01.17 – DUE PROFEZIE (Matteo 2.4-6)

01.17 – Due profezie (Matteo 2.4-6)

 

4Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo. 5Gli risposero:«A Betlehem di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta: 6E tu, Betlehem, terra di giuda, non sei davvero l’ultima città delle principali di Giuda: da te infatti uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele».”.

 

La nascita di Gesù, sommariamente trattata negli episodi precedenti, segna una tappa fondamentale nella storia di quell’umanità che ha scelto di porsi dalla parte di Dio. Sappiamo che ciò avvenne da Abele in poi, ma che ufficialmente fu da Enos, figlio di Set citato come terzogenito di Adamo, che si iniziò a designare uomini che si dedicassero alla preghiera e alle relazioni con YHWH (Genesi 4.26). A seconda delle traduzioni leggiamo “A quel tempo si cominciò ad invocare il nome del Signore” oppure “Allora si cominciò a nominare alcuni nel nome del Signore”. Un esempio di scelta lo troviamo poi in Giosuè che, parlando al popolo, disse “Ora dunque, temete il Signore e servitelo con integrità e fedeltà. Eliminate gli dèi che i vostri padri hanno servito oltre il Fiume e in Egitto, e servite il Signore. Se sembra male ai vostri occhi servire il Signore, sceglietevi oggi chi servire: se gli dèi che i vostri padri hanno servito oltre il Fiume oppure gli dèi degli Amorrei, nel cui territorio abitate. Quanto me e alla mia casa, serviremo il Signore” (Giosuè 24.14-15). Qui abbiamo una libertà di scelta che solo apparentemente è ideologica, poiché in realtà implica il destino di ciascuno nell’eternità.

Il verso di Giosuè ci parla di scelta tra ciò che è vivo e vero, o quanto che è costruito, inventato, adatto agli usi, credenze e ideali umani per poter trovare una giustificazione alle proprie azioni ed esistenza. Scegliere oggi a chi appartenere, scegliere il terreno su cui edificare come nella parabola della casa costruita sulla roccia o sulla sabbia.

Ebbene l’apostolo Paolo, scrivendo ai Galati, usa un’espressione particolare per indicare la venuta di Gesù sulla terra, data che non ci è stata tramandata nonostante fosse conosciuta dagli evangelisti: “Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò suo Figlio, nato di donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli” (4.4,5). E “la pienezza del tempo” è proprio quel periodo tra le 69ma e la 70ma settimana di Daniele cui abbiamo accennato nella scorsa riflessione.

Con questo nuovo studio non vorrei tanto esaminare quanto narrato da Matteo, ma dare un cenno anche ad altre profezie che i “capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo”, pur conoscendole, non affrontarono stante la richiesta impellente di Erode; leggiamo che li riunì facendo loro una richiesta precisa: dove sarebbe nato il Cristo secondo le loro scritture? Ecco, qui abbiamo un primo tratto del carattere del re, che riunisce il sommo sacerdote, il suo supplente, i capi delle 24 classi e gli scribi, quindi le persone più autorevoli, perché voleva sapere ciò che i Magi ignoravano. Erode quindi credette, o ritenne possibile, non escluse la possibilità che potesse davvero essere nato non un re nel senso terreno del termine, ma il Cristo, cioè l’Unto del Signore, il Messia che avrebbe liberato Israele, al contrario di lui che lo teneva soggiogato rispondendo comunque all’autorità di Roma. Ecco allora che non può essere accettata, stante il verso preciso di Matteo, la teoria in base alla quale Erode fosse geloso della nascita di un re che un giorno avrebbe minato il suo trono, ma piuttosto non poteva sopportare, tollerare la nascita del Cristo e credesse di poterlo contrastare, eliminare, uccidere. Erode allora fu uno strumento nelle mani non di quel Satana tanto sfruttato nella cinematografia e in un certo tipo di letteratura, ma del vero Avversario che, “micidiale fin dal principio” sapeva che con la nascita del Cristo sarebbe anche arrivato Colui che lo avrebbe annientato secondo il piano stabilito da Dio dalla Sua eternità.

E qui, tornando al nostro episodio, avviene un fatto davvero notevole, una testimonianza involontaria da parte dell’autorità religiosa, già da allora in combutta col potere politico: “In Betlemme di Giuda – per distinguerla dall’altra, quella di Zabulon – perché così è scritto per mezzo del profeta” (Michea). E gli lessero il testo: sarebbe nato “un capo”, quello che non vorranno riconoscere e al quale non daranno ascolto nonostante i miracoli, le implicazioni dottrinali che questi comportavano e i riferimenti all’Antico Patto che proprio loro studiavano e conoscevano.

Già dalle dinamiche di quel tempo possiamo trarre un principio fondamentale: non può esservi alcuna connessione tra potere politico e fede; se ciò accade abbiamo due elementi che, qualora si accordino, non possono che generare un sistema perverso perché la Chiesa non può avere interessi economici o di altra natura fuorché il servizio. Ricordiamo le parole “Non abbiate tra voi altro debito se non quello di amarvi gli uni gli altri” (Romani 13.8-10). La Chiesa è la comunità degli ekkletòi, dei “chiamati fuori” che, in quanto tali, con le dinamiche del mondo hanno ben poco a cui spartire.

Leggiamo la profezia di riferimento per gli interrogati da Erode in Michea 5.1-3: “E tu, Betlehem di Efrata, così piccola per essere tra i villaggi di Giuda, da te uscirà per me colui che dev’essere il dominatore in Israele; le sue origini sono dall’antichità, dai giorni più remoti. Perciò Dio li metterà in potere altrui fino a quando partorirà colei che deve partorire, e il resto dei tuoi fratelli ritornerà ai figli di Israele. Egli si leverà e pascerà con la forza del Signore, con la maestà del nome del Signore, suo Dio. Abiteranno sicuri, perché egli sarà grande, fino agli estremi confini della terra”. Avranno spiegato ad Erode i suoi sapienti qualcos’altro a parte fornirgli un’indicazione geografica? Matteo non lo dice, ma certo è che ben difficilmente il re si accontentò di questa e volle sapere chi sarebbe stato quel “re dei giudei” che era nato e cos’avrebbe fatto.

Ecco allora che da Betlehem sarebbe uscito “per me”, quindi per l’Iddio creatore, “colui”, cioè una persona precisa e unica dalle origini antiche che, con l’espressione “dai giorni più remoti”, alludono all’eternità, all’atto creativo di Dio col quale nacque anche il tempo. La seconda parte della profezia di Michea, poi, dà uno sguardo generale ad eventi che devono ancora verificarsi, ma illustra il risultato finale del piano eterno: “Abiteranno sicuri perché egli sarà grande, fino agli estremi confini della terra”, frase in cui possiamo intravedere la connessione intima anche a livello “pratico” tra il popolo di Dio e il loro Salvatore. Michea poi indica “gli estremi confini della terra” per rappresentare prima l’universalità del messaggio e della grazia, poi la vastità dei “Nuovi cieli e nuova terra” che verranno creati e che non contempleranno la presenza di nulla di impuro.

Di tutte queste parole che i sapienti di Erode gli lessero, due furono gli elementi che gli suonarono come un allarme: il potere che avrebbe avuto il Cristo, e il verso “Dio li metterà in potere altrui fino a quando partorirà colei che deve partorire”. Era quindi avvenuto il parto e il “potere altrui” in cui Erode il Grande si riconobbe, stava per finire. Temette per la fine del suo regno senza pensare a quella della propria anima.

Sono molti i passi dei profeti che parlano del Cristo; particolarmente interessante è quella di Isaia 52.13-15: “Ecco, il mio servo avrà successo, sarà onorato, esaltato e innalzato grandemente. Come molti si stupirono di lui – tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo –, così si meraviglieranno di lui molte nazioni; i re davanti a lui si chiuderanno la bocca, perché vedranno un fatto mai ad essi raccontato e comprenderanno ciò che mai avevano udito”. Qui Isaia ci dà un particolare: il servo del Signore “avrà successo”; siamo quindi autorizzati a pensare che prima di lui ci sia stato qualcun altro che ha fallito, quindi Adamo, che non fu in grado di adempiere nel tempo all’unico comandamento ricevuto.

Il “successo” di cui parla Isaia non allude tanto alla riuscita di una missione, a una vittoria sui nemici, ma al riscatto della vita umana: “Se per mezzo di un uomo – Adamo – venne la morte, per mezzo di un uomo – il servo vittorioso – verrà anche la resurrezione dei morti. Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita” (1 Corinti 15.21.22). Cristo, risorgendo, eliminò la morte come fine di tutto per trasformarla in passaggio da vita a vita per quelli che avrebbero creduto in lui. In questo stesso capitolo l’apostolo Paolo illustra la differenza tra le due esistenze dell’essere umano, la terrena e la futura, per poi passare a riconsiderare l’Adamo trasgressore e il Nuovo e Ultimo, Gesù: “…così anche la resurrezione dei morti: è seminato nella corruzione – il corpo – risorge nell’incorruttibilità; è seminato nella miseria, risorge nella gloria; è seminato nella debolezza, risorge nella potenza; è seminato corpo animale, risorge corpo spirituale. Se c’è un corpo animale, vi è anche un corpo spirituale. Sta scritto infatti che il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l’ultimo Adamo divenne spirito datore di vita” (Ibid. 42-45).

Ora il confronto tra i due “Adamo” e il “successo” che avrebbe avuto il Servo del Signore lo possiamo vedere mettendo a confronto i termini che contraddistinguono il nostro corpo e la nostra esistenza terrena con quello che avremo: per la prima condizione le parole sono “corruzione – miseria – debolezza – corpo animale”, per la seconda “incorruttibilità – gloria – potenza – corpo spirituale”, quattro qualità per ciascuna esistenza. C’è purtroppo un controsenso che ha sempre contraddistinto tutte le epoche attraverso le quali è vissuto l’uomo e a metterlo in risalto è la frase “Se c’è un corpo animale, c’è anche un corpo spirituale”: tutti ammettono l’esistenza del primo corpo che vede, sente, ascolta, parla e si muove, ma pochi riconoscono quella del corpo spirituale che esattamente allo stesso modo sente, ascolta, parla e si muove ma, negando l’esistenza di Dio e rifiutando di accogliere Gesù Cristo nella loro vita, lo oltraggiano e gli impediscono di agire. In questo modo il “corpo spirituale” resta ancorato a quello animale e non si distacca, non si innalza, non si salva. Resta immobile, paralizzato. E Cristo guarì i paralitici.

L’avere “successo” del Servo nato in Betlehem è sì personale e la resurrezione lo conferma, ma la sua grandiosità e mistero d’amore risiede proprio nel fatto che ha dato agli altri di seguire il suo stesso percorso glorioso nonostante la nostra caratteristica di peccatori. Chi rifiuta tutto questo rimane nei quattro ambiti che caratterizzano la condizione umana senza Cristo: corruzione – miseria – debolezza – corpo animale.

L’apostolo Giovanni, come sappiamo, scrive “A tutti quanti lo hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio”, quindi la corruzione – miseria – debolezza – corpo animale sono ciò che siamo ma in cui non possiamo vivere come condizione spirituale perché ciò che ci attende è qualcosa di esattamente opposto: incorruttibilità – gloria – potenza – corpo spirituale. Il vero cristiano è un essere in trasformazione, in cammino, tende alla perfezione nonostante sia imperfetto per sua natura.

Ma “Il primo uomo, tratto dalla terra, è fatto di terra; il secondo uomo viene dal cielo. Come è l’uomo terreno, così sono quelli di terra; e come è l’uomo celeste, così anche i celesti. E come eravamo simili all’uomo terreno, così saremo simili all’uomo celeste. Vi dico questo, fratelli: carne e sangue non possono ereditare il regno di Dio, né ciò che si corrompe può ereditare l’incorruttibilità” (1 Corinti 15.47-50).

E anche qui il richiamo a Giovanni è molto forte: “…a quelli che credono nel Suo Nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati” (1.12,13) perché “Quello che è nato dalla carne è carne e quello che è nato dallo spirito è spirito” (3.6). Amen.

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01.16 – ASTRONOMI (Matteo 2.1-3)

01.16 – ASTRONOMI (Matteo 2.1-3)

 

1Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme 2e dicevano: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo.3All’udire questo, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme».”.

 

Dopo l’episodio di Simeone ed Anna, Luca scrive che “Quando ebbero tutto compiuto secondo la legge di Mosè, fecero ritorno alla loro città di Nazaret” (2.39). In realtà il loro ritorno a Nazareth avvenne dopo molto tempo perché Luca non riporta la visita dei Magi e il viaggio in Egitto intrapreso per sfuggire ai piani omicidi di Erode il Grande che ci racconta Matteo. Ecco allora che Luca vuole dirci che la Nazareth fu raggiunta dai tre non dopo il rito della circoncisione di Gesù, ma piuttosto che ci furono altri avvenimenti omessi, riassunti nel verso “Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era sopra di lui” (Luca 2.40). Mentre Matteo ci parla dei Magi e della fuga in Egitto, Luca pone tre tappe, circoncisione – Nazareth – Gesù che cresce, e quel “la grazia di Dio era sopra di lui” contempla la protezione a lui accordata nei due periodi di cui parla Matteo.

Venendo al testo in esame, possiamo dire che è più impegnativo di quanto possa sembrare e ci rimanda agli scritti e alla persona del profeta Daniele perché tra lui e i Magi c’è un rapporto di continuità: i Magi provenivano “da Oriente”, una zona molto vasta che comprendeva la Mesopotamia, la Persia e il deserto siro-arabico. I Magi costituivano la classe sociale più elevata dopo re e prìncipi ed erano sacerdoti dello zoroastrismo, versati nelle scienze di allora con particolare riguardo per l’astronomia che studiavano da secoli ogni notte suddivisi in turni. Nelle loro terre erano considerati i rappresentanti di un sapere superiore e ritenevano il cielo notturno una sorta di grande finestra attraverso la quale leggere il volere degli dèi. È stato detto che fossero astrologi, definizione che però non può raccordarsi ai nostri odierni, così esperti nel redigere prognostici assolutamente generici, quindi adattabili alla realtà di quelli che li consultan. I Magi di allora erano convinti che per ogni persona che nascesse vi fosse una stella – ricordiamo le parole “Abbiamo visto spuntare la sua stella” – che in qualche modo la guidava o proteggeva, ma la loro conoscenza di quell’astro così specifico che attendevano poggiava le sue basi proprio sulle profezie e gli insegnamenti di Daniele, attivo a Babilonia circa 600 anni prima di loro.

Il fatto che abbiano detto “La sua stella” testimonia che quei sapienti fossero assolutamente certi che il fenomeno che avevano osservato dovesse ricondursi alla nascita del Saošyant, il salvatore del mondo che aspettavano e sapevano doveva arrivare.

Credo che per capire il loro pensiero vada dato uno sguardo alle loro credenze: la religione che professavano era monoteista ed era stata fondata da Zarathustra prima del VI sec. a.C. (ma c’è chi la fa risalire al XVIII). Era riconosciuto un unico creatore, “Signore dell’esistenza e della vita attraverso il Suo operare” (Avesta Iasna 31.8) e si sosteneva un continuo confronto fra Bene e Male prevedendo la “Vita” e la “Migliore Esistenza” per chi avesse seguito il primo, o la “Non-Vita” e la “Peggiore Esistenza” (Ibid. 30.3,4) per chi avesse fatto la scelta opposta. Soprattutto Zarathustra, loro profeta, sosteneva che alla fine dei tempi sarebbe giunta una figura messianica che avrebbe guidato le forze del bene alla vittoria e alla redenzione del cosmo. I Magi quindi aspettavano, secondo i loro testi sacri, un redentore, un salvatore. Resta il perché cercassero proprio “il re dei giudei che è nato”, domanda rivolta agli abitanti di Gerusalemme con assoluta certezza. E qui entra il profeta Daniele.

Daniele, il profeta, il cui nome significa “Dio giudica”, o “Dio è mio giudice”: fu deportato a Babilonia da Nabucodonosor dopo la distruzione di Gerusalemme del 586 a.C. unitamente ai nobili della città e ai migliori giovani del regno di Giuda perché fossero al suo servizio. Daniele e altri giovani (Anania, Misael e Azaria che in seguito furono chiamati con nomi babilonesi) furono istruiti alla corte del re per tre anni, periodo che la Scrittura descrive così: “Dio concesse a questi quattro giovani – cioè i tre più Daniele – di conoscere e comprendere ogni scrittura e ogni sapienza, e rese Daniele interprete di visioni e sogni. (…) Su qualunque argomento in fatto di sapienza e di intelligenza il re li interrogasse, li trovava dieci volte superiori a tutti i maghi e indovini che c’erano in tutto il suo regno” (Daniele 1.17,20).

Percorrendo brevemente il libro di questo profeta, ci rendiamo conto che molti furono gli episodi tramandati dalla storia di corte e che interessarono i sapienti della sua epoca, i Magi di allora: pensiamo all’interpretazione dei sogni del re sul futuro del suo regno, l’episodio in cui i tre amici di Daniele furono gettati nella fornace senza subire alcun danno (3.46-50) oltre alle sue profezie che i Magi di allora tramandarono a quelli che poi si recheranno a Gerusalemme alla ricerca del “Re dei giudei che è nato”.

La prima profezia si trova in 7.13-14: “Guardando ancora nelle visioni notturne, ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d’uomo; giunse al vegliardo e fu presentato a lui. Gli furono dati potere, gloria e regno, tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano: il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai, e il suo regno non sarà mai distrutto”. La seconda è la profezia delle settanta settimane di anni che molti, Newton compreso, hanno cercato di comprendere; si tratta di pochi versi che riassumono tutta la storia umana dal tempo di Daniele fino alla fine del mondo che conosciamo e vanno letti a volte in termini matematici, in altre per simboli o per quadri.

Le “settanta settimane” vanno divise in varie sezioni, la prima delle quali è introduttiva: “Settanta settimane sono fissate per il tuo popolo e per la tua santa città per mettere fine all’empietà, mettere i sigilli ai peccati, espiare l’iniquità, stabilire una giustizia eterna, suggellare visione e profezia e ungere il Santo dei Santi” (9.24). Qui abbiamo l’annuncio del tempo che Dio ha stabilito sull’umanità prima che la totalità del Suo piano si compia. Si tratta di un tempo suddiviso in quattro periodi storici precisi: il primo, della durata di sette settimane, è descritto così dall’angelo Gabriele: “Sappi e intendi bene: da quando uscì la parola sul ritorno e la ricostruzione di Gerusalemme fino a un principe consacrato, vi saranno sette settimane” (v.25). Si tratta di un preciso riferimento all’editto di Artaserse II che, nel 445 a.C., autorizzò la ricostruzione della città santa e la ricostruzione delle sue mura. Il “principe consacrato” è poi identificabile in Esdra, sacerdote e scriba considerato dagli israeliti come il personaggio più importante dopo Mosè perché Esdra tornò a Gerusalemme con altri capi del popolo e costituì il nuovo stato ebraico.

Il secondo periodo storico è rappresentato da 62 settimane così descritte: “Durante sessantadue settimane saranno restaurati, riedificati piazze e fossati, e ciò in tempi angosciosi”; questo si riferisce a tutti gli avvenimenti che caratterizzarono lo sviluppo spirituale della città, non tanto quello materiale per il quale 434 anni (62×7) appaiono decisamente troppi.

Le 62 settimane, quindi 69 calcolando le 7 precedenti, terminano con la crocifissione di Gesù quando leggiamo “Dopo sessantadue settimane, un consacrato sarà soppresso senza colpa in lui; il popolo di un principe che verrà distruggerà la città e il santuario; la sua fine sarà un’inondazione e, fino alla fine, guerra e desolazioni decretate” (v.26). In questo verso viene citata anche la distruzione di Gerusalemme dalle truppe romane di Tito avvenuta nel 70 d.C.. Ora occorre fare una sottolineatura fondamentale, e cioè: mentre il testo ha una precisione pressoché chirurgica nel dividere le prime sette settimane dalle altre 62, così non avviene tra la 69ma e la 70ma. In questo “cuscinetto”, in questo spazio, si inserisce la dispensazione della grazia che è, come mi diceva un amico, “quel periodo in cui il peccatore ha il diritto, convinto dallo Spirito Santo di peccato, giustizia e giudizio, di essere salvato indipendentemente dal suo stato sociale, etnico o geografico”.

Notiamo la fine di Gerusalemme che avverrà, come altri traducono, “con un’inondazione” o “come per inondazione” a sottolineare la violenza e la moltitudine che si scatenerà su di essa. Leggendo il verso, poi, vediamo che c’è un’altra “fine” vista nell’espressione “fino alla fine, guerra e desolazioni decretate” che a mio parere sono il riassunto, in prospettiva, di tutte le sofferenze e vicissitudini che il popolo ebraico subirà nella storia.

L’ultima settimana, la 70ma, non è citata chiaramente, ma la si distingue con facilità perché caratterizzata da due periodi di uguale durata: “Egli stringerà una forte alleanza con molti per una settimana e, nello spazio di metà settimana, farà cessare il sacrificio e l’offerta; sull’ala del tempio porrà l’abominio della desolazione e ciò sarà fino alla fine, fino al termine segnato sul devastatore” (v.27). Trovo qui un accenno a quell’epoca di falsa pace mondiale proclamata dal “Figlio della perdizione” (tre anni e mezzo, la metà settimana) e all’altra, a lui seguente e opposto, di pari durata in cui avverranno i gravi giudizi che Dio manifesterà su tutta la terra che troviamo descritti nei capitoli da 6 a 18 dell’Apocalisse.

Mi rendo conto di aver aperto una finestra verso una trattazione dagli sviluppi enormi che qui non è possibile affrontare; parlare della profezia di Daniele ha qui senso perché questo profeta, citato molte volte anche nella letteratura ugaritica, quindi della Mesopotamia e per estensione d’Oriente, non parlava solo con il re, ma anche con gli alti membri della corte essendo lui stesso uno di loro. Con queste persone il profeta aveva un rapporto quotidiano e certo disse ben di più di quello che troviamo scritto nel suo libro. Ad esempio, non sappiamo quali furono le domande che il re rivolse a quei giovani per trovarli dieci volte più sapienti degli uomini validi di cui si era circondato.

Daniele era l’uomo della rivelazione, una persona in cui la sapienza divina non era disgiunta da quella umana e, a contatto con la cultura della corte, la estese e la ampliò, certamente estendendo la profezia di Balaam sul salvatore quando disse “Io lo vedo, ma non ora; io lo contemplo, ma non da vicino: una stella spunta da Giacobbe, uno scettro sorge da Israele” (Numeri 24.17). Teniamo presente che Daniele non svolse il suo ministero per poco tempo, ma rimase anche nelle corti di Baldassar, figlio di Nabucodonosor, e in quella di Dario il Medo, per cui i suoi insegnamenti orali furono certamente molti e vennero tramandati proprio dai sacerdoti e dai sapienti locali, i Magi appunto, che a loro si dedicarono cercando di trattenerli e comprenderli per quanto potessero. Sapevano che dovevano attendere la stella che sarebbe “spuntata da Giacobbe”.

I Magi che arrivarono a Gerusalemme avevano nel loro bagaglio culturale la nozione, presente nella cultura dell’epoca, di un radicale cambiamento politico e sociale derivato dalla nascita di un re che, secondo le profezie in loro possesso, doveva appartenere al popolo di Israele. Ecco quella che potremmo definire “L’eredità di Daniele”! Per questo osservavano il cielo ogni notte, sfruttando le loro conoscenze plurisecolari: erano persiani, forti delle tradizioni astronomiche babilonesi che per prime divisero in dodici – notare il numero – settori uguali le costellazioni attraversate dal sole e dal pianeti (lo zodiaco). Già nel I millennio a.C. i babilonesi avevano rappresentato graficamente la precessione degli equinozi, cioè lo spostamento dell’asse attorno al quale la terra compie la sua rotazione giornaliera.

Chi era profondamente interessato a questi fenomeni, non poteva essere un astrologo. Chi osservava le stelle come loro, sapeva vedere e soprattutto cercare in quel cielo notturno così diverso dal nostro, oggi inquinato tanto da sostanze quanto dalla luce artificiale. Sappiamo che i Magi videro “la sua stella” e qui si scatenarono molte ipotesi prima tra le quali una cometa, la cui idea comparve per la prima volta con Giotto, che vide quella di Halley nel 1301 e la dipinse nella cappella degli Scrovegni a Padova proprio nell’episodio dell’adorazione dei magi. Johannes Keplero nel 1604, per spiegare la stella, propose l’idea dell’esplosione di una nova e di una supernova perché ne vide una in quell’anno, ma per capire correttamente la “stella” vista dai Magi occorre considerare il fenomeno luminoso che si manifestò a seguito alla triplice congiunzione Giove – Saturno nella costellazione dei pesci che avvenne attorno al 7 a.C.: troppo presto? Troppo tardi? La data non deve turbare più di tanto perché Dionigi il Piccolo, cercando di stabilire l’anno 1 coincidente con la nascita di Cristo, fece un errore di calcolo sbagliando di qualche anno e non possiamo sapere quando Nostro Signore effettivamente nacque.

Una triplice congiunzione si ha quando un incrocio di pianeti si verifica per tre volte: nel cielo uno supera l’altro, poi torna indietro per il moto apparente della terra per poi superarlo nuovamente. Due astronomi dell’Università di Genova, Giuseppe Veneziano e Mario Codebò, hanno ricostruito al calcolatore il cielo che dovettero osservare i Magi a partire dal 4 giugno del 7 a.C.: appare chiaramente il moto retrogrado dei pianeti da Est verso Ovest e altrettanto chiaro è il fatto che, se quei sapienti si fossero mossi per seguirlo, sarebbero giunti in Palestina. Una cometa non avrebbe mai potuto “fermarsi”, mentre la congiunzione sì, nel caso in cui avesse terminato il suo moto retrogrado per riprendere quello diretto.

I Magi fecero un tragitto impegnativo e faticoso di circa 800 km dalla Persia a Gerusalemme, percorrendo la via della seta presumibilmente ad un ritmo di 30-35 km al giorno, portando doni che dimostrarono la comprensione del fatto che quel “potere, gloria e regno” che avrebbe avuto il “Re dei Giudei che è nato” era di natura spirituale e non politica.

C’è poi un secondo personaggio che già abbiamo incontrato, Erode il Grande. La carovana dei Magi era giunta a Gerusalemme e all’inizio non dovette avere fatto molto scalpore perché in città era frequente assistere all’arrivo di carovane e pellegrini in occasione delle feste comandate; c’era però quella domanda su dove fosse il re del giudei che era nato e soprattutto lo scopo dichiarato di quella ricerca: “abbiamo visto la sua stella e siamo venuti ad adorarlo”. Nessuno condivise il loro entusiasmo. Al contrario abbiamo letto che quel loro informarsi con insistenza generò turbamento tanto in Erode quanto negli abitanti della città, che più che far caso al ricercare dei Magi iniziarono a temere le conseguenze delle loro domande, gli effetti che quelle avrebbero avuto sul tiranno che, sentendosi minacciato nel suo potere, chissà quali rappresaglie o crudeli iniziative avrebbe potuto mettere in atto. Il verso successivo di Matteo infatti ci dice che Erode, saputo il motivo dell’arrivo dei Magi in città, riuniti “tutti – nessuno escluso – i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo”. Poi, facendo in modo di non allarmarli, li convocò in segreto per approfondire ulteriormente con lo scopo di perfezionare il proprio piano per uccidere Gesù. Erode non s’interessò di quella nascita. Non lui, non gli abitanti di Gerusalemme. Ma degli estranei, rappresentanti di un sapere antico e lontano, figura dei popoli che Dio riunirà, sì.

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01.01- ERODE, ZACCARIA, ELISABETTA (Luca 1.5-6)

01.01- Erode, Zaccaria, Elisabetta (Luca 1.5-6)

5Al tempo di Erode, re della Giudea, vi era un sacerdote di nome Zaccaria, della classe di Abia, che aveva in moglie una discendente di Aronne, di nome Elisabetta”. 6Ambedue erano giusti davanti a Dio e osservavano irreprensibili tutte le leggi e le prescrizioni del Signore”.

                 Nella riflessione precedente abbiamo accennato a come, per iniziare la lettura dei Vangeli, siano possibili delle alternative al prologo di Giovanni citando Matteo e Luca: il primo inizia dalla dignità regale di Gesù con una genealogia che parte da Abramo e il secondo, dopo la dedica a Teofilo – Sommo Sacerdote in Gerusalemme dal 37 al 41 – e una breve introduzione in cui illustra i metodi di indagine che caratterizzeranno la sua opera, colloca storicamente il suo primo episodio, l’annuncio dell’angelo Gabriele a Zaccaria.

Con le parole “Al tempo di Erode, re della Giudea” Luca ci pone negli anni tra il 40 a.C. e il 4 d.C. ma dobbiamo tener presente che, quando si parla di date, queste non possono essere prese con assoluta certezza stante l’errore di calcolo che commise Dionigi il Piccolo nel 525 d.C.: monaco sciita in Roma, Dionigi venne incaricato da Papa Giovanni I di stabilire una data per la Pasqua che, fin dal III secolo, veniva ricordata in tempi differenti dalla Chiesa d’Oriente e da quella d’Occidente. Per questo calcolo, molto complesso in cui non entro nei dettagli, Dionigi il Piccolo non volle contare gli anni, come in uso a quel tempo, a partire dal giorno in cui Diocleziano salì al trono e lasciò scritto così: “Non vogliamo che nei nostri calcoli c’entri in alcun modo la persona di un persecutore, ma piuttosto che occorra prendere in considerazione la nascita di Nostro Signore Gesù Cristo”. Dionigi stabilì così che il Salvatore fosse nato nell’anno 1 facendolo coincidere col 753 dalla fondazione di Roma, ma sbagliò di almeno quattro anni. Tenere presente questo errore è importante perché, consultando dei testi storici, ci potrebbero essere delle discrepanze che potrebbero disorientare.

Altra considerazione su “Al tempo di Erode” va fatta sul personaggio che, coi suoi eredi, domina la scena evangelica in una sorta di “dietro le quinte”, emergendo a volte in tutta la sua brutalità. Non è un personaggio che possiamo ignorare perché è il primo a venire citato storicamente dopo Teofilo, se iniziamo il nostro viaggio a partire da Luca.

Al tempo di Erode” è allora la scena di apertura che allude ad un’epoca molto triste per gli ebrei: Israele si trovava sotto il dominio straniero ed era senza profeti da circa 430 anni, tanti sono quelli che separano Malachia, ultimo dell’Antico Patto che conclude il suo scritto con la parola “sterminio”, da Giovanni Battista, che funge da spartiacque tra Antico e Nuovo.

Capire Erode, che non fu migliore o peggiore rispetto ai tanti re, imperatori o “guide” che hanno governato regioni più o meno estese del pianeta in ogni tempo, è necessario anche se si tratta di una figura non certo edificante. Quasi tutte le notizie che abbiamo su di lui ci provengono da Giuseppe Flavio, storico nato nel 37 a.C. a Gerusalemme, autore delle “Guerre Giudaiche” e delle “Antichità Giudaiche”.

 

Il padre di Erode, Antipatro, era ministro di Ircano II re di Giudea membro della dinastia degli Asmonei e, col favore di Giulio Cesare, riuscì ad usurpare l’autorità del suo principe ed essere nominato amministratore della regione. Quando Antipatro fu assassinato nel 43 (o nel 44) a.C., gli successero i figli Fasaele, descritto come nobile e coraggioso che divenne governatore della Galilea fino al 40 a.C., ed Erode, cui fu data la Giudea con Gerusalemme. Erode, detto il Grande, fu un politico astuto che favorì prima Marco Antonio e poi, dopo la di lui sconfitta ad Anzio nel 31, fece subito visita al suo rivale Ottaviano a Rodi togliendosi la corona in sua presenza e giustificandosi dell’appoggio dato ad Antonio, ma gli venne restituita e, con decreto, gli fu riconfermato il potere con godimento di autonomia interna e di libertà dai tributi a Roma, restando a lei soggetto nelle questioni di guerra e di politica estera. A Roma salì così sul Campidoglio per offrire sacrifici di ringraziamento a Giove Capitolino.

Gli anni dal 37 al 25 furono utili ad Erode soprattutto per consolidare il suo potere e furono caratterizzati dalla fredda, sistematica eliminazione di chiunque avrebbe potuto contestare o contrastare la sua autorità; ricordiamo fra i tanti il sedicenne Aristobulo III che in precedenza aveva nominato sommo sacerdote, fatto affogare in una piscina; ricordiamo come sue vittime anche Giuseppe, marito di sua sorella Salome, Ircano II, la moglie Mariamme e la suocera Alessandra. La sua crudeltà, fondata su un’ambizione insaziabile, era notoria ed era circondato da intrighi e cospirazioni che lo fecero combattere per la sua stessa sopravvivenza.

Gli anni dal 25 al 13 furono dedicati alla promozione culturale del suo regno, finanziata soprattutto con le tasse: favorì il culto dell’imperatore e, per rendere grandiosa la celebrazione quadriennale che si faceva, provvide alla costruzione di templi in suo onore, teatri, ippodromi, palestre, bagni e nuove città. A Gerusalemme edificò un teatro, un anfiteatro, parchi, giardini, fontane, un palazzo reale e la fortezza Antonia per poi procedere, nel tentativo di ingraziarsi il favore del popolo, alla magnifica costruzione di quel Tempio che, quanto ai cortili, fu completato verso il 63 d.C., otto anni prima che le truppe romane lo distruggessero nel 70. Fuori da Gerusalemme costruì Sebaste in onore di Augusto, con un tempio a lui dedicato, Cesarea Marittima col porto; edificò fortezze tra le quali quella di Macheronte, in cui sarà imprigionato Giovanni Battista, e Masada. Nonostante fosse re dei Giudei – ricordiamo le parole dei Magi “Dov’è il re dei Giudei che è nato?” che lo sconvolsero – non riuscì mai a guadagnarsi il loro appoggio in quanto, essendo idumeo, era disprezzato salvo che dagli “Erodiani”, corrente politica citata da Matteo e Marco.

Abbiamo infine il periodo dagli anni dal 13 a.C. al 4 d.C. che furono caratterizzati da conflitti famigliari interni: aveva sposato dieci mogli e col tempo ne aveva ripudiate alcune assieme ai loro figli. Una reale preoccupazione gli venne dai due nati da Mariamme, Alessandro e Aristobulo, che uccise nell’anno 7 a.C. assieme a 300 ufficiali accusati di parteggiare per loro. La sua ultima malattia fu terribile: Flavio Giuseppe scrive “Tutto il suo corpo fu preda della malattia, diviso tra varie forme di mali; aveva una febbre non violenta, un prurito insopportabile su tutta la pelle e continui dolori intestinali, gonfiori ai piedi come per idropisia, infiammazione all’addome e cancrena dei genitali con formazione di vermi, e inoltre difficoltà a respirare se non in posizione eretta, e spasmi di tutte le membra” (Guerre Giudaiche 1, 656). Cinque giorni prima di morire fece uccidere il primogenito Antipatro, da lui già designato erede al trono. Mentre era malato si sparse la voce che fosse morto e immediatamente due legali giudei colsero l’occasione per incitare il popolo ad abbattere l’aquila d’oro che stava sul Tempio di Gerusalemme: Erode lo seppe e si vendicò ordinando che fossero bruciati vivi.

Si potrebbe osservare, dopo questo elenco di nefandezze, che quanto scritto mal si adatti ad una “lectio” che, per gli scopi che si prefigge, dovrebbe avere solo temi edificanti; credo però che anche i dati negativi siano utili per capire alcune circostanze anche perché, se così non fosse, i libri storici della Bibbia si limiterebbero a non illustrare le azioni dei personaggi di cui è detto “Fece ciò che è male agli occhi del Signore”. Erode, morto nell’anno 4, non può essere solo un nome legato alla strage degli innocenti, fatto di cui il solo Matteo parla probabilmente perché, a fronte dei crimini commessi e di cui ho riportato una parte, appare un episodio paradossalmente trascurabile: erano figli del popolo, di persone umili, “poca cosa” rispetto alla gente “importante” che fece uccidere.

 

Al nome di Erode, che significa “discendente da eroi”, si contrappone quello di Zaccaria, “Dio si ricorda” o “si è ricordato”, sacerdote “della classe di Abia”. Anche qui è importante sviluppare il personaggio, cosa che faremo nel prossimo studio, per ora limitandoci agli stretti dati che ci fornire Luca nei versi oggetto di riflessione.

Zaccaria apparteneva all’ottava classe sacerdotale discendente da Abia, uno dei 24 nipoti del primo sommo sacerdote di Israele, Aaronne, fratello di Mosè. L’istituzione delle classi sacerdotali risaliva ai tempi di Davide quando, dovendo organizzarle, “…assieme con Sadoc dei figli di Eleazaro e con Achimelec dei figli di Itamar, li divise in classi secondo il loro servizio. (…) La prima sorte toccò a Ioiarib, la seconda a Iedaia, la terza a Carim, la quarta a Seorim, la quinta a Malchia, la sesta a Miamin, la settima ad Akkos, l’ottava ad Abia… (…). Queste furono le classi secondo il loro servizio, per entrare nel Tempio del Signore secondo la regola stabilita dal loro antenato Aaronne, come gli aveva ordinato il Signore, Dio di Israele” (1 Cronache 24.3-19).

Zaccaria, come è scritto, “aveva in moglie una discendente di Aaronne, di nome Elisabetta”, cioè “Dio ha giurato”, oppure secondo altri “Dio è perfetto”: il figlio che sarebbe nato da loro non solo avrebbe avuto una discendenza autorevole tanto da parte di padre che di madre, ma sarebbe stato il risultato di un’unione che avrebbe implicato ricordo e giuramento, o ricordo e perfezione. Poiché i nomi sono indice di “predisposizione a”, ma non sempre garantiscono un reale compiersi del loro significato, ecco che Luca specifica l’atteggiamento interiore di entrambi i genitori, “giusti davanti a Dio, camminando in tutti i comandamenti e leggi del signore senza biasimo”: “biasimo” di chi? Così erano reputati dai loro simili, ma soprattutto “senza biasimo” erano considerati da quel Dio che servivano ciascuno secondo le proprie possibilità.

Diversamente dai farisei che incontreremo, che si ritenevano giusti ma Luca in 16.15 definisce “attaccati al denaro”, i due coniugi erano fiduciosi in Dio per il compimento delle Sue promesse ed erano sempre disposti ad essere guidati dalla Sua volontà. Il loro cioè non era un atteggiamento formale, ma simile a quello di Abrahamo, che “…credette a Dio e ciò gli fu messo in conto di giustizia”. Zaccaria ed Elisabetta quindi si distinguevano dagli altri loro contemporanei per una vita condotta in modo consono all’attesa del Messia promesso ad Israele, aspettavano e amavano la Fonte dalla quale sarebbe giunto un giorno.

Sono due gli atteggiamenti che una persona può assumere davanti a Dio, quando non lo rifiuta a priori: uno è formale e un altro profondamente interiore, come dimostrato nella parabola del giovane ricco, convinto di essere un “giusto” perché osservava i comandamenti fin dalla sua giovinezza, che però si ritrasse da Gesù nel momento in cui fu invitato ad abbandonare le sue sostanze per darle ai poveri e seguirlo (Marco 10.17-30). La Legge andava osservata, ma a nulla sarebbe servito senza l’amore per il Signore “con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”.

Concludendo, Luca ci presenta tre personaggi: Erode, il “discendente da eroi”, uomo potente, gestore per il tempo concessogli di molte vite altrui, che scelse di servire se stesso finendo tra gli spasmi di una malattia implacabile, figura della “morte seconda”, quella vera, che avrebbe sperimentato. Qui viene in mente la frase che molti conoscono, ma su cui sorvolano: “Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi si perde o rovina se stesso?” (Luca 9.25). È il “se stesso”, tradotto anche con “la sua anima” che sopravvive alla morte che non è la fine di tutto, ma un passaggio che trova nell’oltre la retribuzione di ciò che avremo fatto in vita, in bene o in male. Chiediamoci quanti Erode esistano oggi, che vivono nel rancore, nel sospetto, nella dissolutezza e, pur non facendo uccidere gli avversari, li condannano alla morte civile. Erodi moderni, senza neppure le manie di grandezza suggerite della mitologia greca, che stringono e sciolgono alleanze per ingrandirsi ad ogni livello: politico, industriale, economico, criminale, poteri spesso intrecciati tra loro, ma che inevitabilmente dovranno constatare la propria rovina nel momento in cui scopriranno di avere sbagliato meta, prospettiva, finalità. L’amore per noi stessi non ci porterà mai da nessuna parte, saremo sempre e soltanto soli, magari senza rendercene conto.

Opposte al “discendente da eroi” abbiamo due persone che, al di là degli aspetti che vedremo, testimoniano che nessuna delle promesse di Dio mancherà di avere un compimento: “Dio si ricorda” e “Dio ha giurato”. Perché “Tutte le le promesse di Dio sono in lui – Gesù Cristo – sì ed Amen alla gloria di Dio, per noi” (1 Corinti 1.20).