascuno, ma ancora di più senza conoscere chi è il suo autore e ideatore. Ecco quindi che le parole “fece molti inviti” si riferiscono alle innumerevoli manifestazioni d’amore rivolte al Suo popolo tanto con miracoli che con i Suoi messaggi che i profeti provvedevano a trasmettere. I “molti inviti” si possono intravedere nelle parole del Salmo 68 di Davide, vv.6-11: “O Dio, quando uscivi davanti al tuo popolo, quando camminavi per il deserto, tremò la terra, i cieli stillarono davanti a Dio, quello del Sinai, davanti a Dio, il Dio d’Israele. Pioggia abbondante hai riversato, o Dio, la tua esausta eredità tu hai consolidato e in essa ha abitato il tuo popolo, in quella che, nella tua bontà, hai reso sicura per il povero”.

Ora, negli antichi scritti abbiamo la testimonianza che l’essere resi partecipi della sapienza – figura del Figlio la cui accettazione sarà fonte di doni spirituali – equivale all’accettazione di un invito tutto particolare: “La sapienza si è costruita la sua casa, ha intagliato le sue sette colonne. Ha ucciso il suo bestiame, ha preparato il suo vino e ha imbandito la sua tavola. Ha mandato le sue ancelle a proclamare sui punti più alti della città: «Chi è inesperto venga qui!». A chi è privo di senno elle dice: «Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che ho preparato. Abbandonate l’inesperienza e vivrete, andate diritti per la via dell’intelligenza» (Proverbi 9.1-6).

Infine Isaia 55.1-3 che ogni tanto ricordiamo: “O voi tutti assetati, venite alle acque, voi che non avete denaro, venite, comprate e mangiate; venite, comprate senza denaro, senza pagare, vino e latte. Perché spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro guadagno per ciò che non sazia? Su, ascoltatemi e mangerete cose buone e gusterete cibi succulenti. Porgete l’orecchio e venite a me, ascoltate e vivrete”.

Arriviamo così al nostro verso 17, “all’ora della cena”, quindi quanto è tutto pronto. E qui vediamo i tempi di Dio, che non sono i nostri, ma che ci dicono che tutto è ormai apparecchiato, i cibi stanno finendo di cuocere e stanno per essere serviti. Stante l’imminenza della cosa, ecco che “mandò il suo servo a dire agli invitati: «Venite, è pronto!»”: notiamo l’articolo determinativo, “il”, quindi Colui che, per dignità e grado, poteva rappresentarlo, quindi “il Servo del Signore”, quello da Lui sostenuto, che rende l’annuncio del Regno di Dio e su come entrarvi in modo assolutamente perfetto al punto da dire, sulla croce, “tutto è compiuto”, ultima frase pronunciata quando era in vita, umanamente, con il corpo. Ciò secondo Giovanni 19.30.

Non sottovalutiamo il fatto che quel “servo” avrebbe dovuto presentarsi come inequivocabilmente inviato dall’organizzatore del convito perché non fosse confuso con altri e così fu per Gesù che infatti, come Servo ad annunciare che ogni cosa era pronta, arrivò proprio in un momento particolare della storia umana, come scrive l’autore della lettera agli ebrei con versi che ogni tanto amo riportare: “Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi ha parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante al quale ha fatto anche il mondo” (1.1,2).

Possiamo ricordare anche le parole di Giovanni Battista, che esortava i suoi uditori a ravvedersi perché “il Regno dei cieli è vicino”, ma quello che non si può fare a meno di sottolineare nella parabola è che gli invitati erano informati, sapevano che prima o poi vi sarebbe stata una cena per cui non potevano avere scuse nel rifiutare l’invito. Perché lo sapevano? Perché tutta la Parola loro data, a partire da Mosè, ma anche molto prima, lasciava intendere che il progetto di Dio per il Suo popolo sarebbe giunto un giorno a perfetto compimento.

Tutto lascia intendere, nella parabola, che l’ideatore del convito fosse stata una persona importante, vuoi per dignità e rango, vuoi per la relazione che intercorreva con gli invitati. E infatti la scortesia del rifiuto sembra cogliere quell’uomo di sorpresa e, guardando alle risposte che vengono date, possiamo osservare due cose: la prima è che gli argomenti che adducono per evitare il convito sono di natura esclusivamente egoistica: uno ha “comprato un campo” e deve andare a vederlo, l’altro ha comprato “cinque paia di buoi” e deve andare a provarli, un altro ancora “si è appena sposato”. I primi due, poi, dicono “Ti prego di scusarmi” così, confidenzialmente, quasi a sottintendere che la prossima volta avrebbero accettato stante l’impegno improvviso cui non potevano sottrarsi, ritenendo evidentemente campo e buoi più importanti della relazione con l’autore dell’invito.

Notiamo che, per i primi due personaggi, l’interesse personale viene prima di tutto: il “campo” e i “buoi”hanno riferimento con il denaro e le “cose di questo mondo” in genere, da sempre ostacolo forte, violento per la Parola di Dio: “Quando abbiamo di che mangiare e di che coprirci, accontentiamoci. Quelli invece che vogliono arricchirsi, cadono nella tentazione, nell’inganno di molti desideri insensati e dannosi, che fanno affogare gli uomini nella rovina e nella perdizione. L’avidità del denaro infatti è la radice di tutti i mali; presi da questo desiderio, alcuni hanno deviato dalla fede e si sono procurati molti tormenti” (1 Timoteo 6.9.10).

L’interesse è quindi ciò che impedisce ai primi due invitati di accettare quanto il servo, inviato a dichiarare aperto il convito, proponeva loro.

Il terzo, invece, che non si scusa neppure a differenza dei precedenti, si trincera dietro un –in questo caso- cavillo legale, poiché sappiamo che la Legge, in Deuteronomio 24.5, esentava l’uomo dalla guerra o altri incarichi perché “…sarà libero per un anno di badare alla sua casa e farà lieta la moglie che ha sposato”, ma in questo caso l’appellarsi al verso citato era chiaramente pretestuoso perché, semplicemente, quell’uomo desiderava starsene tranquillamente in casa propria usando – attenzione – la Legge come giustificazione del rifiuto, cosa che sappiamo fecero molti farisei, scribi e dottori. Dei tre, è l’unico che non si scusa, convinto che la norma citata sia sufficiente.

Credo non sbagli neppure chi ha visto, in quest’ultimo rifiuto, il terzo livello di ostacoli nella parabola dei terreni, quello dei rovi in Matteo 13.22: “Quello seminato tra i rovi è colui che ascolta la Parola, ma le sollecitudini di questo modo, l’inganno delle ricchezze e i piaceri di questa vita soffocano la parola ed essa non dà frutto”.

Comunque sia, questi tre personaggi che rappresentano i “molti” invitati, hanno tutti di meglio da fare che non partecipare al convito organizzato da quell’ “uomo” che, a differenza di quelli, lo offriva liberamente e nel loro interesse. Esiste una chiara sproporzione, una distanza enorme fra le parti: uno desidera condividere e, pur di avere la mensa piena, inviterà persone che con lui non avevano nulla a che fare; gli altri si vedono bastanti a se stessi, hanno le loro cose, i loro interessi, danno per scontato che l’invito rifiutato sarebbe giunto un’altra volta, quando avrebbero avuto tempo. E ancora di più oggi sono tanti quelli che reputano il tempo come qualcosa che appartenga loro e di cui possano disporre liberamente.

Giungiamo così alla fine di queste riflessioni, con la prima parte del verso 21: “Al suo ritorno, il servo riferì tutto questo al suo padrone”. Ora credo che qui, fra i tanti, abbiamo fondamentalmente due insegnamenti, il primo dei quali è non ancorarsi sempre e necessariamente alla letteralità del testo, perché sembrerebbe che Gesù venga inviato altre due volte sulla terra ad annunciare il convito, cosa chiaramente impossibile. Piuttosto – secondo insegnamento – il suo “riferire tutto al padrone”, tradotto più correttamente come “signore”, ha connessione con le innumerevoli volte in cui pregò il Padre rapportandogli e discutendo con Lui di tutto, in particolar modo sul cosa, come e dove agire. E sappiamo che un giorno disse “Vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare” (Matteo 21.43).

Abbiamo poi altri stimoli di riflessione offertici anche dal fatto che, come Gesù pregava il Padre rapportandogli ogni cosa, lo stesso facevano i discepoli con lui, in particolare al ritorno della loro missione quando leggiamo “Tornati dal loro giro, gli apostoli riferirono a Gesù tutto quello che avevano fatto” (Luca 9.10). Da qui il fatto che la preghiera non è, come purtroppo molti fanno, un elenco di ciò che ci necessita, ma soprattutto un esame, un rapportare quanto da noi operato per avere consigli, indirizzi, trovare soluzioni a problemi che devono essere soprattutto personali, per come affrontare dignitosamente il giorno, per correggere quei difetti e mancanze che sappiamo benissimo di avere e che possono rallentarci nella nostra vita cristiana.

Pregare, allora, non è facile perché prima bisogna essere di un’onestà assoluta prima con noi stessi perché chi ci ascolta non si può ingannare. E infatti, è scritto “Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia – due cose –  e le altre cose vi saranno date in aggiunta” (Matteo 6.19). Amen.

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13.20 – CHI INVITARE (Luca 14.12-14)

13.20 – Chi invitare (Luca 14.12-14)          

 

12Disse poi a colui che l’aveva invitato: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. 13Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; 14e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti».

 

            Siamo giunti al secondo intervento verbale di Gesù che, dopo aver parlato a quelli che cercavano i primi posti in quel convito sabatico, ora si rivolge proprio “a colui che l’aveva invitato” ed è proprio qui che credo risieda la corretta lettura delle parole che verranno.

Così come al gruppo degli invitati viene detto di fare attenzione a dominare la propria vanità spostando il concetto su un terreno spirituale e scritturale, il fariseo viene esortato a rifuggire dalla logica del “do ut des” alla quale non solo lui, ma tutti i presenti oltre a chi aveva alte cariche, erano abituati.

Le normali relazioni interpersonali, solitamente, sono utili a tutti e soddisfano il semplice e disinteressato piacere di stare insieme e condividere, ma raramente questo avviene tra le categorie sociali elevate in cui il ritrovarsi serve a consolidare conoscenze, alleanze o anche il semplice confronto tra pari per alimentare il proprio orgoglio, in altri termini specchiarsi l’uno nell’altro per scoprirsi membri di una stessa “corporazione”. Ricordiamo anche i pranzi o le cene di lavoro in cui perfetti sconosciuti sono costretti a confrontarsi e recitare una parte per ottenere un risultato commerciale.

            Le parole di Gesù che abbiamo letto, poi, rivestono ancora più valenza nel fatto che furono pronunciate ad un uomo che, seppure importante per carica, non viveva in un grosso centro urbano né poteva dirsi particolarmente addentrato nel vero potere, quello che stava a Gerusalemme, ma comunque teneva molto ai “ricchi vicini” (a parte parenti e fratelli, cioè appartenenti alla sua corporazione) per cui, sostanzialmente, il suo atteggiamento si configurava nel modo che abbiamo descritto. In pratica, alla franchezza e alla spontaneità delle relazioni, si era sostituito il calcolo e l’interesse, come prova lo stesso invito a Gesù, rivoltogli evidentemente per poter coglierlo in flagranza di chissà quale reato e non per avere a casa propria qualcuno che avrebbe potuto cambiare radicalmente il proprio destino spirituale.

            La stessa frase “perché a loro volta non t’invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio” rivela questa mancanza di apertura l’uno verso l’altro; “t’invito perché tu m’inviti” era una frase che certo non veniva mai pronunciata, ma che si poteva ascoltare, respirare, vedere in ogni gesto, in ogni sguardo, nella forma stessa del convito. Era una consuetudine che rendeva tutti prigionieri e il pranzo era una formalità da adempiere, come testimonia il fatto stesso che fosse di sabato, giorno in cui si mangiava ciò che era stato preparato il venerdì, quindi non certo lautamente, quindi chi era lì aveva un motivo che andava oltre al semplice piacere per il cibo. Questo motivo non era da ricercare in qualche strategia per ottenere un favore, ma bastava anche solo essere presenti lì, ammessi, invitati da una persona in vista per poter farsi notare o dire «io c’ero».

            Si trattava quantomeno della situazione psicologica (e dei suoi contrari) già descritta in Luca 6.32-35: “Se amate quelli che vi amano, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori amano quelli che li amano. E se fate del bene a coloro che fanno del bene a voi, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori fanno lo stesso. E se prestate a coloro da cui sperate ricevere, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori concedono prestiti ai peccatori per riceverne altrettanto. Amate invece i vostro nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e la vostra ricompensa sarà grande e sarete figli dell’Altissimo, perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi – nel senso che non li tratta come meriterebbero ai nostri occhi-. Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso”. Da sottolineare sicuramente “Anche i peccatori fanno lo stesso” a conferma che il comportamento cristiano non può ricordare, avere alcuna parentela con quello del mondo.

            All’organizzatore del convito a questo punto viene detto, al posto dei propri conoscenti altolocati e magari parenti vari, di invitare ben altre categorie di persone: poveri, storpi, zoppi e ciechi, cioè quelli che nella società di allora sopravvivevano con molta fatica dovendo dipendere tutti da altrui interventi caritatevoli che certo erano prescritti dalla Legge, ma che raramente venivano effettuati con amore. Anche la parabola del “buon samaritano” che abbiamo esaminato mette in risalto un amore che non necessariamente sarebbe stato dovuto nei confronti della vittima dei predoni, che pure è alla base della cura di quell’uomo. E qui, come nelle parole di Gesù al fariseo, constatiamo l’amara verità del sistema in cui viviamo: ti assiste o finge di farlo (cassa integrazione, servizi sociali, etc.), ti cura o finge di farlo (medicina di base, ospedali), ma non ti ama o, peggio, in alcuni casi simula un interesse o un sentimento che non prova in alcun modo perché può essere “terapeutico”. La persona è così costretta a mendicare un’attenzione, un interessamento la cui sincerità non potrà mai andare oltre a quella di una frase di circostanza, pronunciata magari con tanto di volto apparentemente adeguato al caso di specie.

            Ecco allora che Nostro Signore sposta tutta la lettura degli intenti umani su un piano che non ha nulla di letterale nel senso che le istruzioni che dà sul modo di organizzare un convito o di curare una persona non hanno alcun valore se non si va alla radice interiore del problema, nostro e altrui perché altrimenti il ”far del bene” potrebbe diventare un alibi per la propria coscienza e finire per generare le stesse relazioni che s’instaurano fra “amici, fratelli, parenti e ricchi vicini”.

            Piuttosto, con l’invito a chiamare quelli che non possono contraccambiare, Gesù intende fare riferimento ancora una volta allo spogliare se stessi, a rinunciare a quanto abbiamo di caro visto nelle consuetudini, nei piaceri egoistici, a tutto ciò che porta al “volere”, “potere” ed “essere” di cui abbiamo accennato nelle scorse riflessioni.

Siamo nulla perché, se fossimo qualcosa, non moriremmo.

Sappiamo che il povero poteva sperare nella benevolenza di chi pranzava perché gli offrisse gli avanzi, ma non è questo di cui parla Gesù, che chiama in causa prima di tutto l’atteggiamento: devi trattare le persone allo stesso modo perché sono tuoi fratelli, in quanto appartenenti al tuo popolo ed è qui che si rivela la figura del “prossimo” che non può essere generalizzata come facciamo nel nostro tempo per cui, a quel tempo, un distacco, un disinteressamento nei confronti dell’altro era davvero una contraddizione: erano tutti figli di Abrahamo.

            Ancora una volta, nella lettura dei Vangeli, emerge quanto sia importante contestualizzare certi eventi o parole di nostro Signore pena un grosso fraintendimento, poiché parrebbe che qui sia in un certo qual modo “proibito” organizzare una cena coi nostri cari e venga “caldeggiato” di fare la stessa cosa con poveri o menomati, ma non è così, altrimenti si incorrerebbe nell’errore commesso da S. Luigi di Francia (Luigi IX, 1200 ca,) o la regina Edwige di Polonia (1300), entrambi santi per la Chiesa di Roma che, in ossequio a queste parole, mantenevano rispettivamente 900 e 1200 poveri senza che facessero nulla.

            Al contrario, Gesù qui parla ad un ebreo e lo invita a coinvolgere nelle sue iniziative altri ebrei che, non ricchi né benestanti, ma privi di un sostentamento, avevano comunque in comune una storia: anche loro, lo abbiamo citato, erano figli di Abrahamo, quindi della promessa del Cristo. Anche loro avevano una tribù d’appartenenza, forse diversa in quanto a nome, ma tutte facenti riferimento a Giacobbe, chiamato da Dio Israele, e ai suoi dodici figli. Tutti, ricchi e poveri, erano i discendenti di coloro che furono chiamati dalla schiavitù d’Egitto e liberati perché facenti parte del popolo che Iddio aveva scelto perché lo servissero e seguissero ed ecco perché non era concepibile che una classe sociale agiata non si occupasse di quelle più deboli, a parte quanto imposto dalla Legge.

A parte le norme sulla spigolatura, sul raccolto che non doveva essere meticoloso per dare l’opportunità al povero di nutrirsi, ricordiamo la regola della decima annuale e triennale: “Alla fine di ogni triennio metterai da parte tutte le decime del tuo provento in quell’anno e le deporrai entro le tue porte. Il levita, che non ha parte né eredità con te, il forestiero, l’orfano e la vedova che abiteranno le tue città, mangeranno e si sazieranno, perché il Signore, tuo Dio, ti benedica in ogni lavoro a cui avrai messo mano” (Deuteronomio 14.29). Si noti la presenza del “forestiero” che veniva accolto a condizione di integrarsi sul serio cioè accettando non solo le regole del popolo che lo ospitava, ma soprattutto aderendo al patto di Dio attraverso la circoncisione.

            Ricordiamo anche la festa delle Settimane: “Quando si metterà la falce nella messe, comincerai a contare sette settimane e celebrerai la festa delle settimane per il Signore, tuo Dio, offrendo secondo la tua generosità e nella misura in cui il Signore, tuo Dio, ti avrà benedetto. Gioirai davanti al Signore, tuo Dio, tu, tuo figlio e tua figlia, il tuo schiavo e la tua schiava, il levita che abiterà le tue città, il forestiero, l’orfano e la vedova che saranno in mezzo a te, nel luogo che il Signore, tuo Dio, avrà scelto per stabilirvi il suo nome. Ricordati che sei stato schiavo in Egitto: osserva e metti in pratica queste leggi” (Deuteronomio 16.9-12).

            L’aiuto ai deboli però andava ben oltre ad una fredda applicazione di una norma, ma doveva essere qualcosa di naturale, che sgorgasse da un cuore disponibile, come dalle parole di Isaia che, facendo da tramite con Dio, ricordò cosa fosse il vero digiuno: “Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti?” (58.7). Infine Proverbi 14.31 “Chi opprime il povero offende il suo creatore, chi ha pietà del misero lo onora”.

            C’è però una chiave di lettura, allora come oggi, che in questo episodio resta, ed è rinvenibile nella frase “sarai beato perché non hanno da ricambiarti” (v.14): all’uomo naturale suona una contraddizione, perché quasi sempre la persona agisce per un tornaconto personale nel senso che, se dà, si aspetta qualcosa in contraccambio e non a caso, quando si dice “grazie”, plurale di “grazia”, si esprime riconoscenza, una amichevole dichiarazione di essere in debito per qualcosa.

            Se allora chi fa un favore, una cortesia, un gesto positivo nei confronti di qualcuno in un certo senso lega a sé la persona cui lo ha rivolto, non così accade per chi non può ricambiare ed è qui che sta la beatitudine nel senso che, se fossimo soli, potremmo ritenere sprecata una buona azione rivolta a chi non può ripagare, ma intervenendo il Dio che vede e che sa, questa persona riceverà la sua “ricompensa alla resurrezione dei giusti”, cioè quando ciascuno verrà giudicato secondo le sue opere perché “tutti dobbiamo comparire davanti al Tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute quando era nel corpo, sia in bene che in male” (2 Corinti 5.10).

            E questa frase è per i credenti di grande responsabilità, perché diretta a loro: l’incontro con Cristo non sarà come quello che certi uomini, vissuti ai tempi di Gesù, hanno sperimentato, cioè con una persona “umile e mansueta di cuore”, con Colui che “non è venuto per essere servito, ma per servire” ma con l’ “IO SONO”, “l’Alfa e l’Omega, il Principio e la Fine” la cui visione provocò nell’apostolo Giovanni, che con Gesù aveva un rapporto particolare a differenza degli altri undici, un mancamento: “Appena lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto” (Apocalisse 1.17). Sarà al Tribunale di Cristo che molti ultimi saranno primi e viceversa, perché i Suoi occhi, il fuoco “che farà la prova dell’opera di ciascuno” e la “spada a due tagli” che esce dalla Sua bocca selezioneranno, separeranno, vaglieranno in modo assolutamente perfetto nel senso che non sarà possibile, come nella giustizia umana, cercare un secondo o un terzo grado di giudizio per vedersi stornata la decisione del primo Tribunale a nostro favore.

            Notare il possessivo “tua ricompensa”, cioè qualcosa di adatto a te, perché ogni nostra azione ne ha una, nel bene e nel male e qui voglio concludere: se è vero che per ogni nostro sbaglio, errore o peccato più o meno di inavvertenza c’è il perdono di Dio qualora riconosciuto, confessato e lasciato, è altrettanto vero che per ogni volta che veniamo perdonati è richiesto un attento esame su noi stessi perché non abbiamo a ripetere lo stesso errore, ricordando l’esortazione “Va’ e non peccare più, che peggio non ti avvenga”. E per trarre beneficio da un errore occorre valutarsi molto, andando a cercare la genesi, sviluppo e compimento di quell’errore, o peccato. Anche questo rientra in quel processo che porta l’uomo nuovo a rinnovarsi “per una piena conoscenza, ad immagine di Colui che lo ha creato”(Colossesi 3.10). Amen.

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13.19 – LA PARABOLA DEI PRIMI POSTI (Luca 14.7-11)

13.19 – La parabola dei primi posti (Luca 14.7-11)        

 

7Diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i primi posti: 8«Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, 9e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: «Cedigli il posto!». Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto. 10Invece, quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: «Amico, vieni più avanti!». Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. 11Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato».

 

            Nella precedente riflessione avevamo dedotto che Nostro Signore fosse arrivato con anticipo al pranzo proprio dal particolare espresso al verso settimo, “notando come sceglievano i primi posti”. Abituati a partecipare più o meno occasionalmente a pranzi o a cene di conoscenti più o meno cari, viene istintivo pensare a uno o più tavoli imbanditi con sedie, ma ai tempi e nei territori di Gesù non era così: si stava sdraiati sui triclinii, praticamente dei letti, che contemplavano la possibilità di avere tre posti – ecco la ragione del suffisso “tri” – il cui centrale era quello ritenuto più onorevole. Inoltre, tanto più il triclinio era vicino a quello del padrone di casa, tanto più il posto suscitava l’ambizione dei partecipanti, come osservò Gesù stesso in Matteo 22.6 quando, parlando dei farisei, disse “Si compiacciono nei posti d’onore nei banchetti”. I triclinii erano poi disposti attorno a una tavola centrale sulla quale trovavano posto i cibi e le bevande.

Ebbene, Gesù assisté alla corsa ai “primi posti” da parte di persone attratte dal fatto di sedere a fianco di chi li aveva invitati, illudendosi così di avere un posto importante in quell’occasione, senza pensare che quel capo fariseo non avrebbe consentito a uno qualsiasi di sedere accanto a lui. Di qui l’intervento di Nostro Signore, non certo teso a insegnare le buone maniere sul prender posto a tavola.

E il primo tema che viene trattato è il desiderio di primeggiare, presente da sempre nell’essere umano, in un modo o in un altro. È qualcosa che non ha nulla a vedere con chi ha posizioni di prestigio guadagnate per capacità e meriti – fatto ai nostri giorni sempre più raro –  ma che coinvolge coloro che, senza alcuna qualità, hanno raggiunto posti di riguardo grazie ad artifizi, sotterfugi, raccomandazioni. Qualora ciò accada – e purtroppo soprattutto nella nostra società è la regola –, quando si crea uno squilibrio tra i verbi “volere”, “potere” ed “essere”, il risultato non può essere che devastante.

Il primo insegnamento sulla parabola, allora, si può dire che riguardi l’ambizione, la stessa che avevano tutti quegli scribi e farisei – ad esempio – che non solo, come ricordato poco prima, si compiacevano “nei posti d’onore nei banchetti”, ma amavano farsi vedere pregare dalla gente o a tutti i costi farsi notare quando facevano l’elemosina, esempi proposti da Gesù nel Sermone sul Monte. Proprio in quell’occasione abbiamo l’invito a fare l’esatto contrario perché “Il Padre tuo, che vede nel segreto, te ne darà ricompensa”.

Anche nella Chiesa abbiamo chi ambisce a posizioni di prestigio per pura vanità personale, senza interrogarsi se il ministero lo ha avuto da Dio come dono oppure se è un abito che si è cucito addosso, se ha ricevuto davvero dei talenti della cui gestione dovrà rendere conto, oppure è un “semplice” figlio di Dio, salvato per grazia, la cui presenza è importante nei radunamenti di Chiesa e per il quale comunque il Signore ha riservato altri compiti, dove con “altri” non s’intende meno onorevoli. Si tratta, è bene ricordarlo, di quel servitore cui è stata data la gestione di un talento, quindi qualcosa di ben di più di un nulla, da far fruttare esattamente come gli altri suoi colleghi che ne avevano avuti di più. Concettualmente, di base quindi, non ci può essere un credente superiore ad altri perché tutti sono comunque dei peccatori perdonati.

Tornando all’episodio, la ricerca dei primi posti in quel convito denotava la vanità e l’orgoglio dei partecipanti che agivano così senza pensare minimamente alla relazione che avevano col padrone di casa, che avrebbe gradito o meno la vicinanza dei suoi commensali. Entrambi questi sentimenti fanno parte dell’uomo naturale, esistono in maniera più o meno accentuata in base al suo carattere, ma sono alla radice del male; ricordiamo infatti Salmo 10.4 “Nel suo orgoglio il malvagio disprezza il Signore: «Dio non ne chiede conto, non esiste!»; questo è tutto il suo pensiero”. “Tutto” nel senso che, a prescindere da quanto possa fare e dire, la base è quella, priva da qualsiasi originalità e, partendo da essa, non può che proporre argomenti e temi che si riciclano da sempre, situazione che ha fatto scrivere a Salomone “Quel che è stato sarà e quel che si è fatto si rifarà; non c’è niente di nuovo sotto il sole”(Qoelet 1.9,10). Ricordiamo invece Salmo 19.4 “Anche dall’orgoglio salva il tuo servo perché su di me non abbia potere: allora sarò irreprensibile, sarò puro da grave peccato”.

Ricordiamo poi le censure più o meno velate espresse da Gesù in proposito al voler trasporre il metodo umano alle realtà spirituali ad esempio quando i dodici “discutevano tra loro su chi fosse il più grande”ottenendo da Lui una descrizione esattamente contraria alla visione umana di un “capo” (Luca 9.46), o più ancora, in un episodio che incontreremo, quando Salome, madre di Giacomo e Giovanni, Gli chiese che i suoi figli, nel Regno, potessero sedere l’uno alla Sua destra e l’altro alla Sua sinistra (Matteo 20.21). La risposta di Nostro signore fu “… sedere alla mia destra e alla mia sinistra non sta a me concederlo: è per coloro per i quali il Padre mio lo ha preparato”(v.23).

E qui allora ci raccordiamo al nostro episodio, dove credo emerga in primo luogo la delicatezza di Gesù che, ai presenti, parla in modo tale da non urtarne la suscettibilità prendendo come esempio un convito nuziale, quindi esponendo una breve parabola. Occorre fare attenzione perché la parabola non è volta ad illustrare il convito nel Regno di Dio – compito che verrà svolto da altre –, ma della necessità dell’umiltà come metodo: chi viene invitato a nozze e sceglie un posto di riguardo senza che gli sia stato indicato, può incorrere nel rischio di magre figure una volta che, giunto qualcuno più importante di lui, costringa chi ha fatto l’invito a entrambi a dire all’usurpatore “Cedigli il posto!”. Infatti “L’orgoglio dell’uomo ne provoca l’umiliazione, l’umile di cuore ottiene onore”(Proverbi 29.23), lo raccordiamo alle parole “dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto”(v.11) non come castigo ma perché, mentre l’usurpatore se ne stava seduto compiacendosi della posizione che aveva conquistato, altri più accorti di lui avevano occupato tutti gli altri spazi.

A questo punto possiamo vedere che lo stesso “ultimo posto”causa di umiliazione per l’orgoglioso, torna invece ad onore per chi lo avrà scelto di sua volontà vuoi per umiltà, prudenza o delicatezza nei confronti di chi lo ha invitato: “Va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene chi ti ha invitato ti dica: «Amico, vieni più avanti!». Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali”(v.10).

Certo, con queste parole Gesù non intende fare scuola di bon ton ai presenti, che tra l’altro di questo mancavano vistosamente, ma dare loro una traccia per considerare quanto fosse distante quel comportamento dal metodo di ogni vero credente anche del loro tempo, perché “il timore di Dio è scuola di sapienza, prima della gloria c’è l’umiltà”(Proverbi 15.33 ribadito in 18.12 con la premessa “Prima della caduta il cuore dell’uomo s’innalza”) e infine, strettamente raccordato alla contingenza del momento, “Non darti arie davanti al re e non metterti al posto dei grandi, perché è meglio sentirsi dire: «Sali quassù!» piuttosto che essere umiliato davanti a uno più importante” (25.6.7). Ricordiamo che si tratta di versi che gli invitati al convito di quel fariseo dovevano conoscere e probabilmente conoscevano, ma che la religiosità aveva impedito loro di assimilare.

Quindi, se in un’occasione sotto certi aspetti banale come un convito nuziale, vale l’umiltà, quanto più andrà attuata nell’ambito del servizio nella Chiesa dove Gesù, a parte le raccomandazioni e le risposte date ai dodici dietro loro richiesta, proprio dopo l’episodio di Salome e della sua richiesta inopportuna, disse “Voi sapete che i governanti delle nazioni dòminano su di esse e i capi le opprimono. Tra voi non sarà così; ma chi vuole diventare grande tra di voi, sarà il vostro servitore e chi vuole essere il primo tra voi, sarà vostro schiavo. Come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”(Matteo 20.25-28).

Si noti che con queste parole Gesù tronca sul nascere qualsiasi velleità nel senso che “chi vuole diventare grande”nella Chiesa o vuole essere “il primo”è chiamato a fare qualcosa che certamente non farà mai, farsi servitore e addirittura schiavo, posizioni incompatibili con chi è orgoglioso. Ricordo che quando da bambino leggevo il Vangelo ero molto attratto da come veniva esaltata l’umiltà a dispetto del mondo che mi circondava, certo piccolo, ma popolato da parenti che mi esortavano ad essere ambizioso e si stupivano quando mi sentivano dire che preferivo essere umile, il che non significa farsi calpestare, ma lasciare che fossero altri a seguire sentieri che alla fine li avrebbero umiliati.

Il commento finale di Nostro Signore alla sua breve parabola è lapidario, “perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato”(v.11), frase importantissima non solo perché fa da ponte con un’altra parabola che verrà esposta di lì a poco, ma perché conclude in poche parole, nel nostro caso dodici, la fine di tutta l’esistenza della persona indipendentemente dal fatto che creda oppure no. Ha scritto un fratello che c’è nel cuore umano una tendenza naturale ad umiliare l’uomo arrogante e presuntuoso, ma non si trova la tendenza corrispondente ad esaltare chi è modesto e meritevole. Così va il mondo.

Ma “Dio resiste ai superbi e fa grazia agli umili”(Giacomo 4.6), “Rivestitevi tutti di umiltà gli uni verso gli altri”(1 Pietro 5.5), perché? Perché nulla di ciò di materiale che abbiamo, cose, posizione sociale, meriti eventualmente acquisiti sul lavoro o nella nostra cerchia di conoscenze più o meno grande, potremo utilizzarla per avere una posizione nel mondo a venire. E rimarrà solo quanto avremo fatto e dato al prossimo in quanto figli di Dio. Amen.

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13.18 – L’UOMO IDROPICO (Luca 14.1-6)

13.18 – L’uomo idropico (Luca 14.1-6)      

 

1 Un sabato si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare ed essi stavano a osservarlo. 2Ed ecco, davanti a lui vi era un uomo malato di idropisìa. 3Rivolgendosi ai dottori della Legge e ai farisei, Gesù disse: «È lecito o no guarire di sabato?». 4Ma essi tacquero. Egli lo prese per mano, lo guarì e lo congedò. 5Poi disse loro: «Chi di voi, se un figlio o un bue gli cade nel pozzo, non lo tirerà fuori subito in giorno di sabato?». 6E non potevano rispondere nulla a queste parole.

 

            Non sfugge il fatto che, nel nostro commento, abbiamo tralasciato i versi da 13.21 fino alla fine dello stesso capitolo, che tratteremo più avanti; ciò è dovuto al fatto che Luca predilige una narrazione per quadri non cronologica ed è opinione comune che, all’episodio del miracolo della donna rattrappita, la guarigione dell’uomo idropico avvenne una settimana dopo. Ricordiamo infatti 13.22, “Passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme”. Quali furono i contenuti dell’insegnamento di Gesù? Quelli che abbiamo letto e leggeremo, non potendo categoricamente stabilire dove questo venne impartito alle folle o ai singoli.

Ebbene Gesù, giunto in un villaggio innominato, si recò con anticipo rispetto all’ora di pranzo a casa di uno dei capi dei farisei, evidentemente da lui invitato. Certo, costui era una persona importante, poiché il termine “árchon” a lui riferito poteva indicare un membro dei Sinedrio, un capo della sinagoga o un Magistrato, oltre che naturalmente “uno dei capi dei farisei”.

Che il pranzo, frugale essendo sabato, non fosse ancora iniziato lo rileviamo dal verso 7, quando Gesù esporrà la parabola dei posti a sedere: “Diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i posti”. Quindi la scena dei nostri primi due versi descrive questo: Gesù viene invitato a pranzo da “uno dei capi dei farisei”, giunge assieme ad altri (parte dei quali assisteranno all’episodio, altri arriveranno dopo) alla spicciolata e nota due cose: da una parte gli sguardi dei religiosi – abbiamo letto “stavano a osservarlo”, presumiamo in modo non amichevole – e dall’altra la presenza un uomo “malato di idropisia”, evidentemente in modo grave poiché la cosa era visibile.

L’idropisia, o anasarca, in realtà, più che una malattia, è il sintomo di una grave infezione interna che si manifesta con un edema generalizzato, cioè con un ristagno di liquido in tutto il corpo.

L’idropico appare come abnormemente rigonfio d’acqua, a tal punto da essere fortemente impedito nei movimenti ed avere bisogno di essere sorretto da altri e potrebbe trovarsi in quelle condizioni, insufficienza renale a parte, per insufficienza cardiocircolatoria, gravi affezioni del fegato, specialmente cirrosi. Possiamo immaginare la sofferenza di quella persona, impossibilitata a condurre una vita dignitosa ancor di più pensando alla calura che pativa più degli altri. Poteva soltanto cercare di sopravvivere, e col tempo aveva imparato a non turbarsi più di tanto per gli sguardi altrui di curiosità e compatimento. Nulla possiamo sapere di lui salvo che soffrisse, ma certo il suo disagio era visibile a chiunque perché si manifestava, appunto, come abbiamo visto.

Dalle parole “stavano a osservarlo”e “davanti a lui vi era un uomo malato”rileviamo che la vera natura dell’invito da parte del “capo dei farisei”poteva essere proprio questa: mettergli di fronte un infermo sperando che lo guarisse per poi usare quell’azione contro di Lui in un giudizio che sicuramente sarebbe avvenuto. Pare singolare, rispetto al precedente miracolo operato in giorno di sabato, che qui l’infermo è “davanti”a Gesù, mentre nella sinagoga “c’era là una donna che uno spirito teneva inferma da diciotto anni”: se la presenza di quest’ultima era “ordinaria” nel senso che evidenzia la volontà di partecipare all’assemblea e una frequenza presumiamo assidua, lo stesso non si può dire dell’idropico, che era là per una ragione sulla quale si esprimono due possibilità, cioè che fosse lì di sua volontà per chiedere a Gesù di essere guarito, oppure secondo un piano dei farisei che, sapendo la posizione del loro avversario sul punto, desideravano porre le premesse per un nuovo miracolo in giorno di sabato e quindi accusarlo.

Anche se è giusto porre attenzione a non far dire a Luca ciò che ha omesso, credo che il modo con cui Nostro Signore esordisce, cioè chiedendo proprio ai suoi oppositori “È lecito o no guarire in giorno di sabato?”, sia stato un modo per coglierli di sorpresa e costringerli a dargli un parere. E, infatti, tacciono perché, se avessero risposto di sì, avrebbero annullato tutte le accuse precedenti in proposito, ma se il parere fosse stato negativo, loro che avevano il dovere di spiegare la legge al popolo, avrebbero anche dovuto citare un passo, scritturale e non della loro tradizione, che contenesse la proibizione di guarire qualcuno in quel giorno.

È a questo punto che Gesù fa qualcosa di particolare, prende per mano quell’uomo, un’azione che personalmente mi stupisce molto di più del fatto che lo guarisce e lo licenzia: furono infatti quattro le persone che furono prese in quel modo: la suocera di Pietro, la figlia di Jairo, il ragazzo epilettico di Marco 9.27 e infine l’idropico, un numero importante, il quattro, applicato a persone in balia di forze esterne dalle quali non riuscivano, né avrebbero mai potuto, liberarsi. Possiamo dire, alla luce non solo dell’esperienza di queste persone, che Gesù interviene là dove altrimenti non esisterebbe prospettiva, speranza, soluzione e cammino. E tutte le guarigioni da lui operate si trovano qui riassunte, parlandoci il quattro dell’essere umano e di ciò di cui ha bisogno.

La guarigione dell’uomo idropico – raccontata da Luca che era medico – è un’altra non richiesta dal diretto interessato, per quanto non possiamo escludere che tra i due sia intercorso un dialogo muto, fatto di soli sguardi. Se era là perché aveva saputo della presenza di Gesù e voleva guarire, o perché lì posto dai farisei quale strumento delle loro congiure, fu liberato comunque da una condizione certamente penosa e umiliante.

Dopo averlo preso per mano, Gesù lo guarisce – e non poteva essere altrimenti – e lo congeda: perché, se stava per consumarsi un pasto cui avrebbe potuto partecipare? È una domanda assurda: guarito dalla malattia, che in realtà erano due in quanto l’idropisia era piuttosto un sintomo, una reazione del corpo ad un’altra patologia spirituale, era giusto che stesse da solo a gioire per il proprio ristabilimento in salute, ma soprattutto pensare al privilegio ricevuto; Gesù, come aveva fatto con tanti comunque, lo aveva visto, aveva compreso il suo dolore di vivere, ed era intervenuto prendendolo per mano il tempo strettamente necessario perché guarisse. Era come se avesse voluto percorrere con lui il percorso di guarigione, a dirgli “con me guarisci, senza di me rimani quello che sei, anzi peggiori”. Una volta ciò avvenuto, stava a quell’uomo trarre le conclusioni del caso.

Una nota molto importante va fatta nel modo in cui è stato tradotto il verso 5, “Chi di voi, se un figlio o un bue gli cade nel pozzo…”che si basa su una versione errata del testo in cui l’originale “asino”viene tradotto con “figlio”non per imperizia, ma per un voler enfatizzare il verso dall’anonimo copista del greco che sostituì “uiòs”(figlio) all’originale“ònos”(asino) rendendo così difficile capire il senso del verso che, così composto, porrebbe sullo stesso piano un figlio a un bue, cosa chiaramente impossibile.

In realtà Gesù, con le sue parole, volle mettere in risalto come, se la compassione verso gli animali avrebbe spinto i suoi oppositori ad intervenire a loro vantaggio con un animale di loro proprietà, in giorno di sabato, compiendo certamente degli sforzi da paragonare a un lavoro, Lui avrebbe potuto guarire senza sforzo una persona che, rispetto a quelle creature, era certamente più importante, cioè un essere umano, alle origini fatto a immagine e somiglianza di Dio.

Citando l’asino e il bue Gesù si rifà a Esodo 23.5 e Deuteronomio 23.4, in cui è scritto “Quando vedrai l’asino del tuo nemico accasciarsi sotto il carico, non abbandonarlo a se stesso: mettiti con lui a scioglierlo dal carico”e “Se vedi l’asino di tuo fratello o il suo bue– ecco perché “figlio”non ha senso – caduto lungo la strada, non fingerai di non averli scorti, ma insieme con lui li farai rialzare”.

Abbiano quindi Nostro Signore che cita due passi di Scrittura da una parte, ma i farisei dall’altra che “non potevano rispondere nulla a queste parole”, Diodati aggiunge “in contrario”. Perché alla parola di Dio non possiamo mai opporre qualcosa e perché “IO” trova senso solo se affiancato alla D: toglierla, trascurarla, escluderla, implica uno squilibrio che non può che portare alla rovina.

Credo che vi sia un altro significato alla domanda di Gesù, perché parla di un animale caduto “in un pozzo”e non, come da testo della Legge, oppresso da un peso importabile: se la situazione originaria ci richiama immediatamente al verso in base al quale “il mio gioco è dolce e il mio carico leggero”perché Gesù soccorre sempre l’uomo per primo e lo libera, l’esempio dell’animale caduto suggerisce la sorte che affronta chi si ritrova intrappolato in una condizione senza averla voluta. E, spiritualmente, non esiste essere umano che non assomigli all’animale nel pozzo: per farlo, basta venire al mondo, nascendo inevitabilmente imperfetti e, dopo i pochi anni passati nell’innocenza, s’impara presto a mentire per i propri scopi, a volere, a barare, a cercare una felicità che, al di fuori dell’intervento del Cristo, non può essere raggiunta. Ecco allora che poco importa che quest’uomo sia andato a quel pranzo di sua volontà o fosse stato messo lì dai farisei perché, in ogni caso, cessò di essere una pedina, di se stesso o di altri.

Credo quindi che Gesù, congedando l’uomo idropico, lo abbia voluto porre nelle condizioni di scegliere cosa fare e soprattutto da quale parte stare, quale posto occupare nella sua vita interiore ed esteriore, cosa comunicare, a chi darsi dopo un periodo, che non possiamo quantificare, in cui aveva provato su di sé gli effetti del peccato e dell’imperfezione visto nella malattia che lo aveva afflitto. E sono convinto che il ricordo del calore di quella mano che per un attimo lo aveva preso lo portò con sé per tutta la vita. Amen.

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13.17 – LA DONNA INFERMA (Luca 13.10-17)

13.17 – La donna inferma (Luca 13.10-17)

 

10Stava insegnando in una sinagoga in giorno di sabato. 11C’era là una donna che uno spirito teneva inferma da diciotto anni; era curva e non riusciva in alcun modo a stare diritta. 12Gesù la vide, la chiamò a sé e le disse: «Donna, sei liberata dalla tua malattia». 13Impose le mani su di lei e subito quella si raddrizzò e glorificava Dio.14Ma il capo della sinagoga, sdegnato perché Gesù aveva operato quella guarigione di sabato, prese la parola e disse alla folla: «Ci sono sei giorni in cui si deve lavorare; in quelli dunque venite a farvi guarire e non in giorno di sabato». 15Il Signore gli replicò: «Ipocriti, non è forse vero che, di sabato, ciascuno di voi slega il suo bue o l’asino dalla mangiatoia, per condurlo ad abbeverarsi? 16E questa figlia di Abramo, che Satana ha tenuto prigioniera per ben diciotto anni, non doveva essere liberata da questo legame nel giorno di sabato?». 17Quando egli diceva queste cose, tutti i suoi avversari si vergognavano, mentre la folla intera esultava per tutte le meraviglie da lui compiute.

 

            Con questo episodio ci troviamo di fronte al sesto miracolo dei sette operati da Gesù in giorno di sabato. Ricordiamo

  1. L’indemoniato nella Sinagoga di Capernaum (Luca 4.31-37);
  2. La suocera di Pietro (38-41);
  3. L’uomo dalla mano rattrappita (Luca 6.6-11);
  4. Il paralitico di Betesda (Giovanni 5.9-18);
  5. Il cieco nato (Giovanni 9);
  6. La donna inferma;
  7. L’uomo idropico (Luca 14.1-6).

Nulla sappiamo del villaggio in cui avvenne questo miracolo se non che l’itinerario di Nostro Signore prevedeva come destinazione finale Gerusalemme, il suo penultimo poiché, qualche verso più avanti in questo stesso capitolo, leggiamo che “Passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme”(22).

Gli argomenti su cui soffermare la nostra attenzione sono tanti a partire dal fatto che Gesù vede la donna inferma soltanto mentre parlava, o alla fine del suo discorso. Certo sapeva che l’avrebbe incontrata e guarita anche prima di entrare nella Sinagoga, essendo il Dio Onnisciente.

Altro elemento importante, così come avvenuto col paralitico di Betesda, malato da 38 anni, è appunto la durata della malattia che Luca quantifica in 18 anni, numero che ci parla prima di tutto del dominio e della potenza distruttrice del peccato sull’uomo, essendo agevole vedere nel 18 il risultato di un 6+6+6. Diciotto è un numero che ci parla di dipendenza, subordinazione e schiavitù, come da Giudici 3.14 che quantifica in questi anni la durata della schiavitù degli israeliti a Eglon, re di Moab. Poi abbiamo il giudizio, sempre su di loro, relativo al fatto che “Gli israeliti continuarono a fare ciò che è male agli occhi del Signore e servirono i Baal, le Astarti, gli dei di Aram, gli dèi di Sidone, gli dèi di Moab, gli dèi degli Ammoniti e quelli dei Filistei, abbandonarono il Signore e non lo servirono più. L’ira del Signore si accese contro Israele e gli consegnò nelle mani dei Filistei e degli Ammoniti. Questi afflissero e oppressero per diciotto anni gli Israeliti e tutti i figli di Israele che erano oltre il Giordano, nella terra degli Amorrei in Galaad”(Giudici 10.6-8).

Diciotto sono gli anni che ebbe Ioachin quando iniziò a regnare su Gerusalemme, ma di lui è scritto che “fece ciò che è male agli occhi del Signore”(2 Re 24.8) e fu solo per tre anni perché Nabucodonosor poi lo deportò a Babilonia: “Deportò tutta  Gerusalemme, cioè tutti i comandanti, tutti i combattenti, in numero di diecimila esuli, tutti i falegnami e i fabbri; non rimase che la gente povera della terra”(v.14). Possiamo ricordare anche le diciotto mogli (e sessanta concubine) di Roboamo, che “Quando il regno fu consolidato ed egli si sentì forte, abbandonò la legge del Signore e tutto Israele lo seguì”(2 Cronache 11.21 e 12.1). Nel Vangelo, infine, abbiamo letto delle “diciotto persone sulle quali crollò la torre di Siloe”(Luca 13,4).

Ecco allora cosa si cela dietro gli anni d’infermità di quella donna che, nella Sinagoga di un villaggio innominato, ascoltava le spiegazioni di Gesù su un passo della Scrittura che Luca non ha specificato.

Abbiamo poi la descrizione dell’innominata che si caratterizza attraverso due situazioni la prima delle quali è che “uno spirito la teneva inferma”e  poi “era curva e non riusciva in alcun modo a stare dritta”(v.11). E qui risiede l’importanza della situazione perché il testo non parla di una persona indemoniata che aveva manifestazioni di squilibrio mentale (infatti non sarebbe stata ammessa all’assemblea), ma del vero motivo della sua infermità: era “uno spirito”, in questo caso una forza ostile facente comunque capo all’Avversario, ricordiamo le parole “Questa figlia di Abrahamo, che Satana ha tenuto prigioniera per ben diciotto anni”(v.16).

 

La malattia, dal raffreddore alle metastasi, è sempre il frutto del peccato inteso non come qualcosa di specifico, ma della condizione di errore che abbiamo ereditato. Quando i nostri progenitori infransero l’unico comandamento ricevuto, infatti, scoprirono di essere nudi, quindi senza difese in assoluto, anche dagli agenti patogeni che si sarebbero manifestati in futuro. Le malattie, a prescindere dalla loro curabilità, e la morte sono allora gli effetti naturali, la conseguenza di questa infrazione originaria e non di uno spirito che debba per forza manifestarsi sempre e comunque.

Nonostante abbiamo un corpo soggetto ad ammalarsi anche a seguito di un sistema immunitario non sempre efficiente, ciò non toglie che l’uomo possa essere bersaglio di infermità che l’Avversario può gestire, come insegna il libro di Giobbe.

La domanda allora non è se tutte le malattie incurabili siano causate da uno spirito d’infermità né, come abbiamo letto nel Vangelo, cosa possa avere fatto una persona per caderne vittima, ma piuttosto va tenuto presente che ci sono dei casi in cui questo spirito negativo agisce. Il mutismo, la sordità, la cecità o altre gravi patologie possono avere indubbiamente una genesi traumatica, genetica o meccanica, ma la Scrittura ci dice che, in alcuni casi, potrebbero essere causati da una forza negativa attribuibile a Satana che, nel caso della donna del nostro episodio, agiva sui muscoli e le vertebre. E solo lo Spirito Santo può essere in grado di distinguere se le condizioni in cui versa la persona siano dovute a cause squisitamente mediche oppure il motivo dell’infermità sia un altro. Affermare che ogni malattia, anche specifica, sia dovuta ad uno spirito del male, vuol dire banalizzare una verità scritturale e abbracciare così la superstizione e l’incoscienza. In altri termini, se a quei tempi fossero esistite le radiografie, le RMN o le TAC, si sarebbe potuto constatare una condizione del corpo identica a quella che potrebbe avere oggi una persona nelle stesse condizioni, con la differenza che in quel caso, ad agire, era uno spirito impuro che aveva preso possesso di un corpo e, se gli fossero state somministrate le cure di cui possiamo disporre oggi, non avrebbero dato alcun risultato..

La donna guarita da Gesù è figura di tutti coloro che, vivendo senza Cristo nella loro vita, sono incapaci di muoversi dignitosamente a prescindere che siano più o meno sani. Al di là del paralitico, bloccato in ogni movimento o quasi, questa poteva spostarsi, camminare, ma guardando costantemente verso il basso. La visione dell’azzurro le era preclusa. Ecco allora che il significato di questa guarigione è enorme proprio perché ha riferimento col fatto che veramente Cristo Gesù libera non solo dalle infermità gravi, totalmente invalidanti, ma anche quelle che penalizzano in modo “parziale”, tra virgolette perché la sofferenza di quella donna era grande a prescindere.

Il significato di questa guarigione è da ricercare nella costrizione a guardare verso il basso, la terra e nient’altro, come qualunque uomo o donna non liberato/a.

Il testo ci dice che “Gesù la vide, la chiamò a sé e le disse: «Donna, sei liberata dalla tua malattia»”: prendere atto della condizione in cui versava quella persona era cosa che facevano tutti, ma solo Lui la chiama a sé, cioè la invita. Se lei non Lo avesse ascoltato, non avremmo avuto la guarigione. Anche qui, il tutto avviene per iniziativa di Nostro Signore ed è il terzo miracolo in tal senso dopo il figlio della vedova a Nain e il paralitico a Betesda, personaggi per i quali Gesù provò una compassione tutta particolare dovuta al suo leggere le persone andando oltre la sofferenza che provavano per la malattia (e il dolore, per la vedova).

Anche qui degna di sottolineatura è la reazione dell’inferma che, una volta raddrizzata “glorificava Dio”, frase sulla quale ci siamo già soffermati in un altro episodio, ma è bello ribadire come attribuì a Lui, e al Figlio Tramite del Padre, la guarigione. Lei, in quanto “figlia di Abrahamo”, quindi della promessa lui fattagli da Dio, doveva essere “liberata da questo legame”che non aveva scelto e per il quale, forse, aveva smesso di pregare ritenendolo non risolvibile nell’attesa che venisse guarita con modi e in un momento che non si sarebbe mai aspettata.

Il tema dell’episodio è quindi quello dell’incontro con Gesù, purtroppo oggi sempre più raro perché ciò che viene predicato è in gran parte un cristianesimo “sociale”, una religione che fa a gara con quelle umane per attrarre uomini e donne “di buona volontà”, tutti pronti ad apparire sempre, ma mai a guardarsi dentro, a rinnovarsi. In altre parole, viene bandita la fede, quella che contraddistingue il cristianesimo dalle credenze delle religioni e non a caso è scritto “Senza fede è impossibile piacergli” (Ebrei 11.6). “Senza fede”, non “apparenza”.

Papa Ratzinger ebbe a scrivere importanti parole al riguardo, e cioè che la parola “credo” indica “conversione”, “cambiamento di mentalità”, “svolta dell’essere” e così permette agli uomini di condurre una vita “veramente umana”, quella che per quanto mi riguarda oggi è del tutto assente da una società sempre più propensa al precipitare, al collassare all’interno di se stessa. La fede mai è semplicemente una raccolta di dottrine, formule aride e datate da difendere con ostinazione – e qui vediamo la reazione del capo della Sinagoga – perché altrimenti sarebbe senza vita.

E l’incontro di Gesù con la donna inferma rappresenta proprio questo, l’incontro fra il vecchio e il nuovo, fra la religione che tutto vorrebbe stigmatizzare, regolare, rinchiudere in una pratica o un rito, e la libertà, l’eternità, l’immenso. E tutto ciò, quando si verifica, accade con una semplicità disarmante perché – cito sempre Ratzinger – “All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva”. Credo sia per questo che vi sia stata la lode, da parte di quella donna ma non dell’arcisinagogo, al Dio Vivente e Vero. Quel miracolo, infatti, ha riferimenti he vanno ben oltre alla terribile malattia in atto da diciotto anni.

Dopo aver letto la replica di Gesù sulla questione del sabato, abbiamo un’altra testimonianza della Parola che libera: gli avversari di Gesù infatti “si vergognavano”– anche se la traduzione corretta sarebbe “furono confusi”–, ma la folla, tanto disprezzata dagli scribi e farisei, “esultava per tutte le meraviglie da lui compiute”.

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13.16 – LA PARABOLA DEL FICO STERILE (Luca 13.5-9)

13.16 – La parabola del fico sterile (Luca 13.5-9)   

 

6Diceva anche questa parabola: «Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. 7Allora disse al vignaiolo: «Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Taglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?». 8Ma quello gli rispose: «Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. 9Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai»».

 

            Viene spontaneo supporre che Nostro Signore, che non lasciò mai nulla d’intentato per recuperare le Sue creature, espose questa parabola per far capire ai presenti cosa significasse la Sua presenza in mezzo a loro e dare la descrizione di quanto avrebbe fatto. Ora credo che l’attenzione del lettore debba per ora concentrarsi sui due alberi citati, perché la presenza del fico in una vigna è per noi anomala: abituati a una mentalità che vede la produzione e il guadagno al primo posto, quindi a una coltivazione intensiva che sfrutti ogni metro quadrato di terra, la presenza di un albero estraneo ci sembra uno spreco. Al contrario, ai tempi di Gesù ma anche prima, era frequente trovare un albero di fichi tra le viti ed era sinonimo di pace e prosperità, come da 1 Re 5.5 quando, sotto Salomone, “Giuda e Israele erano al sicuro; ognuno stava sotto la propria vite e sotto il proprio fico, da Dan fino A Bersabea, per tutti i giorni di Salomone”. Ancora, ricordiamo le parole del re d’Assiria al popolo: “Fate la pace con me e arrendetevi. Allora ognuno potrà mangiare i frutti della propria vigna e del proprio fico e ognuno potrà bere l’acqua della sua cisterna”(2 Re 18.31).

Dando un rapido excursus su ciò che questa pianta rappresenta, vediamo che è la prima, dopo gli alberi “della vita”e “della conoscenza del bene e del male”, a trovarsi in Eden. A differenza dei primi due, però, ci parla di qualcosa di temporaneo e soprattutto non adeguato a risolvere appieno i problemi dell’uomo, come leggiamo in Genesi 3.7: “Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture”. Questa conoscenza fu per Adamo ed Eva sconvolgente, perché per la prima volta nella loro vita si videro per quello che erano, privati dell’innocenza che li aveva caratterizzati fino ad allora: la loro non fu una vergogna dovuta dal fatto che i loro organi sessuali erano esposti, ma perché il loro corpo aveva perduto lo splendore che aveva. Consci di questo, cercarono di porvi  rimedio prendendo le foglie grandi del primo albero a portata di mano e intrecciandole, ma scoprirono subito che questo serviva a ben poco, del tutto inutile per il recupero dell’identità, nobiltà e soprattutto dignità perduta. Per questo c’è chi ha ipotizzato che fosse stato proprio il fico ad essere l’albero di cui l’Avversario aveva esortato Eva a mangiarne i frutti.

Il fico, inoltre, ci parla di sostituzione, di passaggio da una condizione di inadeguatezza ad un’altra di idoneità a seguito di un intervento di Dio, poiché sappiamo che quelle “cinture”che i nostri progenitori si erano fatte furono sostituite da un vestito fatto con pelli di animali: “il Signore Dio  – Lui e nessun altro – fece all’uomo e a sua moglie tuniche di pelli e li vestì”(3.21).

Accanto quindi all’utilità di questa pianta e dei suoi frutti, che venivano impiegati anche per scopo medicinale (l’impiastro sull’ulcera di Ezechia in 2 Re 20.7 e Isaia 38.21 a lui correlato), il fico è anche sinonimo di riposo, preghiera e studio della Torah come nel caso di Natanaele cui Gesù disse “Prima che Filippo ti chiamasse, ti ho visto sotto l’albero di fichi”(Giovanni 1.48), ma per la comprensione della nostra parabola va tenuto presente l’intervento di Dio che può essere in salvezza o in giudizio.

Quanto mai attinente è il capitolo 24 di Geremia cui gli viene spiegato il significato di una visione: “Il Signore mi mostrò due canestri di fichi posti davanti al tempio del Signore dopo che Nabucodonosor, re di Babilonia, aveva deportato da Gerusalemme Ieconia, figlio di Ioakim, re di Giuda. I capi di Giuda, gli artigiani e i fabbri li aveva condotti a Babilonia. Un canestro era pieno di fichi molto buoni, come i fichi primaticci, mentre l’altro canestro era pieno di fichi cattivi, così cattivi che non si potevano mangiare, Il Signore mi disse: «Che cosa vedi, Geremia?». Risposi: «Dei fichi, i fichi buoni sono molto buoni, quelli cattivi sono molto cattivi, tanto che non si possono mangiare»– l’uomo, senza rivelazioni di Dio, non può che constatare l’ovvietà delle cose -. Allora mi fu rivolta questa parola dal Signore: «Così dice il Signore, l’Iddio d’Israele: come si trattano con riguardo i fichi buoni, così io tratterò i deportati di Giuda che ho mandato da questo luogo nel paese dei Caldei.– notare “che ho mandato”, quindi la lettura della storia, di ogni storia umana, ha un suo perché spirituale che va al di là di ciò che accade in sé –. Poserò lo sguardo su di loro per il loro bene; li ricondurrò in questo paese, li edificherò e non li abbatterò, li pianterò e non li sradicherò mai più. Darò loro un cuore per conoscermi, perché io sono il Signore; saranno mio popolo e sarò il loro Dio, se torneranno a me con tutto il cuore. Come invece si trattano i fichi cattivi, che non si possono mangiare tanto sono cattivi, così dice il Signore, così io tratterò Sedecia, re di Giuda, i suoi capi e il resto di Gerusalemme, ossia i superstiti di questo paese, e coloro che abitano nella terra d’Egitto. Li renderò un esempio terrificante per tutti i regni della terra, l’obbrobrio, la favola, lo zimbello e la maledizione in tutti i luoghi dove li scaccerò. Manderò contro di loro la spada, la fame e la peste, finché non saranno eliminati dalla terra che io diedi a loro e ai loro padri”.

 

Il fico e la vigna della parabola stanno in un terreno unico, di proprietà di Dio, accuratamente separato dal resto del podere, la cui cura è stata affidata a una persona di Sua assoluta fiducia e infatti il Figlio, come Parola, ha sempre abitato e coltivato coloro che sono Suoi. È  proprio quest’ultimo albero, la vite, a parlarci di responsabilità, come rileviamo dalla parabola dei contadini omicidi di Luca 20.9-16. Inoltre, la vite-vigna ci parla del progetto e della cura visibile di Dio sul Suo popolo: “Hai sradicato una vite dall’Egitto, hai scacciato le genti e l’hai trapiantata. Le hai preparato il terreno, hai affondato le sue radici ed essa ha riempito la terra. La sua ombra copriva le montagne e i suoi rami i cedri più alti. Ha esteso i suoi tralci fino al mare, arrivavano al fiume i suoi germogli. Perché hai aperto le brecce nella sua cinta e ne ha vendemmia ogni passante? La devasta il cinghiale del bosco e vi pascolato le bestie nella campagna” (Salmo 80.9-14).

Da questo passo, sorprendentemente legato a quello di Geremia 24 e al nostro, vediamo che entrambi, fico e vite, non sono autonomi nel loro sviluppo, ma hanno bisogno di cura e assistenza che non può che venire da Dio. E qui è impossibile non pensare a Gesù, in Giovanni 15 1-7 disse “Io sono la vite vera e il Padre mio l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio ce porta frutto, lo pota perché porti più frutto.(…) Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto”.

A questo punto è facile vedere nella vite ciò che vive nel e per l’amore di Dio e che da Lui stesso trae nutrimento – Israele prima e la Chiesa poi – e nel fico un albero piantato perché desse frutto senza che ciò avvenisse, quindi simbolicamente l’Israele di allora che da lontano appariva come un fico rigoglioso, ma una volta avvicinatosi il padrone della vigna risultava non avere quei frutti che prometteva in apparenza.

Anche qui è necessaria un’interpretazione che non sia a senso unico perché indubbiamente Gesù parla agli uomini del suo tempo, ma anche a noi e allora il fico va identificato sì nell’Israele che non portò alcun frutto nonostante i tre anni di ministero di Nostro Signore, ma anche in tutti coloro che nella Chiesa appaiono “belli di fuori”, ma dentro non hanno saputo sviluppare nulla nonostante la Sua presenza continua in essa, “tutti i giorni fino alla fine del mondo”.

Rimanendo però allo stretto argomento della parabola, vediamo che il padrone “Venne a cercarvi dei frutti, ma non ne trovò”, decretando la condanna della pianta: come ha scritto un fratello, “I frutti che Dio si aspettava dai Giudei, e che egli aspetta da ciascuno di noi, sono quelli della giustizia, di un cuore convertito, una volontà rinnovata, degli affetti rivolti a lui e una vita consacrata al suo servizio. Le foglie di professioni di fede e i fiori di promesse non bastano”.

Dalle parole del proprietario della vigna vediamo che questi non mette affatto in dubbio che il vignaiolo non abbia cercato di prendersi cura del fico e infatti non vi è per lui alcun rimprovero, ma solo l’ordine di eliminare la pianta perché avrebbe impoverito il terreno.

Da notare le parole del lavorante, che chiede la possibilità di prendersi cura dell’albero un altro anno nonostante il suo essere sterile: chiede un periodo in cui si occuperà di lui ancora di più, come un medico si prodigherebbe per salvare la vita ad un malato grave. Gli avrebbe zappato attorno e gli avrebbe messo il concime.

Tre anni di Ministero di Gesù non furono sufficienti a che il fico desse frutto? Poco importa, ve ne sarebbe stato un altro, figura del richiamo attraverso inviti continui: “La sapienza grida per le strade, nelle piazze fa udire la sua voce; nei clamori della città essa chiama, pronuncia i suoi detti alle porte della città: «Fino a quando, o inesperti, amerete l’inesperienza e gli spavaldi si compiaceranno delle loro spavalderie e gli stolti avranno in odio la scienza? Tornate alle mie esortazioni: ecco, io effonderò il io spirito su di voi e vi manifesterò le mie parole. Perché vi ho chiamati ma avete rifiutato, ho steso la mano e nessuno se ne è accorto. Avete trascurato ogni mio consiglio e i miei rimproveri non li avete accolti; anch’io riderò delle vostre sventure, mi farò beffe quando su di voi verrà la paura, quando come una tempesta vi verrà addosso il terrore, quando la disgrazia vi raggiungerà come un uragano, quando vi coglieranno angoscia e tribolazione. Perché hanno odiato la sapienza e non hanno preferito il timore del Signore, non hanno accettato il mio consiglio e hanno disprezzato ogni mio rimprovero”(Proverbi 1. 20-30).

L’anno in più che il vignaiolo chiede al padrone del campo, a differenza degli altri tre, credo che non possa venire quantificato altrimenti se non con un periodo dato all’uomo per rinunciare agli inganni che si è autoinflitto, al termine dei quali non potrà che essere gettato nel fuoco. Nel fico, allora, abbiamo non soltanto Israele, ma tutti coloro che, nella Chiesa, non portano frutto accontentandosi delle apparenze, appunto dell’avere rami e foglie quindi frequentare le assemblee, pregare meccanicamente impiegando formule imparate a memoria, magari impegnandosi in opere di carità, ma senza alcuna scintilla in loro, senza rinunciare a nulla di ciò che ritengono li caratterizzi nella vita, sociale o con se stessi non importa.

Per concludere, per quanto possa dirsi concluso un commento alla Scrittura che è infinita, a conferma del comportamento di Dio verso il suo popolo, possono citarsi due passi importanti di Isaia, uno sulla cura e un altro sul giudizio: “Io, il Signore, ne sono il guardiano, a ogni istante la irrigo; per timore che si danneggi ne ho cura notte e giorno. Io non sono in collera. Vi fossero rovi e pruni, muoverei loro guerra, li brucerei tutti insieme”(Isaia 27.3,4).

Dal secondo passo, invece, vediamo che se la vigna non riconosce tutte queste attenzioni, subirà il seguente destino: “Che cosa dovevo fare ancora alla mi vigna che io non abbia fatto? Perché, mentre attendevo che producesse uva, essa ha prodotto acini acerbi? Ora voglio farvi conoscere ciò che sto per fare alla mia vigna: toglierò la sua siepe e si trasformerà in pascolo; demolirò il suo muro di cinta e verrà calpestata. La ridurrò un deserto, non sarà potata né vangata e vi cresceranno rovi e pruni”(Isaia 5.5-7).

Ecco allora la severa necessità che abbiamo, sempre, di guardare dentro di noi, perché non possiamo porre resistenza agli interventi di Dio nella nostra vita per poter portare un frutto a Lui gradito e accettevole. Amen.

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13.15 – SE NON VI CONVERTITE (Luca 13.1-5)

13.15 – Se non vi convertite (Luca 13.1-5) 

 

1 In quello stesso tempo si presentarono alcuni a riferirgli il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici. 2Prendendo la parola, Gesù disse loro: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subìto tale sorte? 3No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. 4O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? 5No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo».

 

            Ci troviamo di fronte a un passo che, concettualmente, potrebbe essere considerato imparentato con quello in cui i discepoli, vedendo un uomo nato cieco e ritenendo la sua condizione dovuta a un’infrazione alla Legge, chiesero a Gesù chi avesse peccato, lui o i suoi genitori. Se però allora la risposta fu “Né lui ha peccato, né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio”, qui leggiamo “No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo”: radice comune, quindi, vista nella negazione dell’opinione diffusa secondo cui un male materiale trovava la sua spiegazione in un male morale a monte. Però la “desinenza” è diversa.

Venendo ai fatti storici che vengono citati, il sangue dei Giudei e la torre di Siloe, va detto che non se ne trova traccia nella storia del tempo nel senso che Giuseppe Flavio non li riporta, ma è certo siano avvenuti perché Luca ne parla come se si trattasse di un fatto noto ai suoi lettori del tempo, primo fra tutti il sommo sacerdote Teofilo cui ha dedicato il Vangelo e gli Atti. Fra le ipotesi formulate in proposito quella che ha maggior credito vede in “quei galilei”degli Zeloti, setta fondata da Giuda il Galileo che, quando Augusto ordinò il pagamento delle tasse, insegnò ai suoi concittadini che non era lecito pagare il tributo a Cesare. Viene spontaneo allora ricordare la domanda posta a Gesù da alcuni farisei ed erodiani che “…vennero e gli dissero: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno, ma insegni la via di Dio secondo verità. È lecito o no pagare il tributo a Cesare? Lo dobbiamo dare, o no?»”(Marco 12.14). Sappiamo la risposta, “Date a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio”, cose difficili entrambe.

La strage di quei galilei nel Tempio potrebbe allora essere avvenuta nel corso di uno dei numerosi tumulti che si verificavano, prodotti da loro a Gerusalemme per le feste, quando appunto la città era particolarmente sorvegliata dalle truppe di Roma. Invero di tumulti ve n’era stato in particolare uno, di Giudei, che protestarono perché Pilato aveva sottratto del denaro dalla cassa del Tempio per la costruzione di un acquedotto: a quel punto, il prefetto romano ordinò ai suoi soldati di mescolarsi coi dimostranti e di percuoterli con bastoni. Giuseppe Flavio testimonia che molti giudei morirono per i colpi ricevuti o per la calca della folla in tumulto.

Il crollo della torre, poi, è stato individuato nel cedimento di una delle torri costruite a salvaguardia dell’acquedotto che portava l’acqua alla piscina di Siloe a Sud dell’angolo orientale di Gerusalemme.

Riassumendo: Gesù viene interpellato a proposito dei due episodi che Luca ha riportato, in cui delle persone morirono, alcuni – viene a pensare – di spada, altri schiacciati dai massi e detriti della torre; l’importante, come accennato all’inizio, non era tanto lo specificare che ciò che era avvenuto a quelle persone non era una punizione per i loro peccati, ma, parole identiche in entrambi i casi, “Se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo”, quindi di morte violenta che non penso sia riferita a quella del corpo.

“Se non vi convertite”è quindi l’unica indicazione che Gesù dà ai suoi interlocutori per evitare la morte e possiamo dire che la Sua sia una frase che, per quanto già annunciata da Giovanni Battista (“Ravvedetevi, perché il regno dei cieli è vicino”), sia un tassello importante per comprendere altre Sue parole.

Apriamo una breve parentesi sulla conversione e l’incontro con Gesù e consideriamo ad esempio Giovanni 6.35, “Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!”: possiamo stabilire che il “viene a me”presume un percorso animato da una ferma volontà di risoluzione. Se così non fosse, infatti, sarebbe tutto inutile, sarebbe un po’ come fanno quelle persone che si rivolgono a un medico, ma poi, quando propone una cura che a loro non sta bene, pretendono di continuarla a modo proprio, chiaramente non guarendo. Ora invece sappiamo dalla storia che ci propone il Vangelo che, prima ancora che Gesù si presentasse ufficialmente al mondo, c’era un invito al ravvedimento tramite la conversione. Appunto, “Se non vi convertirete”, cioè non vi trasformate divenendo qualcosa di diverso da quello che adesso siete.

Un tempo ero convinto che la conversione fosse la rinuncia a tutte quelle abitudini che avevo naturalmente ereditato dal mondo: con sofferenza, ma anche con entusiasmo, ho allora rinunciato a tante cose che purtroppo, presto o tardi, si ripresentavano in tutta la loro forza non avendo io capito che il privarsi di qualcosa può essere fatto solo quando si è compreso nel profondo il vantaggio che questo comporta. Se ci pensiamo, è quello che successo agli apostoli quando, una volta chiamati da Gesù, lasciarono ogni cosa e lo seguirono. E nessuno di loro tornò indietro alle loro vecchie abitudini e alla relativa tranquillità della vita di sempre. Nel mio caso, il “lasciare” degli apostoli lo riferisco all’orgoglio, alla volontà di possedere cose e persone, al valore che davo a quanto mi apparteneva e all’opinione che avevo di me stesso.

“Convertirsi”, per me, era tutto sommato un modo di presentarmi agli altri come qualcosa di diverso, ma era anche purtroppo un vestito che indossavo per non mostrare quello che effettivamente ero, cioè una persona che, per quanto animata da “nobili propositi”, era immatura e si nascondeva sotto quell’abito sperando che gli altri non notassero i disagi o le problematiche nelle quali mi dibattevo. Mi era sconosciuto il concetto che la “conversione” altro non era che diventare un tutt’uno col mio Signore e Salvatore, ferma restando la realtà della carne contrapposta a quella dello Spirito. Se è vero che ci si converte una volta, lo è altrettanto che pressoché quotidianamente si presenterà la scelta se agire in un modo o in un altro, secondo lo spirito o la carne. Ecco perché siamo provati ogni giorno. La conversione allora si basa proprio sulla convinzione, corroborata da prove certe dentro di noi, che non possiamo più essere quelli di prima, né lo vogliamo. È il risultato dell’elaborazione e dell’assimilazione della verità del Vangelo e del fatto che apparteniamo veramente a Gesù Cristo, Nostro Signore.

Ora esaminiamo la realtà degli episodi riferiti a Gesù in questo passo e i morti, chi per spada – ricordiamo “il sangue fatto scorrere”–  chi per schiacciamento sotto il peso della torre: per entrambi i casi è possibile un riferimento spirituale visto nella locuzione “allo stesso modo”; certo non poteva essere che, se gli uditori di Gesù non si fossero convertiti, sarebbero tutti morti uccisi o schiacciati dal crollo di una torre, ma ciò che Egli vuole rivelare è che, senza conversione, la persona è destinata a una fine violenta, qui evidentemente dell’anima.

Il primo strumento di morte è la spada, che troviamo per la prima volta in Genesi 3.24, quando Iddio “…scacciò l’uomo e pose a oriente del giardino di Eden i cherubini e la fiamma della spada guizzante, per custodire la via all’albero della vita”: quella via nessun essere umano l’avrebbe più potuta trovare. In questo caso la “spada”è figura del limite assoluto imposto all’uomo, che essendo diventato impuro a causa del peccato non avrebbe potuto più avere a che fare tanto con l’eternità quanto con la santità di Dio talché fu detto a Mosè “Tu non potrai vedere il mio volto, perché l’uomo non può vedermi e vivere”(33.20).

Per il tema del nostro verso, la spada, da sempre strumento di morte, è anche figura del giudizio: “Quanto a voi, vi disperderò tra le nazioni e sguainerò la spada dietro di voi – perché il giudizio arriva sempre quando uno meno se lo aspetta –, la vostra terra sarà desolata e le vostre città saranno deserte”(Levitico 26.33). Quest’arma è sinonimo di sterminio, come avvenne in tutti i casi in cui“a fil di spada”furono passati tutti gli abitanti delle città conquistate o gli eserciti di cui leggiamo negli scritti dell’Antico Patto, ma è anche uno strumento che appartiene al Signore: “Àlzati, Signore, affrontalo, abbattilo; con la tua spada – non la mia – liberami dal malvagio”(Salmo 17.23). Ho citato versi indicativi, che certo non sono i soli nella letteratura antica. Arrivando al Nuovo Testamento, questa è prevalentemente riferita allo Spirito Santo e alla Parola di Dio che separa ciò che è puro da ciò che è impuro, oltre ad essere strumento di difesa dagli attacchi dell’Avversario e dei suoi rappresentanti come da Efesi 6.17 quando si parla della “spada dello Spirito, che è la Parola di Dio”.

Fatte queste premesse, arriviamo così ad Apocalisse 19, quando appare il cavaliere bianco: “Poi vidi il cielo aperto, ed ecco un cavallo bianco; colui che lo cavalcava si chiamava Fedele e Veritiero; egli giudica e combatte con giustizia, (…) è avvolto in un mantello intriso di sangue e il suo nome è: il Verbo di Dio. (…) Dalla sua bocca esce una spada affilata, per colpire con essa le nazioni”(vv. 11-15). Riferito alle nazioni pagane che non avranno accolto il Figlio di Dio, è agevole raccordare quanto descritto dall’apostolo Giovanni col giudizio degli ultimi tempi, precisamente quelli che precederanno il Millennio. Illuminante in proposito i versi 20 e 21: “Ma la bestia fu catturata, e con essa il falso profeta, che alla sua presenza aveva operato i prodigi con i quali aveva sedotto quanti avevano ricevuto il marchio della bestia e ne avevano adorato la statua. Ambedue furono gettati vivi nello stagno di fuoco, ardente di zolfo. Gli altri furono uccisi dalla spada che usciva dalla bocca del cavaliere, e tutti gli uccelli si saziarono delle loro carni”.

“Perirete allo stesso modo”,quindi, perché non avrete la possibilità di salvarvi dalla spada, non essendovi convertiti. Ed ecco, fin da allora Gesù offre ai suoi uditori l’opportunità di scampare da questa morte terribile perché, se certo fa impressione il pensiero di venire uccisi nel corpo tramite quello strumento, la morte seconda in giudizio sarà molto più atroce. In mancanza di conversione, c’è dunque prospettiva di morte certa attraverso la spada.

C’è poi la fine la morte per il crollo della torre, quindi per schiacciamento, come purtroppo accade nei terremoti quando sono le case, che per noi rappresentano un riparo e che cerchiamo di rendere gradevoli alla nostra permanenza per quanto possibile, a collassare. Ebbene, la morte per schiacciamento si verifica quando un peso di notevole portata va a gravare su un corpo vivente. Il peso esiste per la gravità ed è quindi, poiché abitiamo la Terra, a lei strettamente attinente. Ed è sulla Terra che l’uomo pensa, agisce e costruisce la propria vita, non potendo esentarsi in alcun modo dal peccare, cioè agire in modo contrario alle aspettative e alla natura di Dio che lo ha creato e avrebbe voluto che vivesse in un Luogo, Eden, da Lui appositamente creato, circondato e protetto.

Arriviamo così al peso del peccato, di cui Davide scrisse “Mi opprime il peso delle mie colpe, ma Tu perdonerai i miei peccati”quindi liberandolo (Salmo 65.3). Il peccato separa da Dio, riduce l’uomo al fantasma di se stesso, lo priva della dignità che avrebbe se fosse a Lui unito e lo rende schiavo dell’avversario, incapace di qualsiasi forma di elevazione e soprattutto di liberazione da esso. E, soprattutto, resta. Ricordiamo in proposito le parole di Gesù ai Giudei nell’episodio del cieco nato: “Se foste ciechi non avreste alcun peccato; ma siccome dite: «Noi vediamo», il vostro peccato rimane”(Giovanni 9.41).

Infine, è proprio il peccato a uccidere perché ve n’è uno, quello delle origini, che viene individuato nella frase “il salario del peccato è la morte”(Romani 6.23) e al quale tutti devono sottostare, mentre vi è quello per scelta personale che determinerà “la morte seconda”cui scamperanno tutti coloro che, scegliendo di vivere la conversione, non ne saranno colpiti: “Per i codardi, gli increduli, gli abominevoli, gli omicidi, i fornicatori, gli stregoni, gli idolatri e tutti i bugiardi, la loro parte sarà nello stagno ardente di fuoco e zolfo, che è la morte seconda”(Apocalisse 21.8).

La domanda che si pone credo a questo punto sia: chi uccide? Colui che porrà queste anime nello stagno, o gli stessi uomini che non avranno “aperto il cuore all’amore della verità per essere salvati”(2 Timoteo 2.10)? Credo allora che a uccidere sarà il peccato con il suo peso che le anime dei non salvati avranno voluto tenersi addosso e che solo alla fine, dopo una quantità innumerevoli di segnali in tal senso, li schiaccerà inevitabilmente. Perché “Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mansueto e umile di cuore, e troverete ristoro per le anime vostre. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero”(Matteo 11.28,29). Amen.

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13.14 – I SEGNI DEI TEMPI (Luca 12.54-59)

13.14 – I segni dei tempi (Luca 12.54-59)  

 

54Diceva ancora alle folle: «Quando vedete una nuvola salire da ponente, subito dite: «Arriva la pioggia», e così accade. 55E quando soffia lo scirocco, dite: «Farà caldo», e così accade. 56Ipocriti! Sapete valutare l’aspetto della terra e del cielo; come mai questo tempo non sapete valutarlo? 57E perché non giudicate voi stessi ciò che è giusto? 58Quando vai con il tuo avversario davanti al magistrato, lungo la strada cerca di trovare un accordo con lui, per evitare che ti trascini davanti al giudice e il giudice ti consegni all’esattore dei debiti e costui ti getti in prigione. 59Io ti dico: non uscirai di là finché non avrai pagato fino all’ultimo spicciolo».

 

            “Diceva alle folle”ci lascia intuire che quanto detto da Gesù non sia necessariamente avvenuto dopo il discorso sulla divisione che era venuto a portare. “Folla”, poi, è un sostantivo che già di per sé rende l’idea di una moltitudine e, se Luca lo usa al plurale, può alludere al fatto che il principio qui esposto sia stato ripetuto più volte, a persone e in momenti diversi.

Per descrivere il comportamento dei presenti, fra i quali c’erano persone di ogni categoria e ceto compresi come sempre scribi, farisei e sadducei che lo sorvegliavano, Gesù prende ad esempio un metodo di osservazione in uso in quei territori che consentiva previsioni precise: le nuvole prodotte dall’evaporazione nel Mediterraneo erano portate dai venti su quel Paese e riversavano su di esso la pioggia. Abbiamo testimonianza di questo in 1 Re 18.43-45 quando Elia, dal monte Carmelo dopo avere pregato perché venisse la pioggia, “disse al suo servo: «Sali, presto, guarda in direzione del mare». Quegli salì, guardò e disse: «Non c’è nulla!». Elia disse: «Tornaci ancora per sette volte». La settima volta riferì: «Ecco, una nuvola, piccola come una mano d’uomo, sale dal mare». Elia gli disse: «Va’ a dire ad Acab: «Attacca i cavalli e scendi, perché non ti trattenga la pioggia! D’un tratto il cielo si oscurò per le nubi e per il vento, e vi fu una grande pioggia. Acan montò sul carro e se ne andò a Isreèl.”.

Nel secondo caso abbiamo lo scirocco che, prima di arrivare in Palestina, passa sul deserto arabico e lì arriva molto caldo per cui, quando il vento cambiava, tutti sapevano che le temperature si sarebbero alzate. Non furono questi i soli esempi portati da Gesù al riguardo e in Matteo 16.2-3 leggiamo queste parole rivolte ai farisei e sadducei che “si avvicinarono per metterlo alla prova e chi chiesero che mostrasse loro un segno dal cielo. Ma egli rispose loro: «Quando si fa sera, voi dite: «Bel tempo, perché il cielo rosseggia»; e al mattino: «Oggi burrasca, perché il cielo è rosso cupo». Sapete dunque interpretare l’aspetto dei cielo e non siete capaci di interpretare i segni dei tempi? Una generazione malvagia e adultera pretende un segno! Ma non le sarà dato alcun segno, se non il segno di Giona». Li lasciò e se ne andò”.

 

Ecco allora la necessità di riflettere sul termine usato da Nostro Signore per qualificare chi era pronto a riconoscere i segni che annunciavano bello o cattivo tempo, ma non era in grado di riconoscere quello spirituale, “Ipocriti!”. Quei giudei infatti fingevano di ignorare i segnali che la Scrittura metteva loro a disposizione a partire dalle parole di Mosè fino a Malachia. C’era tutto un tesoro di conoscenza e profezie che avrebbero potuto mettere tutti, dal minimo del popolo ai sommi sacerdoti, nelle condizioni di riconoscere Gesù come Messia. Ricordiamo la Sua risposta agli inviati di Giovani Battista che gli chiesero da parte sua “«Sei tu quello che deve venire, o dobbiamo aspettarne un altro?». In quello stesso momento Gesù guarì molti d malattie, da infermità, da spiriti cattivi e donò la vista a molti ciechi. Poi diede loro questa risposta: «Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciata la buona notizia. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!».” (Luca 7.18-23). Ora la risposta di Gesù a quei discepoli contiene un elenco di quei “segni”che i Giudei non volevano riconoscere.

E il tutto è aggravato dal fatto che gli storici del tempo attestano che proprio gli anni in cui Gesù visse erano quelli in cui era diffusa l’opinione che il Messia sarebbe arrivato. Ma per loro non poteva essere Lui nonostante avessero avuto la visita anche del Suo Precursore. Sappiamo che Mosè, citato poco prima, aveva detto in Deuteronomio 18.15 “Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me– cioè YHWH –.A lui darete ascolto”: chi sia questo“profeta pari a me”lo spiega l’apostolo Paolo in Galati 4.4, “Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò suo Figlio, nato di donna, nato sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli”.

Tornando sulle parole di Gesù ai discepoli di Giovanni Battista, un paralitico che si alza, un indemoniato che viene liberato, un lebbroso guarito e un morto che risuscita non costituivano un caso isolato, ma erano eventi che si verificavano in modo sistematico, non potevano essere attribuiti all’opera di un indemoniato o a quella di un impostore a meno di non rientrare nella categoria degli “Ipocriti”che qui non sono, come siamo abituati a interpretare, quelli che recitano una parte davanti agli altri, ma quelli che ingannano se stessi, quindi una categoria ancora peggiore. E sappiamo l’inganno a chi appartiene, da chi è gestito.

Nelle riflessioni cristiane oggi reperibili si dà spesso risalto all’ipocrisia al suo primo stadio, cioè la finzione verso gli altri, ma poco a quella più subdola in cui è l’uomo a mentire, simulare, fingere proprio con se stesso. Qualcuno scrisse che “solo in noi stessi abita il peggior nemico” e credo sia una verità. In Galati 6.3, ad esempio, leggiamo “Se uno pensa di essere qualcosa, mentre non è nulla, inganna se stesso”e penso a quanti si assumono ruoli e cariche nella Chiesa senza avere una chiamata da Dio, simulandola, o ai danni fatti da tutti coloro che, con quella erroneamente definita “buona fede” agiscono superficialmente in Suo Nome.

Sempre in Galati, ai due versi successivi a quello citato, abbiamo l’antidoto alla presunzione e viene stabilito il fatto che ciò che siamo davanti al Signore non è valutabile guardando al nostro prossimo né ostentando ciò che pretendiamo di essere: “Ciascuno invece esamini la propria condotta e allora troverà motivo di vanto solo in se stesso e non in rapporto agli altri. Ciascuno infatti porterà il proprio fardello.(…) Non fatevi illusioni: Dio non si lascia ingannare. Ciascuno raccoglierà quello che avrà seminato. Chi semina nella carne, raccoglierà corruzione; chi semina nello Spirito, dallo Spirito raccoglierà vita eterna”(vv.4-8).

La vita cristiana è fatta di ascolto, dedizione, preghiera, ma soprattutto vigilanza su noi stessi, quella che la carne rifugge, che in altri termini altro non è che la “veglia”che abbiamo recentemente affrontato, per quanto in modo sintetico e orientativo. E tutto ciò altro non è che un antidoto, perché l’obiettivo dei cristiani è camminare uniti “…fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo. Così non saremo più fanciulli in balìa delle onde, trasportati qua e là da qualsiasi vento di dottrina, ingannati dagli uomini con quella astuzia che trascina all’errore”(Efesi 4.13,14). Ho scritto “camminare uniti” perché questa è la Chiesa, dove l’unione è data dall’accettazione dei doni: “Egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri, per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio”(vv. 11-13).

A fronte di questi versi vediamo che il cammino spirituale della persona è facilmente soggetto a interferenze anche importanti perché, se uno fa un percorso isolatamente, può incorrere negli errori di cui Paolo ha trattato e, in una Chiesa in cui i doni sono gestiti da persone mature, quindi sono veri e non presunti, il confronto tra fratelli sarà quello che deve essere e non un braccio di ferro tra fazioni contrapposte, il famoso “tu dici, ma io ti dico” oppure “fatti in là perché io sono più santo di te”.

Abbiamo poi 2 Timoteo 3.12,13: “Tutti quelli che vogliono rettamente vivere in Cristo Gesù saranno perseguitati. Ma i malvagi e gli impostori andranno sempre di male in peggio, ingannando gli altri e ingannati essi stessi”, che si riallaccia a quanto detto da Gesù a proposito delle divisioni nello scorso capitolo e al contesto in cui parla nei versi oggetto di esame.

L’ipocrisia che abbiamo visto potrebbe essere definita “di seconda specie” ed è la più subdola perché, se nella prima chi finge ne è pienamente consapevole, chi mente a se stesso a volte non se ne rende neppure conto perché la disonestà – nel caso degli avversari di Gesù di quel tempo, ma anche di questo – arriva a tal punto da venire interamente assorbita dalla persona stessa.

“Come mai questo tempo non sapete valutarlo? Perché non giudicate voi stessi ciò che  giusto?”: con queste parole Nostro Signore pone la questione invitando i suoi detrattori anche a valutare un dato obiettivo e cioè che, come non avrebbero creduto a chi avrebbe voluto convincerli che la nuvola di ponente non era portatrice di pioggia o lo scirocco di caldo essendo segni chiari, avrebbero dovuto credere in Lui con la stessa convinzione perché portatore di un segno annunciato da millenni, la Sua venuta.

La seconda parte dell’intervento di Gesù, dai versi 58 al 59, è già stata affrontata quando abbiamo esaminato il discorso della montagna e contiene un profondo interrogativo ancora una volta preso a prestito dal mondo reale, quando il debitore era interamente nelle mani del creditore (e tale è il peccatore nei confronti di Dio). Senza un accordo, l’unica alternativa era finire davanti al magistrato che avrebbe disposto l’internamento in una prigione dalla quale il debitore sarebbe uscito solo dopo aver pagato “fino all’ultimo spicciolo”. La domanda allora è: se nella vita reale succede questo, in quella spirituale l’uomo potrà mai pagare “fino all’ultimo”il debito che ha con Dio?

L’ “amichevole accordo”contempla invece che le due parti, avverse perché Dio non può sopportare il male, s’incontrino, parlino, e chiaramente il debitore rinuncia ad ogni resistenza o per lo meno discute: “Venite e discutiamo, dice il Signore. Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve. Se fossero rossi come porpora, diventeranno come lana”(Isaia 1.18).  Così è stato per chiunque ha colto i segni dei tempi dello Spirito, ha contemplato il piano di Dio per lui e lo ha accettato. Amen.

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13.13 – NON PACE, MA DIVISIONE (Luca 12.49-53)

13.13 – Non pace, ma divisione (Luca 12.49-53)    

 

49Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso! 50Ho un battesimo nel quale sarò battezzato, e come sono angosciato finché non sia compiuto!
51Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione. 52D’ora innanzi, se in una famiglia vi sono cinque persone, saranno divisi tre contro due e due contro tre; 53si divideranno padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera».

 

 

            Per quanto alcuni temi siano stati già sviluppati, o per meglio dire introdotti in un altro studio, trovo sia giusto riproporli tramite alcune varianti. Occupandoci dei primi due versi, per noi nuovi, sono interessanti perché rispecchiano lo stato d’animo di Gesù, “venuto a gettare fuoco sulla terra” inteso non come quello distruttivo che conosciamo, ma lo stesso di cui scrive Malachia 3.3 che, guardando da lontano l’opera di Dio nei riguardi del Suo popolo, riporta: “Chi sopporterà il giorno della sua venuta? Chi resisterà al suo apparire? Egli è come il fuoco del fonditore e come la liscivia dei lavandai. Siederà per fondere e purificare l’argento; purificherà i figli di Levi, li affinerà come l’oro e l’argento, perché possano offrire al Signore un’offerta secondo giustizia”.

Questa profezia è importante anche sotto l’aspetto della prima venuta del Figlio di Dio sulla terra, insopportabile e irresistibile per tutti i suoi avversari nel senso che non potranno avere argomenti di efficace contrasto di fronte a Lui, come in effetti fu e di cui è data testimonianza nei Vangeli. Essendo “come il fuoco del fonditore e la liscivia dei lavandai”, cioè una miscela di acqua bollente e cenere per lavare e sbiancare i panni, inizia la sua attività purificatrice su coloro che avrà scelto: “fondere e purificare” sono azioni che compie su un metallo inerte che, senza un intervento, resterebbe così com’è. Fondendolo e trasponendolo liquido da un recipiente a un altro, invece, l’argento viene purificato dalle scorie fino a raggiungere la purezza voluta. Notare l’elemento scelto, l’argento, sempre utilizzato per indicare l’uomo un tempo fatto a “immagine e somiglianza” di Dio. L’ultima parte del passo, poi, ci dà il fine per cui Nostro Signore venne nel mondo e cioè permettere agli uomini di poter elevare a Lui “un’offerta secondo giustizia”, quella che cioè non avrebbero mai potuto rivolgere, identificando quanti avrebbero creduto nei “figli di Levi” secondo Apocalisse 1.6: “A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen”.

 

Partiamo allora da questa base e occupiamoci del “fuoco”, primo elemento che Nostro Signore è venuto a portare come conseguenza della Sua venuta sulla terra, della Sua morte e resurrezione: è lo Spirito Santo che sarà fonte di illuminazione e guida, ma al tempo stesso causa di odio e divisione; è infatti lo Spirito di Dio che separa davvero i due mondi ai quali appartengono gli uomini, cioè quello dei Suoi figli, che attraverso lo Spirito si caratterizzano, e quello di coloro che si sono dati all’Avversario. Certo, la prima conseguenza di questo “fuoco” è la liberazione dal potere della carne, la capacità di agire in modo a lei assolutamente opposto come vediamo nell’episodio in cui lo Spirito Santo scese sui componenti della Chiesa di Gerusalemme e con la caratterizzazione di ciascuno attraverso i suoi doni, in parte diversi da quelli di un tempo.

La frase “e quanto vorrei che fosse già acceso”, qui così chiara, ha in realtà costituito un problema per tutti i traduttori stante lo stile secco e conciso che la caratterizza. Abbiamo infatti: “e che voglio, se è già acceso?” e “Che posso volere, se non che fosse già acceso?”. Tutte e tre le interpretazioni sono ugualmente degne di considerazione. La seconda, che vede il fuoco “già acceso” vede lo Spirito Santo già pronto per essere dato agli uomini (anticipazione e prospettiva), ma la prima e la terza ci mostrano la realtà del Gesù uomo: “quanto vorrei”. È certo che un Dio vuole, non vorrebbe, ma qui c’è la constatazione di Colui che volontariamente ha scelto di prendere il tempo dell’uomo e viverlo con lui per cui deve sottostare alle dinamiche della terra, dei suoi giorni, del cammino necessario fino alla morte del proprio corpo di carne. Quando Nostro Signore pronuncia questa frase il principio dell’eternità secondo il quale “davanti al Signore un giorno è come come mille anni e mille anni come un giorno solo” (2 Pietro 3.8) non valeva. “Quanto vorrei che fosse già acceso”, è uno stato d’animo chiaramente da collegare al verso 50 quando, parlando della Sua morte, il “battesimo nel quale sarò battezzato”, dice “e come sono angosciato, finché non sia compiuto!”.

Sarebbe stato un battesimo di sangue, quello riservato solo a Lui, che consentirà lo svolgersi di avvenimenti prima impossibili: “Questo Gesù, Dio lo ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni – ecco una delle basi della fede –. Innalzato dunque alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire. Davide infatti non salì al cielo; tuttavia egli dice: «Disse il Signore al mio Signore: siedi alla mia destra, finché io ponga i tuoi nemici come sgabello dei tuoi piedi” (Atti 2.32-35).

Gesù sapeva che il suo ultimo tempo era vicino e avrebbe voluto anticiparlo. E sappiamo che, quando l’ora di quel battesimo si avvicinava, portò i suoi discepoli a Gerusalemme con una risolutezza tale da lasciarli impressionati: “Mentre erano sulla strada per salire a Gerusalemme, Gesù camminava davanti a loro ed essi erano sgomenti: coloro che lo seguivano erano impauriti. Presi di nuovo in disparte i Dodici, si mise a dire loro quello che stava per accadergli: «Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai capi dei sacerdoti e agli scribi; lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani, lo derideranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno, e dopo tre giorni risorgerà” (Marco 10.32-34).

Ancora, teniamo presente che Nostro Signore sapeva che, “disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma quella di Colui che mi ha mandato” (Giovanni 6.38), avrebbe avuto in premio non solo “un nome che è al di sopra di ogni altro”, ma anche tutti coloro che avrebbe resuscitato: “Questa è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio – di persona come a quel tempo o in spirito come per noi oggi – e crede in lui – precisazione fondamentale – abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno” (Giovanni 6.40).

A questo punto, tornando ai nostri versi, Gesù sa che i discepoli non avevano ancora abbandonato l’idea che fosse un Messia nel senso umano del termine, cioè che avrebbe portato tranquillità e pace al suo popolo; per questo li disillude e li informa che, se sarebbero rimasti con lui, avrebbero certamente avuto “pace con Dio”, ma guerra con gli uomini che si sarebbe manifestata in tanti modi che qui vengono ristretti alla cerchia familiare perché solitamente simbolo di unità. Certo le sue parole riguardano non solo i Dodici, anzi gli Undici, ma tutti quanti sarebbero rientrati nel numero di quelli che avrebbero creduto davvero; la divisione di cui parla Nostro Signore si riferisce proprio all’àmbito ebraico, dove la tradizione religiosa si scontrerà con l’essere liberi da essa; basta ricordare quante volte proprio i Giudei cercarono di uccidere Paolo e tutti i complotti orditi contro di lui e, prima ancora, la lapidazione di Stefano.

Ora chi ha letto gli scritti dell’Antico Patto sa che là dove c’è chi agisce spinto dall’amore per Dio (da Lui ricambiato) e chi il mondo lo vive è sempre esistito un conflitto insanabile. Lo abbiamo visto a partire da Caino e Abele: l’uomo o gli uomini che appartengono profondamente alla carne non tollerano quelli che appartengono allo Spirito, o anche solo tendono verso di esso, e pertanto li combattono. È sufficiente dirsi cristiani e non condividere le loro idee o tendenze per suscitare reazioni negative.

Paolo spiegò molto bene questo stato di cose parlando dei figli di Agar e di Sara: “Voi, fratelli, siete figli della promessa, alla maniera di Isacco. Ma come allora colui che era nato secondo la carne – Ismaele, figlio appunto di Agar – perseguitava quello che era nato secondo lo spirito – Isacco –, così accade anche ora” (Galati 4.28,29). Si tratta di un’avversione istintiva, di un nulla in comune tra quella “luce” che venne subito separata dalle “tenebre” fin dal primo giorno della creazione, quando “Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre” (Genesi 1.3). Fu da quel gesto che la vita poté iniziare.

Certo è un principio che non solo l’apostolo Paolo si è limitato ad esporre: “Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia” (Giovanni 15.18,19). Da notare ciò che disse ai suoi fratelli che non credevano in Lui: “Il mondo non può odiare voi, ma odia me, perché di esso io attesto che le sue opere sono malvage” (7.7). Ancora nella prima lettera di Giovani: “Questo è il messaggio che avete udito fin da principio: che ci amiamo gli uni gli altri. Non come Caino, che era dal maligno e uccise il suo fratello. E per quel motivo l’uccise? Perché le opere sue erano malvage, mentre quelle di suo fratello erano giuste. Non vi meravigliate, fratelli, se il mondo vi odia” (3.11.12).

Il mondo quindi “ama ciò che è suo” non può che recepire quanti non gli appartengono come qualcosa di estraneo, da eliminare, di ripugnante. Questo modo di reagire raggiungerà il suo culmine nel regime degli ultimi tempi, ma siccome sappiamo che fin dall’antichità è detto che “lo spirito dell’Anticristo viene, anzi è già nel mondo” (1 Giovanni 4.3), possiamo capire il perché incontriamo nel nostro cammino quotidiano persone spinte da uno spirito avverso e soprattutto quale, chi sia e da dove venga questo spirito. Amen.

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13.12 – LA PARABOLA DEL SERVO FIDATO E PRUDENTE (Luca 12.41-48)

13.12 – Il servo fidato e prudente (Luca 12.41-48) 

 

41Allora Pietro disse: «Signore, questa parabola la dici per noi o anche per tutti?». 42Il Signore rispose: «Chi è dunque l’amministratore fidato e prudente, che il padrone metterà a capo della sua servitù per dare la razione di cibo a tempo debito? 43Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà ad agire così. 44Davvero io vi dico che lo metterà a capo di tutti i suoi averi. 45Ma se quel servo dicesse in cuor suo: «Il mio padrone tarda a venire» e cominciasse a percuotere i servi e le serve, a mangiare, a bere e a ubriacarsi, 46il padrone di quel servo arriverà un giorno in cui non se l’aspetta e a un’ora che non sa, lo punirà severamente e gli infliggerà la sorte che meritano gli infedeli.
47Il servo che, conoscendo la volontà del padrone, non avrà disposto o agito secondo la sua volontà, riceverà molte percosse; 48quello invece che, non conoscendola, avrà fatto cose meritevoli di percosse, ne riceverà poche. A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più.

 

            Sarà necessario tornare in futuro su questa parabola, che verrà riesposta da Gesù in un altro momento divenendo così la penultima di quelle esposte ai Suoi. Guardando alle parabole fin qui esaminate non possiamo notare come vi sia una progressione sempre più alta verso la particolarità del messaggio: quella del “ricco stolto” fu pronunciata davanti a “migliaia di persone al punto che si calpestavano a vicenda”, quella dei servi che vegliano nell’attesa che il loro padrone rientri da una festa di nozze fu detta“ai suoi discepoli”e quest’ultima a Pietro, certo alla presenza degli altri, in vista degli incarichi che avrebbero ricoperto un giorno in seno alla Chiesa. Furono infatti gli apostoli, con la loro predicazione, che consentirono la sua nascita e diffusione nel mondo allora conosciuto e che vegliarono sul gregge loro affidato, come altri dopo la loro morte del corpo fino ad oggi. È altresì opinione dei sostenitori del primato di Pietro che Gesù, con questa parabola, abbia voluto indicargli il ruolo che avrebbe avuto, sottolineando le parole “amministratore”e “a capo della sua servitù”, ma è chiaro che qui il riferimento è a una persona che occupa un ruolo di responsabilità e sia da ritenersi in senso collettivo e non individuale, come vedremo. Se fosse giusta questa teoria, infatti, sarebbero da considerare “valide” solo le Chiese fondate da Pietro, ignorando il lavoro di Paolo, Giovanni e tutti gli altri. Ricordiamo anche Galati 2.9 quando si scrive“Giacomo, Cefa e Giovanni, ritenuti le colonne”: “le”, non “la”, con Pietro al secondo posto.

Proprio quest’apostolo, che si caratterizzava dagli altri per le molte richieste di spiegazioni a fronte delle parole di Gesù, era già intervenuto a seguito delle parole rivolte al giovane ricco che, quando fu invitato a seguirlo dopo avere abbandonato le proprie ricchezze, se ne andò rattristato. In quell’occasione chiese “Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito: che cosa dunque ne avremo?”(Matteo 19.27). Ora qui si verifica la stessa cosa: Pietro non ha chiaro il concetto non dell’attesa operosa dei “servi”, ma piuttosto chi fossero, se cioè loro, i dodici, o tutti quelli che lo seguivano.

Ora, a una domanda così diretta, sarebbe stato semplice rispondere semplicemente “no, dico per voi”, o “per tutti”, ma Nostro Signore parla in modo tale che ciascuno dei presenti potesse darsi una risposta e soprattutto scegliere in chi identificarsi: “Chi è dunque l’amministratore fidato e prudente (…)?”, cioè in altri termini “Pensate di essere voi? Se sì, ascoltate cosa può succedere” e a questo punto viene esposta la parabola che abbiamo letto, che riguarda gli apostoli e quelli che sarebbero venuti dopo di loro senza – attenzione perché è molto importante – ereditare in alcun modo il loro ruolo, il loro compito, il loro valore. L’apostolo, infatti, è solo colui che ha vissuto con Nostro Signore e ha ricevuto tale carica-onore direttamente da Lui, come in Atti 1.21,22: “Bisogna dunque che, tra coloro che sono stati con noi per tutto il tempo nel quale il Signore Gesù ha vissuto fra noi, cominciando dal battesimo di Giovanni fino al giorno in cui è stato di mezzo a noi assunto in cielo, uno divenga testimone, insieme a noi, della sua risurrezione”. Questo è uno dei motivi per cui Pietro non ottiene una risposta diretta, ma una nuova domanda.

Cerchiamo ora di esaminare il personaggio chiave del racconto di Gesù, chiaramente “l’amministratore fidato e prudente”, tradotto anche con “dispensatore leale e avveduto”: si tratta dell’economo, ruolo che nelle grandi case stava fra il maestro di casa e i servi e veniva incaricato, come Eliezer per Abramo o Giuseppe per Potifarre, della gestione della servitù, godendo della totale fiducia del suo signore. Non era un incarico da poco ed è facile pensare che il padrone, dando quella qualifica, dimostrasse la sua stima e onorasse così chi veniva scelto che, proprio per questo, cercava di adempiere nel migliore dei modi l’incarico. È la stessa cosa, per quanto in modo diverso, che avviene nella parabola dei dieci servi quando, dovendosi assentare il loro signore, li chiama perché facciano fruttare ciascuno la moneta d’oro che gli veniva consegnata (Luca 19).

Aggiornato al tempo della Chiesa, quindi dalla discesa dello Spirito Santo in Gerusalemme fino al ritorno di Cristo, è quanto esposto da Paolo agli anziani di Efeso poco prima che partisse:“Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha costituiti come custodi per essere pastori della Chiesa di Dio, che si è acquistata con il sangue del proprio Figlio” (Atti 20.28). Poi ricordiamo 1 Corinti 4.1,2 “Ognuno ci consideri come servi di Cristo e amministratori dei misteri di Dio. Ora, ciò che si richiede agli amministratori è che ognuno risulti fedele”. Non c’è quindi alcun dubbio che Gesù, con questa parabola, si riferisca a chi ha da Lui ricevuto un mandato di responsabilità in mezzo alla Chiesa a prescindere dal o dai doni: se ciò è avvenuto, la persona è stata messa “a capo”da Dio non in senso autoritario, ma ha avuto il compito di dare “la razione di cibo a tempo debito”, naturalmente spirituale, oltre a “vegliare il gregge”, piccolo o grande non importa, che gli è stato affidato. Volendo, la grandezza del gregge può essere vista nei talenti della parabola ad essi relativa.

Purtroppo, una delle piaghe della Chiesa di Dio, a prescindere dalla sua denominazione, è quella dell’avere persone che scambiano il voler avere degli incarichi di responsabilità con l’essere effettivamente in grado di farlo secondo il volere del Signore e, non essendo da Lui costituiti allo scopo, finiscono per inquinare irrimediabilmente tutto il campo in cui operano sostituendo la gestione oculata dei doni, del messaggio e della stessa vita cristiana, con il compromesso, la politica e la gestione della Chiesa esattamente come lo farebbe una persona a lei estranea.

In pratica, anziché pensare alle persone loro affidate, pensano a loro stessi rientrando perfettamente nel secondo personaggio della parabola, quello che dice “in cuor suo”, esattamente come il ricco stolto che parlava a se stesso, “Il mio padrone tarda a venire”. Costoro usano il loro metro umano per valutare, attenti alle loro esigenze e non a quelle del principio dell’attesa che deve avere il subordinato nei confronti di chi a lui è superiore in oltraggio alla libertà che gli è concessa. E sì che si tratta di un servo che all’inizio sembrava essere fidato ed efficiente.

A proposito dell’indifferenza che può sorgere nel cuore di un credente un fratello amava dire che, se l’uomo sentisse male ogni volta che pecca, prima di agire male ci penserebbe. È ciò che scrive Salomone nel Qoèlet,“Poiché non si pronuncia una sentenza immediata contro una cattiva azione, per questo il cuore degli uomini è pieno di voglia di fare il male; infatti il peccatore, anche se commette il male cento volte, ha lunga vita”(8.11,12). Tuttavia il testo prosegue “Tuttavia so che saranno felici coloro che temono Iddio, appunto perché provano timore davanti a lui”.

La caratteristica di chi non è sottomesso alla Parola di Dio, è infatti quella di sottovalutarla, attenendosi al presente, al tangibile, a tutto ciò che passa lasciando un pallido ricordo: “Figlio dell’uomo, che cos’è questo proverbio che si va ripetendo nella terra d’Israele: «Passano i giorni e ogni visione svanisce»? Ebbene, riferisci loro: Così dice il Signore Dio; Farò cessare questo proverbio e non lo si sentirà più ripetere in Israele. Anzi riferisci loro: Si avvicinano i giorni in cui si avvererà ogni visione. Infatti non ci sarà più visione falsa né vaticinio fallace in mezzo alla casa d’Israele, perché io, il Signore, parlerò e attuerò la parola che ho detto; non sarà ritardata. Anzi, ai vostri giorni, o genìa di ribelli, pronuncerò una parola e l’attuerò». Oracolo del Signore Dio.”(Ezechiele 12.22-27).

È anche bello considerare che proprio Pietro, che ascoltò le parole di Gesù a seguito della sua domanda, scrisse nella sua seconda lettera: “Questo anzitutto dovete sapere: negli ultimi giorni si farà avanti gente che si inganna e inganna gli altri e che si lascia dominare dalle proprie passioni. Diranno: «Dovè la sua venuta, che egli ha promesso? Dal giorno in cui i nostri padri chiusero gli occhi, tutto rimane com’è al principio della creazione».”(3.3,4).

 

Se guardiamo al presente dei giorni, li vediamo passare quasi sempre uguali e apparentemente senza traccia di Dio anche se basta osservare anche superficialmente quanto è complesso e organizzato un organismo per rendersi conto di quanto sia impossibile che si sia strutturato per caso. Non si pensa che il Creatore ha lasciato agli uomini una traccia, dei segni per poterlo conoscere promettendo che, se cercato, si lascia trovare. E se quanto ha detto si è puntualmente avverato nella storia, è impossibile che non si concreti circa quegli avvenimenti che ha preannunciato, come nel caso che ci riguarda il Suo ritorno. E chi non ha acquisito fino in fondo il principio dell’eternità come appartenenza, non potrà che accedere alla constatazione della temporalità, “il mio padrone tarda a venire”, e guardare sempre più ad essa. Attento a curare le malattie del proprio corpo, non si cura di quelle dell’anima e dei pericoli che questa corre.

Il comportamento del servo che non adempie il suo compito nell’attesa del ritorno del suo signore è descritto con parole che alludono al suo egoismo, ma soprattutto al danno che procura a quelli come lui, che però non hanno avuto come un incarico di responsabilità: prima li percuote, cioè li fa soffrire e li umilia, poi mangia, beve e si ubriaca, cioè fa un utilizzo totalmente arbitrario di beni non suoi, e qui è per me facile individuare tutti coloro che torcono la Scrittura a loro vantaggio per avere guadagni o posizioni sociali che altrimenti non avrebbero, facendo leva sull’impreparazione degli altri. E così lo Spirito si spegne: “Non spegnete lo spirito, non disprezzate le profezie. Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono. Astenetevi da ogni specie di male”, che altri traducono “parvenza di male”(2 Tessalonicesi 5.19-22).

Custodire la parola del Signore è dunque ciò a cui sono chiamati tutti i servi, a cominciare da quello che ha ricevuto l’incarico di provvedere agli altri quanto al nutrimento: “Ricorda dunque come hai ricevuto e ascoltato la Parola, custodiscila e convèrtiti perché, se non sarai vigilante, verrò come un ladro, senza che tu sappia a che ora verrò da te”(Apocalisse 3.3).

 

Il nostro testo descrive la punizione del servo. “Lo punirà severamente e gli infliggerà la sorte che meritano gli infedeli”. Qui ci troviamo di fronte a una pericope assolutamente delicata perché altre traduzioni riportano “lo reciderà”, oppure “lo separerà”, espressione che sembra descrivere un’esclusione dal regno di Dio anche se manca quel “pianto e stridore di denti”di cui parla sempre Gesù quando allude alle conseguenze dell’esclusione. C’è anche un’allusione, come vedremo quanto torneremo nel parallelo di Matteo che esamineremo in futuro, alla morte mediante segamento del corpo.

Possiamo fornire qui, per ora, l’interpretazione più corretta, quella espressa al verso 47, quando le “molte percosse”è espressione che viene connessa alle punizioni corporali per reati che non contemplavano la morte, come in Deuteronomio 25.2,3: “Se il colpevole avrà meritato di essere fustigato, il giudice lo farà stendere per terra e fustigare in sua presenza, con un numero di colpi proporzionato alla gravità della sua pena. Gli farà dare non più di quaranta colpi perché, aggiungendo altre battiture a queste, la punizione non risulti troppo grave e il tuo fratello resti infamato ai tuoi occhi”. La “parte con gli infedeli”di cui Gesù parla credo si riferisca a quella dei servi che non hanno ottemperato alla volontà del padrone, che non beneficiano della sua benevolenza e considerazione, ma non vengono esclusi completamente dalla casa. Chi prendeva le battiture certo non moriva, ma soffriva molto e restavano certamente dei segni su di lui, quando non addirittura rimaneva storpio.

Ci sarà sofferenza, quindi, ma non la morte, esattamente come scrive l’apostolo Paolo a proposito del rendiconto: “Se l’opera che uno costruì sul fondamento resisterà, costui ne riceverà una ricompensa; ma se l’opera finirà bruciata, sarà punito. Tuttavia egli si salverà, però come attraverso il fuoco”(1 Corinti 3.14,15). La punizione di Dio, quindi, equivarrà ad una vita ai margini del Regno perché “ciascuno riceverà la sua retribuzione a seconda di come avrà operato”perché “Noi tutti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, affinché ciascuno riceva la retribuzione di ciò che avrà fatto quando era nel corpo, sia in bene, che in male”(2 Corinti 5.10). Credo che di più non possiamo sapere perché la prospettiva cui ogni cristiano deve aspirare è quella del premio e non certo la punizione. E credo anche che comportarsi come se non ci fosse una “retribuzione sia in bene, che in male”equivalga a dire “il mio padrone tarda a venire”e quindi far del male a se stessi.

Per quanto il messaggio della parabola sia rivolto a chi ha compiti di responsabilità nella Chiesa, è l’ultimo verso a costituire un vero monito per tutti: “A chiunque fu dato molto– e cosa può esservi più grande della Grazia? – molto sarà richiesto; a chi fu affidato molto– ecco gli anziani e coloro che amministrano la Parola – sarà richiesto molto di più”. Da notare che quell’ “affidato molto”nell’originale è “dato in deposito”, che si collega ai talenti e alle dieci monete (mine) d’oro. Preghiera e veglia, attenzione a noi stessi perché, come scritto in 2 Timoteo 1.14, “Custodisci, mediante lo Spirito Santo che abita in noi, il bene prezioso che ti è stato affidato”. Amen.

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13.11 – LA PARABOLA DEI SERVITORI CHE VEGLIANO (LUCA 12.35-40)

13.11 – La parabola dei servi che vegliano (Luca 12.35-40)           

 

35Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; 36siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito. 37Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli. 38E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro!39Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa. 40Anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo».

 

            C’è una notevole differenza fra la parabola del ricco stolto, pronunciata davanti alla folla, e quella dei servi che vegliano, rivolta da Nostro Signore ai suoi discepoli, quindi a una cerchia di persone più ristretta. Il messaggio qui contenuto possiamo dire allora che è “riservato”, rivolto a quanti hanno già fatto una scelta importante, quella di seguirLo e hanno bisogno di imparare da Lui perché, senza le Sue indicazioni, sarebbero ancora in balìa di loro stessi. Ecco allora che quanto esposto da Gesù, che verrà ricordato loro dallo Spirito Santo una volta risorto e salito al cielo, riguarda il modo che ha il cristiano di condurre la propria vita, “pronto, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese”.

Esaminiamo ora quanto avviene nella parabola da un punto di vista storico per poi fare alcuni accostamenti spirituali partendo dalla festa cui il padrone è invitato.

 

La festa di nozze: non esisteva un rito religioso per celebrare il matrimonio perché era considerato un fatto privato certamente fra l’uomo e la donna, ma soprattutto fra le famiglie cui gli sposi appartenevano; queste stabilivano tra loro una vera e propria alleanza organizzata dai rispettivi padri. Si celebrava solitamente dopo un anno di fidanzamento e la festa che lo coinvolgeva era grande a tal punto da durare anche una settimana. Il matrimonio era una questione anche di prestigio sociale talché non mancavano ospiti di riguardo essendo gli invitati scelti con molta attenzione, e qui si possono fare molte applicazioni sull’episodio delle “nozze di Cana” e a tutte le parabole in cui si citano le nozze. Un ruolo importante lo avevano gli amici dello sposo, che si occupavano del buon andamento della festa, di presentare gli invitati coi regali che portavano e di tutto quanto fosse funzionale al banchetto (ricordiamo il vino). Nulla era lasciato al caso.

Ora abbiamo un elemento importante e cioè che il padrone, nella nostra parabola, parte per una festa nuziale la cui durata era assolutamente sconosciuta ai servi: sarebbe potuto tornare tanto a notte inoltrata, quanto dopo più giorni e di qui la necessità di predisporsi ad accoglierlo senza trascurare i compiti loro affidati. Non sappiamo quante fossero le persone addette a quella casa, ma è certo che l’assenza del padrone avesse portato squilibrio nella gestione ordinaria del loro tempo perché restava il problema della notte, dove in condizioni normali tutti andavano a dormire per ritemprarsi dalle fatiche del giorno. Era impensabile che un servo, in quanto tale privo di diritti per quanto non come nel mondo occidentale o presso altri popoli, facesse attendere il proprio signore alla porta.

 

Nella nostra parabola Gesù quindi parla di servitori coscienziosi, quelli che “troverà ancora svegli”, che però in quanto esseri umani possono essere soggetti a stanchezza: come fare? Si tratta di combattere contro un nemico subdolo, cioè il sonno che inevitabilmente cerca di impossessarsi di chiunque affronta una veglia. I testi storici non ci hanno tramandato nei dettagli la vita di chi era preso a servizio, cosa che avveniva a causa della povertà o per ripianare debiti eventualmente contratti. In ogni caso era prevista la possibilità del riscatto e il servo veniva liberato dopo sette anni, al termine dei quali poteva decidere anche se restare presso il padrone per motivi affettivi; così leggiamo in Esodo 21.5,6: “Ma se lo schiavo dice: «Io sono affezionato al mio padrone, a mia moglie, ai miei figli, non voglio andarmene libero», allora il suo padrone lo condurrà davanti a Dio, lo farà accostare al battente o allo stipite della porta e gli forerà l’orecchio con la lesina e quello resterà suo schiavo per sempre”.

Rimane comunque il fatto, tornando alla parabola, che quei servi non sapevano quando il loro padrone sarebbe rientrato e alcuni di loro, volontariamente, per non dispiacergli e onorarlo, decidono di attenderlo. Credo che Gesù non abbia voluto qui porre la questione su come si organizzò il gruppo di persone per far fronte al problema del sonno, cioè se questi decisero di fare dei turni di attesa, se c’era chi dormisse di giorno per stare sveglio di notte o altro, ma piuttosto porre l’accento sulla veglia, che in pratica è il procedere contrario alle elementari esigenze del corpo che ha bisogno di sonno, dalle cinque alle dieci ore a seconda delle condizioni di salute e all’età delle persone. Ciò che rileva è: il padrone deve tornare e va aspettato perché, “quando arriva e bussa, gli aprano subito”.

Si tratta si un’attesa analoga a quella della parabola delle dieci vergini, che, “Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e si addormentarono”(Matteo 25.5), anche se lì l’accento è posto sul fatto che cinque di loro avevano l’olio per le lampade e le altre no.

 

La vita cristiana, quindi, è spiegata ai discepoli di Gesù con questa situazione, in vista del ritorno del Signore che disse “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?”(Luca 18.8); di qui la necessità espressa all’inizio del nostro testo, “Siate pronti, con le vesti strette attorno ai fianchi e le lampade accese”. Esser “pronti”significa porsi nelle condizioni di reagire immediatamente a uno stimolo, a un richiamo, e a farlo nel migliore dei modi mettendo in conto tutto quanto possa succedere, essere in grado di fronteggiare qualunque situazione possa verificarsi nell’ambito per cui si è preparati; lo sanno bene coloro che appartengono a reparti particolari, come possono essere i Vigili del Fuoco o di pronto intervento di polizia o sanitario. Il più delle volte chi è “pronto” ha prima studiato, vagliato possibilità, si è preparato attraverso un addestramento specifico.

La prontezza di cui parla Nostro Signore è caratterizzata dall’avere “le vesti strette attorno ai fianchi”, cioè predisporsi al lavoro: a quel tempo, infatti, gli israeliti portavano lunghe tuniche che, quando svolgevano attività impegnative, venivano sollevate in modo che non intralciassero i movimenti e strette con una cintura attorno ai fianchi che, nel Nuovo Testamento, è sinonimo di verità (Ef. 6.14). L’apostolo Pietro poi scrive “perciò, cingendo i fianchi della vostra mente e restando sobri, ponete tuttala vostra speranza in quella grazia che vi sarà data quando Cristo si manifesterà”(1°.1.13). La verità del Vangelo, quindi, è quella che consente di operare in modo libero ed efficace per l’avanzamento proprio e di altri nel cammino della vita quotidiana.

È quindi la cintura del tipo appena visto in questi due passi che consente un’operatività esente da biasimo, tanto del prossimo che della Chiesa e quindi di Dio; se il termine “verità”può sembrare eccessivo, va precisato che essa è qualcosa che si costruisce e si scopre giorno per giorno se si è disposti a crescere davanti a Lui e a nessun altro. Alcuni commettono un grosso errore credendo di vivere ancora ai tempi della Chiesa di Gerusalemme, quando lo Spirito Santo si manifestava nei modi che tutti conosciamo: oggi il nostro edificio spirituale viene costruito poco a poco, sull’unica roccia ammissibile che è Gesù Cristo, che disse ai Suoi “Quando però verrà lo Spirito di Verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future”(Giovanni 16.13). Notare il termine, “vi guiderà”, che significa “precedere o condurre lungo un percorso” e non rendere di colpo una persona depositaria di chissà quali verità: la prima che l’uomo deve cercare è la propria salvezza in Cristo che “mi ha amato e ha dato se stesso per me”(Galati 2.20).

 

Terzo elemento illustrato da Gesù in questa parabola sono “le lampade accese”. La mancanza di uno solo di questi rende inutile ogni compito perché, se l’essere “pronti”si connette allo stato d’animo che anima la persona, le vesti cinte attorno ai fianchi sono figura del suo operare. Senza la lampada accesa ogni attività è impossibile non essendo nessuno in grado di lavorare al buio. La “lampada”, a parte questo, ha connessione con Matteo 5.16 quando fu detto “Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli”. Ecco perché il comportamento del credente dev’essere illuminato dalla Parola di Dio e non da altri elementi.

La lampada, per illuminare tutta la notte, doveva essere piena d’olio, figura dello Spirito Santo e della dignità profonda che conferisce all’uomo, e qui abbiamo un ulteriore richiamo alla parabola delle dieci vergini che abbiamo ricordato. Ancora, a conferma che lo Spirito riveste completamente l’uomo, ricordiamo che “la lampada del corpo è l’occhio. Perciò, se il tuo occhio è puro, tutto il tuo corpo sarà illuminato, ma se il tuo occhio è cattivo, tutto il tuo corpo sarà nelle tenebre. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra!”(Matteo 6.22,23). Ecco allora che, con questi versi, andiamo ben oltre alla semplice divisione fra luce e buio, ma veniamo avvertiti che possiamo scambiare l’una con l’altro perché “la luce che è in te è tenebra”, lungi dall’essere un ossimoro, ci parla di presunzione, arroganza, obiettivi carnali quali unici motori di una vita.

 

I servi della nostra parabola non portano panni e coperte nei pressi del portone di casa, ma restano svegli, attenti al minimo rumore, alla ricerca di quei segnali che possano avvisarli dell’imminente rientro del loro signore che, una volta giunto, compie qualcosa di assolutamente inaspettato: “Beati quei seri che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi – questa volta lui! –, li farà mettere a tavola e passerà a servirli”. Lui, il signore rispettato e temuto, che fino a poco prima di partire dava ordini e si aspettava che questi fossero rispettati, muta completamente atteggiamento e onora i suoi servi di attenzioni che certamente non si aspettavano: “passerà a servirli”, avvicinandosi ad ognuno di loro.

Di questa azione troviamo traccia in due passi, il primo quando Gesù laverà i piedi ai discepoli (Giovanni 13.3,4) ma ancor più, del tutto consono al nostro episodio, Apocalisse 7.17 “Non avranno più fame né avranno più sete, non li colpirà il sole né arsura alcuna, perché l’Agnello, che sta in mezzo al trono, sarà il loro pastore e il guiderà alle fonti delle acque della vita. E Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi”.

Gesù, quindi, con questa parabola dà ai suoi discepoli, a prescindere dal tempo in cui sarebbero vissuti, degli elementi per guidarli nell’attesa tanto del Suo ritorno quanto della Sua chiamata attraverso la morte del corpo che anche lei sopraggiunge quando uno meno se lo aspetta. In ogni caso, però, “Quelle cose che occhio non vide né orecchio udì, né mai entrarono in un cuore d’uomo, Dio le ha preparate per coloro che lo amano”(1 Corinti 2.9). Amen.

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13.10 – LA PARABOLA DEL RICCO STOLTO (LUCA 12.13-21)

13.10 – La parabola del ricco stolto (Luca 12.13-21)         

 

13Uno della folla gli disse: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità». 14Ma egli rispose: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?». 15E disse loro: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede». 16Poi disse loro una parabola: «La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. 17Egli ragionava tra sé: «Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti? 18Farò così – disse -: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. 19Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti!». 20Ma Dio gli disse: «Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?». 21Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio».

 

            Prima di affrontare questa parabola va dato un breve cenno introduttivo, trattandosi di un racconto inserito solo da Luca. I versi da 1 a 10, che riportano il discorso di Gesù sul “lievito dei farisei”, sul temere non “coloro che possono uccidere il corpo, ma colui che, dopo aver ucciso, ha il potere di gettare nella Geenna”, la “bestemmia contro lo Spirito Santo”e la Sua assistenza a chi crede, sono già stati affrontati, ma senza sottolineare che furono pronunciati di fronte a una folla di “migliaia ai persone, al punto che si calpestavano a vicenda”(Luca 12.1).

Ebbene, fra tutta questa gente, ammettendo che il fatto sia avvenuto proprio in quel contesto, stava un uomo che non prestava la minima attenzione a quanto veniva detto, ma era angustiato perché aveva un fratello che non ne voleva sapere di dividere con lui un’eredità. Evidentemente, arrovellandosi su come risolvere il problema e considerata l’influenza che Gesù aveva sul popolo, pensò che nessuno meglio di Lui avrebbe potuto convincere quel congiunto ostinato, attaccato a quanto stava per ricevere al punto da rifiutarsi di dividere ciò che legalmente apparteneva ad entrambi. Questa è la lettura più immediata della situazione che stava a monte della richiesta “Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità”: potrebbe essere stato che il “fratello”in questione fosse un discepolo, che costui fosse un primogenito cui spettava una parte doppia del lascito oppure semplicemente un avido, ma non rileva perché l’importante è che per la prima e unica volta nei Vangeli abbiamo una richiesta a Gesù di intervenire in una questione tipicamente terrena che, nella fattispecie, veniva spesso risolta da un consiglio di famiglia o dal “mediatore”, più propriamente “addetto alla divisione”che solitamente apparteneva alla cerchia di amici comuni più stretti e al quale veniva conferito l’incarico.

Da qui in poi Gesù si rivolge ai presenti – “disse loro”– e all’ignoto che si era rivolto a Lui esponendo una parabola che ha per tema l’avidità e lo sguardo orizzontale, l’ascolto esclusivo di se stessi e, per meglio dire andando alle parole del discorso della montagna, il “servire a Mammona”dove la “servitù” si concreta con l’appartenenza e la dipendenza. Non era infatti contemplata la figura del dipendente prezzolato, che presta il servizio pattuito e se ne va, ma quella del servo che apparteneva al padrone cui spettava il compito di nutrirlo e dargli una dimora. Appartenere e dipendere, quindi; e il rapporto che il servo intratteneva col suo padrone influenzava la sua stessa vita.

 

Abbiamo dunque letto “E disse loro”, non direttamente a chi gli aveva chiesto un intervento su questioni finanziarie, ma a tutti. Il testo, fra l’altro, non specifica se questa persona avesse torto o ragione in quel dividere.

Fate attenzione e guardatevi da ogni cupidigia”, così tradotto da “pleonexìa” che sta ad indicare il desiderio di avere di più di quanto abbiamo diritto “perché – come abbiamo letto –anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede”(v.15): ricordiamo come premessa Proverbi 15.16, “È meglio aver poco con il timore di Dio che un grande tesoro con inquietudine”e 16.16 “Possedere la sapienza è molto meglio dell’oro, acquisire l’intelligenza è preferibile all’argento”che estendono il significato delle parole di Gesù in modo tale che “ciò che egli possiede”sono i beni in senso stretto, materiale: se infatti la “vita” vera dipendesse da ciò che una persona ha, il regno di Dio apparterrebbe ai “ricchi” e non ai “poveri” secondo la classificazione spirituale che conosciamo.

 

Venendo alla parabola, mi sono chiesto quale sia il soggetto, cioè se l’uomo ricco o la brama di possedere ed effettivamente la questione si pone poiché abbiamo un agente, appunto il ricco, totalmente succube della propria condizione di sottomesso al proprio spirito avido. Scrivendo agli Efesi l’apostolo Paolo dirà “Sappiatelo bene: nessun fornicatore, o impuro, o avaro, cioè nessun idolatra, ha in eredità il regno di Cristo e di Dio”(5.5). Poi, in Colossesi 3.5, ben sapendo che il credente è un essere umano e in quanto tale soggetto ad impulsi negativi che si porta appresso, scrive “Fate morire dunque ciò che appartiene alla terra: impurità, immoralità, passioni, desideri cattivi e quella cupidigia che è l’idolatria: a motivo di queste cose l’ira di Dio viene su coloro che gli disobbediscono”.“Non abbiamo portato nulla nel mondo e nulla possiamo portare via”(1 Timoteo 6.7) quanto mai letteralmente consono al nostro episodio, ed Ebrei 13.5,6: “La vostra condotta sia senza avarizia: accontentatevi di quello che avete, perché Dio stesso ha detto: «Non ti lascerò e non ti abbandonerò». Così possiamo dire con fiducia: Il Signore è il mio aiuto, non avrò paura. Che cosa può farmi l’uomo?”.

Tenendo a mente questi passi, possiamo esaminare il fatto narrato da Nostro Signore: un uomo già ricco si ritrova di fronte ad “un raccolto abbondante”e questo dà luogo a tutta una serie di ragionamenti che escludono nella maniera più assoluta tanto Dio quanto il suo prossimo. Abbiamo letto “ragionava fra sé”e questa credo sia la chiave di lettura. Mi viene in mente Maria, madre di Gesù, che “da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore”, intenta quindi in un percorso di ricerca spirituale, onorata della visita dell’angelo Gabriele.

Nella parabola del ricco stolto, invece, ogni discorso è proiettato ad un futuro che gli apparteneva solo teoricamente, non sapendo quando sarebbe intervenuta la morte a scrivere la parola “fine” al suo percorso esistenziale. È da notare la posizione di quest’uomo: la sua campagna aveva “dato un raccolto abbondante”quindi le sue ricchezze non erano frutto di oppressione, estorsione o frode. Presumiamo fosse una persona onesta, diligente nel coltivare i propri campi e, per la dispensazione in cui viveva, sapeva che tutto questo poteva costituire una benedizione di Dio. Per noi, credo fosse un modo per metterlo alla prova perché, anziché ringraziare Colui che gli aveva consentito quei raccolti e provvedere agli altri come faceva Giobbe che in quello traeva la sua soddisfazione, fu vittima della propria sollecitudine. Possiamo dire che, tanto più crescevano i suoi raccolti, tanto più aumentava il suo desiderio di possesso.

Il nostro testo giustamente traduce “cupidigia”al posto di “avarizia”perché, mentre l’avaro non spende mai – c’è chi ha detto che l’avaro è il miglior custode dei beni degli eredi –, chi è affetto da cupidigia prova un desiderio intenso, una smodata avidità e bramosia, non provando altro che il piacere del possesso. Infatti, nel suo progetto, a un certo punto si apre uno spazio riservato al godimento di ciò che possiede chiamando in causa la propria anima, cioè tutta la sua persona: “Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divertiti”(v.19).

Sono importanti anche gli altri verbi: “Che farò?”, “Farò così”, “demolirò”, “costruirò”, “raccoglierò”, “dirò– ancora una volta –a me stesso”. Non meno importante è il possessivo “mio”, che il testo riporta per cinque volte, a sostegno di un egoismo che abbraccia tutti gli aspetti della sua persona. Quel ricco era diventato la perfetta dimora di se stesso nel senso che si era totalmente chiuso agli altri che, se li avesse aiutati, lo avrebbero certamente benedetto, come il già citato Giobbe che, in 29.12,13 disse “…soccorrevo il povero che chiedeva aiuto e l’orfano che ne era privo. La benedizione del disperato scendeva su di me e al cuore della vedova infondevo la gioia. Ero rivestito di giustizia come di un abito, come mantello e turbante era la mia equità”.

Mi sono chiesto se la “morale” di quest’uomo contemplasse la morte. Credo di sì, ma la considerava come un evento remoto o, meglio, sul quale sorvolare esattamente come un’altra “morale”, quella del “mangiamo e beviamo, perché domani moriremo”(1 Corinti 15.32) o del “Venite, io prenderò del vino e ci ubriacheremo di bevande inebrianti. Domani sarà come oggi, e molto più ancora”(Isaia 56.12). Occupàti nel cercare soddisfazione nelle cose di questa vita ignorandone il suo senso profondo, passano i giorni, i mesi, gli anni fino a quando non si è costretti ad ammettere che l’evento tanto esorcizzato, inutilmente quanto temuto (ed altrettanto ignorato), è giunto.

Va infine sottolineato non tanto che la morte e il giudizio saranno la fine di tutto, quanto il contrasto fra le parole del ricco e quelle che Dio gli rivolge: “Stolto”in opposizione al giudizio che quell’uomo aveva di se stesso, fiero del risultato raggiunto. “Questa notte”in contrasto ai “molti anni”che si prometteva e infine quella “vita”– meglio da tradurre con “anima”–  che riteneva sua proprietà, che invece gli sarebbe stata “richiesta”perché ogni vita ed ogni anima è sempre data in prestito.

In tutto questo c’è però un elemento che pochi notano e cioè il tempo verbale, “ti sarà richiesta”che, tradotto letteralmente, è “richiedono”: questo rende l’idea di quanto fosse imminente la morte del ricco (e la relativa sentenza), ma pone degli importanti interrogativi su chi fossero quelli che richiedevano quella “vita”, o “anima”. Credo che qui i parallelismi possano essere due, il primo dei quali è ancora una volta nel libro di Giobbe, quando Satana chiese che fosse tentato e gli fu posto come limite di non prendere la sua vita, cosa che nel caso del ricco non avvenne. Facciamo attenzione perché, nel caso del ricco di questa parabola, l’Avversario chiese a Dio ciò che era suo e gli fu concesso di prenderlo. Una seconda soluzione, che poi è parte integrante della prima, riguarda il giudizio finale, chiesto a gran voce come da Apocalisse 6.10, per quanto in un contesto diverso.

Non si può che ammettere come quel “richiedono”, col suo plurale, sia molto più drammatico perché sottintende il fatto che il “rendiconto” avvenga, come in effetti sarà, non solo davanti alla presenza di Dio: “Non sapete che i santi giudicheranno il mondo?”(1 Corinti 6.2).

Gesù termina la parabola con una domanda, “Quello che hai preparato, di chi sarà?”, in cui vediamo che ciò che resiste è il piano di Dio e non quello dell’uomo, perché “Sì, come un’ombra l’uomo che passa. Sì, come un soffio che si affanna, accumula e non sa chi raccolga”(Salmo 39.7). Ricordiamo anche le parole di Salomone “Ho preso in odio ogni lavoro che con fatica ho compiuto sotto il sole, perché dovrò lasciarlo al mio successore. E chi sa se questi sarà saggio o stolto? Eppure potrà disporre di tutto il mio lavoro, in cui ho speso fatiche e intelligenza sotto il sole. Anche questo è vanità”(Ecclesiaste 2.18,19).

A conferma poi che ai presenti non è stata raccontata una favola, abbiamo infine il monito “Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio”(v.21): ci sono allora due destini, o meglio solo due destinazioni possibili per gli uomini, guardare a se stessi, o arricchirsi “presso Dio”per vivere tutte le conseguenze delle direzioni prese.

E possiamo concludere queste riflessioni con 2 Corinti 4. 16,17: “Per questo non ci scoraggiamo, ma anche se il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore invece si rinnova di giorno in giorno. Infatti il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria: noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili, perché le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili invece sono eterne”. E più avanti Gesù dirà “Dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore”.Amen.

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13.09 – CONTRO I DOTTORI DELLA LEGGE (Luca 11.45-54)

13.09 – Contro i dottori della Legge (Luca 11.45-54)       

 

45Intervenne uno dei dottori della Legge e gli disse: «Maestro, dicendo questo, tu offendi anche noi». 46Egli rispose: «Guai anche a voi, dottori della Legge, che caricate gli uomini di pesi insopportabili, e quei pesi voi non li toccate nemmeno con un dito! 47Guai a voi, che costruite i sepolcri dei profeti, e i vostri padri li hanno uccisi. 48Così voi testimoniate e approvate le opere dei vostri padri: essi li uccisero e voi costruite. 49Per questo la sapienza di Dio ha detto: «Manderò loro profeti e apostoli ed essi li uccideranno e perseguiteranno», 50perché a questa generazione sia chiesto conto del sangue di tutti i profeti, versato fin dall’inizio del mondo: 51dal sangue di Abele fino al sangue di Zaccaria, che fu ucciso tra l’altare e il santuario. Sì, io vi dico, ne sarà chiesto conto a questa generazione. 52Guai a voi, dottori della Legge, che avete portato via la chiave della conoscenza; voi non siete entrati, e a quelli che volevano entrare voi l’avete impedito».
53Quando fu uscito di là, gli scribi e i farisei cominciarono a trattarlo in modo ostile e a farlo parlare su molti argomenti, 54tendendogli insidie, per sorprenderlo in qualche parola uscita dalla sua stessa bocca.

 

            L’invettiva contro i dottori della Legge fu provocata da uno di loro, che avvertì coinvolta la propria categoria quando Gesù parlò di quanti amavano “i primi posti nella sinagoga e i saluti nelle piazze”. Ora, riconoscendosi nella citazione, quella persona non tollerava di venire paragonata a un sepolcro che non si vedeva e, passandovi sopra la gente, veniva resa impura. Questo è molto significativo perché era chiaro che Nostro Signore, in quel momento come in altri, non attaccava indistintamente tutta la categoria dei Dottori, ma solo quelli che, per comportamento e disposizione d’animo, mettevano in atto quanto da Lui denunciato. È come quando oggi qualcuno, tramite i media, attacca una determinata categoria di persone: chi si offende, non è mai chi svolge la professione correttamente, ma chi si sente punto nel vivo perché ha “la coscienza sporca”.

A questo punto era inevitabile che Gesù continuasse l’elenco delle colpe che coinvolgevano comunque anche gli scribi e farisei, avendo quelle categorie di persone più o meno un denominatore comune. Cito qui le parole usate da Matteo: “Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno. Legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito”.

La “cattedra– o più correttamente “sedia”di Mosè”allude al posto su cui queste persone sedevano nella sinagoga, quella dei maestri, ma anche quella da loro occupata nel Sinedrio o nei tribunali inferiori per applicare la legge. Fossero stati integri, non vi sarebbe stato nulla di male, ma ritenendosi eredi di Mosè a prescindere dalle loro azioni – abbiamo letto la loro replica a Gesù “Noi siamo discepoli di Mosè”– senza possedere alcuna delle sue qualità e soprattutto il mandato, non erano altro che impostori del sacro. Ricordiamo a proposito della “sedia”, come si comportò Esdra che “aprì il libro in presenza di tutto il popolo, poiché stava più in alto di tutti”(Nehemia 8.5). È detto poi che “i leviti spiegavano la legge al popolo e il popolo stava in piedi. Essi leggevano il libro della legge di Dio a brani distinti e spiegavano il senso, e così facevano comprendere la lettura”(vv.7,8). Teniamo presente questo far “comprendere”perché verrà utile più avanti. Da quel lodevole, splendido inizio, si era col tempo arrivati al punto descritto da Gesù.

Quando affronteremo il capitolo 23 di Matteo, dove più che in questo passo è analizzato il comportamento degli scribi, farisei e dottori della legge, potremo avere una visone più ampia delle nefandezze di costoro che, nel caso del passo in esame, comprendeva anche il totale disprezzo del debole. Così infatti scrive Isaia: “Guai a coloro che fanno decreti iniqui e scrivono in fretta sentenze oppressive, per negare la giustizia ai miseri e per frodare del diritto i poveri del mio popolo, per fare delle vedove la loro preda e per spogliare gli orfani. Ma che farete nel giorno del castigo, quando da lontano sopraggiungerà la rovina? A chi ricorrerete per protezione? Dove lascerete la vostra ricchezza? Non vi resterà che piegarvi tra i prigionieri o cadere tra i morti. Con tutto ciò non si calma la sua ira e ancora la sua mano rimane stesa”(10.1-4).

Qui vediamo anche come, progressivamente, ci avviciniamo al castigo profetizzato nel passo di Luca che stiamo esaminando cioè la generazione che sarà chiamata a rendere conto del sangue versato di tutti i profeti in quanto omicida dello stesso Gesù. La “rovina”abbiamo letto che sopraggiunge “da lontano”, se ne possono cioè vedere i segnali, ma vengono ignorati.

 

I Dottori della Legge, al tempo di Nostro Signore, sono paragonati poi a quelli che, avendo delle bestie da soma, li caricano di pesi talmente gravosi da sfinire chiunque, riconoscibili nell’infinità di precetti che imponevano al popolo richiedendone la rigida osservanza. Anche l’apostolo Pietro definì quelle usanze “un giogo che né i nostri padri né noi siamo stati in grado di portare”(Atti 15.10) e che si trattasse di pesi importabili erano loro a saperlo per primi, non volendo “muoverli neppure con un dito”, cioè standosene accuratamente alla larga fingendo però di adempierli. Ancora una volta abbiamo la differenza fra la religione e la fede nuova in Cristo, come scrive Paolo in Galati: “Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù– quello della Legge cerimoniale –. Ecco, io Paolo vi dico: se vi fate circoncidere, Cristo non vi gioverà nulla. Non avete più nulla a che fare con Cristo voi che cercate la giustificazione nella Legge: siete decaduti dalla grazia”(5.1-4).

Queste parole sono state scritte dall’apostolo per avvisare del danno provocato da quei Giudei convertiti che volevano tenere un piede nella Grazia e l’altro nella Legge, apparentemente non capendo che era la prima a far vivere e non la seconda, ma ponendo intoppi assoluti nel progresso degli altri nella fede.

Abbiamo così un’altra faccia dell’ipocrisia, quella più insidiosa che tanto male fa anche oggi nelle Chiese, dove basta assumere l’atteggiamento del rigore nei confronti degli altri per dare l’impressione che si faccia altrettanto con se stessi, ma non è così, come insegna l’episodio della donna adultera. E il modo stringato ed essenziale con cui Nostro Signore parla, lascia pensare che bastarono quelle parole per spiegarsi quanto bastava. E una volta tanto fu capito perfettamente, visto che l’ultimo verso del nostro passo ci parla dell’ostilità e dei tranelli dottrinali che tutti quei religiosi volevano porgli.

 

Altro capo d’imputazione nei confronti dei Dottori era il finto onore che attribuivano ai profeti, illudendosi di essere loro discendenti: consapevoli infatti che i loro avi avevano ucciso effettivamente molti inviati di Dio, ne condannavano le azioni riedificando e abbellendo i loro sepolcri per un tornaconto personale di rispettabilità quando il loro cuore, in proposito, non era affatto cambiato: “Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quanti sono mandati a te…”.  Ancora, di questi parlò Gesù nella parabola delle nozze, quando, di fronte agli inviati del re, disse “Ma essi, non curandosene, se ne andarono chi ai loro possedimenti, chi ai loro traffici; e gli altri, presi i suoi servitori, li oltraggiarono e li uccisero. E quel re, udito ciò, si adirò e mandò i suoi eserciti e distrusse quegli omicidi, ed arse le loro città”(Matteo 22.5-7).

Ricordiamo ciò che avvenne negli attimi che precedettero la lapidazione di Stefano in Atti 7.51-54: “«O gente testarda e pagana nel cuore e nelle orecchie, voi sempre opponete resistenza allo Spirito Santo; come i vostri padri, così anche voi. Quale dei profeti i vostri padri non hanno perseguitato? Essi uccisero quelli che preannunciavano la venuta del Cristo, del quale voi ora siete divenuti traditori e uccisori; voi che avete ricevuto la Legge per mano degli angeli, e non l’avete osservata». All’udire queste cose, fremevano nel cuor loro e digrignavano i denti contro di lui”.

Trattando la fede dei profeti uccisi, in Ebrei 11.35-38 leggiamo “Altri poi furono torturati, non accettando la liberazione loro offerta, per ottenere una migliore resurrezione. Altri infine subirono scherni e flagelli, catene e prigionia. Furono lapidati, torturati, segati, furono uccisi di spada, andarono in giro coperti di pelli di pecora e capra, bisognosi, tribolati, maltrattati. Di loro il mondo non era degno”.

Questo, in sintesi, ciò che è l’eredità dei Giudei e ciò che sarebbe stata la loro sorte, vista sinteticamente in quel “mandò i suoi eserciti e distrusse quegli omicidi ed arse le loro città”di cui abbiamo letto. Furono parole specifiche perché quella cui Gesù parlava era la “generazione”a cui sarebbe stato “ridomandato conto, dal sangue di Abele fino al sangue di Zaccaria”, entrambi uccisi da persone serve dell’Avversario.

 

Il terzo capo d’imputazione nei confronti dei Dottori è quella di aver “portato via la chiave della conoscenza”, di non esserne entrati e di averne impedito agli altri l’accesso: il parallelo di Matteo riporta “avete chiuso il regno dei cieli davanti agli uomini, di modo che voi non entrate e nemmeno lasciate entrare quelli che stavano per entrarvi”(23.13); qui il regno dei cieli è la nuova economia evangelica rappresentata da un recinto di cui Legge e Profeti sono la porta che, per essere aperta, ha bisogno di una “chiave”che quelli hanno rimosso, rubato. La “chiave”è quella della conoscenza spirituale, quella rivelata “ai piccoli”e non quella letterale dei libri imparati a memoria. Ricordiamo ciò che disse Filippo a Natanaele, nella sua semplicità “Noi abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti: Gesù, figlio di Giuseppe, da Nazareth”(Giovanni 1.45).

La Legge, quindi, non è qualcosa da sottostimare o di chiuso per sempre: lo è se la si considera come unica via o porta per il regno dei cieli quando, come leggiamo in Galati 3.24,25, “è stata per noi un pedagogo fino a Cristo, perché fossimo giustificati per la fede. Sopraggiunta la fede, non siamo più sotto un pedagogo”. Infatti “La Legge possiede soltanto l’ombra dei futuri beni e non la realtà stessa delle cose”(Ebrei 10.1): una salvezza “sulla quale indagarono e scrutarono i profeti che preannunciavano la grazia a voi destinata”(1 Pietro 1.10,11).

Gesù però, con le sue parole, denuncia un peccato terribile, quello di avere svuotato totalmente di senso spirituale gli scritti loro affidati, perché insegnavano ed è a loro che il popolo faceva riferimento. Tutto era ridotto all’apparenza, ad un’interpretazione e ad una pratica fuorviante di modo che, qualora vi fosse un cuore onesto, veniva corrotto da un insegnamento perverso. Purtroppo questo accade oggi in molte Chiese, credo soprattutto in quella di Roma e dove, per interessi personali, si antepone il proprio interesse a quello di Dio oppure, nello specifico, ci si adatta al contesto mondano tanto per quanto riguarda le sue superstizioni, quanto per ciò che è il suo concetto di solidarietà, modernità ed equalizzazione delle menti. E il “Vangelo sociale” ne è un esempio. E dalle parole di Nehemia che abbiamo ricordato, confrontate con quelle di Gesù coi leviti che “spiegavano la legge al popolo”, rileviamo il degrado, l’allontanamento dalla parola pura a quella travisata.

L’errore dottrinale si verifica, allora, sempre consapevolmente: se non ameremo il Dio che professiamo di servire, non potremmo che amare noi stessi. Amando noi stessi, seguiremo le strade che la nostra istintività ci porterà a seguire ma, per difendere il nostro status, torceremo la Scrittura a nostro vantaggio e in questo troveremo il nostro riposo provvisorio. Amando però il temporaneo e non l’eterno, saremo inevitabilmente sconfitti senza nessuna prospettiva di luce perché, proprio in quanto avremo fatto della religione vuota il nostro esistere, avremo impedito la salvezza agli altri. Amen.

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13.08 – L’INTERNO PIENO DI AVIDITÀ E CATTIVERIA (Luca 11.37-44

13.08 – L’interno pieno di avidità e cattiveria (Luca 11.37-44)     

 

37Mentre stava parlando,un fariseo lo invitò a pranzo. Egli andò e si mise a tavola. 38Il fariseo vide e si meravigliò che non avesse fatto le abluzioni prima del pranzo. 39Allora il Signore gli disse: «Voi farisei pulite l’esterno del bicchiere e del piatto, ma il vostro interno è pieno di avidità e di cattiveria. 40Stolti! Colui che ha fatto l’esterno non ha forse fatto anche l’interno? 41Date piuttosto in elemosina quello che c’è dentro, ed ecco, per voi tutto sarà puro. 42Ma guai a voi, farisei, che pagate la decima sulla menta, sulla ruta e su tutte le erbe, e lasciate da parte la giustizia e l’amore di Dio. Queste invece erano le cose da fare, senza trascurare quelle. 43Guai a voi, farisei, che amate i primi posti nelle sinagoghe e i saluti sulle piazze. 44Guai a voi, perché siete come quei sepolcri che non si vedono e la gente vi passa sopra senza saperlo».

 

            Nelle scorse riflessioni è stato dato qualche accenno alla pericolosità del metodo o mentalità ”religiosa” e all’influenza negativa che può avere sulla persona che non fa altro che chiudersi in sé stessa privandosi di vere prospettive spirituali. Ecco perché Nostro Signore dirà, in un passo che affronteremo prossimamente, “Guai a voi, dottori della Legge, che avete portato via la chiave della conoscenza; voi non siete entrati, e a quelli che volevano entrare voi l’avete impedito”(v. 52). Stesso severo ammonimento si ritrova in Matteo 23.13: “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che chiudete il regno dei cieli davanti alla gente; di fatto non entrate voi, e non lasciate entrare nemmeno quelli che vogliono entrarvi”. La religione è fatta di parole stantie mascherate da rivelazione, di usi e riti che possono suscitare anche ammirazione, ma si limitano a gesti accompagnati da espressioni e atteggiamenti di circostanza che durano lo stretto necessario alla funzione, per poi tutto tornare esattamente come prima. Non è stata minimamente coinvolta quella parte del cuore e dell’anima così importante da essere in grado di trasformare la persona accogliendo lo Spirito di Dio.

Bene, leggiamo che Gesù fu invitato a pranzo da un fariseo. Luca non ci dice i motivi che lo spinsero a riceverlo in casa sua; di fatto sappiamo che vi parteciparono anche dei dottori della Legge (v.45), scribi (v.53), quindi il chiamare Nostro Signore in quel gruppo poteva significare o che fosse ritenuto degno di sedere in mezzo a quel gruppo oppure, più probabilmente, per studiarlo onde raccogliere elementi per accusarlo.

La prima cosa che fece Gesù appena entrato fu, appositamente, quella di accomodarsi senza passare attraverso il rito dell’abluzione delle mani. Marco ci informa che “I farisei e tutti i giudei non mangiano se non si sono lavati accuratamente le mani, attenendosi alle tradizioni degli antichi (…)e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, stoviglie, di oggetti di rame e di letti”(7.3.4). Va specificato che per “tradizione degli antichi”, si intende più propriamente quella “degli anziani”, cioè dei loro maestri ai cui precetti erano oltremodo attaccati. Leggiamo ad esempio una nota di Rabbi Jose nel Talmud che recita “Colui che mangia del pane con mani non lavate è reo non meno che se fornicasse con una prostituta”.

Nella Legge, invece, il comando riguardava chi doveva officiare all’altare: “Farai per le abluzioni un bacino di bronzo con il piedistallo di bronzo; lo collocherai tra la tenda del convegno e l’altare e vi metterai acqua. Aaronne e i suoi figli vi attingeranno per lavarsi le mani e i piedi. Quando entreranno nella tenda del convegno, faranno un’abluzione con l‘acqua, perché non muoiano; così quando si avvicineranno all’altare per officiare, per bruciare un’offerta da consumare con il fuoco in onore del Signore, si laveranno le mano e i piedi e non moriranno. È una prescrizione rituale perenne per Aaronne e per i suoi discendenti, in tutte le loro generazioni”(Esodo 30.18-21).

Ecco allora che ci troviamo di fronte a un gesto anche provocatorio di Gesù, che ben conosceva la mentalità e il metodo dei suoi detrattori e fa in modo che venga notato: “Si meravigliò che non avesse fatto le abluzioni prima del pranzo”. Da notare che il testo si ferma a questa reazione perché, prima che si tramuti in sdegno, Nostro Signore inizia a parlare e lo fa citando i due recipienti, il bicchiere e il piatto, senza dare spiegazioni del suo mancato lavarsi le mani.

Vediamo ora il primo punto esposto nelle due versioni di Luca e Matteo, sulla quale torneremo: Luca ha “Voi farisei pulite l’esterno del bicchiere e del piatto, ma il vostro interno è pieno di avidità e cattiveria”, Matteo“Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pulite l’esterno del bicchiere e del piatto, ma all’interno sono pieni di avidità e intemperanza”(23.25). Il “bicchiere”e il “piatto”sono al tempo stesso un esempio reale e un pretesto per far sì che una eventuale persona onesta lì in mezzo potesse capire il collegamento con l’interezza della persona umana. Bicchiere e piatto, entrambi elementi atti a contenere liquidi e solidi, quindi ciò che nutre, sono al tempo stesso figura del corpo e di ciò che è in esso, altrimenti dire “ma il vostro interno è pieno di avidità e cattiveria”non avrebbe senso. Questa connessione è ancora più chiara in Matteo quando il “sono pieni”sarebbe un evidente errore grammaticale.

Ecco allora il perché dell’epiteto “ipocriti”, cioè “dediti alla finzione”, “attori”: la pulizia dell’esterno è svolta accuratamente perché è lì che gli altri guardano, ma l’interno può essere gestito a piacere e spesso in forte contrasto con ciò che viene simulato. È lo stesso metodo che usano i governi, le strutture pubbliche, i politici, purtroppo molti nella Chiesa a prescindere dalla sua denominazione di cui Paolo nella sua seconda lettera a Timoteo scrive“…gente cha ha una religiosità solo apparente, ma ne disprezza la forza interiore. Guàrdati da costoro!”(3.5). Ancora, a Tito “Tutto è puro per chi è puro, ma per quelli che sono corrotti e senza fede nulla è puro: sono corrotte la loro mente e la loro coscienza”(1.15).

Certo i due versi propongono due ritratti differenti anche se non troppo: da una parte i religiosi, cioè coloro che, come i nostri farisei del testo, curano l’apparenza e così facendo disprezzano la forza interiore della fede. Dall’altro invece, accanto alla semplicità di chi è puro, si contrappone la corruzione di chi è senza fede: si tratta di persone che sospettano sempre il male, si sentono continuamente minacciate da chi non li tratta e non si comporta secondo le loro aspettative, hanno la mente e la coscienza “corrotte”cioè viene da dire “inguaribili”. E la corruzione di mente e coscienza si riferisce all’incapacità di ragionare e provare sentimenti secondo Dio. Credo che se il vero cristiano, quello salvato, redento da Cristo che vuole camminare a Lui unito, tenesse presente questi versi, patirebbe molto meno le conseguenze derivanti da un confronto o frequentazione con simili personaggi.

La frase “Stolti, colui che ha fatto l’esterno non ha anche fatto l’interno?”vuole dimostrare a quegli scribi e farisei che, essendo l’uomo creato spirito, anima e corpo, non ha senso curare un solo elemento, quello peraltro più facile, senza considerare minimamente gli altri due, soggetti a patire molto più del corpo.

“Date piuttosto in elemosina quello che c’è dentro, ed ecco, per voi tutto sarà puro”. Altre traduzioni riportano “quello che è in vostro potere”, ma è comunque evidente la provocazione alla rinuncia, essendo i destinatari del messaggio pieni “di avidità e cattiveria”. Più avanti, in 12.33, Gesù dirà “Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli, dove ladro non arriva e tarlo non consuma”, frase che pone in evidenza il baratro che divide la carne dallo spirito, tra il tesoro in senso umano e quello spirituale. “Vendere”, sinonimo di guadagno, si annulla nel “dare” a vantaggio di altri.

Con “Date quello che c’è dentro”Gesù esorta così a sbarazzarsi di ciò che, considerato prezioso, ritarda il cammino spirituale. È al tempo stesso un invito ad oltraggiare la parte più interna dell’individuo, quella del bambino mai cresciuto che vorrebbe tenere tutto per sé e si contraria enormemente quando dovrebbe dare o dividere con altri. Possiamo raccordarci in proposito anche al digiuno vero: “Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti?”(Isaia 58.7).

La gestione del “mio” è la dimostrazione dell’attaccamento che la persona ha di sé. Tanto più un individuo è immaturo, quanto più sarà attaccato ai suoi averi e li difenderà ad oltranza; sul versante opposto abbiamo la prodigalità, che porta alla rovina allo stesso modo, disprezzando ciò che si ha e dilapidando le proprie sostanze. Possiamo dire che quanti difendono ciò che posseggono lo fanno perché sono consapevoli di non avere altro per cui rientrano in quella condizione descritta da Satana nel libro di Giobbe, che disse a Dio “Tutto quello che l’uomo possiede è pronto a darlo per la sua vita”(2.4), la sua e non quella di altri. Vita intesa come centro, averi nel senso più ampio del termine cioè l’indipendenza, la possibilità di agire come lui ha programmato, i propri ambiti d’azione o affettivi su cui ha costruito la propria esistenza. Solo di fronte alla morte o alla malattia grave è disposto a rinunciare ad essi, essendo in gioco la sua sopravvivenza, che poi altro non è che continuare ad agire come ha sempre fatto.

La religione, che non contempla l’ascolto di Dio ma di se stessi oppure del principio in base al quale si debba per forza venire esauditi attraverso un rito, rientra in questo tipo di ragionamento fuorviante e assurdo: “pensano di essere esauditi per la moltitudine delle loro parole”. E “pulire l’esterno”è il metodo per presentarsi agli altri consapevoli del fatto che l’esterno è ciò che si vede, tralasciando l’interno che è quello, immensamente più importante, che Dio vede, valuta e giudica.

“Pagate la decima sulla menta, sulla ruta e su tutte le erbe, e lasciate da parte la giustizia e l’amore di Dio”era la stretta osservanza di Levitico 27.30 “Ogni decima della terra, cioè delle granaglie del suolo e dei frutti degli alberi, appartiene al Signore: è cosa consacrata al Signore”, per cui pagarne la decima era poca cosa, potendosi trattenere la maggior parte. Ecco un altro modo per sentirsi in pace con la propria coscienza, ma lasciando “da parte la giustizia e l’amore di Dio”. Ricordiamo le parole di Michea 6.8, “Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono e ciò che il Signore richiede da te: praticare la giustizia, amare la bontà, camminare umilmente con il tuo Dio”. Il pagare la decima senza considerare questo, equivaleva a dire a YHWH “Hai avuto quello che chiedevi, adesso lasciami in pace”, mentalità che molti hanno ancora oggi ritenendo sufficiente partecipare alle riunioni domenicali della Chiesa che frequentano.

Con la frase “Queste erano le cose da fare, senza trascurare quelle”, poi, Gesù non contesta le usanze che scribi e farisei avevano, ma li riconduce, ancora una volta nel Suo Ministero, all’essenza delle cose.

L’amore nell’occupare i “primi posti”, alla luce di quanto si vede da sempre anche in campo cristiano e non solo nel mondo, credo non abbia bisogno di commento, mentre è l’ultima frase, quella dei sepolcri, ad essere importante perché il sepolcro era ritenuto un terreno contaminato e contaminante, per cui lo si tingeva di bianco soprattutto per fare sì che non venisse calpestato inavvertitamente. Se allora a contaminare era il sepolcro, oggi lo sono le persone che si mascherano, si mimetizzano, ci parlano con scopi che non sono mai quelli diretti, che aspirano al trionfo dei loro secondi fini. Qui dovrebbe aprirsi una grossa parentesi sul peccato appunto di inavvertenza, che rendeva per Legge colpevole colui che, senza saperlo, si rendeva reo di  una trasgressione e tale rimaneva fino a quando quel peccato non fosse stato rivelato. Per ora basta mettere il risalto il fatto che, chi opera come quegli scribi e farisei, anziché essere di aiuto al prossimo è di severo inciampo, dà un esempio che non può che portare un frutto cattivo, impedendo il conseguimento dell’unico obiettivo veramente importante, cioè la pace con Dio e soprattutto il perdurare di essa. Tutte finzioni destinate a venire arse dalla Sua luce, quando verrà in giudizio. Amen.

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