14.12 – TRE PARABOLE: IL FIGLIO PRODIGO 1/4 (Luca 15.20)

14.12 – Tre parabole – 3, il figlio prodigo 1/4 (Luca 15.11-20)

 

 

11Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. 12Il più giovane dei due disse al padre: «Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta». Ed egli divise tra loro le sue sostanze. 13Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. 14Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. 15Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. 16Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. 17Allora ritornò in sé e disse: «Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! 18Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; 19non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati». 20Si alzò e tornò da suo padre.

 

L’ultima delle tre parabole esposte da Gesù quel giorno è forse quella che colpisce, più profondamente perché offre dinamiche particolari e un esempio di ciò che succede da sempre, vale a dire un carico di speranze, progetti, illusioni che svaniscono per far trovare la persona coinvolta di fronte alla dura realtà delle cose. È una parabola di completamento delle precedenti – e non solo – perché mostra l’opera dello Spirito Santo e la misericordia del Padre verso l’uomo che cade vittima della propria autonomia.

Ora la prima sottolineatura la possiamo fare sul numero due, relativo ai figli: si tratta di una cifra che abbiamo già sviluppato con esempi e che è ambigua nel senso che può indicare tanto collaborazione e sostegno reciproco, quanto rivalità, contrasto e opposizione come in questo caso: abbiamo un figlio maggiore, sempre presente nella casa e lavoratore irreprensibile (il verso 25 ci dice che “era nei campi” e il 29 “ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando”), e uno minore che, irretito dai suoi progetti e convinto di potersi gestire, chiede anticipatamente la divisione dei beni.

Va detto che la Legge obbligava la spartizione dell’eredità in percentuali precise, vale a dire che tutto veniva diviso in parti uguali di cui due andavano al primogenito e una a ciascuno degli altri figli come si legge in Deuteronomio 21.16,17.

Ciò che vi è di particolare in questa parabola è che la richiesta del figlio minore è anomala nel senso che non vi era nulla, nel codice civile ebraico, che desse la facoltà di chiedere la porzione di eredità quando il genitore era ancora in vita mentre qui non solo ciò avviene, ma abbiamo un padre che in un certo senso sacrifica una parte di ciò che ha per soddisfare i desideri del figlio minore.

La lettura del verso 13, col più giovane che “raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano” ci consente di osservare alcuni aspetti del suo carattere: quel ragazzo prende tutto ciò che è suo nel senso che il suo desiderio di indipendenza, e ancor di più la ferma convinzione di farcela da solo, giunge al punto tale da non voler lasciare nulla di proprio nella casa che lo aveva visto crescere. Ciò è indice della volontà di dare un taglio netto, non lasciando nulla di sé, fosse anche solo un ricordo; potremmo dire che nel suo gesto si può leggere una volontà di rinnegare le proprie origini, a dire “finora ho vissuto in base a ciò che gli altri si aspettavano da me, d’ora in avanti farò ciò che voglio io”, alludendo al fatto che nella casa paterna si sentiva un subordinato, una persona non libera, costretto in un lavoro che lo infastidiva.

E infatti, guardando alla seconda parte del racconto, il figlio maggiore lavorava nei campi, il padre era un uomo ricco che aveva diversi lavoranti alle sue dipendenze e, oltre all’agricoltura, si dava anche all’allevamento.

Altro elemento sulla psicologia del figlio minore lo vediamo nelle parole “partì per un paese lontano”, che vanno ad accrescere quanto detto prima sulla sua volontà di dare un taglio netto col passato. In un “paese lontano” nessuno ti conosce, quindi non solo puoi ripartire da zero a costruire la tua vita, ma puoi fare nuove amicizie, intessere nuovi rapporti anche se – attenzione – ciò che animava quella persona non era tanto costruire quanto vivere sperperando averi che erano suoi solo in apparenza. Avere un’eredità (terrena) infatti consiste nel venire in possesso di beni che altri ci hanno lasciato e per cui non abbiamo faticato.

Spiritualmente, il “partire per un paese lontano” e vivere seguendo i propri impulsi significa fare lo stesso ragionamento espresso in Giobbe 21.14: “…dicevano a Dio: «Allontànati da noi, non vogliamo conoscere le tue vie»”. Si può ricordare ancora Salmo 10.4.6 che anticipa quanto accadrà al personaggio della nostra parabola: “Nel suo orgoglio il malvagio disprezza il Signore: «Dio non ne chiede conto, non esiste!»; questo è tutto il suo pensiero. (…) Egli pensa: «Non sarò mai scosso, vivrò sempre senza sventure»”.

Sono versi scritti più di 2.500 anni da noi, eppure assolutamente attuali. Abbiamo letto “questo è tutto il suo pensiero” e si commenta da solo, è il riassunto non solo di tutte le idee e i ragionamenti della persona, ma anche della sua vita; qualunque cosa faccia, il distillato finale è quello, si riassume nella negazione dell’esistenza di Dio. E siccome chi pensa così è terribilmente superficiale, ecco che guarda il presente come se fosse eterno: nulla potrà turbare l’ “equilibrio” costruito e le preoccupazioni, gli imprevisti, le malattie riguarderanno sempre gli altri.

Asaf, il cui nome significa “Colui che raccoglie”, levita e cantore al tabernacolo, guardando l’apparente prosperare di chi vive lontano da Dio, ha scritto: “Io per poco non inciampavo, quasi vacillavano i miei passi, perché ho invidiato i prepotenti, vedendo il successo dei malvagi. Fino alla morte infatti non hanno sofferenze e ben pasciuto è il loro ventre. Non si trovano mai nell’affanno dei mortali e non sono colpiti come gli altri uomini. Dell’orgoglio si fanno una collana e indossano come abito la violenza – fisica o morale non importa –. (…) dicono: «Dio, come può saperlo? L’Altissimo, come può conoscerlo?»” (Salmo 78.2-7).

Se Asaf guarda alla vita nel presente di colui che vive lontano da YHWH (esattamente come il figlio prodigo) anche se la sua esistenza si conduce senza problemi apparenti fino alla morte, Geremia va alla radice riportando le parole di Dio e cioè che chi corre dietro al nulla diventa lui stesso un nulla (2.5), quindi pula di grano che verrà gettata nella fornace.

Così poi l’apostolo Paolo, in Tito 3.3, riassume l’esistenza del cristiano prima dell’incontro con il Cristo: “Anche noi un tempo eravamo insensati, disobbedienti, corrotti, schiavi di ogni sorta di passioni e di piaceri, vivendo nella malvagità e nell’invidia, odiosi e odiandoci a vicenda” perché, per prosperare, l’uomo inevitabilmente danneggia il proprio simile. Il raggiungimento del benessere non potrà mai soddisfare chi non è in grado di saziarsi, di “dire basta” come i tre elementi, “anzi quattro” di Proverbi 30.

 

Proseguendo nella lettura, vediamo quale fu lo stile di vita adottato dal protagonista della parabola: visse in modo dissoluto, cioè permettendosi tutto ciò che potesse soddisfare la sua carne, quindi penso al gioco, a pranzi e cene dove ingozzarsi, al sesso disordinato, tutte cose che portano in breve tempo all’esaurirsi di un patrimonio soprattutto se si tratta di una riserva che non viene mai alimentata da entrate, come in questo caso. È ancora il libro dei Proverbi ad ammonire contro uno stile di vita disordinato, in particolare dalla frequentare la “donna straniera” simbolo di corruzione perché i suoi costumi, lontani da quelli di un israelita che ha ricevuto un tipo di educazione diversa, traviano quasi senza accorgersene (e Salomone lo imparò a sue spese): “Tieni lontano da lei il tuo cammino e non avvicinarti alla porta della sua casa, per non mettere in balìa degli stranieri il tuo onore e i tuoi anni alla mercé del crudele, perché non si sazino dei tuoi beni i forestieri, e le tue fatiche non finiscano in casa di uno sconosciuto e tu non debba gemere alla fine, quando deperiranno il tuo corpo e la tua carne”. (5.11)

La caduta del figlio prodigo. Come descritta, completa il triste quadro fatto poc’anzi: l’onore di quell’uomo era stato ormai ampiamente compromesso perché si era ritrovato con un nulla in mano, i suoi beni li aveva ceduti ad altri e cominciava a deperire per cui andò da una persona che conosceva, suo compagno di bagordi e ricco, che non trovò nulla di meglio che mandarlo nei suoi campi a pascolare dei maiali. Ciò, per un ebreo, è quanto di meglio si può usare per esprimere la degradazione umana, senza contare che un appartenente ad un facoltoso e onorato casato israelita si ritrovava ad allevare maiali, in più alle dipendenze di un incirconciso, di un pagano.

Può essere spesa anche qualche parola sull’ignoto conoscente del figlio prodigo: per nulla memore dell’ “amicizia” trascorsa, lo umilia dandogli un impiego che non gli consentiva neppure di mangiare decentemente, del tipo “Va’ e cura i miei maiali” senza dargli uno stipendio se pur misero.

E tutti quelli coi quali aveva fatto feste, che avevano preso il suo denaro? Svaniti. Tutto si riassume in Proverbi 28.19 “Chi va dietro agli uomini da nulla sarà saziato di povertà”, certo sia materiale che spirituale. Si rivela allora in tutta la sua concretezza l’impossibilità di rispondere con argomenti convincenti davanti a Dio per riparare ai nostri sbagli, come in Giobbe 9.4: “come può un uomo aver ragione dinnanzi a Dio? Se uno volesse disputare con lui, non sarebbe in grado di rispondere una volta su mille. Egli è saggio di mente, potente di forza: chi si è opposto a lui ed è rimasto salvo?”.

La frase “Avrebbe voluto saziarsi delle carrube di cui si nutrivano i porci, ma nessuno gli dava nulla” rivela tutto il disinteresse dell’uomo che, costretto dalla sua limitata visione a pensare solo a se stesso, non si cura dei suoi simili.

Il passo “Chi coltiva la sua terra si sazia di pane, chi insegue chimere si sazia di miseria” (Proverbi 28.19 credo sia utile per introdurre i pensieri che a un certo punto iniziano a sorgere nel cuore del protagonista della parabola: prima leggiamo che “ritornò in sé”, fatto non così comune quanto possa sembrare, perché alcuni persistono nel proprio stato di errore indipendentemente dalle sofferenze che provano. Questa persona, però, guarda alla sua condizione con obiettività e ripensa al proprio passato ricordando non tanto se stesso, ma i dipendenti del padre che avevano “pane in abbondanza, mentre qui io muoio di fame!” (v.17). Poteva ricordarsi dei privilegi che il padre gli concedeva, ma non lo fa; piuttosto collega la differenza che intercorreva fra la sua posizione di lavorante coi maiali e quella degli altri, i dipendenti di suo padre, che vivevano nella dimora che aveva lasciato. A proposito del “ritornò in sé” c’è chi ha ipotizzato che il “pianto e stridore di denti” delle anime perdute sarà causato proprio dal fatto che “torneranno in loro” quando il tempo dato per pentirsi sarà scaduto una volta per sempre. E certo non è un pensiero sbagliato.

Si tratta di un percorso che ci anticipa il profeta Geremia in due passi che illustrano molto bene come avviene il pentimento in un certo senso “costrittivo”: “La tua stessa malvagità ti castiga e le tue ribellioni ti puniscono. Renditi conto e prova quanto è triste e amaro abbandonare il Signore, tuo Dio, e non avere più timore di me” (2.19), questo perché Dio aspetta sempre il pentimento di chi lo ha abbandonato, o del peccatore. Infatti: “Mi hai castigato e ho subìto il castigo come un torello non domato. Fammi tornare e io ritornerò, perché tu sei il Signore, mio Dio. Dopo il mio smarrimento, mi sono pentito; quando me lo hai fatto capire, mi sono battuto il petto, mi sono vergognato e ne provo confusione, perché porto l’infamia della mia giovinezza” (31.18,19).

Dalla lettura dei pensieri di quest’uomo possiamo rilevare qualcosa di singolare che denota il suo pentimento, cioè che non desidera tornare a casa per rioccupare il posto di prima, convinto di averlo perduto, ma di avere un posto da dipendente: “Padre, ho peccato davanti al Cielo – quindi davanti a Dio – e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio, trattami come uno dei tuoi salariati”. Da queste parole vediamo che non tanto andandosene da casa sua, ma vivendo come ha vissuto aveva “peccato davanti al cielo”, cioè dimenticato deliberatamente gli insegnamenti che gli erano stati impartiti, compresi i versi che abbiamo citato, visto che sono sempre stati fatti rimandi agli scritti dell’Antico Patto.

L’ultimo verso, “Si alzò e tornò da suo padre”, rende già operativo il pentimento: si alza, come aveva fatto prima dell’abbandonare la casa paterna, ma con tutt’altro intento. Si alza e parte: non aveva nulla da prendere con sé, solo i vestiti che aveva, sporchi, logori, ben diversi da quelli che aveva fino a qualche tempo prima, quanto non sappiamo perché ciò che importa non è il tempo che passa, ma le decisioni che si prendono. Sono questi vestiti che saranno l’emblema, il marchio temporaneo del suo fallimento, oltre a costituire testimonianza di un’esistenza condotta in modo sbagliato.

Infine, possiamo anche osservare che, nella sua decisione di tornare, quest’uomo manca completamente il timore di venire respinto: credo che l’importante per lui fosse tornare, dire al padre ciò che aveva da dire e poi rimettersi alle sue decisioni. Questo è importante perché ci mette in grado di capire che, quando si vuole avere riscatto da un errore commesso, c’è un solo percorso da seguire e cioè confessare il peccato senza giustificazioni o enfatizzazioni di sorta: “Ho peccato contro il cielo e contro di te” sono parole che riassumono un’esistenza sbagliata spesa in non sappiamo quanto tempo, ma certamente non poco.

Per questa persona il pentimento fu generato dal constatare la degradazione obiettivamente raggiunta e i suoi effetti, e la stessa cosa può avvenire anche per noi perché sono convinto che la parabola del figlio prodigo riguardi tutti, credenti compresi, soggetti a sbagliare e a rivendicazioni di autonomia soprattutto nel tempo della loro giovinezza in fede quando, per ignoranza, presunzione o mancata assimilazione per esperienza dei principi che vengono a conoscere, a un certo punto decidono di partire, convinti di poter sussistere. Sappiamo però che Gesù già disse ai suoi “Senza di me non potete far nulla”. Amen.

* * * * *

 

 

14.11 – TRE PARABOLE: LA MONETA PERDUTA (Luca 15.8-10)

14.11 – Tre parabole – 2, la moneta perduta (Luca 15.8-10)

 

8Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? 9E, dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: «Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto». 10Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte.

 

“La moneta”. Purtroppo nelle traduzioni cosiddette moderne il lettore si trova da un lato agevolato a capire nell’immediato di cosa si tratti, ma penalizzato in tutto quello che è il contorno che consente di capire meglio il messaggio, o contesto che sia. Il greco infatti non ci parla di “dieci monete”, il cui valore è quanto mai indefinito, ma di “dramme”.

La dramma, o dracma, costituiva l’unità monetaria principale presso i popoli ellenici dell’antichità, aveva multipli e sottomultipli oltre a poter essere “pesante” o “leggera” e quindi avere un valore diverso. La moneta che ci interessa è quella d’argento, che era assimilata al “denaro” che costituiva la paga ordinaria giornaliera di un operaio. Da qui possiamo dedurre che le “dieci dramme” costituissero i risparmi della protagonista della parabola.

Da notare poi il personaggio, una donna, che nella precedente era un uomo (il pastore) e nella prossima sarà addirittura un padre, a sottolineare l’universalità del problema quando qualcosa che si ha di caro si perde, sia esso animale, cosa o persona. E Gesù offrì tre esempi proprio perché desiderava che i suoi uditori, a seconda della loro personalità, se non tutti, ne comprendessero almeno uno per fare poi le considerazioni del caso e, ricordandosi degli altri due, giungere ad una piena comprensione del messaggio. Da qui possiamo considerare che il Vangelo, e per riflesso tutta la Scrittura, sono semplici quando devono comunicare ciò che serve all’uomo come primo elemento per giungere alla verità dell’amore di Dio per la propria salvezza: non serve cultura, conoscenza del greco o dell’ebraico, ma un cuore onesto che cerchi perché altrimenti quel “cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto” non costituirebbe una verità.

La donna ha “dieci dramme”, anche qui da vedere come numero che esprime la quantità ideale turbata appunto dalla mancanza di quell’ “uno” che rende il “nove”, come il “novantanove” precedente, simbolo dell’incompletezza.

Quelle “dieci dramme” erano il punto di arrivo, il risultato di un risparmio, qualcosa che stava ad indicare una tranquillità raggiunta per poter sopperire a un momento di bisogno che prima o poi sarebbe eventualmente (o certamente) arrivato. Qui sta la chiave di lettura della parabola perché Gesù non avrebbe certo potuto prendere a modello una persona avara, che sì avrebbe cercato la dramma come quella donna, ma unicamente per puro amore di possesso perché quell’ “uno” in meno avrebbe rappresentato qualcosa di intollerabile a fronte di un progetto di arricchimento, cosa che qui non è: la scoperta di un elemento mancante nel gruppo dei dieci e il conseguente accendere la lampada (perché le case dell’epoca erano buie), spazzare la casa e cercare la dramma “accuratamente finché non la trova”, sono tutte azioni che denotano l’importanza che viene dato alla moneta a livello di principio, avendo un valore che, assieme alle altre nove, non è trascurabile.

Ecco allora che Gesù, con la parabola della pecora smarrita, spiega l’amore del pastore per il suo animale e con quella della dramma rivela quanto è prezioso per lui il peccatore. Proviamo a pensare un attimo: entrambe, pecora e dramma, sono ricerche non facili. Il pastore deve rinunciare a starsene in casa, vicino all’ovile, a riposare meritatamente dopo una giornata (o mezza) di lavoro. Per trovare la pecora perduta deve fare della strada, presumibilmente molta, sotto il sole, sa che sarà inutile pensare a una logica nel percorso che può aver fatto il suo animale e per questo deve andare dappertutto, percorrere siepi, fossi, radure, fermarsi ad ascoltare se per caso giunge al suo orecchio qualche belato.

Per la dramma, poi, non so se ci siamo mai trovati nella condizione di cercare qualcosa di piccolo come una moneta, che sappiamo esserci caduta in casa: una moneta, se cade di costa, rotola e può andare a infrattarsi in mille posti. Il principio che quella è preziosa, frutto di un sacrificarsi perché una cosa è il risparmiare e tutt’altra l’accumulare, spinge quella persona a tutta una serie di accorgimenti per il recupero di quell’elemento che si è perso.

Anche qui, come nel caso del pastore, vi è poi il rallegrarsi coi suoi simili a ritrovamento avvenuto: “ho trovato la moneta che avevo perduto”, parole importanti perché quel “che avevo perduto” pone l’accento sull’affanno e la preoccupazione che aveva destato in lei quella perdita. Ha scritto un fratello: “Siccome non è la compassione, ma l’interesse che anima questa donna nella sua ricerca, così l’amore di Dio viene rivelato in una forma tutta nuova. Il peccatore non è più ai Suoi occhi un essere sofferente come la pecora, ma è una creatura preziosa, perché fatta a sua immagine, una sua proprietà la cui perdita provoca un vuoto nel suo tesoro”. Da qui vediamo che anche il peccatore porta dentro di sé come contrassegno il fatto di essere a immagine di Dio, salvo che non sia posseduto da un angelo dell’Avversario, per cui il non credere o peggio porsi in opposizione a lui costituisce un oltraggio che, se non interviene il ravvedimento, comporterà l’essere “gettato di fuori” come i personaggi di parabole che abbiamo incontrato e incontreremo.

Cosa significa allora il ritrovamento della dramma? Il ripristino dell’equilibrio, il ritrovamento di un altro mattone per la costruzione dell’edificio spirituale di Dio, un altro elemento che si aggiungerà ai tanti salvati che costituiranno la Sua Sposa che lo attende.

Possiamo poi osservare le due parabole sotto un altro aspetto: la pecora si perde, per quanto sia priva di orientamento, per sua volontà perché decide si andare da sola, la dramma perché è pesante ed inerte e c’è chi ha giustamente sostenuto che “negli uomini caduti il peccato è al tempo stesso attivo e progressivo. In altri termini i peccatori scelgono il proprio corso e vanno errando per loro decisione – ecco la pecora –, ma gravitano verso il male in virtù di una corruzione innata che agisce come legge nelle loro membra”. E qui abbiamo la dramma, che col suo peso non può che cadere a terra a seguito di un trasporto o di uno spostamento anche breve.

Questo comprende tutti gli uomini e ci porta alle parole dell’apostolo Paolo che, meditando sulla sua natura umana e sull’incapacità della Legge a salvare, paragonando le due dispensazioni, Grazia e Legge, scrive: “Sappiamo che la Legge è spirituale – perché proveniente da Dio –, mentre io sono carnale, venduto come schiavo del peccato – come conseguenza della trasgressione di Adamo –. Non riesco a capire ciò che faccio: infatti io faccio non quello che voglio, ma quello che detesto. (…) Dunque io trovo in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti nel mio intimo acconsento alla Legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che combatte contro quella della mia ragione e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra” (Romani 7.14-23).

Ecco spiegato, credo nel modo migliore, gli effetti del peso della dramma, già comunque constatabile nel fatto che si sia perduta.

Se vi fosse stata immobilità, né la pecora né la moneta si sarebbero perse. Non solo, ma la stessa cosa si può dire qualora, nelle nuove dinamiche di Dio con la creazione, Eva non avesse a un certo punto scelto di infrangere il comandamento ricevuto e Adamo non le avesse dato ascolto facendo la stessa cosa. La leggerezza è di Dio, ma il peso è dell’Avversario e con lui si cade, ci si perde, si rimane umiliati sempre. Si rimane col freddo nell’anima perché il sole proposto da Satana è apparente, illusorio, non scalda; si vede l’immediato e non si va oltre, l’archivio delle rivendicazioni si espande, il rancore causato dalla differenza fra ciò che si desidererebbe e ciò che si ha ci fa implodere, l’attaccamento all’idea di ciò che vorremmo essere o avere, che si scontra con la realtà di ciò che siamo o abbiamo, genera un disagio e una paura patologica. Chi non ha soffre perché è mancante, chi ha soffre ugualmente perché teme di perdere. E qui ricordo la frase “Al malvagio sopraggiunge il male che teme” (Proverbi 10.24).

Allo stesso modo, così come la leggerezza appartiene a Dio e il peso a Satana, l’appartenenza e la separazione sono sempre competenza dell’Uno e dell’Altro.

Ma degno di ringraziamento in preghiera è il verso 24, sempre di Romani 7: “Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte? Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore!”. Al capitolo successivo poi: “Ora, dunque, non c’è nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù. Perché la legge dello Spirito, che dà vita in Cristo Gesù, ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte”.

Ecco allora cosa contempla il ritrovamento della pecora e della dramma: la creazione di un nuovo equilibrio. Princìpi e parole che prima sembravano vuoti/e prendono forma, si inizia a leggere correttamente la vita e le sue prospettive, si ha un porto cui approdare, un riparo certo, l’unico possibile proprio perché trovati da Dio.

E allora arriviamo all’esempio della chioccia che tiene i suoi pulcini sotto le ali, comprendiamo Salmo 40.3 “…mi ha tratto da un pozzo di acque tumultuose, dal fango della palude; ha stabilito i miei piedi sulla roccia, ha reso sicuri i miei passi”. Che in questa vita ci siano degli incerti o persone assolutamente convinte delle loro scelte, in realtà, senza la mano di Dio su di loro, cammineranno sempre nell’errore, in quello che presto o tardi presenta il conto che non potrà che approdare al “pianto e stridore di denti” perché “Il Signore rende sicuri i passi dell’uomo: come può l’essere umano conoscere la sua strada?” (Proverbi 20.24). Ecco perché si perde, ecco il perché della direzione sbagliata e del peso.

Al contrario è l’esperienza di chi è stato ritrovato che troviamo in Salmo 139 1-12: “Signore, tu mi scruti e mi conosci, tu conosci quando mi siedo e quando mi alzo, intendi da lontano i miei pensieri, osservi il mio cammino e il mio riposo, ti sono note tutte le mie vie. La mia parola non è ancora sulla lingua ed ecco, Signore, già la conosci tutta. Alle spalle e di fronte mi circondi e poni su di me la tua mano. Meravigliosa per me la tua conoscenza, troppo alta, per me inaccessibile. Dove andare lontano dal tuo spirito? Dove fuggire dalla tua presenza? Se salgo in cielo, là tu sei; se scendo negli inferi, eccoti. Se prendo le ali dell’aurora per abitare all’estremità del mare, anche là mi guida la tua mano e mi afferra la tua destra. Se dico: «Almeno le tenebre mi accolgano e la luce intorno a me sia notte»m nemmeno le tenebre sono per te tenebre e la notte è luminosa come il giorno; per te le tenebre sono come luce”. Amen.

* * * * *

 

 

14.10 – TRE PARABOLE: LA PECORA SMARRITA (Luca 15.3-7)

14.10 – Tre parabole – 1, la pecora smarrita (Luca 15.3-7)

3Ed egli disse loro questa parabola:4«Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? 5Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, 6va a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: «Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta». 7Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.

Può sembrare anomalo trovare un nuovo commento su una parabola già ampiamente affrontata, così come trattare ancora della pecora, animale sviluppato molte volte in questi incontri e citato da Gesù molto spesso. In realtà queste riflessioni daranno per scontato quanto trattato in precedenza andando a sviluppare particolari non affrontati a suo tempo.

Senz’altro è da sottolineare il “disse loro”, ai “pubblicani e peccatori” che “si accostarono a lui per ascoltarlo”, ma anche agli scribi e farisei che stavano comunque in disparte. Altro elemento da notare è che in questa occasione Nostro Signore non espone una parabola, ma tre, tutte in relazione fra loro e sulle quali saremo chiamati a “tirare le somme” alla fine.

C’è poi necessariamente un compito da adempiere, che è quello di considerare le parole della parabola, apparentemente analoga, riportata da Matteo 18.12-14: “Che cosa vi pare? Se un uomo ha cento pecore e una di loro si smarrisce, non lascerà le novantanove sui monti e andrà a cercare quella che si era smarrita? In verità vi dico: se riesce a trovarla, si rallegrerà per quella più che per le novantanove che non si erano smarrite. Così è volontà del Padre vostro che è nei cieli, che neanche uno di questi piccoli si perda”.

In realtà i due evangelisti riportano la stessa parabola con parole diverse perché differenti furono le circostanze in cui fu esposta: secondo Matteo Gesù desidera porre l’accento su quanto siano preziosi i credenti agli occhi di Dio (“è volontà del Padre vostro che è nei cieli, che neanche uno di questi piccoli si perda”), mentre Luca parla più della perseveranza, fatica e successo del Pastore che ci dà un dettaglio visto nella “allegrezza nel cielo per un solo peccatore che si converte”.

In Matteo Gesù parla ai discepoli, liberi di chiedergli spiegazioni e ulteriori dettagli, in Luca il messaggio è rivolto a una categoria di persone diversa che doveva capire immediatamente il messaggio perché si erano avvicinati a lui “per ascoltarlo”, quindi avevano urgente bisogno di sapere cosa rappresentavano loro per Lui e per il Padre piuttosto che venire ammaestrati attorno alla Legge come, ad esempio, avvenne nel sermone sul monte quando si trattava di presentare, a persone inserite a pieno titolo nella Congregazione di Israele e quindi frequentanti la Sinagoga e i suoi maestri, la Legge e i Profeti.

Qui, il messaggio di Nostro Signore si fa diretto, specifico sulla condizione sociale del suo uditorio, cioè i “perduti”, gli “smarriti”, i “figli bisognosi di un padre misericordioso” più che di un giudice, per quanto giusto. Le parabole sono tre perché dare altri esempi non sarebbe stato possibile in quanto tre è il numero della perfezione di Dio; fossero state quattro, l’accento si sarebbe posto sull’uomo che, nei confronti dell’Eterno, può essere soltanto debitore. Poi, qualora fossero ancora presenti, gli scribi e i farisei avrebbero potuto avere degli elementi in più per capire la loro posizione, fuori tanto dal concetto delle pecore perdute quanto dal numero dei veri “giusti” anche alla luce dei dettagli nascosti nelle parabole, ma che loro avrebbero potuto individuare.

Come già annotato in un precedente capitolo, i numeri 100 e 99 sono figura rispettivamente della completezza e dell’incompletezza, di ciò che si ha e di ciò che viene tolto, della menomazione. La pecora che si perde, una, è un simbolo, cifra che allude al singolo come ce ne sono tanti, ad esempio come l’autore del Salmo 119 che nell’ultimo verso scrive “Mi sono perso come pecora smarrita; cerca il tuo servo: non ho dimenticato i tuoi comandi”, dal quale rileviamo che l’uomo, quando e se si perde, da solo non ha alcuna speranza di ritornare alla via che ha lasciato; ogni suo sforzo in proposito è inutile e solo con l’esaudimento della preghiera, “cerca il tuo servo”, l’ovile può essere ritrovato. “Non ho dimenticato i tuoi comandi”, poi, ha connessione con lo stato di appartenenza a Dio che non può mai essere tolto. Il salmista confessa di essersi “perso come pecora smarrita” per cui ammette tutta la propria fragilità, uno sbaglio di cui non si è forse neppure reso conto, una distrazione che lo ha condotto lontano e per questo comprende tutta la necessità del belare forte per poter essere ritrovato.

Poi, possiamo ricordare Isaia 53 che descrive perché Gesù sia il Pastore per eccellenza: “Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti”: qui le pecore, certamente più di una, ma comunque “una” perché il gregge è composto da individui ciascuno diverso dall’altro, non sono state in grado di seguire il pastore. La Legge, i suoi maestri, le guide del popolo, avevano fallito e la conseguenza era stata la dispersione degli animali. Era un gregge potenziale, ma ciascun elemento vagava seguendo il proprio istinto che certo non contemplava le capacità di orientamento. La frase “ognuno di noi seguiva la sua strada” allude proprio alla pluralità degli interessi, delle idee, degli intendimenti di ciascuno che, senza la fedeltà alla Parola di Dio, portano alla progressiva lontananza da Lui.

E infatti nel nostro testo quando abbiamo letto “non va in cerca di quella perduta, finché non la trova” altro non abbiamo che la descrizione del ruolo di Gesù che disse in Luca 19.10 “il Figlio dell’uomo è venuto a cercare e salvare ciò che era perduto”. Facciamo caso a come di definisce, “Figlio dell’uomo”, cioè non dice “Io sono venuto (etc.)”, ma Gli preme presentarsi come uno di noi, per quanto diverso perché altrimenti avrebbe potuto magari trovare, ma non certo salvare. E questi due verbi sono fondamentali, totali, mostrano la Sua potenza perché, se in Matteo abbiamo letto che “è volontà del Padre vostro che è nei cieli, che neanche uno di questi piccoli si perda”, sappiamo che, una volta trovati, è impossibile che possiamo cadere vittime di chiunque e quindi morire: “Le mie pecore ascoltano la mia voce; io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno mai perdute e nessuno le rapirà dalla mia mano. Il Padre mio che me le ha date è più grande di tutti e nessuno può rapirla dalla mano del Padre mio. Io e il Padre siamo una cosa sola” (Giovanni 10.27-30).

Ricordiamo anche le parole della preghiera di Gesù al Padre in Giovanni 17 a proposito dei discepoli, “Io ho curato coloro che tu mi hai dato e nessuno di loro è perito, se non il figlio della perdizione” (v.12), cioè Giuda Iscariotha.

Tornando al testo, abbiamo “va in cerca di quella perduta, finché non la trova”, cioè si ferma solo una volta raggiunto l’obiettivo e poi la gioia del ritrovamento non gli fa sentire la fatica. E trovare la pecora perduta è figura della sua salvezza perché “Quando però si sono manifestati la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini, egli ci ha salvati non in virtù di opere di giustizia da noi compiute, ma per la sua misericordia mediante un lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo, effusa da lui su di ni abbondantemente per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro, perché giustificati dalla sua grazia diventassimo eredi, secondo la speranza della vita eterna” (Tito 3. 4-7).

Il ritorno all’ovile del pastore è descritto con le parole “pieno di gioia”, dalle quali traspaiono l’amore per quella creatura perduta che, una volta tornata all’ovile, avrebbe ripristinato il numero 100, la pienezza. E qui viene anticipato il tema della “gioia nel cielo” comunque già rivelato in Ezechiele 18.21-23: “Ma se il malvagio si ritrae da tutti i peccati che ha commesso e osserva tutti i miei decreti e agisce con giustizia e rettitudine, egli vivrà, non morirà. Nessuna delle colpe commesse sarà ricordata, ma vivrà per la giustizia che ha praticata. Forse che io ho piacere della morte del malvagio – dice il Signore Dio – o non piuttosto che desista dalla sua condotta e viva?”.

Iddio, tramite Ezechiele, chiama al ravvedimento lasciando all’uomo l’intera responsabilità di questa operazione, certo difficile, quasi spropositata in quanto alle forze che richiede una simile condotta; nel Nuovo Patto, però, se tutto ciò avviene comunque con sforzo, è lo Spirito a guidare nel cammino ed è il Figlio di Dio che si carica la pecora sulle spalle e la riporta all’ovile nel senso che la libera dalla morte certa nel deserto, ma dovrà comunque continuare la propria vita nel gregge, protetta dalle attenzioni del Pastore che ha dato se stesso per lei.

Ancora, nel caricare la pecora sulle spalle vediamo il prendere su di sé il peccatore con tutta la sua storia e non solo: nella Scrittura avere qualcosa sulle spalle è sinonimo di responsabilità (Isaia 9.5, “Sulle sue spalle è il potere”), e questo ci porta a 53.4-6, “Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti. Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti”. Da notare in questo ultimo verso “Noi tutti”  e “ognuno” che pongono l’accento sul fatto che il gregge è una collettività di individui: è importante tanto l’insieme quanto il singolo.

Dettaglio assente in Matteo è il fatto che il pastore “va a casa, chiama i vicini” e li invita a rallegrarsi con lui “perché ho trovato la mia pecora, che era perduta”: il pastore si rallegra assieme ai suoi simili e questo ci spiega la “gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte”. Alla gioia partecipano tutti gli esseri spirituali perché il “regno dei cieli” è l’insieme di tutte quelle entità che hanno partecipato e gioito non alla creazione, ma a tutte le fasi successive che hanno caratterizzato le dispensazioni. E penso agli Angeli, ai Cherubini, ai Serafini, alle schiere celesti e a tutte le anime dei salvati che troviamo descritte nel libro dell’Apocalisse. Infatti al verso 10 di questo stesso capitolo leggiamo “Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte”. Quindi anche noi, quando ci siamo convertiti, abbiamo provocato gioia in cielo. E il perché di questa gioia è descritta non solo nella pecora, ma anche nella moneta perduta e nella figura detta del “figlio prodigo”. Quindi anche noi, proprio per la gioia portata, abbiamo la responsabilità di mantenerla tale con una condotta pura per quanto soggetti a cadere.

Va bene, ma i “novantanove giusti” chi sono? Per rispondere occorre chiedersi chi può essere definito come tale. Si potrebbe ipotizzare che i “giusti” siano tutti coloro che sono stati salvati, perché “giustificati per fede” secondo Romani 5.1 e questo non sarebbe sbagliato anche se resta comunque aperto il problema dei peccati che commettiamo ogni giorno. In realtà, i novantanove in questo caso sono i farisei non nel senso che siano giusti, ma che tali si ritenessero e per questo erano convinti di essere per il loro Dio motivo di compiacimento e gioia. Ricordiamo qual era l’atteggiamento farisaico nella loro preghiera in Luca 18.11,12: “Il fariseo, stando in piedi, pregava così fra sé: «O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”.

Quindi, con questa frase che conclude la parabola, Gesù pone scribi e farisei in secondo piano e pone l’accento sui peccatori che, ascoltandolo, avevano molte più probabilità di loro di risolvere una volta per tutte il problema della loro destinazione finale spirituale. “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati” fu un’altra frase rivolta a loro proprio al convito di Levi Matteo (9.9-13): attenzione a considerarsi dei giusti sempre e comunque, perché così non può essere; tutt’al più, può essere al massimo un’illusione perché “chi crede di stare in piedi, badi di non cadere” (1 Corinti 10.12).

Concludendo, abbiamo cercato di sviluppare la prima parabola. Pecora, moneta (o Dramma) e il figlio prodigo sono tutte figure di chi si è perduto: la pecora dall’ovile, la moneta da un contenitore, il figlio dalla casa del Padre, tre elementi diversi tra loro, ma tutti oggetto di attenzione da parte di Dio. E sulle cure che ha delle pecore, possiamo leggere Ezechiele 34.16: “Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e le farò riposare. Oracolo del Signore. Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile la smarrita, fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia”. Amen.

* * * * *

 

 

14.09 – I PUBBLICANI E I PECCATORI ASCOLTANO GESÙ (Luca 15.1,2)

14.09 – I pubblicani e i peccatori ascoltano Gesù (Luca 15.1,2)

 

 

1Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. 2I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro».

 

Il capitolo 15 di Luca è dedicato al tema del recupero del peccatore attraverso tre parabole: la pecora smarrita, la moneta perduta e il figlio prodigo, ciascuna delle quali si occupa di un aspetto dell’opera di Gesù e di come viene considerato l’uomo da Lui e dal Padre. L’antefatto è simile a quello narrato da Matteo in 9.10-13 che ricordiamo: “Mentre sedeva a tavola nella casa – quella di Matteo che aveva dato un convito per dare l’addio alla sua professione – sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e se ne stavano a tavola con Gesù e con i suoi discepoli. Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: «Come mai il vostro maestro mangia assieme ai pubblicani e peccatori?». Udito questo, disse: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate a imparare che cosa vuol dire: «Misericordia io voglio e non sacrifici». Io non sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori»”.

Lo scenario offertoci da Luca è simile a quello di Matteo anche se, nel suo caso, i “pubblicani e i peccatori” si raccolgono per un profondo interesse sugli insegnamenti di Gesù. Per inquadrare correttamente la scena va specificato che quel “tutti” del verso 1 non vuole comprendere la totalità dei pubblicani e peccatori presenti in città (non ci viene detto quale), ma quelli tra la folla: saputo della Sua presenza, chi di loro era in zona accorse per ascoltarlo e “si avvicinavano a lui”, provocando per reazione il ritrarsi dei farisei e degli scribi che, scandalizzati, Lo accusarono di accogliere i peccatori e mangiare con loro. Sappiamo che era l’esatto contrario che quelle persone facevano nei confronti del loro prossimo, che disprezzavano e dal quale si tenevano accuratamente separati.

Ora, prima di esaminare le tre parabole, credo sia giusto soffermarsi sull’azione dell’ascoltare, verbo che oggi ha perso molto del suo significato originale. In un mondo in cui ciò che è importante è apparire, andare veloci, intuire anziché elaborare, avere una vaga idea di qualcosa (ed è anche troppo), riempire il proprio tempo non importa con cosa ma basta che sia, riesce difficile pensare che l’ascolto coinvolga tutta la persona perché si tratta di un’arte che richiede sforzo. Il vero ascolto si basa attraverso l’analisi, il voler ricordare, è prendere appunti utilizzando la mente come quaderno, è elaborare, mettere da parte alcuni dati per analizzarli immediatamente o dopo a seconda della loro complessità.

Il verso 1 del nostro passo parla dei “pubblicani e peccatori” che “si avvicinarono a lui per ascoltarlo”, non per parlargli, evidentemente ritenendo quanto avevano da dirgli qualcosa di secondario rispetto agli insegnamenti che avrebbero potuto ricevere. Erano lì, consapevoli dell’importanza del personaggio che avevano davanti, che non mandava via nessuno realizzandosi nell’essere servo. Non abbiamo problemi a identificare i pubblicani, riscossori di tasse e tributi per il governo di Roma, ma i “peccatori”? Era un termine che si riferiva a persone che non avevano buona fama, individui che notoriamente trasgredivano la Legge morale o cerimoniale per cui, agli occhi dei farisei e loro accoliti, erano considerati al livello più basso della popolazione che già mal sopportavano. Ebbene queste persone, consapevoli del loro stato, evitate dagli altri, vengono e ascoltano.

L’ascolto è un’azione, una scelta consigliata nei confronti di Dio che porta conseguenze precise: “Sì, lo smarrimento degli inesperti li ucciderà e la spensieratezza degli sciocchi li farà perire; ma chi ascolta me vivrà in pace e sarà sicuro senza temere alcun male” (Proverbi 1.32,33); “Beato l’uomo che mi ascolta, vegliando ogni giorno alle mie porte – per tendere l’orecchio qualora giunga un ordine –, per custodire gli stipiti della mia soglia. Infatti, chi trova me trova la vita e ottiene il favore del Signore; ma chi pecca contro di me fa male a se stesso: quanti mi odiano amano la morte” (8.34). In questo caso, allora, i “pubblicani e i peccatori” compiono il primo passo verso la loro salvezza.

L’ascolto è l’unico mezzo per imparare ed essere in grado di esprimere pensieri appropriati (21.28) “Il falso testimone perirà, ma chi ascolta potrà parlare sempre”), e, se si tratta delle parole di Dio, porta a una conoscenza reciproca che non potrà portare che benefici: “Ho sperato, ho sperato nel Signore, ed egli su di me si è chinato, ha dato ascolto al mio grido” (Salmo 40.1). Ancora, Salmo 66.18,19: “Se nel mio cuore avessi cercato il male, il Signore non mi avrebbe ascoltato. Ma Dio ha ascoltato, si è fatto attento alla voce della mia preghiera”. Cercavano quindi una relazione con Gesù quelle persone? Forse rispondere affermativamente è azzardato, ma nei due versi dei Salmi citati è chiaro che l’ascolto della Paola di Dio, certo con l’intenzione di identificarsi in lei e metterla in pratica, porta a quello di Dio nei confronti dell’uomo. Si tratta di una relazione reciproca che si instaura.

L’ascolto è infatti il modo migliore per ottenere, è un aspetto della rinuncia a se stessi: “Bada ai tuoi passi quando ti rechi alla casa di Dio. Avvicìnati per ascoltare piuttosto che offrire sacrifici, come fanno gli stolti, i quali non sanno di fare del male” (Ecclesiaste 4.17) dove “ascoltare” e “offrire sacrifici” sono la descrizione di ciò che abita nel cuore dell’uomo: chi si mette all’ascolto di Dio sa di avere solo da imparare, che dovrà accogliere quanto gli verrà detto; chi offre sacrifici porta del suo, adempie a una regola, può farlo anche svogliatamente, sbadatamente perché si tratta di una formalità da adempiere esattamente come fanno oggi quei cristiani che frequentano la Chiesa soltanto la domenica e vivono tutti gli altri giorni come se Dio non esistesse. Entrano in un luogo e ne escono esattamente come prima, nulla è cambiato in loro; al limite, si ritengono soddisfatti di avere adempiuto a un precetto o a un’usanza.

Torniamo un attimo sul nostro versetto 1: Luca scrive che “Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo”, ma non che, a un certo punto come avvenne con altre persone, si allontanarono da lui scandalizzati, quindi costituiscono un esempio. Non si dice che si convertirono, ma è talmente grande il divario tra il loro comportamento e quello dei farisei da non porli in opposizione a Gesù. Si è parlato dell’ascolto, ma non del suo contrario, l’indifferenza, il proseguire per la propria strada, l’ostinato rifiuto dell’appello al ravvedimento.

Così leggiamo in 2 Re 17.12-14: “…servirono gli idoli dei quali il Signore aveva detto: «Non farete una cosa simile!». Eppure il Signore, per mezzo di tutti i suoi profeti e dei veggenti, aveva ordinato a Israele e a Giuda: «Convertitevi dalle vostre vie malvagie e osservate i miei comandi e i miei decreti secondo tutta la legge che io ho prescritto ai vostri padri e che ho trasmesso a voi per mezzo dei miei servi, i profeti». Ma essi non ascoltarono, anzi resero dura la loro cervice, come quella dei loro padri, i quali non avevano creduto al Signore, loro Dio”.

Ecco, qui abbiamo la descrizione di comportamenti assurdi da parte del popolo: idolatria, percorrere vie diverse da quelle indicate loro, non ascoltare e infine non credere. Potremmo definirli peccati, eppure Geremia 11.19 Iddio dice “Ma è proprio me che offendono, o non piuttosto se stessi, a loro stessa vergogna?”. Al verso 24 “Essi non ascoltarono né prestarono orecchio alla mia parola; anzi, procedettero ostinatamente secondo il loro cuore malvagio e, invece di rivolgersi verso di me, mi hanno voltato le spalle”.

Il non ascolto della parola di Dio quindi porta alla rovina che, nell’immediato per Israele di allora, si caratterizzava con eventi negativi ad alta sofferenza se non mortali, ma per l’uomo d’oggi si concreta nell’esclusione dal Regno.

I farisei, gli scribi, i rettori del popolo, avevano la possibilità di ascoltare il Figlio di Dio, come dalla voce dal cielo “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento” (Matteo 3.17) e non lo fecero tranne alcuni di loro che rimasero nell’ombra, ma al loro posto ecco arrivare davvero gli ultimi, magari non per povertà, ma certo per disprezzo.

Il non ascolto porta infatti a prestare attenzione a particolari irrilevanti per una corretta visione, se non dei dettagli, almeno d’insieme che è quella che poi conta per determinare il dunque della persona: il verso 2, “I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro»”, non contiene alcun riferimento alle parole che Gesù diceva a tutti, farisei e scribi compresi: le tre parabole furono rivolte anche a loro, non solo ai “pubblicani e ai peccatori” che, ascoltando nel vero senso della parola, avranno capito che non esiste errore e peccato tanto grande da non venire perdonato e che il destino del peccatore, qualora lo voglia davvero, non è quello di “bruciare all’inferno”, ma quello di trovare accoglimento e perdóno. Tutta quella gente raccoltasi attorno a Gesù, stava considerando seriamente se non era il caso di cambiare vita, tornare indietro, diventare membri della famiglia di Dio.

Guardando ai verbi del secondo versetto vediamo il primo, “mormorare”, cioè per l’originale greco “ad alta voce, in crocchi, fra loro”. Anche qui si circondano di un muro ideale e fanno corporativismo facendo leva sul loro stile di vita che ritenevano puro per giudicare chi non potevano, rendendosi in tal modo simili a tutti coloro che, facendo leva sulla loro morale ridotta e su principi assolutamente personali, da sempre si sentono autorizzati a giudicare il loro prossimo senza mai preoccuparsi della loro coerenza.

Il secondo verbo è “dire”. Quando una persona “dice” qualcosa è sempre per esprimere il proprio pensiero o ciò che ha acquisito. Qui possiamo andare a Matteo 12.34 quando, parlando proprio a quella categoria di persone, Gesù così si espresse: “Razza di vipere, come potete dire cose buone, voi che siete cattivi? La bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda”.

Gli ultimi due verbi sono “accogliere” e “mangiare”: il primo significa “ricevere presso di sé, ammettere nel proprio gruppo”, quindi non innalzare barriere. Gesù non mandò via i pubblicani dimostrando di non aderire all’orgoglio nazionale e neppure gridò contro “i peccatori” dando per scontato che la loro posizione fosse di impedimento a venire salvati. Quelle due categorie di persone non andavano a lui per curiosità o per vedere qualche miracolo, ma “per ascoltarlo” e questo faceva di loro persone degne di essere accolte. Il “mangiare” poi è qualcosa che non necessariamente si verificò quel giorno, ma può essere una reminiscenza del convito dato da Levi Matteo, quando fu mossa a Gesù un’identica accusa e fu tramandata stante, per gli scribi e farisei, la sua gravità.

Mangiare con qualcuno, infatti, era sinonimo di familiarità, soprattutto condivisione e identificazione. E Gesù si identificò col peccatore, ma non col peccato, cosa che solo Lui poteva fare. Ricordiamo infatti 1 Corinti 5.11: “Vi ho scritto di non mescolarvi con chi si dice fratello ed è immorale o avaro o idolatra o maldicente o ubriacone o ladro: con questi tali non dovete neanche mangiare insieme”.

Concludendo, penso a quei pubblicani e peccatori che, accostandosi a Lui per ascoltarlo, fecero il primo, importante passo per il loro destino spirituale; il loro sarebbe stato un ascolto che avrebbe portato a una scelta che difficilmente non si sarebbe verificata, quella dell’accoglienza Sua secondo Giovanni 1.12, “A quanti lo hanno accolto, ha dato il potere di diventare figli di Dio”. Amen.

* * * * *

 

 

14.08 – IL RITORNO DI ISRAELE IV/IV (Zaccaria 14)

14.08 – Il ritorno di Israele IV/IV (Zaccaria 14)

 

 

Giunti al termine di questo nostro breve percorso profetico che ci ha proiettato in un futuro visto sotto l’ottica del ritorno di Israele a Cristo, è doveroso ricordare che si tratta di avvenimenti che sono stati riportati sia per consolazione di quel popolo, ma soprattutto per essere da lui riconosciuti: il “Giorno del Signore” avrà un inizio e una fine e si snoderà attraverso modalità riconoscibili proprio dal fatto che quanto avverrà sarà già stato descritto dai profeti e individuato dagli interessati. Certo che, in quanto tempo della fine, riguarderà anche la Chiesa.

Secondo punto, va evitato, a meno che lo Spirito di Dio non dia indicazioni assolute e precise a chi legge questo testo profetico, di trattare il materiale disponendolo in ordine cronologico, per quanto si possano fare alcune ipotesi, perché non sono stati questi gli intenti del profeta cui è stata affidata la responsabilità di portare il messaggio. Se così non fosse, ci troveremmo in assoluta difficoltà nell’esaminare il capitolo 13, sempre di Zaccaria, che a un certo punto tratta dell’uccisione del Messia: “Insorgi, spada, contro il mio pastore, contro colui che è mio compagno. Oracolo del Signore degli eserciti. Percuoti il pastore e sia disperso il gregge” (v.7) riportato come parametro di adempimento da Gesù in Marco 14.26-28: “E, dopo avere cantato l’inno, uscirono verso il monte degli ulivi. Gesù disse loro: «Tutti rimarrete scandalizzati, poiché sta scritto: Percuoterò il pastore e le pecore saranno disperse». Ma, dopo la mia resurrezione, vi precederò in Galilea”.

 

6In quel giorno non vi sarà né luce né freddo né gelo: 7sarà un unico giorno, il Signore lo conosce; non ci sarà né giorno né notte, e verso sera risplenderà la luce.

 

Va sottolineato che i testi antichi di questi due versi sono fortemente danneggiati e hanno dato origine a traduzioni diverse e perfino contraddittorie. Abbiamo però dei riferimenti che intervengono a sanare il problema, come Isaia 60.19,20: “Il sole non sarà più la tua luce di giorno, né ti illuminerà più lo splendore della luna – ecco allora che i versi letti in cui la luminosità di sole e luna erano stati moltiplicati hanno valore simbolico –. Ma il Signore sarà per te luce eterna, il tuo Dio sarà il tuo splendore. Il tuo sole non tramonterà più né la tua luna si dileguerà – la luna nuova –, perché il Signore sarà per te luce eterna; saranno finiti i giorni del tuo lutto”.

Per il Nuovo Patto, abbiamo Apocalisse 21.23, che di Gerusalemme dice “La città non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna: la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello”, e 22.5 che stabilisce un punto assolutamente conclusivo e segna la fine della terra, del mondo e di tutto ciò che conosciamo a vantaggio di un aggiornamento nuovo: “Non vi sarà più notte e non avranno più bisogno di luce di lampada né di luce di sole, perché il signore Dio li illuminerà: e regneranno nei secoli dei secoli”.

Assolutamente consolatorie sono le parole del verso successivo, che contiene implicitamente un invito alla preghiera responsabile per comprendere il libro dell’Apocalisse: “Mi disse: «Queste parole sono certe e vere. Il Signore, il Dio che ispira i profeti, ha mandato il suo angelo per mostrare ai suoi servi le cose che devono accadere fra breve. Ecco, io vengo presto. Beato chi custodisce le parole profetiche di questo libro”. Mi sono chiesto cosa si debba fare per giungere ad essere in grado di “custodire” le parole del libro: credo che questo, a meno che una diversa conduzione dello Spirito Santo che illumina e custodisce i credenti, sia un punto di arrivo e non si possa compilare un formulario o una guida per arrivarvi. “Custodire” è comprendere e qui è racchiuso tutto il vero significato di possedere materialmente una Bibbia, un libro apparentemente come gli altri perché composto di carta, una copertina e dei fogli. Eppure, come ha scritto felicemente un giorno Mons. Gianfranco Ravasi, “Non basta possedere la Bibbia, bisogna anche leggerla; non basta leggere la Bibbia, bisogna anche comprenderla e meditarla; non basta comprendere e meditare la Bibbia, bisogna anche viverla”.

Ecco, credo che le due ultime fasi siano le più difficili perché, per raggiungerle, occorre una rinuncia a quella parte di noi stessi che è il sentimento: comprendere e meditare la Bibbia significa aprire la mente verso realtà che ci riguardano profondamente e vanno poi connesse alla nostra posizione. Tanto più saremo obiettivi e critici verso noi stessi, quindi estrarremo la trave dal nostro occhio, quanto più proficuo sarà il risultato. E vivere la Bibbia è mettere in pratica ciò che abbiamo compreso perché, se così non avviene, restiamo fermi, impossibilitati a qualunque forma di sviluppo e crescita personale. Conseguita una forma di crescita personale, poi, saremo in grado di comunicare ed aiutare gli altri nel vero senso spirituale del termine.

Abbandonato questo breve intermezzo, proseguiamo la lettura del testo:

 

8In quel giorno acque vive sgorgheranno da Gerusalemme e scenderanno parte verso il mare orientale, parte verso il mare occidentale: ve ne saranno sempre, estate e inverno. 9Il Signore sarà re di tutta la terra. In quel giorno il Signore sarà unico e unico il suo nome.

 

C’è un forte senso di conclusione in queste parole: tutto il tormento, la sofferenza, l’amore e l’odio degli uomini saranno archiviati per sempre, non si ascolteranno più le loro parole di rivalsa, i loro “io” e i loro “voglio”, o “mi devi”, o “fa’ questo”, ma “acque vive” che “sgorgheranno”, verbo che suggerisce un suono tranquillo oltre alla naturale spontaneità dell’azione. Gerusalemme sarà davvero una “città di pace” perché non esisterà più la categoria di persone che ha per millenni infestato la terra; infatti leggiamo ancora in Apocalisse 21.8 “…ma per i codardi, gli increduli, gli abominevoli, gli omicidi, i fornicatori, gli stregoni, gli idolatri e tutti i bugiardi, la loro parte sarò nello stagno di fuoco e di zolfo”. E in 22.15 viene ribadito “Fuori i cani, gli stregoni, i fornicatori, gli omicidi, gli idolatri e chiunque ama e pratica la menzogna”.

Mi ha colpito questo “amare” e “praticare” perché va alla radice del comportamento di molti, che simulano ciò che non sono per ingannare e frodare il prossimo. Certo lo fanno per tornaconto personale, ma in realtà agiscono così perché non conoscono altro modo di esprimersi nel senso che lo hanno eletto a metodo di vita. Mentire occasionalmente può capitare, ma non come frutto di calcolo, piano a danno di qualcuno; quando ciò avviene, si pratica la menzogna e se questo accade è perché la si ama, si diventa un tutt’uno con lei, in poche parole non si fa altro che difendere se stessi, quella parte dell’essere umano che tante volte Gesù ha esortato a rinunciare perché fonte di male.

Le “acque vive” che sgorgano da Gerusalemme sappiamo bene che sono quelle dello Spirito, questa volta a libera disposizione e non più cercate con fatica, cercate “come l’argento” e investigate “come per i tesori” come afferma il libro dei Proverbi.

Da notare la direzione delle acque, “parte verso il mare orientale”, cioè il Mar Morto, anticamente detto “di Sodoma”, “parte verso il mare occidentale”, cioè il Mediterraneo, due direzioni che simboleggiano l’universalità della disponibilità illimitata nel tempo (“ve ne saranno sempre, estate – quando i torrenti si seccano – e inverno”).

Interessante in proposito la visione di Ezechiele al capitolo 47 quando il profeta vede l’acqua che, da sotto la soglia del Tempio, esce vero Oriente e Occidente, ma l’idea della perfezione del piano di Dio la dà ancora una volta Giovanni in Apocalisse 11.1,2: “E mi mostrò poi un fiume d’acqua viva, limpido come cristallo, che scaturiva dal trono di Dio e dell’Agnello. In mezzo alla piazza della città, e da una parte e dall’altra del fiume, si trova un albero di vita che dà frutti dodici volte all’anno, portando frutto ogni mese; le foglie dell’albero servono a guarire le nazioni”.

La fine dell’immondizia e dell’impurità è anche stabilita al verso 9 del nostro testo, perché se “Il Signore sarà re di tutta la terra, in quel giorno il Signore sarà unico e unico il suo nome”, questo significa che non esisteranno più tutti quei falsi dèi che venivano adorati sulla terra e distoglievano le menti degli esseri umani indipendentemente dalla loro età anagrafica. E del resto, senza impuri, cani, stregoni e tutte le altre categorie escluse dalla città e regione di Dio, la presenza degli idoli non avrà alcun senso. Non dimentichiamo che non esisteranno più né la Bestia (quindi qualunque idea di impero), né il falso profeta (quindi nessuna seduzione o rivendicazione di autonomia). Sono morti con loro e con essi finirà anche quel senso di insopportazione che purtroppo coglie le persone spirituali che si trovano a condividere spazi e tempo con chi fa dell’impurità una norma di vita. Esattamente come avveniva per Lot nella terra di Sodoma.

Da citare senz’altro il cantico del ventiquattro anziani in Apocalisse 11.17-18: “Noi ti rendiamo grazie, Signore Dio onnipotente, che sei e che eri, perché hai preso in mano la tua grande potenza e hai instaurato il tuo regno. Le genti fremettero, ma è giunta la tua ira, il tempo di giudicare i morti, di dare la ricompensa ai tuoi servi, i profeti, e ai santi, e a quanti temono il tuo nome, piccoli e grandi, e di annientare coloro che distruggono la terra”.

 

10Tutto il paese si trasformerà in pianura, da Gheba fino a Rimmon, a meridione di Gerusalemme, che si eleverà e sarà abitata nel luogo dov’è, dalla porta di Beniamino fino al posto della prima porta, cioè fino alla porta dell’Angolo, e dalla torre di Cananèl fino ai torchi del re. 11Ivi abiteranno, non vi sarà più sterminio e Gerusalemme se ne starà tranquilla e sicura.

 

La trasformazione di tutto il Paese in pianura è indicativa del fatto che non sarà più necessario salire sui monti per elevarsi e cercare un luogo per pregare – secondo l’uso che conosciamo dalla scrittura –. Gheba e Rimmon erano due luoghi ai confini di Giuda, uno a Nord e l’altro a Sud, mentre per quanto riguarda la città, i luoghi menzionati, dalla “porta di Beniamino (…) fino ai torchi del re” offrono un itinerario che, se seguìto, circonda Gerusalemme come un cerchio.

Leggiamo poi al verso 11 “Non vi sarà più sterminio”, che, per essere compreso, più propriamente andrebbe letto da Diodati che scrive “non vi sarà più distruzione a mo’ d’interdetto”: il termine allude a qualcosa che, per la sua lontananza da Dio e la sua stessa natura a lui contraria, era votato allo sterminio. Rende l’idea Deuteronomio 7.25,26: “Darai alle fiamme le sculture dei loro dèi. Non bramerai e non prenderai per te l’argento e l’oro che le ricopre, altrimenti ne resteresti come preso il trappola, perché sono un abominio per il Signore, tuo Dio. Non introdurrai un abominio in casa tua, perché sarai, come esso, votato allo sterminio. Lo detesterai e lo avrai in abominio, perché è votato allo sterminio”.

Quello che vuol dire il testo di Zaccaria, è che non vi sarà più nessuno che andrà a turbare la quiete e la gioia perfetta del rapporto con Dio: “Gerusalemme se me starà tranquilla e sicura” come non lo sarà mai stata.

 

Credo sia giusto fermarsi qui, per quanto il panorama che è stato fornito in questi quattro capitoli non sia certo esaustivo. Ciò che mi premeva era dare uno sguardo alle parole di Gesù sul fatto che Israele non lo avrebbe visto fino a quando non avrebbe detto “Benedetto colui che viene nel nome del Signore”. Sappiamo anche che la Gerusalemme di cui Ezechiele parla è quella Nuova, poiché aspettiamo “la venuta del giorno di Dio, nel quale i cieli in fiamme si dissolveranno e gli elementi incendiati fonderanno. Noi infatti, secondo la sua promessa, aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova, nei quali abita la giustizia” (2 Pietro 3.12,13), e Isaia scrive “Ecco, io creo nuovi cieli e nuova terra; non si ricorderà più il passato, non verrà più in mente, poiché si godrà e si gioirà sempre di quello che sto per creare, poiché credo Gerusalemme per la gioia, e il suo popolo per il gaudio” (65.17).

Secondo l’autore della lettera agli Ebrei, è questa la città che Abrahamo attendeva, “la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso” (11.10), quella in cui verrà asciugata ogni lacrima a tutti coloro che avranno creduto (Apocalisse 21.4). Amen.

* * * * *

 

 

14.07 – IL RITORNO DI ISRAELE III/IV (Zaccaria 12)

14.07 – Il ritorno di Israele III/IV (Zaccaria 14)

 

 

Prima di affrontare parte del capitolo 14, va ricordato che la narrazione per quadri, o visioni, dà indicazioni di ciò che avverrà nel futuro in modo tale da essere riconosciuto dai diretti interessati alla luce della Scrittura. A chi legge quanto scritto da Zaccaria senza vivere quel tempo specifico, verrà data quindi un’informativa generica nell’attesa che venga rivelata, concretata e identificata quando gli eventi promessi si verificheranno realmente. Credo che, trattandosi di episodi che riguardano la Chiesa che vive dopo il rapimento, vadano affrontati senza la pretesa di porli in un’esatta successione temporale. Certo, il capitolo 14 si raccorda e amplia di molto non solo ciò che è stato scritto nel 12, ma anche rende più chiare le parole di Gesù quando disse “Non mi vedrete finché diciate: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore»”.

 

1Ecco, viene un giorno per il Signore, allora le tue spoglie saranno spartite in mezzo a te. 2Il Signore radunerà tutte le nazioni contro Gerusalemme per la battaglia, la città sarà presa, le case saccheggiate, le donne violentate, metà della città partirà per l’esilio, ma il resto del popolo non sarà strappato dalla città.

 

Vediamo che ancora una volta il termine “giorno” è quanto mai differente dal nostro. Se come credo si tratta dello stesso del capitolo 12, potremmo ipotizzare che vi sia contraddizione fra l’intervento di Dio sui nemici di Israele e Gerusalemme assalita e presa dalle nazioni, ma non è così perché questi versi anticipano gli altri del 12. È importante sottolineare che si tratta di una situazione temporanea, perché seguirà presto l’intervento di Dio visto in una nuova opera del Figlio:

 

3Il Signore uscirà e combatterà contro quelle nazioni, come quando combatté nel giorno dello scontro 4In quel giorno i suoi piedi si poseranno sopra il monte degli Ulivi che sta di fronte a Gerusalemme verso oriente, e il monte degli ulivi si fenderà in due, da oriente a occidente, formando una valle molto profonda, una metà del monte si ritirerà verso settentrione e l’altra verso mezzogiorno.

 

Il terzo verso contiene dei riferimenti molto interessanti perché quando viene detto “Il Signore uscirà” si intende sempre annunciare un Suo intervento in giudizio su qualcuno (quindi sconfitta ed eliminazione), a protezione di altri. E qui possiamo andare a 2 Tessalonicesi 2.3-12 quando l’apostolo Paolo parla degli ultimi tempi e dà una cronologia impossibile da fraintendersi: “Nessuno vi inganni in alcun modo! – perché i falsi profeti sono ovunque – Prima infatti verrà l’apostasia – cioè l’abbandono della fede come scelta responsabile e l’abbraccio di un credo diverso che vedrà l’uomo al posto di Dio – e si rivelerà l’uomo dell’iniquità, il figlio della perdizione, l’avversario – quindi l’anticristo, Satana in forma umana – colui che s’innalza sopra ogni essere chiamato e adorato come dio, fino a insediarsi nel tempio di Dio, pretendendo di essere Dio – cioè si mette al di sopra di chiunque ha posizioni di potere molto forti come Capi di Stato o del mondo finanziario o anche solo di forte influenza sugli altri, e creerà una religione basata sul sociale e l’apparente libertà individuale, Costui diventerà la suprema autorità religiosa all’interno di una chiesa che sarà solo nominale e dalla quale verrà riverito –. Non ricordate che, quando ancora ero tra voi, io vi dicevo queste cose? E ora voi sapete che cosa lo trattiene perché non si manifesti se non nel suo tempo – la volontà di Dio –. Il mistero dell’iniquità è già in atto, ma è necessario che sia tolto di mezzo colui che lo trattiene – qualcuno che per un certo tempo gli impedirà di operare pienamente per la rovina dell’umanità apostata –. Allora l’empio sarà rivelato e il Signore Gesù lo distruggerà con il soffio della sua bocca e lo annienterà con lo splendore della sua venuta”. Da notare Apocalisse 17.14, “Essi combatteranno contro l’Agnello, ma l’Agnello li vincerà, perché è il Signore dei signori e il Re dei re; quelli che stanno con lui sono i chiamati, gli eletti e i fedeli”.

 

Il “giorno dello scontro”, o “della battaglia” si riferisce a quella di Madian, sotto Gedeone, che non vide la vittoria di un esercito contro un altro, ma fu molto simile a ciò che à destinato ad accadere. Leggiamo infatti: “…il Signore fece volgere la spada di ciascuno contro il compagno, per tutto l’accampamento” dell’esercito dei Madianiti che avrebbero dovuto combattere contro gli Israeliti. Al riguardo, teniamo presente le importanti parole di Zaccaria 14.12 che si connettono anche a quelle del capitolo 12 (“Colpirò tutti i cavalli di terrore e i loro cavalieri di pazzia”): “Questa sarà la piaga con cui il Signore colpirà tutti i popoli che avranno mosso guerra a Gerusalemme: Imputridiranno le loro carni, mentre saranno ancora in piedi; i loro occhi marciranno nelle orbite e la lingua marcirà loro in bocca. In quel giorno vi sarà, per opera del Signore, un grande tumulto fra loro: uno afferrerà la mano dell’altro e alzerà la mano sopra la mano del suo amico” (14.12,13).

Il verso 4 ha connessione col ritorno di Gesù, che verrà visto da tutti realizzando le parole “riguarderanno a me, colui che hanno trafitto” e relativo cordoglio di cui abbiamo già parlato mentre la sua seconda parte, partendo dalla descrizione essenziale dell’evento, riporta chiaramente una manifestazione che darà origine, come ha scritto qualcuno, “a mutamenti climatici, cosmici e astronomici”. Anche qui, credo siano ipotesi su cui lavorare, ma a cui difficilmente si potrà giungere ad una interpretazione univoca. Isaia 30.26 riporta “La luce della luna sarà come la luce del sole e la luce del sole sarà sette volte di più, come la luce di sette giorni, quando il Signore curerà la piaga del suo popolo e guarirà le lividure prodotte dalle percosse”.

Quello che credo sia importante è il fatto che “il Signore poserà i suoi piedi sopra il monte degli ulivi”, cioè arriverà e si fermerà per operare, quindi abbiamo la personalizzazione della stabilità e dell’attuazione del Suo piano. Farà quello che ha promesso, quindi anticipato, annunciato agli uomini perché potessero/possano salvarsi.

E anche qui possiamo connetterci ad Apocalisse 19.11-21: “Poi vidi il cielo aperto ed ecco apparire un cavallo bianco. Colui che lo cavalcava si chiama Fedele e Veritiero; perché giudica e combatte con giustizia. I suoi occhi erano una fiamma di fuoco, sul suo capo vi erano molti diademi e portava scritto un nome che nessuno conosce fuorché lui. Era vestito di una veste tinta di sangue e il suo nome è la Parola di Dio. Gli eserciti che sono nel cielo lo seguivano sopra cavalli bianchi ed erano vestiti di lino fino bianco e puro. Dalla bocca gli usciva una spada affilata per colpire le nazioni; ed egli le governerà con una verga di ferro e pigerà il tino del vino dell’ira ardente del Dio onnipotente. E sulla veste e sulla coscia porta scritto questo nome: Re dei re e Signore dei signori. Poi vidi un angelo che stava in piedi nel sole. Egli gridò a gran voce a tutti gli uccelli che volano in mezzo al cielo: «Venite! Radunatevi per il gran banchetto di Dio; per mangiare carne di re, di capitani, di prodi, di cavalli e di cavalieri, di uomini d’ogni sorta, liberi e schiavi, piccoli e grandi». E vidi la bestia e i re della terra e i loro eserciti radunati per far guerra a colui che era sul cavallo e al suo esercito. Ma la bestia fu presa e con lei fu preso il falso profeta che aveva fatto prodigi davanti a lei, con i quali aveva sedotto quelli che avevano preso il marchio della bestia e quelli che adoravano la sua immagine. Tutti e due furono gettati vivi nello stagno ardente di fuoco e di zolfo. Il rimanente fu ucciso con la spada che usciva dalla bocca di colui che era sul cavallo e tutti gli uccelli si saziarono delle loro carni”.

 

Ora, sul testo su cui stiamo riflettendo, non può sfuggire il particolare del monte degli Ulivi: perché proprio lui? Ricordiamo che fu un luogo caro a Gesù: fu lì che parlò ai discepoli degli avvenimenti che si sarebbero realizzati in un futuro tanto prossimo quanto remoto (Matteo 24.4 e segg.). Dopo l’ultima cena, fu là che si diressero (Matteo 26.30); là si trovava il Getsemani (v.36). In quel luogo avvenne l’episodio in cui sudò sangue, fu arrestato, ma soprattutto, particolare che non sempre viene tenuto a mente, dal monte degli Ulivi salì al cielo; ricordiamo che, una volta asceso, “Essi – i discepoli – stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo. Allora ritornarono a Gerusalemme dal monte degli Ulivi, che è vicino a Gerusalemme quanto il cammino permesso in giorno di sabato” (Atti 1.10-12).

Da dove quindi il Figlio partì per i territori del Padre, tornerà per dare corso al giudizio finale e a tutti quegli eventi che lo precederanno.

 

5Allora voi fuggirete attraverso la valle fra i monti, perché la nuova valle fra i monti giungerà fino ad Asal; voi fuggirete come quando fuggiste durante il terremoto, al tempo di Ozia, re di Giuda. Verrà allora il Signore mio Dio, e con lui tutti i suoi santi.

 

Punto particolarmente arduo da risolvere è il “terremoto al tempo di Ozia, re di Giuda”. Unica traccia, a parte quella del nostro passo, è la citazione di Amos 1.1 che scrive “Parole di Amos, che era allevatore di pecore, di Tekòa, il quale ebbe visioni riguardo a Israele, al tempo di Ozia, re di Giuda, e al tempo di Geroboamo, figlio di Ioas, re d’Israele, due anni prima del terremoto”.

La frase “Verrà allora il Signore mio Dio, con tutti i suoi santi”, è illuminante in quanto allude all’imminenza, questa volta anche temporale, del giudizio sul mondo al quale parteciperanno i credenti di ogni popolo e lingua, oltre a comprendere quanto letto in Apocalisse 19. Una traduzione più preferibile riporta “…e tutti i santi saranno con te”, a sottolineare la contemplazione del profeta e la distanza accorciata stante il senso di appartenenza molto più marcato di quel “con te” rispetto a “con lui”.

Il Signore Dio è qui descritto nell’atto dell’arrivare nel luogo da tanto promesso ed è anche segno dell’esaudimento di quella preghiera dei “santi” visti e ascoltati dall’apostolo Giovanni in Apocalisse 6.9-11: “Quando l’Agnello aprì il quinto sigillo, vidi sotto l’altare le anime di coloro che furono immolati a causa della parola di Dio e della testimonianza che gli avevano reso. E gridarono a gran voce: «Fino a quando, Sovrano, tu che sei santo e veritiero, non farai giustizia e non vendicherai il nostro sangue contro gli abitanti della terra?». Allora venne data a ciascuno di loro una veste candida e fu detto loro di pazientare ancora un poco, finché fosse completo il numero dei loro compagni di servizio e dei loro fratelli, che dovevano essere uccisi come loro”. Ecco, il ritorno del Figlio “con tutti i suoi santi” sarà anche l’esaudimento di questa preghiera.

Così scrive Paolo nella seconda lettera ai Tessalonicesi: “È proprio della giustizia di Dio ricambiare con afflizioni coloro che vi affliggono e a voi, che siete afflitti – per le persecuzioni – dare sollievo insieme a noi, quando si manifesterà il Signore Gesù dal cielo, insieme agli angeli della sua potenza, con fuoco ardente, per punire quelli che non riconoscono Dio e quelli che non obbediscono al vangelo del Signore nostro Gesù. Essi saranno castigati con una rovina eterna, lontano dal volto del Signore e dalla sua gloriosa potenza. In quel giorno – appunto quello del Signore – egli verrà per essere glorificato nei suoi santi ed essere riconosciuto mirabile da tutti quelli che avranno creduto” (1.5-10).

Al prossimo studio il finire questa panoramica su una parte degli avvenimenti destinati a verificarsi col ritorno del Figlio di Dio in giudizio.

* * * * *

 

 

14.06 – IL RITORNO DI ISRAELE II/IV(Zaccaria 12)

14.06 – Il ritorno di Israele II/III (Zaccaria 12)

I versi che seguono solo la conseguenza del constatare, da parte dei “capi di Giuda” l’intervento di Dio del verso 4 con cui abbiamo concluso la precedente riflessione.

 

5Allora i Capi di Giuda penseranno: “La forza dei cittadini di Gerusalemme sta nel Signore degli eserciti, loro Dio”. 6In quel giorno farò dei Capi di Giuda come un braciere acceso in mezzo a una catasta di legna e come una torcia ardente tra i covoni; essi divoreranno a destra e a sinistra tutti i popoli vicini. Solo Gerusalemme resterà al suo posto.

 

Il fatto che venga immediatamente attribuito, da parte dei “Capi di Giuda” al “Signore degli eserciti” il successo rappresentato dalla inutilizzabilità dei sistemi da guerra ci fa capire tutto l’entusiasmo che sapranno infondere al popolo che, umiliato dall’aver riconosciuto nel Messia il Falso Profeta che formerà un tutt’uno con la Bestia, ritroverà vigore a tal punto da sconfiggere “tutti i popoli vicini”. Certo, mi sto esprimendo in una sorta di modo veterotestamentario, ma è importante considerare che quanto descritto non ha necessariamente un valore cronologico essendo il “Giorno del Signore” uno o più momenti, uno o più periodi e non lo scorrere delle 24 ore come quello degli uomini.

 

7Il Signore salverà in primo luogo le tende di Giuda perché la gloria della casa di Davide e la gloria degli abitanti di Gerusalemme non cresca più di quella di Giuda. 8In quel giorno il Signore farà da scudo agli abitanti di Gerusalemme e chi tra loro vacilla diventerà come Davide e la casa di Davide come Dio, come l’angelo del Signore davanti a loro.

 

Il verso 7 manifesta la preferenza di Dio per la tribù di Giuda, nome che significa “Lode”, ultimo figlio di Giacobbe. Da ricordare, anche se sono molto conosciute, le parole della sua benedizione: “Non sarà rimosso lo scettro da Giuda né il bastone di comando dai suoi piedi, finché verrà colui al quale esso appartiene – il Cristo – e a cui è dovuta l’obbedienza dei popoli” (Genesi 49.10).

In questo passo vediamo che il termine “obbedienza” è usato tanto in senso attivo quanto passivo: nel primo caso l’obbedienza è tale perché si viene a realizzare attraverso la conversione e adorazione, nel secondo abbiamo invece lo sperimentare personale del fatto che, per quanto la volontà dei popoli sia diversa da quella del Cristo, “Colui al quale appartiene lo scettro” la annullerà. E qui vediamo la loro sconfitta, come abbiamo già letto e leggeremo.

Giuda rappresenta l’elezione che non può essere annullata o sminuita, ridotta da alcuno, uomo, Stato o esercito che sia e infatti abbiamo letto che verranno salvate “in primo luogo le tende di Giuda”, “tende” come figura della dimora e del cammino, perché altri non si inorgogliscano e vengano stabilite le giuste priorità.

Quanto alla “casa di Davide” dobbiamo chiederci il perché, dal momento in cui Davide apparteneva a quella tribù. Qui va visto come re, quindi se le “tende di Giuda” hanno significato omnicomprensivo di quella tribù, la “casa di Davide” e “gli abitanti di Gerusalemme” hanno relazione con la “gloria”, quindi l’onore e la considerazione dati a tutti, da chi riveste posizioni di comando agli umili.

Il verso ottavo è una descrizione che ha un richiamo storico: “chi tra loro vacilla” nel senso di cadere preda dello sconforto e del timore, come vedremo fra breve, “diventerà come Davide” quanto a forza e a capacità di risoluzione vittoriosa. Ecco perché la “casa di Davide diventerà come Dio, come l’angelo del Signore davanti a loro”, altro riferimento alla potenza data dalla presenza visibile del Signore, tangibile sia per gli eventi vittoriosi sugli eserciti, sia perché il Cristo stesso sarà visibile, come leggiamo al verso 10.

 

9In quel giorno mi impegnerò a distruggere tutte le nazioni che verranno contro Gerusalemme. 10Riverserò sopra la casa di Davide e sopra gli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e di consolazione: guarderanno a me, a colui che hanno trafitto. Ne faranno lutto come si fa per un figlio unico, lo piangeranno come si piange il primogenito.

 

Credo che il verso nono non abbia bisogno di commenti salvo che con la locuzione “in quel giorno” non si intende un periodo di 24 ore ma, come per la Creazione, un tempo indefinito che ha comunque un inizio e una fine come l’intercorrere fra un’alba e un tramonto. Ricordiamo, a proposito di “giorno”, Giosuè, che pregò Iddio e “disse alla presenza di Israele: «Férmati, sole, su Gabaon, luna, sulla valle di Àialon», Si fermò il sole e la luna rimase immobile finché il popolo non si vendicò dei nemici” (Giosuè 10.12-13).

Il verso 10, invece, ha connessione con le parole di Gesù che hanno originato questa serie di interventi: lo “Spirito di Grazia e Consolazione” verrà “riversato” su tutto Israele che potrà così “guardare a me, a colui che hanno trafitto” cioè crocifisso (Matteo 27.35) senza dimenticare Giovanni 19.33,34 “Venuto però da Gesù, vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito uscì sangue ed acqua”.

Abbiamo letto “Ne faranno lutto come si fa il lutto per un figlio unico, lo piangeranno come si piange un primogenito”, modo per descrivere il dolore per quanto fatto a Gesù da parte dei loro padri e, per loro, per averlo costantemente respinto. Interessanti i quadri di Geremia 3.21 e Atti 2.37: “Sui colli si ode una voce, pianto e gemiti degli israeliti, perché hanno reso tortuose le loro vie, hanno dimenticato il Signore, loro Dio”, e la reazione, sempre degli israeliti, alla predicazione dell’apostolo Pietro: “All’udire queste cose si sentirono trafiggere il cuore e dissero: «Che dobbiamo fare, fratelli?»”

Infine, il “lutto per un figlio unico” e il pianto per “il primogenito” sono indicatori del dolore più grande per un israelita perché, oltre alla perdita del figlio, si vede interrotta la discendenza, cosa per i tempi antichi terribile.

Attenzione anche al fatto che Giovanni riporta le parole di Zaccaria sul volgere “lo sguardo a colui che hanno trafitto” anche alla crocifissione, accanto al ricordare “Non gli sarà spezzato alcun osso”. Anche Apocalisse pone il principio del ritorno del Signore come primo monito in 1.7: “Ecco, egli viene con le nubi e ogni occhio lo vedrà, anche quelli che lo trafissero, per lui tutte le tribù della terra si batteranno il petto. Sì, Amen!”.

È comunque importante ricordare che tutto quanto stiamo esaminando avviene per quadri; tutto l’annuncio profetico segue una successione di idee, di avvenimenti non cronologici, ma che si verificano comunque tutti in quel “giorno”.

 

11In quel giorno grande sarà il lamento a Gerusalemme, simile al lamento di Adad-Rimmon nella pianura di Meghiddo. 12Farà lutto tutto il paese, famiglia per famiglia”.

 

Il verso col quale si conclude la nostra indagine su Zaccaria 12 può essere raccordato alle parole dell’apostolo Paolo in 2 Corinti 3.14,15 quando, parlando degli ebrei e dei cristiani, ricorda il velo che Mosè mise sul suo volto perché risplendeva e dice: “…ma le loro menti furono indurite; infatti fino ad oggi quel medesimo velo rimane, non rimosso, quando si legge l’Antico Testamento perché viene eliminato. Fino ad oggi, quando si legge Mosè, un velo è steso sul loro cuore; ma quando vi sarà la conversione al Signore, il velo sarà tolto”. Capiamo? Il “velo” rimane non rimosso, cioè nonostante la scienza del Talmud e dell’immensa tradizione rabbinica, l’Antico Testamento resta senza una corretta interpretazione perché non risolve sul riconoscimento di Gesù Cristo.

Il verso 11 dà quindi un rimando, per la descrizione del dolore degli ebrei dei tempi futuri, all’uccisione di Giosia, diciassettesimo re di Giuda, che perì appunto nella campagna di Meghiddo: “Gli arcieri tirarono sul re Giosia. Il re diede quest’ordine ai suoi servi: «Portatemi via, perché sono ferito gravemente». I suoi servi lo tolsero dal suo carro, lo misero in un altro suo carro e lo riportarono a Gerusalemme, ove morì. Fu sepolto nei sepolcri dei suoi padri. Tutti quelli di Giuda e di Gerusalemme fecero lutto per Giosia. Geremia compose un lamento su Giosia; tutti i cantanti e le cantanti lo ripetono ancora oggi nei lamenti su Giosia: è diventata una tradizione in Israele. Esso è inserito fra i lamenti”. (2 Cronache 35.23-26).

Credo, per la complessità degli argomenti trattati, che sia giusto fermarci qui, riservando al prossimo studio la conclusione su questo “giorno del Signore” sul quale non può essere data definizione alcuna perché tutto è “giorno del Signore”: lo è stato il “Sia la luce”, la creazione di Adamo e via attraverso i millenni. Il “Giorno del Signore” non è ancora concluso e, sotto questi aspetti, terminerà con la terra, che coi cieli “passeranno stridendo” (2 Pietro 3.19).

Questo breve excursus, che verrà concluso con alcuni versi del capitolo 14 sempre di Zaccaria, ha voluto e vuole dare solo delle linee che ciascuno sarà poi libero di sviluppare o meno in base all’interesse che rivestiranno per lui le parole di questa profezia. Amen.

* * * * *

 

 

14.05 – IL RITORNO DI ISRAELE I/IV (Zaccaria 12)

14.05 – Il ritorno di Israele I/IV (Zaccaria 12)

 

Con questo studio entriamo in un ambito molto particolare, quello che riguarda eventi che non interessano la Chiesa del tempo in cui viviamo e, anzi, riguardano essenzialmente il popolo d’Israele. Se il capitolo 12 di Zaccaria trova spazio in questa raccolta, è perché ha connessione con la parte finale di Luca 13.35 “Vi dico infatti che non mi vedrete, finché verrà il tempo in cui direte: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore»”.   

            Ora vi è un altro elemento da considerare e cioè che, in uno studio su profezie che riguardano avvenimenti futuri, occorre sempre guardarsi dal pericolo di facili sensazionalismi, del soddisfare quella curiosità naturale che si impossessa facilmente di chiunque sente parlare di eventi che devono ancora accadere. Non a caso si trovano in commercio molti libri che promettono rivelazioni sensazionali sul futuro, non necessariamente riferentesi al libro dell’Apocalisse, scritti pseudo spirituali come “la profezia di Celestino”, quelle di Nostradamus e molti altri.

Penso che, a meno di una rivelazione specifica dello Spirito di Dio, occorra attenersi al testo e svilupparlo aderendo il più possibile ad esso tenendo presente che allo stesso Giovanni venne ordinato di non scrivere alcuni eventi di cui fu testimone: “Dopo che i sette tuoni ebbero fatto udire la loro voce, io ero pronto a scrivere, quando udii una voce dal cielo che diceva: «Metti sotto sigillo quello che hanno detto i sette tuoni e non scriverlo»” (Apocalisse 10.14). In altri termini, occorre parlare di eventi futuri solo se esiste la certezza di affrontare fatti veramente destinati ad accadere nella giusta collocazione temporale e solo se inquadrati sotto la prospettiva dell’altrui edificazione.

Il libro di Zaccaria si divide in due parti: la prima, dai capp. 1 a 8, riguarda l’attività del profeta a Gerusalemme dal 520 al 518 circa. Si tratta di otto visioni in cui Zaccaria annuncia ai suoi contemporanei che la loro speranza non è stata vana e il Tempio verrà ricostruito per accogliere il Signore che verrà a stabilire il suo regno. La seconda, capp. 9 – 14, scritta da un altro uomo di Dio, è posteriore di due secoli e sposta l’asse profetico agli ultimi tempi, quando Israele verrà assalito dalle nazioni e verrà salvato da Dio, come vedremo, con un intervento diretto del Figlio. È quindi il tempo di cui ha parlato l’apostolo Paolo, senza scendere nei dettagli, nella lettera ai Romani che abbiamo citato nello studio precedente.

Il capitolo 12 riguarda una parte di quegli avvenimenti, in particolare quelli attinenti alle parole di Gesù “Vi dico che non mi vedrete, finché direte «Benedetto colui che viene nel nome del Signore»”. Il testo che utilizzeremo non sarà quello della CEI come abitualmente, ma della Bibbia di Gerusalemme.

 

1 Oracolo. Parola del Signore su Israele. Oracolo del Signore che ha dispiegato i cieli e fondato la terra, che ha formato il soffio vitale nell’intimo dell’uomo”.

 

Come in tutti i passi profetici che riguardano gli avvenimenti futuri, abbiamo sempre una presentazione che non è mai dell’autore tecnico del libro, cioè il profeta che, tanto negli scritti dell’Antico che del Nuovo patto, precisa sempre quando ciò che scrive è parola di Dio o opinione sua. In questo primo verso la prima parola è “Oracolo”, cioè “responso” e, per non lasciare subbi sulla sua provenienza perché anche i pagani o le divinità estranee avevano i loro, lo Spirito ha lasciato le credenziali di chi parla: ciò che seguirà è la “Parola del Signore su Israele”, quindi non su altri, e per non lasciare alcun dubbio viene detto che a parlare è lo stesso “Signore che ha dispiegato i cieli e fondato la terra”.

Notiamo la singolarità del verbo, “dispiegato”, non “creato” cioè aggiunge un dato a Genesi 1.1 quando leggiamo “In principio Iddio creò il cielo e la terra”: se qui la descrizione della creazione riguarda l’ambiente in cui l’uomo vive, Zaccaria si fa tramite di una descrizione più ampia dell’atto creativo di Dio che prima ha “dispiegato i cieli”, cioè ha dato inizio all’espansione dell’Universo, ha ordinato gli spazi dei sistemi stellari e solo allora ha “fondato la terra”, quando cioè poteva esistere, al pari degli altri, come pianeta, questa volta abitabile. E ci sono voluti milioni e milioni di anni, e l’espansione dell’Universo la Scienza ci dice sia ancora in corso.

Se le fondamenta sono le strutture portanti di un edificio e garantiscono che questo possa sussistere nel tempo, “fondato la terra” significa porla nelle condizioni di esistere fino a quando il Creatore non ne decreterà la fine coi “nuovi cieli e nuova terra dove dimora stabile la giustizia”. E se tutti parlano di “Big bang”, molti meno di “Big crunch”, cioè la certa implosione del creato.

Altro modo che ha di presentarsi il Signore è come Colui “che ha formato il soffio vitale nell’intimo dell’uomo”, cioè l’autore non solo della vita materiale come per tutti gli animali, ma del fatto che l’uomo è persona, individuo unico, in grado di determinare il proprio destino tramite il libero arbitrio. Il “soffio vitale” sappiamo che fu l’unico elemento che rese possibile che l’essere umano diventasse “anima vivente” – ricordiamo “Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere dal suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne anima vivente” –, che altri traducono, attenuando il concetto, con “essere vivente”.

Stupendo è in proposito per noi il parallelo con Giovanni 20.22 quando, risorto, Gesù disse ai Suoi “«Pace a voi!». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo»”.

Questo “soffio vitale” in Genesi è stato “formato nell’intimo dell’uomo” cioè in quella regione più personale e nascosta, il cervello e quindi la mente, che solo Dio è in grado di vagliare e conoscere nel profondo nonostante la conoscenza, limitata comunque, della psicologia, psicanalisi e altre forme. Presentandosi come il responsabile del creato e del fatto che l’uomo sia un individuo a parte tra gli esseri viventi perché dotato di anima, JHWH anticipa che quanto verrà proclamato si tratta di eventi che si verificheranno inevitabilmente nei tempi da lui decretati.

 

2Ecco, io farò di Gerusalemme come una coppa che dà le vertigini a tutti i popoli vicini, e anche Giuda sarà in angoscia nell’assedio di Gerusalemme. 3In quel giorno io farò di Gerusalemme come una pietra pesante per tutti i popoli: quanti vorranno sollevarla ne resteranno graffiati; contro di essa si raduneranno tutte le nazioni della terra.

 

Il verso 2 dà tre elementi degni di nota: Gerusalemme, la città che più di altre è il simbolo dell’ebraismo e capitale dello Stato di Israele, diventerà “come una coppa che dà le vertigini a tutti i popoli vicini”: la parola chiave del verso è “vertigini”, che sono sinonimo di mancanza di equilibrio. Chi ne soffre ha la sensazione di un movimento rotatorio o di sbandamento e non riesce a percorrere nessuna distanza. Gerusalemme qui dà questa sensazione dapprima “a tutti i popoli vicini”, ma poi a tutti gli altri indistintamente – la “pietra pesante per tutti i popoli” del verso 3 – ed è facile per noi, che sono convinto viviamo davvero negli ultimi tempi, pensare alla Gerusalemme “ufficiale”, quella nata politicamente il 14 maggio 1948 quando Israele proclamò la sua indipendenza provocando la immediata reazione di Egitto, Giordania, Siria, Libano e Iraq innescando un conflitto che durò quindici mesi e che videro, da parte israeliana, circa seimila morti.

Tutto questo fu solo l’inizio: Israele iniziò a ingrandirsi perché ogni ebreo sparso nel mondo aveva diritto di cittadinanza e di ingresso nel territorio e si può dire che quello Stato passò di guerra in guerra per sussistere; ricordiamo tra le più importanti la guerra dei sei giorni (1967), la guerra d’attrito dell’Egitto, quella del Kippur (1963) con Egitto e Siria e tutti i conflitti con l’OLP dal 1982 e, per gli anni 2000, la seconda guerra del Libano, l’operazione a Gaza del 2008. Certo sono dati molto essenziali, ma credo sufficienti ad aiutare a comprendere il concetto di “coppa che dà le vertigini a tutti i popoli vicini”. Neppure quanto sta accadendo attualmente a Gaza (ottobre 2023) è un caso.

Dalla seconda metà del verso 2 e per tutto il successivo, però, andiamo in un tempo ancora a venire perché “Gerusalemme”, quindi Israele come Stato, diventerà per volere di Dio “una pietra pesante per tutti i popoli”, cioè le decisioni militari e politiche da lei prese interferiranno coi piani delle altre nazioni al punto tale che una guerra sarà inevitabile; una guerra di proporzioni enormi perché “contro di essa si raduneranno tutte le nazioni della terra”. L’impossibilità delle relazioni diplomatiche con Israele è descritta con la figura della pietra pesante che causa lesioni a “quanti vorranno sollevarla”, qui citazione di un gioco piuttosto pericoloso in voga al tempo in cui viveva l’autore del passo, che consisteva nel fare sollevamento pesi utilizzando appunto una grossa pietra tonda che, nel caso in cui venissero a mancare le forze a chi gareggiava, poteva provocare traumi molto seri. Possiamo ricordare, anche se con significato diverso, Matteo 21.44, “Chi cadrà sopra questa pietra si sfracellerà, e colui sul quale essa cadrà, verrà stritolato”, in il riferimento è alla pietra angolare scartata dai costruttori, ma anche a quella grossa e pesante che, se non sollevata correttamente, può fare molto male a chi la vorrebbe utilizzare.

 

4In quel giorno, oracolo del Signore, colpirò tutti i cavalli di terrore e i loro cavalieri di pazzia, mentre sulla casa di Giuda terrò aperti i miei occhi, colpirò di cecità tutti i cavalli dei popoli.

 

“Cavalli”, “cavalieri”, “terrore”, “pazzia” e “cecità” sono termini da adattare al tempo in cui si verificheranno gli avvenimenti descritti al verso quarto: ci aiuta a comprendere il senso Salmo 76.5-8, “Furono spogliati i valorosi, furono colti dal sonno, nessun prode ritrovava la sua mano. Dio di Giacobbe, alla tua minaccia si paralizzano carri e cavalli. Tu sei davvero terribile; chi ti resiste quando si scatena la tua ira?”.

Tutti gli elementi citati da Zaccaria in questo verso si rifanno ad armi moderne, che Giovanni descriverà nel libro dell’Apocalisse col linguaggio che poteva utilizzare un uomo del suo tempo: i rimanenti termini, “terrore”, “pazzia” e “cecità”, credo siano un riferimento alla loro disattivazione nell’elettronica e nei sistemi di trasmissione; pensiamo a cosa vuol dire, ad esempio, restare senza la strumentazione GPS militare, senza i satelliti per le comunicazioni e il rilevamento, senza i radar. Armi non solo inutilizzabili, ma anche estremamente vulnerabili non solo quanto ad esse, ma soprattutto relativamente ai territori che avrebbero dovuto difendere.

Sì, ma qual è il significato di “In quel giorno”? Si tratta un momento unico, programmato dalla fondazione del mondo, che rientra nell’enunciato di Gesù in Matteo 24.36 “Quanto a quel giorno e a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli del cielo né il Figlio, ma solo il Padre” in quanto Creatore non solo dell’Universo, ma artefice del Piano di redenzione dell’uomo. Perché si realizzino le parole dell’apostolo Paolo che abbiamo letto, “allora tutto Israele sarà salvato”, occorrerà attendere proprio “quel giorno”, quello ultimo, quando una volta liberato Satana dopo il Millennio, scatenerà tutte le Nazioni contro Gerusalemme.

Leggiamo infatti: “Quando i mille anni saranno compiuti, Satana verrà liberato dal suo carcere e uscirà per sedurre le nazioni che stanno ai quattro angoli della terra, Gog e Magòg – popoli nemici di Israele –, e radunarle per la guerra; il loro numero è come la sabbia del mare. Salirono fino alla superficie della terra e assediarono l’accampamento dei santi e la città amata. Ma un fuoco scese dal cielo e li divorò” (Apocalisse 20.7-9).

Da notare, infine, il contrasto fra gli “occhi” di Dio, che li terrà “aperti sulla casa di Giuda”, e quelli dei suoi nemici, che avranno i loro “cavalli” colpiti di “cecità”.

Ecco, credo fortemente che Giovanni, scrivendo del “fuoco”, volutamente salta la parte di Zaccaria relativa alle manifestazioni dell’intervento del Cristo, che vedremo nella prossima parte.

* * * * *

 

 

14.04 – IL LAMENTO DI GESÙ SU GERUSALEMME (Luca 13.34,35)

14.04 – Il lamento di Gesù su Gerusalemme (Luca 13.34,35)         

 

34Gerusalemme, Gerusalemme, tu che uccidi i profeti e lapidi quelli che sono stati mandati a te: quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia i suoi pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto! 35Ecco, la vostra casa è abbandonata a voi! Vi dico infatti che non mi vedrete, finché verrà il tempo in cui direte: Benedetto colui che viene nel nome del Signore!».

 

            Direttamente connesso al verso precedente, quando Gesù disse che “non è possibile – o “conveniente” – che un profeta muoia fuori di Gerusalemme”, il verso 35 è una dichiarazione d’amore alla “Santa Città” che, rimanendo tale nei piani di Dio sotto la prospettiva di quella “celeste”, affidata agli uomini, ha fallito il suo mandato.

Iniziamo allora dal nome, “Gerusalemme”, che tradotto significa “fondazione di pace”, cioè Salem. Questo ci ricorda “Melchidedek, re di Salem” (Genesi 14.18), e soprattutto uno dei due monti su cui essa sorge, sul quale Abrahamo stava per sacrificare Isacco. Altro suo nome è Sion, essenzialmente “Segno”. E “Segno” infatti fu sempre: fu la “Città di Davide” in cui trasportò l’arca dell’alleanza e Salomone vi costruì il Tempio che andò a sostituire la tenda del convegno. L’area del Tempio occupava la cima del monte Moria, quello del sacrificio di Isacco. Sion fu il nome del Moria.

Gerusalemme, proprio in quanto figura spirituale, in un certo senso “Città di Dio” con il Tempio in cui JHWH dimorava, rappresentò sempre il termometro spirituale del popolo di Israele e dei suoi conduttori: fu per giudizio che la città ebbe le mura abbattute e la popolazione fu deportata (2 Re 25.1-21), per perdóno che nel 538 Ciro emanò il famoso editto che autorizzò il ritorno in patria degli ebrei.

Fu retta dai Persiani, occupata da Alessandro Magno (332 a.C.), dai re Tolomei d’Egitto e dai Seleucidi siriani, nel 167 abbiamo la profanazione di Antioco Epifane di cui abbiamo parlato, la riconquista con Giuda Maccabeo e poi nel 63 Pompeo, generale romano, la riconquistò insediandovi come re Erode il Grande.

Quello che è stato definito il “lamento di Gesù su Gerusalemme”, riportato identico da Matteo (13.34,35) anche se probabilmente si verificò in un altro momento, è anche un atto d’accusa: la città che coi suoi abitanti avrebbe dovuto illuminare il mondo, rifiutò questo compito uccidendo i profeti e lapidando quelli che erano stati inviati a lei; tramite loro Dio avrebbe voluto raccogliere il popolo sotto le Sue ali dove avrebbe ricevuto amore e protezione. Nello scorso studio erano stati citati Zaccaria figlio di Ioiadà, ucciso dal re Ioas, ma sono molti di più, come riassume Nehemia 9.25,26 quando leggiamo “Essi si sono impadroniti di città fortificate e di una terra grassa e hanno posseduto case piene di ogni bene, cisterne scavate, vigne, oliveti, alberi da frutto in abbondanza; hanno mangiato e si sono saziati e si sono ingrassati e sono vissuti nelle delizie per la tua grande bontà. Ma poi hanno disobbedito e si sono ribellati contro di te, si sono gettati la tua legge dietro le spalle, hanno ucciso i tuoi profeti che li ammonivano per farli tornare a te, e ti hanno insultato gravemente”. È comunque raccomandabile la lettura dei versi successivi che testimoniano l’indurimento di cuore del popolo cui si contrappone l’amore di Dio che chiama alla conversione.

L’uccisione dei profeti è riportata da molti passi dell’Antico Patto, ad esempio Geremia 2.30 (“La vostra spada ha divorato i vostri profeti come un leone distruttore”), ma è sufficiente andare alle parole di Gesù nella parabola dei contadini omicidi per capire la portata del misfatto operato dal popolo e dai suoi rettori: “Ma i contadini presero i servi e uno lo bastonarono, un altro lo uccisero, un altro lo lapidarono. Mandò di nuovo altri servi, più numerosi dei primi, ma li trattarono allo stesso modo” (Matteo 21-35.36).

È chiaro che l’uccisione di un profeta è il rifiuto più eloquente di ascoltare il messaggio di Dio che lo ha inviato, talché “Il mio popolo non ha ascoltato la mia voce, Israele non mi ha obbedito: l’ho abbandonato alla durezza del suo cuore. Seguano pure i loro progetti!” (Salmo 81.12,13). Ma dove li avrebbero portati questi progetti, anche quelli di oggi? Nel nostro passo abbiamo parole differenti, ancora più crude perché dicendo “la vostra casa è abbandonata a voi”, che una traduzione migliore riporta con “La vostra casa è lasciata deserta”, si allude chiaramente a ciò che contiene, cioè il Tempio, centro di tutto il Giudaismo, in cui l’Iddio di Israele abitava: questi sarebbe stato lasciato vuoto, la presenza del Signore se ne sarebbe andata per sempre e la dimostrazione di ciò sarebbe stato proprio il fatto che tutta Gerusalemme sarebbe stata data in mano ad altri: nel 70 d.C. le armate di Tito conquistarono la città, ne abbatterono le mura e incendiarono il Tempio. In una guerra avvenuta anni dopo, nel 135, l’imperatore Adriano distrusse sistematicamente la città ricostruendola sul modello delle città coloniali romane e, tra l’altro, cambiò in nome da Gerusalemme a Ælia Capitolina.

Confrontando questi dati con le parole del pianto di Gesù su Gerusalemme in Luca 19.42-44 ne vediamo l’adempimento: “Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, quello che porta alla pace! Ma ora è nascosto ai tuoi occhi. Per te verranno giorni in cui i tuoi nemici ti circonderanno di trincee, ti assedieranno e ti stringeranno da ogni parte, distruggeranno te e i tuoi figli dentro di te e non lasceranno in te pietra su pietra, perché non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata”.

Ad aggravare poi la drammaticità del tutto è il fatto che il rifiuto dell’ascolto del Figlio di Dio equivaleva a quello di Dio stesso e il libro del Levitico, quindi la Torah, annunciava le medesime, terribili conseguenze: “Se, nonostante tutto questo non vorrete darmi ascolto, ma vi opporrete a me, anch’io mi opporrò a voi con furore e vi castigherò sette volte di più per i vostri peccati. Mangerete perfino la carne dei vostri figli e mangerete la carne delle vostre figlie. Devasterò le vostre alture, distruggerò i vostri altari per l’incenso, butterò i vostri cadaveri sui cadaveri dei vostri idoli e vi detesterò. Ridurrò le vostre città a deserti, devasterò i vostri santuari e non aspirerò più il profumo dei vostri incensi. Devasterò io stesso la terra, e i vostri nemici, che vi prenderanno dimora, ne saranno stupefatti. Quanto a voi, vi disperderò fra le nazioni e sguainerò la spada dietro di voi; la vostra terra sarà desolata e le vostre città saranno deserte.” (26.27-33). Gerusalemme, allora, qui è un termine che riguarda la città quanto all’uccisione dei profeti, ma tutto Israele quanto a giudizio.

Ebbene, Gesù con le parole “Quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia i pulcini sotto le sue ali”, parla come Pastore del suo popolo e si riferisce non solo ai suoi tre anni di ministero, ma a tutte le Sue iniziative nella storia, attuate da Lui o dai profeti mandati perché lo riconoscessero una volta nato sulla terra. Come dice l’apostolo Pietro nella sua prima lettera (1.11), “essi cercavano di sapere quale momento o quali circostanze indicasse lo Spirito di Cristo che era in loro, quando prediceva le sofferenze destinate a Cristo e le glorie che le avrebbero seguite”. Le “volte” in cui Gesù volle raccogliere i figli di Gerusalemme (come simbolo e destinazione finale) furono davvero innumerevoli.

Il riferimento alle ali, poi, non è una forma poetica, ma la descrizione degli intendimenti di protezione come avvenuto con Giacobbe, poi chiamato Israele di cui è detto “Egli – il Signore – lo trovò in una terra deserta, in una landa di ululati solitari. Lo circondò, lo allevò, lo custodì come la pupilla del suo occhio. Come un’aquila che veglia la sua nidiata, che vola sopra i suoi nati, egli spiegò le ali e lo prese, lo sollevò sulle sue ali” (Deuteronomio 32.10,11). Vediamo che alla “chioccia” qui è sostituita l’ “aquila” non perché rapace, ma per le altezze che è in grado di raggiungere oltre alla vista acuta, mentre il concetto di “nidiata” rimane intatto. Inoltre, la metafora delle ali non era certo sconosciuta: ricordiamo le parole di Booz a Rut in 2.12 del libro omonimo: “…sia davvero piena per te la ricompensa da parte del Signore, Dio d’Israele, sotto le cui ali sei venuta a rifugiarti”. Anche Salmo 36.8 e molti altri passi che non riporto alludono alla stessa situazione: “Quanto è prezioso il tuo amore, o Dio! Si rifugiano gli uomini all’ombra delle tue ali”.

Eppure Gesù dice “e non avete voluto!”. Qui l’attenzione da prestare è grande perché coinvolge anche gli uomini di ogni tempo: non è detto “…e non avete capito”, o “avete frainteso”, ma chiama in causa una volontà cosciente e lucida, una scelta paragonabile a Giovanni 5.40, “Voi non volete venire a me per cambiare vita”. La volontà infatti nasce dal cuore, dall’anima e dallo spirito dell’essere umano che, purtroppo, nella maggioranza dei casi preferisce fare affidamento alle proprie forze, convinto di scegliere e decidere da sé il proprio destino, convinto di vivere sempre un eterno presente e realizzando purtroppo quando ormai è tardi che così non è. E possiamo ricordare Proverbi 1. 28-31: “Allora mi invocheranno, ma io non risponderò, mi cercheranno, ma non mi troveranno. Perché hanno odiato la sapienza e non hanno preferito il timore del Signore, non hanno accettato il mio consiglio e hanno disprezzato ogni mio rimprovero; mangeranno il frutto della loro condotta e si sazieranno delle loro trame”.

Proseguendo nella lettura del nostro passo abbiamo l’ ”Ecco, la vostra casa è abbandonata a voi”, su cui torno ancora un attimo: abbiamo il motivo nel senso che “Ecco” qui ci da la modalità dell’abbandono: “Da ora innanzi non mi vedrete” nel senso che Gesù, Uno col Padre, con la Sua assenza provocherà l’invisibilità di Dio a quello che era il Suo popolo. Il rifiuto del Cristo quale Dio invisibile, “Padre per sempre” secondo Isaia, sarebbe stata cosa ben peggiore rispetto a quando Israele abbracciò l’idolatria e servì dèi stranieri.

A questo punto però vediamo che l’abbandono non sarà definitivo come rilevabile dal “finché diciate”, cioè “non mi riconoscerete per quello che sono”, cioè “Colui che viene nel nome del Signore”, parole tratte da Salmo 118.26 e che, per quanto dette dalla folla quando Gesù fece il suo ingresso trionfale in Gerusalemme (Matteo 21.9), hanno connessione al tempo della fine, quando Israele riconoscerà proprio in Lui il Messia promesso: quando Nostro Signore morì, Giovanni nel suo Vangelo fece due annotazioni in 19.36: “Questo avvenne perché si compisse la scrittura: «Non gli sarà spezzato alcun osso». E un altro passo della Scrittura dice ancora: «Guarderanno a colui che hanno trafitto»”.

Ora, se la prima è chiara perché il colpo di lancia del soldato romano non spezzò nessun osso e a Gesù non furono rotte le gambe perché era già morto, la seconda va oltre alla semplice constatazione del popolo della Sua morte, coinvolgendolo nel futuro: infatti “Non voglio che ignoriate, fratelli, questo mistero, perché non siate presuntuosi – disprezzando Israele –: l’ostinazione di una parte di Israele è in atto fino a quando non saranno entrate tutte le genti – cioè non sarà compiuto il numero dei salvati –. Allora tutto Israele sarà salvato, come sta scritto: «Da Sion uscirà il liberatore, egli toglierà l’empietà da Giacobbe. Sarà questa la mia alleanza con loro quando distruggerò i loro peccati». Quanto al Vangelo, essi sono nemici, per vostro vantaggio – nel senso che, se non lo avessero rifiutato, le dinamiche della salvezza sarebbero state differenti –; ma quanto alla scelta di Dio, essi sono amati a causa dei padri, infatti i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili! Come voi un tempo siete stati disobbedienti a Dio e ora avete ottenuto misericordia a motivo della loro disobbedienza, così anch’essi ora sono diventati disobbedienti a motivo della misericordia da voi ricevuta, perché essi ottengano misericordia.” (Romani 11.25-32).

Sarà cura del prossimo studio esaminare, per quanto consentito dallo Spirito, le modalità del ritorno di Israele a Cristo: lo faremo esaminando il capitolo 14 del libro di Zaccaria.

* * * * *

 

 

 

 

14.03 – DITE A QUELLA VOLPE (Luca 13.31-33)

14.03 – Dite a quella volpe (Luca 13.31-33)

 

31In quel momento si avvicinarono alcuni farisei a dirgli: «Parti e vattene via di qui, perché Erode ti vuole uccidere». 32Egli rispose loro: “Andate a dire a quella volpe: «Ecco, io scaccio demòni e compio guarigioni oggi e domani; e il terzo giorno la mia opera è compiuta. 33Però è necessario che oggi, domani e il giorno seguente io prosegua nel cammino, perché non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme»”.

 

            L’episodio si apre con un gruppo di Farisei che esortano Gesù ad andarsene stante le intenzioni ostili di Erode. Ciò avvenne “in quel momento” secondo la nostra traduzione, o “In quello stesso giorno” stando ad altre, dopo la risposta alla domanda “Signore, sono pochi coloro che si salvano?”.

A questo punto, per analizzare il nostro passo, coi Farisei che si avvicinano a Nostro Signore e lo invitano ad andarsene perché Erode voleva ucciderlo, occorre ragionare sulle condizioni che si erano venute a creare: partendo dal “re”, è chiaro che la presenza di Gesù nei suoi territori, la Transgiordania, lo infastidiva anche perché gli rammentava l’omicidio di Giovanni Battista. Ricordiamo infatti Matteo 14.2, “Egli disse ai suoi cortigiani: «Costui è Giovanni Battista. È risorto dai morti e per questo ha il potere di fare prodigi»”, ma anche Marco 6.16 “Ma Erode, al sentirne parlare, diceva: «Quel Giovanni che io ho fatto decapitare, è risorto»”.

Una persona superstiziosa come Erode, quindi, preferì fare in modo che si allontanasse da quei territori utilizzando i Farisei di cui, come abbiamo già avuto modo di considerare, si era già servito per attirare Giovanni nella sua giurisdizione per poterlo catturare.

L’invito ad andarsene da quei luoghi “perché Erode ti vuole uccidere”, poi, rivela come i Giudei non avessero capito nulla di Gesù, essendo convinti che quella frase fosse sufficiente a intimorirlo quasi che fosse un uomo qualunque, desideroso di prolungare la propria vita il più possibile.

La risposta che questi ebbero, “Andate a dire a quella volpe”, conferma i rapporti che intercorrevano tra loro ed Erode: li tratta cioè come suoi agenti e al tempo stesso ne rivela la profonda inadeguatezza davanti alla morale di Dio, essendosi alleati con un uomo sanguinario, un “malvagio” sul quale è “la maledizione del Signore” (Prov. 3.33).

In uno scorso studio ci siamo occupati della “volpe” e ne abbiamo sviluppato il significato; qui possiamo affrontare brevemente il tema della persona calcolatrice e operante a danno degli altri: il malvagio è colui che prova piacere nel fare il male restando indifferente alle conseguenze che esso provoca, ma anche colui che è avverso, cattivo, spiacevole, porta dolore, ha forza negativa. E da queste caratteristiche è facile individuare una relazione con l’Avversario. C’è però un particolare visto nell’indifferenza alle altrui sofferenze, nel disinteresse alle esigenze del nostro simile che è il peccato di Sodoma e dei suoi territori: pensando alla soddisfazione della propria persona e pur di raggiungere la soddisfazione individuale, non si fa caso agli altri né tantomeno a ciò che Dio si aspetta da noi. Il peccato di Sodoma fu proprio l’indifferenza, la sopraffazione, la santificazione dell’egoismo che portò, tra le altre cose, ad esercitare la promiscuità sessuale, omosessualità compresa.

E infatti leggiamo in Romani 1. 18-32: “…L’ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ogni ingiustizia di uomini che soffocano la verità nell’ingiustizia, poiché ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto; Dio stesso lo ha manifestato a loro. Infatti le sue perfezioni invisibili, ossia la sua eterna potenza e divinità, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo attraverso le opere da lui compiute. Essi dunque non hanno alcun motivo di scusa perché, pur avendo conosciuto Dio, non lo hanno glorificato né ringraziato come Dio, ma si sono perduti nei loro vani ragionamenti e la loro mente ottusa si è ottenebrata. Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti e hanno scambiato la gloria del Dio incorruttibile con un’immagine e una figura di uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e rettili – l’idolatria –. Perciò Dio li ha abbandonati all’impurità secondo i desideri del loro cuore, tanto da disonorare fra loro i propri corpi, perché hanno scambiato la verità di Dio con la menzogna e hanno adorato e servito le creature anziché il Creatore, che è benedetto in eterno, amen. Per questo Dio li ha abbandonati a passioni infami; infatti, le loro femmine hanno cambiato i loro rapporti naturali in quelli contro natura. Similmente anche i maschi, lasciando il rapporto naturale con la femmina, si sono accesi di desiderio gli uni per gli altri, commettendo atti ignominiosi maschi con maschi, ricevendo così in se stessi la retribuzione dovuta al loro traviamento. E poiché non ritennero di conoscere Dio adeguatamente, Dio li ha abbandonati alla loro intelligenza depravata ed essi hanno commesso azioni indegne: sono colmi di ogni ingiustizia, di malvagità, di cupidigia, di malizia; maldicenti, nemici di Dio, arroganti, superbi, presuntuosi, ingegnosi nel male, ribelli ai genitori, insensati, sleali, senza cuore, senza misericordia. E, pur conoscendo il iudizio di Dio, che cioè gli autori di tali cose meritano la morte, non solo le commettono, ma anche aprovano chi le fa”.

Un passo lungo che era doveroso riportare e che andrebbe meditato frase per frase per i rimandi che contiene.

 

Rientrando ora al nostro testo i Farisei, che avrebbero dovuto essere le guide spirituali del popolo, intrattenevano cordiali rapporti con una persona, Erode, che apparteneva alla categoria dei malvagi verso i quali la Scrittura ha parole di ferma condanna. Abbiamo poc’anzi citato il libro dei Proverbi: vediamo che “Il malvagio nel suo cuore trama cose perverse” (6.14), quindi non è solo banale cattiveria, su di lui “sopraggiunge il male che teme” (11.8), “non resterà impunito” (11.21), è “travolto dalla propria cattiveria” (14.32), la sua via “è retta ai propri occhi” (12.15), è stato “fatto per il giorno della sventura” (16.4), “non cerca altro che la ribellione, ma gli sarà mandato contro un messaggero senza pietà” (17.11). Interiormente e senza saperlo, poi, “fugge anche se nessuno lo insegue” (28.1) e un fratello un giorno disse che “sta male anche quando sta bene”, tutto questo anche se “vive a lungo nonostante la sua iniquità” (Ecclesiaste 7.15). Infine, per quanto deuterocanonico, Siracide 11.33, “Guàrdati dal malvagio, perché egli prepara il male: che non disonori per sempre anche te”. Ecco il rimprovero, o se preferiamo la realtà, che Gesù dichiara con il “Dite a quella volpe”: possiamo dire che “ce n’è” per Erode, ma anche per i Farisei che con lui formano un tutt’uno.

 

Fatta questa premessa, giungiamo al messaggio di Gesù al verso 32 e 33, che divideremo in due parti. La prima: “Ecco, io scaccio demòni e compio guarigioni oggi e domani; e il terzo giorno la mia opera è compiuta”. Qui Nostro Signore dà la descrizione più visibile, immediata, del Suo operare, cioè ridare la dignità all’uomo visibilmente, oggettivamente schiavo dell’Avversario tanto nelle forme più gravi della possessione, quanto in quelle più “lievi” ma moralmente non meno penose della malattia e del peccato. Poi parla anche di un’ “opera compiuta”, quindi di tutto quello che aveva fatto e farà perché non uno “iota” della Legge passasse, fosse adempiuto.

C’è poi ”oggi”, “domani” e “il terzo giorno la mia opera è compiuta”, espressione proverbiale per indicare un tempo molto breve, ma anche quelli di Dio che non si possono conoscere.

I giorni cui Gesù fa riferimento qui sono i due mesi e mezzo che mancano alla Sua morte, a quel “Tutto è compiuto” che costituisce, in pratica, la firma al Suo testamento, poi sigillato dalla risurrezione.

 

Questa frase di Gesù, poi, è anche un riferimento al fatto che né Erode né i farisei suoi alleati avrebbero potuto fare alcunché per interferire in quel periodo rappresentato da “oggi, domani e il terzo giorno”.

La seconda parte del messaggio ad Erode, quella al verso 33, riprende inizialmente il tema dei tre giorni: era necessario che Gesù continuasse nel Suo cammino “Oggi, domani e il giorno seguente”, il suo ultimo periodo di cui il numero tre attesta la perfezione del compiuto soprattutto alla luce della Sua divinità e partecipazione del Padre e dello Spirito Santo. Sarebbero stati giorni in cui Nostro Signore avrebbe proseguito “nel cammino”, cioè nelle ultime fasi di quell’itinerario preparato per Lui e per Lui solo. La nostra attenzione qui si sposta proprio sul “cammino” che, per quanto abbia attinenza con la geografia, ha comunque le stesse caratteristiche di quello compiuto fino ad allora, cioè di guarigione, insegnamento, liberazione.

Infine abbiamo letto “…perché non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme”: altri più propriamente traducono “non sarebbe conveniente” e si tratta di una frase che ha due significati, il primo che, per quanto Antipa potesse essere crudele, non poteva eguagliare il Sinedrio e i Sommi Sacerdoti che avrebbero istigato il popolo a che fosse condannato, il secondo che proprio Gerusalemme, la “Santa Città” era quella che uccideva i profeti e lapidava coloro che gli erano mandati (Luca 13.34,35) come vedremo nel prossimo studio.

Abbiamo infatti il caso di Zaccaria figlio di Gioiadà, lapidato nel cortile del tempio per ordine del re, reo di aver detto “Perché trasgredite i comandi del Signore? Per questo non avete successo: poiché avete abbandonato il Signore, anch’egli vi abbandona” (2 Cronache 24.20-22), di Uria, figlio di Semaià, passato a fil di spada e gettato nelle fosse della gente comune (Geremia 26.20-23). Ricordiamo anche 2 Cronache 36.15 che ricorda la deportazione babilonese: “Il Signore, il Dio dei loro padri, mandò premurosamente e incessantemente i suoi messaggeri ad ammonirli, perché aveva compassione del suo popolo e della sua dimora. Ma essi si beffarono dei messaggeri di Dio, disprezzarono le sue parole e schernirono i suoi profeti al punto che l’ira del Signore contro il suo popolo raggiunse il culmine, senza più rimedio”.

Altro episodio che possiamo ricordare è in Matteo 23.29-35 quando Gesù ricorda che lo stesso odio contro i messaggeri di Dio viveva ancora nel cuore dei rettori del popolo del suo tempo: “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che costruite le tombe dei profeti e adornate i sepolcri dei giusti, e dite: «Se fossimo vissuti al tempo dei nostri padri, non saremmo loro complici nel versare il sangue dei profeti». Così testimoniate contro voi stessi, di essere figli di chi uccise i profeti. Ebbene, voi colmate la misura dei vostri padri. Serpenti, razza di vipere, come potrete sfuggire alla condanna della Geenna? Perciò ecco, io mando o voi i profeti, sapienti e scrivi: di questi, alcuni li ucciderete  – Stefano, ad esempio – e crocifiggerete, altri li flagellerete nelle vostre sinagoghe e li perseguiterete di città in città; perché ricada su di voi tutto il sangue innocente versato sulla terra, dal sangue di Abele il giusto fino al sangue di Zaccaria, figlio di Barachia – o Gioiadà – che avete ucciso tra il santuario e l’altare. In verità vi dico: tutte queste cose ricadranno su questa generazione”.

Il sacrificio di Gesù il Cristo, sarebbe stato di liberazione e santificazione per pochi, di condanna senza possibilità di appello per molti. Amen.

* * * * *

14.02 – COLORO CHE SI SALVANO II/II (Luca 13.26-30)

13.19 – Quelli che si salvano II/II (Luca 13.26-30) 

 

26Allora comincerete a dire: «Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze». 27Ma egli vi dichiarerà: «Voi, non so di dove siete. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia!». 28Là ci sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio, voi invece cacciati fuori. 29Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. 30Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi».

 

            Il verso 26 esprime una prima reazione alla risposta “Non so di dove siete” (che verrà ripetuta due volte). Anche qui il Padrone di casa viene trattato dagli esclusi come uno smemorato e un ingrato stante il fatto che disconosceva la relazione di familiarità intercorsa un tempo tra di loro: fanno riferimento all’aver “mangiato e bevuto alla tua presenza” e al fatto che Lui avesse “insegnato nelle nostre piazze”, privilegi di fronte ai quali non avevano però saputo trarre alcun vantaggio spirituale. Di quel mangiare e bere e di quell’insegnamento era rimasto il ricordo formale, ma non l’immedesimazione, il partecipare, la vera appartenenza. E anche qui ci ricolleghiamo al sermone sul monte: “Non chiunque mi dice: «Signore, Signore» entrerà nel regno dei cieli, ma chiunque fa la volontà del padre mio che è nei cieli. In quel giorno molti mi diranno: «Signore, Signore, non abbiamo noi forse profetato nel tuo nome? E nel tuo nome non abbiamo forse scacciato demòni? E nel tuo nome non abbiamo forse compiuto molti prodigi?». Ma allora io dichiarerò loro: «Non vi ho mai conosciuti. Allontanatevi da me, voi che operate l’iniquità»” (Matteo 7.21-23).

Da queste ultime parole, che vanno ad ampliare quelle su cui stiamo meditando e viceversa, vediamo un fatto nuovo e cioè che la categoria di persone che vuole entrare nel regno è differente dalla quella riportata da Luca: in Matteo abbiamo “profetato nel tuo nome”, cioè predicato, parlato di Lui e operato apparentemente per il bene, “scacciato demòni” e “compiuto molti prodigi” a conferma del fatto che il miracolo non sempre è detto che provenga da Dio, ma sia qualcosa di ambivalente nel senso che può attrarre un’anima alla vera fede, o distoglierla. E questa è una prima interpretazione; in realtà, l’ ”abbiamo”, è riferito alla storia di tutto il popolo di cui quei richiedenti si appropriano in quanto a lui appartenenti. Per quanto riguarda i miracoli, invece, a parte che molti furono quelli di cui Israele fu protagonista nella sua storia, credo che sia molto semplice stabilire se un discorrere di Dio o qualsiasi altra manifestazione provenga da Lui o dall’Avversario: basta vedere dove o a chi essa porta, se a Cristo oppure no, è sufficiente non limitarsi al vivere secondo una coscienza cristiana generica, ma a crescere nella dottrina, fondamentale per orientare le scelte della persona per non subire gli effetti di un pressapochismo sempre pericoloso perché, il più delle volte, si affida al semplice, immediato sentimentalismo.

Aprendo una brevissima parentesi, proprio il Vangelo, paradossalmente, si presta ad interpretazioni facili perché non si pensa che le parole di Gesù furono pronunciate stante la necessità di fornire un insegnamento essenziale ai presenti e sarà solo più avanti che gli apostoli, costituita la Chiesa, forniranno istruzioni dettagliate perché quelle fossero comprese ed inquadrate nella giusta misura. Viceversa Pietro, Giovanni, Giacomo, Giuda e Paolo non avrebbero scritto nulla. Senza dottrina non si cresce, non si va da nessuna parte, non è possibile praticare né tantomeno insegnare la Parola, leggere correttamente gli avvenimenti che riguardano noi o altri.

Vagliare gli spiriti, poi, è qualcosa che siamo chiamati a fare quotidianamente, per non cadere vittima di falsi “amici” o “fratelli”, come scrive l’apostolo Giovanni nella sua prima lettera: “Carissimi, non crediate a ogni spirito, ma provate gli spiriti per sapere se sono da Dio, perché molti falsi profeti sono sorti nel mondo. Da questo conoscete lo Spirito di Dio: ogni spirito, il quale riconosce pubblicamente che Gesù Cristo è venuto nella carne, è da Dio; e ogni spirito che non riconosce pubblicamente Gesù, non è da Dio, ma è lo spirito dell’anticristo. Voi avete sentito che deve venire; e ora è già nel mondo” (4.1-6). Sono parole terribili se pensiamo al pressapochismo con il quale a volte valutiamo le persone che hanno a che fare con noi. Ecco perché, nelle nostre relazioni con il prossimo non credente e soprattutto non convertito nei fatti, non dovremmo mai lasciare che, al di là della cordialità e disponibilità comunque dovuta, questa persona diventi dominante su di noi finendo per condizionare le nostre scelte e la nostra vita.

 

Ora, concludendo il verso 26, è facile identificare nei postulanti gli ebrei non cristiani che ipocritamente, trovandosi la porta chiusa, ricorrono alla loro appartenenza formale al Popolo di Dio, mentre quelli di Matteo 7 sono da individuarsi anche nella Chiesa nominale, quella sterile, che sprona alla superstizione, che mira alle masse per scopi diversi dalla salvezza e dalla predicazione del Vangelo, che parla di bontà, pace, fratellanza e solidarietà lasciando accuratamente Cristo fuori da qualsiasi discorso, anteponendo a Lui le opere proprio come abbiamo letto. Infatti, non esiste anima salvata che non conosca Cristo Gesù e viceversa perché “Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me; così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore” (Giovanni 10.14). Questo citando il primo verso che mi viene in mente e sul quale ciascuno può fare i propri, ulteriori collegamenti, precisando che il perdóno, il risollevamento dell’uomo dalla propria condizione umiliante non era certo sconosciuto ai tempi di Gesù, perché “Beato l’uomo a cui è tolta la colpa e coperto il peccato. Beato l’uomo a cui Dio non imputa il delitto e nel cui spirito non è inganno. (…) Ti ho fatto conoscere il mio peccato, non ho coperto la mia colpa. Ho detto: «Confesserò al Signore le mie iniquità» e tu hai tolto la mia colpa e il mio peccato” (Salmo 32. 1-5).

Facendo un breve inciso, vediamo da questo verso che esisteva comunque un rapporto di conoscenza fra YHWH e il suo popolo ma questo, salvo rari casi, non era reciproco né lo poteva essere per l’assenza di un mediatore che sarebbe venuto dopo nella persona di Nostro Signore che avrebbe portato un’identificazione tra Lui e la creatura.

 

Ebbene, abbiamo al verso 27 il secondo disconoscimento del padrone di casa, al quale vengono aggiunte le stesse parole di Matteo, “Allontanatevi da me, voi tutti operatori d’ingiustizia”, fatto che Gesù aveva avvertito che si sarebbe verificato quando disse “Chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli” (Matteo 10.32).

“Operatori d’ingiustizia” in contrapposizione a quelli “di pace, perché saranno chiamati figli di Dio” (Matteo 5.9): quindi la “pace” cui allude Nostro Signore non è quella tra uomo e uomo, ma tra uomo e Dio, indispensabile a costruire il rapporto con Lui (e con fratelli e sorelle) altrimenti perduto col peccato dei nostri progenitori. Infatti, “Giustificati dunque per fede, abbiamo pace con Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore” (Romani 5.1).

La confusione che regna al di fuori di questa regola è enorme e, lasciando scadere la genuinità del principio, lascia il campo aperto a dottrine diverse che portano alla sterilità e alla futura estromissione perché altro non fanno che ampliare l’ingiustizia, la sola che regna nel cuore dell’uomo non rigenerato. Ha scritto Papa Ratzinger: “Per entrare nella giustizia è necessario uscire dall’illusione di autosufficienza, dallo stato profondo di chiusura che caratterizza l’uomo irrigenerato e che è l’origine stessa dell’ingiustizia”.

In opposizione a questo sistema perverso abbiamo la Giustizia di Gesù, che viene dalla Grazia, “Il fatto che l’espiazione avvenga nel sangue di Gesù significa che non sono i sacrifici dell’uomo a liberarlo dal peso delle colpe, ma il gesto dell’amore di Dio che si apre fino all’estremo, fino a far passare in sé la maledizione che spetta all’uomo, per trasmettergli in cambio la benedizione che spetta a Dio”. Infatti “Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della Legge, diventando lui stesso maledizione per noi” (Galati 3.13).

Ecco cosa significa essere “operatori di ingiustizia”: rifiutare l’amore di Dio e ciò che Lui si aspetta dall’uomo perché, agendo così, si rimane vittima della propria condizione umana, si resta unicamente carne, si cresce e si muore senza alcuna prospettiva, si rimane nell’ingiustizia e se ne diventa “operatori”.

Ma c’è di più, perché tutto torna indietro nel senso che viene rispedito al mittente visto nel “pianto e stridore di denti” come reazione a due eventi correlati, cioè il vedere “Abrahamo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio, voi invece cacciati fuori” (v.28): Gesù cita le persone che hanno costruito il Suo Popolo, Abrahamo cui venne fatta la Promessa, Isacco che la rese tangibile, Giacobbe cui fu detto “Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto” (Genesi 32.29). Poi i profeti, tramiti di YHWH per rivelare il Suo volere e piani al popolo.

Siccome però tutto è stato fatto in vista della venuta del Cristo, rifiutato da quelli rimasti fuori dalla porta, il “pianto e stridore di denti” è l’unica reazione possibile una volta compresa l’irrimediabilità della situazione e aver preso coscienza che sì, le cose avrebbero potuto essere diverse qualora si fosse accettato Gesù nel cuore.

Abbiamo allora il pianto per ciò che si è perduto e nello stridore la rabbia per non avere approfittato dell’occasione di salvarsi oltre all’invidia per quelli che sono stati accolti. Il loro sarà un assistere impotenti alla mensa del Signore i cui invitati, accolti e degni, verranno da ogni dove, dai quattro punti cardinali in cui vediamo la totalità delle genti senza distinzione di razza e posizione sociale.

Il sedere “a tavola nel regno di Dio” ha riferimento al banchetto nuziale, quando finalmente i credenti saranno riuniti al loro Redentore e non esisterà nient’altro che il piano di Dio finalmente concretato in tutti i suoi punti. Un banchetto in cui ognuno avrà il suo posto e in cui Gesù dice che sarà lui stesso a servire, come abbiamo letto recentemente nel finale della parabola dei servitori vigilanti: “Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli” (Luca 12.37).

Infine abbiamo il verso 30, divenuto proverbiale anche nel mondo, espresso più volte da Gesù che allude fondamentalmente alla perfetta conoscenza che ha del cuore di ognuno e di giudizio al di là delle apparenze. La frase la esprimerà a conclusione della trattazione sul discepolato, “Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli per il mio nome, riceverà ceto volte tanto e avrà in eredità la vita eterna. Molti dei primi saranno ultimi e molti degli ultimi saranno i primi” (Matteo 19.29,30; Marco 10.31).

Attenzione al “lasciare” che non ha nulla a che vedere con l’abbandono come purtroppo interpretato dalla maggioranza, ma è semplicemente uno spostamento affettivo come per Genesi 2.24: “L’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua moglie e insieme saranno una sola carne”.

Un’altra volta la distinzione ultimi-primi la troviamo alla fine della parabola degli operai delle diverse ore al capitolo 20 dello stesso Vangelo e in tutti i casi, comunque, si tratta di un avvertimento/invito a non adattarsi alle apparenze, all’esteriorità tanto da parte di chi fa distinzione fra “primo” e “ultimo” quando di chi invece si adopera per figurare tra i “primi” o gli “ultimi” per un proprio tornaconto personale.

Credo però che nel caso di specie Gesù, parlando a degli israeliti, voglia far riferimento ai capi religiosi che aspiravano “ai primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti” (Marco 12.39), “i primi posti nelle sinagoghe e i saluti sulle piazze” (Luca 11.43) e, per riflesso, anche a tutti coloro che, nel campo cristiano, agiscono per lo stesso tornaconto personale.

Per concludere, credo che la risposta di Gesù all’anonimo che gli chiese se fossero “pochi coloro che si salvano” sia di una consolazione unica da un lato, ma di una massima drammaticità dall’altro perché l’uomo abituato a pensare che vi siano rimedi e scappatoie per ogni cosa, o che fino ad allora era stato indifferente a qualsiasi richiamo alla conversione, alla fine si troverà nella condizione di non poter tornare indietro da un’esclusione che avrà scelto, responsabilmente, lui stesso. Amen.

* * * * *

14.01 – COLORO CHE SI SALVANO I/II (Luca 13.22-25)

14.01 – Coloro che si salvano I/II (Luca 13.22-25)      

 

22Passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme. 23Un tale gli chiese: «Signore, sono pochi quelli che si salvano?». Disse loro: 24«Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno. 25Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: «Signore, aprici!». Ma egli vi risponderà: «Non so di dove siete».

 

            Poco dopo la festa della Dedicazione, sappiamo da Giovanni che Gesù si recò nella Perea (10.40-42), nei territori in cui Giovanni Battista aveva svolto il suo ministero. Riprende così l’ultimo viaggio di Gesù prima di tornare a Gerusalemme, anche qui, per l’ultima volta.

Il tema della “porta stretta” fu uno dei primi sviluppati da Nostro Signore e lo abbiamo incontrato nel sermone sul monte quando Matteo così lo condensò: “Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione e pochi sono quelli che vi entrano. Quanto stretta è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e pochi sono quelli che la trovano!” (7.13,14). Se però nel passo di Matteo ci troviamo di fronte a un messaggio universale, pronunciato davanti alla folla venuta per ascoltare, qui abbiamo una risposta (quasi) individuale a fronte di una specifica domanda, oltre ad un panorama più ampio rispetto a quello dato sul monte.

Lasciato il verso 22, che ci parla di quanto siano stati numerosi gli eventi di cui i Dodici furono testimoni e di cui non hanno scritto, troviamo questo “tale” che, per la domanda rivoltagli e alcuni particolari della risposta, non era una persona del popolo, ma un cólto che, udito Gesù parlare, aveva fatto un collegamento con quanto esposto nel IV libro di Esdra, risalente al V secolo a.C. detto anche «Apocalisse di Esdra», in cui si legge che “L’Altissimo ha fatto questa età per molti, ma quella futura per pochi” (8.1), “Molti sono quelli che sono stati creati, ma pochi coloro che si salveranno” (v.3), “Tu non essere curioso sul modo con cui gli empi verranno tormentati, ma chiedi di come saranno salvati i giusti, e di chi sarà il mondo e per chi” (9.15).

Ricordiamo, a parte Matteo 7.13,14, anche il principio secondo cui “Molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti” (20.16), senza contare le numerose parabole che parlano di premio per i servi fedeli e di castigo per gli infedeli, come le ultime su cui abbiamo riflettuto ed altre ancora da sviluppare.

 

Al verso 24 notiamo che alla domanda di un singolo corrisponde una risposta data a molti – “Disse loro” – ed occupa quattro spazi precisi divisi in blocchi di due: “Sforzatevi di entrare per la porta stretta” è il primo e contiene un preciso invito ad agire verso qualcosa, appunto la porta che, in una riflessione precedente, abbiamo individuato come primo riferimento nella “cruna dell’ago” perché tutti noi la connettiamo con la parabola del “cammello”, ma poteva essere anche quella porticina che, nei palazzi dei potenti, serviva anche a far passare gli invitati alle feste per essere sicuri che non entrassero estranei. In pratica, i servi posti all’ingresso verificavano l’identità dei convenuti che si presentavano lì col vestito che il padrone aveva spedito loro precedentemente.

Il verbo utilizzato per “sforzatevi” è “agonìzomai” che ha tra i suoi significati “gareggiare, lottare, combattere, contendere” non solo a livello strettamente fisico, ma anche teorico, come nel caso del dibattere una questione in pubblico o all’impegno per difendersi in un processo. Si tratta comunque di uno sforzo che ben conosceva l’apostolo Paolo che, scrivendo ai Corinti, parla proprio delle fatiche sostenute per il Vangelo: “Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno. Tutto io faccio per il Vangelo, per diventare partecipe con loro. Non sapete che nelle corse allo stadio tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo! Però ogni atleta è temperante in tutto; essi lo fanno per ottenere una corona corruttibile, noi invece incorruttibile. Io dunque corro, ma non come chi è senza meta; faccio il pugilato, ma non come chi batte l’aria, anzi tratto duramente il mio corpo e lo trascino in schiavitù perché non succeda che, dopo aver predicato agli altri, non venga squalificato” (1a, 9.22-27).

Queste parole, che vanno oltre l’insegnamento specifico di Gesù, rivelano quale sia il senso del combattimento e dello sforzo cristiano e quell’ “uno solo” certo non si riferisce al fatto che sarà salvata una sola persona per l’impegno che ha messo, ma è un richiamo a non dare la salvezza per scontata, cioè garantita a prescindere da ciò che facciamo e pensiamo. Poi, parte difficile, al non guardare alla condotta degli altri perché ciascuno deve agire vigilando su se stesso, facendo attenzione a non appartenere alla categoria di quelli che, con la trave nell’occhio, desiderano togliere la pagliuzza da quello degli altri. Di fronte alla necessità di dare un consiglio o un’esortazione, infatti, dobbiamo sempre chiederci se abbiamo il diritto di esprimerlo/a verificando la nostra condotta in proposito.

Lo “sforzatevi” di Gesù implica quindi, sotto l’aspetto del verbo, un totale coinvolgimento del corpo e della mente perché si tratta, certo non da soli ma con l’aiuto dello Spirito Santo, di “gettare via tutte queste cose: ira, animosità, cattiveria, insulti e discorsi osceni che escono dalla vostra bocca. Non dite menzogne gli uni agli altri: vi siete svestiti dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova per una piena conoscenza, ad immagine di Colui che lo ha creato” (Colossesi 3.9,10). Se allora l’uomo vecchio è stato “svestito”, certo non senza “sforzo”, allora va da sé che non saremo, né potremo essere, quelli di prima.

 

Dobbiamo chiederci però, nonostante la correttezza di queste applicazioni, se fosse quello il messaggio di Gesù ai presenti, e la risposta è negativa: se mai quanto letto, coi riferimenti che abbiamo proposto, vale oggi per noi, cioè i versi citati saranno del tutto attuali e veri in un contesto differente, quello della Chiesa che, quando Nostro Signore parlava, non era ancora nata. Lo sforzo cui Gesù allude sì a un combattimento interno ed esterno ma, ancora una volta, contro la religione e il cuore umano indurito, contro le facili scappatoie che da sempre essi propongono, sempre pronti a giustificare e quindi dare una falsa innocenza perché, purtroppo, per ogni crimine esiste sempre una giustificazione, per quanto aberrante essa sia. È il famoso falso buonismo, che purtroppo si è ormai diffuso anche nel cristianesimo, dove la pietà non è più per le vittime, ma per gli autori dei crimini, dove gli aiuti vengono dati ad alcuni a discapito di altri, dove si cerca una solidarietà sociale in realtà totalmente svuotata d’amore e soprattutto giustizia.

Quindi, nel “Regno dei Cieli” entrano tutti coloro che vanno contro corrente, che combattono per far tacere “l’uomo vecchio”, rifiutano la facile filosofia del mondo per incamminarsi per un sentiero diverso. Infatti “Dai giorni di Giovanni Battista fino ad ora, il regno dei cieli subisce violenza e i violenti se ne impadroniscono” (Matteo 11.12), certo non quelli della terra.

 

Venendo ora alla seconda parte del verso 24, “Molti cercheranno di entrare, ma non vi riusciranno”, è un passaggio che suggerisce l’idea di una calca, di confusione e disordine, tutte cose che si contrappongono in antitesi a Dio che non è “un Dio di confusione, ma di ordine” (1 Corinti 14.33), tradotto da altri anche con “pace”.

Altro punto importante è poi la differenza tra lo “Sforzatevi”, che abbiamo sviluppato brevemente,  e il “cercheranno”, verbo “Zetéo” che, se confrontato col precedente, può avere gli stessi significati, ma in modo più blando: abbiamo infatti “andare in cerca di qualcosa, investigare, cercare di ottenere, bramare, chiedere, sentire desiderio di qualcosa”. Nello “sforzarsi” c’è tutta una volontà sostenuta dal voler raggiungere a tutti costi un obiettivo, nel “cercare” c’è un “tendere a” più generico, direi poco convinto. Guardando al tempo in cui visse Gesù, pensiamo a quelli che avevano accolto l’invito di Giovanni Battista “Ravvedetevi perché il Regno dei Cieli è vicino” facendosi battezzare, confessando i loro peccati – e qui abbiamo lo “Sforzatevi” – e quanti invece erano lì, testimoni non coinvolti, tranquilli e convinti di aver già trovato nella Legge e nei loro riti e tradizioni il senso della loro esistenza. Chi non si lasciava coinvolgere dalla conversione o dal pentimento rientrava comunque in quelli che “cercheranno”: infatti avevano tutta la loro cerimonialità in cui rifugiarsi. Avevano preghiere ad orari fissi, abluzioni, letture, frequentavano la Sinagoga e, quando potevano se non distanti da Gerusalemme, il Tempio. Anche queste manifestazioni, per quanto in modo differente e al tempo stesso così simile, le abbiamo nel cristianesimo che ha standardizzato comportamenti, preghiere e funzioni svuotandole completamente di significato. O, meglio, questo c’è, ma rimane occultato da un incedere monotono, da una recitazione sterile che rende molto difficile in cambiamento interiore, la rivoluzione cristiana. E così tutto resta come prima, come sempre, nulla cambia.

Lo “sforzo” allora, è appunto lo spogliarsi dell’uomo vecchio, quello che da sempre rivendica un Ego che non può né deve avere perché, se presente, lo fa dipendere come uno schiavo da tutto ciò che possiede senza essere mai in grado di dire “basta”, come nella parabola di Proverbi 30.15,16 sulle “Tre cose che non si saziano mai, anzi quattro non dicono mai «Basta!»: gli inferi, il grembo sterile, la terra mai sazia d’acqua e il fuoco”.

Come in molti insegnamenti di Gesù, però, c’è una scadenza, qui vista nel “padrone di casa” che “si alzerà e chiuderà la porta” (v. 25), immagine che non lascia adito a dubbi sul fatto che si tratta di un gesto cui le persone di fuori non possono porre più alcun rimedio. In proposito possiamo fare la connessione con Apocalisse 3.7, “Colui che ha la chiave di Davide: quando egli apre, nessuno chiude, e quando chiude nessuno apre”, o “può aprire” secondo altre traduzioni.

A questo punto dobbiamo necessariamente pensare a quelli che restano fuori dalla porta che, dai versi che seguono il nostro passo, sono convinti in un primo momento di essere stati esclusi per una sorta di errore, avendo dato al “Signore” una confidenza che non spettava loro instaurare. Solo per il fatto che avessero “Mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze”, come vedremo, ritenevano di aver diritto ad entrare. E qui vediamo quanto sia mirato il messaggio di Gesù, proprio agli israeliti che ritenevano l’appartenenza al popolo di Dio come qualcosa di acquisto, di automatico e che fosse sufficiente comportarsi così come avveniva da sempre. Del resto, non erano tutti figli di Abrahamo?

Giungiamo così alla fine di questa prima parte, con “Signore, aprici!”, che denota tutta la presunzione dei richiedenti: lo accusano di impazienza, di aver chiuso la porta troppo presto quindi, secondo loro, doveva tornare sui suoi passi perché si era sbagliato. Invece l’essere umano, procrastinatore per natura, che vorrebbe ogni cosa fatta a sua misura come ricordo dell’Eden perduto, non accetta l’idea che quando una cosa è trascorsa, passata, lo è per sempre. Così, in questo caso, lo è per la porta chiusa alla quale i personaggi della parabola bussano, ma il tempo del “bussate e vi sarà aperto”, che resta valido fino a quando proprio il Creatore e Signore di ogni cosa, visibile e invisibile, non ne decreta la fine, è qui concluso. E di tale avvenimento ne aveva ampiamente parlato.

Un fratello ha fatto notare che il passaggio tra il “cercare” e lo “sforzatevi”, nelle persone rimaste fuori, si verifica proprio nel momento in cui la porta viene chiusa: “quando poi quelli che per tutto quel tempo si erano pigramente cullati con l’idea che ci sarebbe sempre stato tempo per entrare, si trovano l’uscio chiuso e la loro energia si risveglia”.

Ultima nota può essere fatta sulla risposta del padrone, “Non so di dove siete”, cioè da dove venite: se quelle persone sono ebree, li dichiara completamente fuori dalla fede e dalla pietà di Abrahamo; se sono cristiani, allora si identificano in quelli rigettati in quanto tiepidi secondo Apocalisse 3. 15,16 che ogni tanto ricordo. Anche qui, abbiamo il cristianesimo di nome e non di fatto. Quello che allontana, inconcludente ed ipocrita, da Lui. Amen.

* * * * *

13.29 – TU, CHE SEI UOMO, TI FAI DIO (Giovanni 10.31-42)

13.29 – Tu, che sei uomo, ti fai Dio (Giovanni 10.31-42) 

 

31Di nuovo i Giudei raccolsero delle pietre per lapidarlo. 32Gesù disse loro: «Vi ho fatto vedere molte opere buone da parte del Padre: per quale di esse volete lapidarmi?». 33Gli risposero i Giudei: «Non ti lapidiamo per un’opera buona, ma per una bestemmia: perché tu, che sei uomo, ti fai Dio». 34Disse loro Gesù: «Non è forse scritto nella vostra Legge: Io ho detto: voi siete dèi? 35Ora, se essa ha chiamato dèi coloro ai quali fu rivolta la parola di Dio – e la Scrittura non può essere annullata -, 36a colui che il Padre ha consacrato e mandato nel mondo voi dite: «Tu bestemmi», perché ho detto: «Sono Figlio di Dio»? 37Se non compio le opere del Padre mio, non credetemi; 38ma se le compio, anche se non credete a me, credete alle opere, perché sappiate e conosciate che il Padre è in me, e io nel Padre». 39Allora cercarono nuovamente di catturarlo, ma egli sfuggì dalle loro mani.

 

            Il “Di nuovo” iniziale si raccorda concettualmente a 8.59 quando Gesù, una volta che disse “Prima che Abrahamo fosse, io sono”, subì un tentativo di lapidazione da parte degli stessi oppositori che compaiono in questo episodio, che “Allora raccolsero delle pietre per gettarle contro di lui, ma Gesù si nascose e uscì dal tempio”.

Soffermiamoci allora su questa reazione, ancora una volta dovuta alla comprensione parziale del Suo messaggio: se allora i Giudei furono pronti a recepire il senso dell’ ”Io sono”, fanno altrettanto con le parole “Io e il Padre siamo una cosa sola”, ignorando totalmente tutti gli altri elementi che erano stati presentati alla loro attenzione. Infatti leggiamo al verso 32 “Vi ho fatte vedere molte opere buone da parte del Padre: per quale di esse volete lapidarmi?”; le “opere buone”, greco kalà èrga cioè opere moralmente belle, nobili, eccellenti, non erano solo i Suoi miracoli, ma tutte quelle opere che dimostravano la benignità di Dio e che l’apostolo Pietro, parlando in casa del centurione Cornelio, riassunse con queste parole: “Voi sapete ciò che è accaduto in tutta la Giudea, cominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni; cioè come Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazaret, il quale passò beneficiando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui” (Atti 10.37,38). Abbiamo allora nelle parole di Pietro un doppio riferimento: da un lato la guarigione dalle malattie del corpo, dall’altro il risanare “tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo”, quindi dell’Avversario che non poté far nulla nel momento in cui le anime di costoro furono strappate dal suo dominio.

Tra l’altro, se Dio non avesse consacrato “in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazararet”, egli non avrebbe certo potuto fare alcunché, sarebbe cioè stato un singolare filosofo, un predicatore morale come tanti, ma senza lo Spirito Santo non avremmo avuto un solo miracolo; al contrario, dal primo – per quanto ne sappiamo – delle nozze di Cana alla Sua resurrezione e ascensione al cielo, abbiamo tutta una serie di attestazioni a riprova delle Sue frasi relative all’identificazione col Padre, compresa quella che abbiamo letto oggi, “Io e il Padre siamo una cosa sola”.

Prestiamo ora attenzione alla risposta dei Giudei alla domanda di Gesù “per quale di esse – opere buone come visto poco sopra – volete lapidarmi?”: “Non ti lapidiamo per un’opera buona, ma per una bestemmia: perché tu, che sei uomo, ti fai Dio” (v.33). Ora è singolare che quei Giudei fossero tutti unanimi nel ritenere Gesù un uomo, ma al tempo stesso il loro stesso sguardo era atrocemente chiuso di fronte alle opere che faceva, impossibili ad una persona comune per cui, definendolo esclusivamente “uomo”, cioè separandolo dal Suo essere Dio, a bestemmiare erano proprio loro.

Altra riflessione può essere fatta sulla bestemmia, reato previsto da Levitico 24.13-16 che i Giudei volevano accollare a Nostro Signore: “Il Signore parlò a Mosè dicendo: «Conduci quel bestemmiatore fuori dell’accampamento; quanti lo hanno udito posino le mani sul suo capo e tutta la comunità lo lapiderà». Parla agli israeliti dicendo: «Chiunque maledirà il suo Dio, porterà il peso del suo peccato. Chi bestemmia il nome del Signore dovrà essere messo a morte: tutta la comunità lo dovrà lapidare. Straniero o nativo della terra, se ha bestemmiato il Nome, sarà messo a morte”. Queste parole uscirono dal Signore perché, a seguito di una lite sorta fra un egiziano e un israelita, quest’ultimo “bestemmiò il Nome, imprecando”.

Ora confrontiamo la bestemmia intesa come imprecazione a Dio e un’altra, ben più grave, che è contro lo Spirito Santo, perché proprio Gesù disse in proposito “Qualunque peccato e bestemmia verrà perdonata agli uomini, ma la bestemmia contro lo Spirito Santo non verrà perdonata” (Matteo 12.31): la bestemmia contro lo Spirito Santo consiste nel rifiuto della Verità per essere salvati impedendo al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo di agire. Riconoscendo Gesù solo come “uomo” escludendo che potesse essere qualcosa di più nonostante le manifestazioni da Lui prodotte, ecco che quei Giudei mettevano in pratica la “bestemmia” che “non verrà perdonata”.

Riconoscere Gesù come “il Cristo, il Figlio dell’Iddio vivente” implica la realizzazione della Sua promessa in Matteo 10.32: “Chi mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli”; invece si può sostenere che limitarsi ad accettare Gesù come personaggio storico, uomo saggio o semplice profeta conservando quest’opinione fino alla fine, equivale a mettere in atto la bestemmia contro lo Spirito Santo, che poi è il resistere alla Sua opera ignorandola deliberatamente. Marco 3.28 aggiunge in proposito che “chi avrà bestemmiato contro lo Spirito Santo non sarà perdonato in eterno: è reo di colpa eterna”.

Confrontando le parole dei Giudei con quelle di Pietro, che riconobbe in Gesù “Il Cristo, il figlio del Dio vivente”, vediamo una definizione perfetta; una lode e benedizione migliore non era possibile ed infatti “Tu sei beato Simone, figlio di Giona, perché né la carne né il sangue ti hanno rivelato questo, ma il Padre mio che è nei cieli” (Matteo 16.17). In quell’occasione Pietro, dal carattere irruento, energico, pronto agli interventi drastici e risolutori, rinunciò ad ascoltare se stesso e permise al Padre di parlargli, al contrario di quanto avverrà più avanti, quando negherà di conoscere il suo Maestro, rinnegandolo.

 

A questo punto, tornando al nostro episodio, abbiamo la riposta di Nostro Signore al verso  34 che chiama in causa la “vostra Legge”, riferendosi alle Scritture dell’Antico Patto, in particolare Salmo 82.6 quando, parlando ai giudici e magistrati d’Israele, Dio aveva detto “Voi siete dèi, siete tutti figli dell’altissimo, ma certo morirete come ogni uomo, cadrete come tutti i potenti”. È interessante notare poi che in Esodo 21.6 e 22.8 viene usato, per indicare queste persone, l’Ebraico Elohim e Adonai. Quindi “dèi” in quanto rappresentanti di Dio sulla terra che verranno comunque da Lui vagliati e soggetti a morire “come ogni uomo”.

E qui la realtà che ci si pone innanzi si fa “pesante”: anche coloro che stavano giudicando Gesù reo di bestemmia perché, “essendo uomo”, si faceva “uguale a Dio” erano “dèi” nei senso che ricoprivano una funzione elevata presso il popolo; erano responsabili della sua istruzione, conduzione e del giudicare al posto loro. Capiamo? Avrebbero conosciuto il Giudizio in quanto, come “dèi” andavano contro a Colui che li aveva ordinati in tal senso.

Possiamo ampliare questo concetto anche a tutte le epoche e non solo per quanto riguarda l’àmbito di chi è chiamato a gestire la Parola di Dio in base al dono ricevuto: ricordando Romani 13.1, “Ciascuno sia sottomesso alle autorità costituite. Infatti non c’è autorità se non da Dio: quelle che esistono sono stabilite da Dio”, vediamo che è Lui che le ha volute, ma sta poi a chi esercita il potere restare fedele alla Costituzione e alle leggi di uno Stato oppure no. Certo ci troviamo di fronte a un tema che andrebbe sviluppato e che qui mi limito ad accennare unicamente come riferimento.

Al verso 35 abbiamo quindi la domanda al riguardo: la stessa Scrittura chiama “dèi” degli uomini perché hanno ricevuto da Dio l’incarico di amministrare la giustizia (e non solo): se quindi chiama “dèi” uomini comunque peccatori come gli altri, che si dovrebbe dire di Lui, quando al Suo battesimo fu udita la voce “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento”? (Matteo 3.17).

Altra ragione di riflessione la individuiamo nella pericope “la Scrittura non può essere annullata”, che va oltre al semplice fatto che essa non può che dire il vero e non contraddirsi: è anche un riferimento a tutto ciò che il Padre ha stabilito e comunicato agli uomini attraverso i profeti, per cui tutte le tappe del percorso di redenzione per quanti Lo avrebbero accolto e perdizione per tutti gli altri; nel nostro caso ricordiamo Giovanni 12.37-41: “Sebbene avesse compiuto segni così grandi davanti a loro, non credevano in lui, perché si compisse la parola della dal profeta Isaia: »Signore, chi ha creduto alla nostra parola? E la forza del Signore, a chi è stata rivelata?». Per questo non potevano credere, poiché ancora Isaia disse: «Ha reso ciechi i loro occhi e duro il loro cuore, perché non vedano con gli occhi e non comprendano con il cuore e non si convertano e io li guarisca!». Questo disse Isaia perché vide la sua gloria e parlò di lui. Tuttavia, anche fra i capi, molti credettero in lui, ma a causa del farisei, non lo dichiaravano, per non essere espulsi dalla sinagoga; Amavano infatti la gloria degli uomini più che la gloria di Dio”.

Ricordiamo anche il “Tutto è compiuto” di Gesù quale dichiarazione che tutto ciò che la Scrittura aveva detto di Lui era stato adempiuto: “Dopo questo, sapendo che ormai tutto era compiuto, affinché si compisse la Scrittura, disse: «Ho sete». Vi era lì un vaso pieno di aceto; posero perciò una spugna, imbevuta di aceto, in cima a una canna e gliela accostarono alla bocca. Dopo aver preso l’aceto,  Gesù disse: «È compiuto!». E, chinato il capo, consegnò lo spirito”.

Ora, proprio perché tutto il suo esistere umano fosse riconoscibile fin nello “iota”, citiamo Salmo 69.22, “Mi hanno messo veleno nel cibo e quando avevo sete mi hanno dato aceto” (Salmo 69.22. Ecco perché “la Scrittura non può essere annullata”.

L’ultimo messaggio di Gesù ai suoi oppositori è chiaro perché li mette nella condizione di capire che non avevano motivo per non credere se non per puro rifiuto alla Parola: “Se non compio le opere del Padre mio – quindi se sono un impostore privo di qualsiasi autorità – non credetemi; ma se le compio, anche se non credete a me, credete alle mie opere – non solo ai miracoli – perché sappiate e conosciate che il Padre è in me, e io nel Padre”.

Niente di più logico. E infatti saranno altri, obiettivamente, a constatare quanto Gesù disse: il racconto del capitolo 10, dopo la Sua mancata lapidazione, prosegue con queste parole.

 

“Ritornò quindi nuovamente al di là del Giordano, nel luogo dove prima Giovanni battezzava, e qui rimase. Molti andarono da lui e dicevano: «Giovanni non ha compiuto nessun segno, ma tutto quello che Giovanni ha detto di lui era vero». E in quel luogo molti credettero in lui.”

 

Amen.

* * * * *

13.28 – NON FATE PARTE DELLE MIE PECORE (Giovanni 10.23-30)

13.28 – Non fate parte delle mie pecore (Giovanni 10.23-30)       

 

23Gesù camminava nel tempio, nel portico di Salomone. 24Allora i Giudei gli si fecero attorno e gli dicevano: «Fino a quando ci terrai nell’incertezza? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente». 25Gesù rispose loro: «Ve l’ho detto, e non credete; le opere che io compio nel nome del Padre mio, queste danno testimonianza di me. 26Ma voi non credete perché non fate parte delle mie pecore. 27Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. 28Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. 29Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. 30Io e il Padre siamo una cosa sola».

 

            Dato uno sguardo, inevitabilmente a grandi linee, ciò che stava dietro alla “festa della Dedicazione”, arriviamo ora all’incontro di Lui con “i Giudei”, termine che sappiamo alludere all’autorità religiosa del popolo. Dalla prima parte del verso 24 vediamo prima di tutto che costoro diedero prova di ciò che li animava con “gli si fecero attorno”, cioè lo circondarono, quindi mettendosi a cerchio, con l’intenzione di intimidirlo precludergli qualsiasi possibilità di sottrarsi al confronto. Questo consente anche a un lettore attento, ma privo di conoscenza sulle dinamiche instauratesi fra loro e Gesù negli episodi precedenti, di escludere che la domanda rivolta fosse dettata da un sincero desiderio di conoscenza, celante quasi una supplica affinché fosse rimosso una volta per tutte il germe del dubbio.

Ecco allora che quel “diccelo apertamente”, unito al fatto che Lo avevano circondato, può essere parafrasata in “Di qui non ti muovi fino a quando non ci hai detto chi sei veramente”, cioè “una volta per tutte, senza giri di parole”. E la risposta di Gesù fu indiretta, un’accusa alla loro intelligenza, quindi all’anima e al conseguente spirito che li abitava, che non aveva memoria di quanto già avvenuto, “Ve l’ho detto, e non credete”, riferentesi a dichiarazioni private e pubbliche.

Riguardo a queste ultime, ricordiamo quella dopo la guarigione del paralitico di Betesda, dopo la nota di Giovanni “per questo i Giudei cercavano ancor più di ucciderlo, perché non soltanto violava il sabato – secondo loro –, ma perché si faceva uguale  Dio”: “In verità, in verità io vi dico: il Figlio da se stesso non può fare nulla, se non ciò che vede fare dal Padre; quello che egli fa, lo fa anche il Figlio, gli manifesta tutto quello che fa e gli manifesterà opere ancora più grandi di queste, perché voi ne siate meravigliati. Come il Padre risuscitai morti e dà la vota, così anche il Figlio dà la vita a chi vuole, (…) chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va in contro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita. (…) Viene l’ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce ed usciranno, quanti fecero il bene – credendo – per una risurrezione di vita e quanti fecero il male – vivendo escludendo Dio dalla loro vita – per una risurrezione di condanna” (5.19-30).

Abbiamo poi 7.33,34: “Ancora per poco tempo sono con voi; poi vado da colui che mi ha mandato. Voi mi cercherete e non mi troverete; e dove sono io, voi non potete venire”, che provocò la domanda “Dove sta per andare costui, che noi non potremo trovarlo? Andrà forse da quelli che sono dispersi fra i Greci e insegnerà ai Greci?”. Qui va tenuto presente che Gesù non parla a dei pastori o contadini ignoranti, ma alle guide del popolo che avrebbero dovuto, per la conoscenza che possedevano, capire il senso di quelle parole mentre restarono prigionieri del proprio letteralismo. Potere, ma non volere.

Ancora, ricordiamo quando disse “Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita” (8.12, “Vi ho detto che morirete nei vostri peccati: se infatti non credete che Io Sono, morirete nei vostri peccati. Voi siete di quaggiù, io sono di lassù; voi siete di questo mondo, io non sono di questo mondo” (vv.23,24), “Se Dio fosse vostro padre, mi amereste, perché da Dio sono uscito e vengo; non sono venuto da me stesso, ma lui mi ha mandato” (v. 42).

Allora, se queste parole fossero state analizzate da menti aperte alla Verità, sarebbero state comprese, ma così non fu. E infatti Gesù “apertamente” aveva parlato e, a riprova del fatto che ciò che diceva era diretto al cuore delle persone che lo ascoltavano, ricordiamo quanto dissero quelli mandati ad arrestarlo, “nessuno parlò mai come quest’uomo” (7.46), mettendo in pratica l’invito “chi ha orecchie per ascoltare, ascolti”.

Vediamo però che nella risposta di Gesù non viene chiamata in causa solo la cattiva memoria dei Giudei, che avevano dimenticato le Sue parole né erano stati in grado di fare i debiti collegamenti, ma il loro ostinato negare i fatti, cioè: “le opere che io compio nel nome del Padre mio, queste danno testimonianza di me” e in proposito furono innumerevoli.

Qui allora chiedersi come mai i Giudei non credettero, non si arresero di fronte all’evidenza, è fuori luogo perché Gesù stesso interviene a risolvere il problema: “Voi non credete perché non siete delle mie pecore”, rimandando al suo insegnamento sul “buon pastore” che aveva dato precedentemente, ai versi da 1 a 14 ci abbiamo già esaminato. Non essere delle sue pecore implica, come nella realtà pratica, indifferenza, estraneità al gregge. Una pecora segue solo il pastore cui appartiene, non seguirà mai un altro. Abbiamo, in altri termini, un principio di incompatibilità: ai Giudei, appartenendo ad un altro, era preclusa qualsiasi possibilità di comprensione.

Nell’occasione citata erano stati chiaramente esposti i principi delle pecore che riconoscono la voce del pastore, di cui consapevolmente o inconsapevolmente erano alla ricerca e sapevano di avere bisogno. È interessate la presenza di una piccola aggiunta, presente in altre versioni, che aggiunge a “Voi non credete perché non siete delle mie pecore”, “come vi ho detto”, quindi anche qui si rileva che Gesù non poteva fare alcunché per distoglierli dalla loro incredulità e dai loro cattivi propositi.

E l’apostolo Giovanni, che riporta le Sue parole, le estende anche alla predicazione di ogni discepolo di Gesù: “Voi siete da Dio, figlioli, e avete vinto il mondo. Essi sono del mondo, perciò insegnano cose del mondo e il mondo li ascolta. Noi siamo da Dio: chi conosce Dio ascolta noi; chi non è da Dio non ci ascolta. Da questo noi distinguiamo lo spirito della verità e lo spirito dell’errore” (Ia 4.4-6). Questo spirito, tanto della verità quanto dell’errore, è quello che abita le persone, resta, le rende schiave in un modo o in un altro accompagnandoli e assistendoli fino alla destinazione finale perché tutti gli uomini hanno un cammino, tutti condividono lo stesso spazio sulla terra, ma seguono itinerari profondamente diversi, il loro credere è profondamente opposto, separato da un abisso, lo stesso della parabola del ricco e del povero Lazzaro.

Venendo ora alle caratteristiche delle pecore appartenenti al gregge di Gesù, vediamo che “Ascoltano la mia voce”: dove l’ascolto equivale alla messa in pratica. Si nutrono di essa. L’ascolto è dettato dal desiderio di crescere, dalla volontà di essere condotti, certezza e conferma di vita e appartenenza perché “Io le conosco ed esse mi seguono”. Se guardiamo un gregge, stupisce la naturalezza con la quale questo segue il pastore, coadiuvato dal cani, e ubbidisce. C’è un rapporto reciproco che riguarda la vita tanto degli animali che del pastore. In proposito, nonostante per diverse volte ci siamo soffermati ad esaminare il carattere ed il modo di vivere della pecora, non ho mai accennato alla tosatura, che avviene una volta all’anno e mette al riparo l’animale da malattie e dalla morte perché la crescita del pelo, che non si ferma mai, la porterebbe alla paralisi e quindi al decesso. C’è quindi bisogno dell’intervento del pastore, è una realtà che se viene a mancare porta a conseguenze terribili.

Quindi, con le parole di Gesù, abbiamo una prima parte in cui tre verbi, ascoltare, conoscere e seguire descrivono una prima caratteristica del rapporto intercorrente tra i credenti ed il loro Salvatore.

Vi è poi un secondo livello, spirituale, che li accompagnerà per tutta la vita e con l’apertura di una prospettiva certa per l’eternità, quando i confini-prigioni del corpo e del tempo verranno abbattuti: “Do loro la vita eterna”, dono gratuito che nessun altro potrebbe dare. “Non andranno perdute in eterno”, cioè mai, perché sappiamo che per tutti coloro che non apparterranno al gregge di Dio la “perdizione” sarà qualcosa di concreto quindi quel “in eterno” possiamo intenderlo certamente come rilevato, ma anche come una contrapposizione ai molti che, non avendo il proprio nome scritto nel libro della vita, si perderanno per sempre.

Sempre su questo secondo livello abbiamo il perché nessuno di quelli che appartengono a Gesù si potrà mai perdere: “Nessuno le strapperà dalla mia mano”, principio spiegato mirabilmente dall’apostolo Pietro con queste parole: “Sia benedetto Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che nella sua grande misericordia ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva, per un’eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce. Essa è conservata nei cieli per voi, che dalla potenza di Dio siete custoditi mediante la fede, in vista della salvezza che sta per essere rivelata nell’ultimo tempo”.

Le ultime parole del nostro passo sono un collegamento al Padre, proprio come Pietro nel passo precedente ha messo a fuoco: le pecore non possono essere strappate dalla mano del Figlio perché è Lui che porta il sigillo del Padre e, essendo “la stessa cosa”, è impossibile combatterlo e vincere.

Infine, non è possibile appartenere a Gesù senza appartenere anche al Padre ed è per questo che il credente è un tutt’uno con entrambi; se così non fosse non saremmo “più stranieri e avventizi, ma concittadini dei santi e membri della famiglia di Dio”, non potremmo entrare al gran convito né essere partecipi dei “Nuovi cieli e nuova terra ove dimora stabile la giustizia” che ci rigetterebbe altrimenti “fuori, dove vi sarà pianto e stridore di denti”.

Infine, “Io e il Padre siamo una cosa sola”, frase mediante la quale Nostro Signore dichiara che nessun altro al di fuori di Lui può parlare in proposito: è la “Parola che si è fatta carne e venne ad abitare in mezzo a noi”, che “a quanti lo hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio”.  E possiamo concludere queste riflessioni citando una parte della preghiera di Gesù al Padre per i discepoli e i futuri credenti: ”…Ho manifestato il tuo nome agli uomini che mi hai dato dal mondo – gli ekkletoi, i chiamati fuori  –. Erano tuoi e li hai dati a me, ed essi hanno osservato la tua parola. Ora essi sanno che tutte le cose che mi hai dato vengono da te, perché le parole che hai dato a me io le ho date a loro. Essi le hanno accolte e sanno veramente che sono uscito da te e hanno creduto che tu mi hai mandato. Io prego per loro, non prego per il mondo, ma per coloro che tu mi hai dato, perché sono tuoi.” (Giovanni 17.6-9).

Come sua proprietà dobbiamo quindi comportarci, nell’attesa del Suo ritorno. Amen.

* * * * *

13.27 – ANTIOCO EPIFANE (FINE) (Giovanni 3.27)

13.27 –Antioco Epifane (fine) (Giovanni 10.22)   

 

22Ricorreva allora a Gerusalemme la festa della Dedicazione. Era inverno.

 

            Siamo così giunti all’ultima parte del percorso su Antioco IV, di cui Daniele descrive la fine con un verso già citato nello scorso capitolo: “Continuai a guardare a causa delle parole arroganti che quel corno proferiva, e vidi che la bestia fu uccisa e il suo corpo distrutto e gettato a bruciare nel fuoco. Alle altre bestie fu tolto il potere e la durata della loro vita fu fissata fino a un termine prestabilito” (7.11-12). Daniele continua a guardare. È impossibile per lui distogliere lo sguardo dagli avvenimenti che gli vengono mostrati non perché vuole “vedere come va a finire” come se fosse un film o un appassionante episodio di una serie televisiva, ma perché desideroso di partecipare in Spirito alla vittoria finale di Dio, contemplare il Suo giudizio e il riscatto dei Suoi santi. In altri termini, vuole constatare fino a quando alla bestia e al corno verrà concesso di operare, oltre a quando e come si verificherà la sua capitolazione.

            Quindi, nelle “parole arroganti che quel corno proferiva” abbiamo tanto i suoi decreti quanto le azioni, i fatti rovinosi per il popolo d’Israele che abbiamo descritto, ma non ci può sfuggire il fatto che a venire uccisa è la “bestia” e non il “corno”. In realtà l’una non può esistere senza l’altro perché la “bestia” è il sistema e il “corno” il suo artefice, il suo rappresentante.

La “bestia”, a prescindere dall’epoca in cui si manifesta, non può esistere senza sostenitori, progettisti o delegati e con lo scorrere dei secoli cambierà pelle, sembianze, ma sarà sempre e solo di provenienza satanica nell’attesa che compaia il sistema che sarà il suo capolavoro, quello finale, degli ultimi tempi, che sarà peggiore di tutti gli altri e di cui ogni credente attento ne vede già le sembianze e lo stato avanzato dei lavori. Le basi, infatti, sono gettate da tempo.

            Nei versi riportati vediamo che c’è una “bestia” che viene distrutta e che alle “altre bestie fu tolto il potere e la durata della loro vita fu fissata fino a un termine prestabilito”. Morto Antioco IV, muore anche il sistema che aveva costruito. La cronaca di 1 Maccabei 6 riporta così: 1Mentre il re Antioco percorreva le regioni settentrionali, sentì che c’era in Persia la città di Elimàide, famosa per ricchezza, argento e oro; 2che c’era un tempio ricchissimo, dove si trovavano armature d’oro, corazze e armi, lasciate là da Alessandro, figlio di Filippo, il re macèdone che aveva regnato per primo sui Greci. 3Allora vi si recò e cercava di impadronirsi della città e di depredarla, ma non vi riuscì, perché il suo piano fu risaputo dagli abitanti della città, 4che si opposero a lui con le armi; egli fu messo in fuga e dovette ritirarsi con grande tristezza e tornare a Babilonia. 5Venne poi un messaggero in Persia ad annunciargli che erano state sconfitte le truppe inviate contro Giuda. 6Lisia si era mosso con un esercito tra i più agguerriti, ma era stato messo in fuga dai nemici, i quali si erano rinforzati con armi e truppe e ingenti spoglie, tolte alle truppe che avevano sconfitto, 7e inoltre avevano demolito l’abominio da lui innalzato sull’altare a Gerusalemme, avevano cinto di alte mura, come prima, il santuario e Bet-Sur, che era una sua città. 8Il re, sentendo queste notizie, rimase sbigottito e scosso terribilmente; si mise a letto e cadde ammalato per la tristezza, perché non era avvenuto secondo quanto aveva desiderato. 9Rimase così molti giorni, perché si rinnovava in lui una forte depressione e credeva di morire. 10Chiamò tutti i suoi amici e disse loro: «Se ne va il sonno dai miei occhi e l’animo è oppresso dai dispiaceri. 11Ho detto in cuor mio: in quale tribolazione sono giunto, in quale terribile agitazione sono caduto, io che ero così fortunato e benvoluto sul mio trono! 12Ora mi ricordo dei mali che ho commesso a Gerusalemme, portando via tutti gli arredi d’oro e d’argento che vi si trovavano e mandando a sopprimere gli abitanti di Giuda senza ragione. 13Riconosco che a causa di tali cose mi colpiscono questi mali; ed ecco, muoio nella più profonda tristezza in paese straniero». 14Poi chiamò Filippo, uno dei suoi amici, lo costituì reggente su tutto il suo regno 15e gli diede il diadema, la sua veste e l’anello, con l’incarico di guidare Antioco, suo figlio, e di educarlo a regnare. 16Il re Antioco morì in quel luogo l’anno centoquarantanove. 17Lisia fu informato che il re era morto e dispose che regnasse Antioco, suo figlio, che egli aveva educato fin da piccolo, e lo chiamò Eupàtore”.

            Eupàtore fu l’undicesimo re della dinastia dei Seleucidi: la bestia aveva dieci corna, non undici. Antioco IV è “il corno più piccolo”, che cresce tra di esse, ma fa parte comunque delle dieci; può essere visto in un certo senso come la loro sublimazione. I re seleucidi che seguirono ad Antioco, dal 164 al 64 a.C., non ripeterono certo le gesta dei precedenti e, infatti, abbiamo letto che “alle altre bestie fu tolto il potere e la durata della loro vita fu fissata fino a un termine prestabilito”: regnarono, fecero guerre e quindi morirono. Possiamo però, estendendo il significato letterale del verso, che ogni bestia che sarebbe venuta avrebbe avuto un “limite stabilito”; pur essendo ovvio perché, trattandosi di sistemi composti da uomini, è inevitabile che ciò avvenga e sia, abbiamo qui un grosso “memento” nel senso che tutto finisce, ma soprattutto che questo termine è imposto, stabilito da Dio che giudica e il corpo della “bestia”, sempre lo stesso per idee, dottrine e azioni distruttrici, viene “uccisa e il suo corpo distrutto e gettato a bruciare nel fuoco”.

            Queste parole quindi sono di consolazione e di avvertimento che accompagneranno i credenti, che hanno Gesù con loro secondo la sua promessa, fino alla fine perché, quanto all’ultimo sistema, “Ma la Bestia fu catturata e con lei il falso profeta, che alla sua presenza aveva operato i prodigi con i quali aveva sedotto quanti avevano ricevuto il marchio della bestia e ne avevano adorato la statua. Ambedue furono gettati vivi nello stagno di fuoco, ardente di zolfo” (Apocalisse 19.20, ma anche 20.10).

            Molto spesso si legge questo verso, o gli altri a lui collegati, senza pensare al fatto che gli elementi lì presenti sono due, fuoco e zolfo, ritenendo il primo sufficiente: il fuoco brucia, ustiona, distrugge. Lo zolfo, però, è un combustibile, quindi produce altra energia termica, quindi è un accrescitivo. Compare la prima volta con Sodoma, quando tutta la sua regione fu interessata da “una pioggia di fuoco e zolfo” (un modo per indicare un bombardamento di meteoriti?), è usato per alludere a una vita impossibile (“tutta la sua terra sarà zolfo, sale, arsura, non sarà seminata e non germoglierà, né erba di sorta vi crescerà, come dopo lo sconvolgimento di Sodoma, di Gomorra, di Adma e di Seboim, distrutte dalla sua ira e dal suo furore”, Deuteronomio 29.22).

Lo zolfo è utilizzato anche per descrivere, come l’apostolo Giovanni poteva stante il fatto che non disponeva di sostantivi adeguati, le armi del futuro: “E così vidi nella visione i cavalli e i loro cavalieri: questi avevano corazze di fuoco, di giacinto – minerale raro e molto lucente – e di zolfo; e le teste dei cavalli erano come teste di leoni e dalle loro bocche usciva fuoco, fumo e zolfo” (Apocalisse 9.27).

            Tornando ora a Daniele 7.12 “Alle altre bestie fu tolto il potere e la durata della loro vita fu fissata fino a un termine stabilito”, vediamo che immediatamente salta a una nuova visione che stupisce perché di colpo abbraccia anche il vero tempo della fine a sottolineare proprio il “tempo stabilito” per tutte le altre che verranno, compresa quella terribile della “gran tribolazione” in cui si dirà “Chi è simile alla bestia? E chi può combattere contro di lei? E le fu data una bocca che proferiva parole arroganti e bestemmie. E le fu dato di agire per quarantadue mesi” (Apocalisse 13.4).

            La visione di Daniele fu questa, famigliare a tutti coloro che cercano di capire le dinamiche future anche oggi:“Ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d’uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui. Gli furono dati potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue – quelle sconvolte a Babilonia, poi evolute in quelle moderne – lo servivano: il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai, e il suo regno non sarà mai distrutto”(7.13,14).

            Lo spazio che qui ci si apre è enorme e possiamo dire che l’importanza negativa che ebbe Antioco IV Epifane ed il suo sistema, con le sue mire di cancellazione del popolo di Dio, gli ebrei allora e il cristianesimo vero in futuro, si identificano proprio in quell’ultima “Bestia” che si sta formando. Non credo sia possibile leggere altrimenti la spiegazione che il profeta ricevette dal suo vicino: “I santi gli saranno dati in mano per un tempo, tempi e la metà di un tempo – tre anni e mezzo –. Si terrà poi il giudizio e gli sarà tolto il potere, quindi verrà distrutto completamente. Allora il regno, il potere e la grandezza dei regni che sono sotto il cielo saranno dati al popolo dei santi dell’Altissimo, il cui regno sarà eterno e tutti gli imperi lo serviranno e gli obbediranno” (7.25-27).

            Ricordiamo le parole di Apocalisse 13.5-8: “Alla bestia fu data una bocca per proferire parole d’orgoglio e bestemmie, con il potere di agire per quarantadue mesi – 12+24+6 –. Essa aprì la bocca per proferire parole d’orgoglio e bestemmie contro Dio, per bestemmiare il suo nome e la sua dimora, contro tutti quelli che abitano in cielo. Le fu concesso di fare guerra contro i santi e di vincerli, e le fu dato potere sopra ogni tribù, popolo, lingua e nazione. La adoreranno tutti gli abitanti della terra, il cui nome non è scritto nel libro della vita dell’Agnello, immolato fin dalla fondazione del mondo”.

            Tornando ora alla festa della Dedicazione, fu istituita quando il servizio nel Tempio fu ripristinato. Così scrive Giuseppe Flavio nelle sue Antichità Giudaiche XII.324, 325: “Provavano tanto piacere nel rinnovarsi delle loro consuetudini e nell’avere inaspettatamente riacquistato dopo tanto tempo il diritto di tenere la loro celebrazione, che imposero per legge ai loro discendenti di celebrare il ripristino del servizio del tempio per otto giorni. E da quel tempo fino al presente celebriamo questa festa, che chiamiamo festa delle Luci, dandole questo nome, suppongo, per il fatto che avevamo riavuto il diritto di adorare quando meno ce lo aspettavamo”.

Termina qui il nostro breve excursus su Antioco IV, “breve” perché ci sarebbero molti altri passi da analizzare, ma credo che basti per comprendere a grandi linee gli eventi e i significati spirituali che si celano dietro questa festa. Giovanni 10.23 riporta che proprio in occasione di quella, di inverno, “Gesù camminava nel tempio, nel portico di Salomone”, probabilmente coi discepoli. Qui lo raggiungeranno, come vedremo col prossimo capitolo, ancora una volta i Giudei con le loro domande insidiose.

* * * * *

13.26 – ANTIOCO EPIFANE (Giovanni 10.22)

 13.26 –Antioco Epifane (Giovanni 10.22)   

22Ricorreva allora a Gerusalemme la festa della Dedicazione. Era inverno.

            La Parola di Dio è al centro dell’Universo, materiale e spirituale. E il primo, per quanto limitato rispetto al secondo, riflette la Potenza del Creatore e il perfetto equilibrio che ne deriva. Sull’Universo spirituale è possibile discorrerne, ma i riferimenti tra passato, presente, futuro ed eternità sono tali da far sorgere un sentimento di piccolezza estrema addirittura maggiore rispetto a quando consideriamo la vastità del cosmo e le distanze fra le stelle, le galassie e tutto ciò che la scienza finora ha scoperto. Questo per dire che la complessità di una pericope non è certo minore rispetto a quella di un corpo fisico, appartenga esso al mondo del micro o del macro, essendo gli equilibri del mondo gli stessi, fatte le dovute proporzioni, di quello spirituale. Così, nessuna spiegazione dei passi può definirsi esaustiva; se mai, può presentare in minima parte quegli aspetti che al lettore, attraverso la “lectio divina” vengono rivelati.

            Fatta questa premessa, perché non mi stancherò mai di ripetere che nessun argomento biblico può ritenersi concluso, cerchiamo a questo punto di esaminare i versi di Daniele 7 riguardo alla quarta bestia, che fanno da preludio e poi trattano della comparsa di Antioco IV Epifane:

19Volli poi sapere la verità intorno alla quarta bestia, che era diversa da tutte le altre e molto spaventosa, che aveva i denti di ferro e artigli di bronzo, che divorava, stritolava e il rimanente se lo metteva sotto i piedi e lo calpestava, 20e anche intorno alle dieci corna che aveva sulla testa e intorno a quest’ultimo corno che era spuntato e davanti al quale erano cadute tre corna e del perché quel corno aveva occhi e una bocca che proferiva parole arroganti e appariva maggiore delle altre corna. 21Io intanto stavo guardando e quel corno muoveva guerra ai santi e li vinceva, 22finché venne il vegliardo e fu resa giustizia ai santi dell’Altissimo e giunse il tempo in cui i santi dovevano possedere il regno.

23Egli dunque mi disse: «La quarta bestia significa che ci sarà sulla terra un quarto regno diverso da tutti gli altri e divorerà tutta la terra – quella conosciuta – la schiaccerà e la stritolerà. 24Le dieci corna significano che dieci re sorgeranno da quel regno e dopo di loro ne seguirà un altro, diverso dai precedenti: abbatterà tre re 25e proferirà parole contro l’Altissimo e insulterà i santi dell’Altissimo; penserà di mutare i tempi e la Legge. I santi gli saranno dati in mano per un tempo, tempi e metà di un tempo. 26Si terrà poi il giudizio e gli sarà tolto il potere, quindi verrà sterminato e distrutto completamente. 27Allora il regno, il potere e la grandezza dei regni che sono sotto il cielo saranno dati al popolo dei santi dell’Altissimo, il cui regno sarà eterno e tutti gli imperi lo serviranno e gli obbediranno”.

            Vediamo, tenendo presente anche la visione originaria dei versi che abbiamo riportato nello scorso capitolo, che la quarta bestia non viene paragonata a nessun animale e infatti viene precisato che è “diversa da tutte le altre” cioè non si trovano paragoni con creature per quanto potenti e feroci, ma ne vengono descritte le sembianze, che ci parlano delle azioni che questa compie: ha “denti di ferro”, metallo che ci parla di violenza, umiliazione, disagio e dominio. Il ferro, assieme al bronzo, fu un metallo che lavorarono per primi i discendenti di Caino (Genesi 4.22), è il primo dei metalli meno nobili secondo la classificazione di Numeri 31.22 (Oro – Argento – Bronzo – Ferro – Stagno – Piombo). È figura di ostacolo e di impraticabilità (“Il cielo sarà di bronzo sopra il tuo capo e la terra sotto te sarà di ferro”, Deuteronomio 28.23). Il ferro è sinonimo di invincibilità apparente, come in Giosuè 17.18: “…spodesterai il Cananeo, benché abbia carri di ferro e sia forte”.

            I denti, che hanno una funzione fondamentale nel nutrimento di qualsiasi essere vivente che ne sia dotato, sono quindi “di ferro” a sottolinearne la forza bruta e la presunta indistruttibilità di questi elementi che vengono messi in moto non per soddisfare un’esigenza nutrizionale fisiologica, ma per divorare, verbo che allude al mangiare con avidità, ingordigia, voracità, ma anche al consumare con incredibile rapidità, distruggere. Chi divora soddisfa se stesso, si ingozza senza gustare, dà luogo esclusivamente alla propria brama ossessiva di avere. E queste azioni sono accresciute dall’immagine degli “artigli di bronzo”.

            L’artiglio è la falange terminale di molti animali da preda ricoperta da una robusta unghia adunca. Serve all’essere che ne è dotato come organo di prensione, per aggrapparsi a un sostegno, ma anche per afferrare la preda e dilaniarla, è un’arma tanto difensiva quanto offensiva. Questi artigli sono “di bronzo”, per quanto vi siano traduzioni che riportano il rame come elemento costitutivo. Il bronzo è una lega composta da rame e stagno, utile al pari del ferro come da Deuteronomio 8.9 che parla della terra promessa, “…Terra da dove non mangerai con scarsità il pane, dove non ti mancherà nulla; terra dove le pietre sono di ferro e dai cui monti scaverai il rame”.

            Il rame, inizialmente lavorato martellandolo puro da pepite o filoni, veniva poi fuso in forni che raggiungevano la temperatura di 1.083°, quindi implica il passare attraverso il fuoco e ha connessione tanto con l’esperienza attraverso la sofferenza (si pensi ai piedi della creatura vista dall’apostolo Giovanni in Apocalisse 1.14, “simile a un figlio d’uomo(…) i suoi piedi avevano l’aspetto del bronzo splendente”), quanto con l’intervento di Dio per la conversione in Isaia 1.25: “Stenderò la mia mano su di te, purificherò come in un forno le sue scorie, eliminerò da te tutto il piombo”. Ha però connessione anche con la prepotenza, come rileviamo dalla bardatura di Golia in 1 Samuele 17.5-8: “Aveva in testa un elmo di bronzo ed era rivestito di una corazza a piastre, il cui peso era di cinquemila sicli di bronzo. Portava alle gambe schinieri di bronzo e un giavellotto di bronzo fra le spalle”, oltre alla punta dell’asta della lancia, che “pesava seicento sicli di ferro”.

            L’artiglio di bronzo, quindi, va ad aumentare la forza distruttiva di questa quarta bestia, “diversa da tutte le altre”, ripetuto due volte, perché nessuna delle precedenti aveva voluto annientare il culto a YHWH come in effetti farà questa. Il ferro e il bronzo, alla luce dei dati ricavati, furono quindi i componenti aggressivi più immediatamente rilevabili di questo sistema; le azioni conseguenti saranno lo schiacciare e stritolare.

            La visione di Daniele contempla, accanto alle “dieci corna”, quella di un altro corno, “più piccolo”, davanti al quale tre delle prime corna “furono divelte”: è facile individuare in questo corno Antioco Epifane col quale avevamo chiuso lo scorso capitolo, definito in 1 Maccabei “radice perversa”; inoltre Antioco era il minore dei suoi fratelli per cui il regno non gli sarebbe spettato, ma eliminò “tre delle prime corna”, cioè Prolemeo, Antioco il Grande padre di Epifane, e Seleuco. Ricordiamo infatti le parole a chiarimento della visione, “abbatterà tre re e proferirà parole contro l’Altissimo e insulterà i santi dell’Altissimo; penserà di mutare i tempi e la legge”.

Abbiamo però letto di “dieci corna” e “dieci re”: non che la bestia fu composta da tutti insieme, ma questi sono i dieci re seleucidi che si susseguirono nel regno nel tempo, con gli ultimi tre eliminati appunto da Epifane.

            Costui ha “occhi e bocca che proferivano parole arroganti”: a Daniele rimangono impressi gli occhi, non “come fiamma di fuoco” secondo la visione del Figlio di Dio di Giovanni e nemmeno “normali”, ma per venire rilevati dal profeta significa che erano particolari, impressionanti quindi acuti, indice di una mente perversa e calcolatrice per i propri bisogni; l’arroganza con cui la bocca parlava non implica tanto il fatto che si sentiva superiore agli altri e li trattava con sufficienza e presunzione, ma che si sentiva superiore a Dio e in grado di combatterlo.

            Cosa succederà infatti sotto di lui? Secondo Tacito (Historiae 5.8), volle “cancellare la superstizione e dare ai Giudei i costumi dei Greci”. Lasciamo che parli l’autore di 1 Maccabei 1: 20Antioco ritornò dopo aver sconfitto l’Egitto nell’anno centoquarantatré, mosse contro Israele e salì a Gerusalemme con un grande esercito. 21Entrò con arroganza nel santuario e ne asportò l’altare d’oro e il candelabro dei lumi con tutti i suoi arredi, 22la tavola dell’offerta e i vasi per le libagioni, le coppe e gli incensieri d’oro, il velo, le corone e i fregi d’oro della facciata del tempio e lo spogliò tutto; 23s’impadronì dell’argento e dell’oro e d’ogni oggetto pregiato e asportò i tesori nascosti che riuscì a trovare. 24Poi, raccolta ogni cosa, fece ritorno nella sua terra, dopo aver fatto una strage e aver parlato con grande arroganza – ecco le parole di Daniele sulla bocca del “corno più piccolo”.

            Ancora 2 Maccabei 5.11-16: “…concluse che la Giudea stava ribellandosi. Perciò, tornando dall’Egitto, furioso come una belva, prese la città con le armi 12e diede ordine ai soldati di colpire senza pietà quanti incontravano e di trucidare quelli che si rifugiavano nelle case. 13Vi fu massacro di giovani e di vecchi, sterminio di uomini, di donne e di fanciulli, stragi di fanciulle e di bambini. 14In tutti quei tre giorni vi furono ottantamila vittime: quarantamila nel corso della lotta, e non meno degli uccisi furono quelli venduti schiavi. 15Non sazio di questo, Antioco osò entrare nel tempio più santo di tutta la terra, avendo a guida quel Menelao che si era fatto traditore delle leggi e della patria; 16afferrò con mani impure gli arredi sacri, e saccheggiò con le sue mani sacrileghe quanto dagli altri re era stato deposto per l’abbellimento e lo splendore del luogo e per segno d’onore”.

            Ho riportato una minima parte di quanto successe e che è narrato in questi due libri; ma si può dire che la sua empietà giunse al culmine non coi numerosi massacri perpetrati, ma con “l’abominazione della desolazione”, cioè l’imposizione del culto idolatrico. Scrive un fratello: “Sotto pena di morte fu imposto il culto idolatrico: i Giudei dovevano immolare vittime a Giove sulle are erette dappertutto in Giudea. Fu scelto il maiale, oltremodo impuro per gli Ebrei che, dopo il sacrificio, dovevano anche cibarsene. Proibiti la circoncisione, il sabato, ogni altra festa, la lettura dei libri sacri che dovevano essere consegnati e bruciati (I Mach. l, 30-2, 70; II Mach. 5, 21-7, 42). Nel tempio fu eretto un simulacro di Giove Olimpio e sull’altare degli olocausti gli si immolarono sacrifici. I Giudei dovranno ellenizzarsi o morire. Molti apostatarono; ma rifulse l’eroismo dei martiri e l’epico valore dei Maccabei”.

            A questo punto vi sarebbero altri passi profetici che si potrebbero citare su questo personaggio, ma ci dilungheremmo ed usciremmo dal percorso tracciato che è quello di rimanere aderenti al Vangelo. Con il prossimo capitolo concluderemo la visione di Daniele 7 con particolare riguardo alla – non potrebbe essere che così – sua fine: “Continuai a guardare a causa delle parole arroganti che quel corno proferiva, e vidi che la bestia fu uccisa e il suo corpo distrutto e gettato a bruciare nel fuoco. Alle altre bestie fu tolto il potere e la durata della loro vita fu fissata fino ad un termine stabilito” (vv.11-12).

* * * * *

13.25 – LA FESTA DELLA DEDICAZIONE: ANTICO EPIFANE, INTRODUZIONE (Giovanni 10.22)

13.25 – La festa della Dedicazione. Antioco Epifane – Introduzione (Giovanni 10.22)    

 

22Ricorreva allora a Gerusalemme la festa della Dedicazione. Era inverno.

 

La presenza di Nostro Signore a Gerusalemme ci impone delle domande sui suoi spostamenti, difficili da raccordare basandoci su Luca; dobbiamo considerare che tra la festa delle Capanne (o Tabernacoli) in cui era stato là per l’ultima volta e quella della Dedicazione passarono due mesi e mezzo, periodo che Giovanni omette, ma che viene riportato per quadri da Luca. Il verso 22 che abbiamo riportato, però, ci consente un’apertura su fatti e porzioni di Scrittura che altrimenti non potremmo esaminare perché, di tutte le feste che si celebravano, quella della Dedicazione non era, assieme al Purìm, comandata dalla Legge e venne istituita da Giuda Maccabeo, eroe della ribellione ebraica sotto l’oppressione di Antioco Epifane, re di Siria nel 194 a.C., quando vi fu ricostruzione dell’altare e del Tempio che quello aveva contaminato.

Come avvenuto all’inizio del nostro percorso di lettura dei Vangeli quando ci siamo soffermati su Erode, mi pare giusto affrontare questo personaggio la cui figura fu importante a tal punto da venire profetizzata da Daniele in diversi passi che presentano forti analogie, nel suo linguaggio simbolico, con il libro dell’Apocalisse di Giovanni.

Per questo è necessaria una premessa nel senso che quanto analizzeremo va inteso come fonte per appunti di idee da tener presente quando verranno letti passi profetici soprattutto nell’Apocalisse. Anche la lettura di questo studio, nelle sue parti, andrebbe sviluppata creando schemi perché l’esposizione così come impaginata non si presenta immediatamente comprensibile. Personalmente credo che vada affrontato usando il testo biblico, anche se qui è riportato, annotando a margine ciò che sarà ritenuto opportuno.

Va anche ricordato che tutto il commento ai Vangeli che stiamo sviluppando da tempo non intende, né può, essere esaustivo, ma affronta solo una minima parte della superficie del testo evangelico e che, in particolare ciò che verrà qui presentato, dev’essere oggetto di una lettura personale approfondendo i riferimenti che darà il testo biblico, in particolare quello di Daniele. Come sempre, per sviluppare adeguatamente questo tema, non sarebbero sufficienti molti libri e centinaia di pagine.

La prima visione che ebbe Daniele è reperibile al capitolo settimo:

 

2Io, Daniele, guardavo nella mia visione notturna, ed ecco, i quattro venti dei cielo si abbattevano impetuosamente sul Mare Grande– il Mediterraneo –3E quattro grandi bestie, differenti l’una dall’altra, salivano dal mare.

4La prima era simile ad un leone e aveva ali d’aquila. Mentre io stavo guardando, le furono strappate le ali e fu sollevata da terra e fatta stare su due piedi come un uomo e le fu dato un cuore d’uomo. 5Poi ecco una seconda bestia, simile a un orso, la quale stava alzata da un lato e aveva tre costole in bocca, fra i denti, e le fu detto: «Su, divora molta carne».

6Dopo di questa, mentre stavo guardando, eccone un’altra simile a un leopardo, la quale aveva quattro ali d’uccello sul dorso; e quella bestia aveva quattro ali d’uccello sul dorso; quella bestia aveva quattro teste e le fu dato il potere.

7Dopo di questa, stavo ancora guardando nelle visioni notturne, ed ecco una quarta bestia, spaventosa, terribile, d’una forza straordinaria, con grandi denti di ferro; divorava, stritolava e il rimanente se lo metteva sotto i piedi e lo calpestava: era diversa da tutte le altre bestie e aveva dieci corna.

8Stavo osservando queste corna, quand’ecco spuntare in mezzo a quelle un altro corno più piccolo, davanti al quale tre delle prime corna furono divelte: vidi che quel corno aveva occhi simili a quelli di un uomo e una bocca che proferiva parole arroganti. (…) 11Continuai a guardare a causa delle parole arroganti che quel corno proferiva, e vidi che la bestia fu uccisa e il suo corpo distrutto e gettato a bruciare nel fuoco. 12Alle altre bestie fu tolto il potere e la durata della loro vita fu fissata al termine stabilito”.

 

Daniele, come l’apostolo Giovanni, nonostante lo Spirito che lo pervadeva e la sua capacità direi unica di comprendere sogni e visioni, nella sua condizione di uomo impuro e limitato per natura non sarebbe mai riuscito ad estrarre il senso di ciò che vedeva, per cui chiede “ad uno dei vicini”nella visione la spiegazione dell’evento di cui era stato chiamato ad essere testimone:

 

15Io, Daniele, mi sentii agitato nell’animo, tanto le visioni della mia mente mi avevano turbato; 16mi accostai a uno dei vicini e gli domandai il vero significato di tutte queste cose ed egli mi diede questa spiegazione: «Le quattro grandi bestie rappresentano quattro re, che sorgeranno dalla terra, 18ma i santi dell’Altissimo riceveranno il regno e lo possederanno per sempre, in eterno»”.

 

Altro, su queste quattro bestie, non viene rivelato perché l’attenzione di chi parla a Daniele si sposta subito dopo sulla quarta, ma il linguaggio simbolico utilizzato nella Scrittura dai Profeti ci consente comunque delle applicazioni importanti: sappiamo che la “bestia”è un sistema, politico e militare, che in quanto “bestia”, cioè animale, vive per natura senza relazionarsi con Dio o, se preferiamo, come se Lui non esistesse; la bestia segue i suoi istinti e in particolare quelle citate, il leone, l’orso e il leopardo, vivono e sopravvivono cacciando e distruggendo. L’orso, in particolare, onnivoro, non teme lo scontro con animali predatori carnivori e importanti, potendo competere da solo anche con branchi di lupi e grandi felini.

Al verso 2 abbiamo i “quattro venti del cielo”, “del”e non “dal”, quindi quelle forze naturali che soffiano dai quattro punti cardinali sul “mare”, figura dei popoli dell’area del “Mar Grande”, ingrossandone chiaramente le onde, quindi si allude alla forza e al disordine al tempo stesso.

La prima bestia è un “leone”quanto a potenza, ma ha “ali d’aquila”a simboleggiare il territorio che è in grado di coprire col suo volo così come la velocità degli spostamenti e con la quale agisce. È collegabile all’impero dei Caldei, quindi a Babilonia, che abitarono la parte meridionale della Mesopotamia ed operarono tra il 721 e il 539 a.C. Questo accostamento è rilevabile confrontando la descrizione del leone che dà la Scrittura, fiero, che una volta accovacciato nessuno è in grado di rialzarlo, che così resta fino a quando “non abbia divorato la preda e bevuto il sangue degli uccisi”(Numeri 23.24) e anche le parole dello stesso Daniele a Nabucodonosor in 2.37,38 confermano questa interpretazione: “Tu, o re, sei il re dei re; a te il Dio del cielo ha concesso il regno, la potenza, la forza e la gloria. Dovunque si trovino i figli dell’uomo, animali selvatici e uccelli del cielo, egli li ha dati nelle tue mani; tu li domini tutti: tu sei la testa d’oro”.

È interessante notare come Isaia descrive il popolo caldeo: “Egli– il Signore nel suo sdegno – alzerà un segnale a una nazione lontana e farà un fischio all’estremità della terra; ed ecco, essa verrà veloce e leggera. Nessuno fra loro è stanco o inciampa, nessuno sonnecchia o dorme, non si scioglie la cintura dei suoi fianchi e non si slaccia il legaccio dei suoi sandali. Le sue frecce sono acuminate, e ben tesi tutti i suoi archi; gli zoccoli dei suoi cavalli sono come pietre e le ruote dei suoi carri come un turbine, il suo ruggito è come quello di una leonessa, ruggisce come un leoncello; freme e afferra la preda, la pone al sicuro, nessuno gliela stralla. Fremerà su di lui in quel giorno come freme il mare; si guarderà la terra: ecco, saranno tenebre, angoscia, e la luce sarà oscurata dalla caligine”(5.26-30).

Così infine Geremia 4.7: “Il leone è balzato dalla sua boscaglia, il distruttore di nazioni si è messo in marcia, è uscito dalla sua dimora, per ridurre la tua terra a una desolazione: le tue città saranno distrutte, non vi rimarranno abitanti”.

Un richiamo alle “ali d’aquila”a proposito della velocità lo rileviamo al verso 13 quando i Caldei sono paragonati a uno che “sale come le nubi e come un turbine sono i suoi carri, i suoi cavalli sono più veloci delle aquile”.

Ora a questa bestia vengono “tolte le ali, e fu sollevata da terra e fatta stare su due piedi come un uomo e le fu dato un cuore d’uomo”, cioè, per dirla in parole povere, viene ridotta all’impotenza: tutta la sua invincibilità e forza vengono meno e ciò avvenne quando i Caldei furono conquistati dai persiani nel 539 a.C.

 

La seconda bestia è l’orso. Anche l’imminenza di questo impero fu anticipato da Daniele a Nabucodonosor quando ne interpretò il sogno – “Dopo di te sorgerà un altro regno, inferiore al tuo”(2.39) –; l’orso, per la Scrittura, è un animale rozzo, potente e tetro. E infatti i persiani tali erano e furono rispetto ai Caldei. Questa bestia sta “alzata da un lato”perché si alza in un certo senso da un lato del mondo allora conosciuto, cioè dal Levante. Il regno di Persia è raffigurato anche da un “montone che cozzava verso l’occidente, il settentrione e il mezzogiorno e nessuna bestia gli poteva resistere, né alcuno era in grado di liberare dal suo potere: faceva quello che gli pareva e divenne grande”(Daniele 8.4). E sarà qui che questo orso, la bestia che sta “alzata da un lato”, potrà operare.

Essa ha “tre costole in bocca, fra i suoi denti”ad accentuare il carattere famelico, predatore. L’immagine che danno queste ossa sono molto più incisive rispetto ad altre che potrebbero venire citate perché fanno riferimento al torso, sede di tutti gli organi vitali di un corpo. Questo è l’unico animale al quale viene detto “Su, divora molta carne”a significare che agì per ordine di Dio nel senso che gli fu concesso di operare senza porre ostacoli ai suoi piani.

Isaia dà un riferimento a questo popolo con le parole “Come i turbini che si scatenano nel Negheb, così egli viene dal deserto, da una terra orribile. Una visione tremenda mi fu mostrata: il saccheggiatore che saccheggia, il distruttore che distrugge”(21.2).

Dell’orso Daniele non rivela la fine e la sua durata fu di duecento anni circa, fino a quando non terminò per opera di Alessandro Magno, identificato quanto a impero nella terza bestia, il leopardo, altro predatore che si caratterizza rispetto agli altri per la rapidità, velocità degli attacchi. E così si sviluppò il suo impero. Vediamo che questo leopardo ha sul suo dorso “quattro ali d’uccello”, quindi non di aquila come la prima: se l’aquila è potente, raggiunge grandi altezze e cade sulla preda, l’uccello suggerisce una velocità e una strategia diversa: non ci viene detto il tipo, per cui non sappiamo se si tratta di un migratore che percorre enormi distanze o un altro che, molto rapido, si sposta da un luogo a un altro. Credo che le quattro ali, numero che suggerisce la perfezione della natura, siano un accrescitivo della capacità del leopardo.

Infine abbiamo “quattro teste e le fu dato potere”e infatti, dopo la morte di Alessandro nel 323, il suo regno fu diviso in quattro satrapie. A parte i testi di storia che possono essere consultati per tutti gli imperi fin qui citati, riporto 1 Maccabei 1.1-10 che costituisce al tempo stesso la fine di questa prima parte e l’inizio della seconda, quando affronteremo la quarta bestia.

“Queste cose avvennero dopo che Alessandro il Macedone, figlio di Filippo, uscito dalla regione dei Chittìm, sconfisse Dario, re dei Persiani e dei Medi, e regnò al suo posto cominciando dalla Grecia. Egli intraprese molte guerre, si impadronì di fortezze e uccise i re della terra; arrivò ai confini della terra e raccolse le spoglie di molti popoli. La terra ammutolì davanti a lui; ma egli si esaltò e il suo cuore montò in superbia. Radunò forze ingenti e conquistò regioni, popoli e prìncipi, che divennero suoi tributari. Dopo questo cadde ammalato e comprese che stava per morire. Allora chiamò i suoi ufficiali più illustri, che erano stati educati con lui fin dalla giovinezza, e divise tra loro il suo regno mentre era ancora vivo. Alessandro dunque aveva regnato dodici anni quando morì. I suoi ufficiali assunsero il potere, ognuno nella sua regione; dopo la sua morte cinsero tutti il diadema e, dopo di loro, i loro figli per molti anni, moltiplicando i mali sulla terra. Uscì da loro una radice perversa, Antioco Epifane, figlio de re Antioco, che era stato ostaggio a Roma, e cominciò a regnare nell’anno centotrentasette del regno dei Greci”.

* * * * *

13.24 – PER SEGUIRE GESÙ (Luca 14.25,26)

13.24 – Per seguire Gesù (Luca 14.25,26)

25Una folla numerosa andava con lui. Egli si voltò e disse loro: 26«Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. 27Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo.28Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? 29Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, 30dicendo: «Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro». 31Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? 32Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace. 33Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo.il fallimento dell’uomo etico,  

Dalle parole “Si voltò e disse loro”vediamo che Gesù conosceva le ragioni che spingevano quanti si erano messi a seguirlo ovunque andasse. Così come tante erano le opinioni che la gente aveva di Lui, altrettante erano le motivazioni per cui mettersi al suo seguito: alcuni volevano soddisfare la loro curiosità e speravano di vedergli compiere qualche miracolo, altri desideravano ascoltare le sue parole visto che sta scritto che gli riconoscevano un’autorità superiore a quella degli scribi e farisei, altri ancora erano spie dei Giudei, lì unicamente per riferire a chi li aveva inviati. Vi erano poi coloro che si erano interrogati profondamente attorno alla Sua Opera e aspettavano forse l’occasione propizia per presentarsi a Lui e parlargli.

Ebbene Gesù, che conosceva i pensieri di ciascuno, si volta e pronuncia un brevissimo discorso che potremmo definire selettivo perché la pericope “non può essere mio discepolo”esprime il limite, la barriera fra ciò che sono le intenzioni umane e la realtà delle cose perché l’unica condizione per seguirLo oppure, come scrive Matteo 10.37, essere degni di Lui, è “Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me; chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me. Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà”, parole che abbiamo analizzato a suo tempo.

Notiamo che la nostra traduzione riporta “…e non mi ama più di quanto ami…”, che offre l’interpretazione corretta dell’originale “…e non odia suo padre…”perché in effetti il termine “odiare” significa proprio, nella Scrittura, “amare meno” rispetto a qualcun altro. Si tratta di un argomento già trattato, ma sul quale torniamo anche se con riflessioni diverse.

Le parole “Se uno viene a me”sono riferite al fatto che la figura di Gesù attrae molti, o per lo meno attraeva visti i tempi che viviamo in cui a Dio si sostituisce una spiritualità generica, artefatta, posticcia; il più delle volte, infatti, la figura del Figlio di Dio oggi è cercata, anche tramite una lettura dei Vangeli, per porlo in ridicolo di fronte a una critica testuale assolutamente priva di conoscenza e radici e soprattutto è usata col fine di abolirne la figura storica, morale e spirituale. Ancora, la figura di Cristo e del cristiano è sostituita da quella dell’ “uomo etico”: è del 28 agosto 2021 la notizia che il nuovo presidente dei cappellani di Harvard è un ateo che coordina le attività di quaranta comunità, tra cui quella cristiana, ebraica, indù e buddista. Costui ha dichiarato: “C’è un gruppo crescente di persone che non si identificano più con alcuna tradizione religiosa, ma sperimentano ancora un reale bisogno di conversazione e sostegno intorno a ciò che significa essere un buon umano e vivere una vita etica”. Alla religione vuota e del vuoto si sostituisce quella di princìpi mutevoli basati sull’inconsistenza.

Comunque, poiché in ogni caso la lettura della Bibbia non è ancora stata proibita e nella Chiesa esistono ancora credenti che svolgono la loro testimonianza, è sempre possibile che vi sia chi desideri porsi, anche se a distanza di secoli, al seguito di Gesù le cui parole sono dirette ai credenti di ogni tempo.

Allora come oggi, abbiamo letto che non è possibile seguirLo senza una profonda rivoluzione interiore che stravolga le priorità affettive di chi Gli si avvicina. Più che analizzare il significato delle categorie rappresentate dalle persone citate, andrei alla radice del problema offertaci da Deuteronomio 13.7-12 che chiarisce il tipo di rapporto che si instaura tra chi intende rimanere fedele a Dio e chi, suo parente o amico, intende traviarlo; certo, tenendo presente la differenza fra Grazia e Legge: “Qualora il tuo fratello, figlio di tuo padre o figlio di tua madre, o il figlio o la figlia o la moglie che riposa sul tuo petto o l’amico che è come te stesso t’istighi in segreto, dicendo: «Andiamo, serviamo altri dèi», dèi che né tu né i tuoi padri avete conosciuto, divinità dei popoli che vi circondano, vicini a te o da te lontani da un’estremità all’altra della terra, tu non dargli retta, non ascoltarlo. Il tuo occhio non ne abbia compassione: non risparmiarlo, non coprire la sua colpa. Tu anzi devi ucciderlo: la tua mano sia la prima contro di lui per metterlo a morte; poi sarà la mano di tutto il popolo. Lapidalo e muoia, perché ha cercato di trascinarti lontano dal Signore, tuo Dio, che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile. Tutto Israele verrà a saperlo, ne avrà timore e non commetterà in mezzo a te una tale azione malvagia”. Sono parole molto forti, valide per chi viveva in un tempo lontano con mentalità e usanze profondamente diverse dalle nostre. Soprattutto, era fondamentale che Israele seguisse il Signore dal quale poi sarebbe proceduto il Messia. Rimane però il profondo distacco tra chi rimane fedele a Dio e chi invece, facendo leva sulla presenza di un rapporto affettivo, vuole distogliere la sua attenzione da Lui finendo per porlo in una posizione contraria: “Il tuo occhio non abbia compassione, non risparmiarlo”nel senso di non consentire a questa persona, diventata negativa e pericolosa, di attecchire perché non solo si è traviato, ma anche voleva spingere una terza persona a fare lo stesso, diventando un agente dell’Avversario.

Notiamo che anche in questo passo vengono chiamati in causa gli affetti più cari, “la moglie che riposa sul tuo petto o l’amico che è come te stesso”che, nel momento in cui diventano elementi attivi di svio, andavano addirittura uccisi con il diretto interessato che doveva essere il primo a scagliare la pietra nella lapidazione. Da qui, collegandoci al famoso “chi è senza peccato scagli la prima pietra”, vediamo l’assoluta responsabilità di chi avrebbe dovuto agire in tal modo, cioè si assumeva un carico d’innocenza che, nel caso della donna adultera, non poteva avere, mentre in quello dello sviamento verso altre divinità a prevalere era il rifiuto dell’idolatria. In questo modo chi agiva così veniva messo duramente alla prova perché non solo si trattava di agire contro chi era comunque una persona cara, ma doveva fare violenza a se stesso privandosi della moglie o dell’amico, o del figlio o della figlia coi quale intercorreva indubbiamente una forte identificazione. Ribadisco, si era in un’altra dispensazione ed oggi rimane il principio di base, quello del porre nella giusta collocazione gli affetti che non possono essere dominanti, quindi impedire, ostacolare, rallentare il percorso spirituale del credente, uomo o donna che sia.

Ecco allora che, alla luce dei testi fin qui raccolti, Gesù fa presente che, se non è messo al primo posto, a nulla serve mettersi al suo seguito così come chi ha creduto è chiamato a “portare la propria croce”e seguirlo, cioè portare dignitosamente le sofferenze provenienti dalla propria fede. Presto o tardi infatti, per tutti, arriva il momento in cui occorre fare una scelta per il Vangelo che non porterà certo benefici nel senso materiale del termine; pensiamo alle persecuzioni che hanno subìto e subiscono, anche del nostro tempo, i veri cristiani. Pensiamo al futuro sistema che non consentirà di comprare o vendere senza il marchio della bestia o anche alle persecuzioni poste in essere da parte di Satana, che tenta e mette alla prova nei modi più svariati. Ed è fuor di dubbio che, in questo tempo, vediamo tutto in embrione. Credere comporta inevitabilmente anche sofferenza, fisica e morale. Il cristiano è infatti allo stesso tempo sacerdote e vittima.

Abbiamo poi, nella seconda parte dell’intervento di Gesù con gli esempi della torre e della pace con il re nemico, un lapidario invito-elogio alla prudenza di cui purtroppo molti credenti non si appropriano basando le loro scelte e imprese sulla speranza, o fede inopportuna, di un intervento di Dio quando questo si renderà necessario. Per molti di loro la prudenza è vista come qualcosa di fuori luogo, dando una lettura a senso unico del significato vero della fede e dell’aiuto di Dio, che nella parabola di Gesù non è chiamato in causa: perché? Perché la persona deve mettere in atto tutte le precauzioni possibili per non cadere vittima di se stesso. Personalmente ho constatato che la gestione fuori luogo della fede, dando per scontato che solo perché cristiano avrei comunque beneficiato dell’aiuto di Dio, mi ha portato in condizioni simili al costruttore della torre che non riesce a finire, la quale implica e coinvolge tanti elementi non necessariamente legati all’orizzontalità della vita. Certo, questo è avvenuto anche per l’eccessiva confidenza cui sono stato spinto nei confronti di Chi, di base, va trattato con rispetto e temuto essendo molto più in alto dell’uomo. Quante esistenze sono state progettate senza prima ponderare accuratamente se erano presenti le risorse, anche spirituali, necessarie! E quante sono rimaste schiacciate da un peso che si è voluto portare quando non si era chiamati a farlo, solo per il letteralismo usato verso certi versi! E questi inconvenienti li hanno sperimentati in tanti, indipendentemente dalle denominazioni, con clausure non richieste, ma auto inflitte. Così, da un “giogo dolce” e di un “carico leggero”ci si è resi schiavi di qualcosa o di qualcuno quando in realtà si era liberi.

 

Nel caso dei due re ho constatato che Nostro Signore si guarda bene dal nominare tutti quegli episodi in cui Israele vinse nemici più forti di lui anche dal punto di vista numerico e mi sono chiesto perché. Sicuramente evitò la citazione perché si trattava di vittorie profetizzate, rivelate da Dio, che sceglie “le cose pazze del mondo per svergognare le savie”, e penso ad esempio a Davide quando, nel primo libro di Samuele, vinse Golia. Ricordiamo il commento umano alla sua proposta di battersi: “Tu non puoi andare contro questo filisteo a combattere con lui: tu sei un ragazzo e costui è uomo d’armi fin dalla sua adolescenza”(17.33). Se Davide vinse, non fu perché pensò alla prudenza, ma perché difendeva il nome del Signore: “Tu vieni a me con la spada, con la lancia e con l’asta. Io vengo a te nel nome del Signore degli eserciti, Dio delle schiere d’Israele, che tu hai sfidato. In questo stesso giorno, il Signore ti farà cadere nelle mie mani”(v.45).

La situazione non poteva che volgere a suo favore perché l’Iddio d’Israele avrebbe dato un segno della sua presenza: “Quel filisteo maledisse Davide in nome dei suoi dèi”(43).

Nel passo di Luca che stiamo esaminando, quindi, Gesù non promette la riuscita di una nostra impresa a prescindere dalle nostre forze, anzi fa esempi molto concreti quasi a “tenersene fuori” e a dire: “stai attento a quello che fai, ai tuoi limiti, a ciò che puoi permetterti, a non fare il passo più lungo della gamba”. Perché al discepolo non è chiesta né l’inesperienza e nemmeno la stoltezza: “Imparate, inesperti, la prudenza e voi, stolti, fatevi assennati”(Proverbi 8.5). Sono quindi elementi da imparare, perseguire.

Sappiamo che “Il Signore dà la sapienza, dalla sua bocca escono scienza e prudenza”(2.6) e, se si accolgono le Sue parole, si concreterà la promessa “La riflessione ti custodirà e la prudenza veglierà su di te, per salvarti dalla via del male, dall’uomo che parla di propositi perversi, da coloro che abbandonano i retti sentieri per camminare nelle vie delle tenebre, che godono nel fare il male e gioiscono dei loro propositi perversi, i cui sentieri sono tortuosi e le cui strade sono distorte; per salvarti dalla donna straniera, dalla sconosciuta che ha parole seducenti, che abbandona il compagno della sua giovinezza e dimentica l’alleanza con il suo Dio”(2.11-17). E credo che, oggi, l’unico modo che abbiamo per custodire le Sue parole, sia uno studio severo di esse, come del resto è sempre stato. Da lì arriva la protezione.

Tornando sui due esempi, vediamo che il primo uomo della parabola, in caso di insuccesso, viene deriso dagli altri, quindi fallisce nella sua testimonianza; il secondo invece, cercando la pace col re nemico e con un esercito superiore, risparmia i suoi soldati e il popolo da una morte inutile ed evita loro la vergogna della sconfitta.

Arriviamo alla frase finale – perché il sale che diventa insipido lo abbiamo già affrontato –: “Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo”. “Così”sembra la conclusione dei due esempi precedenti, ma non può essere ed è probabile che Luca abbia voluto ribadire un concetto più volte espresso da Gesù sull’abbandono. Qui vengono chiamati in causa “tutti i suoi averi”, quindi anche i nostri, ma la rinuncia non necessariamente implica l’attuazione di quanto detto al giovane ricco, cioè di vendere tutto ciò che aveva, darlo ai poveri, e poi seguire Gesù: gli apostoli prima e i discepoli poi avevano effettivamente “lasciato ogni cosa”nel senso che ciò che avevano, da punto di arrivo e da gestione egoistica, era diventata solo uno strumento, per di più temporaneo perché, quando le esigenze della predicazione lo richiederanno, gestiranno i loro beni in modo diverso.

Rinunciare a tutti i nostri averi, per noi oggi, implica il non considerarli come fondamentali alla nostra sussistenza e sbarazzarcene nel momento in cui questi diventano vincolanti, di ostacolo al nostro avanzamento spirituale esattamente come gli affetti elencati da Gesù al verso 26 o dal passo di Deuteronomio che abbiamo citato. Sarà poi l’intelligenza della persona, in base a ciò per cui è chiamata da Dio, a stabilire ciò che è necessario per la propria vita e ciò che non lo è, liberato per lo Spirito dai suoi egoismi.

Ricordiamo infatti le dinamiche della Testimonianza iniziata da Nostro Signore, inizialmente benestante con la sua famiglia grazie anche ai doni portati dai Magi: sia lui che i discepoli avevano una casa nella quale dimoravano e a cui tornavano dopo le predicazioni, poi vissero col loro gruppo delle offerte con la cassa comune che teneva Giuda Iscariotha; la Chiesa di Gerusalemme aveva molti credenti che vendevano i loro averi e deponevano ai piedi degli apostoli il ricavato per sovvenire ai fratelli più economicamente deboli, ma più avanti troviamo persone, come Lidia, commerciante di porpora a Tiàtira, che ospitava nella sua casa dei credenti, quindi la Chiesa, e che non risulta si sia sbarazzata dei suoi possedimenti. E il suo nome e persona furono importanti a tal punto da comparire nel testo del libro degli Atti.

La gestione della propria persona e conseguentemente dei propri beni il cristiano deve averla alla luce della prudenza e dell’intelligenza, da “acquistare a costo di tutto ciò che possiedi”(Proverbi 4.7) che ben si raccorda alle parole di Gesù e che, assieme all’essere attenti e accorti, ci fanno capire le posizioni da prendere. Amen.

* * * * *

 

 

13.23 – IL GRAN CONVITO III/III (Luca 14.15-24)

13.23 – Il gran convito III (Luca 14.15-24) 

 

15Uno dei commensali, avendo udito questo, gli disse: «Beato chi prenderà cibo nel regno di Dio!». 16Gli rispose: «Un uomo diede una grande cena e fece molti inviti. 17All’ora della cena, mandò il suo servo a dire agli invitati: «Venite, è pronto». 18Ma tutti, uno dopo l’altro, cominciarono a scusarsi. Il primo gli disse: «Ho comprato un campo e devo andare a vederlo; ti prego di scusarmi». 19Un altro disse: «Ho comprato cinque paia di buoi e vado a provarli; ti prego di scusarmi». 20Un altro disse: «Mi sono appena sposato e perciò non posso venire». 21Al suo ritorno il servo riferì tutto questo al suo padrone. Allora il padrone di casa, adirato, disse al servo: «Esci subito per le piazze e per le vie della città e conduci qui i poveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi». 22Il servo disse: «Signore, è stato fatto come hai ordinato, ma c’è ancora posto». 23Il padrone allora disse al servo: «Esci per le strade e lungo le siepi e costringili ad entrare, perché la mia casa si riempia. 24Perché io vi dico: nessuno di quelli che erano stati invitati gusterà la mia cena»».

 

            In questa terza ed ultima parte ci occuperemo dell’ultima delle tre categorie di invitati, non prima di riportare la versione corretta del testo del verso 21, “Va’ fuori per le vie e per le siepi e costringili ad entrare, affinché la mia casa sia piena”. Una migliore traduzione pone ancora di più l’accento sul “fuori”e riporta “Esci per le campagne”, a sottolineare un territorio che non ha a che vedere con quello cittadino e che simboleggia le popolazioni pagane, raggiunte dal messaggio evangelico dopo il rifiuto dei Giudei.

Ricordiamo ciò che disse Gesù alla donna cananea, “Io non sono mandato se non alle pecore perdute d’Israele”quando ancora non vi era stata l’apertura ad altri popoli, ma poi, progressivamente, furono proprio i pagani a rispondere visti nella pericope di Isaia 42.4 “…le isole attendono il suo insegnamento”. Tutto questo senza contare quanto detto a proposito nell’insegnamento sul buon pastore: “Ho altre pecore che non sono di quest’ovile: anche queste io devo condurre”(Giovanni 10.16).

Nella prima e seconda frase dette al servo una volta ricevuto il rifiuto dei legittimi invitati notiamo che c’è una parte comune e una che diverge: la prima è la categoria di persone a cui il servo passa l’annuncio, “i poveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi”, cioè persone menomate in un modo o in un altro, non necessariamente nel corpo, disprezzati o tollerati dalla società. Ricordiamo fra l’altro anche Levitico 21.16-23: “Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla ad Aronne dicendo: «Nelle generazioni future nessun uomo della tua stirpe che abbia qualche deformità potrà accostarsi ad offrire il pane del suo Dio; perché nessun uomo che abbia qualche deformità potrà accostarsi: né un cieco né uno zoppo né uno sfregiato né un deforme, né chi abbia una frattura al piede o alla mano, né un gobbo né un nano né chi abbia una macchia nell’occhio o la scabbia o piaghe purulente o i testicoli schiacciati. Nessun uomo della stirpe del sacerdote Aronne con qualche deformità si accosterà per presentare i sacrifici consumati dal fuoco in onore del Signore. Ha un difetto: non si accosti quindi per offrire il pane del suo Dio. Potrà mangiare il pane del suo Dio, le cose sacrosante e le cose sante; ma non potrà avvicinarsi al velo né accostarsi all’altare, perché ha una deformità. Non dovrà profanare i miei luoghi santi, perché io sono il Signore che li santifico»”.

 

In questo caso la “società” è proprio quella di coloro che rifiutarono il Vangelo ai tempi di Gesù, quella invitata originariamente al convito, ma se andiamo a considerare i termini impiegati nel verso “Esci subito per le piazze e per le vie della città”, vediamo che i luoghi in cui il servo sarebbe dovuto passare comprendono tanto le vie larghe che conducevano alle piazze (plateias), quando quelle secondarie, quelle strette, le traverse, i sentieri (rumas). Il servo, tramite il Vangelo, raggiunge chiunque, non lascia nulla di intentato per arrivare agli uomini nel senso che nessuno di loro viene escluso. Se mai, lo fa da sé.

Diverso invece è per quelli “fuori”dalla città: viene detto all’inviato di andare “per le strade e lungo le siepi e costringili a entrare”. Anche lì ci sono strade, ma sono aperte, fuori dalle mura a sottolineare che la residenza in città è preclusa a chi non può entrare, che la vera società è lì e chi non vi abita ne è escluso. Le mura infatti sono certamente una difesa, ma anche la rivendicazione di uno status. Anche la citazione della siepe è importante, perché anche quella ci parla di una proprietà privata che circonda e difende chi l’ha costruita; anche se può simboleggiare la protezione di Dio come in Giobbe 1.10, quando l’Avversario disse a Dio “Non sei forse tu che hai messo una siepe intorno a lui e alla sua casa e a tutto ciò che è suo? Tu hai benedetto il lavoro delle sue mani e i suoi possedimenti si espandono sulla terra”, la siepe è qualcosa riferito proprio ad una iniziativa di difesa della proprietà umana, come nella parabola delle vigna di Matteo 21.33 o Marco 12.1 di cui è detto che fu circondata da quella, ma possiamo citare anche Siracide 36.27, “Dove non esiste siepe, la proprietà viene saccheggiata”. Chi sta “lungo la siepe”, solitamente molto spinosa, sa di non poterla oltrepassare, può solo percorrerne il perimetro per trovarne la porta e aspettare o chiedere un aiuto caritatevole che non è detto che arrivi. Stare “lungo la siepe”, allora, è indice di una povertà e un bisogno ancora maggiore rispetto ai poveri e ai menomati di prima che, almeno, potevano trovare rifugio nella città.

 

C’è poi un particolare non da poco nelle parole rivolte al servo per questa seconda missione, cioè “costringili a entrare”, che ci parla non di forza o violenza, ma di persuasione, di richiamo, parole che corrispondono al nostro vissuto. Per quanto mi riguarda, quando ho ricevuto l’annuncio del Vangelo non ho risposto subito, pur non avendolo escluso a priori: ho avuto bisogno di tempo per pensare, per chiedermi se quanto mi veniva prospettato fosse vero, di sperimentare, guardarmi attentamente dentro per valutare se quanto provavo fosse reale o qualcosa che era solo nella mia mente. Solo quando sono stato “convinto”, “costretto”ho accettato, e come me credo tutti quelli che ora sono figli di Dio. Perché nascere “di acqua e di spirito”è qualcosa che non si trasmette ereditariamente.

Il “costringili ad entrare”si raccorda allora con la capacità che ha la Parola di Dio, attraverso lo Spirito Santo, di convincere la persona di peccato, giustizia e giudizio e quindi stravolgerne l’esistenza; ricordiamo infatti la Sua caratteristica: “La Parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore. Non vi è creatura che possa nascondersi davanti a lui, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi suoi e noi dobbiamo rendere conto” (Ebrei 4.12,13).

Si potrebbe osservare che ciò vale per tutti gli uomini indipendentemente dalla loro etnia, ma i pagani, a differenza degli ebrei, devono rinunciare a un bagaglio storico penalizzante, anche se la rivoluzione interiore è la stessa. Parlare con un ebreo convertito è un’esperienza molto particolare perché ci si rende conto di quanto per lui sia agevole comprendere la Scrittura, che infatti fu data al suo popolo e non ad altri.

L’esperienza col Dio vivente è stravolgente per chiunque e non per nulla scrive Geremia “Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre. Mi hai fatto violenza, e hai prevalso”(20.7). Ecco perché Gesù disse “Dai giorni di Giovanni il Battista fino ad ora, il regno dei cieli subisce violenza e i violenti se ne impadroniscono”(Matteo 11.22). Chi fu “costretto ad entrare”e subì la violenza di Dio fu Saulo di Tarso quando era diretto a Damasco in Atti 9 e possiamo dire che tutto questo, il costringere, consiste in quella forza d’attrazione che fa Padre sugli uomini in Giovanni 6.44, “Nessuno può venire a me, se il Padre non lo attrae”.

Sotto certi aspetti, la vita stessa del cristiano è fatta di violenza, solo che questa viene esercitata nei confronti dell’ “uomo vecchio”e non certo sul nostro prossimo: nessuno è chiamato ad usare un cilicio o a punizioni corporali, ma a reprimere e gestire gli stimoli della carne che tenderà sempre ad avere il sopravvento; ricordiamo l’amputazione della mano e il cavare l’occhio di cui abbiamo parlato in un precedente capitolo. Ancora meglio, per comprendere il concetto, quanto scrive l’apostolo Paolo ai credenti di Roma: “Quelli che vivono secondo la carne, pensano alle cose della carne; quelli che invece vivono secondo lo Spirito, alle cose dello Spirito. Ma i desideri della carne portano alla morte, mentre i desideri dello Spirito portano alla vita e alla pace. (…) Se vivete secondo la carne, voi morirete; se invece con l’aiuto dello Spirito voi fate morire le opere del corpo, vivrete” (8.5-13).

La costrizione “ad entrare”si verifica proprio nel momento in cui un uomo capitola dinnanzi a Dio facendo morire l’uomo vecchio prima che questo muoia davvero, quando la porta del Regno verrà chiusa e dovrà affrontare quella che è chiamata “la seconda morte”.

Torniamo alla parole del signore al servo: tutto questo mandarlo per la città e fuori ha un solo fine, “perché la mia casa si riempia”. Se ragioniamo secondo il metro umano è qualcosa che non ha senso perché non si capisce per quale ragione una persona altolocata possa desiderare di avere la propria dimora piena di sconosciuti, per di più non certo della sua estrazione sociale. Ho conosciuto rarissime persone che, periodicamente, offrivano pasti a gruppi di indigenti, ma lo facevano sempre fuori dalle proprie abitazioni, senza mangiare con loro; davano incarico ad altri di organizzare la cosa, il pasto avveniva e tutto finiva lì. Oggi abbiamo la Caritas ed altre organizzazioni che si impegnano in tal senso, ma si tratta di qualcosa di ancora diverso: non c’è una festa, ma esistenze che scorrono e si ritrovano il giorno successivo, non c’è una porta che si chiuda per separare i convenuti dagli altri perché è proprio da quel chiudere che comincia una nuova vita.

Nel nostro caso, invece, sì. Un uomo ricco, abitante in una casa immensa come emerge dal contesto, chiama alla sua mensa le categorie di cui abbiamo letto che, senza quell’invito, non solo non sarebbero mai potute entrare, ma tantomeno mangiare cibi che sicuramente non avevano mai gustato. Queste persone vengono prese così come sono e tali entrano nella dimora del padrone: sono sporchi, malvestiti come tutti coloro che vivono a stento, esattamente come qualunque persona che viene invitata ancora oggi da Dio, poiché il tempo della grazia non è finito. Spiritualmente, anche noi non eravamo degni e ci accontentavamo di quel poco d’ombra che poteva offrire una siepe e di mendicare ad altri un nutrimento che non bastava, eppure un giorno è arrivato il Servo e ci ha invitato.

A conclusione viene spontaneo domandarci il perché delle differenti versioni della parabola: questa sicuramente, secondo il costume dei rabbini, fu ripetuta da Gesù più volte e in diverse occasioni, Matteo 22 compresa, stante il fatto che il Suo pubblico non era lo stesso, con varianti che si adattavano alle sfumature che via via Nostro Signore voleva sottolineare.

Qui la parabola termina con parole molto amare che denotano non il fatto che il padrone di casa si sia offeso, ma che è il comportamento di chi rifiuta il suo invito a determinarne l’esclusione: con le parole “Nessuno di quelli che erano stati invitati gusterà la mia cena”, Gesù si mette per la prima volta sullo stesso piano del padrone di casa, anzi, praticamente rivela di essere la stessa cosa come in effetti è, perché “Io e il Padre siamo una cosa sola”(Giovanni 10.30). Possiamo anche fare un raccordo con un passo letto recentemente a conclusione della parabola dei servi che vegliano: “Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà sedere a tavola e passerà a servirli”(Luca 12.37).

Credo non ci potesse essere modo migliore per finire quell’incontro: Gesù era stato invitato da quel capo dei farisei non per riguardo, ma perché potesse essere studiato, attentamente e da vicino; guardando come le persone si accalcavano per avere i posti migliori, inizia una lezione di umiltà che certo non capirono, poi passa a dare un insegnamento su cosa sia la carità che porta alla “ricompensa alla resurrezione dei giusti”e infine, sempre partendo dalla situazione del banchetto, apre un grosso squarcio sulla prospettiva del regno dei cieli, sull’invito più e più volte fatto dai profeti a un popolo che pareva tanto più allontanarsi quanto più Dio si avvicinava loro. Amen.

* * * * *

13.22 – IL GRAN CONVITO II (Luca 14.15-24)

13.22 – Il gran convito II (Luca 14.15-24)  

 

15Uno dei commensali, avendo udito questo, gli disse: «Beato chi prenderà cibo nel regno di Dio!». 16Gli rispose: «Un uomo diede una grande cena e fece molti inviti. 17All’ora della cena, mandò il suo servo a dire agli invitati: «Venite, è pronto». 18Ma tutti, uno dopo l’altro, cominciarono a scusarsi. Il primo gli disse: «Ho comprato un campo e devo andare a vederlo; ti prego di scusarmi». 19Un altro disse: «Ho comprato cinque paia di buoi e vado a provarli; ti prego di scusarmi». 20Un altro disse: «Mi sono appena sposato e perciò non posso venire». 21Al suo ritorno il servo riferì tutto questo al suo padrone. Allora il padrone di casa, adirato, disse al servo: «Esci subito per le piazze e per le vie della città e conduci qui i poveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi». 22Il servo disse: «Signore, è stato fatto come hai ordinato, ma c’è ancora posto». 23Il padrone allora disse al servo: «Esci per le strade e lungo le siepi e costringili ad entrare, perché la mia casa si riempia. 24Perché io vi dico: nessuno di quelli che erano stati invitati gusterà la mia cena»».

 

            Siamo così giunti alla seconda parte del verso 21 cioè quando, una volta che il servo riferisce al suo signore la reazione degli invitati alla “grande cena”, la reazione è “adirato, disse al servo”. È questo un particolare che ci consente alcune riflessioni perché il verso ci pone davanti ad una delle caratteristiche di Dio, quella dell’adirarsi, non meno importante dell’amore profondo che nutre per la creatura perché, se fosse solo amore, non sarebbe perfetto. Piuttosto, il Signore Iddio è l’essere Vivente (e in quanto tale datore di vita) in cui convivono in modo assolutamente equo pietà, misericordia, carità, giustizia, ira, vendetta e potenza; possiamo dire che il modo in cui si rivela dipende dall’uomo, dal suo comportamento e da ciò che lo abita, posto che l’agire di Dio sarà sempre volto al recupero della creatura prima di condannarla.

Esemplare in proposito Ezechiele 33.11: “Com’è vero che io vivo (oracolo del Signore Dio), io non godo della morte del malvagio, ma che il malvagio si converta dalla sua malvagità e viva. Convertitevi dalla vostra condotta perversa! Perché volete morire, o casa d’Israele?”. In questo richiamo di Dio al popolo, uno dei tanti nel corso della sua storia, vediamo che solo dopo un ostinato rifiuto alla conversione arriverà il giudizio, non prima. E l’invito ad abbandonare un’esistenza disordinata per essere ciò per cui si era stati eletti, cioè servire, è, fatte le debite proporzioni, lo stesso della “grande cena” perché in quel “e viva” di Ezechiele non si allude a una sopravvivenza, ma a una vita piena, di benedizione e crescita davanti a Dio, che del convito altro non è che il preludio.

Ancora, guardando agli attributi di Dio che sono stati elencati, ovviamente in parte, poco sopra, si può considerare che ciascuno di essi, se fosse prevalente, andrebbe a turbare il Suo comportamento e non potremmo fidarci di Lui: in altri termini se Dio fosse solo amore, allora perdonerebbe tutti e il “paradiso” sarebbe popolato dalla stessa accozzaglia umana con la quale siamo costretti a convivere. Se Dio fosse solo giustizia, nessuno di noi scamperebbe e il “paradiso” sarebbe desolatamente vuoto, con solo Lui e le schiere celesti; mancherebbe l’uomo creato proprio perché serviva un essere tratto dalla terra che fosse amato e Lo amasse.

So di dire una frase forte, ma è come se Dio avesse avuto bisogno dell’uomo perché al di fuori di lui nessuno poteva dirsi spirituale e al tempo stesso costituito dalla stessa materia che avrebbe dato nome al pianeta, la Terra. E il nome stesso Adamo significa “fatto di terra”. Adamo e sua moglie furono gli unici esseri chiamati ad esercitare il libero arbitrio al contrario dell’Avversario e dei suoi angeli, che scelsero deliberatamente di ribellarsi. Si tratta di due cose diverse.

Tornando in tema, abbiamo visto gli effetti che vi sarebbero se Dio fosse esclusivamente amore, ma se fosse solo – ad esempio – da temere o (ancora) giustizia, certo dovremmo subire i suoi giudizi attimo dopo attimo, senza speranza di riscatto perché non saremmo mai idonei a sostenerne la presenza tanto nella nostra vita terrena quanto in quella futura. E chi ha vissuto o vive con persone irascibili e disturbate sa cosa voglio dire.

Questa è una delle ragioni per le quali fu ordinato il profumo quale parte integrante dell’incontro con Dio: “Prenditi degli aromi, della resina, della conchiglia odorosa, del galbano, degli aromi, con incenso puro e in dosi uguali; ne farai un profumo composto secondo l’arte del profumiere, salato, puro, santo; ne ridurrai una parte in minutissima polvere, e ne porrai davanti alla testimonianza nella tenda del convegno, dove io m’incontrerò con te. Esso vi sarà una cosa santissima” (Esodo 30.34-36). Ora quel profumo, che non a caso doveva essere presente “dove io m’incontrerò con te”, rappresentava ciò che l’uomo avrebbe dovuto essere e che Dio avrebbe fatto per lui dandogli in dono il Figlio, perfetto in ogni cosa come l’incenso suggeriva: anche nel Figlio, infatti, dimoravano in parti uguali le caratteristiche del Padre. Certo fu l’amore e il servizio instancabile per la creatura ad emergere, ma ciò fu in quanto figlio dell’uomo e in modo ben diverso si rivelerà al Suo ritorno.

Il profumo, poi, ci parla anche di come dobbiamo/dovremmo essere noi tanto nei rapporti con la nostra persona, quanto con gli altri per non caderne vittima: la nostra disponibilità non può trasformarsi in servilismo, mai e per nessuno. Il nostro perdono non può essere dato a prescindere dal comportamento che il nostro prossimo ha per noi. La nostra eventuale “ira” non può sfociare nel peccato, la nostra dignità, come figli di Dio, non può essere calpestata da nessuno. E guardando a Gesù, questo fu il suo comportamento, fatto salvo per la crocifissione per quanto, anche lì, esisteva un limite che nessuno avrebbe potuto superare, come testimonia il fatto della lancia e delle gambe che non furono spezzate, come scritto: “Questo avvenne perché si adempisse la Scrittura: «Non gli sarà spezzato alcun osso». E un altro passo dice “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto” (Giovanni 19.36-37).

A volte si dimentica che non esistono qualità più importanti nel credente, ma che devono albergare in modo bilanciato per fare di noi delle persone equilibrate nel servizio e nella testimonianza, posto che sappiamo la carità essere la più importante di tutte, che però viene temperata dalle altre ed è l’essere “bambini quanto a malizia, ma uomini maturi quanto ai giudizi” (1 Corinti 14.20).

 

Bene, è stata fatta questa premessa perché non sono pochi quanti, a fronte dell’adirarsi di Dio, si sentono in grado di giudicarlo quasi che fosse – come in effetti vorrebbero – pronto a soddisfare ogni loro desiderio, aspettativa, preghiera. Ma si tratta di un Dio creato dall’uomo, non certo di quello Vivente e Vero.

In questa parabola il “signore” si adira perché tutte le scuse accampate dagli invitati sono un oltraggio non solo a lui, ma alla propria disponibilità: voleva accogliere le persone che conosceva e lo conoscevano, col quale c’erano stati dei rapporti e sapevano della sua disponibilità. Ecco perché abbiamo letto “ti prego di scusarmi” e “non posso venire” usando come pretesto una norma legale interpretata.

Anche qui, ricollegandoci a quanto espresso in precedenza, quelle persone avevano equivocato, scambiato la disponibilità con debolezza nel senso che, secondo loro, chi era stato tanto generoso lo sarebbe sicuramente stato ancora, ma sappiamo, anche per la nostra conoscenza sommaria, che quando nelle parabole c’è un convito questo è il riassunto finale delle esistenze che in Dio si compendiano o meno prima che l’eternità abbia inizio, per cui c’è una porta che si chiude per sempre; chi sarà dentro sarà dentro, chi sarà fuori sarà fuori, chi in un mondo, chi in un altro, senza possibilità di interscambio.

Proseguendo, vediamo che al servo viene dato un altro incarico: “Esci subito per le piazze e per le vie della città e conduci qui i poveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi”, la stessa categoria di persone citata da Gesù al capo dei farisei che lo aveva invitato, ma che qui hanno un altro significato perché, paradossalmente, viene chiesto al servo di chiamare proprio quel genere di persone che a quel convito non avrebbero potuto partecipare in quanto si trattava di qualcosa di riservato a chi si conosceva. Viene quindi da pensare che gli invitati da quell’ “uomo” fossero proprio i naturali eredi di quanti avevano tramandato e conservato la Parola di Dio poi trasmessa al popolo insegnandola, queli che per primi avrebbero dovuto riconoscere inequivocabilmente Gesù come l’inviato di Dio, il Messia.

È tra l’altro molto importante tenere presente che chi dà il convito era superiore per rango a tutti gli invitati, che certo non avrebbero mai potuto permettersi di organizzare quanto quel signore aveva apparecchiato per loro.

A questo punto sorge però una questione, e cioè per quale motivo vengono chiamate al banchetto, dopo il rifiuto dei legittimi destinatari, persone che non avevano nulla a che fare con l’ideatore – organizzatore della “gran cena”: escludendo l’ipotesi che ciò sia avvenuto per evitare uno spreco di cibo, non resta altro pensiero se non quello che, adirato con coloro che avevano disprezzato il suo gesto, quell’uomo abbia voluto restare fedele alla sua benignità: prende atto del rifiuto, dell’indifferenza di coloro ai quali l’invito spettava direi “di diritto” per le relazioni con lui, e si rivolge ad altri, sempre però – attenzione – residenti “in città”, quindi all’interno delle mura, quindi sempre, presumiamo con un buon margine di certezza, israeliti benché sprezzati dai loro orgogliosi fratelli in quanto poveri e storpi.

Ecco allora che tutte queste persone rappresentano proprio i disprezzati dai Giudei, cioè quei “pubblicani e peccatori” che invece Gesù accoglieva e lo seguivano, a differenza loro.

Ricordiamo quando avvenne, ad esempio alla chiamata di Levi Matteo, quando offrì anche lui un convito: “Mentre sedeva a tavola nella casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e se ne stavano a tavola con Gesù e con i suoi discepoli, Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli; «Come mai il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?” (9.10,11). Quasi commovente poi è la nota di Luca che precede l’esposizione della parabola della pecora smarrita: “Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro»” (15.1,2).

 

Tornando al testo, il servo di quel signore fa ancora una volta come ordinato, ma il rapporto che presenta denota che l’intento di avere il convito pieno di partecipanti non era ancora stato raggiunto: “È stato fatto come hai ordinato, ma c’è ancora posto”. Ecco, qui credo che sia impossibile non collegare queste parole ad un’altra frase di Gesù relativa alla collocazione che avranno i credenti un giorno: “Il vostro cuore non sia turbato; abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molti posti. Se no, ve l’avrei detto. Io vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io. E del luogo dove io vado, voi conoscete la via” (Giovanni 14.1-4).

“C’è ancora posto” ci consente di considerare la vastità del luogo in cui avrebbe dovuto celebrarsi la “grande cena” perché, pur non sapendo quanti poveri e menomati ci fossero a Gerusalemme a quei tempi, certo il loro numero doveva essere molto grande. È questa frase del servo, “c’è ancora posto”, che apre le prospettive per tutti coloro che non appartengono al popolo d’Israele e verranno invitati esattamente come tutti gli altri: questa volta, infatti, al servo viene detto di uscire “fuori”, particolare non rilevabile dalla nostra traduzione ma presente in altre, da cui vediamo che a venire raccolti sono quanti erano appunto “fuori dalle mura”, “per le strade lungo le siepi” nei pressi delle quali cercavano riparo.

* * * * *

13.21 – IL GRAN CONVITO I (Luca 14.15-24)

13.21 – Il gran convito I (Luca 14.15-24)   

 

15Uno dei commensali, avendo udito questo, gli disse: «Beato chi prenderà cibo nel regno di Dio!». 16Gli rispose: «Un uomo diede una grande cena e fece molti inviti. 17All’ora della cena, mandò il suo servo a dire agli invitati: «Venite, è pronto». 18Ma tutti, uno dopo l’altro, cominciarono a scusarsi. Il primo gli disse: «Ho comprato un campo e devo andare a vederlo; ti prego di scusarmi». 19Un altro disse: «Ho comprato cinque paia di buoi e vado a provarli; ti prego di scusarmi». 20Un altro disse: «Mi sono appena sposato e perciò non posso venire». 21Al suo ritorno il servo riferì tutto questo al suo padrone. Allora il padrone di casa, adirato, disse al servo: «Esci subito per le piazze e per le vie della città e conduci qui i poveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi». 22Il servo disse: «Signore, è stato fatto come hai ordinato, ma c’è ancora posto». 23Il padrone allora disse al servo: «Esci per le strade e lungo le siepi e costringili ad entrare, perché la mia casa si riempia. 24Perché io vi dico: nessuno di quelli che erano stati invitati gusterà la mia cena»».

 

            Prima di esaminare il nostro passo, di immediata comprensione ma al tempo stesso impegnativo, occorre ricordare quanto avvenuto pochi attimi prima, cioè Gesù che disse a colui che l’aveva invitato “Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici, né i tuoi fratelli, né i tuoi parenti, né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. Quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti” (vv. 12-14).

È quindi lecito pensare che a queste parole seguirono momenti di grande imbarazzo e “uno dei commensali”, quindi un altro fariseo, per alleviare la tensione, fece un collegamento tra quel convito e le parole di Gesù sulla “resurrezione dei giusti” dicendo “Beato chi prenderà cibo nel regno di Dio!”. È questo un punto delicato da interpretare, ma non credo che quell’intervento fosse dettato da ragioni spirituali; piuttosto fu la conoscenza religiosa di quel fariseo che parlò, buttando lì un principio nel tentativo di cambiare argomento; non credo si riferisse a Isaia 25.6-8 relativo al banchetto celeste dei tempi a venire: “Preparerà il Signore degli eserciti – celesti – per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati. Egli strapperà su questo monte il velo che copriva la faccia di tutti i popoli e la coltre – di ignoranza – distesa su tutte le nazioni. Eliminerà la morte per sempre”.  È proprio questo passo che, pur non citato, viene sviluppato da Gesù, prendendo spunto dalla frase che l’ignoto pronunciò nel tentativo di alleggerire la tensione che si era venuta a creare.

La parabola del convito è riportata, con più dettagli, anche da Matteo 22, ma verrà affrontata separatamente stante la sua indipendenza da quella che stiamo esaminando: qui abbiamo “un uomo”, in Matteo “un re”, ma è evidente che, mentre nel nostro caso Gesù espone un concetto basilare, nell’altra occasione lo approfondirà con più dettagli perché erano differenti le circostanze e l’uditorio.

Bene, l’uomo della nostra parabola “diede una gran cena”: non ci è detto il motivo, ma il racconto, per come si sviluppa, è incentrato (anche) sulla volontà di questa persona di offrirla e soprattutto che questa veda la partecipazione di molti. È anche chiaro che vi sia una preferenza, perché i “molti” che quell’uomo invita rientrano in una categoria di persone precisa, quelli che lo conoscevano, avevano un rapporto con lui e viceversa.

È facile riconoscere in questi il popolo di Israele, quello eletto da Dio ad essere suo; ciò lo vediamo non solo quando fu liberato dalla schiavitù d’Egitto (ricordiamo le parole “Lascia andare il mio popolo perché mi serva” in Esodo), ma anche da molto prima, con Abramo di cui abbiamo dedicato diverse riflessioni. Anche da Abramo comunque possiamo andare a ritroso, con Noè e prima ancora a Set, il cui nome significa “Sostituto”, figlio di Adamo che segnò un punto di partenza spirituale perché in Genesi 4.26 leggiamo “Anche a Set nacque un figlio, che chiamò Enos. A quel tempo si cominciò a invocare il nome del Signore”.

Anche da qui, però, possiamo retrocedere nel tempo e arrivare ad Abele, che nella sua coscienza sapeva che il Creatore andava onorato e ringraziato per i doni che gli arrivavano. Da lui risaliamo ad Adamo, “che fu di Dio” (Luca 3.38), e da Adamo a YHWH stesso, progettista e creatore non solo dell’universo e dell’uomo, ma anche del piano di salvezza che si sarebbe dovuto sviluppare dopo la caduta sotto la prospettiva del recupero non di Eden, ma della vita di comunione con l’uomo da Lui voluta. Ecco chi è/sono, a parte ciò che già sappiamo come credenti e lettori del Vangelo, “l’uomo” e gli invitati, discendenti naturali di quei grandi uomini di Dio grazie anche ai quali possiamo esistere spiritualmente.

La “grande cena” è proprio quella in vista dei “nuovi cieli e nuova terra dove dimora stabile la giustizia”, la dimora eterna di Dio con l’uomo, impossibile da raggiungere senza invito né il vestito dato a ciascuno, ma ancora di più senza conoscere chi è il suo autore e ideatore. Ecco quindi che le parole “fece molti inviti” si riferiscono alle innumerevoli manifestazioni d’amore rivolte al Suo popolo tanto con miracoli che con i Suoi messaggi che i profeti provvedevano a trasmettere. I “molti inviti” si possono intravedere nelle parole del Salmo 68 di Davide, vv.6-11: “O Dio, quando uscivi davanti al tuo popolo, quando camminavi per il deserto, tremò la terra, i cieli stillarono davanti a Dio, quello del Sinai, davanti a Dio, il Dio d’Israele. Pioggia abbondante hai riversato, o Dio, la tua esausta eredità tu hai consolidato e in essa ha abitato il tuo popolo, in quella che, nella tua bontà, hai reso sicura per il povero”.

Ora, negli antichi scritti abbiamo la testimonianza che l’essere resi partecipi della sapienza – figura del Figlio la cui accettazione sarà fonte di doni spirituali – equivale all’accettazione di un invito tutto particolare: “La sapienza si è costruita la sua casa, ha intagliato le sue sette colonne. Ha ucciso il suo bestiame, ha preparato il suo vino e ha imbandito la sua tavola. Ha mandato le sue ancelle a proclamare sui punti più alti della città: «Chi è inesperto venga qui!». A chi è privo di senno elle dice: «Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che ho preparato. Abbandonate l’inesperienza e vivrete, andate diritti per la via dell’intelligenza» (Proverbi 9.1-6).

Infine Isaia 55.1-3 che ogni tanto ricordiamo: “O voi tutti assetati, venite alle acque, voi che non avete denaro, venite, comprate e mangiate; venite, comprate senza denaro, senza pagare, vino e latte. Perché spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro guadagno per ciò che non sazia? Su, ascoltatemi e mangerete cose buone e gusterete cibi succulenti. Porgete l’orecchio e venite a me, ascoltate e vivrete”.

Arriviamo così al nostro verso 17, “all’ora della cena”, quindi quanto è tutto pronto. E qui vediamo i tempi di Dio, che non sono i nostri, ma che ci dicono che tutto è ormai apparecchiato, i cibi stanno finendo di cuocere e stanno per essere serviti. Stante l’imminenza della cosa, ecco che “mandò il suo servo a dire agli invitati: «Venite, è pronto!»”: notiamo l’articolo determinativo, “il”, quindi Colui che, per dignità e grado, poteva rappresentarlo, quindi “il Servo del Signore”, quello da Lui sostenuto, che rende l’annuncio del Regno di Dio e su come entrarvi in modo assolutamente perfetto al punto da dire, sulla croce, “tutto è compiuto”, ultima frase pronunciata quando era in vita, umanamente, con il corpo. Ciò secondo Giovanni 19.30.

Non sottovalutiamo il fatto che quel “servo” avrebbe dovuto presentarsi come inequivocabilmente inviato dall’organizzatore del convito perché non fosse confuso con altri e così fu per Gesù che infatti, come Servo ad annunciare che ogni cosa era pronta, arrivò proprio in un momento particolare della storia umana, come scrive l’autore della lettera agli ebrei con versi che ogni tanto amo riportare: “Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi ha parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante al quale ha fatto anche il mondo” (1.1,2).

Possiamo ricordare anche le parole di Giovanni Battista, che esortava i suoi uditori a ravvedersi perché “il Regno dei cieli è vicino”, ma quello che non si può fare a meno di sottolineare nella parabola è che gli invitati erano informati, sapevano che prima o poi vi sarebbe stata una cena per cui non potevano avere scuse nel rifiutare l’invito. Perché lo sapevano? Perché tutta la Parola loro data, a partire da Mosè, ma anche molto prima, lasciava intendere che il progetto di Dio per il Suo popolo sarebbe giunto un giorno a perfetto compimento.

Tutto lascia intendere, nella parabola, che l’ideatore del convito fosse stata una persona importante, vuoi per dignità e rango, vuoi per la relazione che intercorreva con gli invitati. E infatti la scortesia del rifiuto sembra cogliere quell’uomo di sorpresa e, guardando alle risposte che vengono date, possiamo osservare due cose: la prima è che gli argomenti che adducono per evitare il convito sono di natura esclusivamente egoistica: uno ha “comprato un campo” e deve andare a vederlo, l’altro ha comprato “cinque paia di buoi” e deve andare a provarli, un altro ancora “si è appena sposato”. I primi due, poi, dicono “Ti prego di scusarmi” così, confidenzialmente, quasi a sottintendere che la prossima volta avrebbero accettato stante l’impegno improvviso cui non potevano sottrarsi, ritenendo evidentemente campo e buoi più importanti della relazione con l’autore dell’invito.

Notiamo che, per i primi due personaggi, l’interesse personale viene prima di tutto: il “campo” e i “buoi”hanno riferimento con il denaro e le “cose di questo mondo” in genere, da sempre ostacolo forte, violento per la Parola di Dio: “Quando abbiamo di che mangiare e di che coprirci, accontentiamoci. Quelli invece che vogliono arricchirsi, cadono nella tentazione, nell’inganno di molti desideri insensati e dannosi, che fanno affogare gli uomini nella rovina e nella perdizione. L’avidità del denaro infatti è la radice di tutti i mali; presi da questo desiderio, alcuni hanno deviato dalla fede e si sono procurati molti tormenti” (1 Timoteo 6.9.10).

L’interesse è quindi ciò che impedisce ai primi due invitati di accettare quanto il servo, inviato a dichiarare aperto il convito, proponeva loro.

Il terzo, invece, che non si scusa neppure a differenza dei precedenti, si trincera dietro un –in questo caso- cavillo legale, poiché sappiamo che la Legge, in Deuteronomio 24.5, esentava l’uomo dalla guerra o altri incarichi perché “…sarà libero per un anno di badare alla sua casa e farà lieta la moglie che ha sposato”, ma in questo caso l’appellarsi al verso citato era chiaramente pretestuoso perché, semplicemente, quell’uomo desiderava starsene tranquillamente in casa propria usando – attenzione – la Legge come giustificazione del rifiuto, cosa che sappiamo fecero molti farisei, scribi e dottori. Dei tre, è l’unico che non si scusa, convinto che la norma citata sia sufficiente.

Credo non sbagli neppure chi ha visto, in quest’ultimo rifiuto, il terzo livello di ostacoli nella parabola dei terreni, quello dei rovi in Matteo 13.22: “Quello seminato tra i rovi è colui che ascolta la Parola, ma le sollecitudini di questo modo, l’inganno delle ricchezze e i piaceri di questa vita soffocano la parola ed essa non dà frutto”.

Comunque sia, questi tre personaggi che rappresentano i “molti” invitati, hanno tutti di meglio da fare che non partecipare al convito organizzato da quell’ “uomo” che, a differenza di quelli, lo offriva liberamente e nel loro interesse. Esiste una chiara sproporzione, una distanza enorme fra le parti: uno desidera condividere e, pur di avere la mensa piena, inviterà persone che con lui non avevano nulla a che fare; gli altri si vedono bastanti a se stessi, hanno le loro cose, i loro interessi, danno per scontato che l’invito rifiutato sarebbe giunto un’altra volta, quando avrebbero avuto tempo. E ancora di più oggi sono tanti quelli che reputano il tempo come qualcosa che appartenga loro e di cui possano disporre liberamente.

Giungiamo così alla fine di queste riflessioni, con la prima parte del verso 21: “Al suo ritorno, il servo riferì tutto questo al suo padrone”. Ora credo che qui, fra i tanti, abbiamo fondamentalmente due insegnamenti, il primo dei quali è non ancorarsi sempre e necessariamente alla letteralità del testo, perché sembrerebbe che Gesù venga inviato altre due volte sulla terra ad annunciare il convito, cosa chiaramente impossibile. Piuttosto – secondo insegnamento – il suo “riferire tutto al padrone”, tradotto più correttamente come “signore”, ha connessione con le innumerevoli volte in cui pregò il Padre rapportandogli e discutendo con Lui di tutto, in particolar modo sul cosa, come e dove agire. E sappiamo che un giorno disse “Vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare” (Matteo 21.43).

Abbiamo poi altri stimoli di riflessione offertici anche dal fatto che, come Gesù pregava il Padre rapportandogli ogni cosa, lo stesso facevano i discepoli con lui, in particolare al ritorno della loro missione quando leggiamo “Tornati dal loro giro, gli apostoli riferirono a Gesù tutto quello che avevano fatto” (Luca 9.10). Da qui il fatto che la preghiera non è, come purtroppo molti fanno, un elenco di ciò che ci necessita, ma soprattutto un esame, un rapportare quanto da noi operato per avere consigli, indirizzi, trovare soluzioni a problemi che devono essere soprattutto personali, per come affrontare dignitosamente il giorno, per correggere quei difetti e mancanze che sappiamo benissimo di avere e che possono rallentarci nella nostra vita cristiana.

Pregare, allora, non è facile perché prima bisogna essere di un’onestà assoluta prima con noi stessi perché chi ci ascolta non si può ingannare. E infatti, è scritto “Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia – due cose –  e le altre cose vi saranno date in aggiunta” (Matteo 6.19). Amen.

* * * * *

13.20 – CHI INVITARE (Luca 14.12-14)

13.20 – Chi invitare (Luca 14.12-14)          

 

12Disse poi a colui che l’aveva invitato: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. 13Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; 14e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti».

 

            Siamo giunti al secondo intervento verbale di Gesù che, dopo aver parlato a quelli che cercavano i primi posti in quel convito sabatico, ora si rivolge proprio “a colui che l’aveva invitato” ed è proprio qui che credo risieda la corretta lettura delle parole che verranno.

Così come al gruppo degli invitati viene detto di fare attenzione a dominare la propria vanità spostando il concetto su un terreno spirituale e scritturale, il fariseo viene esortato a rifuggire dalla logica del “do ut des” alla quale non solo lui, ma tutti i presenti oltre a chi aveva alte cariche, erano abituati.

Le normali relazioni interpersonali, solitamente, sono utili a tutti e soddisfano il semplice e disinteressato piacere di stare insieme e condividere, ma raramente questo avviene tra le categorie sociali elevate in cui il ritrovarsi serve a consolidare conoscenze, alleanze o anche il semplice confronto tra pari per alimentare il proprio orgoglio, in altri termini specchiarsi l’uno nell’altro per scoprirsi membri di una stessa “corporazione”. Ricordiamo anche i pranzi o le cene di lavoro in cui perfetti sconosciuti sono costretti a confrontarsi e recitare una parte per ottenere un risultato commerciale.

            Le parole di Gesù che abbiamo letto, poi, rivestono ancora più valenza nel fatto che furono pronunciate ad un uomo che, seppure importante per carica, non viveva in un grosso centro urbano né poteva dirsi particolarmente addentrato nel vero potere, quello che stava a Gerusalemme, ma comunque teneva molto ai “ricchi vicini” (a parte parenti e fratelli, cioè appartenenti alla sua corporazione) per cui, sostanzialmente, il suo atteggiamento si configurava nel modo che abbiamo descritto. In pratica, alla franchezza e alla spontaneità delle relazioni, si era sostituito il calcolo e l’interesse, come prova lo stesso invito a Gesù, rivoltogli evidentemente per poter coglierlo in flagranza di chissà quale reato e non per avere a casa propria qualcuno che avrebbe potuto cambiare radicalmente il proprio destino spirituale.

            La stessa frase “perché a loro volta non t’invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio” rivela questa mancanza di apertura l’uno verso l’altro; “t’invito perché tu m’inviti” era una frase che certo non veniva mai pronunciata, ma che si poteva ascoltare, respirare, vedere in ogni gesto, in ogni sguardo, nella forma stessa del convito. Era una consuetudine che rendeva tutti prigionieri e il pranzo era una formalità da adempiere, come testimonia il fatto stesso che fosse di sabato, giorno in cui si mangiava ciò che era stato preparato il venerdì, quindi non certo lautamente, quindi chi era lì aveva un motivo che andava oltre al semplice piacere per il cibo. Questo motivo non era da ricercare in qualche strategia per ottenere un favore, ma bastava anche solo essere presenti lì, ammessi, invitati da una persona in vista per poter farsi notare o dire «io c’ero».

            Si trattava quantomeno della situazione psicologica (e dei suoi contrari) già descritta in Luca 6.32-35: “Se amate quelli che vi amano, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori amano quelli che li amano. E se fate del bene a coloro che fanno del bene a voi, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori fanno lo stesso. E se prestate a coloro da cui sperate ricevere, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori concedono prestiti ai peccatori per riceverne altrettanto. Amate invece i vostro nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e la vostra ricompensa sarà grande e sarete figli dell’Altissimo, perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi – nel senso che non li tratta come meriterebbero ai nostri occhi-. Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso”. Da sottolineare sicuramente “Anche i peccatori fanno lo stesso” a conferma che il comportamento cristiano non può ricordare, avere alcuna parentela con quello del mondo.

            All’organizzatore del convito a questo punto viene detto, al posto dei propri conoscenti altolocati e magari parenti vari, di invitare ben altre categorie di persone: poveri, storpi, zoppi e ciechi, cioè quelli che nella società di allora sopravvivevano con molta fatica dovendo dipendere tutti da altrui interventi caritatevoli che certo erano prescritti dalla Legge, ma che raramente venivano effettuati con amore. Anche la parabola del “buon samaritano” che abbiamo esaminato mette in risalto un amore che non necessariamente sarebbe stato dovuto nei confronti della vittima dei predoni, che pure è alla base della cura di quell’uomo. E qui, come nelle parole di Gesù al fariseo, constatiamo l’amara verità del sistema in cui viviamo: ti assiste o finge di farlo (cassa integrazione, servizi sociali, etc.), ti cura o finge di farlo (medicina di base, ospedali), ma non ti ama o, peggio, in alcuni casi simula un interesse o un sentimento che non prova in alcun modo perché può essere “terapeutico”. La persona è così costretta a mendicare un’attenzione, un interessamento la cui sincerità non potrà mai andare oltre a quella di una frase di circostanza, pronunciata magari con tanto di volto apparentemente adeguato al caso di specie.

            Ecco allora che Nostro Signore sposta tutta la lettura degli intenti umani su un piano che non ha nulla di letterale nel senso che le istruzioni che dà sul modo di organizzare un convito o di curare una persona non hanno alcun valore se non si va alla radice interiore del problema, nostro e altrui perché altrimenti il ”far del bene” potrebbe diventare un alibi per la propria coscienza e finire per generare le stesse relazioni che s’instaurano fra “amici, fratelli, parenti e ricchi vicini”.

            Piuttosto, con l’invito a chiamare quelli che non possono contraccambiare, Gesù intende fare riferimento ancora una volta allo spogliare se stessi, a rinunciare a quanto abbiamo di caro visto nelle consuetudini, nei piaceri egoistici, a tutto ciò che porta al “volere”, “potere” ed “essere” di cui abbiamo accennato nelle scorse riflessioni.

Siamo nulla perché, se fossimo qualcosa, non moriremmo.

Sappiamo che il povero poteva sperare nella benevolenza di chi pranzava perché gli offrisse gli avanzi, ma non è questo di cui parla Gesù, che chiama in causa prima di tutto l’atteggiamento: devi trattare le persone allo stesso modo perché sono tuoi fratelli, in quanto appartenenti al tuo popolo ed è qui che si rivela la figura del “prossimo” che non può essere generalizzata come facciamo nel nostro tempo per cui, a quel tempo, un distacco, un disinteressamento nei confronti dell’altro era davvero una contraddizione: erano tutti figli di Abrahamo.

            Ancora una volta, nella lettura dei Vangeli, emerge quanto sia importante contestualizzare certi eventi o parole di nostro Signore pena un grosso fraintendimento, poiché parrebbe che qui sia in un certo qual modo “proibito” organizzare una cena coi nostri cari e venga “caldeggiato” di fare la stessa cosa con poveri o menomati, ma non è così, altrimenti si incorrerebbe nell’errore commesso da S. Luigi di Francia (Luigi IX, 1200 ca,) o la regina Edwige di Polonia (1300), entrambi santi per la Chiesa di Roma che, in ossequio a queste parole, mantenevano rispettivamente 900 e 1200 poveri senza che facessero nulla.

            Al contrario, Gesù qui parla ad un ebreo e lo invita a coinvolgere nelle sue iniziative altri ebrei che, non ricchi né benestanti, ma privi di un sostentamento, avevano comunque in comune una storia: anche loro, lo abbiamo citato, erano figli di Abrahamo, quindi della promessa del Cristo. Anche loro avevano una tribù d’appartenenza, forse diversa in quanto a nome, ma tutte facenti riferimento a Giacobbe, chiamato da Dio Israele, e ai suoi dodici figli. Tutti, ricchi e poveri, erano i discendenti di coloro che furono chiamati dalla schiavitù d’Egitto e liberati perché facenti parte del popolo che Iddio aveva scelto perché lo servissero e seguissero ed ecco perché non era concepibile che una classe sociale agiata non si occupasse di quelle più deboli, a parte quanto imposto dalla Legge.

A parte le norme sulla spigolatura, sul raccolto che non doveva essere meticoloso per dare l’opportunità al povero di nutrirsi, ricordiamo la regola della decima annuale e triennale: “Alla fine di ogni triennio metterai da parte tutte le decime del tuo provento in quell’anno e le deporrai entro le tue porte. Il levita, che non ha parte né eredità con te, il forestiero, l’orfano e la vedova che abiteranno le tue città, mangeranno e si sazieranno, perché il Signore, tuo Dio, ti benedica in ogni lavoro a cui avrai messo mano” (Deuteronomio 14.29). Si noti la presenza del “forestiero” che veniva accolto a condizione di integrarsi sul serio cioè accettando non solo le regole del popolo che lo ospitava, ma soprattutto aderendo al patto di Dio attraverso la circoncisione.

            Ricordiamo anche la festa delle Settimane: “Quando si metterà la falce nella messe, comincerai a contare sette settimane e celebrerai la festa delle settimane per il Signore, tuo Dio, offrendo secondo la tua generosità e nella misura in cui il Signore, tuo Dio, ti avrà benedetto. Gioirai davanti al Signore, tuo Dio, tu, tuo figlio e tua figlia, il tuo schiavo e la tua schiava, il levita che abiterà le tue città, il forestiero, l’orfano e la vedova che saranno in mezzo a te, nel luogo che il Signore, tuo Dio, avrà scelto per stabilirvi il suo nome. Ricordati che sei stato schiavo in Egitto: osserva e metti in pratica queste leggi” (Deuteronomio 16.9-12).

            L’aiuto ai deboli però andava ben oltre ad una fredda applicazione di una norma, ma doveva essere qualcosa di naturale, che sgorgasse da un cuore disponibile, come dalle parole di Isaia che, facendo da tramite con Dio, ricordò cosa fosse il vero digiuno: “Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti?” (58.7). Infine Proverbi 14.31 “Chi opprime il povero offende il suo creatore, chi ha pietà del misero lo onora”.

            C’è però una chiave di lettura, allora come oggi, che in questo episodio resta, ed è rinvenibile nella frase “sarai beato perché non hanno da ricambiarti” (v.14): all’uomo naturale suona una contraddizione, perché quasi sempre la persona agisce per un tornaconto personale nel senso che, se dà, si aspetta qualcosa in contraccambio e non a caso, quando si dice “grazie”, plurale di “grazia”, si esprime riconoscenza, una amichevole dichiarazione di essere in debito per qualcosa.

            Se allora chi fa un favore, una cortesia, un gesto positivo nei confronti di qualcuno in un certo senso lega a sé la persona cui lo ha rivolto, non così accade per chi non può ricambiare ed è qui che sta la beatitudine nel senso che, se fossimo soli, potremmo ritenere sprecata una buona azione rivolta a chi non può ripagare, ma intervenendo il Dio che vede e che sa, questa persona riceverà la sua “ricompensa alla resurrezione dei giusti”, cioè quando ciascuno verrà giudicato secondo le sue opere perché “tutti dobbiamo comparire davanti al Tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute quando era nel corpo, sia in bene che in male” (2 Corinti 5.10).

            E questa frase è per i credenti di grande responsabilità, perché diretta a loro: l’incontro con Cristo non sarà come quello che certi uomini, vissuti ai tempi di Gesù, hanno sperimentato, cioè con una persona “umile e mansueta di cuore”, con Colui che “non è venuto per essere servito, ma per servire” ma con l’ “IO SONO”, “l’Alfa e l’Omega, il Principio e la Fine” la cui visione provocò nell’apostolo Giovanni, che con Gesù aveva un rapporto particolare a differenza degli altri undici, un mancamento: “Appena lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto” (Apocalisse 1.17). Sarà al Tribunale di Cristo che molti ultimi saranno primi e viceversa, perché i Suoi occhi, il fuoco “che farà la prova dell’opera di ciascuno” e la “spada a due tagli” che esce dalla Sua bocca selezioneranno, separeranno, vaglieranno in modo assolutamente perfetto nel senso che non sarà possibile, come nella giustizia umana, cercare un secondo o un terzo grado di giudizio per vedersi stornata la decisione del primo Tribunale a nostro favore.

            Notare il possessivo “tua ricompensa”, cioè qualcosa di adatto a te, perché ogni nostra azione ne ha una, nel bene e nel male e qui voglio concludere: se è vero che per ogni nostro sbaglio, errore o peccato più o meno di inavvertenza c’è il perdono di Dio qualora riconosciuto, confessato e lasciato, è altrettanto vero che per ogni volta che veniamo perdonati è richiesto un attento esame su noi stessi perché non abbiamo a ripetere lo stesso errore, ricordando l’esortazione “Va’ e non peccare più, che peggio non ti avvenga”. E per trarre beneficio da un errore occorre valutarsi molto, andando a cercare la genesi, sviluppo e compimento di quell’errore, o peccato. Anche questo rientra in quel processo che porta l’uomo nuovo a rinnovarsi “per una piena conoscenza, ad immagine di Colui che lo ha creato”(Colossesi 3.10). Amen.

* * * * *

13.19 – LA PARABOLA DEI PRIMI POSTI (Luca 14.7-11)

13.19 – La parabola dei primi posti (Luca 14.7-11)        

 

7Diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i primi posti: 8«Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, 9e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: «Cedigli il posto!». Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto. 10Invece, quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: «Amico, vieni più avanti!». Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. 11Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato».

 

            Nella precedente riflessione avevamo dedotto che Nostro Signore fosse arrivato con anticipo al pranzo proprio dal particolare espresso al verso settimo, “notando come sceglievano i primi posti”. Abituati a partecipare più o meno occasionalmente a pranzi o a cene di conoscenti più o meno cari, viene istintivo pensare a uno o più tavoli imbanditi con sedie, ma ai tempi e nei territori di Gesù non era così: si stava sdraiati sui triclinii, praticamente dei letti, che contemplavano la possibilità di avere tre posti – ecco la ragione del suffisso “tri” – il cui centrale era quello ritenuto più onorevole. Inoltre, tanto più il triclinio era vicino a quello del padrone di casa, tanto più il posto suscitava l’ambizione dei partecipanti, come osservò Gesù stesso in Matteo 22.6 quando, parlando dei farisei, disse “Si compiacciono nei posti d’onore nei banchetti”. I triclinii erano poi disposti attorno a una tavola centrale sulla quale trovavano posto i cibi e le bevande.

Ebbene, Gesù assisté alla corsa ai “primi posti” da parte di persone attratte dal fatto di sedere a fianco di chi li aveva invitati, illudendosi così di avere un posto importante in quell’occasione, senza pensare che quel capo fariseo non avrebbe consentito a uno qualsiasi di sedere accanto a lui. Di qui l’intervento di Nostro Signore, non certo teso a insegnare le buone maniere sul prender posto a tavola.

E il primo tema che viene trattato è il desiderio di primeggiare, presente da sempre nell’essere umano, in un modo o in un altro. È qualcosa che non ha nulla a vedere con chi ha posizioni di prestigio guadagnate per capacità e meriti – fatto ai nostri giorni sempre più raro –  ma che coinvolge coloro che, senza alcuna qualità, hanno raggiunto posti di riguardo grazie ad artifizi, sotterfugi, raccomandazioni. Qualora ciò accada – e purtroppo soprattutto nella nostra società è la regola –, quando si crea uno squilibrio tra i verbi “volere”, “potere” ed “essere”, il risultato non può essere che devastante.

Il primo insegnamento sulla parabola, allora, si può dire che riguardi l’ambizione, la stessa che avevano tutti quegli scribi e farisei – ad esempio – che non solo, come ricordato poco prima, si compiacevano “nei posti d’onore nei banchetti”, ma amavano farsi vedere pregare dalla gente o a tutti i costi farsi notare quando facevano l’elemosina, esempi proposti da Gesù nel Sermone sul Monte. Proprio in quell’occasione abbiamo l’invito a fare l’esatto contrario perché “Il Padre tuo, che vede nel segreto, te ne darà ricompensa”.

Anche nella Chiesa abbiamo chi ambisce a posizioni di prestigio per pura vanità personale, senza interrogarsi se il ministero lo ha avuto da Dio come dono oppure se è un abito che si è cucito addosso, se ha ricevuto davvero dei talenti della cui gestione dovrà rendere conto, oppure è un “semplice” figlio di Dio, salvato per grazia, la cui presenza è importante nei radunamenti di Chiesa e per il quale comunque il Signore ha riservato altri compiti, dove con “altri” non s’intende meno onorevoli. Si tratta, è bene ricordarlo, di quel servitore cui è stata data la gestione di un talento, quindi qualcosa di ben di più di un nulla, da far fruttare esattamente come gli altri suoi colleghi che ne avevano avuti di più. Concettualmente, di base quindi, non ci può essere un credente superiore ad altri perché tutti sono comunque dei peccatori perdonati.

Tornando all’episodio, la ricerca dei primi posti in quel convito denotava la vanità e l’orgoglio dei partecipanti che agivano così senza pensare minimamente alla relazione che avevano col padrone di casa, che avrebbe gradito o meno la vicinanza dei suoi commensali. Entrambi questi sentimenti fanno parte dell’uomo naturale, esistono in maniera più o meno accentuata in base al suo carattere, ma sono alla radice del male; ricordiamo infatti Salmo 10.4 “Nel suo orgoglio il malvagio disprezza il Signore: «Dio non ne chiede conto, non esiste!»; questo è tutto il suo pensiero”. “Tutto” nel senso che, a prescindere da quanto possa fare e dire, la base è quella, priva da qualsiasi originalità e, partendo da essa, non può che proporre argomenti e temi che si riciclano da sempre, situazione che ha fatto scrivere a Salomone “Quel che è stato sarà e quel che si è fatto si rifarà; non c’è niente di nuovo sotto il sole”(Qoelet 1.9,10). Ricordiamo invece Salmo 19.4 “Anche dall’orgoglio salva il tuo servo perché su di me non abbia potere: allora sarò irreprensibile, sarò puro da grave peccato”.

Ricordiamo poi le censure più o meno velate espresse da Gesù in proposito al voler trasporre il metodo umano alle realtà spirituali ad esempio quando i dodici “discutevano tra loro su chi fosse il più grande”ottenendo da Lui una descrizione esattamente contraria alla visione umana di un “capo” (Luca 9.46), o più ancora, in un episodio che incontreremo, quando Salome, madre di Giacomo e Giovanni, Gli chiese che i suoi figli, nel Regno, potessero sedere l’uno alla Sua destra e l’altro alla Sua sinistra (Matteo 20.21). La risposta di Nostro signore fu “… sedere alla mia destra e alla mia sinistra non sta a me concederlo: è per coloro per i quali il Padre mio lo ha preparato”(v.23).

E qui allora ci raccordiamo al nostro episodio, dove credo emerga in primo luogo la delicatezza di Gesù che, ai presenti, parla in modo tale da non urtarne la suscettibilità prendendo come esempio un convito nuziale, quindi esponendo una breve parabola. Occorre fare attenzione perché la parabola non è volta ad illustrare il convito nel Regno di Dio – compito che verrà svolto da altre –, ma della necessità dell’umiltà come metodo: chi viene invitato a nozze e sceglie un posto di riguardo senza che gli sia stato indicato, può incorrere nel rischio di magre figure una volta che, giunto qualcuno più importante di lui, costringa chi ha fatto l’invito a entrambi a dire all’usurpatore “Cedigli il posto!”. Infatti “L’orgoglio dell’uomo ne provoca l’umiliazione, l’umile di cuore ottiene onore”(Proverbi 29.23), lo raccordiamo alle parole “dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto”(v.11) non come castigo ma perché, mentre l’usurpatore se ne stava seduto compiacendosi della posizione che aveva conquistato, altri più accorti di lui avevano occupato tutti gli altri spazi.

A questo punto possiamo vedere che lo stesso “ultimo posto”causa di umiliazione per l’orgoglioso, torna invece ad onore per chi lo avrà scelto di sua volontà vuoi per umiltà, prudenza o delicatezza nei confronti di chi lo ha invitato: “Va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene chi ti ha invitato ti dica: «Amico, vieni più avanti!». Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali”(v.10).

Certo, con queste parole Gesù non intende fare scuola di bon ton ai presenti, che tra l’altro di questo mancavano vistosamente, ma dare loro una traccia per considerare quanto fosse distante quel comportamento dal metodo di ogni vero credente anche del loro tempo, perché “il timore di Dio è scuola di sapienza, prima della gloria c’è l’umiltà”(Proverbi 15.33 ribadito in 18.12 con la premessa “Prima della caduta il cuore dell’uomo s’innalza”) e infine, strettamente raccordato alla contingenza del momento, “Non darti arie davanti al re e non metterti al posto dei grandi, perché è meglio sentirsi dire: «Sali quassù!» piuttosto che essere umiliato davanti a uno più importante” (25.6.7). Ricordiamo che si tratta di versi che gli invitati al convito di quel fariseo dovevano conoscere e probabilmente conoscevano, ma che la religiosità aveva impedito loro di assimilare.

Quindi, se in un’occasione sotto certi aspetti banale come un convito nuziale, vale l’umiltà, quanto più andrà attuata nell’ambito del servizio nella Chiesa dove Gesù, a parte le raccomandazioni e le risposte date ai dodici dietro loro richiesta, proprio dopo l’episodio di Salome e della sua richiesta inopportuna, disse “Voi sapete che i governanti delle nazioni dòminano su di esse e i capi le opprimono. Tra voi non sarà così; ma chi vuole diventare grande tra di voi, sarà il vostro servitore e chi vuole essere il primo tra voi, sarà vostro schiavo. Come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”(Matteo 20.25-28).

Si noti che con queste parole Gesù tronca sul nascere qualsiasi velleità nel senso che “chi vuole diventare grande”nella Chiesa o vuole essere “il primo”è chiamato a fare qualcosa che certamente non farà mai, farsi servitore e addirittura schiavo, posizioni incompatibili con chi è orgoglioso. Ricordo che quando da bambino leggevo il Vangelo ero molto attratto da come veniva esaltata l’umiltà a dispetto del mondo che mi circondava, certo piccolo, ma popolato da parenti che mi esortavano ad essere ambizioso e si stupivano quando mi sentivano dire che preferivo essere umile, il che non significa farsi calpestare, ma lasciare che fossero altri a seguire sentieri che alla fine li avrebbero umiliati.

Il commento finale di Nostro Signore alla sua breve parabola è lapidario, “perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato”(v.11), frase importantissima non solo perché fa da ponte con un’altra parabola che verrà esposta di lì a poco, ma perché conclude in poche parole, nel nostro caso dodici, la fine di tutta l’esistenza della persona indipendentemente dal fatto che creda oppure no. Ha scritto un fratello che c’è nel cuore umano una tendenza naturale ad umiliare l’uomo arrogante e presuntuoso, ma non si trova la tendenza corrispondente ad esaltare chi è modesto e meritevole. Così va il mondo.

Ma “Dio resiste ai superbi e fa grazia agli umili”(Giacomo 4.6), “Rivestitevi tutti di umiltà gli uni verso gli altri”(1 Pietro 5.5), perché? Perché nulla di ciò di materiale che abbiamo, cose, posizione sociale, meriti eventualmente acquisiti sul lavoro o nella nostra cerchia di conoscenze più o meno grande, potremo utilizzarla per avere una posizione nel mondo a venire. E rimarrà solo quanto avremo fatto e dato al prossimo in quanto figli di Dio. Amen.

* * * * *

13.18 – L’UOMO IDROPICO (Luca 14.1-6)

13.18 – L’uomo idropico (Luca 14.1-6)      

 

1 Un sabato si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare ed essi stavano a osservarlo. 2Ed ecco, davanti a lui vi era un uomo malato di idropisìa. 3Rivolgendosi ai dottori della Legge e ai farisei, Gesù disse: «È lecito o no guarire di sabato?». 4Ma essi tacquero. Egli lo prese per mano, lo guarì e lo congedò. 5Poi disse loro: «Chi di voi, se un figlio o un bue gli cade nel pozzo, non lo tirerà fuori subito in giorno di sabato?». 6E non potevano rispondere nulla a queste parole.

 

            Non sfugge il fatto che, nel nostro commento, abbiamo tralasciato i versi da 13.21 fino alla fine dello stesso capitolo, che tratteremo più avanti; ciò è dovuto al fatto che Luca predilige una narrazione per quadri non cronologica ed è opinione comune che, all’episodio del miracolo della donna rattrappita, la guarigione dell’uomo idropico avvenne una settimana dopo. Ricordiamo infatti 13.22, “Passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme”. Quali furono i contenuti dell’insegnamento di Gesù? Quelli che abbiamo letto e leggeremo, non potendo categoricamente stabilire dove questo venne impartito alle folle o ai singoli.

Ebbene Gesù, giunto in un villaggio innominato, si recò con anticipo rispetto all’ora di pranzo a casa di uno dei capi dei farisei, evidentemente da lui invitato. Certo, costui era una persona importante, poiché il termine “árchon” a lui riferito poteva indicare un membro dei Sinedrio, un capo della sinagoga o un Magistrato, oltre che naturalmente “uno dei capi dei farisei”.

Che il pranzo, frugale essendo sabato, non fosse ancora iniziato lo rileviamo dal verso 7, quando Gesù esporrà la parabola dei posti a sedere: “Diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i posti”. Quindi la scena dei nostri primi due versi descrive questo: Gesù viene invitato a pranzo da “uno dei capi dei farisei”, giunge assieme ad altri (parte dei quali assisteranno all’episodio, altri arriveranno dopo) alla spicciolata e nota due cose: da una parte gli sguardi dei religiosi – abbiamo letto “stavano a osservarlo”, presumiamo in modo non amichevole – e dall’altra la presenza un uomo “malato di idropisia”, evidentemente in modo grave poiché la cosa era visibile.

L’idropisia, o anasarca, in realtà, più che una malattia, è il sintomo di una grave infezione interna che si manifesta con un edema generalizzato, cioè con un ristagno di liquido in tutto il corpo.

L’idropico appare come abnormemente rigonfio d’acqua, a tal punto da essere fortemente impedito nei movimenti ed avere bisogno di essere sorretto da altri e potrebbe trovarsi in quelle condizioni, insufficienza renale a parte, per insufficienza cardiocircolatoria, gravi affezioni del fegato, specialmente cirrosi. Possiamo immaginare la sofferenza di quella persona, impossibilitata a condurre una vita dignitosa ancor di più pensando alla calura che pativa più degli altri. Poteva soltanto cercare di sopravvivere, e col tempo aveva imparato a non turbarsi più di tanto per gli sguardi altrui di curiosità e compatimento. Nulla possiamo sapere di lui salvo che soffrisse, ma certo il suo disagio era visibile a chiunque perché si manifestava, appunto, come abbiamo visto.

Dalle parole “stavano a osservarlo”e “davanti a lui vi era un uomo malato”rileviamo che la vera natura dell’invito da parte del “capo dei farisei”poteva essere proprio questa: mettergli di fronte un infermo sperando che lo guarisse per poi usare quell’azione contro di Lui in un giudizio che sicuramente sarebbe avvenuto. Pare singolare, rispetto al precedente miracolo operato in giorno di sabato, che qui l’infermo è “davanti”a Gesù, mentre nella sinagoga “c’era là una donna che uno spirito teneva inferma da diciotto anni”: se la presenza di quest’ultima era “ordinaria” nel senso che evidenzia la volontà di partecipare all’assemblea e una frequenza presumiamo assidua, lo stesso non si può dire dell’idropico, che era là per una ragione sulla quale si esprimono due possibilità, cioè che fosse lì di sua volontà per chiedere a Gesù di essere guarito, oppure secondo un piano dei farisei che, sapendo la posizione del loro avversario sul punto, desideravano porre le premesse per un nuovo miracolo in giorno di sabato e quindi accusarlo.

Anche se è giusto porre attenzione a non far dire a Luca ciò che ha omesso, credo che il modo con cui Nostro Signore esordisce, cioè chiedendo proprio ai suoi oppositori “È lecito o no guarire in giorno di sabato?”, sia stato un modo per coglierli di sorpresa e costringerli a dargli un parere. E, infatti, tacciono perché, se avessero risposto di sì, avrebbero annullato tutte le accuse precedenti in proposito, ma se il parere fosse stato negativo, loro che avevano il dovere di spiegare la legge al popolo, avrebbero anche dovuto citare un passo, scritturale e non della loro tradizione, che contenesse la proibizione di guarire qualcuno in quel giorno.

È a questo punto che Gesù fa qualcosa di particolare, prende per mano quell’uomo, un’azione che personalmente mi stupisce molto di più del fatto che lo guarisce e lo licenzia: furono infatti quattro le persone che furono prese in quel modo: la suocera di Pietro, la figlia di Jairo, il ragazzo epilettico di Marco 9.27 e infine l’idropico, un numero importante, il quattro, applicato a persone in balia di forze esterne dalle quali non riuscivano, né avrebbero mai potuto, liberarsi. Possiamo dire, alla luce non solo dell’esperienza di queste persone, che Gesù interviene là dove altrimenti non esisterebbe prospettiva, speranza, soluzione e cammino. E tutte le guarigioni da lui operate si trovano qui riassunte, parlandoci il quattro dell’essere umano e di ciò di cui ha bisogno.

La guarigione dell’uomo idropico – raccontata da Luca che era medico – è un’altra non richiesta dal diretto interessato, per quanto non possiamo escludere che tra i due sia intercorso un dialogo muto, fatto di soli sguardi. Se era là perché aveva saputo della presenza di Gesù e voleva guarire, o perché lì posto dai farisei quale strumento delle loro congiure, fu liberato comunque da una condizione certamente penosa e umiliante.

Dopo averlo preso per mano, Gesù lo guarisce – e non poteva essere altrimenti – e lo congeda: perché, se stava per consumarsi un pasto cui avrebbe potuto partecipare? È una domanda assurda: guarito dalla malattia, che in realtà erano due in quanto l’idropisia era piuttosto un sintomo, una reazione del corpo ad un’altra patologia spirituale, era giusto che stesse da solo a gioire per il proprio ristabilimento in salute, ma soprattutto pensare al privilegio ricevuto; Gesù, come aveva fatto con tanti comunque, lo aveva visto, aveva compreso il suo dolore di vivere, ed era intervenuto prendendolo per mano il tempo strettamente necessario perché guarisse. Era come se avesse voluto percorrere con lui il percorso di guarigione, a dirgli “con me guarisci, senza di me rimani quello che sei, anzi peggiori”. Una volta ciò avvenuto, stava a quell’uomo trarre le conclusioni del caso.

Una nota molto importante va fatta nel modo in cui è stato tradotto il verso 5, “Chi di voi, se un figlio o un bue gli cade nel pozzo…”che si basa su una versione errata del testo in cui l’originale “asino”viene tradotto con “figlio”non per imperizia, ma per un voler enfatizzare il verso dall’anonimo copista del greco che sostituì “uiòs”(figlio) all’originale“ònos”(asino) rendendo così difficile capire il senso del verso che, così composto, porrebbe sullo stesso piano un figlio a un bue, cosa chiaramente impossibile.

In realtà Gesù, con le sue parole, volle mettere in risalto come, se la compassione verso gli animali avrebbe spinto i suoi oppositori ad intervenire a loro vantaggio con un animale di loro proprietà, in giorno di sabato, compiendo certamente degli sforzi da paragonare a un lavoro, Lui avrebbe potuto guarire senza sforzo una persona che, rispetto a quelle creature, era certamente più importante, cioè un essere umano, alle origini fatto a immagine e somiglianza di Dio.

Citando l’asino e il bue Gesù si rifà a Esodo 23.5 e Deuteronomio 23.4, in cui è scritto “Quando vedrai l’asino del tuo nemico accasciarsi sotto il carico, non abbandonarlo a se stesso: mettiti con lui a scioglierlo dal carico”e “Se vedi l’asino di tuo fratello o il suo bue– ecco perché “figlio”non ha senso – caduto lungo la strada, non fingerai di non averli scorti, ma insieme con lui li farai rialzare”.

Abbiano quindi Nostro Signore che cita due passi di Scrittura da una parte, ma i farisei dall’altra che “non potevano rispondere nulla a queste parole”, Diodati aggiunge “in contrario”. Perché alla parola di Dio non possiamo mai opporre qualcosa e perché “IO” trova senso solo se affiancato alla D: toglierla, trascurarla, escluderla, implica uno squilibrio che non può che portare alla rovina.

Credo che vi sia un altro significato alla domanda di Gesù, perché parla di un animale caduto “in un pozzo”e non, come da testo della Legge, oppresso da un peso importabile: se la situazione originaria ci richiama immediatamente al verso in base al quale “il mio gioco è dolce e il mio carico leggero”perché Gesù soccorre sempre l’uomo per primo e lo libera, l’esempio dell’animale caduto suggerisce la sorte che affronta chi si ritrova intrappolato in una condizione senza averla voluta. E, spiritualmente, non esiste essere umano che non assomigli all’animale nel pozzo: per farlo, basta venire al mondo, nascendo inevitabilmente imperfetti e, dopo i pochi anni passati nell’innocenza, s’impara presto a mentire per i propri scopi, a volere, a barare, a cercare una felicità che, al di fuori dell’intervento del Cristo, non può essere raggiunta. Ecco allora che poco importa che quest’uomo sia andato a quel pranzo di sua volontà o fosse stato messo lì dai farisei perché, in ogni caso, cessò di essere una pedina, di se stesso o di altri.

Credo quindi che Gesù, congedando l’uomo idropico, lo abbia voluto porre nelle condizioni di scegliere cosa fare e soprattutto da quale parte stare, quale posto occupare nella sua vita interiore ed esteriore, cosa comunicare, a chi darsi dopo un periodo, che non possiamo quantificare, in cui aveva provato su di sé gli effetti del peccato e dell’imperfezione visto nella malattia che lo aveva afflitto. E sono convinto che il ricordo del calore di quella mano che per un attimo lo aveva preso lo portò con sé per tutta la vita. Amen.

* * * * *

13.17 – LA DONNA INFERMA (Luca 13.10-17)

13.17 – La donna inferma (Luca 13.10-17)

 

10Stava insegnando in una sinagoga in giorno di sabato. 11C’era là una donna che uno spirito teneva inferma da diciotto anni; era curva e non riusciva in alcun modo a stare diritta. 12Gesù la vide, la chiamò a sé e le disse: «Donna, sei liberata dalla tua malattia». 13Impose le mani su di lei e subito quella si raddrizzò e glorificava Dio.14Ma il capo della sinagoga, sdegnato perché Gesù aveva operato quella guarigione di sabato, prese la parola e disse alla folla: «Ci sono sei giorni in cui si deve lavorare; in quelli dunque venite a farvi guarire e non in giorno di sabato». 15Il Signore gli replicò: «Ipocriti, non è forse vero che, di sabato, ciascuno di voi slega il suo bue o l’asino dalla mangiatoia, per condurlo ad abbeverarsi? 16E questa figlia di Abramo, che Satana ha tenuto prigioniera per ben diciotto anni, non doveva essere liberata da questo legame nel giorno di sabato?». 17Quando egli diceva queste cose, tutti i suoi avversari si vergognavano, mentre la folla intera esultava per tutte le meraviglie da lui compiute.

 

            Con questo episodio ci troviamo di fronte al sesto miracolo dei sette operati da Gesù in giorno di sabato. Ricordiamo

  1. L’indemoniato nella Sinagoga di Capernaum (Luca 4.31-37);
  2. La suocera di Pietro (38-41);
  3. L’uomo dalla mano rattrappita (Luca 6.6-11);
  4. Il paralitico di Betesda (Giovanni 5.9-18);
  5. Il cieco nato (Giovanni 9);
  6. La donna inferma;
  7. L’uomo idropico (Luca 14.1-6).

Nulla sappiamo del villaggio in cui avvenne questo miracolo se non che l’itinerario di Nostro Signore prevedeva come destinazione finale Gerusalemme, il suo penultimo poiché, qualche verso più avanti in questo stesso capitolo, leggiamo che “Passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme”(22).

Gli argomenti su cui soffermare la nostra attenzione sono tanti a partire dal fatto che Gesù vede la donna inferma soltanto mentre parlava, o alla fine del suo discorso. Certo sapeva che l’avrebbe incontrata e guarita anche prima di entrare nella Sinagoga, essendo il Dio Onnisciente.

Altro elemento importante, così come avvenuto col paralitico di Betesda, malato da 38 anni, è appunto la durata della malattia che Luca quantifica in 18 anni, numero che ci parla prima di tutto del dominio e della potenza distruttrice del peccato sull’uomo, essendo agevole vedere nel 18 il risultato di un 6+6+6. Diciotto è un numero che ci parla di dipendenza, subordinazione e schiavitù, come da Giudici 3.14 che quantifica in questi anni la durata della schiavitù degli israeliti a Eglon, re di Moab. Poi abbiamo il giudizio, sempre su di loro, relativo al fatto che “Gli israeliti continuarono a fare ciò che è male agli occhi del Signore e servirono i Baal, le Astarti, gli dei di Aram, gli dèi di Sidone, gli dèi di Moab, gli dèi degli Ammoniti e quelli dei Filistei, abbandonarono il Signore e non lo servirono più. L’ira del Signore si accese contro Israele e gli consegnò nelle mani dei Filistei e degli Ammoniti. Questi afflissero e oppressero per diciotto anni gli Israeliti e tutti i figli di Israele che erano oltre il Giordano, nella terra degli Amorrei in Galaad”(Giudici 10.6-8).

Diciotto sono gli anni che ebbe Ioachin quando iniziò a regnare su Gerusalemme, ma di lui è scritto che “fece ciò che è male agli occhi del Signore”(2 Re 24.8) e fu solo per tre anni perché Nabucodonosor poi lo deportò a Babilonia: “Deportò tutta  Gerusalemme, cioè tutti i comandanti, tutti i combattenti, in numero di diecimila esuli, tutti i falegnami e i fabbri; non rimase che la gente povera della terra”(v.14). Possiamo ricordare anche le diciotto mogli (e sessanta concubine) di Roboamo, che “Quando il regno fu consolidato ed egli si sentì forte, abbandonò la legge del Signore e tutto Israele lo seguì”(2 Cronache 11.21 e 12.1). Nel Vangelo, infine, abbiamo letto delle “diciotto persone sulle quali crollò la torre di Siloe”(Luca 13,4).

Ecco allora cosa si cela dietro gli anni d’infermità di quella donna che, nella Sinagoga di un villaggio innominato, ascoltava le spiegazioni di Gesù su un passo della Scrittura che Luca non ha specificato.

Abbiamo poi la descrizione dell’innominata che si caratterizza attraverso due situazioni la prima delle quali è che “uno spirito la teneva inferma”e  poi “era curva e non riusciva in alcun modo a stare dritta”(v.11). E qui risiede l’importanza della situazione perché il testo non parla di una persona indemoniata che aveva manifestazioni di squilibrio mentale (infatti non sarebbe stata ammessa all’assemblea), ma del vero motivo della sua infermità: era “uno spirito”, in questo caso una forza ostile facente comunque capo all’Avversario, ricordiamo le parole “Questa figlia di Abrahamo, che Satana ha tenuto prigioniera per ben diciotto anni”(v.16).

 

La malattia, dal raffreddore alle metastasi, è sempre il frutto del peccato inteso non come qualcosa di specifico, ma della condizione di errore che abbiamo ereditato. Quando i nostri progenitori infransero l’unico comandamento ricevuto, infatti, scoprirono di essere nudi, quindi senza difese in assoluto, anche dagli agenti patogeni che si sarebbero manifestati in futuro. Le malattie, a prescindere dalla loro curabilità, e la morte sono allora gli effetti naturali, la conseguenza di questa infrazione originaria e non di uno spirito che debba per forza manifestarsi sempre e comunque.

Nonostante abbiamo un corpo soggetto ad ammalarsi anche a seguito di un sistema immunitario non sempre efficiente, ciò non toglie che l’uomo possa essere bersaglio di infermità che l’Avversario può gestire, come insegna il libro di Giobbe.

La domanda allora non è se tutte le malattie incurabili siano causate da uno spirito d’infermità né, come abbiamo letto nel Vangelo, cosa possa avere fatto una persona per caderne vittima, ma piuttosto va tenuto presente che ci sono dei casi in cui questo spirito negativo agisce. Il mutismo, la sordità, la cecità o altre gravi patologie possono avere indubbiamente una genesi traumatica, genetica o meccanica, ma la Scrittura ci dice che, in alcuni casi, potrebbero essere causati da una forza negativa attribuibile a Satana che, nel caso della donna del nostro episodio, agiva sui muscoli e le vertebre. E solo lo Spirito Santo può essere in grado di distinguere se le condizioni in cui versa la persona siano dovute a cause squisitamente mediche oppure il motivo dell’infermità sia un altro. Affermare che ogni malattia, anche specifica, sia dovuta ad uno spirito del male, vuol dire banalizzare una verità scritturale e abbracciare così la superstizione e l’incoscienza. In altri termini, se a quei tempi fossero esistite le radiografie, le RMN o le TAC, si sarebbe potuto constatare una condizione del corpo identica a quella che potrebbe avere oggi una persona nelle stesse condizioni, con la differenza che in quel caso, ad agire, era uno spirito impuro che aveva preso possesso di un corpo e, se gli fossero state somministrate le cure di cui possiamo disporre oggi, non avrebbero dato alcun risultato..

La donna guarita da Gesù è figura di tutti coloro che, vivendo senza Cristo nella loro vita, sono incapaci di muoversi dignitosamente a prescindere che siano più o meno sani. Al di là del paralitico, bloccato in ogni movimento o quasi, questa poteva spostarsi, camminare, ma guardando costantemente verso il basso. La visione dell’azzurro le era preclusa. Ecco allora che il significato di questa guarigione è enorme proprio perché ha riferimento col fatto che veramente Cristo Gesù libera non solo dalle infermità gravi, totalmente invalidanti, ma anche quelle che penalizzano in modo “parziale”, tra virgolette perché la sofferenza di quella donna era grande a prescindere.

Il significato di questa guarigione è da ricercare nella costrizione a guardare verso il basso, la terra e nient’altro, come qualunque uomo o donna non liberato/a.

Il testo ci dice che “Gesù la vide, la chiamò a sé e le disse: «Donna, sei liberata dalla tua malattia»”: prendere atto della condizione in cui versava quella persona era cosa che facevano tutti, ma solo Lui la chiama a sé, cioè la invita. Se lei non Lo avesse ascoltato, non avremmo avuto la guarigione. Anche qui, il tutto avviene per iniziativa di Nostro Signore ed è il terzo miracolo in tal senso dopo il figlio della vedova a Nain e il paralitico a Betesda, personaggi per i quali Gesù provò una compassione tutta particolare dovuta al suo leggere le persone andando oltre la sofferenza che provavano per la malattia (e il dolore, per la vedova).

Anche qui degna di sottolineatura è la reazione dell’inferma che, una volta raddrizzata “glorificava Dio”, frase sulla quale ci siamo già soffermati in un altro episodio, ma è bello ribadire come attribuì a Lui, e al Figlio Tramite del Padre, la guarigione. Lei, in quanto “figlia di Abrahamo”, quindi della promessa lui fattagli da Dio, doveva essere “liberata da questo legame”che non aveva scelto e per il quale, forse, aveva smesso di pregare ritenendolo non risolvibile nell’attesa che venisse guarita con modi e in un momento che non si sarebbe mai aspettata.

Il tema dell’episodio è quindi quello dell’incontro con Gesù, purtroppo oggi sempre più raro perché ciò che viene predicato è in gran parte un cristianesimo “sociale”, una religione che fa a gara con quelle umane per attrarre uomini e donne “di buona volontà”, tutti pronti ad apparire sempre, ma mai a guardarsi dentro, a rinnovarsi. In altre parole, viene bandita la fede, quella che contraddistingue il cristianesimo dalle credenze delle religioni e non a caso è scritto “Senza fede è impossibile piacergli” (Ebrei 11.6). “Senza fede”, non “apparenza”.

Papa Ratzinger ebbe a scrivere importanti parole al riguardo, e cioè che la parola “credo” indica “conversione”, “cambiamento di mentalità”, “svolta dell’essere” e così permette agli uomini di condurre una vita “veramente umana”, quella che per quanto mi riguarda oggi è del tutto assente da una società sempre più propensa al precipitare, al collassare all’interno di se stessa. La fede mai è semplicemente una raccolta di dottrine, formule aride e datate da difendere con ostinazione – e qui vediamo la reazione del capo della Sinagoga – perché altrimenti sarebbe senza vita.

E l’incontro di Gesù con la donna inferma rappresenta proprio questo, l’incontro fra il vecchio e il nuovo, fra la religione che tutto vorrebbe stigmatizzare, regolare, rinchiudere in una pratica o un rito, e la libertà, l’eternità, l’immenso. E tutto ciò, quando si verifica, accade con una semplicità disarmante perché – cito sempre Ratzinger – “All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva”. Credo sia per questo che vi sia stata la lode, da parte di quella donna ma non dell’arcisinagogo, al Dio Vivente e Vero. Quel miracolo, infatti, ha riferimenti he vanno ben oltre alla terribile malattia in atto da diciotto anni.

Dopo aver letto la replica di Gesù sulla questione del sabato, abbiamo un’altra testimonianza della Parola che libera: gli avversari di Gesù infatti “si vergognavano”– anche se la traduzione corretta sarebbe “furono confusi”–, ma la folla, tanto disprezzata dagli scribi e farisei, “esultava per tutte le meraviglie da lui compiute”.

* * * * *

13.16 – LA PARABOLA DEL FICO STERILE (Luca 13.5-9)

13.16 – La parabola del fico sterile (Luca 13.5-9)   

 

6Diceva anche questa parabola: «Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. 7Allora disse al vignaiolo: «Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Taglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?». 8Ma quello gli rispose: «Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. 9Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai»».

 

            Viene spontaneo supporre che Nostro Signore, che non lasciò mai nulla d’intentato per recuperare le Sue creature, espose questa parabola per far capire ai presenti cosa significasse la Sua presenza in mezzo a loro e dare la descrizione di quanto avrebbe fatto. Ora credo che l’attenzione del lettore debba per ora concentrarsi sui due alberi citati, perché la presenza del fico in una vigna è per noi anomala: abituati a una mentalità che vede la produzione e il guadagno al primo posto, quindi a una coltivazione intensiva che sfrutti ogni metro quadrato di terra, la presenza di un albero estraneo ci sembra uno spreco. Al contrario, ai tempi di Gesù ma anche prima, era frequente trovare un albero di fichi tra le viti ed era sinonimo di pace e prosperità, come da 1 Re 5.5 quando, sotto Salomone, “Giuda e Israele erano al sicuro; ognuno stava sotto la propria vite e sotto il proprio fico, da Dan fino A Bersabea, per tutti i giorni di Salomone”. Ancora, ricordiamo le parole del re d’Assiria al popolo: “Fate la pace con me e arrendetevi. Allora ognuno potrà mangiare i frutti della propria vigna e del proprio fico e ognuno potrà bere l’acqua della sua cisterna”(2 Re 18.31).

Dando un rapido excursus su ciò che questa pianta rappresenta, vediamo che è la prima, dopo gli alberi “della vita”e “della conoscenza del bene e del male”, a trovarsi in Eden. A differenza dei primi due, però, ci parla di qualcosa di temporaneo e soprattutto non adeguato a risolvere appieno i problemi dell’uomo, come leggiamo in Genesi 3.7: “Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture”. Questa conoscenza fu per Adamo ed Eva sconvolgente, perché per la prima volta nella loro vita si videro per quello che erano, privati dell’innocenza che li aveva caratterizzati fino ad allora: la loro non fu una vergogna dovuta dal fatto che i loro organi sessuali erano esposti, ma perché il loro corpo aveva perduto lo splendore che aveva. Consci di questo, cercarono di porvi  rimedio prendendo le foglie grandi del primo albero a portata di mano e intrecciandole, ma scoprirono subito che questo serviva a ben poco, del tutto inutile per il recupero dell’identità, nobiltà e soprattutto dignità perduta. Per questo c’è chi ha ipotizzato che fosse stato proprio il fico ad essere l’albero di cui l’Avversario aveva esortato Eva a mangiarne i frutti.

Il fico, inoltre, ci parla di sostituzione, di passaggio da una condizione di inadeguatezza ad un’altra di idoneità a seguito di un intervento di Dio, poiché sappiamo che quelle “cinture”che i nostri progenitori si erano fatte furono sostituite da un vestito fatto con pelli di animali: “il Signore Dio  – Lui e nessun altro – fece all’uomo e a sua moglie tuniche di pelli e li vestì”(3.21).

Accanto quindi all’utilità di questa pianta e dei suoi frutti, che venivano impiegati anche per scopo medicinale (l’impiastro sull’ulcera di Ezechia in 2 Re 20.7 e Isaia 38.21 a lui correlato), il fico è anche sinonimo di riposo, preghiera e studio della Torah come nel caso di Natanaele cui Gesù disse “Prima che Filippo ti chiamasse, ti ho visto sotto l’albero di fichi”(Giovanni 1.48), ma per la comprensione della nostra parabola va tenuto presente l’intervento di Dio che può essere in salvezza o in giudizio.

Quanto mai attinente è il capitolo 24 di Geremia cui gli viene spiegato il significato di una visione: “Il Signore mi mostrò due canestri di fichi posti davanti al tempio del Signore dopo che Nabucodonosor, re di Babilonia, aveva deportato da Gerusalemme Ieconia, figlio di Ioakim, re di Giuda. I capi di Giuda, gli artigiani e i fabbri li aveva condotti a Babilonia. Un canestro era pieno di fichi molto buoni, come i fichi primaticci, mentre l’altro canestro era pieno di fichi cattivi, così cattivi che non si potevano mangiare, Il Signore mi disse: «Che cosa vedi, Geremia?». Risposi: «Dei fichi, i fichi buoni sono molto buoni, quelli cattivi sono molto cattivi, tanto che non si possono mangiare»– l’uomo, senza rivelazioni di Dio, non può che constatare l’ovvietà delle cose -. Allora mi fu rivolta questa parola dal Signore: «Così dice il Signore, l’Iddio d’Israele: come si trattano con riguardo i fichi buoni, così io tratterò i deportati di Giuda che ho mandato da questo luogo nel paese dei Caldei.– notare “che ho mandato”, quindi la lettura della storia, di ogni storia umana, ha un suo perché spirituale che va al di là di ciò che accade in sé –. Poserò lo sguardo su di loro per il loro bene; li ricondurrò in questo paese, li edificherò e non li abbatterò, li pianterò e non li sradicherò mai più. Darò loro un cuore per conoscermi, perché io sono il Signore; saranno mio popolo e sarò il loro Dio, se torneranno a me con tutto il cuore. Come invece si trattano i fichi cattivi, che non si possono mangiare tanto sono cattivi, così dice il Signore, così io tratterò Sedecia, re di Giuda, i suoi capi e il resto di Gerusalemme, ossia i superstiti di questo paese, e coloro che abitano nella terra d’Egitto. Li renderò un esempio terrificante per tutti i regni della terra, l’obbrobrio, la favola, lo zimbello e la maledizione in tutti i luoghi dove li scaccerò. Manderò contro di loro la spada, la fame e la peste, finché non saranno eliminati dalla terra che io diedi a loro e ai loro padri”.

 

Il fico e la vigna della parabola stanno in un terreno unico, di proprietà di Dio, accuratamente separato dal resto del podere, la cui cura è stata affidata a una persona di Sua assoluta fiducia e infatti il Figlio, come Parola, ha sempre abitato e coltivato coloro che sono Suoi. È  proprio quest’ultimo albero, la vite, a parlarci di responsabilità, come rileviamo dalla parabola dei contadini omicidi di Luca 20.9-16. Inoltre, la vite-vigna ci parla del progetto e della cura visibile di Dio sul Suo popolo: “Hai sradicato una vite dall’Egitto, hai scacciato le genti e l’hai trapiantata. Le hai preparato il terreno, hai affondato le sue radici ed essa ha riempito la terra. La sua ombra copriva le montagne e i suoi rami i cedri più alti. Ha esteso i suoi tralci fino al mare, arrivavano al fiume i suoi germogli. Perché hai aperto le brecce nella sua cinta e ne ha vendemmia ogni passante? La devasta il cinghiale del bosco e vi pascolato le bestie nella campagna” (Salmo 80.9-14).

Da questo passo, sorprendentemente legato a quello di Geremia 24 e al nostro, vediamo che entrambi, fico e vite, non sono autonomi nel loro sviluppo, ma hanno bisogno di cura e assistenza che non può che venire da Dio. E qui è impossibile non pensare a Gesù, in Giovanni 15 1-7 disse “Io sono la vite vera e il Padre mio l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio ce porta frutto, lo pota perché porti più frutto.(…) Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto”.

A questo punto è facile vedere nella vite ciò che vive nel e per l’amore di Dio e che da Lui stesso trae nutrimento – Israele prima e la Chiesa poi – e nel fico un albero piantato perché desse frutto senza che ciò avvenisse, quindi simbolicamente l’Israele di allora che da lontano appariva come un fico rigoglioso, ma una volta avvicinatosi il padrone della vigna risultava non avere quei frutti che prometteva in apparenza.

Anche qui è necessaria un’interpretazione che non sia a senso unico perché indubbiamente Gesù parla agli uomini del suo tempo, ma anche a noi e allora il fico va identificato sì nell’Israele che non portò alcun frutto nonostante i tre anni di ministero di Nostro Signore, ma anche in tutti coloro che nella Chiesa appaiono “belli di fuori”, ma dentro non hanno saputo sviluppare nulla nonostante la Sua presenza continua in essa, “tutti i giorni fino alla fine del mondo”.

Rimanendo però allo stretto argomento della parabola, vediamo che il padrone “Venne a cercarvi dei frutti, ma non ne trovò”, decretando la condanna della pianta: come ha scritto un fratello, “I frutti che Dio si aspettava dai Giudei, e che egli aspetta da ciascuno di noi, sono quelli della giustizia, di un cuore convertito, una volontà rinnovata, degli affetti rivolti a lui e una vita consacrata al suo servizio. Le foglie di professioni di fede e i fiori di promesse non bastano”.

Dalle parole del proprietario della vigna vediamo che questi non mette affatto in dubbio che il vignaiolo non abbia cercato di prendersi cura del fico e infatti non vi è per lui alcun rimprovero, ma solo l’ordine di eliminare la pianta perché avrebbe impoverito il terreno.

Da notare le parole del lavorante, che chiede la possibilità di prendersi cura dell’albero un altro anno nonostante il suo essere sterile: chiede un periodo in cui si occuperà di lui ancora di più, come un medico si prodigherebbe per salvare la vita ad un malato grave. Gli avrebbe zappato attorno e gli avrebbe messo il concime.

Tre anni di Ministero di Gesù non furono sufficienti a che il fico desse frutto? Poco importa, ve ne sarebbe stato un altro, figura del richiamo attraverso inviti continui: “La sapienza grida per le strade, nelle piazze fa udire la sua voce; nei clamori della città essa chiama, pronuncia i suoi detti alle porte della città: «Fino a quando, o inesperti, amerete l’inesperienza e gli spavaldi si compiaceranno delle loro spavalderie e gli stolti avranno in odio la scienza? Tornate alle mie esortazioni: ecco, io effonderò il io spirito su di voi e vi manifesterò le mie parole. Perché vi ho chiamati ma avete rifiutato, ho steso la mano e nessuno se ne è accorto. Avete trascurato ogni mio consiglio e i miei rimproveri non li avete accolti; anch’io riderò delle vostre sventure, mi farò beffe quando su di voi verrà la paura, quando come una tempesta vi verrà addosso il terrore, quando la disgrazia vi raggiungerà come un uragano, quando vi coglieranno angoscia e tribolazione. Perché hanno odiato la sapienza e non hanno preferito il timore del Signore, non hanno accettato il mio consiglio e hanno disprezzato ogni mio rimprovero”(Proverbi 1. 20-30).

L’anno in più che il vignaiolo chiede al padrone del campo, a differenza degli altri tre, credo che non possa venire quantificato altrimenti se non con un periodo dato all’uomo per rinunciare agli inganni che si è autoinflitto, al termine dei quali non potrà che essere gettato nel fuoco. Nel fico, allora, abbiamo non soltanto Israele, ma tutti coloro che, nella Chiesa, non portano frutto accontentandosi delle apparenze, appunto dell’avere rami e foglie quindi frequentare le assemblee, pregare meccanicamente impiegando formule imparate a memoria, magari impegnandosi in opere di carità, ma senza alcuna scintilla in loro, senza rinunciare a nulla di ciò che ritengono li caratterizzi nella vita, sociale o con se stessi non importa.

Per concludere, per quanto possa dirsi concluso un commento alla Scrittura che è infinita, a conferma del comportamento di Dio verso il suo popolo, possono citarsi due passi importanti di Isaia, uno sulla cura e un altro sul giudizio: “Io, il Signore, ne sono il guardiano, a ogni istante la irrigo; per timore che si danneggi ne ho cura notte e giorno. Io non sono in collera. Vi fossero rovi e pruni, muoverei loro guerra, li brucerei tutti insieme”(Isaia 27.3,4).

Dal secondo passo, invece, vediamo che se la vigna non riconosce tutte queste attenzioni, subirà il seguente destino: “Che cosa dovevo fare ancora alla mi vigna che io non abbia fatto? Perché, mentre attendevo che producesse uva, essa ha prodotto acini acerbi? Ora voglio farvi conoscere ciò che sto per fare alla mia vigna: toglierò la sua siepe e si trasformerà in pascolo; demolirò il suo muro di cinta e verrà calpestata. La ridurrò un deserto, non sarà potata né vangata e vi cresceranno rovi e pruni”(Isaia 5.5-7).

Ecco allora la severa necessità che abbiamo, sempre, di guardare dentro di noi, perché non possiamo porre resistenza agli interventi di Dio nella nostra vita per poter portare un frutto a Lui gradito e accettevole. Amen.

* * * * *

13.15 – SE NON VI CONVERTITE (Luca 13.1-5)

13.15 – Se non vi convertite (Luca 13.1-5) 

 

1 In quello stesso tempo si presentarono alcuni a riferirgli il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici. 2Prendendo la parola, Gesù disse loro: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subìto tale sorte? 3No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. 4O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? 5No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo».

 

            Ci troviamo di fronte a un passo che, concettualmente, potrebbe essere considerato imparentato con quello in cui i discepoli, vedendo un uomo nato cieco e ritenendo la sua condizione dovuta a un’infrazione alla Legge, chiesero a Gesù chi avesse peccato, lui o i suoi genitori. Se però allora la risposta fu “Né lui ha peccato, né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio”, qui leggiamo “No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo”: radice comune, quindi, vista nella negazione dell’opinione diffusa secondo cui un male materiale trovava la sua spiegazione in un male morale a monte. Però la “desinenza” è diversa.

Venendo ai fatti storici che vengono citati, il sangue dei Giudei e la torre di Siloe, va detto che non se ne trova traccia nella storia del tempo nel senso che Giuseppe Flavio non li riporta, ma è certo siano avvenuti perché Luca ne parla come se si trattasse di un fatto noto ai suoi lettori del tempo, primo fra tutti il sommo sacerdote Teofilo cui ha dedicato il Vangelo e gli Atti. Fra le ipotesi formulate in proposito quella che ha maggior credito vede in “quei galilei”degli Zeloti, setta fondata da Giuda il Galileo che, quando Augusto ordinò il pagamento delle tasse, insegnò ai suoi concittadini che non era lecito pagare il tributo a Cesare. Viene spontaneo allora ricordare la domanda posta a Gesù da alcuni farisei ed erodiani che “…vennero e gli dissero: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno, ma insegni la via di Dio secondo verità. È lecito o no pagare il tributo a Cesare? Lo dobbiamo dare, o no?»”(Marco 12.14). Sappiamo la risposta, “Date a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio”, cose difficili entrambe.

La strage di quei galilei nel Tempio potrebbe allora essere avvenuta nel corso di uno dei numerosi tumulti che si verificavano, prodotti da loro a Gerusalemme per le feste, quando appunto la città era particolarmente sorvegliata dalle truppe di Roma. Invero di tumulti ve n’era stato in particolare uno, di Giudei, che protestarono perché Pilato aveva sottratto del denaro dalla cassa del Tempio per la costruzione di un acquedotto: a quel punto, il prefetto romano ordinò ai suoi soldati di mescolarsi coi dimostranti e di percuoterli con bastoni. Giuseppe Flavio testimonia che molti giudei morirono per i colpi ricevuti o per la calca della folla in tumulto.

Il crollo della torre, poi, è stato individuato nel cedimento di una delle torri costruite a salvaguardia dell’acquedotto che portava l’acqua alla piscina di Siloe a Sud dell’angolo orientale di Gerusalemme.

Riassumendo: Gesù viene interpellato a proposito dei due episodi che Luca ha riportato, in cui delle persone morirono, alcuni – viene a pensare – di spada, altri schiacciati dai massi e detriti della torre; l’importante, come accennato all’inizio, non era tanto lo specificare che ciò che era avvenuto a quelle persone non era una punizione per i loro peccati, ma, parole identiche in entrambi i casi, “Se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo”, quindi di morte violenta che non penso sia riferita a quella del corpo.

“Se non vi convertite”è quindi l’unica indicazione che Gesù dà ai suoi interlocutori per evitare la morte e possiamo dire che la Sua sia una frase che, per quanto già annunciata da Giovanni Battista (“Ravvedetevi, perché il regno dei cieli è vicino”), sia un tassello importante per comprendere altre Sue parole.

Apriamo una breve parentesi sulla conversione e l’incontro con Gesù e consideriamo ad esempio Giovanni 6.35, “Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!”: possiamo stabilire che il “viene a me”presume un percorso animato da una ferma volontà di risoluzione. Se così non fosse, infatti, sarebbe tutto inutile, sarebbe un po’ come fanno quelle persone che si rivolgono a un medico, ma poi, quando propone una cura che a loro non sta bene, pretendono di continuarla a modo proprio, chiaramente non guarendo. Ora invece sappiamo dalla storia che ci propone il Vangelo che, prima ancora che Gesù si presentasse ufficialmente al mondo, c’era un invito al ravvedimento tramite la conversione. Appunto, “Se non vi convertirete”, cioè non vi trasformate divenendo qualcosa di diverso da quello che adesso siete.

Un tempo ero convinto che la conversione fosse la rinuncia a tutte quelle abitudini che avevo naturalmente ereditato dal mondo: con sofferenza, ma anche con entusiasmo, ho allora rinunciato a tante cose che purtroppo, presto o tardi, si ripresentavano in tutta la loro forza non avendo io capito che il privarsi di qualcosa può essere fatto solo quando si è compreso nel profondo il vantaggio che questo comporta. Se ci pensiamo, è quello che successo agli apostoli quando, una volta chiamati da Gesù, lasciarono ogni cosa e lo seguirono. E nessuno di loro tornò indietro alle loro vecchie abitudini e alla relativa tranquillità della vita di sempre. Nel mio caso, il “lasciare” degli apostoli lo riferisco all’orgoglio, alla volontà di possedere cose e persone, al valore che davo a quanto mi apparteneva e all’opinione che avevo di me stesso.

“Convertirsi”, per me, era tutto sommato un modo di presentarmi agli altri come qualcosa di diverso, ma era anche purtroppo un vestito che indossavo per non mostrare quello che effettivamente ero, cioè una persona che, per quanto animata da “nobili propositi”, era immatura e si nascondeva sotto quell’abito sperando che gli altri non notassero i disagi o le problematiche nelle quali mi dibattevo. Mi era sconosciuto il concetto che la “conversione” altro non era che diventare un tutt’uno col mio Signore e Salvatore, ferma restando la realtà della carne contrapposta a quella dello Spirito. Se è vero che ci si converte una volta, lo è altrettanto che pressoché quotidianamente si presenterà la scelta se agire in un modo o in un altro, secondo lo spirito o la carne. Ecco perché siamo provati ogni giorno. La conversione allora si basa proprio sulla convinzione, corroborata da prove certe dentro di noi, che non possiamo più essere quelli di prima, né lo vogliamo. È il risultato dell’elaborazione e dell’assimilazione della verità del Vangelo e del fatto che apparteniamo veramente a Gesù Cristo, Nostro Signore.

Ora esaminiamo la realtà degli episodi riferiti a Gesù in questo passo e i morti, chi per spada – ricordiamo “il sangue fatto scorrere”–  chi per schiacciamento sotto il peso della torre: per entrambi i casi è possibile un riferimento spirituale visto nella locuzione “allo stesso modo”; certo non poteva essere che, se gli uditori di Gesù non si fossero convertiti, sarebbero tutti morti uccisi o schiacciati dal crollo di una torre, ma ciò che Egli vuole rivelare è che, senza conversione, la persona è destinata a una fine violenta, qui evidentemente dell’anima.

Il primo strumento di morte è la spada, che troviamo per la prima volta in Genesi 3.24, quando Iddio “…scacciò l’uomo e pose a oriente del giardino di Eden i cherubini e la fiamma della spada guizzante, per custodire la via all’albero della vita”: quella via nessun essere umano l’avrebbe più potuta trovare. In questo caso la “spada”è figura del limite assoluto imposto all’uomo, che essendo diventato impuro a causa del peccato non avrebbe potuto più avere a che fare tanto con l’eternità quanto con la santità di Dio talché fu detto a Mosè “Tu non potrai vedere il mio volto, perché l’uomo non può vedermi e vivere”(33.20).

Per il tema del nostro verso, la spada, da sempre strumento di morte, è anche figura del giudizio: “Quanto a voi, vi disperderò tra le nazioni e sguainerò la spada dietro di voi – perché il giudizio arriva sempre quando uno meno se lo aspetta –, la vostra terra sarà desolata e le vostre città saranno deserte”(Levitico 26.33). Quest’arma è sinonimo di sterminio, come avvenne in tutti i casi in cui“a fil di spada”furono passati tutti gli abitanti delle città conquistate o gli eserciti di cui leggiamo negli scritti dell’Antico Patto, ma è anche uno strumento che appartiene al Signore: “Àlzati, Signore, affrontalo, abbattilo; con la tua spada – non la mia – liberami dal malvagio”(Salmo 17.23). Ho citato versi indicativi, che certo non sono i soli nella letteratura antica. Arrivando al Nuovo Testamento, questa è prevalentemente riferita allo Spirito Santo e alla Parola di Dio che separa ciò che è puro da ciò che è impuro, oltre ad essere strumento di difesa dagli attacchi dell’Avversario e dei suoi rappresentanti come da Efesi 6.17 quando si parla della “spada dello Spirito, che è la Parola di Dio”.

Fatte queste premesse, arriviamo così ad Apocalisse 19, quando appare il cavaliere bianco: “Poi vidi il cielo aperto, ed ecco un cavallo bianco; colui che lo cavalcava si chiamava Fedele e Veritiero; egli giudica e combatte con giustizia, (…) è avvolto in un mantello intriso di sangue e il suo nome è: il Verbo di Dio. (…) Dalla sua bocca esce una spada affilata, per colpire con essa le nazioni”(vv. 11-15). Riferito alle nazioni pagane che non avranno accolto il Figlio di Dio, è agevole raccordare quanto descritto dall’apostolo Giovanni col giudizio degli ultimi tempi, precisamente quelli che precederanno il Millennio. Illuminante in proposito i versi 20 e 21: “Ma la bestia fu catturata, e con essa il falso profeta, che alla sua presenza aveva operato i prodigi con i quali aveva sedotto quanti avevano ricevuto il marchio della bestia e ne avevano adorato la statua. Ambedue furono gettati vivi nello stagno di fuoco, ardente di zolfo. Gli altri furono uccisi dalla spada che usciva dalla bocca del cavaliere, e tutti gli uccelli si saziarono delle loro carni”.

“Perirete allo stesso modo”,quindi, perché non avrete la possibilità di salvarvi dalla spada, non essendovi convertiti. Ed ecco, fin da allora Gesù offre ai suoi uditori l’opportunità di scampare da questa morte terribile perché, se certo fa impressione il pensiero di venire uccisi nel corpo tramite quello strumento, la morte seconda in giudizio sarà molto più atroce. In mancanza di conversione, c’è dunque prospettiva di morte certa attraverso la spada.

C’è poi la fine la morte per il crollo della torre, quindi per schiacciamento, come purtroppo accade nei terremoti quando sono le case, che per noi rappresentano un riparo e che cerchiamo di rendere gradevoli alla nostra permanenza per quanto possibile, a collassare. Ebbene, la morte per schiacciamento si verifica quando un peso di notevole portata va a gravare su un corpo vivente. Il peso esiste per la gravità ed è quindi, poiché abitiamo la Terra, a lei strettamente attinente. Ed è sulla Terra che l’uomo pensa, agisce e costruisce la propria vita, non potendo esentarsi in alcun modo dal peccare, cioè agire in modo contrario alle aspettative e alla natura di Dio che lo ha creato e avrebbe voluto che vivesse in un Luogo, Eden, da Lui appositamente creato, circondato e protetto.

Arriviamo così al peso del peccato, di cui Davide scrisse “Mi opprime il peso delle mie colpe, ma Tu perdonerai i miei peccati”quindi liberandolo (Salmo 65.3). Il peccato separa da Dio, riduce l’uomo al fantasma di se stesso, lo priva della dignità che avrebbe se fosse a Lui unito e lo rende schiavo dell’avversario, incapace di qualsiasi forma di elevazione e soprattutto di liberazione da esso. E, soprattutto, resta. Ricordiamo in proposito le parole di Gesù ai Giudei nell’episodio del cieco nato: “Se foste ciechi non avreste alcun peccato; ma siccome dite: «Noi vediamo», il vostro peccato rimane”(Giovanni 9.41).

Infine, è proprio il peccato a uccidere perché ve n’è uno, quello delle origini, che viene individuato nella frase “il salario del peccato è la morte”(Romani 6.23) e al quale tutti devono sottostare, mentre vi è quello per scelta personale che determinerà “la morte seconda”cui scamperanno tutti coloro che, scegliendo di vivere la conversione, non ne saranno colpiti: “Per i codardi, gli increduli, gli abominevoli, gli omicidi, i fornicatori, gli stregoni, gli idolatri e tutti i bugiardi, la loro parte sarà nello stagno ardente di fuoco e zolfo, che è la morte seconda”(Apocalisse 21.8).

La domanda che si pone credo a questo punto sia: chi uccide? Colui che porrà queste anime nello stagno, o gli stessi uomini che non avranno “aperto il cuore all’amore della verità per essere salvati”(2 Timoteo 2.10)? Credo allora che a uccidere sarà il peccato con il suo peso che le anime dei non salvati avranno voluto tenersi addosso e che solo alla fine, dopo una quantità innumerevoli di segnali in tal senso, li schiaccerà inevitabilmente. Perché “Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mansueto e umile di cuore, e troverete ristoro per le anime vostre. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero”(Matteo 11.28,29). Amen.

* * * * *

13.14 – I SEGNI DEI TEMPI (Luca 12.54-59)

13.14 – I segni dei tempi (Luca 12.54-59)  

 

54Diceva ancora alle folle: «Quando vedete una nuvola salire da ponente, subito dite: «Arriva la pioggia», e così accade. 55E quando soffia lo scirocco, dite: «Farà caldo», e così accade. 56Ipocriti! Sapete valutare l’aspetto della terra e del cielo; come mai questo tempo non sapete valutarlo? 57E perché non giudicate voi stessi ciò che è giusto? 58Quando vai con il tuo avversario davanti al magistrato, lungo la strada cerca di trovare un accordo con lui, per evitare che ti trascini davanti al giudice e il giudice ti consegni all’esattore dei debiti e costui ti getti in prigione. 59Io ti dico: non uscirai di là finché non avrai pagato fino all’ultimo spicciolo».

 

            “Diceva alle folle”ci lascia intuire che quanto detto da Gesù non sia necessariamente avvenuto dopo il discorso sulla divisione che era venuto a portare. “Folla”, poi, è un sostantivo che già di per sé rende l’idea di una moltitudine e, se Luca lo usa al plurale, può alludere al fatto che il principio qui esposto sia stato ripetuto più volte, a persone e in momenti diversi.

Per descrivere il comportamento dei presenti, fra i quali c’erano persone di ogni categoria e ceto compresi come sempre scribi, farisei e sadducei che lo sorvegliavano, Gesù prende ad esempio un metodo di osservazione in uso in quei territori che consentiva previsioni precise: le nuvole prodotte dall’evaporazione nel Mediterraneo erano portate dai venti su quel Paese e riversavano su di esso la pioggia. Abbiamo testimonianza di questo in 1 Re 18.43-45 quando Elia, dal monte Carmelo dopo avere pregato perché venisse la pioggia, “disse al suo servo: «Sali, presto, guarda in direzione del mare». Quegli salì, guardò e disse: «Non c’è nulla!». Elia disse: «Tornaci ancora per sette volte». La settima volta riferì: «Ecco, una nuvola, piccola come una mano d’uomo, sale dal mare». Elia gli disse: «Va’ a dire ad Acab: «Attacca i cavalli e scendi, perché non ti trattenga la pioggia! D’un tratto il cielo si oscurò per le nubi e per il vento, e vi fu una grande pioggia. Acan montò sul carro e se ne andò a Isreèl.”.

Nel secondo caso abbiamo lo scirocco che, prima di arrivare in Palestina, passa sul deserto arabico e lì arriva molto caldo per cui, quando il vento cambiava, tutti sapevano che le temperature si sarebbero alzate. Non furono questi i soli esempi portati da Gesù al riguardo e in Matteo 16.2-3 leggiamo queste parole rivolte ai farisei e sadducei che “si avvicinarono per metterlo alla prova e chi chiesero che mostrasse loro un segno dal cielo. Ma egli rispose loro: «Quando si fa sera, voi dite: «Bel tempo, perché il cielo rosseggia»; e al mattino: «Oggi burrasca, perché il cielo è rosso cupo». Sapete dunque interpretare l’aspetto dei cielo e non siete capaci di interpretare i segni dei tempi? Una generazione malvagia e adultera pretende un segno! Ma non le sarà dato alcun segno, se non il segno di Giona». Li lasciò e se ne andò”.

 

Ecco allora la necessità di riflettere sul termine usato da Nostro Signore per qualificare chi era pronto a riconoscere i segni che annunciavano bello o cattivo tempo, ma non era in grado di riconoscere quello spirituale, “Ipocriti!”. Quei giudei infatti fingevano di ignorare i segnali che la Scrittura metteva loro a disposizione a partire dalle parole di Mosè fino a Malachia. C’era tutto un tesoro di conoscenza e profezie che avrebbero potuto mettere tutti, dal minimo del popolo ai sommi sacerdoti, nelle condizioni di riconoscere Gesù come Messia. Ricordiamo la Sua risposta agli inviati di Giovani Battista che gli chiesero da parte sua “«Sei tu quello che deve venire, o dobbiamo aspettarne un altro?». In quello stesso momento Gesù guarì molti d malattie, da infermità, da spiriti cattivi e donò la vista a molti ciechi. Poi diede loro questa risposta: «Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciata la buona notizia. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!».” (Luca 7.18-23). Ora la risposta di Gesù a quei discepoli contiene un elenco di quei “segni”che i Giudei non volevano riconoscere.

E il tutto è aggravato dal fatto che gli storici del tempo attestano che proprio gli anni in cui Gesù visse erano quelli in cui era diffusa l’opinione che il Messia sarebbe arrivato. Ma per loro non poteva essere Lui nonostante avessero avuto la visita anche del Suo Precursore. Sappiamo che Mosè, citato poco prima, aveva detto in Deuteronomio 18.15 “Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me– cioè YHWH –.A lui darete ascolto”: chi sia questo“profeta pari a me”lo spiega l’apostolo Paolo in Galati 4.4, “Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò suo Figlio, nato di donna, nato sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli”.

Tornando sulle parole di Gesù ai discepoli di Giovanni Battista, un paralitico che si alza, un indemoniato che viene liberato, un lebbroso guarito e un morto che risuscita non costituivano un caso isolato, ma erano eventi che si verificavano in modo sistematico, non potevano essere attribuiti all’opera di un indemoniato o a quella di un impostore a meno di non rientrare nella categoria degli “Ipocriti”che qui non sono, come siamo abituati a interpretare, quelli che recitano una parte davanti agli altri, ma quelli che ingannano se stessi, quindi una categoria ancora peggiore. E sappiamo l’inganno a chi appartiene, da chi è gestito.

Nelle riflessioni cristiane oggi reperibili si dà spesso risalto all’ipocrisia al suo primo stadio, cioè la finzione verso gli altri, ma poco a quella più subdola in cui è l’uomo a mentire, simulare, fingere proprio con se stesso. Qualcuno scrisse che “solo in noi stessi abita il peggior nemico” e credo sia una verità. In Galati 6.3, ad esempio, leggiamo “Se uno pensa di essere qualcosa, mentre non è nulla, inganna se stesso”e penso a quanti si assumono ruoli e cariche nella Chiesa senza avere una chiamata da Dio, simulandola, o ai danni fatti da tutti coloro che, con quella erroneamente definita “buona fede” agiscono superficialmente in Suo Nome.

Sempre in Galati, ai due versi successivi a quello citato, abbiamo l’antidoto alla presunzione e viene stabilito il fatto che ciò che siamo davanti al Signore non è valutabile guardando al nostro prossimo né ostentando ciò che pretendiamo di essere: “Ciascuno invece esamini la propria condotta e allora troverà motivo di vanto solo in se stesso e non in rapporto agli altri. Ciascuno infatti porterà il proprio fardello.(…) Non fatevi illusioni: Dio non si lascia ingannare. Ciascuno raccoglierà quello che avrà seminato. Chi semina nella carne, raccoglierà corruzione; chi semina nello Spirito, dallo Spirito raccoglierà vita eterna”(vv.4-8).

La vita cristiana è fatta di ascolto, dedizione, preghiera, ma soprattutto vigilanza su noi stessi, quella che la carne rifugge, che in altri termini altro non è che la “veglia”che abbiamo recentemente affrontato, per quanto in modo sintetico e orientativo. E tutto ciò altro non è che un antidoto, perché l’obiettivo dei cristiani è camminare uniti “…fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo. Così non saremo più fanciulli in balìa delle onde, trasportati qua e là da qualsiasi vento di dottrina, ingannati dagli uomini con quella astuzia che trascina all’errore”(Efesi 4.13,14). Ho scritto “camminare uniti” perché questa è la Chiesa, dove l’unione è data dall’accettazione dei doni: “Egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri, per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio”(vv. 11-13).

A fronte di questi versi vediamo che il cammino spirituale della persona è facilmente soggetto a interferenze anche importanti perché, se uno fa un percorso isolatamente, può incorrere negli errori di cui Paolo ha trattato e, in una Chiesa in cui i doni sono gestiti da persone mature, quindi sono veri e non presunti, il confronto tra fratelli sarà quello che deve essere e non un braccio di ferro tra fazioni contrapposte, il famoso “tu dici, ma io ti dico” oppure “fatti in là perché io sono più santo di te”.

Abbiamo poi 2 Timoteo 3.12,13: “Tutti quelli che vogliono rettamente vivere in Cristo Gesù saranno perseguitati. Ma i malvagi e gli impostori andranno sempre di male in peggio, ingannando gli altri e ingannati essi stessi”, che si riallaccia a quanto detto da Gesù a proposito delle divisioni nello scorso capitolo e al contesto in cui parla nei versi oggetto di esame.

L’ipocrisia che abbiamo visto potrebbe essere definita “di seconda specie” ed è la più subdola perché, se nella prima chi finge ne è pienamente consapevole, chi mente a se stesso a volte non se ne rende neppure conto perché la disonestà – nel caso degli avversari di Gesù di quel tempo, ma anche di questo – arriva a tal punto da venire interamente assorbita dalla persona stessa.

“Come mai questo tempo non sapete valutarlo? Perché non giudicate voi stessi ciò che  giusto?”: con queste parole Nostro Signore pone la questione invitando i suoi detrattori anche a valutare un dato obiettivo e cioè che, come non avrebbero creduto a chi avrebbe voluto convincerli che la nuvola di ponente non era portatrice di pioggia o lo scirocco di caldo essendo segni chiari, avrebbero dovuto credere in Lui con la stessa convinzione perché portatore di un segno annunciato da millenni, la Sua venuta.

La seconda parte dell’intervento di Gesù, dai versi 58 al 59, è già stata affrontata quando abbiamo esaminato il discorso della montagna e contiene un profondo interrogativo ancora una volta preso a prestito dal mondo reale, quando il debitore era interamente nelle mani del creditore (e tale è il peccatore nei confronti di Dio). Senza un accordo, l’unica alternativa era finire davanti al magistrato che avrebbe disposto l’internamento in una prigione dalla quale il debitore sarebbe uscito solo dopo aver pagato “fino all’ultimo spicciolo”. La domanda allora è: se nella vita reale succede questo, in quella spirituale l’uomo potrà mai pagare “fino all’ultimo”il debito che ha con Dio?

L’ “amichevole accordo”contempla invece che le due parti, avverse perché Dio non può sopportare il male, s’incontrino, parlino, e chiaramente il debitore rinuncia ad ogni resistenza o per lo meno discute: “Venite e discutiamo, dice il Signore. Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve. Se fossero rossi come porpora, diventeranno come lana”(Isaia 1.18).  Così è stato per chiunque ha colto i segni dei tempi dello Spirito, ha contemplato il piano di Dio per lui e lo ha accettato. Amen.

* * * * *

13.13 – NON PACE, MA DIVISIONE (Luca 12.49-53)

13.13 – Non pace, ma divisione (Luca 12.49-53)    

 

49Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso! 50Ho un battesimo nel quale sarò battezzato, e come sono angosciato finché non sia compiuto!
51Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione. 52D’ora innanzi, se in una famiglia vi sono cinque persone, saranno divisi tre contro due e due contro tre; 53si divideranno padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera».

 

 

            Per quanto alcuni temi siano stati già sviluppati, o per meglio dire introdotti in un altro studio, trovo sia giusto riproporli tramite alcune varianti. Occupandoci dei primi due versi, per noi nuovi, sono interessanti perché rispecchiano lo stato d’animo di Gesù, “venuto a gettare fuoco sulla terra” inteso non come quello distruttivo che conosciamo, ma lo stesso di cui scrive Malachia 3.3 che, guardando da lontano l’opera di Dio nei riguardi del Suo popolo, riporta: “Chi sopporterà il giorno della sua venuta? Chi resisterà al suo apparire? Egli è come il fuoco del fonditore e come la liscivia dei lavandai. Siederà per fondere e purificare l’argento; purificherà i figli di Levi, li affinerà come l’oro e l’argento, perché possano offrire al Signore un’offerta secondo giustizia”.

Questa profezia è importante anche sotto l’aspetto della prima venuta del Figlio di Dio sulla terra, insopportabile e irresistibile per tutti i suoi avversari nel senso che non potranno avere argomenti di efficace contrasto di fronte a Lui, come in effetti fu e di cui è data testimonianza nei Vangeli. Essendo “come il fuoco del fonditore e la liscivia dei lavandai”, cioè una miscela di acqua bollente e cenere per lavare e sbiancare i panni, inizia la sua attività purificatrice su coloro che avrà scelto: “fondere e purificare” sono azioni che compie su un metallo inerte che, senza un intervento, resterebbe così com’è. Fondendolo e trasponendolo liquido da un recipiente a un altro, invece, l’argento viene purificato dalle scorie fino a raggiungere la purezza voluta. Notare l’elemento scelto, l’argento, sempre utilizzato per indicare l’uomo un tempo fatto a “immagine e somiglianza” di Dio. L’ultima parte del passo, poi, ci dà il fine per cui Nostro Signore venne nel mondo e cioè permettere agli uomini di poter elevare a Lui “un’offerta secondo giustizia”, quella che cioè non avrebbero mai potuto rivolgere, identificando quanti avrebbero creduto nei “figli di Levi” secondo Apocalisse 1.6: “A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen”.

 

Partiamo allora da questa base e occupiamoci del “fuoco”, primo elemento che Nostro Signore è venuto a portare come conseguenza della Sua venuta sulla terra, della Sua morte e resurrezione: è lo Spirito Santo che sarà fonte di illuminazione e guida, ma al tempo stesso causa di odio e divisione; è infatti lo Spirito di Dio che separa davvero i due mondi ai quali appartengono gli uomini, cioè quello dei Suoi figli, che attraverso lo Spirito si caratterizzano, e quello di coloro che si sono dati all’Avversario. Certo, la prima conseguenza di questo “fuoco” è la liberazione dal potere della carne, la capacità di agire in modo a lei assolutamente opposto come vediamo nell’episodio in cui lo Spirito Santo scese sui componenti della Chiesa di Gerusalemme e con la caratterizzazione di ciascuno attraverso i suoi doni, in parte diversi da quelli di un tempo.

La frase “e quanto vorrei che fosse già acceso”, qui così chiara, ha in realtà costituito un problema per tutti i traduttori stante lo stile secco e conciso che la caratterizza. Abbiamo infatti: “e che voglio, se è già acceso?” e “Che posso volere, se non che fosse già acceso?”. Tutte e tre le interpretazioni sono ugualmente degne di considerazione. La seconda, che vede il fuoco “già acceso” vede lo Spirito Santo già pronto per essere dato agli uomini (anticipazione e prospettiva), ma la prima e la terza ci mostrano la realtà del Gesù uomo: “quanto vorrei”. È certo che un Dio vuole, non vorrebbe, ma qui c’è la constatazione di Colui che volontariamente ha scelto di prendere il tempo dell’uomo e viverlo con lui per cui deve sottostare alle dinamiche della terra, dei suoi giorni, del cammino necessario fino alla morte del proprio corpo di carne. Quando Nostro Signore pronuncia questa frase il principio dell’eternità secondo il quale “davanti al Signore un giorno è come come mille anni e mille anni come un giorno solo” (2 Pietro 3.8) non valeva. “Quanto vorrei che fosse già acceso”, è uno stato d’animo chiaramente da collegare al verso 50 quando, parlando della Sua morte, il “battesimo nel quale sarò battezzato”, dice “e come sono angosciato, finché non sia compiuto!”.

Sarebbe stato un battesimo di sangue, quello riservato solo a Lui, che consentirà lo svolgersi di avvenimenti prima impossibili: “Questo Gesù, Dio lo ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni – ecco una delle basi della fede –. Innalzato dunque alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire. Davide infatti non salì al cielo; tuttavia egli dice: «Disse il Signore al mio Signore: siedi alla mia destra, finché io ponga i tuoi nemici come sgabello dei tuoi piedi” (Atti 2.32-35).

Gesù sapeva che il suo ultimo tempo era vicino e avrebbe voluto anticiparlo. E sappiamo che, quando l’ora di quel battesimo si avvicinava, portò i suoi discepoli a Gerusalemme con una risolutezza tale da lasciarli impressionati: “Mentre erano sulla strada per salire a Gerusalemme, Gesù camminava davanti a loro ed essi erano sgomenti: coloro che lo seguivano erano impauriti. Presi di nuovo in disparte i Dodici, si mise a dire loro quello che stava per accadergli: «Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai capi dei sacerdoti e agli scribi; lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani, lo derideranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno, e dopo tre giorni risorgerà” (Marco 10.32-34).

Ancora, teniamo presente che Nostro Signore sapeva che, “disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma quella di Colui che mi ha mandato” (Giovanni 6.38), avrebbe avuto in premio non solo “un nome che è al di sopra di ogni altro”, ma anche tutti coloro che avrebbe resuscitato: “Questa è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio – di persona come a quel tempo o in spirito come per noi oggi – e crede in lui – precisazione fondamentale – abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno” (Giovanni 6.40).

A questo punto, tornando ai nostri versi, Gesù sa che i discepoli non avevano ancora abbandonato l’idea che fosse un Messia nel senso umano del termine, cioè che avrebbe portato tranquillità e pace al suo popolo; per questo li disillude e li informa che, se sarebbero rimasti con lui, avrebbero certamente avuto “pace con Dio”, ma guerra con gli uomini che si sarebbe manifestata in tanti modi che qui vengono ristretti alla cerchia familiare perché solitamente simbolo di unità. Certo le sue parole riguardano non solo i Dodici, anzi gli Undici, ma tutti quanti sarebbero rientrati nel numero di quelli che avrebbero creduto davvero; la divisione di cui parla Nostro Signore si riferisce proprio all’àmbito ebraico, dove la tradizione religiosa si scontrerà con l’essere liberi da essa; basta ricordare quante volte proprio i Giudei cercarono di uccidere Paolo e tutti i complotti orditi contro di lui e, prima ancora, la lapidazione di Stefano.

Ora chi ha letto gli scritti dell’Antico Patto sa che là dove c’è chi agisce spinto dall’amore per Dio (da Lui ricambiato) e chi il mondo lo vive è sempre esistito un conflitto insanabile. Lo abbiamo visto a partire da Caino e Abele: l’uomo o gli uomini che appartengono profondamente alla carne non tollerano quelli che appartengono allo Spirito, o anche solo tendono verso di esso, e pertanto li combattono. È sufficiente dirsi cristiani e non condividere le loro idee o tendenze per suscitare reazioni negative.

Paolo spiegò molto bene questo stato di cose parlando dei figli di Agar e di Sara: “Voi, fratelli, siete figli della promessa, alla maniera di Isacco. Ma come allora colui che era nato secondo la carne – Ismaele, figlio appunto di Agar – perseguitava quello che era nato secondo lo spirito – Isacco –, così accade anche ora” (Galati 4.28,29). Si tratta di un’avversione istintiva, di un nulla in comune tra quella “luce” che venne subito separata dalle “tenebre” fin dal primo giorno della creazione, quando “Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre” (Genesi 1.3). Fu da quel gesto che la vita poté iniziare.

Certo è un principio che non solo l’apostolo Paolo si è limitato ad esporre: “Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia” (Giovanni 15.18,19). Da notare ciò che disse ai suoi fratelli che non credevano in Lui: “Il mondo non può odiare voi, ma odia me, perché di esso io attesto che le sue opere sono malvage” (7.7). Ancora nella prima lettera di Giovani: “Questo è il messaggio che avete udito fin da principio: che ci amiamo gli uni gli altri. Non come Caino, che era dal maligno e uccise il suo fratello. E per quel motivo l’uccise? Perché le opere sue erano malvage, mentre quelle di suo fratello erano giuste. Non vi meravigliate, fratelli, se il mondo vi odia” (3.11.12).

Il mondo quindi “ama ciò che è suo” non può che recepire quanti non gli appartengono come qualcosa di estraneo, da eliminare, di ripugnante. Questo modo di reagire raggiungerà il suo culmine nel regime degli ultimi tempi, ma siccome sappiamo che fin dall’antichità è detto che “lo spirito dell’Anticristo viene, anzi è già nel mondo” (1 Giovanni 4.3), possiamo capire il perché incontriamo nel nostro cammino quotidiano persone spinte da uno spirito avverso e soprattutto quale, chi sia e da dove venga questo spirito. Amen.

* * * * *

13.12 – LA PARABOLA DEL SERVO FIDATO E PRUDENTE (Luca 12.41-48)

13.12 – Il servo fidato e prudente (Luca 12.41-48) 

 

41Allora Pietro disse: «Signore, questa parabola la dici per noi o anche per tutti?». 42Il Signore rispose: «Chi è dunque l’amministratore fidato e prudente, che il padrone metterà a capo della sua servitù per dare la razione di cibo a tempo debito? 43Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà ad agire così. 44Davvero io vi dico che lo metterà a capo di tutti i suoi averi. 45Ma se quel servo dicesse in cuor suo: «Il mio padrone tarda a venire» e cominciasse a percuotere i servi e le serve, a mangiare, a bere e a ubriacarsi, 46il padrone di quel servo arriverà un giorno in cui non se l’aspetta e a un’ora che non sa, lo punirà severamente e gli infliggerà la sorte che meritano gli infedeli.
47Il servo che, conoscendo la volontà del padrone, non avrà disposto o agito secondo la sua volontà, riceverà molte percosse; 48quello invece che, non conoscendola, avrà fatto cose meritevoli di percosse, ne riceverà poche. A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più.

 

            Sarà necessario tornare in futuro su questa parabola, che verrà riesposta da Gesù in un altro momento divenendo così la penultima di quelle esposte ai Suoi. Guardando alle parabole fin qui esaminate non possiamo notare come vi sia una progressione sempre più alta verso la particolarità del messaggio: quella del “ricco stolto” fu pronunciata davanti a “migliaia di persone al punto che si calpestavano a vicenda”, quella dei servi che vegliano nell’attesa che il loro padrone rientri da una festa di nozze fu detta“ai suoi discepoli”e quest’ultima a Pietro, certo alla presenza degli altri, in vista degli incarichi che avrebbero ricoperto un giorno in seno alla Chiesa. Furono infatti gli apostoli, con la loro predicazione, che consentirono la sua nascita e diffusione nel mondo allora conosciuto e che vegliarono sul gregge loro affidato, come altri dopo la loro morte del corpo fino ad oggi. È altresì opinione dei sostenitori del primato di Pietro che Gesù, con questa parabola, abbia voluto indicargli il ruolo che avrebbe avuto, sottolineando le parole “amministratore”e “a capo della sua servitù”, ma è chiaro che qui il riferimento è a una persona che occupa un ruolo di responsabilità e sia da ritenersi in senso collettivo e non individuale, come vedremo. Se fosse giusta questa teoria, infatti, sarebbero da considerare “valide” solo le Chiese fondate da Pietro, ignorando il lavoro di Paolo, Giovanni e tutti gli altri. Ricordiamo anche Galati 2.9 quando si scrive“Giacomo, Cefa e Giovanni, ritenuti le colonne”: “le”, non “la”, con Pietro al secondo posto.

Proprio quest’apostolo, che si caratterizzava dagli altri per le molte richieste di spiegazioni a fronte delle parole di Gesù, era già intervenuto a seguito delle parole rivolte al giovane ricco che, quando fu invitato a seguirlo dopo avere abbandonato le proprie ricchezze, se ne andò rattristato. In quell’occasione chiese “Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito: che cosa dunque ne avremo?”(Matteo 19.27). Ora qui si verifica la stessa cosa: Pietro non ha chiaro il concetto non dell’attesa operosa dei “servi”, ma piuttosto chi fossero, se cioè loro, i dodici, o tutti quelli che lo seguivano.

Ora, a una domanda così diretta, sarebbe stato semplice rispondere semplicemente “no, dico per voi”, o “per tutti”, ma Nostro Signore parla in modo tale che ciascuno dei presenti potesse darsi una risposta e soprattutto scegliere in chi identificarsi: “Chi è dunque l’amministratore fidato e prudente (…)?”, cioè in altri termini “Pensate di essere voi? Se sì, ascoltate cosa può succedere” e a questo punto viene esposta la parabola che abbiamo letto, che riguarda gli apostoli e quelli che sarebbero venuti dopo di loro senza – attenzione perché è molto importante – ereditare in alcun modo il loro ruolo, il loro compito, il loro valore. L’apostolo, infatti, è solo colui che ha vissuto con Nostro Signore e ha ricevuto tale carica-onore direttamente da Lui, come in Atti 1.21,22: “Bisogna dunque che, tra coloro che sono stati con noi per tutto il tempo nel quale il Signore Gesù ha vissuto fra noi, cominciando dal battesimo di Giovanni fino al giorno in cui è stato di mezzo a noi assunto in cielo, uno divenga testimone, insieme a noi, della sua risurrezione”. Questo è uno dei motivi per cui Pietro non ottiene una risposta diretta, ma una nuova domanda.

Cerchiamo ora di esaminare il personaggio chiave del racconto di Gesù, chiaramente “l’amministratore fidato e prudente”, tradotto anche con “dispensatore leale e avveduto”: si tratta dell’economo, ruolo che nelle grandi case stava fra il maestro di casa e i servi e veniva incaricato, come Eliezer per Abramo o Giuseppe per Potifarre, della gestione della servitù, godendo della totale fiducia del suo signore. Non era un incarico da poco ed è facile pensare che il padrone, dando quella qualifica, dimostrasse la sua stima e onorasse così chi veniva scelto che, proprio per questo, cercava di adempiere nel migliore dei modi l’incarico. È la stessa cosa, per quanto in modo diverso, che avviene nella parabola dei dieci servi quando, dovendosi assentare il loro signore, li chiama perché facciano fruttare ciascuno la moneta d’oro che gli veniva consegnata (Luca 19).

Aggiornato al tempo della Chiesa, quindi dalla discesa dello Spirito Santo in Gerusalemme fino al ritorno di Cristo, è quanto esposto da Paolo agli anziani di Efeso poco prima che partisse:“Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha costituiti come custodi per essere pastori della Chiesa di Dio, che si è acquistata con il sangue del proprio Figlio” (Atti 20.28). Poi ricordiamo 1 Corinti 4.1,2 “Ognuno ci consideri come servi di Cristo e amministratori dei misteri di Dio. Ora, ciò che si richiede agli amministratori è che ognuno risulti fedele”. Non c’è quindi alcun dubbio che Gesù, con questa parabola, si riferisca a chi ha da Lui ricevuto un mandato di responsabilità in mezzo alla Chiesa a prescindere dal o dai doni: se ciò è avvenuto, la persona è stata messa “a capo”da Dio non in senso autoritario, ma ha avuto il compito di dare “la razione di cibo a tempo debito”, naturalmente spirituale, oltre a “vegliare il gregge”, piccolo o grande non importa, che gli è stato affidato. Volendo, la grandezza del gregge può essere vista nei talenti della parabola ad essi relativa.

Purtroppo, una delle piaghe della Chiesa di Dio, a prescindere dalla sua denominazione, è quella dell’avere persone che scambiano il voler avere degli incarichi di responsabilità con l’essere effettivamente in grado di farlo secondo il volere del Signore e, non essendo da Lui costituiti allo scopo, finiscono per inquinare irrimediabilmente tutto il campo in cui operano sostituendo la gestione oculata dei doni, del messaggio e della stessa vita cristiana, con il compromesso, la politica e la gestione della Chiesa esattamente come lo farebbe una persona a lei estranea.

In pratica, anziché pensare alle persone loro affidate, pensano a loro stessi rientrando perfettamente nel secondo personaggio della parabola, quello che dice “in cuor suo”, esattamente come il ricco stolto che parlava a se stesso, “Il mio padrone tarda a venire”. Costoro usano il loro metro umano per valutare, attenti alle loro esigenze e non a quelle del principio dell’attesa che deve avere il subordinato nei confronti di chi a lui è superiore in oltraggio alla libertà che gli è concessa. E sì che si tratta di un servo che all’inizio sembrava essere fidato ed efficiente.

A proposito dell’indifferenza che può sorgere nel cuore di un credente un fratello amava dire che, se l’uomo sentisse male ogni volta che pecca, prima di agire male ci penserebbe. È ciò che scrive Salomone nel Qoèlet,“Poiché non si pronuncia una sentenza immediata contro una cattiva azione, per questo il cuore degli uomini è pieno di voglia di fare il male; infatti il peccatore, anche se commette il male cento volte, ha lunga vita”(8.11,12). Tuttavia il testo prosegue “Tuttavia so che saranno felici coloro che temono Iddio, appunto perché provano timore davanti a lui”.

La caratteristica di chi non è sottomesso alla Parola di Dio, è infatti quella di sottovalutarla, attenendosi al presente, al tangibile, a tutto ciò che passa lasciando un pallido ricordo: “Figlio dell’uomo, che cos’è questo proverbio che si va ripetendo nella terra d’Israele: «Passano i giorni e ogni visione svanisce»? Ebbene, riferisci loro: Così dice il Signore Dio; Farò cessare questo proverbio e non lo si sentirà più ripetere in Israele. Anzi riferisci loro: Si avvicinano i giorni in cui si avvererà ogni visione. Infatti non ci sarà più visione falsa né vaticinio fallace in mezzo alla casa d’Israele, perché io, il Signore, parlerò e attuerò la parola che ho detto; non sarà ritardata. Anzi, ai vostri giorni, o genìa di ribelli, pronuncerò una parola e l’attuerò». Oracolo del Signore Dio.”(Ezechiele 12.22-27).

È anche bello considerare che proprio Pietro, che ascoltò le parole di Gesù a seguito della sua domanda, scrisse nella sua seconda lettera: “Questo anzitutto dovete sapere: negli ultimi giorni si farà avanti gente che si inganna e inganna gli altri e che si lascia dominare dalle proprie passioni. Diranno: «Dovè la sua venuta, che egli ha promesso? Dal giorno in cui i nostri padri chiusero gli occhi, tutto rimane com’è al principio della creazione».”(3.3,4).

 

Se guardiamo al presente dei giorni, li vediamo passare quasi sempre uguali e apparentemente senza traccia di Dio anche se basta osservare anche superficialmente quanto è complesso e organizzato un organismo per rendersi conto di quanto sia impossibile che si sia strutturato per caso. Non si pensa che il Creatore ha lasciato agli uomini una traccia, dei segni per poterlo conoscere promettendo che, se cercato, si lascia trovare. E se quanto ha detto si è puntualmente avverato nella storia, è impossibile che non si concreti circa quegli avvenimenti che ha preannunciato, come nel caso che ci riguarda il Suo ritorno. E chi non ha acquisito fino in fondo il principio dell’eternità come appartenenza, non potrà che accedere alla constatazione della temporalità, “il mio padrone tarda a venire”, e guardare sempre più ad essa. Attento a curare le malattie del proprio corpo, non si cura di quelle dell’anima e dei pericoli che questa corre.

Il comportamento del servo che non adempie il suo compito nell’attesa del ritorno del suo signore è descritto con parole che alludono al suo egoismo, ma soprattutto al danno che procura a quelli come lui, che però non hanno avuto come un incarico di responsabilità: prima li percuote, cioè li fa soffrire e li umilia, poi mangia, beve e si ubriaca, cioè fa un utilizzo totalmente arbitrario di beni non suoi, e qui è per me facile individuare tutti coloro che torcono la Scrittura a loro vantaggio per avere guadagni o posizioni sociali che altrimenti non avrebbero, facendo leva sull’impreparazione degli altri. E così lo Spirito si spegne: “Non spegnete lo spirito, non disprezzate le profezie. Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono. Astenetevi da ogni specie di male”, che altri traducono “parvenza di male”(2 Tessalonicesi 5.19-22).

Custodire la parola del Signore è dunque ciò a cui sono chiamati tutti i servi, a cominciare da quello che ha ricevuto l’incarico di provvedere agli altri quanto al nutrimento: “Ricorda dunque come hai ricevuto e ascoltato la Parola, custodiscila e convèrtiti perché, se non sarai vigilante, verrò come un ladro, senza che tu sappia a che ora verrò da te”(Apocalisse 3.3).

 

Il nostro testo descrive la punizione del servo. “Lo punirà severamente e gli infliggerà la sorte che meritano gli infedeli”. Qui ci troviamo di fronte a una pericope assolutamente delicata perché altre traduzioni riportano “lo reciderà”, oppure “lo separerà”, espressione che sembra descrivere un’esclusione dal regno di Dio anche se manca quel “pianto e stridore di denti”di cui parla sempre Gesù quando allude alle conseguenze dell’esclusione. C’è anche un’allusione, come vedremo quanto torneremo nel parallelo di Matteo che esamineremo in futuro, alla morte mediante segamento del corpo.

Possiamo fornire qui, per ora, l’interpretazione più corretta, quella espressa al verso 47, quando le “molte percosse”è espressione che viene connessa alle punizioni corporali per reati che non contemplavano la morte, come in Deuteronomio 25.2,3: “Se il colpevole avrà meritato di essere fustigato, il giudice lo farà stendere per terra e fustigare in sua presenza, con un numero di colpi proporzionato alla gravità della sua pena. Gli farà dare non più di quaranta colpi perché, aggiungendo altre battiture a queste, la punizione non risulti troppo grave e il tuo fratello resti infamato ai tuoi occhi”. La “parte con gli infedeli”di cui Gesù parla credo si riferisca a quella dei servi che non hanno ottemperato alla volontà del padrone, che non beneficiano della sua benevolenza e considerazione, ma non vengono esclusi completamente dalla casa. Chi prendeva le battiture certo non moriva, ma soffriva molto e restavano certamente dei segni su di lui, quando non addirittura rimaneva storpio.

Ci sarà sofferenza, quindi, ma non la morte, esattamente come scrive l’apostolo Paolo a proposito del rendiconto: “Se l’opera che uno costruì sul fondamento resisterà, costui ne riceverà una ricompensa; ma se l’opera finirà bruciata, sarà punito. Tuttavia egli si salverà, però come attraverso il fuoco”(1 Corinti 3.14,15). La punizione di Dio, quindi, equivarrà ad una vita ai margini del Regno perché “ciascuno riceverà la sua retribuzione a seconda di come avrà operato”perché “Noi tutti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, affinché ciascuno riceva la retribuzione di ciò che avrà fatto quando era nel corpo, sia in bene, che in male”(2 Corinti 5.10). Credo che di più non possiamo sapere perché la prospettiva cui ogni cristiano deve aspirare è quella del premio e non certo la punizione. E credo anche che comportarsi come se non ci fosse una “retribuzione sia in bene, che in male”equivalga a dire “il mio padrone tarda a venire”e quindi far del male a se stessi.

Per quanto il messaggio della parabola sia rivolto a chi ha compiti di responsabilità nella Chiesa, è l’ultimo verso a costituire un vero monito per tutti: “A chiunque fu dato molto– e cosa può esservi più grande della Grazia? – molto sarà richiesto; a chi fu affidato molto– ecco gli anziani e coloro che amministrano la Parola – sarà richiesto molto di più”. Da notare che quell’ “affidato molto”nell’originale è “dato in deposito”, che si collega ai talenti e alle dieci monete (mine) d’oro. Preghiera e veglia, attenzione a noi stessi perché, come scritto in 2 Timoteo 1.14, “Custodisci, mediante lo Spirito Santo che abita in noi, il bene prezioso che ti è stato affidato”. Amen.

* * * * *

13.11 – LA PARABOLA DEI SERVITORI CHE VEGLIANO (LUCA 12.35-40)

13.11 – La parabola dei servi che vegliano (Luca 12.35-40)           

 

35Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; 36siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito. 37Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli. 38E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro!39Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa. 40Anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo».

 

            C’è una notevole differenza fra la parabola del ricco stolto, pronunciata davanti alla folla, e quella dei servi che vegliano, rivolta da Nostro Signore ai suoi discepoli, quindi a una cerchia di persone più ristretta. Il messaggio qui contenuto possiamo dire allora che è “riservato”, rivolto a quanti hanno già fatto una scelta importante, quella di seguirLo e hanno bisogno di imparare da Lui perché, senza le Sue indicazioni, sarebbero ancora in balìa di loro stessi. Ecco allora che quanto esposto da Gesù, che verrà ricordato loro dallo Spirito Santo una volta risorto e salito al cielo, riguarda il modo che ha il cristiano di condurre la propria vita, “pronto, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese”.

Esaminiamo ora quanto avviene nella parabola da un punto di vista storico per poi fare alcuni accostamenti spirituali partendo dalla festa cui il padrone è invitato.

 

La festa di nozze: non esisteva un rito religioso per celebrare il matrimonio perché era considerato un fatto privato certamente fra l’uomo e la donna, ma soprattutto fra le famiglie cui gli sposi appartenevano; queste stabilivano tra loro una vera e propria alleanza organizzata dai rispettivi padri. Si celebrava solitamente dopo un anno di fidanzamento e la festa che lo coinvolgeva era grande a tal punto da durare anche una settimana. Il matrimonio era una questione anche di prestigio sociale talché non mancavano ospiti di riguardo essendo gli invitati scelti con molta attenzione, e qui si possono fare molte applicazioni sull’episodio delle “nozze di Cana” e a tutte le parabole in cui si citano le nozze. Un ruolo importante lo avevano gli amici dello sposo, che si occupavano del buon andamento della festa, di presentare gli invitati coi regali che portavano e di tutto quanto fosse funzionale al banchetto (ricordiamo il vino). Nulla era lasciato al caso.

Ora abbiamo un elemento importante e cioè che il padrone, nella nostra parabola, parte per una festa nuziale la cui durata era assolutamente sconosciuta ai servi: sarebbe potuto tornare tanto a notte inoltrata, quanto dopo più giorni e di qui la necessità di predisporsi ad accoglierlo senza trascurare i compiti loro affidati. Non sappiamo quante fossero le persone addette a quella casa, ma è certo che l’assenza del padrone avesse portato squilibrio nella gestione ordinaria del loro tempo perché restava il problema della notte, dove in condizioni normali tutti andavano a dormire per ritemprarsi dalle fatiche del giorno. Era impensabile che un servo, in quanto tale privo di diritti per quanto non come nel mondo occidentale o presso altri popoli, facesse attendere il proprio signore alla porta.

 

Nella nostra parabola Gesù quindi parla di servitori coscienziosi, quelli che “troverà ancora svegli”, che però in quanto esseri umani possono essere soggetti a stanchezza: come fare? Si tratta di combattere contro un nemico subdolo, cioè il sonno che inevitabilmente cerca di impossessarsi di chiunque affronta una veglia. I testi storici non ci hanno tramandato nei dettagli la vita di chi era preso a servizio, cosa che avveniva a causa della povertà o per ripianare debiti eventualmente contratti. In ogni caso era prevista la possibilità del riscatto e il servo veniva liberato dopo sette anni, al termine dei quali poteva decidere anche se restare presso il padrone per motivi affettivi; così leggiamo in Esodo 21.5,6: “Ma se lo schiavo dice: «Io sono affezionato al mio padrone, a mia moglie, ai miei figli, non voglio andarmene libero», allora il suo padrone lo condurrà davanti a Dio, lo farà accostare al battente o allo stipite della porta e gli forerà l’orecchio con la lesina e quello resterà suo schiavo per sempre”.

Rimane comunque il fatto, tornando alla parabola, che quei servi non sapevano quando il loro padrone sarebbe rientrato e alcuni di loro, volontariamente, per non dispiacergli e onorarlo, decidono di attenderlo. Credo che Gesù non abbia voluto qui porre la questione su come si organizzò il gruppo di persone per far fronte al problema del sonno, cioè se questi decisero di fare dei turni di attesa, se c’era chi dormisse di giorno per stare sveglio di notte o altro, ma piuttosto porre l’accento sulla veglia, che in pratica è il procedere contrario alle elementari esigenze del corpo che ha bisogno di sonno, dalle cinque alle dieci ore a seconda delle condizioni di salute e all’età delle persone. Ciò che rileva è: il padrone deve tornare e va aspettato perché, “quando arriva e bussa, gli aprano subito”.

Si tratta si un’attesa analoga a quella della parabola delle dieci vergini, che, “Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e si addormentarono”(Matteo 25.5), anche se lì l’accento è posto sul fatto che cinque di loro avevano l’olio per le lampade e le altre no.

 

La vita cristiana, quindi, è spiegata ai discepoli di Gesù con questa situazione, in vista del ritorno del Signore che disse “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?”(Luca 18.8); di qui la necessità espressa all’inizio del nostro testo, “Siate pronti, con le vesti strette attorno ai fianchi e le lampade accese”. Esser “pronti”significa porsi nelle condizioni di reagire immediatamente a uno stimolo, a un richiamo, e a farlo nel migliore dei modi mettendo in conto tutto quanto possa succedere, essere in grado di fronteggiare qualunque situazione possa verificarsi nell’ambito per cui si è preparati; lo sanno bene coloro che appartengono a reparti particolari, come possono essere i Vigili del Fuoco o di pronto intervento di polizia o sanitario. Il più delle volte chi è “pronto” ha prima studiato, vagliato possibilità, si è preparato attraverso un addestramento specifico.

La prontezza di cui parla Nostro Signore è caratterizzata dall’avere “le vesti strette attorno ai fianchi”, cioè predisporsi al lavoro: a quel tempo, infatti, gli israeliti portavano lunghe tuniche che, quando svolgevano attività impegnative, venivano sollevate in modo che non intralciassero i movimenti e strette con una cintura attorno ai fianchi che, nel Nuovo Testamento, è sinonimo di verità (Ef. 6.14). L’apostolo Pietro poi scrive “perciò, cingendo i fianchi della vostra mente e restando sobri, ponete tuttala vostra speranza in quella grazia che vi sarà data quando Cristo si manifesterà”(1°.1.13). La verità del Vangelo, quindi, è quella che consente di operare in modo libero ed efficace per l’avanzamento proprio e di altri nel cammino della vita quotidiana.

È quindi la cintura del tipo appena visto in questi due passi che consente un’operatività esente da biasimo, tanto del prossimo che della Chiesa e quindi di Dio; se il termine “verità”può sembrare eccessivo, va precisato che essa è qualcosa che si costruisce e si scopre giorno per giorno se si è disposti a crescere davanti a Lui e a nessun altro. Alcuni commettono un grosso errore credendo di vivere ancora ai tempi della Chiesa di Gerusalemme, quando lo Spirito Santo si manifestava nei modi che tutti conosciamo: oggi il nostro edificio spirituale viene costruito poco a poco, sull’unica roccia ammissibile che è Gesù Cristo, che disse ai Suoi “Quando però verrà lo Spirito di Verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future”(Giovanni 16.13). Notare il termine, “vi guiderà”, che significa “precedere o condurre lungo un percorso” e non rendere di colpo una persona depositaria di chissà quali verità: la prima che l’uomo deve cercare è la propria salvezza in Cristo che “mi ha amato e ha dato se stesso per me”(Galati 2.20).

 

Terzo elemento illustrato da Gesù in questa parabola sono “le lampade accese”. La mancanza di uno solo di questi rende inutile ogni compito perché, se l’essere “pronti”si connette allo stato d’animo che anima la persona, le vesti cinte attorno ai fianchi sono figura del suo operare. Senza la lampada accesa ogni attività è impossibile non essendo nessuno in grado di lavorare al buio. La “lampada”, a parte questo, ha connessione con Matteo 5.16 quando fu detto “Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli”. Ecco perché il comportamento del credente dev’essere illuminato dalla Parola di Dio e non da altri elementi.

La lampada, per illuminare tutta la notte, doveva essere piena d’olio, figura dello Spirito Santo e della dignità profonda che conferisce all’uomo, e qui abbiamo un ulteriore richiamo alla parabola delle dieci vergini che abbiamo ricordato. Ancora, a conferma che lo Spirito riveste completamente l’uomo, ricordiamo che “la lampada del corpo è l’occhio. Perciò, se il tuo occhio è puro, tutto il tuo corpo sarà illuminato, ma se il tuo occhio è cattivo, tutto il tuo corpo sarà nelle tenebre. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra!”(Matteo 6.22,23). Ecco allora che, con questi versi, andiamo ben oltre alla semplice divisione fra luce e buio, ma veniamo avvertiti che possiamo scambiare l’una con l’altro perché “la luce che è in te è tenebra”, lungi dall’essere un ossimoro, ci parla di presunzione, arroganza, obiettivi carnali quali unici motori di una vita.

 

I servi della nostra parabola non portano panni e coperte nei pressi del portone di casa, ma restano svegli, attenti al minimo rumore, alla ricerca di quei segnali che possano avvisarli dell’imminente rientro del loro signore che, una volta giunto, compie qualcosa di assolutamente inaspettato: “Beati quei seri che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi – questa volta lui! –, li farà mettere a tavola e passerà a servirli”. Lui, il signore rispettato e temuto, che fino a poco prima di partire dava ordini e si aspettava che questi fossero rispettati, muta completamente atteggiamento e onora i suoi servi di attenzioni che certamente non si aspettavano: “passerà a servirli”, avvicinandosi ad ognuno di loro.

Di questa azione troviamo traccia in due passi, il primo quando Gesù laverà i piedi ai discepoli (Giovanni 13.3,4) ma ancor più, del tutto consono al nostro episodio, Apocalisse 7.17 “Non avranno più fame né avranno più sete, non li colpirà il sole né arsura alcuna, perché l’Agnello, che sta in mezzo al trono, sarà il loro pastore e il guiderà alle fonti delle acque della vita. E Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi”.

Gesù, quindi, con questa parabola dà ai suoi discepoli, a prescindere dal tempo in cui sarebbero vissuti, degli elementi per guidarli nell’attesa tanto del Suo ritorno quanto della Sua chiamata attraverso la morte del corpo che anche lei sopraggiunge quando uno meno se lo aspetta. In ogni caso, però, “Quelle cose che occhio non vide né orecchio udì, né mai entrarono in un cuore d’uomo, Dio le ha preparate per coloro che lo amano”(1 Corinti 2.9). Amen.

* * * * *

13.10 – LA PARABOLA DEL RICCO STOLTO (LUCA 12.13-21)

13.10 – La parabola del ricco stolto (Luca 12.13-21)         

 

13Uno della folla gli disse: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità». 14Ma egli rispose: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?». 15E disse loro: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede». 16Poi disse loro una parabola: «La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. 17Egli ragionava tra sé: «Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti? 18Farò così – disse -: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. 19Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti!». 20Ma Dio gli disse: «Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?». 21Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio».

 

            Prima di affrontare questa parabola va dato un breve cenno introduttivo, trattandosi di un racconto inserito solo da Luca. I versi da 1 a 10, che riportano il discorso di Gesù sul “lievito dei farisei”, sul temere non “coloro che possono uccidere il corpo, ma colui che, dopo aver ucciso, ha il potere di gettare nella Geenna”, la “bestemmia contro lo Spirito Santo”e la Sua assistenza a chi crede, sono già stati affrontati, ma senza sottolineare che furono pronunciati di fronte a una folla di “migliaia ai persone, al punto che si calpestavano a vicenda”(Luca 12.1).

Ebbene, fra tutta questa gente, ammettendo che il fatto sia avvenuto proprio in quel contesto, stava un uomo che non prestava la minima attenzione a quanto veniva detto, ma era angustiato perché aveva un fratello che non ne voleva sapere di dividere con lui un’eredità. Evidentemente, arrovellandosi su come risolvere il problema e considerata l’influenza che Gesù aveva sul popolo, pensò che nessuno meglio di Lui avrebbe potuto convincere quel congiunto ostinato, attaccato a quanto stava per ricevere al punto da rifiutarsi di dividere ciò che legalmente apparteneva ad entrambi. Questa è la lettura più immediata della situazione che stava a monte della richiesta “Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità”: potrebbe essere stato che il “fratello”in questione fosse un discepolo, che costui fosse un primogenito cui spettava una parte doppia del lascito oppure semplicemente un avido, ma non rileva perché l’importante è che per la prima e unica volta nei Vangeli abbiamo una richiesta a Gesù di intervenire in una questione tipicamente terrena che, nella fattispecie, veniva spesso risolta da un consiglio di famiglia o dal “mediatore”, più propriamente “addetto alla divisione”che solitamente apparteneva alla cerchia di amici comuni più stretti e al quale veniva conferito l’incarico.

Da qui in poi Gesù si rivolge ai presenti – “disse loro”– e all’ignoto che si era rivolto a Lui esponendo una parabola che ha per tema l’avidità e lo sguardo orizzontale, l’ascolto esclusivo di se stessi e, per meglio dire andando alle parole del discorso della montagna, il “servire a Mammona”dove la “servitù” si concreta con l’appartenenza e la dipendenza. Non era infatti contemplata la figura del dipendente prezzolato, che presta il servizio pattuito e se ne va, ma quella del servo che apparteneva al padrone cui spettava il compito di nutrirlo e dargli una dimora. Appartenere e dipendere, quindi; e il rapporto che il servo intratteneva col suo padrone influenzava la sua stessa vita.

 

Abbiamo dunque letto “E disse loro”, non direttamente a chi gli aveva chiesto un intervento su questioni finanziarie, ma a tutti. Il testo, fra l’altro, non specifica se questa persona avesse torto o ragione in quel dividere.

Fate attenzione e guardatevi da ogni cupidigia”, così tradotto da “pleonexìa” che sta ad indicare il desiderio di avere di più di quanto abbiamo diritto “perché – come abbiamo letto –anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede”(v.15): ricordiamo come premessa Proverbi 15.16, “È meglio aver poco con il timore di Dio che un grande tesoro con inquietudine”e 16.16 “Possedere la sapienza è molto meglio dell’oro, acquisire l’intelligenza è preferibile all’argento”che estendono il significato delle parole di Gesù in modo tale che “ciò che egli possiede”sono i beni in senso stretto, materiale: se infatti la “vita” vera dipendesse da ciò che una persona ha, il regno di Dio apparterrebbe ai “ricchi” e non ai “poveri” secondo la classificazione spirituale che conosciamo.

 

Venendo alla parabola, mi sono chiesto quale sia il soggetto, cioè se l’uomo ricco o la brama di possedere ed effettivamente la questione si pone poiché abbiamo un agente, appunto il ricco, totalmente succube della propria condizione di sottomesso al proprio spirito avido. Scrivendo agli Efesi l’apostolo Paolo dirà “Sappiatelo bene: nessun fornicatore, o impuro, o avaro, cioè nessun idolatra, ha in eredità il regno di Cristo e di Dio”(5.5). Poi, in Colossesi 3.5, ben sapendo che il credente è un essere umano e in quanto tale soggetto ad impulsi negativi che si porta appresso, scrive “Fate morire dunque ciò che appartiene alla terra: impurità, immoralità, passioni, desideri cattivi e quella cupidigia che è l’idolatria: a motivo di queste cose l’ira di Dio viene su coloro che gli disobbediscono”.“Non abbiamo portato nulla nel mondo e nulla possiamo portare via”(1 Timoteo 6.7) quanto mai letteralmente consono al nostro episodio, ed Ebrei 13.5,6: “La vostra condotta sia senza avarizia: accontentatevi di quello che avete, perché Dio stesso ha detto: «Non ti lascerò e non ti abbandonerò». Così possiamo dire con fiducia: Il Signore è il mio aiuto, non avrò paura. Che cosa può farmi l’uomo?”.

Tenendo a mente questi passi, possiamo esaminare il fatto narrato da Nostro Signore: un uomo già ricco si ritrova di fronte ad “un raccolto abbondante”e questo dà luogo a tutta una serie di ragionamenti che escludono nella maniera più assoluta tanto Dio quanto il suo prossimo. Abbiamo letto “ragionava fra sé”e questa credo sia la chiave di lettura. Mi viene in mente Maria, madre di Gesù, che “da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore”, intenta quindi in un percorso di ricerca spirituale, onorata della visita dell’angelo Gabriele.

Nella parabola del ricco stolto, invece, ogni discorso è proiettato ad un futuro che gli apparteneva solo teoricamente, non sapendo quando sarebbe intervenuta la morte a scrivere la parola “fine” al suo percorso esistenziale. È da notare la posizione di quest’uomo: la sua campagna aveva “dato un raccolto abbondante”quindi le sue ricchezze non erano frutto di oppressione, estorsione o frode. Presumiamo fosse una persona onesta, diligente nel coltivare i propri campi e, per la dispensazione in cui viveva, sapeva che tutto questo poteva costituire una benedizione di Dio. Per noi, credo fosse un modo per metterlo alla prova perché, anziché ringraziare Colui che gli aveva consentito quei raccolti e provvedere agli altri come faceva Giobbe che in quello traeva la sua soddisfazione, fu vittima della propria sollecitudine. Possiamo dire che, tanto più crescevano i suoi raccolti, tanto più aumentava il suo desiderio di possesso.

Il nostro testo giustamente traduce “cupidigia”al posto di “avarizia”perché, mentre l’avaro non spende mai – c’è chi ha detto che l’avaro è il miglior custode dei beni degli eredi –, chi è affetto da cupidigia prova un desiderio intenso, una smodata avidità e bramosia, non provando altro che il piacere del possesso. Infatti, nel suo progetto, a un certo punto si apre uno spazio riservato al godimento di ciò che possiede chiamando in causa la propria anima, cioè tutta la sua persona: “Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divertiti”(v.19).

Sono importanti anche gli altri verbi: “Che farò?”, “Farò così”, “demolirò”, “costruirò”, “raccoglierò”, “dirò– ancora una volta –a me stesso”. Non meno importante è il possessivo “mio”, che il testo riporta per cinque volte, a sostegno di un egoismo che abbraccia tutti gli aspetti della sua persona. Quel ricco era diventato la perfetta dimora di se stesso nel senso che si era totalmente chiuso agli altri che, se li avesse aiutati, lo avrebbero certamente benedetto, come il già citato Giobbe che, in 29.12,13 disse “…soccorrevo il povero che chiedeva aiuto e l’orfano che ne era privo. La benedizione del disperato scendeva su di me e al cuore della vedova infondevo la gioia. Ero rivestito di giustizia come di un abito, come mantello e turbante era la mia equità”.

Mi sono chiesto se la “morale” di quest’uomo contemplasse la morte. Credo di sì, ma la considerava come un evento remoto o, meglio, sul quale sorvolare esattamente come un’altra “morale”, quella del “mangiamo e beviamo, perché domani moriremo”(1 Corinti 15.32) o del “Venite, io prenderò del vino e ci ubriacheremo di bevande inebrianti. Domani sarà come oggi, e molto più ancora”(Isaia 56.12). Occupàti nel cercare soddisfazione nelle cose di questa vita ignorandone il suo senso profondo, passano i giorni, i mesi, gli anni fino a quando non si è costretti ad ammettere che l’evento tanto esorcizzato, inutilmente quanto temuto (ed altrettanto ignorato), è giunto.

Va infine sottolineato non tanto che la morte e il giudizio saranno la fine di tutto, quanto il contrasto fra le parole del ricco e quelle che Dio gli rivolge: “Stolto”in opposizione al giudizio che quell’uomo aveva di se stesso, fiero del risultato raggiunto. “Questa notte”in contrasto ai “molti anni”che si prometteva e infine quella “vita”– meglio da tradurre con “anima”–  che riteneva sua proprietà, che invece gli sarebbe stata “richiesta”perché ogni vita ed ogni anima è sempre data in prestito.

In tutto questo c’è però un elemento che pochi notano e cioè il tempo verbale, “ti sarà richiesta”che, tradotto letteralmente, è “richiedono”: questo rende l’idea di quanto fosse imminente la morte del ricco (e la relativa sentenza), ma pone degli importanti interrogativi su chi fossero quelli che richiedevano quella “vita”, o “anima”. Credo che qui i parallelismi possano essere due, il primo dei quali è ancora una volta nel libro di Giobbe, quando Satana chiese che fosse tentato e gli fu posto come limite di non prendere la sua vita, cosa che nel caso del ricco non avvenne. Facciamo attenzione perché, nel caso del ricco di questa parabola, l’Avversario chiese a Dio ciò che era suo e gli fu concesso di prenderlo. Una seconda soluzione, che poi è parte integrante della prima, riguarda il giudizio finale, chiesto a gran voce come da Apocalisse 6.10, per quanto in un contesto diverso.

Non si può che ammettere come quel “richiedono”, col suo plurale, sia molto più drammatico perché sottintende il fatto che il “rendiconto” avvenga, come in effetti sarà, non solo davanti alla presenza di Dio: “Non sapete che i santi giudicheranno il mondo?”(1 Corinti 6.2).

Gesù termina la parabola con una domanda, “Quello che hai preparato, di chi sarà?”, in cui vediamo che ciò che resiste è il piano di Dio e non quello dell’uomo, perché “Sì, come un’ombra l’uomo che passa. Sì, come un soffio che si affanna, accumula e non sa chi raccolga”(Salmo 39.7). Ricordiamo anche le parole di Salomone “Ho preso in odio ogni lavoro che con fatica ho compiuto sotto il sole, perché dovrò lasciarlo al mio successore. E chi sa se questi sarà saggio o stolto? Eppure potrà disporre di tutto il mio lavoro, in cui ho speso fatiche e intelligenza sotto il sole. Anche questo è vanità”(Ecclesiaste 2.18,19).

A conferma poi che ai presenti non è stata raccontata una favola, abbiamo infine il monito “Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio”(v.21): ci sono allora due destini, o meglio solo due destinazioni possibili per gli uomini, guardare a se stessi, o arricchirsi “presso Dio”per vivere tutte le conseguenze delle direzioni prese.

E possiamo concludere queste riflessioni con 2 Corinti 4. 16,17: “Per questo non ci scoraggiamo, ma anche se il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore invece si rinnova di giorno in giorno. Infatti il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria: noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili, perché le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili invece sono eterne”. E più avanti Gesù dirà “Dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore”.Amen.

* * * * *

13.09 – CONTRO I DOTTORI DELLA LEGGE (Luca 11.45-54)

13.09 – Contro i dottori della Legge (Luca 11.45-54)       

 

45Intervenne uno dei dottori della Legge e gli disse: «Maestro, dicendo questo, tu offendi anche noi». 46Egli rispose: «Guai anche a voi, dottori della Legge, che caricate gli uomini di pesi insopportabili, e quei pesi voi non li toccate nemmeno con un dito! 47Guai a voi, che costruite i sepolcri dei profeti, e i vostri padri li hanno uccisi. 48Così voi testimoniate e approvate le opere dei vostri padri: essi li uccisero e voi costruite. 49Per questo la sapienza di Dio ha detto: «Manderò loro profeti e apostoli ed essi li uccideranno e perseguiteranno», 50perché a questa generazione sia chiesto conto del sangue di tutti i profeti, versato fin dall’inizio del mondo: 51dal sangue di Abele fino al sangue di Zaccaria, che fu ucciso tra l’altare e il santuario. Sì, io vi dico, ne sarà chiesto conto a questa generazione. 52Guai a voi, dottori della Legge, che avete portato via la chiave della conoscenza; voi non siete entrati, e a quelli che volevano entrare voi l’avete impedito».
53Quando fu uscito di là, gli scribi e i farisei cominciarono a trattarlo in modo ostile e a farlo parlare su molti argomenti, 54tendendogli insidie, per sorprenderlo in qualche parola uscita dalla sua stessa bocca.

 

            L’invettiva contro i dottori della Legge fu provocata da uno di loro, che avvertì coinvolta la propria categoria quando Gesù parlò di quanti amavano “i primi posti nella sinagoga e i saluti nelle piazze”. Ora, riconoscendosi nella citazione, quella persona non tollerava di venire paragonata a un sepolcro che non si vedeva e, passandovi sopra la gente, veniva resa impura. Questo è molto significativo perché era chiaro che Nostro Signore, in quel momento come in altri, non attaccava indistintamente tutta la categoria dei Dottori, ma solo quelli che, per comportamento e disposizione d’animo, mettevano in atto quanto da Lui denunciato. È come quando oggi qualcuno, tramite i media, attacca una determinata categoria di persone: chi si offende, non è mai chi svolge la professione correttamente, ma chi si sente punto nel vivo perché ha “la coscienza sporca”.

A questo punto era inevitabile che Gesù continuasse l’elenco delle colpe che coinvolgevano comunque anche gli scribi e farisei, avendo quelle categorie di persone più o meno un denominatore comune. Cito qui le parole usate da Matteo: “Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno. Legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito”.

La “cattedra– o più correttamente “sedia”di Mosè”allude al posto su cui queste persone sedevano nella sinagoga, quella dei maestri, ma anche quella da loro occupata nel Sinedrio o nei tribunali inferiori per applicare la legge. Fossero stati integri, non vi sarebbe stato nulla di male, ma ritenendosi eredi di Mosè a prescindere dalle loro azioni – abbiamo letto la loro replica a Gesù “Noi siamo discepoli di Mosè”– senza possedere alcuna delle sue qualità e soprattutto il mandato, non erano altro che impostori del sacro. Ricordiamo a proposito della “sedia”, come si comportò Esdra che “aprì il libro in presenza di tutto il popolo, poiché stava più in alto di tutti”(Nehemia 8.5). È detto poi che “i leviti spiegavano la legge al popolo e il popolo stava in piedi. Essi leggevano il libro della legge di Dio a brani distinti e spiegavano il senso, e così facevano comprendere la lettura”(vv.7,8). Teniamo presente questo far “comprendere”perché verrà utile più avanti. Da quel lodevole, splendido inizio, si era col tempo arrivati al punto descritto da Gesù.

Quando affronteremo il capitolo 23 di Matteo, dove più che in questo passo è analizzato il comportamento degli scribi, farisei e dottori della legge, potremo avere una visone più ampia delle nefandezze di costoro che, nel caso del passo in esame, comprendeva anche il totale disprezzo del debole. Così infatti scrive Isaia: “Guai a coloro che fanno decreti iniqui e scrivono in fretta sentenze oppressive, per negare la giustizia ai miseri e per frodare del diritto i poveri del mio popolo, per fare delle vedove la loro preda e per spogliare gli orfani. Ma che farete nel giorno del castigo, quando da lontano sopraggiungerà la rovina? A chi ricorrerete per protezione? Dove lascerete la vostra ricchezza? Non vi resterà che piegarvi tra i prigionieri o cadere tra i morti. Con tutto ciò non si calma la sua ira e ancora la sua mano rimane stesa”(10.1-4).

Qui vediamo anche come, progressivamente, ci avviciniamo al castigo profetizzato nel passo di Luca che stiamo esaminando cioè la generazione che sarà chiamata a rendere conto del sangue versato di tutti i profeti in quanto omicida dello stesso Gesù. La “rovina”abbiamo letto che sopraggiunge “da lontano”, se ne possono cioè vedere i segnali, ma vengono ignorati.

 

I Dottori della Legge, al tempo di Nostro Signore, sono paragonati poi a quelli che, avendo delle bestie da soma, li caricano di pesi talmente gravosi da sfinire chiunque, riconoscibili nell’infinità di precetti che imponevano al popolo richiedendone la rigida osservanza. Anche l’apostolo Pietro definì quelle usanze “un giogo che né i nostri padri né noi siamo stati in grado di portare”(Atti 15.10) e che si trattasse di pesi importabili erano loro a saperlo per primi, non volendo “muoverli neppure con un dito”, cioè standosene accuratamente alla larga fingendo però di adempierli. Ancora una volta abbiamo la differenza fra la religione e la fede nuova in Cristo, come scrive Paolo in Galati: “Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù– quello della Legge cerimoniale –. Ecco, io Paolo vi dico: se vi fate circoncidere, Cristo non vi gioverà nulla. Non avete più nulla a che fare con Cristo voi che cercate la giustificazione nella Legge: siete decaduti dalla grazia”(5.1-4).

Queste parole sono state scritte dall’apostolo per avvisare del danno provocato da quei Giudei convertiti che volevano tenere un piede nella Grazia e l’altro nella Legge, apparentemente non capendo che era la prima a far vivere e non la seconda, ma ponendo intoppi assoluti nel progresso degli altri nella fede.

Abbiamo così un’altra faccia dell’ipocrisia, quella più insidiosa che tanto male fa anche oggi nelle Chiese, dove basta assumere l’atteggiamento del rigore nei confronti degli altri per dare l’impressione che si faccia altrettanto con se stessi, ma non è così, come insegna l’episodio della donna adultera. E il modo stringato ed essenziale con cui Nostro Signore parla, lascia pensare che bastarono quelle parole per spiegarsi quanto bastava. E una volta tanto fu capito perfettamente, visto che l’ultimo verso del nostro passo ci parla dell’ostilità e dei tranelli dottrinali che tutti quei religiosi volevano porgli.

 

Altro capo d’imputazione nei confronti dei Dottori era il finto onore che attribuivano ai profeti, illudendosi di essere loro discendenti: consapevoli infatti che i loro avi avevano ucciso effettivamente molti inviati di Dio, ne condannavano le azioni riedificando e abbellendo i loro sepolcri per un tornaconto personale di rispettabilità quando il loro cuore, in proposito, non era affatto cambiato: “Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quanti sono mandati a te…”.  Ancora, di questi parlò Gesù nella parabola delle nozze, quando, di fronte agli inviati del re, disse “Ma essi, non curandosene, se ne andarono chi ai loro possedimenti, chi ai loro traffici; e gli altri, presi i suoi servitori, li oltraggiarono e li uccisero. E quel re, udito ciò, si adirò e mandò i suoi eserciti e distrusse quegli omicidi, ed arse le loro città”(Matteo 22.5-7).

Ricordiamo ciò che avvenne negli attimi che precedettero la lapidazione di Stefano in Atti 7.51-54: “«O gente testarda e pagana nel cuore e nelle orecchie, voi sempre opponete resistenza allo Spirito Santo; come i vostri padri, così anche voi. Quale dei profeti i vostri padri non hanno perseguitato? Essi uccisero quelli che preannunciavano la venuta del Cristo, del quale voi ora siete divenuti traditori e uccisori; voi che avete ricevuto la Legge per mano degli angeli, e non l’avete osservata». All’udire queste cose, fremevano nel cuor loro e digrignavano i denti contro di lui”.

Trattando la fede dei profeti uccisi, in Ebrei 11.35-38 leggiamo “Altri poi furono torturati, non accettando la liberazione loro offerta, per ottenere una migliore resurrezione. Altri infine subirono scherni e flagelli, catene e prigionia. Furono lapidati, torturati, segati, furono uccisi di spada, andarono in giro coperti di pelli di pecora e capra, bisognosi, tribolati, maltrattati. Di loro il mondo non era degno”.

Questo, in sintesi, ciò che è l’eredità dei Giudei e ciò che sarebbe stata la loro sorte, vista sinteticamente in quel “mandò i suoi eserciti e distrusse quegli omicidi ed arse le loro città”di cui abbiamo letto. Furono parole specifiche perché quella cui Gesù parlava era la “generazione”a cui sarebbe stato “ridomandato conto, dal sangue di Abele fino al sangue di Zaccaria”, entrambi uccisi da persone serve dell’Avversario.

 

Il terzo capo d’imputazione nei confronti dei Dottori è quella di aver “portato via la chiave della conoscenza”, di non esserne entrati e di averne impedito agli altri l’accesso: il parallelo di Matteo riporta “avete chiuso il regno dei cieli davanti agli uomini, di modo che voi non entrate e nemmeno lasciate entrare quelli che stavano per entrarvi”(23.13); qui il regno dei cieli è la nuova economia evangelica rappresentata da un recinto di cui Legge e Profeti sono la porta che, per essere aperta, ha bisogno di una “chiave”che quelli hanno rimosso, rubato. La “chiave”è quella della conoscenza spirituale, quella rivelata “ai piccoli”e non quella letterale dei libri imparati a memoria. Ricordiamo ciò che disse Filippo a Natanaele, nella sua semplicità “Noi abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti: Gesù, figlio di Giuseppe, da Nazareth”(Giovanni 1.45).

La Legge, quindi, non è qualcosa da sottostimare o di chiuso per sempre: lo è se la si considera come unica via o porta per il regno dei cieli quando, come leggiamo in Galati 3.24,25, “è stata per noi un pedagogo fino a Cristo, perché fossimo giustificati per la fede. Sopraggiunta la fede, non siamo più sotto un pedagogo”. Infatti “La Legge possiede soltanto l’ombra dei futuri beni e non la realtà stessa delle cose”(Ebrei 10.1): una salvezza “sulla quale indagarono e scrutarono i profeti che preannunciavano la grazia a voi destinata”(1 Pietro 1.10,11).

Gesù però, con le sue parole, denuncia un peccato terribile, quello di avere svuotato totalmente di senso spirituale gli scritti loro affidati, perché insegnavano ed è a loro che il popolo faceva riferimento. Tutto era ridotto all’apparenza, ad un’interpretazione e ad una pratica fuorviante di modo che, qualora vi fosse un cuore onesto, veniva corrotto da un insegnamento perverso. Purtroppo questo accade oggi in molte Chiese, credo soprattutto in quella di Roma e dove, per interessi personali, si antepone il proprio interesse a quello di Dio oppure, nello specifico, ci si adatta al contesto mondano tanto per quanto riguarda le sue superstizioni, quanto per ciò che è il suo concetto di solidarietà, modernità ed equalizzazione delle menti. E il “Vangelo sociale” ne è un esempio. E dalle parole di Nehemia che abbiamo ricordato, confrontate con quelle di Gesù coi leviti che “spiegavano la legge al popolo”, rileviamo il degrado, l’allontanamento dalla parola pura a quella travisata.

L’errore dottrinale si verifica, allora, sempre consapevolmente: se non ameremo il Dio che professiamo di servire, non potremmo che amare noi stessi. Amando noi stessi, seguiremo le strade che la nostra istintività ci porterà a seguire ma, per difendere il nostro status, torceremo la Scrittura a nostro vantaggio e in questo troveremo il nostro riposo provvisorio. Amando però il temporaneo e non l’eterno, saremo inevitabilmente sconfitti senza nessuna prospettiva di luce perché, proprio in quanto avremo fatto della religione vuota il nostro esistere, avremo impedito la salvezza agli altri. Amen.

* * * * *

13.08 – L’INTERNO PIENO DI AVIDITÀ E CATTIVERIA (Luca 11.37-44

13.08 – L’interno pieno di avidità e cattiveria (Luca 11.37-44)     

 

37Mentre stava parlando,un fariseo lo invitò a pranzo. Egli andò e si mise a tavola. 38Il fariseo vide e si meravigliò che non avesse fatto le abluzioni prima del pranzo. 39Allora il Signore gli disse: «Voi farisei pulite l’esterno del bicchiere e del piatto, ma il vostro interno è pieno di avidità e di cattiveria. 40Stolti! Colui che ha fatto l’esterno non ha forse fatto anche l’interno? 41Date piuttosto in elemosina quello che c’è dentro, ed ecco, per voi tutto sarà puro. 42Ma guai a voi, farisei, che pagate la decima sulla menta, sulla ruta e su tutte le erbe, e lasciate da parte la giustizia e l’amore di Dio. Queste invece erano le cose da fare, senza trascurare quelle. 43Guai a voi, farisei, che amate i primi posti nelle sinagoghe e i saluti sulle piazze. 44Guai a voi, perché siete come quei sepolcri che non si vedono e la gente vi passa sopra senza saperlo».

 

            Nelle scorse riflessioni è stato dato qualche accenno alla pericolosità del metodo o mentalità ”religiosa” e all’influenza negativa che può avere sulla persona che non fa altro che chiudersi in sé stessa privandosi di vere prospettive spirituali. Ecco perché Nostro Signore dirà, in un passo che affronteremo prossimamente, “Guai a voi, dottori della Legge, che avete portato via la chiave della conoscenza; voi non siete entrati, e a quelli che volevano entrare voi l’avete impedito”(v. 52). Stesso severo ammonimento si ritrova in Matteo 23.13: “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che chiudete il regno dei cieli davanti alla gente; di fatto non entrate voi, e non lasciate entrare nemmeno quelli che vogliono entrarvi”. La religione è fatta di parole stantie mascherate da rivelazione, di usi e riti che possono suscitare anche ammirazione, ma si limitano a gesti accompagnati da espressioni e atteggiamenti di circostanza che durano lo stretto necessario alla funzione, per poi tutto tornare esattamente come prima. Non è stata minimamente coinvolta quella parte del cuore e dell’anima così importante da essere in grado di trasformare la persona accogliendo lo Spirito di Dio.

Bene, leggiamo che Gesù fu invitato a pranzo da un fariseo. Luca non ci dice i motivi che lo spinsero a riceverlo in casa sua; di fatto sappiamo che vi parteciparono anche dei dottori della Legge (v.45), scribi (v.53), quindi il chiamare Nostro Signore in quel gruppo poteva significare o che fosse ritenuto degno di sedere in mezzo a quel gruppo oppure, più probabilmente, per studiarlo onde raccogliere elementi per accusarlo.

La prima cosa che fece Gesù appena entrato fu, appositamente, quella di accomodarsi senza passare attraverso il rito dell’abluzione delle mani. Marco ci informa che “I farisei e tutti i giudei non mangiano se non si sono lavati accuratamente le mani, attenendosi alle tradizioni degli antichi (…)e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, stoviglie, di oggetti di rame e di letti”(7.3.4). Va specificato che per “tradizione degli antichi”, si intende più propriamente quella “degli anziani”, cioè dei loro maestri ai cui precetti erano oltremodo attaccati. Leggiamo ad esempio una nota di Rabbi Jose nel Talmud che recita “Colui che mangia del pane con mani non lavate è reo non meno che se fornicasse con una prostituta”.

Nella Legge, invece, il comando riguardava chi doveva officiare all’altare: “Farai per le abluzioni un bacino di bronzo con il piedistallo di bronzo; lo collocherai tra la tenda del convegno e l’altare e vi metterai acqua. Aaronne e i suoi figli vi attingeranno per lavarsi le mani e i piedi. Quando entreranno nella tenda del convegno, faranno un’abluzione con l‘acqua, perché non muoiano; così quando si avvicineranno all’altare per officiare, per bruciare un’offerta da consumare con il fuoco in onore del Signore, si laveranno le mano e i piedi e non moriranno. È una prescrizione rituale perenne per Aaronne e per i suoi discendenti, in tutte le loro generazioni”(Esodo 30.18-21).

Ecco allora che ci troviamo di fronte a un gesto anche provocatorio di Gesù, che ben conosceva la mentalità e il metodo dei suoi detrattori e fa in modo che venga notato: “Si meravigliò che non avesse fatto le abluzioni prima del pranzo”. Da notare che il testo si ferma a questa reazione perché, prima che si tramuti in sdegno, Nostro Signore inizia a parlare e lo fa citando i due recipienti, il bicchiere e il piatto, senza dare spiegazioni del suo mancato lavarsi le mani.

Vediamo ora il primo punto esposto nelle due versioni di Luca e Matteo, sulla quale torneremo: Luca ha “Voi farisei pulite l’esterno del bicchiere e del piatto, ma il vostro interno è pieno di avidità e cattiveria”, Matteo“Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pulite l’esterno del bicchiere e del piatto, ma all’interno sono pieni di avidità e intemperanza”(23.25). Il “bicchiere”e il “piatto”sono al tempo stesso un esempio reale e un pretesto per far sì che una eventuale persona onesta lì in mezzo potesse capire il collegamento con l’interezza della persona umana. Bicchiere e piatto, entrambi elementi atti a contenere liquidi e solidi, quindi ciò che nutre, sono al tempo stesso figura del corpo e di ciò che è in esso, altrimenti dire “ma il vostro interno è pieno di avidità e cattiveria”non avrebbe senso. Questa connessione è ancora più chiara in Matteo quando il “sono pieni”sarebbe un evidente errore grammaticale.

Ecco allora il perché dell’epiteto “ipocriti”, cioè “dediti alla finzione”, “attori”: la pulizia dell’esterno è svolta accuratamente perché è lì che gli altri guardano, ma l’interno può essere gestito a piacere e spesso in forte contrasto con ciò che viene simulato. È lo stesso metodo che usano i governi, le strutture pubbliche, i politici, purtroppo molti nella Chiesa a prescindere dalla sua denominazione di cui Paolo nella sua seconda lettera a Timoteo scrive“…gente cha ha una religiosità solo apparente, ma ne disprezza la forza interiore. Guàrdati da costoro!”(3.5). Ancora, a Tito “Tutto è puro per chi è puro, ma per quelli che sono corrotti e senza fede nulla è puro: sono corrotte la loro mente e la loro coscienza”(1.15).

Certo i due versi propongono due ritratti differenti anche se non troppo: da una parte i religiosi, cioè coloro che, come i nostri farisei del testo, curano l’apparenza e così facendo disprezzano la forza interiore della fede. Dall’altro invece, accanto alla semplicità di chi è puro, si contrappone la corruzione di chi è senza fede: si tratta di persone che sospettano sempre il male, si sentono continuamente minacciate da chi non li tratta e non si comporta secondo le loro aspettative, hanno la mente e la coscienza “corrotte”cioè viene da dire “inguaribili”. E la corruzione di mente e coscienza si riferisce all’incapacità di ragionare e provare sentimenti secondo Dio. Credo che se il vero cristiano, quello salvato, redento da Cristo che vuole camminare a Lui unito, tenesse presente questi versi, patirebbe molto meno le conseguenze derivanti da un confronto o frequentazione con simili personaggi.

La frase “Stolti, colui che ha fatto l’esterno non ha anche fatto l’interno?”vuole dimostrare a quegli scribi e farisei che, essendo l’uomo creato spirito, anima e corpo, non ha senso curare un solo elemento, quello peraltro più facile, senza considerare minimamente gli altri due, soggetti a patire molto più del corpo.

“Date piuttosto in elemosina quello che c’è dentro, ed ecco, per voi tutto sarà puro”. Altre traduzioni riportano “quello che è in vostro potere”, ma è comunque evidente la provocazione alla rinuncia, essendo i destinatari del messaggio pieni “di avidità e cattiveria”. Più avanti, in 12.33, Gesù dirà “Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli, dove ladro non arriva e tarlo non consuma”, frase che pone in evidenza il baratro che divide la carne dallo spirito, tra il tesoro in senso umano e quello spirituale. “Vendere”, sinonimo di guadagno, si annulla nel “dare” a vantaggio di altri.

Con “Date quello che c’è dentro”Gesù esorta così a sbarazzarsi di ciò che, considerato prezioso, ritarda il cammino spirituale. È al tempo stesso un invito ad oltraggiare la parte più interna dell’individuo, quella del bambino mai cresciuto che vorrebbe tenere tutto per sé e si contraria enormemente quando dovrebbe dare o dividere con altri. Possiamo raccordarci in proposito anche al digiuno vero: “Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti?”(Isaia 58.7).

La gestione del “mio” è la dimostrazione dell’attaccamento che la persona ha di sé. Tanto più un individuo è immaturo, quanto più sarà attaccato ai suoi averi e li difenderà ad oltranza; sul versante opposto abbiamo la prodigalità, che porta alla rovina allo stesso modo, disprezzando ciò che si ha e dilapidando le proprie sostanze. Possiamo dire che quanti difendono ciò che posseggono lo fanno perché sono consapevoli di non avere altro per cui rientrano in quella condizione descritta da Satana nel libro di Giobbe, che disse a Dio “Tutto quello che l’uomo possiede è pronto a darlo per la sua vita”(2.4), la sua e non quella di altri. Vita intesa come centro, averi nel senso più ampio del termine cioè l’indipendenza, la possibilità di agire come lui ha programmato, i propri ambiti d’azione o affettivi su cui ha costruito la propria esistenza. Solo di fronte alla morte o alla malattia grave è disposto a rinunciare ad essi, essendo in gioco la sua sopravvivenza, che poi altro non è che continuare ad agire come ha sempre fatto.

La religione, che non contempla l’ascolto di Dio ma di se stessi oppure del principio in base al quale si debba per forza venire esauditi attraverso un rito, rientra in questo tipo di ragionamento fuorviante e assurdo: “pensano di essere esauditi per la moltitudine delle loro parole”. E “pulire l’esterno”è il metodo per presentarsi agli altri consapevoli del fatto che l’esterno è ciò che si vede, tralasciando l’interno che è quello, immensamente più importante, che Dio vede, valuta e giudica.

“Pagate la decima sulla menta, sulla ruta e su tutte le erbe, e lasciate da parte la giustizia e l’amore di Dio”era la stretta osservanza di Levitico 27.30 “Ogni decima della terra, cioè delle granaglie del suolo e dei frutti degli alberi, appartiene al Signore: è cosa consacrata al Signore”, per cui pagarne la decima era poca cosa, potendosi trattenere la maggior parte. Ecco un altro modo per sentirsi in pace con la propria coscienza, ma lasciando “da parte la giustizia e l’amore di Dio”. Ricordiamo le parole di Michea 6.8, “Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono e ciò che il Signore richiede da te: praticare la giustizia, amare la bontà, camminare umilmente con il tuo Dio”. Il pagare la decima senza considerare questo, equivaleva a dire a YHWH “Hai avuto quello che chiedevi, adesso lasciami in pace”, mentalità che molti hanno ancora oggi ritenendo sufficiente partecipare alle riunioni domenicali della Chiesa che frequentano.

Con la frase “Queste erano le cose da fare, senza trascurare quelle”, poi, Gesù non contesta le usanze che scribi e farisei avevano, ma li riconduce, ancora una volta nel Suo Ministero, all’essenza delle cose.

L’amore nell’occupare i “primi posti”, alla luce di quanto si vede da sempre anche in campo cristiano e non solo nel mondo, credo non abbia bisogno di commento, mentre è l’ultima frase, quella dei sepolcri, ad essere importante perché il sepolcro era ritenuto un terreno contaminato e contaminante, per cui lo si tingeva di bianco soprattutto per fare sì che non venisse calpestato inavvertitamente. Se allora a contaminare era il sepolcro, oggi lo sono le persone che si mascherano, si mimetizzano, ci parlano con scopi che non sono mai quelli diretti, che aspirano al trionfo dei loro secondi fini. Qui dovrebbe aprirsi una grossa parentesi sul peccato appunto di inavvertenza, che rendeva per Legge colpevole colui che, senza saperlo, si rendeva reo di  una trasgressione e tale rimaneva fino a quando quel peccato non fosse stato rivelato. Per ora basta mettere il risalto il fatto che, chi opera come quegli scribi e farisei, anziché essere di aiuto al prossimo è di severo inciampo, dà un esempio che non può che portare un frutto cattivo, impedendo il conseguimento dell’unico obiettivo veramente importante, cioè la pace con Dio e soprattutto il perdurare di essa. Tutte finzioni destinate a venire arse dalla Sua luce, quando verrà in giudizio. Amen.

* * * * *

13.07 – LA VERA BEATITUDINE (Luca 11.27-29)

13.07 – La vera beatitudine (Luca 11.27-29)          

 

27Mentre diceva questo, una donna dalla folla alzò la voce e gli disse: «Beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha allattato!». 28Ma egli disse: «Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!».

 

            L’episodio in esame è riportato dal solo Luca, che possiamo considerare un’importante variante di ciò che è narrato quando “andarono da lui la madre e i suoi fratelli, ma non potevano avvicinarlo a causa della folla. Gli fecero sapere: «Tua madre e i tuoi fratelli stanno fuori e desiderano vederti». Ma egli rispose loro: «Mia madre e miei fratelli sono questi: coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica»”(9.19-21). Fu una realtà-verità talmente importante da venire riportata da tutti gli altri sinottici, Matteo 12.46,50 e Marco 3.31-34, tra loro simili ma tutti degni di attenzione: alla notizia dei parenti che lo cercavano, Gesù risponde “«Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». Girando lo sguardo su quelli che gli stavano seduti attorno, disse: «Ecco mia madre e i miei fratelli!»”. Marco scrive, dopo analoga domanda,“Ecco mia madre ed ecco i miei fratelli, perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre”.

Già in quest’occasione Gesù stabilì un importante principio e cioè che se come uomo aveva dei parenti come Dio le relazioni con loro avevano senso soltanto se avessero creduto in Lui perché era quello l’unico modo per stabilire un rapporto, al pari di tutti gli altri uomini e donne. Era finito il tempo in cui, dodicenne di ritorno dal tempo, è detto che “…venne a Nazareth e stava loro sottomesso”(Luca 2.51) cioè a suo padre e sua madre: doveva attendere che quel percorso comune a tutti gli altri israeliti, prima dei trent’anni, fosse concluso e nell’attesa “cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini”(v.52). Fu così che divenne maggiorenne col Bar Mitwah a tredici anni, dopo di che svolse il mestiere del padre per mantenersi, ma “a circa trent’anni cominciò il suo ministero ed era figlio, come si credeva, di Giuseppe, figlio di Eli”(Luca 3.23).

A tredici anni, quindi, Gesù era considerato come tutti gli altri ebrei pienamente responsabile delle sue azioni davanti a Dio e agli uomini. I trenta, poi, erano quelli in cui i Leviti erano ammessi ad effettuare il loro servizio che si protraeva fino al raggiungimento del cinquantesimo (Numeri 4.3). Quando Gesù pronunciò le parole su cui ci stiano soffermando, quindi, aveva una doppia indipendenza dalla sua famiglia di origine, vale a dire quella dell’età responsabile e quella dell’età del servizio.

Ora se nel caso dell’episodio riportato dai sinottici l’anonimo o gli anonimi che lo informarono del fatto che era cercato dalla madre e dai fratelli presumevano che avesse una reazione di riguardo umano, poi smentita dai fatti, qui a parlare è una donna che probabilmente era sua discepola e non poté trattenere il proprio entusiasmo a fronte di un discorso che il suo Maestro fece subito dopo la parabola dell’ “uomo forte”che abbiamo da poco esaminato: “Quando lo spirito impuro esce dall’uomo, si aggira per luoghi deserti cercando sollievo e, non trovandone, dice: «Ritornerò nella mia casa, da cui sono uscito». Venuto la trova spazzata e adorna. Allora va, prende altri sette spiriti peggiori di lui, vi entrano e vi prendono dimora. E l’ultima condizione di quell’uomo diventa peggiore della prima”(Luca 11.24-26).

Dobbiamo tener presente che quanto detto da Gesù fu conseguente alla liberazione dell’indemoniato muto, che secondo la versione di Matteo era anche cieco (12.22-45): evidentemente quella donna era stata sconvolta da quella guarigione ed aveva compreso le parole del Maestro che spiegava le conseguenze cui va incontro chi, beneficiato di un intervento di Dio così specifico, non si converte dandogli modo di entrare in lui. Sappiamo che i Giudei avevano i loro esorcisti ma non se si trattasse, in caso di successo, di un artificio o se effettivamente liberassero persone possedute. In ogni caso certo non erano in grado di spiegare le dinamiche illustrate da Gesù e, a giudicare dagli insuccessi ottenuti con la donna emorroissa, non sempre il risultato dei loro interventi era efficace.

Ecco allora la frase ad alta voce per farsi sentire, “Beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha allattato!”, pronunciata dal suo entusiasmo di donna e di madre di uno o più figli che certo non erano come Lui. Si trattò però di una frase infelice nel senso che, ancora una volta, limitava Gesù perché lo legava in qualche modo alle sue radici umane nel senso che, invece di esprimere la gioia come altri che dissero “Un profeta è sorto fra noi”, non vedeva altro che la soddisfazione  e l’orgoglio che secondo lei provava di sua madre Maria, definita dall’angelo Gabriele “favorita dalla grazia”. Nel suo magnificat Maria stessa dirà “d’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata”non perché “fortunata” ad avere un figlio così, ma per l’onore della scelta che Dio le aveva rivolto e per tutte le attenzioni di cui fu circondata dalla nascita di suo Figlio in poi passando attraverso la crocifissione dove verrà affidata alle cure dell’apostolo Giovanni. Ricordiamo che sicuramente vide Gesù risorto, che su di lei, come sui “circa centoventi”scese lo Spirito Santo a Gerusalemme, credo quindi consolata come pochi da quella “spada che ti trapasserà l’anima”, ancora una volta gli effetti dello Spirito che provò certamente anche in maniera dolorosa.

Credo che la vita di Maria, più che nei tentativi umani di ingerenza nella vita del figlio, sia da ricercarsi in quel suo costante conservare nel proprio cuore gli avvenimenti che si verificavano e non capiva interrogandosi sul loro significato anziché crogiolarsi nel fatto che avrebbe messo al mondo Uno che sarebbe stato “santo”e “chiamato Figlio dell’Altissimo”(Luca 1.35). Certo nel momento in cui guardò alla propria realtà umana, sbagliò, come nel caso in cui, assieme agli altri figli, “…uscirono per andare a prenderlo perché dicevano: «È fuori di sé»”(Marco 3.30).

La frase di quella anonima, quindi, era fuori luogo, non c’entrava nulla né con la realtà di Gesù, “nato di donna”come qualunque essere umano, né con quella di Maria sua madre, che non volle mai avere né mai ebbe un ruolo di rilievo nella Chiesa costituita dalla discesa dello Spirito Santo fino al termine degli scritti che costituiscono il Nuovo Testamento. Sarà poi il progressivo fraintendimento della Scrittura, le aggiunte ad essa e soprattutto le molte influenze pagane e idolatre che porteranno alla sua venerazione, attribuendole ruoli, compiti e funzioni che nulla hanno a che vedere con l’impianto evangelico e dottrinale originario.

La religione, cioè il rifiuto di un metodo serenamente e spiritualmente sano e critico di affrontare il testo sacro, ha fatto il resto. Come ben sappiamo dalle realtà che dovette affrontare e dalle Sue parole, Nostro Signore attaccò sempre il metodo religioso, che è attaccamento a precetti formali e metodi di ragionamento che esaltano la forma e il rito trascurando completamente la carità, l’amore e l’illuminazione che procede da Dio, impossibile se vengono a mancare i presupposti che la determinano.

A questo punto, tornando al nostro testo, le parole di Gesù demoliscono il concetto che la discepola innominata riteneva valido: “Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e l’osservano”. Va sottolineato che con quel “piuttosto”, che altri traducono “anzi”, sembra che Nostro Signore intenda mettere in secondo piano la figura di Maria, il che non è vero essendo traducibile il termine greco originale anche con “Sì, ma”. Ecco allora che questa risposta racchiude in sé l’esortazione a non pensare agli altri ma, in campo spirituale, fondamentalmente a se stessi perché il lavoro da fare nei nostri confronti è talmente tanto che non dovremmo avere il tempo di fare altro, nello specifico ad esempio di guardare la pagliuzza nell’occhio del nostro fratello perché così facendo ignoreremmo la trave che è nel nostro. Ricordiamo quando Pietro, parlando di Giovanni a Gesù risorto, si sentì dire: “Se voglio che egli rimanga finché io venga, a te che importa? Tu seguimi”(Giovanni 21.22): ciascun credente ha una via preparata per lui, è unico come uniche sono le sue sembianze fisiche.

Il primo messaggio, quindi, è la diversificazione dei ruoli, è l’invito-ordine a pensare prima di tutto alla posizione che ogni essere umano ha davanti a Dio: ascolti la Parola di Dio? È il primo passo perché questo determina la considerazione, la valutazione che poi porta alla decisione dell’accoglimento. E Maria queste cose le faceva e come tutti ebbe tanto il suo percorso quanto giunse poi alla propria scelta. Però, abbiamo letto all’inizio che “Mia madre e i miei fratelli sono questi: coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica”.

Tempo fa ho fatto presente che ci troviamo a meditare dei capitoli di Luca che appartengono al cosiddetto “libro del grande viaggio” in cui l’evangelista include episodi che non necessariamente rispecchiano un ordine cronologico preciso e infatti alcuni studiosi mettono in risalto che le parole di Gesù che stiamo considerando precedono di poco le altre, cioè quelle pronunciate quando arrivarono Maria e gli altri suoi figli a cercarlo e che infatti abbiamo citato.

La messa in pratica è quindi quella che conta, è la dimostrazione che l’ascolto ha portato all’unica conclusione possibile, quella dell’operatività perché “Non chiunque mi dice: «Signore, Signore» entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del padre mio che è nei cieli”(Matteo 7.21). Ancora, “Sapendo queste cose, siete beati se le mettete in pratica”(Giovanni 13.17) e da qui si può citare Giacomo 1.22-25: “Siate di quelli che mettono in pratica la Parola, e non ascoltatori soltanto, illudendo voi stessi; perché se uno ascolta la Parola e non la mette in pratica, costui somiglia a un uomo che guarda il proprio volto allo specchio: appena si è guardato, se ne va, e subito dimentica com’era. Chi invece fissa lo sguardo sulla legge perfetta, la legge della libertà, e le resta fedele, non come un ascoltatore smemorato ma come uno che la mette in pratica, questi troverà la sua felicità nel praticarla”. Amen.

* * * * *

13.06 – CHI NON RACCOGLIE CON ME (Luca 11.21-23)

13.06 – Chi non raccoglie con me (Luca 11.21-23)

 

21Quando un uomo forte, bene armato, fa la guardia al suo palazzo, ciò che possiede è al sicuro. 22Ma se arriva uno più forte di lui e lo vince, gli strappa via le armi nelle quali confidava e ne spartisce il bottino. 23Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me disperde.

 

            Nel testo in grassetto ho omesso i da 14 a 20 perché già affrontati, che comunque ricordiamo:“Gesù stava cacciando un demonio che era muto. Uscito il demonio, il muto cominciò a parlare e le folle furono prese da stupore. Ma alcuni dissero: «È per mezzo di Beelzebul, capo dei demòni, che egli scaccia i demòni». Altri poi, per metterlo alla prova, gli domandavano un segno dal cielo. Egli, conoscendo le loro intenzioni, disse: «Ogni regno diviso in se stesso va in rovina e allo stesso modo una casa, divisa in parti contrarie, crolla. Ora, se anche Satana è diviso in se stesso, come potrà stare in piedi il suo regno? Voi dite che io scaccio i demòni per mezzo di Beelzebul. Ma se io scaccio i demòni per mezzo di Beelzebul, i vostri figli per mezzo di chi li scacciano? Per questo saranno loro i vostri giudici. Se invece io scaccio i demòni con il dito di Dio, allora è giunto a voi il regno di Dio”. Si tratta di un episodio che anche Matteo ha riportato nel suo capitolo dodicesimo, versi 22-30.

Ora l’interessante è che Gesù approfitta dell’impossibilità che ha di sussistere qualunque “regno”, società o “casa”intesa sia come struttura mal progettata che come famiglia, “divisa in parti contrarie”non solo collegandolo a Satana (che organizzato dev’essere per forza), ma proponendosi come unica alternativa ad esso e lo fa con la parabola dell’ “uomo forte, bene armato”che “fa la guardia al suo palazzo”in cui evidentemente sono custoditi dei beni, come dalle parole “ciò che possiede è al sicuro”.

Questa descrizione, però, suggerisce una quiete e una sicurezza solo apparente, cioè destinata a durare fino a quando arriva “uno più forte di lui”col preciso intento di impadronirsi delle sue cose. L’ “uomo forte”combatterà con tutte le sue forze pur di difendere ciò che ha, ma sarà tutto inutile: vero è che l’esito della lotta è espresso al condizionale, “se arriva uno più forte di lui e lo vince”, ma lA storia ci insegna che quando abbiamo una struttura solida, questa non dura per sempre: potrà resistere a guerre e battaglie, ma presto o tardi arriverà qualcuno più potente che riuscirà ad annientarla. La sicurezza, insomma, dura fino a prova contraria e il suo scadere sarà è questione di tempo, luogo e spazio.

Notiamo che la caratteristica della vittoria sull’ “uomo forte”comporterà una cocente umiliazione: “gli strappa via le armi nelle quali confidava e ne spartisce il bottino”. È facile trovare una connessione con le due case, quella costruita sulla roccia e quella sulla sabbia in cui in una c’è resistenza all’impetuosità degli elementi e nell’altra no, ma ciò non toglie che entrambe, al loro costruttore, erano sembrate solide. Ciò che infatti difettava non era il materiale da costruzione impiegato, ma le fondamenta su cui poggiavano. Un uomo è quindi “forte”e una casa “solida” fino a prova contraria. La differenza che intercorre fra le due parabole, se mai, è che nel caso dell’ “uomo forte”il suo potere cessa nel momento in cui arriva uno più agguerrito di lui, mentre nelle due case abbiamo a determinare il resistere dell’una e la rovina dell’altra: “Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti che si abbatterono su quella casa”(Matteo 7.27), quindi una massa di eventi sfavorevoli e avversi.

Il significato della parabola dell’ “uomo forte”è allora diverso, si pone ad un livello parallelo perché nella casa ci si ripara e qui si mette qualcosa al sicuro e sotto custodia. Resta da vedere di e da chi, alla luce della frase del verso 23 “Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me, disperde”.

Gli scritti dell’Antico Patto riportano innumerevoli vittorie di uomini o di popoli su altri, tutti loro hanno conosciuto i loro tempi di prosperità e di miseria, sia essa materiale, morale e spirituale, ma qui il riferimento da sviluppare è quell’ “uomo più forte di lui”che Gesù fa irrompere nella sua narrazione. Lo colleghiamo – ad esempio – a Isaia 9.5,6 a proposito dello stesso Figlio: “Un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio. Sulle sue spalle è il potere e il suo nome sarà: Consigliere mirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace. Grande sarà il suo potere e la pace non avrà fine sul trono di Davide e sul suo regno, che egli viene a consolidare e rafforzare con il diritto e la giustizia, ora e per sempre. Questo farà lo zelo del Signore degli eserciti”.

Se nel verso appena riportato abbiamo l’annuncio della venuta in dono del Figlio di Dio, in 49.24,25 troviamo due domande, con relativa risposta, riferite proprio a una forza che è ritenuta normalmente invincibile, ma che ha una sua scadenza: “Si può forse strappare la preda al forte? Oppure può un prigioniero sfuggire al tiranno? Eppure, dice il Signore: «Anche il prigioniero sarà strappato al forte, la preda sfuggirà al tiranno”.

Dobbiamo poi ricordare la fine del capitolo 53, noto per dare la descrizione delle sofferenze assolute del Figlio di Dio: “Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà la loro iniquità. Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha spogliato se stesso fino alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i colpevoli”. “Farà bottino”, stesso termine che compare nel nostro testo di Luca.

Se quindi Isaia in questi scritti mostra ai suoi contemporanei – e chiaramente non solo – ciò che avverrà dalla dispensazione della Grazia e nelle successive, l’apostolo Paolo in Colossesi 2.15 spiega chiaramente la parabola dell’ “uomo forte”nella sua parte finale: “Con lui Dio ha dato vita anche a voi– i pagani – che eravate morti a causa delle colpe e della non circoncisione della vostra carne, perdonandoci tutte le colpe e annullando il documento scritto contro di noi– la Legge – che, con le prescrizioni, ci era contrario: lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce. Avendo privato della loro forza i Principati e le Potenze, ne ha fatto pubblico spettacolo, trionfando su di loro in Cristo”.

Quindi: la non circoncisione era il simbolo certo formale (ma non per questo meno importante) più evidente della non appartenenza al popolo di Dio e la Legge era quel “documento scritto contro di noi”di cui Satana si è subito impossessato per torcerla a suo vantaggio, tentando l’uomo. Sembra un controsenso quello di un Dio d’amore che dà all’uomo uno scritto che gli è sfavorevole, ma questo è solo in apparenza in quanto, con l’introduzione del peccato nel mondo, altro non poteva fare dal momento in cui decise di rivelare a Mosè il suo piano per farli uscire dall’Egitto e iniziare così a tessere ufficialmente il piano di redenzione per la sua creatura che si sarebbe dipanato di secolo in secolo fino a raggiungere quello della fine.

Ora quel “documento scritto contro di noi”è stato “inchiodato alla croce”, è rimasto lì al contrario di Lui che è risorto; in tal modo ha “privato della loro forza i Principati e le Potenze”, quindi tutte quelle entità la cui forza è anche descritta dal nome stesso, che ci tenevano prigionieri e incapaci di qualsiasi relazione con Dio salvo quella in giudizio e in condanna. Perché “Il nostro Dio è un Dio che salva; al Signore appartengono le porte della morte”(Salmo 68.21) e la prova dell’impotenza alla quale sono stati ridotti “i Principati e le Potenze”risiede proprio sia nella resurrezione che nella sua conseguenza immediata, cioè quei “prigionieri”che ha portato con sé: “Asceso in alto, ha portato con sé prigionieri, ha distribuito doni agli uomini”, frase sempre appartenente a questo Salmo e di cui Paolo si serve in Efesi 4 trattando di una parte della Persona di Cristo, per poi concludere in 6.12, prima di trattare dell’ armatura del credente, con le parole “La nostra battaglia non è contro la carne e il sangue, ma contro i Principati e le Potenze, contro i dominatori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti”, termine quest’ultimo riferito a quei territori spirituali che sono comunque sopra di noi nel senso che ci sovrastano e tuttora vorrebbero la rovina dell’uomo “per sedurre, se fosse possibile, anche gli eletti”.

Ed ecco allora che, con la parabola che abbiamo cercato di esaminare, Gesù si dichiara come quella persona in grado di contrastare l’ “uomo forte”, vincerlo, strappargli le armi e spartirsi il bottino, figura di una guerra definitivamente vinta contro tutte le forze del male viste, appunto, nei “Principati”e nelle “Potenze”.

La conclusione di tutto questo insegnamento non può essere che lapidaria: “chi non è con me, è contro di me”, cioè: visto che io sono Colui che ha vinto Satana e la morte e l’ho fatto per voi, chi non mi accoglierà, per indifferenza, disinteresse o perché avrà preferito stare con l’ “uomo forte”, mi troverà contro di lui. Non è certo un caso se Matteo, nel riferire la stessa parabola di Luca, utilizza altri termini: “Come può uno entrare nella casa di un uomo forte e rapire i suoi beni, se prima non lo lega? Soltanto allora potrà saccheggiare la sua casa”(12.29) nel legare non è azzardato vedere un forte collegamento con Apocalisse 20.1-3: “E vidi un angelo che scendeva dal cielo con in mano la chiave dell’Abisso e una grande catena. Afferrò il drago, il serpente antico, che è diavolo e Satana, e lo incatenò per mille anni; lo gettò nell’abisso, lo rinchiuse e pose il sigillo sopra di lui, perché non seducesse più le nazioni, fino al compimento dei mille anni, dopo i quali dev’essere lasciato libero per un po’ di tempo”.

La seconda parte del nostro verso poi descrive un aspetto singolare dell’essere in e con Cristo, cioè il “raccogliere”e qui arriviamo alla gioia della mietitura – che sarà al tempo stesso tragedia per molti – che i credenti di ogni epoca e nazione condivideranno con il loro Signore. Per questo è detto “chi non raccoglie con me, disperde”: la mietitura è quell’azione che precederà l’eternità e l’ingresso in essa della Chiesa di ogni tempo, la Comunità degli Ek-kletoi, i “chiamati fuori” e nel “disperdere” cui Gesù fa riferimento vediamo il non frutto, un’azione inutile, il raccolto della fatica nella fatica. Perché c’è una porta, ora aperta, destinata a chiudersi e chi sarà fuori dimorerà nel “pianto e stridore di denti”. Amen.

* * * * *

13.05 – L’AMICO IMPORTUNO (Luca 11.5-8)

13.05 – L’amico importuno (Luca 11.5-8)  

 

5Poi disse loro: «Se uno di voi ha un amico e a mezzanotte va da lui a dirgli: «Amico, prestami tre pani, 6perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da offrirgli», 7e se quello dall’interno gli risponde: «Non m’importunare, la porta è già chiusa, io e i miei bambini siamo a letto, non posso alzarmi per darti i pani», 8vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono. 9Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. 10Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto.

 

 

Il passo riportato viene posto da Luca subito dopo l’insegnamento del “Padre Nostro”; a differenza di Matteo, è da lui collocato dopo l’episodio di Marta e Maria quando leggiamo che, qualche tempo dopo, “Gesù si trovava in un luogo a pregare. Quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli»” (v.1). Il problema a questo punto è se ci troviamo di fronte a una diversa collocazione temporale dell’insegnamento del Padre Nostro, oppure se questa fu ripetuta non ai dodici, presenti nel racconto di Matteo, ma ad altri discepoli che, vistolo pregare in modo totalmente diverso da quanto facevano gli scribi e i farisei, capirono la necessità di venire istruiti anche attorno a questo argomento. Possiamo ricordare le parole dell’anonimo discepolo che chiese “Signore, insegnaci a pregare come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli” (v.1) da cui rileviamo che gli evangelisti hanno riportato solo una parte del messaggio del Battista agli uomini, cioè attinente alle sue funzioni di precursore. È tra l’altro impossibile che Gesù abbia trascurato un argomento così importante come la preghiera per affrontarlo solo negli ultimi mesi del Suo Ministero. Piuttosto possiamo dire che il “Padre Nostro” è talmente importante da essere citato per due volte, in momenti diversi, proposto da Luca in una versione più essenziale: “Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, e perdona a noi i nostri peccati. Anche noi infatti perdoniamo ad ogni nostro debitore, e non abbandonarci alla tentazione” (vv.2-4).

Come nel sermone sul monte, in cui leggiamo “Chi di voi, al figlio che gli chiede un pane, darà una pietra? E se gli chiede un pesce, gli darà una serpe? Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele chiedono!” (Matteo 7.9,10), qui abbiamo l’esposizione di una breve parabola (più altri esempi), quella dell’amico importuno che riflette, attenendoci alla semplice narrazione, la realtà dei paesi caldi in cui non è raro che si scelga di viaggiare, per la maggior parte dell’anno, di notte. In ogni caso, non esistendo allora contenitori in grado di proteggere gli alimenti dalla calura, chi si spostava portava con sé quanto bastava per sfamarsi senza fare provviste, acquistandole poi di volta in volta. Era allora frequente che proprio di notte, capitando nei pressi di abitazioni di persone conosciute come anche di bottegai, il viaggiatore bussasse alla loro casa chiedendo da mangiare. Era una società diversa dalla nostra.

Ora, non avendo la persona interpellata dal viaggiatore da dargli alcunché, si reca da un altro e quindi gli rappresenta il problema. Costui, già addormentato, stanco ma comunque a letto, non si alza neppure ad aprire una finestra, ma risponde “dall’interno” dicendo “non posso alzarmi per darti i pani”: li avrebbe, ma non ha voglia di darli per pigrizia.

Chiaramente siamo chiamati a riflettere sulle parole del verso 8, “vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono”, che potrebbe lasciare intendere che l’insistenza e l’assillare il prossimo (e Dio per relazione) sia la chiave per ottenere le cose. Questa almeno è l’idea del religioso e dei bambini che sanno molto bene, se non hanno genitori responsabili, che possono ottenere dagli adulti ciò che vogliono continuando ad insistere capricciosamente assillandoli. È tra l’altro il motivo per cui i giochi per i bambini, nei grandi magazzini, sono sempre posti in basso o comunque alla loro altezza perché possano prenderli e litigare con gli adulti che il più delle volte, presi dalle necessità del fare compere, pur di farli tacere li accontentano.

In realtà Gesù ricorre a questa parabola, e ad altre di significato analogo, con lo scopo primario di far comprendere la “necessità di pregare senza stancarsi mai” (Luca 18.1) alla luce però dell’intelligenza, che della perseveranza e dell’insistenza dev’essere compagna. Abbiamo letto nella parte finale dei nostri versi la promessa “cercate e troverete”, il cui metodo è illustrato in Proverbi 2. 3-5, “…se appunto invocherai l’intelligenza e rivolgerai la tua voce alla prudenza, se la ricercherai come l’argento e per averla scaverai come per i tesori, allora comprenderai il timore del Signore e troverai la conoscenza di Dio”. Ecco, il paragone con l’argento è molto calzante perché si tratta di un metallo che si trova sempre legato ad altri, come il piombo da cui viene separato con difficoltà, essendo necessario fonderli, raffreddarli e rifonderli di nuovo con un procedimento complicato che prende il nome di coppellazione, quello usato nell’antichità. Il “cercare” di cui parla l’autore del libro dei Proverbi, e quindi Gesù nel nostro passo, non consiste in un tentativo svogliato o approssimativo, ma in un metodo serio e direi professionale.

Credo che, connesso al nostro racconto di Gesù, siano la tenacia, costanza e infaticabilità sostenute da Giacobbe in Genesi 32.25-29: “Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora. Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo colpì all’articolazione del femore e l’articolazione del femore di Giacobbe si slogò, mentre continuava a lottare con lui. Quello disse: «Lasciami andare, perché è spuntata l’aurora». Giacobbe rispose: «Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!». Gli domandò: «Come ti chiami?». Rispose: «Giacobbe». Riprese: «Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto contro Dio e gli uomini e hai vinto!»”. Giacobbe vuol dire “Colui che precede” e Israele “Colui che lotta con Dio”.

Anche qui abbiamo la presenza del Figlio in forma umana, come dalle parole “contro Dio e gli uomini” che un angelo non avrebbe mai potuto utilizzare: è il Figlio che mette alla prova Giacobbe che lotta con Lui instancabilmente a tal punto da costringerLo a colpirlo all’articolazione femorale non riuscendo nonostante tutto a fermarlo. Mosè non ci ha lasciato nulla di scritto sull’oggetto della contesa, ma dalle parole “Non ti lascerò se non mi avrai benedetto” è chiaro che a quell’uomo premeva di venire benedetto da Dio non accontentandosi delle parole di suo padre Isacco.

Anche l’articolazione con la quale Giacobbe fu colpito è figura della prova che Dio dà agli uomini perché non si inorgogliscano, come fu per l’apostolo Paolo per la “spina nella carne” che inutilmente chiese che gli venisse tolta (2 Corinti 12.7,8). Se quindi Gesù con la parabola oggetto di riflessione avesse voluto alludere a quanto dobbiamo pregare per un problema materiale, certo avrebbe fatto in modo che Paolo fosse guarito; invece scrive “Per questo, affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia. A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza»”. Anche qui vediamo che l’apostolo, sperando di venire guarito dal Signore, pregò “per tre volte” e non con richieste continue e petulanti.

Tornando a Giacobbe vediamo che continuò a lottare nonostante il dolore causato dalla slogatura del femore, infortunio caratterizzato dalla fuoriuscita della testa del femore dall’acetabolo dell’osso iliaco: nella classifica delle emergenze mediche occupa un posto di rilievo e comporta spesso, come nel caso di Giacobbe, una lesione al nervo sciatico. Leggiamo infatti che, a conclusione dell’episodio in Genesi, ”Spuntava il sole, quando Giacobbe passò Penuel e zoppiacava all’anca. Per questo gli israeliti, fino ad oggi, non mangiano il nervo sciatico che è sopra l’articolazione del femore, perché quell’uomo aveva colpito l’articolazione del femore di Giacobbe nel nervo sciatico” (32.32,33).

Giacobbe lotta con quell’uomo per tutta la notte fino a quando giunse l’alba, figura del chiarore della consolazione a fronte della notte, immagine dell’afflizione. Dalle parole “Lasciami andare, perché è spuntata l’aurora” del Figlio di Dio in forma umana (v.27), che avrebbero tranquillizzato chiunque perché annunciavano la fine del combattimento, Giacobbe non si smosse perché, più del riposo, gli premeva essere benedetto e così avvenne. Abbiamo così in questo episodio la figura del combattimento della fede e della preghiera che trova la sua realizzazione, fra l’altro in 1 Giovanni 5.4,5: “Chiunque è stato generato da Dio vince il mondo; e questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede. E chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio?”.

Ora il senso dell’episodio di Genesi 32 è questo: Giacobbe, se avesse dovuto lottare con Dio nella sua forma spirituale, non sarebbe durato un solo infinitesimale frammento di secondo, ma in quella umana dimostrò tutta la sua volontà a tal punto che poco dopo disse “Io ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita mi è stata risparmiata” (v.30), anche qui figura del futuro, espresso, restando nell’Antico Patto, in Salmo 17.15: “Ma io nella giustizia contemplerò il tuo volto, al risveglio mi sazierò della tua immagine” che anticipa 1 Giovanni 3.2, “Sappiamo però che quando egli sarà  manifestato noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è”.

Certo, la nostra parabola parla di “pane” chiesto all’amico per cui non possiamo pensare che il Signore non ci conceda anche quanto necessita per il nostro sostentamento, ma credo sia necessario spostare sempre l’attenzione sul significato spirituale delle cose. I nostri problemi materiali rientrano nel “dacci oggi il nostro pane quotidiano” (meglio tradotto con “necessario”) e col paragone che Gesù fa, nel sermone sul monte, con “i corvi” che “non seminano e non mietono, non hanno dispensa né granaio, eppure Dio li nutre. Quanto più degli uccelli valete voi!” (Luca 12.24). Fra l’altro, aggiungendo una nota strettamente personale ed altrettanto dolorosa, posso dire che fissarsi ed essere insistenti su cose che riteniamo necessarie senza chiederci davanti al Padre se lo siano davvero, potrebbe anche causare un esaudimento che poi ci si ritorce conto procurandoci sofferenze e fastidi per farci capire l’inopportunità della nostra posizione. Ci sono infatti dei lacci che tende l’Avversario, ma anche altri che, più o meno, siamo noi stessi a costruirci addosso perché siamo vittime della nostra stessa superficialità, o carnalità che dir si voglia.

È vero che l’uomo del nostro episodio chiede i pani, ma tale alimento è comunque figura di ciò che sta oltre, perché sappiamo che “l’uomo non vive di solo pane, ma di tutto ciò che procede dalla bocca di Dio” ed anche la parabola del giudice e della vedova, che solo apparentemente allude all’insistenza per avere qualcosa, termina con parole che vanno al di là dell’esempio: “Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente” (Luca 18.6-7).

Io credo che la prima cosa che abbiamo il diritto-dovere di chiedere in preghiera a Dio è il discernimento, cioè avere la possibilità che la nostra mente, attraverso lo Spirito, esca dalla umana ossessività che ci è propria. Dobbiamo tenere sempre presente che questa filtra tutte le nostre esigenze materiali e spirituali attraverso il nostro ego per cui istintivamente sbaglieremmo: di qui la preghiera per poter essere in grado, cercando alla luce della preghiera e dello Spirito, di poter abbracciare per quanto possibile il vero, reale, necessario alimento destinato a sostenerci per quello che possiamo essere, ricordando che “il Padre sa ciò di cui avete bisogno”: cosa possiamo dire di fronte al “sapere” di Dio che ci ha creati, che ci ha conosciuti prima della fondazione del mondo, che conosce il numero dei capelli del nostro capo?

Ecco perché il nostro episodio si chiude con tre promesse fondamentali, “sarà dato”, “troverete” e “vi sarà aperto” che si concretano nel momento in cui si “chiede”, si “cerca” e si “bussa”, azioni che solo il diretto interessato può intraprendere per ottenere ciò che cerca esattamente come la persona della parabola chiede con insistenza all’amico riluttante. E poiché si tratta di cose che Dio ha promesso, non può non mantenerle. Queste tre azioni vengono portate avanti da chi ha bisogno e riconosce che può trovare esaudimento solo presso di Lui: chiedo ciò che non ho, cerco ciò che mi manca, busso per entrare dove altrimenti non potrei stare sapendo, come dal verso decimo, che “chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto”. Amen.

* * * * *

13.04 – MARTA E MARIA (LUCA 10.38-42)

13.04 – Marta e Maria (Luca 10.38-42)     

 

38Mentre erano in cammino, entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò. 39Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. 40Marta invece era distolta per i molti servizi. Allora si fece avanti e disse: «Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti». 41Ma il Signore le rispose: «Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, 42ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta».

 

Il verso di esordio, apparentemente scritto da Luca per raccordare i due episodi dell’insegnamento su chi fosse il “prossimo”e quello che abbiamo letto, presenta dei punti interessanti: Gesù, non da solo, “entrò in un villaggio”che sappiamo essere Betania, il cui nome significa “casa dei poveri”, oggi chiamato in arabo “Al-Azariyeh”, cioè “casa di Lazzaro”. Entrambi i nomi sono indicativi per quanto succederà: Marta e Maria infatti erano sorelle di Lazzaro, qui non citato, ed erano appunto di quella località come leggiamo in Giovanni 11.1: “Un certo Lazzaro di Betania, il villaggio di Maria e di Marta sua sorella, era malato”.

Elemento che dà un significato particolare al racconto e alla località, poi, lo abbiamo nel luogo in cui si verificò, poiché Betania si trovava lungo “la strada che scendeva da Gerusalemme a Gerico”(era a tre km da Gerusalemme) e quindi possiamo pensare che l’ambiente scelto da Gesù per l’esposizione della parabola del buon samaritano non fu casuale.

Altro elemento offertoci dal verso 38 è poi la citazione di Marta, “Signora”, nominata per prima perché sorella maggiore di Maria e responsabile della casa da loro abitata. Abbiamo poi il verbo, “lo ospitò”, tradotto da altri con “lo accolse in casa sua”: fu questa la prima volta? Fu qui che iniziò il rapporto tra Gesù e quella famiglia, Lazzaro compreso per quanto non nominato? Non possiamo stabilirlo con certezza, poiché è probabile che Nostro Signore fosse passato per Betania altre volte, diretto a Gerusalemme.

I verbi “entrare” e “ospitare”, poi, ci rimandano a come Gesù era solito agire e di come ordinò fare altrettanto ai suoi discepoli: “In qualunque città o villaggio entriate, fatevi indicare se vi sia qualche persona degna, e lì rimanete fino alla vostra partenza. Entrando nella casa, rivolgetele il saluto. Se quella casa ne sarà degna, la vostra pace scenda sopra di essa; ma se non ne sarà degna, la vostra pace ritorni a voi”(Matteo 10.11-13). Certo la situazione era diversa perché i discepoli avevano il Maestro con loro, che già sapeva quale fosse la casa in cui abitavano persone degne di riceverlo; oramai non era certo uno sconosciuto nemmeno per chi o coloro che non lo conoscevano di persona. Comunque siano andate le cose, visto che quello che propongo è un’interpretazione, un raccordo, certo è che Marta, quale responsabile della casa, “lo accolse”; dire quanti, quali e se vi fossero i discepoli, non è dato perché Luca, il solo che ha riportato l’episodio, potrebbe aver interpellato tanto uno dei dodici, quanto le due sorelle a Betania. Va tenuto però presente il plurale, “Mentre erano in cammino”.

Cercando di analizzare la figura di Marta, è evidente che fosse una persona energica e responsabile che cercava di svolgere al meglio quanto richiedeva la gestione di una casa. Come tutte le persone pratiche, forti di carattere e volenterose, badava al concreto delle cose senza valutarle nella loro globalità o, se preferiamo, considerarne le variabili. Ricordando infatti che, nell’occasione della morte del fratello Lazzaro, andò “incontro”a Gesù mentre sua sorella “stava seduta in casa”(a piangere) e che lo rimproverò: “Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!”, stesse parole che gli dirà poi Maria, ma con significato diverso. Marta, amata da Nostro Signore assieme alla sorella e al fratello (Giovanni 11.5), limitandoci al nostro episodio, è la figura della persona “calata nel proprio ruolo”, in questo caso per fare degna accoglienza all’ospite confondendo però tra il riguardo a lui dovuto umanamente e la profonda attenzione necessaria ai contenuti del messaggio che portava. Possiamo anche pensare che Marta fosse, al pari di sua sorella e del fratello, benestante perché la casa doveva essere grande, ammettendo che non si limitò ad ospitare Gesù, ma anche i dodici o una parte di loro. Il modo con cui il testo greco la presenta, infatti, “in casa sua”allude ad esserne padrona  nel senso di disporne, governarla, occuparsi di lei come vediamo in Giovanni 12.2 quando, sei giorni prima della Pasqua, leggiamo che “…qui fecero per lui una cena: Marta serviva e Lazzaro era uno dei commensali”.

Di tutt’altro carattere la sorella Maria, che viene descritta dai passi di cui disponiamo come una persona profondamente sensibile, che alla praticità delle cose preferisce il loro senso, distinguere ciò che è veramente utile da quanto non lo è; ciò lo vediamo non solo perché qui si pone a sedere ai piedi di Gesù, nella stessa posizione degli studenti ebrei coi loro maestri, ma soprattutto per l’episodio appena ricordato, quello della cena sei giorni prima della Pasqua, in cui viene contrapposta alla sorella che “serviva”: “Maria allora prese trecento grammi di profumo di puro nardo, assai prezioso, ne cosparse i piedi di Gesù, poi li asciugò con i suoi capelli, e tutta la casa si riempì dell’aroma di quel profumo”(vv.3,4).

Per quanto sarà un episodio che analizzeremo, vediamo che Maria valutò la persona e la presenza di Gesù in mezzo a loro tale da giustificare il versamento di quel profumo “assai prezioso”sulla Sua persona. Ricordiamo anche il comportamento assunto alla morte del fratello: quando Marta andò da lei in casa dicendole “«Il Maestro è qui, e ti chiama», udito questo, ella si alzò subito e andò da lui”(11.28,29) consapevole che solo da Gesù avrebbe potuto trovare consolazione, come effettivamente avvenne. Le parole che poi gli disse, identiche a quelle della sorella, “Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!”manifestano tutta la sua impotenza di fronte all’umano dolore oltre che alla visione limitata che aveva, ritenendo possibile che Gesù potesse operare solo se fosse stato fisicamente presente sul luogo. Fu una convinzione che corresse presto, visto che il profumo fu versato successivamente alla resurrezione del fratello, ricordandosi le parole “Non ti ho detto che, se crederai, vedrai la gloria di Dio?”(11.40).

Maria, quindi, è la figura dell’ascesa del credente da ciò che prima ignora e che poi sperimenta personalmente: infatti prima la vediamo “seduta ai piedi del Signore”, poi ci fu per lei il tempo della riflessione, dell’elaborazione di quanto ascoltato, quindi la sperimentazione degli effetti della parola di Dio con la risurrezione di Lazzaro, ed infine l’adesione totale a Lui con il versargli addosso il profumo.

Venendo ora all’episodio in esame, va sfatata l’ipotesi che vede in Marta un personaggio negativo. Semplicemente, è apparentemente meno positivo della sorella che sapeva benissimo, come lei, che per ricevere un ospite andavano osservate regole precise, a cominciare dall’acqua per lavare i piedi impolverati e forse a questo aveva adempiuto, ma tutto il resto, alla luce di ciò di cui Gesù parlava, non riteneva avesse ragione di essere. Marta era lieta di avere Gesù come ospite, era la responsabile della casa e in quanto tale era solo lei che poteva accoglierlo, però confonde l’accoglienza formale, diremmo noi “del galateo”, con quella spirituale. Per lei, per lo meno in questo episodio, era importante “fare bella figura” non a livello egoistico, ma non concepiva un atteggiamento diverso, per onorare il proprio ospite, da quello di approntare tutto il meglio per riceverlo e non capisce perché la sorella non debba comportarsi allo stesso modo. Certo che Maria sapeva che avrebbe dovuto comportarsi come Marta, ma non riuscì, c’era qualcosa che la teneva seduta e questo “qualcosa” era “la Parola di Gesù” che “ascoltava”consapevole, come altri del resto, che “nessuno parlò mai come costui”. Gesù non insegnava o parlava a una folla, ma a lei e alla sorella che, credo, ascoltava distrattamente, “distolta per i molti servizi”.

La nostra traduzione ha “Allora si fece avanti”, ma l’originale ha piuttosto “venne”che ci autorizza a pensare da un’altra stanza della casa, convinta che il suo rimprovero – ancora – fosse ben accolto da Gesù: “Non t’importa nulla che mia sorella mi ha lasciata sola a servire?”. “Mi ha lasciata”lascia intendere che all’inizio i comportamenti delle due furono identici, ma che poi Maria non poté fare a meno che sedersi ad ascoltare. Furono la sua sensibilità e la sua indole a portarla ad assumere quella posizione, null’altro importava. E qui esce una considerazione ovvia e cioè che anche noi, se ascoltiamo i richiami delle convenienze, dei doveri umani, della consuetudine, del “così si fa”, e ci concentriamo su di essi in nome di un nostro presunto dovere, non troviamo il tempo per ascoltare la Parola di Dio che ha per noi un messaggio individuale, preciso, specifico. Così facendo, però, ci priviamo inconsapevolmente di molto, dell’essenziale.

La risposta di Gesù fu questa (ripresa dalla traduzione di Giovanni Diodati che è preferibile): “Marta, Marta, tu sei sollecita e ti travagli intorno a molte cose. Ora di una sola cosa fa bisogno. Ma Maria ha scelto la buona parte, che non le sarà tolta”. I due termini, “essere solleciti” e “travagliarsi” hanno una quantità enorme di riferimenti nella Scrittura, comunque sempre rivolti, considerati come gli effetti che il mondo ha sulla persona. Marta era ansiosa e preoccupata perché i preparativi da lei messi in atto fossero degni della persona che ospitava, ma dimenticava che non poteva esservi accoglienza migliore se non l’ascolto di quanto aveva da dire, la “buona parte”,“di una cosa sola c’è bisogno”.

Possiamo fare un parallelo con Giovanni 14.23 “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio l’amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui”, cioè la stessa cosa veniva offerta tanto a Maria quanto a Marta, ma la prima non ebbe bisogno che Gesù glielo spiegasse. Credo che la differenza fra le sue sorelle sia stata spiegata molto bene da un fratello di cui riporto le parole: “Marta e Maria ci sono presentate come esempi di due aspetti diversi del carattere cristiano, cioè la devozione interna e l’attività pratica; quest’ultima è una qualità molto preziosa in un credente, ma tra le diverse occupazioni della vita può, se non si fa attenzione, diventare un tranello, permettendo alle cure e ai fastidi delle cure mondane di indebolire la vita spirituale dell’anima. D’altra parte c’è il pericolo che le sole occupazioni spirituali generino pigrizia e trascuratezza dei doveri che, quali cristiani, abbiamo verso le nostre famiglie, verso la Chiesa visibile e la società in generale. Contro questo pericolo le Marie devono stare in guardia, non meno delle Marte contro le attrazioni del mondo”. Per questo l’apostolo Paolo scelse di non dipendere dalle offerte dei credenti per il suo sostentamento, ma per mantenersi continuò il mestiere che conosceva, quello di tappezziere, e scrisse“Noi non siamo rimasti oziosi in mezzo a voi, né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato duramente, notte e giorno, per non essere di peso ad alcuno di voi. Non che non ne avessimo diritto, ma per darci a voi come modello da imitare. E infatti quando eravamo presso di voi, vi abbiamo sempre dato questa regola: chi non vuole lavorare, neppure mangi”(2 Tessalonicesi 3.7-10).

* * * * *

13.03 – IL BUON SAMARITANO III: LA PRATICA DELL’AMORE (Luca 10.30-37)

13.03 – Il buon samaritano: III. La pratica dell’amore (Luca 10.30-37)    

 

30Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. 31Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. 32Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. 33Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. 34Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. 35Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: «Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno». 36Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». 37Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ così».

 

Il prosieguo della parabola ci presenta due personaggi particolari, il sacerdote e il levita: essendo il fatto avvenuto nella strada che “scendeva da Gerusalemme a Gerico” si può ipotizzare che compissero quel tragitto perché avevano terminato il loro servizio al Tempio e rientrassero a casa loro. Gerico, infatti, di sacerdoti e leviti, ne ospitava molti, “diverse migliaia” secondo alcuni commentatori. Ammettendo quindi tale probabile situazione, tanto l’uno che l’altro attesero il passare del sabato, giorno in cui il turno di servizio delle mute cambiava, e quindi si misero in viaggio, in momenti diversi.

Sacerdoti e leviti possiamo dire che costituivano il cardine del giudaismo, senza i quali non poteva essere celebrata alcuna funzione nel Tempio. I primi erano chiamati cohanim, cohen singolare, termine che indica “colui che si leva a favore di un altro, che intercede per la sua causa” (e tale infatti era il loro ruolo, essendo i soli a poter compiere i sacrifici e non solo). I secondi, i leviti, erano addetti all’ausilio dei sacerdoti occupandosi delle opere cosiddette “servili”: preparavano il sacrificio, lavavano gli utensili sacri e cantavano alle funzioni, ma potevano anche svolgere il compito di magistrato e giudice secondo 1 Cronache 23. 3-5.

È proprio il ruolo di queste due categorie che, nella parabola, li condanna perché, conoscendo la Scrittura e avendo un ruolo specifico comandato da Dio, non la misero in pratica quando videro un loro correligionario “mezzo morto” lungo la strada.

Occorre prestare attenzione perché il comportamento da loro adottato non era ammissibile neppure per le bestie. Così infatti prescriveva la Legge: “Quando incontrerai il bue del tuo nemico o il suo asino dispersi, glieli dovrai ricondurre. Quando vedrai l’asino del tuo nemico accasciarsi sotto il carico, non abbandonarlo a se stesso: mettiti con lui a scioglierlo dal carico” (Esodo 23.4,5). Addirittura, in Deuteronomio 22.4, “Se vedi l’asino di tuo fratello o il suo bue caduto lungo la strada, non fingerai di non averli scorti, ma insieme con lui li farai rialzare”. C’è poi la definizione di Dio del digiuno, pratica cui molti si dedicavano religiosamente: “Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo? Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti? Allora la tua luce sorgerà come l’aurora, la tua ferita si rimarginerà presto. Davanti a te camminerà la tua giustizia, la gloria del Signore ti seguirà” (Isaia 58.6-8).

Abbiamo visto, nei versi citati, la compassione dovuta a fronte di un disagio che potremmo definire “fisico”, ma la stessa è compresa anche per quello morale: “A chi è sfinito dal dolore è dovuto l’affetto degli amici, anche se ha abbandonato il timore di Dio” (Giobbe 6.4), per non parlare degli esempi negativi contenuti in Salmo 38.12 e 69.21, “I miei amici e i miei compagni si scostano dalle mie piaghe, i miei vicini stanno a distanza” e “L’insulto ha spezzato il mio cuore e mi sento venir meno. Mi aspettavo consolazione, ma invano. Consolatori, ma non ne ho trovati”. Infine, Proverbi 21.13: “Chi chiude l’orecchio al grido del povero invocherà a sua volta e non otterrà risposta”.

Eppure, del sacerdote e del levita, è scritto che “giunto in quel luogo, vide e passò oltre”, traduzione sbrigativa dall’originale “passò dall’altra parte” quindi entrambi, prima di riprendere il loro cammino, si scostarono, attraversarono la strada volendo stabilire una distanza ancora più acuta di quanto non fosse già, loro in piedi (o a cavalcioni su un asino) e l’altro a terra: perché? Mi sono chiesto se questa indifferenza fosse causata solo da un animo insensibile o ci fosse stato qualche altro motivo e credo che, trattandosi di religiosi, ritenessero di avere già fatto abbastanza per il loro Dio e che soccorrere un uomo ridotto in quelle condizioni dovesse competere ad altri. Questa è l’interpretazione che do.

Aprendo una parentesi, è vero che il testo non dice perché il sacerdote e il levita passassero di là e che avessero terminato il loro ufficio nel Tempio, ma non trovo altro motivo, dubitando che entrambi fossero in gita di piacere. Il “Per caso” con cui inizia il verso 31 non allude infatti a una presenza immotivata, ma alla contemporaneità dell’azione, cioè da una parte l’uomo “mezzo morto” e dall’altra il fatto che sacerdote e levita passarono di là poco dopo l’aggressione.

Quei due, quindi, dopo una settimana a servire il Dio d’Israele, si ritenevano esenti da qualsiasi altro compito nonostante vi fosse la Sua parola scritta che solo apparentemente poteva essere considerata una lista di doveri, ma che in realtà era tesa ad educare i cuori e il cui riassunto, come abbiamo letto, era scritto nelle piccole pergamene che quegli uomini si portavano addosso, “Amerai il Signore Iddio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente”. Però – attenzione – era un amore che, per essere perfetto, si collegava a Levitico 19.18, “Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso”. Si tratta di due capisaldi che non a caso il dottore della Legge che diede origine a questa parabola aveva unito e di cui Gesù stesso ribadirà la necessità in Marco 12.28-31, quando uno scriba gli chiederà “Qual è il primo comandamento di tutti?”.

Ecco allora che il sacerdote e il levita dimostrarono, con la loro indifferenza, di non aver capito proprio nulla: per loro Dio era Colui che esigeva da loro un servizio formale per il popolo e si crogiolavano in questo ritenendo di essere dei buoni israeliti esattamente come oggi ci sono molti che si definiscono “buoni cristiani” perché partecipano alle funzioni religiose e praticano i cosiddetti “sacramenti” senza alcun moto del cuore che li spinga a praticare effettivamente l’amore. Sono coloro che sanno bene che dovrebbero osservare il decalogo, ma sanno di potere infrangerlo perché tanto poi si vanno a confessare, recitano l’ “atto di dolore”, fanno penitenza e poi tutto torna come prima. Sono i cosiddetti “praticanti”, quasi che la “pratica” possa limitarsi all’osservanza di precetti che non possono dare un significato a nulla. Sono quelli che si sentono bene quando prendono posto alle funzioni, ma appena usciti dall’edificio di culto tornano prontamente ai loro egoismi, ai loro calcoli, alle loro miserie. Sono quelli che vedono e passano dalla parte opposta a quella del bisognoso e poi proseguono per la loro strada. Non vogliono fastidi ma soprattutto, come i due personaggi che stiamo esaminando, si ritengono a posto con la loro coscienza e si autoassolvono qualunque cosa accada.

Si tratta chiaramente di soluzioni di comodo che consentono di confezionare un vestito su misura che non è certo quello che il Re della parabola degli invitati alle nozze ha inviato: ricordiamo che “Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse uno che non indossava l’abito nuziale – era cioè vestito, ma a modo suo e non come era richiesto per restare lì –. Gli disse: «Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?». Quello ammutolì. Allora il re ordinò ai servi: «Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti»” (Matteo 22.11-13).

A questo punto entra in scena il samaritano che, a differenza del sacerdote e del levita che “passavano di là”, “era in viaggio”: si trattava forse di un mercante? È un’ipotesi, ma quello che sappiamo di certo è che non era giudeo, ma uno straniero e, soprattutto, appartenente a gente che nei confronti degli ebrei nutriva un profondo risentimento per ragioni che abbiamo già accennato. Ebbene, quello riconobbe la nazionalità dell’uomo ferito e “mezzo morto” dall’abito, ma nulla gli importò perché lo vide, azione comune agli altri due, ma questa volta “ne ebbe compassione”. Tanto fu istintiva la repulsione provata dal sacerdote e dal levita, poi sfociata in indifferenza, tanto il samaritano si immedesimò nelle condizioni di quell’uomo ferito. Poteva non farlo e andarsene, nessuno lo avrebbe visto né giudicato. Agì su una base del tutto volontaria e soprattutto vediamo che tra il vedere ed il reagire non intercorse nessun intervallo temporale.

Per quanto Nostro Signore, con questa parabola, volesse far capire a quell’anonimo dottore della Legge cosa s’intendesse amare il proprio prossimo come se stessi per cui quello è il suo primo significato; non è però difficile scorgere nella descrizione delle azioni del buon samaritano le stesse che ha compiuto Lui nei confronti dell’uomo: prima “ne ebbe compassione”, poi “gli si avvicinò, gli fasciò le ferite versandovi olio e vino”, rimedi efficaci di allora per le ferite quando non interessavano parti vitali: il vino le disinfettava e l’olio ne attutiva il dolore. E quel samaritano, persona previdente, li aveva con sé, oltre le bende, come oggi potrebbe fare chi affronta un’escursione mettendo in conto la possibilità che qualcuno si possa far male. Quell’uomo, poi, sapeva come agire in base alle circostanze.

Anche oggi Gesù è in grado di fasciare, disinfettare e attutire il dolore dell’uomo ferito e privato dal peccato della propria dignità, ridotto all’incapacità di muoversi e chiedere aiuto. Il samaritano non risponde a un grido, ma offre il suo intervento a chi non ha neppure la forza di chiederlo.

Consapevole del fatto che olio, vino e bende non avrebbero risolto il problema, fa poi qualcosa di totalmente contrario al principio della comodità personale: scende dalla sua cavalcatura, vi carica il ferito portandolo “in albergo, e si prese cura di lui”. Questo significava camminare per un certo tempo a suo fianco, sorreggendolo perché non cadesse e tutto questo in una strada assolata e in zona desertica. Ora non è difficile scorgere in queste azioni la rinuncia del Figlio di Dio alla condizione che aveva nei Cieli per scendere e vivere per un certo tempo (trentatré anni circa) in mezzo agli uomini senza lasciare nulla di intentato per salvarli dalla morte. Fece insomma tutto quanto in suo potere, adempiendo ogni cosa vista nella frase “Tutto è compiuto”.

Non pago di tutto il lavoro fatto per quell’uomo, poi, “si prese cura di lui”, presumo per tutta la notte, attento ad ogni segnale di sofferenza. Al contrario di quanti passarono prima di lui, il sacerdote e il levita che ritennero di avere già adempiuto ai loro incarichi di servizio divino, interrompe la sua opera solo quando nella persona da lui soccorsa iniziano ad emergere i primi segnali di guarigione. Quindi, come in tante parabole, “partì” promettendo all’albergatore, in cui possiamo vedere spiritualmente la Chiesa, di ritornare e gli dà il denaro necessario per curare quella persona, promettendo di rimborsare quanto eventualmente avrebbe speso in aggiunta.

Queste sono applicazioni possibili oggi, non certo allora. Dobbiamo sempre tenere presente il fatto che quanto avviene o troviamo scritto ha valenza per chi leggeva e ascoltava allora e per noi possono esserci delle varianti.

La domanda di Gesù a quel punto fu “Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che  caduto nelle mani dei briganti?”. La risposta del dottore della Legge è molto indicativa perché non indica semplicemente “Il samaritano” ma, non volendo neppure nominarlo, dice “Chi ha avuto compassione di lui”: dimostra di aver capito solo parzialmente il senso della parabola perché per lui le persone erano divise in due categorie, gli israeliti e gli altri cosa che, se il samaritano avesse voluto applicare quel metodo di ragionamento, avrebbe causato la morte dell’uomo rapinato e percosso dai malfattori.

Le parole conclusive del dialogo fra Gesù e il dottore della Legge furono “Va’, e anche tu fa’ così”, ancora una volta le uniche che allora potesse dire per risvegliare la coscienza del suo interlocutore. Per noi, invece, valgono le parole dette ai discepoli in Giovanni 1512: “Questo è il mio comandamento – quindi nuovo, che perfeziona i precedenti, il primo senza il quale ogni nostra posizione diventa nulla –: che voi vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi”. E di fronte a quel “come”, tutto si tace. Amen.

* * * * *

13.02 – IL BUON SAMARITANO II: L’UOMO E I BRIGANTI (Luca 10.25-28)

13.02 – Il buon samaritano: l’uomo e i briganti (Luca 10.25-28)          

 

30Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. 31Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. 32Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. 33Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. 34Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. 35Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: «Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno». 36Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». 37Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ così».

 

Questa parabola, come sappiamo, fu esposta a un dottore della Legge che chiese a Gesù di dargli una definizione di “prossimo”. Il racconto parabolico, che secondo l’uso di quel tempo aveva fine didattico presso i Giudei e tramite il quale Nostro Signore si pone sullo stesso piano dell’interrogante che lo aveva chiamato “Maestro”, viene in realtà esposto per far sì che quel dottore potesse trarre le sue conclusioni e presenta quattro personaggi che cercheremo di analizzare; del primo sappiamo ben poco e viene lasciato volutamente nell’ombra anche se possiamo ipotizzare fosse un israelita che “scendeva da Gerusalemme a Gerico”: quella strada infatti copriva il dislivello di circa un km che intercorreva fra le due città. Si trattava, allora come fino a metà del secolo scorso, di un percorso rischioso perché infestato da bande di criminali che assalivano soprattutto le persone che viaggiavano da sole. Con l’andar del tempo, poi, la criminalità locale si organizzò in modo tale da riuscire ad affrontare e rapinare anche tutti coloro che viaggiassero privi di scorta.

Ebbene al protagonista della parabola “portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto”, cioè nelle condizioni di non poter chiedere aiuto perché quel “mezzo morto”ci descrive uno stato di privazione delle forze necessarie per muoversi, rialzarsi. La vittima dei briganti versava quindi in uno stato di immobilità, senza altra possibilità se non rimanere dov’era poiché, proseguendo nella lettura, leggiamo che chi passò vicino a lui “lo vide”, ma non ci è stata trasmesso alcun dialogo fra loro.

Questa è la lettura più immediata della parabola, cioè di quanto probabilmente avvenuto attenendosi ad essa, ma è facile riconoscere nelle azioni dei briganti, cioè nel portare via tutto, percuotere a sangue e lasciare la persona priva di forze, gli effetti del peccato che, quando lo assale, lascia l’individuo nelle stesse condizioni dal punto di vista spirituale. Ricordiamo anche quanto avvenuto alla guarigione di quel giovane indemoniato operata da Gesù quando i discepoli non riuscirono: ”Lo spirito, gridando e straziandolo fortemente, uscì”(Marco 9.36), fatto avvenuto comunque in altri episodi. Questo perché il peccato e la lontananza da Dio straziano sempre, paralizzano, rendono ciechi e sordi. Tutte le applicazioni possibili su questa prima parte della parabola riguardano proprio questa condizione.

A proposito del nostro personaggio leggiamo “gli portarono via tutto”, traduzione dall’originale “spogliatolo”anche qui come il peccato, e quindi l’Avversario, fece con i nostri progenitori che, da esseri rivestiti dalla grazia e luce di Dio (e soprattutto d’innocenza), si ritrovarono soli nel loro corpo di carne; ricordando il giudizio su Adamo sappiamo che non gli rimase nulla se non una vita a termine: “Con il sudore del tuo volto mangerai il pane, finché non tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere ritornerai”(Genesi 3.19). Se non è rivestito di Dio, l’uomo ha ben poco valore. Ecco allora che la creatura per cui esisteva un progetto di vita attiva, partecipe pienamente dell’eternità, sarebbe stato e tornato polvere, cioè la materia che Dio aveva utilizzato per crearlo, ma priva del Suo splendore. Avrebbe dovuto un giorno restituirgli l’anima, o la vita come altri traducono. Così infatti è detto nella parabola del ricco: “Stolto, questa stessa notte l’anima tua ti sarà richiesta. E le cose che hai accumulato, di chi saranno?”  (Luca 12.13-21).

A proposito dell’episodio in Eden va comunque rilevato che, se Satana riuscì a fare in modo che Adamo ed Eva fossero spogliati e decaduti, Dio comunque procurò loro un vestito idoneo (la pelle d’animale al posto delle foglie di fico intrecciate) e che ai cristiani è detto “Vi siete spogliati dell’uomo vecchio con le sue azioni– e qui dobbiamo verificare se si effettivamente così, visto che sta a noi farlo – e avete rivestito il nuovo– stessa verifica – che si rinnova, per una piena conoscenza, ad immagine del suo Creatore.(…). Rivestitevi dunque, come amati di Dio, santi e diletti, di sentimenti di misericordia, di bontà, di pazienza”(Colossesi 3.10-13).

I briganti, figura dell’Avversario, dei suoi ministri e del peccato, portano “via tutto”il necessario per vivere alla luce di Dio e ancora una volta il parallelo con Adamo ed Eva è inevitabile perché da loro abbiamo naturalmente ereditato la condizione di persone da Lui lontane e saremmo tuttora incapaci di vivere una vita vera se, a un certo punto, non fosse intervenuto Gesù Cristo. Secondo alcuni passi che conosciamo, infatti, Gesù è definito dall’apostolo Paolo come “ultimo Adamo”. Ricordando le parole “Come in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti– quelli che lo avranno accolto – riceveranno la vita”(1 Corinti 15.22), “Il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l’ultimo Adamo divenne spirito datore di vita”(v.45).

 

I briganti della parabola non si limitarono a spogliare il malcapitato, ma “lo percossero a sangue”, cioè non si accontentarono di rapinarlo tenendolo sotto la minaccia delle armi e non si fermarono in questa azione violenta fino a quando non videro il sangue e constatarono che la persona era rimasta lesionata a tal punto da non potersi più muovere. Possiamo idealmente paragonare la condizione di quel malcapitato, visto che il termine “parabola” significa appunto “paragone”, al gesto di Giobbe che, pur potendo parlare, subì la stessa sorte. Ricordiamo che anche Giobbe, dietro intervento di Satana, perse tutto: figli e figlie, servi e pecore, quindi fu spogliato di ogni cosa. Poi venne la malattia – ecco le percosse –: “Satana si ritirò dalla presenza del Signore e colpì Giobbe con una piaga maligna, dalla pianta dei piedi alla cima del capo. Giobbe prese un coccio per grattarsi e stava seduto in mezzo alla cenere”(2.7,8). E qui probabilmente abbiamo anche il sangue, che esce nel momento in cui si gratta una piaga.

Certo per Giobbe ci fu anche la tortura morale dei tre cosiddetti “amici venuti per consolarlo”che finiranno per affliggerlo con parole indubbiamente buone dal punto di vista morale e religioso, ma non certo spirituali e quindi adatte al suo caso. Di qui la necessità di parlare a chi soffre con parole appropriate, se ne abbiamo. Ricordiamo anche come Giobbe fu trovato da loro: “Alzarono gli occhi da lontano, ma non lo riconobbero. Levarono la loro voce e si misero a piangere. Ognuno si stracciò il mantello e lanciò polvere verso il cielo sul proprio capo. Poi sedettero accanto a lui in terra per sette giorni e sette notti. Nessuno gli rivolgeva una parola, perché vedevano che il suo dolore era molto grande”(2.12,13).

Gli effetti del peccato sono allora quelli appena descritti; possono essere visibili a tutti qualora si manifesti con la malattia del corpo o della mente – che in Eden non vi erano – oppure tramite una vita sregolata, persa ad inseguire il mito della realizzazione personale, in quale campo non importa; se non interviene Gesù a sanare, l’essere umano resta paralizzato, incapace di chiedere aiuto, non necessariamente si accorge di essere stato “spogliato di tutto”e “percosso a sangue”. O, meglio, quando se ne accorgerà sarà troppo tardi.

La terza condizione in cui versa l’anonimo è “mezzo morto”, espressione che nel nostro linguaggio comune viene intesa come “molto stanco, mal messo, sfinito” ma che Gesù, che non parlò mai usando termini esagerati per far meglio presa sui suoi uditori, intende come in stato di incoscienza, cioè con funzioni vitali minime. Essere incoscienti significa non avere consapevolezza della propria esistenza e non essere in grado di interagire con l’ambiente che ci circonda.

Tutto, dal racconto di Nostro Signore, lascia ipotizzare che il personaggio della parabola non fosse in grado di comunicare: non c’è infatti alcuna traccia di dialogo fra il samaritano e il ferito, ma sappiamo che le sue condizioni erano serie a tal punto da richiedere un ricovero nella speranza che guarisse. Effettuando allora un collegamento spirituale, quel “mezzo morto”è la descrizione dello sfinimento finale provocato dalla lontananza da Dio: avendo interrotti i rapporti con Lui, la persona non può vivere autonomamente in una sorta di limbo dove tanto il Signore che l’Avversario sono assenti, ma cadrà inevitabilmente vittima della seconda entità  come direi insegna tutta la Scrittura. Non abbiamo infatti un solo caso in cui un uomo o una donna abbiano vissuto in una condizione di neutralità, poiché “nessuno può servire a due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro”(Matteo 6.24).

“Mezzo morto”è chiaramente la descrizione di uno stato grave, ma in cui è lasciato spazio alla speranza nel senso che non è ancora intervenuta la morte a scrivere la parola “fine” a quell’esistenza. Se l’uomo assalito dai briganti fosse rimasto privo di un intervento teso a curarlo, sarebbe probabilmente deceduto e qui abbiamo i due riferimenti-significati della parabola perché, se nel primo è descritta la carità di un individuo verso il suo “prossimo”, nel secondo abbiamo l’intervento misericordioso del Cristo nei confronti dell’uomo preda dell’Avversario e quindi della lontananza da Dio, come già anticipato. Se prendiamo come appropriato il primo riferimento, abbiamo la descrizione di un’opera intrapresa nei confronti dell’ “altro” di cui non ci viene rivelato il risultato, cioè non sappiamo se quell’uomo guarì oppure no, ma se ci appropriamo del secondo, cioè l’intervento di Gesù, l’insuccesso non è neppure pensabile.

Perché però la persona si possa ristabilire, deve volerlo nel senso che può accettare o rifiutare le cure che gli vengono applicate e il fatto che il samaritano “lo portò in albergo e si prese cura di lui”ci lascia supporre che restò in quel luogo, un caravanserraglio, dedicandosi a lui per tutta la notte fino a quando non ebbe speranza che il suo paziente potesse riprendersi. Infatti leggiamo “Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore”perché si curasse di quell’uomo nell’attesa che ripassasse a pagare le altre, eventuali cure.

* * * * *

 

13.01 – IL BUON SAMARITANO, INTRO (Luca 10.25-28)

13.01 – Il buon samaritano, introduzione (Luca 10.25-28)  

 

Con il discorso di Gesù come “buon pastore”si chiude la Sua permanenza a Gerusalemme. Da lì si porterà nei dintorni, con particolare riguardo per il territorio di Betania, poco distante. Affrontiamo così quello che è definito “il libro del grande viaggio”, cioè quell’insieme di episodi che Luca riporta da 9.57 a 13.9. Secondo questa sua narrazione avremmo così l’invio dei 72 discepoli, già trattato, gli episodi di Marta e Maria, oltre all’insegnamento del Padre Nostro.

Dando una brevissima panoramica, dopo circa due mesi di assenza Gesù ritornerà nuovamente a Gerusalemme per la festa della Dedicazione (novembre-dicembre), che ricordava la riconsacrazione del Tempio dopo la profanazione di Antioco IV; qui riprenderemo la lettura del capitolo 10 di Giovanni che temporaneamente abbandoniamo.

Dove avvenne l’esposizione di questa parabola non ci è dato sapere anche se il fatto che Gesù la inzi dicendo “un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico”lasci pensare che si trovasse ancora nei pressi della città. Rimandando l’esame del testo ad un prossimo intervento, occupiamoci delle premesse, cioè del contesto che ne provocò l’esposizione. Leggiamo:

 

25Ed ecco, un dottore della Legge si alzò per metterlo alla prova e chiese: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». 26Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?». 27Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso». 28Gli disse: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai».28Ma quello, volendo giustificarsi, disse: «E chi è il mio prossimo?»

 

Il contesto, stando a Luca, è apparentemente quello in cui Gesù parlò ai discepoli in disparte dicendo “Beati gli occhi che vedono quello che voi vedete. Io vi dico che molti profeti e re hanno voluto vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo udirono”(vv. 23,24). È a questo punto che compare“un dottore della Legge”, anche se quel “Ed ecco”, tradotto da altri con“Allora”, non sta ad indicare necessariamente la sua presenza in quel contesto, ma è un modo che ha l’evangelista di collegare due episodi.

Vediamo ora la figura del “Dottore della Legge”, che apparteneva alla corporazione degli scribi, parte dei quali erano anche farisei. Sappiamo che gli scribi arrivavano a quella carica non prima dei quarant’anni e dopo studi severi e si occupavano della Mikrah, cioè delle Scritture. Sopra di loro c’erano i legali che studiavano la Misnah (ripetizione) che conteneva tutte le leggi relative alla vita spirituale, individuale e sociale del popolo disposte in sessantatré trattati. Infine, i dottori della Legge erano gli espositori della Ghemara, parola che deriva da una radice aramaica che significa “concludere, risolvere” e “apprendere”. Studiavano, commentavano, discutevano e ampliavano la Misnah e le loro conclusioni confluivano nel Talmud.

Ora occorre cercare di capire quali fossero le intenzioni di quell’uomo che “si alzò per metterlo alla prova”: era a lui ostile? Quel “metterlo alla prova”, che altri traducono “tentandolo”, era uno dei molti modi che l’autorità religiosa soleva avere nei Suoi confronti per “avere di che accusarlo”, oppure si voleva provare il sapere di Gesù alla luce delle sue conoscenze? Propendo per la seconda ipotesi perché la risposta di nostro Signore “Hai risposto bene, fa’ questo e vivrai” non contiene alcun rimprovero né una risposta criptica, tesa a realizzare quella situazione espressa altre volte, “perché udendo, non comprendano e, vedendo, non vedano”.

Una circostanza simile a questa è riportata altre due volte, rispettivamente da Matteo e Marco dopo una discussione sorta con i sadducei a proposito del “primo di tutti i comandamenti”: “Allora si avvicinò a lui uno degli scribi che li aveva uditi discutere e, visto come aveva risposto a loro, gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?» Gesù rispose: «Il primo è: Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza. Il secondo è questo: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Non c’è altro comandamento più grande di questi». Lo scriba gli disse: «Hai detti bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è l’unico e non vi è altri all’infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici». Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio». E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo”(Marco 12.28-34). Quello scriba non era “lontano dal regno di Dio”; possiamo dire che “una sola cosa”gli mancava, “credere a Colui”che Dio Padre aveva mandato.

Va ora considerato il metodo di Gesù, che risponde alla domanda con un’altra, ribaltando le reciproche posizioni per cui quel dottore della Legge, da interrogante, diventa l’interrogato e colui che viene messo alla prova. La domanda “Che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?”racchiudeva in sé delle applicazioni insormontabili perché la Legge, che trovava il suo punto di espressione più alto nell’amore per Dio e per il prossimo, non riusciva ad applicarla completamente nessuno, per cui chi cercava di adempiere anche quei soli due punti si ritrovava puntualmente sconfitto. Se non si poteva ottenere la vita eterna mediante la Legge, la colpa non era di lei, ma dell’uomo che si ritrovava impotente di fronte ad essa.

L’apostolo Paolo, da fariseo, dà qualche cenno in proposito in Romani 3.20 quando scrive che “In base alle opere della Legge nessun vivente sarà giustificato davanti a Dio, perché per mezzo della Legge si ha la conoscenza del peccato”, quindi non si ha la possibilità di porvi rimedio nonostante i sacrifici e i riti prescritti, quando non interveniva la pena di morte per quelli più gravi. In 8.3 invece leggiamo che “Ciò che era impossibile alla Legge, resa impotente a causa della carne, Dio lo ha reso possibile: mandando il proprio Figlio in una carne simile a quella del peccato e a motivo del peccato, egli ha condannato il peccato nella carne perché la giustizia della Legge fosse compiuta in noi, che camminiamo non secondo la carne, ma secondo lo Spirito”. È quindi il camminare “secondo lo Spirito”che consente la liberazione e la giustizia della Legge “compiuta in noi”: non ci sono tecniche o metodi, ma solo la fede in quel Gesù, che ci ha liberati “dalla legge del peccato e dalla morte”.

In Galati 2.15,16 Paolo chiama poi in causa il suo far parte del popolo eletto: “Noi, che per nascita siamo Giudei e non pagani peccatori, sapendo tuttavia che l’uomo non è giustificato per le opere della Legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo, abbiamo creduto anche noi in Cristo Gesù per essere giustificati per la fede in Cristo e non per le opere della Legge, poiché per le opere della Legge non verrà mai giustificato nessuno”. Nessuno, nemmeno l’apostolo stesso, nemmeno Pietro e neppure quel dottore che interroga Gesù nel nostro passo in esame.

A questo punto emerge però un elemento non trascurabile di quel dottore della Legge, e cioè la sue esperienza e capacità di filtrare, arrivare al nocciolo del problema posto: non parla di quante volte bisognava pregare al giorno, di come, se in piedi dondolando come erano soliti fare, quanti pellegrinaggi compiere o di osservare minuziosamente il sabato, ma si confessa implicitamente come persona di fronte alla quale stava l’irraggiungibilità del grande comandamento che chiamava in causa TUTTO: cuore, anima, forza e mente, elementi che racchiudono appunto la totalità del nostro essere senza lasciare posto ad altro, dove nulla di estraneo può avere spazio.

Certo, le parole da lui pronunciate si trovavano scritte su piccoli pezzi di pergamena chiusi nelle filatterie che i Giudei portavano e che dovevano recitare due volte al giorno nelle loro preghiere, ma ciò non toglie che avrebbe potuto rispondere diversamente, chiamando in causa le tradizioni e le regole minuziose della casta cui apparteneva, cosa che fecero e faranno gli oppositori di Gesù.

Chi ci riusciva ad adempiere quel comandamento, che chiamava in causa il prossimo in cui tutto l’amore per l’Iddio di Israele avrebbe dovuto confluire? Certo, ci si poteva auto illudere chiamando in causa quegli stessi meccanismi che fanno sì che delle nullità si credano qualcuno, che le meschinità della persona si trasformino in giustizia come accade a molti, ma il problema restava: i sepolcri, per quanto imbiancati, tali restano e, soprattutto, “all’esterno appaiono belli, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni marciume”(Matteo 23.27).

Il “gran comandamento” coinvolgeva il “cuore”, cioè il luogo in cui risiedono gli affetti e i sentimenti, quindi la nostra sensibilità. L’ “anima”è il nostro carattere, ciò a cui tendiamo per natura, l’attenzione naturale e l’attitudine, la “forza”è la volontà che applichiamo nelle nostre occupazioni e la “mente”è il nostro spirito, la parte più profonda della nostra persona e non per nulla è quella di cui può prendere possesso l’Avversario o un suo delegato. E tutto è, come sappiamo se ci conosciamo, fragile. Di qui l’impossibilità a mettere in pratica “Amerai il Signore tuo Dio con…”, parole che troviamo identiche in Deuteronomio 6.5 cui poi si aggiunge nei versi successivi “Questi precetti che io ti do, ti stiano fissi nel cuore. Li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando ti troverai in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte”.

A questo punto c’è la risposta di Gesù tesa a far concludere al Suo interrogante quanto fosse impossibile per lui ad arrivare a qualsiasi punto risolutivo: “Hai risposto bene, fa’ questo e vivrai”. Era come chiedere ad una persona di bere da una fonte inesistente nel deserto, o gettare un salvagente a una persona esausta in mare, cioè gli ponte dinnanzi qualcosa di impossibile, praticamente gli dice “se riesci, fallo e ti salverai”. La risposta corretta di quel dottore sarebbe stata “ma non posso!”; invece, confuso per aver ricevuto una risposta così semplice alla sua domanda, chiede una spiegazione su un termine molto semplice,“prossimo”, sull’interpretazione della quale neppure lui poteva avere dei dubbi visto che, per gli ebrei, il “prossimo”era chi era a loro vicino, cioè un altro ebreo.

A questo punto, Gesù espone una parabola chiara, parlando di sé, descrivendo quanto farà nei confronti della persona che accetta il suo aiuto.

* * * * *

 

16.38 – PER QUESTO IL PADRE MI AMA (Giovanni 10.14-20)

12.38 – Per questo il Padre mi ama (Giovanni 10.14-20)   

 

17Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. 18Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».19Sorse di nuovo dissenso tra i Giudei per queste parole. 20Molti di loro dicevano: «È indemoniato ed è fuori di sé; perché state ad ascoltarlo?». 21Altri dicevano: «Queste parole non sono di un indemoniato; può forse un demonio aprire gli occhi ai ciechi?».

 

Con i versi 17 e 18 Gesù conclude ed amplia il suo discorso sul “buon pastore”che “dà la propria vita per le pecore”. I verbi su cui riflettere in questi versi sono “dare” (3 volte), “riprendere” (2) e “togliere” (1) che cercheremo di analizzare. All’inizio abbiamo “Per questo il Padre mi ama”che ha riferimento con le condizioni di Gesù uomo che, a differenza di tutti gli altri suoi “simili”, riuscì ad adempiere perfettamente la volontà del Padre fino ad accettare, in ubbidienza libera, di dare la Sua vita per la creatura cui sarebbe altrimenti rimasta incapace di avere un rapporto con Lui. Abbiamo letto e citato più volte il capitolo 53 di Isaia, ma ricordiamo i versi 10 e 12: “Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza – perché“primogenito di molti fratelli” –, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. (…) perciò gli darò in premio le moltitudini”.

Abbiamo quindi, nella pericope “Per questo il Padre mi ama”, non la descrizione del motivo per cui Gesù è amato come Figlio (ha infatti vita propria, è “nel seno del Padre”, parte di Lui e Lui stesso), ma per come fu assistito nel Suo corpo di carne arrivando a dare la propria vita, gesto che l’apostolo Paolo commenterà razionalmente con queste parole: “Quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi. Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi”(Romani 5.6-8).

Si noti quanto contrasta il morire “per gli empi”di fronte al “per un giusto”ed ecco perché “la predicazione della croce è pazzia per quelli che periscono, ma per noi, che siamo salvati, è la potenza di Dio”(1 Corinti 10.18). Razionalmente parlando, l’amore per il peccatore, cioè per chi è “professionalmente” contrario a Dio e ai suoi voleri, è qualcosa di assurdo, contrario ad ogni logica.

Per gente quale noi eravamo prima di incontrarLo, non certo “giusti” né “buoni”, nessuno sarebbe stato disposto a morire; eppure Gesù lo fece, donandosi come spiegò ai dodici: “Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire, e per dare la sua vita come prezzo di riscatto per molti”(Marco 10.45). Da questi elementi sgorga allora l’amore per il Padre nei confronti del Figlio che ha preso forma umana ed è importante non confondere Gesù uomo da quello glorificato, che al pari di Dio non ha nome, ma viene descritto come, salvi l’ “IO SONO”, “simile a un figlio d’uomo”nelle visioni profetiche dell’Antico e del Nuovo Patto.

 

“Dare” è un’azione che nel passo in esame si esplica attraverso tre punti, “do la mia vita”,“la do da me stesso”e “ho il potere di darla”che ci forniscono le credenziali del donatore. Il primo è un annuncio di quello che avverrà da lì a qualche mese, ma i restanti vanno più in profondità perché sottolineano la totale, libera volontà di chi la vita la offre e soprattutto rivelano che nessun altro avrebbe potuto fare così al suo posto.

Con “la do da me stesso”abbiamo l’indicazione del gesto assolutamente volontario che culminerà con la morte e quindi con l’immolazione di Gesù come Agnello, ma non possiamo ignorare il fatto che tutta la vita di Nostro Signore fu un donarsi, un “dare da me stesso”nel privato come nel pubblico, nel constatare i limiti che aveva come uomo in contrapposizione a quelli che non aveva come Dio, nel camminare, nel provare la fame, la sete, la stanchezza, nel sopportare i propri simili facendosi, appunto come abbiamo letto, servo. Credo che quando la perfezione di Dio si scontra con l’imperfezione dell’uomo, solo la carità proveniente direttamente la Lui e una ferrea volontà di salvare abbia potuto provocare il miracolo della sopportazione e dell’amore “fino alla fine”.

L’autore alla lettera agli Ebrei descriverà molto bene l’essenza umana di Gesù quando disse “Tuttavia quel Gesù, che fu fatto di poco inferiore agli angeli, lo vediamo coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto, perché per la grazia di Dio egli provasse la morte a vantaggio di tutti”(2.9), ma quel “di poco inferiore agli angeli”non significa che Nostro Signore fu, nella carne, a un livello intermedio fra l’uomo e Dio Padre, ma essere umano come gli altri. Ecco perché Gesù, quanto al suo essere uomo, era ed è di per sé un miracolo enorme.

Precisazione necessaria: il Salmo 8 citato in Ebrei 2.9 è un ringraziamento al Creatore per aver formato così l’uomo; “Davvero l’hai fatto poco meno di un dio, di gloria e di onore lo hai coronato. Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi: tutte le greggi e gli armenti e anche le bestie della campagna, gli uccelli del cielo e i pesci del mare, ogni essere che percorre le vie dei mari. O Signore, Signore nostro, quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra!” (vv. 6-10).

Ecco allora che il “la do da me stesso”racchiude tutta la volontarietà da un lato e la meraviglia dall’altro perché, se Gesù fosse stato costretto a fare ciò che ha fatto, nulla avrebbe avuto senso: sono i regni o i governi depravati della terra che si realizzano nell’oppressione, nell’obbligatorietà e nei vincoli, non certo Dio che pone semplicemente davanti all’uomo due vie, quella della benedizione o il suo esatto contrario lasciando a lui la scelta (Deuteronomio 30.15-20).

È importante questa sottolineatura poiché ogni azione che l’uomo compie, tanto sotto costrizione quanto di malavoglia, provoca l’effetto contrario. A volte dimentichiamo che la vita cristiana non può che manifestarsi attraverso un libero e gioioso donarsi senza pensare a un tornaconto personale perché “Tenete a mente che chi semina scarsamente, scarsamente raccoglierà. Ciascuno dia secondo a quanto ha deciso nel suo cuore, non con tristezza né per forza, perché Dio ama chi dona con gioia”(2 Corinti 9. 6,7). Ecco perché Nostro Signore dovette precisare che avrebbe donato spontaneamente la sua vita sotto l’aspetto non solo della morte, pur sapendo le sofferenze che avrebbe comportato.

La terza precisazione sul dono è “Ho il potere di darla”, strettamente connessa alla precedente: come già rilevato, dare la propria vita per qualcuno è un gesto che, pur ammirevole, altro non fa che rimandare la morte del beneficiato a meno che chi sacrifica la propria vita per un altro non abbia “il potere di”farlo, cioè andare oltre, rimediare, farsi garante per sempre. E questo nessun altro uomo avrebbe potuto farlo: sarebbe stato certo considerato positivamente perché “Nessuno ha amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici”(Giovanni 15.13), ma Gesù, che di dare la vita ne aveva “il potere”, lo fa perché solo così avrebbe potuto riscattare la sua creatura, quella con cui in Eden parlava e che nutriva anche lì, per quanto sotto diversa forma, donava di suo, cioè i frutti.

Credo che nessun uomo potesse definirsi più padrone della propria vita di Gesù, Signore di tutto. Eppure la donò liberamente per noi. Eppure non era obbligato a morire, ne aveva solo “il potere”che per definizione implica una scelta. E pensiamo anche a questo: a differenza di noi che abbiamo un appuntamento inevitabile – salvo che Lui non ritorni prima – con la morte, Nostro Signore poteva benissimo non fare quest’incontro, ma morendo dimostrò di condividere in tutto e per tutto, tranne che nel peccato, l’esistenza umana. Fino alla fine.

 

Ed è sul concetto di “potere” che possiamo passare al “riprendere”, “riprenderla di nuovo”, identico in tutti i due casi in cui compare. Chiaramente nessuno può riprendersi la propria vita a meno che non abbia “il potere di darla”nel senso che abbiamo visto poc’anzi. “Dare” e “riprendere”, allora, ci parlano della libertà che Dio ha di disporre della vita e della morte, quest’ultima non soggetta a lui perché conseguenza del peccato, o, come dice la Scrittura, suo “salario”. Tenendo in considerazione il potere di Gesù di deporre la sua vita e di riprenderla si può allora comprendere l’adempimento della promessa, criptica per loro, rivolta ai Giudei, “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere”(Giovanni 2.19) ed è bello considerare che il potere di riprendere la vita che ha donato è in realtà il frutto dell’impossibilità da parte della morte al trattenerlo perché “Ora Dio lo ha risuscitato, liberandolo dai dolori della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere”(Atti 2.24).

Ecco allora perché solo il Cristo può dire “Io sono il primo e l’ultimo, e il vivente. Ero morto, ma ecco sono vivo per i secoli dei secoli, e tengo le chiavi della morte e dell’Ades”(Apocalisse 1. 17,18).

 

Ora resta da esaminare l’ultimo verbo, “togliere”, visto nella pericope “Nessuno me la toglie”che ha connessione, come rilevato più volte, con l’impossibilità che avrebbero avuto gli uomini avversi a Gesù di fargli alcunché se non fosse stato loro permesso. In altri termini, quelli sottostarono alla Sua volontà anche nell’arrestarlo, processarlo, condannarlo e crocifiggerlo. Ricordiamo infatti tutti i tentativi andati a vuoto perché fosse “tolto di mezzo”prima del tempo stabilito tanto a Nazareth quanto a Gerusalemme. “Nessuno me la toglie”nel senso anche di “può togliermela” e molto avrebbero da meditare in proposito coloro che sostengono che Gesù non poteva essere Dio perché Dio non può morire, sofisma farisaico che non tiene conto, perché la rifiuta, della risurrezione dopo tre giorni.

 

Le ultime parole di Gesù nel nostro passo sono “Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio”, ma va sottolineato che la parola “entolé” significa anche “mandato”che pare più appropriata perché nulla lascia supporre, negli scritti dell’Antico e del Nuovo Patto, che il Figlio sia stato costretto a donarsi in sacrificio, senza contare il fatto che, come detto poco prima, l’adesione a Dio sia tutto tranne che frutto di costrizione.

Il “mandato” di Gesù credo piuttosto consistesse nella libertà del dare la vita e di riprenderla con tutto ciò che questo avrebbe comportato: ciò viene ufficializzato nel momento storico della morte e resurrezione, ma in realtà si trattava di qualcosa che Padre, Figlio e Spirito Santo avevano concordato assieme prima ancora di stabilire tutte quelle leggi che governeranno gli equilibri dell’Universo e la vita sulla terra.

Assieme a tutto questo, c’erano anche i nostri nomi secondo Efesi 1.4: “In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà”.

Gli ultimi due versi del nostro passo descrivono la reazione dei Giudei che iniziano a dividersi in due fazioni una delle quali, la minoranza, fu in grado di collegare il principio del “buon pastore”e alla vita che sarebbe stata data e ripresa al miracolo del cieco nato: “Queste parole non sono di un indemoniato– constatazione oggettiva, diagnosi alla luce della conoscenza biblica che avevano e di quanto constatavano personalmente –; può forse un demonio aprire gli occhi ai ciechi?”. C’era dunque chi aveva conservato memoria di quel miracolo, avvenuto certo da poco tempo, eppure prontamente, volutamente dimenticato dagli altri che accusarono Gesù di essere “indemoniato e fuori di sé”, la stessa accusa a lui rivolta dai “suoi” parenti, presumiamo madre e fratelli, in Marco 3.21.

* * * * *

 

12.37 – IL BUON PASTORE II/II (Giovanni 10.14-16)

12.37 – Il buon pastore II/II (Giovanni 10.14-16)  

 

14Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, 15così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. 16E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. 

 

Abbiamo qui la definizione di “buon pastore” che Gesù dà di sé per la seconda volta: dopo essersi qualificato come l’unico, contrapponendosi al “mercenario” che non “dà la vita per le sue pecore”, qui parla dell’identità reciproca che intercorre tra Lui e i suoi animali in un rapporto di uno a uno. Ricordando infatti alcuni versi che abbiamo letto in proposito, le “conosce per nome” (10.3), nome che riassume l’identità della persona, che le ha dato un giorno e le verrà rivelato nella Nuova Creazione: “Darò loro un nome eterno che non sarà mai cancellato” (Isaia 56.5) e Apocalisse 2.17 in cui alla Chiesa di Pergamo è detto “Al vincitore darò della manna nascosta e una pietruzza bianca, sulla quale sta scritto un nome nuovo, che nessuno conosce all’infuori di chi lo riceve”. Il “chiamare per nome” da parte di Gesù, quindi, è la rivelazione del piano che Dio ha per ciascun credente e della conoscenza perfetta che ha di lui, mentre la “pietruzza bianca”, nel mondo antico, era un’attestazione di innocenza, di vittoria nella gare di atletica e di benvenuto per gli ospiti.

Le pecore sono chiamate dal pastore “una per una”, cioè non si tratta di un gregge condotto al pascolo per dovere, ma per amore in cui ciascun animale ha un posto al suo interno che solo lui può occupare e in cui può esprimersi, trovare la ragione della sua esistenza, sostare nel territorio a lui assegnato.

Il riferimento a questi animali lo troviamo anche in Matteo e in Luca in cui Gesù parla del Suo intervento qualora una delle pecore si smarrisca: “Che cosa vi pare? Se un uomo ha cento pecore e una di loro si smarrisce, non lascerà le novantanove sui monti e andrà a cercare quella che si è smarrita? In verità io vi dico: se riesce a trovarla, si rallegrerà per quella più che per le novantanove che non si erano smarrite. Così è la volontà del Padre vostro che è nei cieli, che neanche uno di questi piccoli si perda” (Matteo 18.12-14). Luca, invece, pone l’accento su un aspetto diverso: “Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: «Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta». Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione” (15.4-7).

Di questi due passi sono da sottolineare i numeri, uno dell’incompletezza (99) e l’altro del compimento (100) per cui è impossibile che il gregge possa essere definito completo, che possa soddisfare le esigenze del pastore se risulta privo anche di un solo capo ed è lo stesso principio che abbiamo trovato nella parabola delle zizzanie, quando proibisce ai suoi servi di estirparle prima della mietitura perché, sradicandole, le radici intrecciate avrebbero coinvolto nello strappo ne piantine di grano.

Gesù poi è il pastore che “dà la vita per le proprie pecore”, punto su cui si incardina tutto il messaggio del Vangelo che altrimenti non sarebbe un “lieto annuncio” perché tutti noi saremmo inchiodati al nostro (o nostri) peccato/i. Se non si fosse concretato il Suo sacrificio, descritto da Isaia 53.6 con le parole “Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti”, non sarebbe mai cambiato nulla nella nostra vita. E un gregge sperduto non ha nessuna prospettiva né tantomeno possibilità di sopravvivenza, cadendo inevitabilmente vittima degli animali predatori (ricordiamo Davide, che per salvare il suo gregge combatté con un leone e un orso in 1 Samuele 17.34,35: “Ma Davide disse a Saul: «Il tuo servo pascolava il gregge di suo padre e veniva talvolta un leone o un orso a portar via una pecora dal gregge. Allora lo inseguivo, lo abbattevo e strappavo la pecora dalla sua bocca. Se si rivoltava contro di me, l’afferravo per le mascelle, l’abbattevo e lo uccidevo. Il tuo servo ha abbattuto il leone e l’orso”).

Versi significativi a proposito di Gesù che ha dato la propria vita ne abbiamo in Efesi 5.2, “Fatevi dunque imitatori di Dio, quali figli carissimi, e camminate nella carità, nel modo in cui anche Cristo ci ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore”, Tito 2.14, “Egli ha dato se stesso per noi, per riscattarsi da ogni iniquità e formare per sé un popolo puro che gli appartenga, pieno di zelo per le buone opere”. Solo quindi dando “se stesso per noi” avrebbe potuto “formare per sé un popolo puro” che gli appartenga, appunto il gregge.

E 1 Pietro 2.24 ribadisce il concetto: “Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia”.

 

Nel verso 14 del nostro passo, però, vediamo che il punto centrale è un altro, cioè “…così come il Padre conosce me ed io conosco il Padre”: in pratica, prima Gesù si dichiara come “il buon pastore”, poi parla del Suo rapporto col Padre e poi torna a parlare di sé, “do la vita per me mie pecore”. Abbiamo allora la descrizione della Sua posizione quale Unico Elemento, sulla terra e nei cieli, protagonista della rivelazione del Dio inaccessibile per cui c’è un “IO SONO” che ha creato il mondo, ciò che è in esso cioè dentro, sopra e sotto, e un “Io sono” fatto uomo che lo ha rivelato, Lui e nessun altro. Tutti coloro che sono venuti prima di Lui, hanno dato di Dio una versione limitata al loro tempo, funzionale per un piano che, nonostante la sua grandezza, era comunque limitato e dipendente da eventi successivi per la sua realizzazione; pensiamo ad esempio a Mosè che condusse il popolo fuori dall’Egitto, che diede la Legge, ma che non aprì le porte alla vastità enorme della Grazia come fece invece Gesù Cristo. E – va aggiunto – come solo Lui avrebbe potuto fare.

Ora qui Gesù mette sullo stesso piano la conoscenza che ha del Padre con quella che ha delle sue pecore e quindi si rinnova nella Sua funzione di Mediatore: “Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo” (Matteo 11.27). È quindi Lui tanto chi ha aperto la via al Padre quanto chi lo rivela. La sua funzione mediatrice quindi non si limita al perdóno dei peccati e al rendere compatibile l’uomo con Lui, ma al rivelarlo affinché il credente, prima ancorato alla terra e al peccato, possa conoscere i Suoi misteri. In pratica, per dare una rivelazione piena di Dio, era necessario che Lui stesso si facesse uomo e parlasse come la sua creatura, fatto ben diverso rispetto a quei momenti in cui veniva suscitato un profeta, uomo e quindi imperfetto, che null’altro poteva comunicare se non ciò che Dio gli ordinava di dire agli altri.

Ricordiamo Giovanni 1.18, “Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato”: quindi il Padre è portato al livello della nostra conoscenza nella persona del Figlio che è manifestazione della divinità. Infatti leggiamo “È in lui – Gesù Cristo – che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità, e voi partecipate alla pienezza di lui, che è il capo di ogni principato e di ogni Potenza” (Colossesi 2.9). L’importanza del Figlio di Dio, anche “dell’uomo” perché a lui si è abbassato, è tale per cui “Tutto egli ha messo sotto i suoi piedi e lo ha dato alla Chiesa come capo su tutte le cose: essa è il corpo di lui, la pienezza di colui che è il perfetto compimento di tutte le cose” (Efesi 1.22,23).

 

A questo punto, tornando ai nostri versi, il 15 apre uno sguardo su quei popoli che, non appartenenti a quello di Israele, vivevano esclusi dalla possibilità di conoscere il vero Dio: “E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore”. Qui Gesù tocca un “tasto spiacevole” per gli Ebrei, che rivendicavano la loro esclusiva appartenenza a Dio e di cui abbiamo testimonianza in molti passi: in Lui si realizzano le profezie più velate, come abbiamo letto nel secondo cantico del Servo, “È troppo poco che tu sia mio servo per restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti d’Israele. Io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la salvezza fino all’estremità della terra” (Isaia 49.6). Anche 60.2,3, “Poiché ecco, la tenebra ricopre la terra, nebbia fitta avvolge i popoli; ma su di te risplende il Signore, la sua gloria appare su di te. Cammineranno le genti alla tua luce, i re allo splendore del tuo sorgere”.

 

Gesù però, dando questa panoramica sul proprio ufficio di Pastore, dà anche un’anticipazione di quanto avverrà, perché precisa che le “altre pecore”, che non appartengono al “recinto” di Israele, “Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore”. In tal modo, un altro tassello al grande mosaico che è l’Opera perfetta di Dio per il ricupero dell’uomo caduto, verrà aggiunto.

Non credo vi sia modo migliore e più chiaro per concludere queste riflessioni con la citazione di Efesi 2.11-18: “Perciò – la salvezza per fede – ricordatevi che un tempo voi, pagani nella carne, chiamati – con disprezzo – non circoncisi da quelli che si dicono circoncisi perché resi tali nella carne per mano d’uomo, ricordatevi che in quel tempo eravate senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza di Israele, estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio nel mondo. Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate lontani, siete diventati vicini, grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che di due – popoli, ebrei e gentili – ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva, cioè l’inimicizia, per mezzo della sua carne. Così egli ha abolito la Legge – perché l’ha adempiuta perfettamente –, fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, eliminando in se stesso l’inimicizia. Egli è venuto ad annunciare pace a voi che eravate lontani – in quanto gentili – , e pace a coloro che erano vicini – in quanto popolo di Israele –. Per mezzo di lui infatti possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo spirito”. Amen.

* * * * *

 

12.36 – IL BUON PASTORE I/II (Giovanni 10.11-13)

12.36 – Il buon pastore I/II (Giovanni 10.11-13)       

 

11Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. 12Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; 13perché è un mercenario e non gli importa delle pecore. 

 

L’ “io sono” di Gesù è stato affrontato fin qui diverse volte, mai però quando vi aggiunge un complemento oggetto, particolare che nei Sinottici non troviamo. Complessivamente abbiamo nove definizioni, quindi tre per tre, viste nel

 

  1. “pane della vita”;
  2. “pane vivo disceso dal cielo”;
  3. “la luce del mondo”;
  4. “la porta delle pecore”;
  5. “la porta”;
  6. “il buon pastore”;
  7. “la resurrezione e la vita”;
  8. “la via, la verità e la vita”;
  9. “la vera vite”.

 

Ora, guardandole assieme, è facile individuare la perfezione degli interventi a favore di chi ha riposto il Lui la propria fede: abbiamo il nutrire (“pane della vita” e “pane vivo disceso dal cielo”), il guidare senza possibilità di errore (“la luce del mondo”, “il buon pastore”), ricoverare in un luogo sicuro (“la porta” e “la porta delle pecore”) e infine donare liberamente ciò che mai l’uomo avrebbe potuto acquistare coi suoi mezzi, cioè “la resurrezione e la vita” e “la via, la verità e la vita” che tutti cercano, purtroppo molti solo a parole. A tutte queste definizioni si aggiunge “la vera vite” che mantiene vivi i propri tralci destinati a far frutto (o a venire tagliati se non lo producono).

Gesù non è “un” pastore, ma “il” pastore al quale aggiunge l’aggettivo “buono” a sottintendere che non è come gli altri, ma quello ideale e appropriato, nel vero senso del termine, per la pecora. In greco “buono”, tradotto da “kalòs” riassume i significati di “bello, buono, nobile” mentre il suo contrario, “brutto” annovera in realtà anche i termini di “vile, malvagio”. Possiamo affermare che di “buon pastore” non ve ne possono essere altri perché portino come risultato la salvezza dell’uomo. Ricordiamo le sue parole “Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza”.

Gesù è “il” pastore che si occupa dei suoi animali interamente, amandoli a tal punto da dare la propria vita per loro perché non muoiano, cosa che senza il Suo sacrificio sarebbe certamente avvenuta perché con tutta la Sua predicazione, i miracoli e le potenti operazioni avrebbe soltanto dimostrato di essere il profeta più grande mai apparso sulla terra, ma saremmo rimasti assolutamente soli, senza possibilità di aggrapparci a Lui per avere riscatto.

Infatti Isaia scrive “Noi tutti eravamo sperduti come un gregge – senza pastore –, il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti” (53.6), talché “… camminate nella carità, nel modo in cui anche Cristo ci ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di odor soave”.

Il percorso finale di Gesù fu questo: “Egli ha dato se stesso per noi, per riscattarci da ogni iniquità e formare per sé un popolo puro che gli appartenga, pieno di zelo e di opere buone” (Tito 2.14) e, infine, “Egli portò i nostri peccati sul suo corpo sul legno della croce perché, non vivendo per il peccato, vivessimo per la giustizia. Dalle sue piaghe siamo stati guariti”.

Senza il Suo sacrificio Gesù non avrebbe potuto liberare nessuno da un’esistenza che, comunque la si guardi, è fatta di ben poche cose e soprattutto è destinata a finire perché “L’uomo, nato da donna, ha vita breve e piena d’inquietudine; come un fiore spunta e avvizzisce, fugge come l’ombra e mai si ferma” (Giobbe 14.1).

Proviamo a riflettere brevemente su questo verso: l’uomo ha “vita breve e piena d’inquietudine” e di questo purtroppo se ne rende conto quando, giunto avanti negli anni, fa un bilancio della propria esistenza ed è costretto a concludere che tutto il suo vissuto è trascorso quasi senza che se ne accorgesse. L’inquietudine che lo anima continuamente non è costituita solo dallo stress che accumula sul lavoro, per insoddisfazioni e tensioni varie a causa di incomprensioni col proprio simile, ma dalla ricerca di quiete che non riesce a trovare e, quando la raggiunge, è solo per poco tempo. Non riesce ad afferrarla che è già svanita. L’“inquietudine” è così tanto la preoccupazione quanto il tendere a qualcosa senza raggiungerlo, il soddisfare una sete che si ha dentro e si continua ad avvertire, come già detto alla Samaritana.

“Come un fiore spunta e avvizzisce” ci dà la descrizione della nascita, solitamente motivo di gioia perché una nuova vita rallegra chi la vede venire al mondo, ma all’immagine positiva e di bellezza del fiore si contrappone come una condanna l’ “avvizzisce”, processo che se uno vive abbastanza da vederlo è lento, ma inesorabile a tal punto che una persona anziana è costretta a rassegnarsi a vivere il meno peggio possibile, ma non bene come, forse, quando era giovane.

“Fugge come l’ombra e mai si ferma” è la descrizione delle nostre occupazioni, per lavoro o per svago non importa: siamo un’ombra costretta a muoversi seguendo un corpo che non conosce e che resta sempre un mistero. E l’ombra, incorporea, che assume forma solo quando c’è il sole o una fonte luminosa alternativa, non ha volontà né pensiero, sparisce non appena la luce si spegne o addirittura una semplice nuvola oscura il sole.

Quando poi dopo l’avvizzimento viene la morte, si conclude il percorso sulla terra, ma non è tutto così semplice perché il decesso non è solo il cessare del battito cardiaco, ma un punto fermo: non è più possibile tornare indietro, dire ciò che non si è detto o correggerlo, riparare a qualcosa o costruirlo e ciò avviene tanto per chi muore quanto per tutti coloro che resteranno in vita dopo di lui. La morte porta con sé l’irrimediabilità del tutto. Una fine che, come sappiamo, porterà un rendiconto quando ci troveremo dall’altra parte ed ecco perché nella nostra vita sulla terra Gesù è “Il buon pastore” che, al contrario di quello cattivo che citeremo brevemente, conosce le sue pecore “una per una” nel profondo, sa di cos’hanno bisogno, qual è il loro carattere, come prenderle, come usarle, cosa donare loro.

Il gregge è un organismo composto da elementi che non sanno orientarsi e possono cadere vittime di pastori iniqui oppure di altri soggetti, come preannunciò l’apostolo Paolo in Atti 20.29: “Io so che dopo la mia partenza – si trovava a Mileto – verranno tra voi lupi rapaci, che non risparmieranno il gregge; perfino in mezzo a voi sorgeranno alcuni a parlare di cose perverse, per attirare discepoli dietro di sé”, “discepoli”, quindi “pecore” che dipenderanno da loro e non più da Dio.

Ancora Pietro nella sua seconda lettera 2.1-3: “Ci sono stati anche falsi profeti fra il popolo, come pure ci saranno in mezzo a voi falsi maestri – cioè falsi pastori umani che “il buon pastore” ha lasciato a pascere il suo gregge in Sua assenza – i quali introdurranno fazioni che portano alla rovina – perché un regno diviso in due non può sussistere –, molti seguiranno la loro condotta immorale e per colpa loro la via della verità sarà coperta di disprezzo – pensiamo a quanti abbandoni ci sono nella Chiesa per gli scandali e le immoralità che avvengono in essa –. Nella loro cupidigia vi sfrutteranno con parole false, ma per loro la condanna è in atto ormai da tempo e la loro rovina non si fa attendere”.

Non così il vero credente, che ha avuto l’imprinting proprio dal “buon pastore” e che ne riconosce la voce e a Lui si affida e, nonostante tutte le negatività che si esprimono proprio là dove potrebbe trovare riposo; “Tuttavia le solide fondamenta gettate da Dio resistono e portano questo sigillo: Il Signore conosce quelli che sono suoi, e ancora: Si allontani dall’iniquità chiunque invoca il nome del Signore. In una casa grande però non vi sono soltanto vasi d’oro e d’argento, ma anche di legno e di argilla; alcuni per usi nobili, altri per usi spregevoli. Chi si manterrà puro da queste cose, sarà come un vaso nobile, santificato, utile al padrone di casa, pronto per ogni opera buona” (2 Timoteo 2.1-3).

C’è però una realtà e cioè che “il buon pastore”, che “dà la vita per le sue pecore”, svolge una funzione che non conosce fine: “Eravate erranti come pecore, ma ora siete stati ricondotti al pastore e custode delle vostre anime” (1 Pietro 2.25), quindi alla descrizione di questi animali disorientati e senza un dove, “eravate erranti”, ora c’è una situazione di stabilità e pace vista nelle parole “ricondotti”, “pastore e custode” e “vostre anime”. La “pecora di Gesù”, se lo seguirà sempre, non si smarrirà. Quando, perché comunque è dotata di volontà propria, vorrà fare di testa sua potrà perdersi per un tempo più o meno lungo, ma verrà sempre ritrovata. Il “custode” non usa metodi violenti per sottomettere i suoi animali, non li chiude in una prigione, “cammina davanti a loro”, ma non li percuote perché stiano compatte e unite: vuole che decidano, nel loro interesse, di stare con lui condividendone il cammino e il pascolo.

Veniamo ora al “mercenario”, altro personaggio indicativo: si tratta di una persona insensibile, pagata per fare un lavoro quindi non un altro pastore che può amare più o meno quegli animali. Il “mercenario” si muove per interesse, per lui conta solo venire pagato, possibilmente al meglio col minor sforzo; sa che non deve perdere delle pecore perché altrimenti il padrone si rivarrebbe su di lui per cui le cura, ma solo per non rimetterci ed è una figura differente dall’ “estraneo” che abbiamo trovato nei versi precedenti.

Il “mercenario” è figura di persone, ma anche di dottrine e filosofie che non possono che offrire una soluzione temporanea per poi dissolversi e pensiamo a quanti sono convinti di aver trovato la soluzione ai loro problemi praticando Yoga o altre forme di rilassamento e/o meditazione, frequentano circoli mistici o esoterici e, siccome ottengono risultati (temporanei), vi si dedicano con assiduità, ma quando “viene il lupo”? Il “mercenario” fugge perché non è più in grado di aiutare, offrire soluzioni, alternative a quella che è la meccanica della vita che inevitabilmente sfocia nella tribolazione, nel lutto e nella disperazione causata dalla rovina imminente o avvenuta. È la casa costruita sulla sabbia che altro non può fare se non distruggersi.

Il “mercenario, che non è un pastore e al quale le pecore non gli appartengono” si rivela così per quello che è: un palliativo, un individuo non idoneo, incompetente, alternativo di un nulla. Costui “abbandona le pecore e fugge” non perché trova la sua soddisfazione nella rovina del gregge, ma perché pensa a se stesso, si preoccupa di salvarsi a fronte del pericolo e nulla gli importa se degli innocenti muoiono: “è un mercenario e non gli importa delle pecore”, è così e basta, non gli importava prima, né tantomeno quando giunge un predatore che, paradossalmente, gli dà solo una giustificazione per non agire: “le pecore non sono mie, chi me lo fa fare?”.

Credo che ogni cristiano sincero sia scampato e scamperà sempre dal “mercenario” perché con lui incompatibile: “le pecore ascoltano” la voce del pastore e un estraneo non lo seguiranno. E infatti, il verso 14 col quale apriremo il prossimo capitolo, così riporta: “Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me”. Amen.

* * * * *

 

12.35 – LA PORTA DELLE PECORE (Giovanni 10.7-10)

12.35 – La porta delle pecore (Giovanni 10.7-10)  

 

7Allora Gesù disse loro di nuovo: «In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore. 8Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. 9Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo. 10Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza.

 

“La porta delle pecore” è la nuova definizione che Gesù da di sé, oltre a quella di “pastore”: c’è un “recinto” che è quello per il popolo di Dio destinato ad accogliere le pecore condotte da Uno che, oltre a portarle al pascolo, è anche la “porta”, cioè l’unico passaggio possibile per entrare ed essere incluso nel gregge.  Gesù quindi, come “porta”, fa entrare nell’ovile e riconosce solo ciò che è Suo e, se è possibile che alcuni passino con l’inganno in quello terreno, la Chiesa, così non avviene nell’ovile spirituale perché occorre possedere la sola qualità necessaria, quella di essere veri figli di Dio. Ricordiamo Luca 13.25: “Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: «Signore, aprici!». Ma egli vi risponderà: «Non so di dove siete»”.

Se la “porta” al verso 2, “chi invece entra dalla porta, è il pastore delle pecore”, sembra solo uno strumento, nel settimo (la porta) abbiamo l’identificazione in Gesù che assolve la duplice funzione protettiva e di filtro. La porta infatti è figura di ciò che divide un ambiente, un territorio e, nel nostro caso, un mondo da un altro, sta a segnalare una proprietà privata.

Ricordiamo alcuni passi significativi in proposito, ad esempio in Genesi 4.6,7 in cui la “porta” viene citata per la prima volta nella Scrittura: “Il Signore disse allora a Caino: «Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto? Se agisci bene, non dovresti forse tenerlo alto? Ma, se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, e tu lo dominerai”. Quindi anche l’uomo ha una porta che può essere aperta o chiusa ed è quella del cuore, più o meno permeabile alla Parola di Dio. Sta alla persona scegliere a chi aprire, perché il nostro cuore e la nostra mente sono paragonate a una casa che è inevitabile sia abitata da qualcuno, in particolare da uno spirito immondo o dallo Spirito Santo, come leggiamo in Matteo 12.43-45: “Quando lo spirito impuro esce dall’uomo – perché scacciato da Gesù – si aggira per luoghi deserti cercando sollievo, ma non ne trova – perché ha bisogno di abitare un corpo –. Allora dice: «Ritornerò nella mia casa, da cui sono uscito». E, venuto, la trova vuota, spazzata e adorna – quindi non abitata da altri –. Allora va, prende con sé altri sette spiriti peggiori di lui, vi entrano e vi prendono dimora; e l’ultima condizione di quell’uomo diventa peggiore della prima”.

Se ci pensiamo, sembra di leggere purtroppo una delle cronache della società di oggi, quando un gruppo di persone approfitta dell’assenza del proprietario di una casa per entrarvi e prendervi dimora. Quando Gesù libera una persona, questa deve accoglierlo, “aprirgli la porta” davvero e non dietro un impulso sentimentale, carnale, “mistico”, perché altrimenti sarà inutile e conoscerà una condizione peggiore di quella di prima. Non credo sia un caso se Caino meditò l’omicidio del fratello proprio dopo aver sentito Iddio parlargli nel modo che abbiamo riportato.

Collegato a cosa implichi per l’uomo aprire la porta è Apocalisse 3.20 “Ecco, io sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce – chiara, riconoscibile, unica – e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me”. Notiamo che si parla di cenare, non di pranzare, per cui chi apre la porta a Nostro Signore lascia fuori il buio della sera, si rinfranca da una giornata di lavoro e a lei segue il riposo. Il pranzo invece è una pausa, un intervallo che, per quanto possa essere piacevole, comporta altre implicazioni. Raramente è intimo come la cena e, se ci pensiamo, possiamo pranzare con chiunque, ma non così è per il pasto serale.

Altro riferimento alla “porta”  lo troviamo in 4.1 con significato totalmente diverso: “Poi vidi: ecco, una porta era aperta nel cielo. La voce, che avevo udito parlarmi prima come una tromba, diceva: «Sali qua, e ti mostrerò le cose che devono accadere in seguito»”. Restando strettamente aderenti al testo, la “porta aperta nel cielo” è l’ingresso riservato a Giovanni perché possa fedelmente riportare ed annunziare “le cose che devono accadere in breve tempo”. Qui “la porta” è uno strumento e un segno della libera volontà del Figlio, “Colui che ha la chiave di Davide: quando egli apre, nessuno chiude e quando chiude nessuno apre”, o “può aprire” secondo un’altra traduzione. Vediamo poi che alla visione della “porta aperta nel cielo” segue un invito che di quell’apertura è la spiegazione: le rivelazioni di Dio non sono mai fine a loro stesse, non avvengono per soddisfare una curiosità personale, ma perché vengano comunicate ad altri, come scrisse l’apostolo Paolo in 2 Timoteo 2.1,2, “Tu dunque, figlio mio, attingi sempre forza nella grazia che è in Cristo Gesù e le cose che hai udito da me in presenza di molti testimoni, trasmettile a persone fidate, le quali siano in grado di ammaestrare a loro volt anche altri”. La “porta”, allora, qui è anche passaggio, testimonianza, verità che si trasmette a chi è in grado di accoglierla.

Abbiamo poi da considerare “le porte”, quelle della Gerusalemme celeste: “La città non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello. Le nazioni cammineranno alla sua luce e i re della terra a lei porteranno la loro magnificenza. Le sue porte non si chiuderanno mai durante il giorno, poiché non vi sarà più notte. E porteranno a lei la gloria e l’onore delle nazioni. Non entrerà in essa nulla d’impuro, né chi commette abominio o falsità, ma solo quelli che sono scritti nel libro della vita dell’Agnello” (21.22-27). Finirà quindi il tempo in cui convivere con gli ignoranti e i peccatori, con i contaminati, la difesa estenuante dai loro tentativi di infiltrazione morale e spirituale negativa. Nella Nuova Gerusalemme, a differenza delle città antiche, non ci saranno mendicanti alle sue porte.

Altra citazione delle “porte” è in 22.12-15 e credo non abbia bisogno di commenti: “Ecco, io verrò presto e porterò con me il mio salario, per rendere a ciascuno secondo le sue opere. Io sono l’Alfa e l’Omega, il Primo e l’Ultimo, il principio e la fine. Beati coloro che lavano le loro vesti: avranno parte all’albero della vita e potranno entrare per le porte nella città. Fuori i cani, i fattucchieri, gli immorali, gli omicidi, gli idolatri e chiunque ama e pratica la menzogna!”.

Infine, e forse a qualcuno era già venuto in mente citando le “porte”, abbiamo la promessa di Gesù sulla Chiesa, quando disse a Pietro “su questa pietra – secondo la quale Lui è il Cristo, il Figlio dell’Iddio vivente – edificherò la mia Chiesa e le porte dell’Ade non la potranno vincere” (Matteo 16.28), quelle porte sempre aperte dopo la via larga e spaziosa che porta alla perdizione, alla fine di una strada in discesa.

A questo punto restano da esaminare le altre parole di Gesù, che confermano come Israele sia stato fino ad allora l’ovile di Dio, per quanto fosse necessario intervenire  data la confusione operata dall’Avversario: “Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti”. Certo qui il riferimento non è ai profeti, ma a tutti coloro che hanno avuto la pretesa di trasmettere elementi dottrinali non secondo Dio, come gli scribi e farisei disonesti, cioè la maggior parte, ma anche gli pseudo Messia che ogni tanto sorgevano.

Mosè e i profeti possedevano il mandato per operare secondo i voleri di Dio, ma i Giudei certamente no: la religione, con la sua assenza di verità, porta con sé tutto tranne che veri conduttori spirituali; piuttosto, ha maestri rapaci, superstiziosi, ipocriti e pieni d’orgoglio. La religione, infatti, soddisfa quella parte carnale che vorrebbe godere di spiritualità senza rinunciare alle proprie abitudini. Certo, succede anche nella Chiesa perché altrimenti essa sarebbe un campo senza zizzania. Il “prima di me” sta allora a sottintendere che solo Lui poteva essere il portatore del messaggio perfetto; il resto non era altro che scoria perché, a fronte del fallimento dei pastori che avevano disperso il gregge, “Radunerò io stesso il resto delle mie pecore da tutte le regioni dove le ho lasciate scacciare e le farò tornare ai loro pascoli, saranno feconde e moltiplicheranno” (Geremia 23.3).

Però, anche se era ancora attiva la dispensazione della Legge, “le pecore non li hanno ascoltati”, cioè non hanno aderito ai loro sistemi oppure se ne sono/sarebbero estraniati. Ancora, l’ “ascoltàti” significa non diventare discepoli immedesimandosi in tali persone e qui vediamo anche l’opera di Dio che li preservava, qui descritto con l’istinto della pecora che le impedisce di seguire chi non è il suo pastore. Abbiamo poi “ladri e briganti”, stesse parole dette poco sopra al verso 1, “chi non entra nel recinto delle pecore per la porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante” e, secondo l’aggiornamento qui dato, non c’è altra porta se non Gesù Cristo.

Ora “Se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo” (v.9): il “se”, come abbiamo visto tante volte, è la sola condizione per entrare nell’ovile ed implica l’accettazione del Suo sacrificio visto nella preposizione “attraverso” che implica un passaggio, è un rafforzativo dell’entrare, è per noi un percorso che implica una resa, un abbandono di tutto quello che è di ostacolo, gonfio di inutilità. E qui il rimando alla “porta stretta” e al “cammello” che passa per “la cruna di un ago” è evidente e confluisce nello stesso concetto.

C’è da sottolineare ora “entrerà e uscirà” che potrebbe suggerire il fatto che la pecora, una volta nell’ovile, abbia la libertà di gestire il suo tempo come meglio crede, cosa impossibile perché sappiamo che si tratta di un animale che ha sempre bisogno di essere guidato. Piuttosto “entrare e uscire” è un’espressione usata nella Scrittura per descrivere un corso abituale di vita o il libero uso di una dimora, un entrare e uscire a piacimento come uno fa in casa propria, quindi ha riferimento con la libertà di cui gode il vero cristiano non soggetto a precetti se non quello dell’amore per il suo Signore che porta automaticamente ad uno stile di vita consono alla Scrittura.

La libertà qui descritta non è un vivere anarchico, ma senza la soggezione di quegli elementi del mondo materiale che si manifestavano prima: ora, senza più quel peso, il risultato è “troverà pascolo”, quello vero.

Infine, Gesù si preoccupa di stabilire la differenza fra Lui e gli altri venuti prima, già definiti “ladri e briganti”: “Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita, e l’abbiano in abbondanza” (v.10). Notiamo i tre verbi che contemplano il furto, l’omicidio e la distruzione, tutte caratteristiche piene dell’Avversario che da queste trae il suo nutrimento temporaneo. Il furto equivale al rapimento di cui abbiamo parlato nello scorso studio: il bene una volta appartenuto a una persona non si trova più, ma qui si tratta di un furto a Dio. Lo stesso omicidio poi, privazione della vita tramite la violenza, implica l’assoluta impossibilità di rapporto tra le persone. Nel caso specifico, fu ucciso Abele – primo, inevitabile rimando – e tutti coloro citati da Gesù in Matteo 23.37, “Gerusalemme, Gerusalemme, tu che uccidi i profeti e quelli che sono stati mandati a te, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le sue ali, ma non avete voluto!”. Certo, ne seguiranno da quel momento tanti altri.

“Distruggere” è infine l’ultimo verbo e significa “abbattere, disfare qualcosa in modo da renderlo definitivamente inutilizzabile o da cancellarne perfino al traccia, sterminare, annientare”, quello che Satana voleva fare in Eden e vi riuscì in parte, non tenendo conto che Dio è sì Giudice, ma anche Amore per cui avrebbe recuperato la Sua creatura.

A questi verbi ne contrastano altrettanti: “sono venuto”, cioè mi sono fatto uomo, ho rinunciato a ciò che era mio nell’alto dei cieli per scendere e operare fino al sacrificio estremo. “Perché abbiano la vita”, quella che procede da me, la potenza che rese possibile all’uomo diventare “anima vivente” e che ora lo recupera strappandolo al “presente, malvagio secolo” di buio, freddo e morte. “E l’abbiano in abbondanza”, quindi una vita assolutamente piena in cui nulla manchi, come aveva già capito e sperimentato Davide quando scrisse il Salmo 23 di cui cito il primo verso: “Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla”.

Nelle parole di Gesù, però, si parla della vita spirituale prima impossibile e del fatto che non è venuto sulla terra per salvare nel senso di dare una sorta di tesserino di appartenenza, ma perché questa “vita” sia perfetta, abbondante perché solo così il peccato avrebbe potuto definirsi sconfitto secondo Romani 5.20: “…dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia. Di modo che, come regnò il peccato nella morte, così regni anche la grazia mediante la giustizia per la vita eterna, per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore”. Amen.

* * * * *

 

12.34 – IL PASTORE DELLE PECORE (Giovanni 10.1-6)

12.34 – Il pastore delle pecore (Giovanni 10.1-6)   

 

1 «In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. 2Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore. 3Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. 4E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. 5Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei». 6Gesù disse loro questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlava loro.

 

Il capitolo decimo si apre con questo discorso di Gesù, l’ultimo a Gerusalemme prima di lasciarla intraprendendo il viaggio missionario che verrà riportato da Luca, portandosi nei dintorni della città e nella regione di Betania. Le parole che abbiamo letto vengono subito dopo la netta distinzione fra “coloro che non vedono” destinati a ricuperare la vista a seguito di un Suo intervento, e “quelli che vedono” affinché “diventino ciechi”.

Tutta la prima parte del capitolo 10, da 1 a 21 che suggerisco di leggere per avere una panoramica dell’intero discorso, è dedicata al tema del pastore contrapposto ad altre figure come il “ladro o un brigante”, “il guardiano”, “un estraneo”, “tutti quelli venuti prima di me”, “il mercenario”, “la porta delle pecore”, “le altre pecore che non provengono da questo recinto”, che andranno analizzate.

Gesù fa questo discorso ai farisei presenti, ma anche difronte ad altri testimoni, quelli che lo seguivano perché attratti dalle Sue parole e soprattutto dalla guarigione poco prima avvenuta del cieco nato. Dobbiamo pensare che quel giorno si verificarono quattro eventi straordinari e cioè prima il miracolo, poi l’inchiesta del Sinedrio che si concluse con la scomunica del guarito dalla Congregazione di Israele e la sua annessione al gruppo dei discepoli, che non lasciarono certo indifferenti coloro che seguivano la “cronaca cittadina”. Difficile pensare che, fra i testimoni di questi fatti, vi fossero dei pettegoli; piuttosto quanto avvenuto non solo quel giorno, ma anche prima – pensiamo al paralitico di Betesda – aveva costretto le persone a interrogarsi con domande importanti, pensiamo a “Come può un peccatore compiere segni di questo genere?”, ai “molti credettero in lui”, a quelli che dicevano “È buono” contrapposti a quelli che sostenevano “No, inganna la gente” o alla frase “Il Cristo, quando verrà, compirà forse segni più grandi di quelli che ha fatto costui?”.

Ecco chi furono le persone, oltre ai farisei, che ascoltarono le parole di questo capitolo che sono precedute da due “In verità”, cioè “Amen”.

Proviamo ad esaminare a questo punto il verso 1, “Chi non entra dal recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro o un brigante”. Il “recinto delle pecore” costituiva il perimetro dell’ovile, costruzione quadrangolare cintata da un muro costituito da pietre in cima al quale si piazzavano dei rami spinosi tanto per impedire alle pecore di uscire, quanto per evitare l’ingresso di animali predatori. In ciascuno dei lati del quadrato vi era una porta che, nel caso di grandi greggi, era veniva aperta o chiusa dall’assistente del pastore, presente anche di notte.

L’ovile è quindi il recinto delimitato con cura e i farisei presenti, con la loro cultura, avrebbero immediatamente dovuto porre mente alle parole di due profeti al riguardo, Geremia 50.6 “Gregge di pecore sperdute era il mio popolo, i loro pastori le avevano sviate, le avevano fatte smarrire per i monti; esse andavano di monte in colle, avevano dimenticato il loro ovile” ed Ezechiele 34.16 che profetizzava l’opera di Nostro Signore come Dio: “Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita, fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia”. Qui è facile il raccordo alla parabola del “buon samaritano” che compie le medesime azioni nei confronti di un uomo caduto “nelle mani dei briganti”, figura presente anche qui assieme al “ladro”.

“Ladro e brigante” è una persona dedita professionalmente all’infrazione del comandamento “non ruberai”, ma anche “non ucciderai”. Ricordiamo alcuni passi per questa prima figura: “se un ladro viene sorpreso mentre sta facendo una breccia in un muro e viene colpito e muore, non vi è per lui vendetta di sangue. Ma se il sole si era già alzato su di lui, vi è per lui vendetta di sangue. Il ladro dovrà dare l’indennizzo: se non avrà di che pagare, sarà venduto in compenso dell’oggetto rubato” (Esodo 22.1,2); “Quando un uomo dà in custodia al suo prossimo denaro od oggetti e poi nella casa di costui viene commesso un furto, se si trova il ladro, quest’ultimo restituirà il doppio”; infine Deuteronomio 24.7 dove abbiamo il ladro nella sua massima forza negativa: “Quando si troverà un uomo che abbia rapito qualcuno dei suoi fratelli tra gli Israeliti, l’abbia sfruttato come schiavo o l’abbia venduto, quel ladro sarà messo a morte. Così estirperai il male in mezzo a te”.

Il “brigante”, invece, è per definizione una persona armata che assale la gente in aperta campagna, approfittando del fatto che, in una zona isolata, non è possibile alcuna difesa. Tanto il ladro che il brigante, come nella parabola citata, non hanno nessuna pietà ed esistono solo per la rovina altrui. Eppure, secondo l’opinione di Ben Sira, “Meglio un ladro che un mentitore abituale” (Siracide 20.25), tutte comunque figure riferite all’Avversario e ai suoi angeli, cioè tutti coloro che si rendono suoi strumenti.

“Chi vi sale da un’altra parte”, tornando al testo, lo fa perché spera di passare inosservato agli occhi del portinaio e certo non “entra per la porta”, la più sorvegliata. Certo il “ladro e brigante” non agisce di giorno, confidando nel fatto che proprio di notte sia più facile che il custode dell’ovile possa addormentarsi.

Il “portinaio”, quattro nei grandi recinti cioè uno per varco, è figura della rimozione di qualsiasi ostacolo alla dottrina della salvezza per grazia, totalmente chiusa a coloro che non riconoscono Gesù Cristo ed il fatto che i portinai fossero dislocati ai punti cardinali, questo è indice di custodia e inattaccabilità, inaccessibilità da parte di estranei. Si tratta quindi di un incarico di responsabilità, come per i pastori umani individuabili in Marco 13.32,37: “Quanto però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo, né il Figlio, eccetto il Padre – perché è lui l’artefice della creazione e del recupero della Sua creatura dopo la caduta –. Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento. È come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portinaio di vegliare. Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino, fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati. Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!”.

È fondamentale quindi che il compito di “portinaio” venga svolto con fedeltà e rigore perché si tratta di un ufficio conferito direttamente da Dio che ci rimanda ai Cherubini posti a salvaguardia della via di Eden quando leggiamo che “Il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden perché lavorasse il suolo da cui era stato tratto. Scacciò l’uomo e pose a oriente del giardino di Eden i cherubini e la fiamma della spada guizzante, per custodire la via dell’albero della vita” (Genesi 3.23,24). Eden come territorio fisico perfetto, assoluto e spirituale contrassegnato dalla presenza di Dio esiste quindi ancora, ma in quanto tale è irraggiungibile dall’essere umano avendo la creatura perduto tutte le caratteristiche che aveva nel momento in cui fu formato. La “polvere della terra” col quale era stato plasmato era solo una sorta di “ingrediente base”, ma il suo essere divenuto “anima vivente”, perfetto a tal punto da vedere Dio senza subire la morte, è ormai da tempo un fatto remoto.

I Cherubini sono quindi la figura perfetta del portinaio: svolgono la loro opera incessante così come incessante dev’essere la veglia ricordata da Gesù e conosciamo bene la parabola delle dieci vergini e delle cinque di loro che si addormentarono dando prova di non avere onorato il compito loro affidato: dovevano organizzarsi in modo tale da non rimanere senza olio, oltre a non  addormentarsi.

Tornando al nostro testo, dopo queste prime tre figure, il ladro, il brigante e il portinaio, Nostro Signore dedica a lui il rimanente spazio: “il pastore delle pecore entra dalla porta”, è il padrone del gregge, tutte le sue azioni sono improntate alla chiarezza e alla logica della circostanza; “chiama le pecore per nome”, altro riferimento proprio a Mosè che doveva essere colto da coloro che si avevano detto “Noi siamo discepoli di Mosè”: “Mosè disse al Signore: «Vedi, tu mi ordini: «Fa’ salire questo popolo», ma non mi hai indicato chi manderai con me; eppure hai detto «Ti ho conosciuto per nome, anzi hai trovato grazia ai miei occhi»” (Esodo 33.12).

Chiamare “le pecore per nome”, a parte i riferimenti al gregge naturale perché così avviene in quel contesto, si riferisce alla conoscenza che ha il pastore dei suoi animali, della loro natura e fragilità più volte sottolineata in questi scritti, ma soprattutto ha a che fare con il nostro nome, “scritto nel libro della vita”: il credente è stato infatti chiamato da Gesù “per nome”, quello scritto “fin dalla fondazione del mondo” senza conoscerlo, ed ha risposto.

Il pastore conduce fuori al pascolo le sue pecore che, sentendo la sua voce, sanno di essere al sicuro. Viene chiamato così in causa l’udito spirituale, quello che è al tempo stesso naturale e richiede attenzione, quella necessaria per non fraintenderne il timbro: “Un estraneo non lo seguiranno”. Quindi “le chiama per nome, le conduce fuori” e “va davanti a loro”, azioni che attestano la reciprocità perché le pecore appartengono al pastore come lui al gregge e in quell’ andare “davanti a loro” è un chiaro riferimento a 1 Pietro 2.21 che recita “Cristo patì per noi, lasciandoci un esempio, perché ne seguiamo le orme”.

Poi abbiamo il non seguire “l’estraneo”, cioè chi non parla come lui, ha una voce diversa. Anche se costui le chiamasse, non gli darebbero retta. L’apostolo Paolo, scrivendo ai Galati, li esorta allo stesso udito spirituale e alla cautela di fronte a qualsiasi messaggio, soprattutto quello che simula una verità che è ben lungi da possedere: “Ma se anche noi stessi, oppure un angelo dai cielo vi annunciasse un vangelo diverso da quello che vi abbiamo annunciato, sia anàtema! L’abbiamo già detto e ora lo ripeto: se qualcuno vi annuncia un vangelo diverso da quello che avete ricevuto, sia anàtema!” (1.8,9). Paolo scrive queste parole perché i membri di quella comunità erano rimasti turbati, e alcuni di loro si erano convinti, a fronte della predicazione di alcuni giudei cristiani, che la salvezza richiedeva l’osservanza della Legge di Mosè. Possiamo capire quanto fosse preoccupato perché la Galazia comprendeva quelle città in cui aveva predicato e fondato delle Chiese, come Licaonia, Iconio, Listra, Derba e Antiochia di Pisidia.

Infine abbiamo il verso 6, “Gesù disse loro questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlava loro”: questi “essi” sono chiaramente i Suoi avversari, che nonostante gli esempi contenuti nei profeti in Ezechiele 34 e Zaccaria 11, per non parlare dei passi in cui il Messia viene presentato come il pastore supremo, non capirono, ancora prigionieri del loro ragionamento che respingeva qualsiasi collegamento spirituale. Non avevano capacità di astrazione e di armonizzare i testi a loro disposizione che era impossibile non avessero studiato. Piuttosto si avveravano le parole di Zaccaria 11.9: “Non sarò più il vostro pastore. Chi vuole morire muoia, chi vuole perire persica, quelle che rimangono si divorino pure fra loro”.

La stessa cosa avviene anche oggi sia per gli eredi dei farisei che per tutti coloro che vorrebbero capire il Vangelo e il messaggio cristiano a patto che venga filtrato, più che dai loro gusti, dalle loro esigenze personali. Ma, se una persona “non è delle mie pecore”, non potranno mai venirne a capo. Amen.

* * * * *

 

12.33 – IL CIECO NATO VI/VI (Giovanni 9.35-38)

12.33 – Il cieco nato VI (Giovanni 9.35-38)         

35Gesù seppe che l’avevano cacciato fuori; quando lo trovò, gli disse: «Tu, credi nel Figlio dell’uomo?». 36Egli rispose: «E chi è, Signore, perché io creda in lui?». 37Gli disse Gesù: «Lo hai visto: è colui che parla con te». 38Ed egli disse: «Credo, Signore!». E si prostrò dinanzi a lui. 39Gesù allora disse: «È per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi». 40Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero: «Siamo ciechi anche noi?». 41Gesù rispose loro: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: «Noi vediamo», il vostro peccato rimane».

Secondo un metodo ormai collaudato individuiamo i due verbi che caratterizzano la prima parte del verso 35, “seppe” e “trovò”, che indicano l’onniscienza di Gesù che non si limita all’acquisizione di  un dato, ma a reagire positivamente nei confronti della creatura che lo cerca. Possiamo dire che l’uomo da Lui guarito fu provato attraverso tre passaggi: primo, il non opporre resistenza al suo operare quando gli applicò l’impasto di fango sugli occhi; secondo, recarsi alla piscina di Siloe e lavarsi, azione che solo la fede o un forte senso di disponibilità poteva produrre, e infine il terzo, quello più difficile, sostenere l’inchiesta–processo imbastito dal Sinedrio. La condotta dei cieco guarito fu sempre nitida, potremmo dire esemplare, senza lasciarsi influenzare dall’autorevolezza umana dei componenti di quell’organo inquirente e giudicante. Un vile o un codardo avrebbe sicuramente inventato qualcosa pur di non subire le conseguenze del venire “cacciato fuori” da quell’aula: la vita l’aveva infatti recuperata a prescindere, cos’altro avrebbe potuto succedergli? Ricordiamo ad esempio l’episodio in cui furono guariti dieci lebbrosi (Luca 17.11-19), quando solo uno tornò a ringraziare Nostro Signore che disse “Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove, dove sono?”.

A modo suo, il cieco nato aveva difeso tanto Gesù, attribuendo solo a Lui la guarigione, quanto la verità del miracolo: aveva solo detto il vero, abbiamo detto “senza aggiungere né togliere” incurante delle azioni ritorsive del Sinedrio. Possiamo dire che fece tutto ciò che poteva per rendere una testimonianza piena e fedele. Il “seppe” di Nostro Signore implica questo e non il venire a sapere dagli altri che era stato estromesso dalla Congregazione di Israele. Il “sapere” di Gesù va individuato nella frase detta a Mosè in Esodo 3.7, “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze”.

Il “sapere” di Gesù implica il riconoscere chi gli appartiene fra i tanti come nella parabola delle dieci vergini quando cinque di loro, gridando alla porta chiusa “Signore, Signore, aprici!” si sentirono rispondere “In verità vi dico: non vi conosco” ed è impossibile non citare le lettere alle sette Chiese di Apocalisse, ciascuna delle quali inizia con “conosco”: “le tue opere, la tua fatica e la tua perseveranza” (Efeso), “la tua tribolazione, la tua povertà” (Smirne), “che abiti dove Satana ha il suo trono” (Pergamo), “le tue opere, la carità e la fede, il servizio e la costanza e so che le tue opere sono migliori delle prime” (Tiàtira), “le tue opere, ti si crede vivo, e sei morto” (Sardi), “le tue opere” (Filadelfia), “le tue opere, tu non se né freddo, né caldo” (Laodicea). Notiamo la conoscenza di Gesù non si limita ai fatti, ma soprattutto a ciò che è all’origine delle scelte delle Chiese, quindi le motivazioni più recondite.

Il “sapere di Gesù” quindi è lo stesso, come Lui, “di ieri, di oggi e di sempre” (Ebrei 13.8) attraverso i secoli e i millenni, “sa” e “trova” chiunque provvedendo a lui in salvezza o in giudizio: “Anche se penetrano negli inferi, di là li strapperà la mia mano; se salgono al cielo, di là li tirerò giù; se si nascondono in vetta al Carmelo, di là li scoverò e li prenderò; se si occultano al mio sguardo in fondo al mare, là comanderò al serpente di morderli; se vanno in schiavitù davanti ai loro nemici, là comanderò alla spada di ucciderli” (Amos 9.2-4) per non parlare del monito in Geremia 49.16: “Anche se come l’aquila ponessi in alto il tuo nido, di lassù ti farò precipitare”. Ecco l’ambivalenza del “trovare” di Dio, che nel nostro episodio è di luce, consolazione e libertà.

C’è un altro verbo che caratterizza il nostro passo ed è: “disse”. Gesù, quando parla a un uomo, lo onora sempre indipendentemente dal fatto che accolga o meno ciò che dice e la Sua parola, come in Isaia 55.10,11 non torna indietro a vuoto: “Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia seme al seminatore e pane da mangiare, così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata”. E qui, per l’episodio in esame, la Parola non tornò indietro né per il cieco, né per i farisei perché comunque diede un risultato positivo per uno e negativo per gli altri. E anche nel gruppo di ostili, aveva dato comunque un frutto perché sappiamo che “alcuni dei farisei credevano in lui”.

Inoltre, il “dire” di Gesù porta sempre una nuova realtà, una nuova visione e conoscenza: non ha mai parlato a un uomo senza stravolgerne l’esistenza in bene, quando Lo ha accolto. E qui lo scopo di Nostro Signore è quello di farsi conoscere come rileviamo dalla domanda posta: “Credi nel Figlio dell’uomo?” che il cieco guarito non sapeva chi fosse. Nostro Signore qui intervenne chiedendo una risposta che quell’uomo non sapeva dare ed è un espediente da Lui spesso utilizzato per portare la persona a verità sconosciute e altrimenti irraggiungibili senza il Suo aiuto, per noi oggi dello Spirito Santo. Va rilevato che “Figlio dell’uomo” compare in alcuni codici, mentre più usato è “Figlio di Dio”, quindi Gesù vuole qui rivelarsi nella Sua identità superiore e nel proprio ruolo di Signore e liberatore. Il cieco lo aveva pubblicamente riconosciuto come “Profeta”, ma non bastava, alla luce della conoscenza, perché altrimenti quel termine avrebbe implicato che dopo di lui dovesse arrivarne un altro. Chi gli stava davanti era prima il “Figlio di Dio”, poi il “Figlio dell’uomo”.

La risposta che Gesù ebbe conferma la semplicità, e al tempo stesso la serietà, dell’innominato che non si limita a chiedere chi fosse questo “Figlio di Dio”, ma precisa “…perché io creda in lui?”: era consapevole di non parlare con una persona qualunque, ma con chi lo aveva guarito, avendolo riconosciuto senza alcun dubbio dalla voce. Nel suo buio, prima Lo aveva sentito parlare e, nella luce della vista recuperata, poteva ora osservarne il volto, quello che purtroppo noi non abbiamo visto, ma che vedremo “come il sole quando splende con tutta la sua forza” (Apocalisse 1.13) non più soggetti al nostro corpo di carne sempre pronto a umiliarci.

“E chi è il Figlio di Dio, perché io creda in lui?” rivela che quell’uomo non aspettasse altro che capire chi fosse nei dettagli Colui che lo aveva guarito. “Il Figlio di Dio” era qualcosa di ben superiore al “Profeta” che sapeva lo aveva guarito e per questo vengono chieste delucidazioni per poter “credere in lui”. E sono convinto che qui il “credere” è usato con un significato che va ben oltre al ritenere reale una persona, ma per identificarsi in lei nelle modalità consentite ad una creatura inferiore al creatore. “Lo hai visto, è quello che parla con te”: basta poco per riconoscerlo. Gesù, come Via, Verità e Vita è sempre davanti all’essere umano, solo che non sa riconoscerlo. Siamo da lui circondati, eppure a volte non lo vediamo così come a volte reagiamo con la nostra umanità e non con lo Spirito che ci è stato dato.

Il cieco aveva recuperato la vista e in Gesù vedeva un uomo come lui, ma saputo chi fosse, “il Figlio di Dio”, prontamente rispose “Io credo, Signore” e subito Giovanni aggiunge “e l’adorò”, quindi una testimonianza a parole supportata dall’unico atto in quel momento possibile visto nell’adorazione, cioè nel prostrarsi a terra che il nostro evangelista utilizza sempre e solo per indicare l’adorare. E il nostro episodio si chiude così perché è questo il fine di ogni creatura. L’adorazione del cieco nato fu quindi al tempo stesso punto di arrivo per quanto riguardava la sua esistenza trascorsa, ma punto di partenza per la nuova: cacciato dal Sinedrio, quindi scomunicato, sono convinto che divenne un discepolo attivo di Gesù perché, avendo testimoniato di Lui, non avrebbe potuto avere la stessa forza che avrebbe avuto all’interno del gruppo dei discepoli cui desiderava unirsi (ricordiamo la frase “volete diventare anche voi suoi discepoli?”). L’ignoto cieco fu così guarito e riscattato completamente perché recuperò la vista e la dignità, vale a dire non avrebbe più mendicato, termine quest’ultimo riferito al dipendere da altri non solo per il proprio sostentamento materiale, ma anche moralmente, cercando quella solidarietà e comprensione che gli altri danno solo a parole o, nel migliore dei casi, a modo loro. Il nostro personaggio, quindi, ebbe una vita nuova nel corpo, nella mente e nello spirito.

Veniamo così al termine: Gesù, soprattutto a Gerusalemme, possiamo dire che era ormai diventato un vero e proprio sorvegliato speciale per cui era sempre controllato dai farisei, di persona o tramite loro spie. Ebbene qui pronuncia una frase particolare, “È per un giudizio che sono venuto in questo mondo”: è una frase che potrebbe essere ritenuta in contraddizione con un’altra secondo cui “Dio non ha mandato suo Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui” (Giovanni 3.17), oppure “Voi giudicate secondo la carne, io non giudico nessuno” (8.15): il “giudizio” di cui parla Gesù nel nostro passo, però, si riferisce a quell’automatismo che si genera nel momento in cui una persona si pone di fronte alla Sua parola, diventando un figlio di Dio oppure il suo esatto contrario. Ecco perché “coloro che non vedono”, cioè chi sa di non avere risposte e le cerca, “vedano”, “e coloro che vedono, diventino ciechi”, categoria alla quale appartengono tutti quei personaggi convinti di avere sempre la risposta pronta per ogni cosa, portatori della loro verità, in questo caso religiosa come i farisei e tutti gli oppositori della parola di Dio. Così, come non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire, non c’è peggior cieco di chi non vuol vedere.

Ed ecco, puntuale, l’intervento farisaico, “Siamo ciechi anche noi?”, cioè “Vorresti dire che noi, guide del popolo onorati da tutti, siamo ciechi?”. Sarà l’apostolo Paolo a descrivere, adattata ai tempi della Grazia ormai aperti, la posizione dei Giudei nella sua lettera ai Romani 2.17-24: “Ma se tu ti chiami Giudeo e ti riposi sicuro sulla Legge e metti il tuo vanto in Dio, ne conosci la volontà e, istruito dalla Legge, sai discernere ciò che è meglio, e sei convinto di essere guida dei ciechi, luce di coloro che sono nelle tenebre, educatore degli ignoranti, maestro dei semplici, perché nella Legge possiedi l’espressione della conoscenza e della verità… ebbene, come mai tu, che insegni agli altri, non insegni a te stesso? Tu che predichi di non rubare, rubi? Tu che dici di non commettere adulterio, commetti adulterio? Tu che detesti gli idoli, ne derubi i templi? Tu che ti vanti della Legge, offendi Dio trasgredendo la Legge! Infatti sta scritto: Il nome di Dio è bestemmiato per causa vostra tra le genti”.

Ancora una volta la risposta di Gesù non fu un “sì” o un “no”, ma si fece strumento di considerazione e meditazione: “Se foste ciechi, non aveste alcun peccato” perché non fareste alcun danno. Come il cieco nato ora guarito, sareste prudenti e, spiritualmente parlando, disposti a rivedere le vostre posizioni per venire alla luce. “Ma siccome dite: «Noi vediamo», il vostro peccato rimane”: impossibile infatti cercare la verità se si è già convinti di possederla. Ci si rende assolutamente impermeabili ad essa anche solo essendo convinti che mai la si potrà raggiungere, perché in questo caso non resta che fare dell’ignoranza il proprio credo ed essere ciechi non significa necessariamente vivere nel buio, ma anche usare una luce alternativa a quella della Parola di Dio, per vedere e muoversi nell’oscurità ritenendo che la luce soggettiva sia quella vera. Come fanno in molti anche oggi.

Infine le parole di Gesù sul peccato che “rimane”, cioè non può venire tolto, verranno da Lui ripetute, con diversa estensione, in Giovanni 15.22-25: “Se io non fossi venuto e non avessi parlato loro, non avrebbero alcun peccato, ma ora non hanno scusa per il loro peccato. Chi odia me, odia anche il Padre mio. Se non avessi compiuto in mezzo a loro opere che nessun altro ha compiuto, non avrebbero alcun peccato; ora invece hanno visto e hanno odiato me e il Padre mio. Ma questo perché si compisse la parola che sta scritta nella loro Legge: Mi hanno odiato senza ragione”. Amen.

* * * * *

 

13.32 – IL CIECO NATO V/VI (Giovanni 9.24-34)

12.32 – Il cieco nato V (Giovanni 9.24-34)          

 

24Allora chiamarono di nuovo l’uomo che era stato cieco e gli dissero: «Da’ gloria a Dio! Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore». 25Quello rispose: «Se sia un peccatore, non lo so. Una cosa io so: ero cieco e ora ci vedo». 26Allora gli dissero: «Che cosa ti ha fatto? Come ti ha aperto gli occhi?». 27Rispose loro: «Ve l’ho già detto e non avete ascoltato; perché volete udirlo di nuovo? Volete forse diventare anche voi suoi discepoli?». 28Lo insultarono e dissero: «Suo discepolo sei tu! Noi siamo discepoli di Mosè! 29Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia». 30Rispose loro quell’uomo: «Proprio questo stupisce: che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi. 31Sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma che, se uno onora Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta. 32Da che mondo è mondo, non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. 33Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto far nulla». 34Gli replicarono: «Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?». E lo cacciarono fuori.

 

Il fatto che i Giudei avessero organizzato un processo, per quanto a senso unico, lo rileviamo dal “chiamarono di nuovo l’uomo che era stato cieco”, indice del fatto che fosse stato fatto allontanare per non sentire la testimonianza dei suoi genitori. Molto indicativa è la frase “Da’ gloria a Dio!” che, in due passi dell’Antico Patto, è impiegata per esortare a una confessione. Così avvenne quando Giosuè esortò Acan a confessare di aver violato la legge sull’interdetto, “Figlio mio, da’ gloria al Signore, Dio d’Israele, e rendigli lode. Raccontami dunque che cosa hai fatto, non me lo nascondere” (Giosuè 7.14), e quando i Filistei, colpiti da bubboni, restituirono l’Arca del Patto: “…e date gloria ad Dio d’Israele. Forse renderà più leggera la sua mano su di voi, sul vostro dio e sul vostro territorio” (1 Samuele 6.5). Collegando questi passi, quindi, il Sinedrio esorta il cieco a confessare l’ipotetico espediente a cui era ricorso per ricuperare la vista, perché “Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore”.

Un’altra interpretazione riguardo al “Da’ gloria a Dio!” è l’invito a glorificare solo Lui per quella guarigione, essendo impossibile che fosse stato sanato da un violatore del sabato ma, pur logica, pare debole: i farisei, estremamente tortuosi, volevano andare alla radice del problema e così, se il cieco confessava di essersi inventato tutto, quel miracolo non sarebbe mai esistito. Era contemplato che un lebbroso potesse guarire e per questo c’erano i sacerdoti, deputati a decretare la scomparsa della malattia, ma che un cieco tornasse a vedere o un paralitico a camminare, no; rientrava nel caso dei miracoli che però avvenivano sempre per diretto intervento di un profeta, quando non di un angelo.

Come è stato osservato, “I farisei volevano far credere a quell’uomo di avere scoperto l’inganno, sicché non gli serviva a nulla perseverare nella menzogna. In pratica ricorsero a quell’artificio utilizzato spesso di indurre un accusato a confessare facendogli credere che i suoi complici hanno confessato ogni cosa per cui, continuando a negare, danneggia se stesso”. Quindi: era impossibile che Dio avesse concesso a Gesù, trasgressore del sabato e quindi peccatore, un simile potere di guarire, per cui non restava che dare “gloria a Dio” e confessare cosa effettivamente era accaduto.

Il metodo inquisitorio del Sinedrio fu però prontamente demolito dall’interessato, che diede una risposta fondata sui fatti: non conosceva Gesù, per quanto ne aveva sentito parlare, e prudentemente dice “Se sia un peccatore non lo so” (per quanto lo aveva definito “Profeta” poco prima), ma restava il fatto che “Una cosa so – la sola importante –: ero cieco e ora ci vedo”. “Ero” e “ora”, cioè tutta la vita che aveva condotto prima dell’incontro con Gesù e l’ “ora” in cui ne iniziava per lui una nuova; era quella su cui i Giudei dovevano basarsi, il fatto da cui partire e spettava a loro spiegarlo, perché la fede non si basa su una o più ipotesi o probabilità, ma soprattutto certezze. Anche per noi il riscatto “da questo misero corpo votato alla morte” è avvenuto col sacrificio di Cristo per cui “Io sono persuaso che né morte, né vita, né angeli, né principati, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore” (Romani 8.38): “ero” e “ora”, “eravamo” e “ora”, passato e presente come preludio al futuro, tempi in cui si riassume tutta la storia individuale dell’uomo che sceglie Gesù come proprio Signore e Salvatore, “Mio Signore e mio Dio”, come gli disse Tommaso.

Infatti “Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Romani 5.8), “Se, quando eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita” (5.10). Noi, che “eravamo per natura meritevoli d’ira, come gli altri” (Efesi 2.3), “come eravamo simili all’uomo terreno, così saremo simili all’uomo celeste” (1 Corinti 15.49). Gesù, come ha fatto con quel cieco, ha prodotto una trasformazione profonda che avvertiamo esattamente come chi “era” cieco e “ora” vedeva. Ogni altra considerazione in merito per sminuire o demolire quanto avvenuto si faceva insignificante, non valeva nulla perché il fatto parlava da solo.

Ora sappiamo dal testo che i Giudei tornano a quanto avvenuto chiedendogli di raccontarlo di nuovo, un’assurdità perché la testimonianza fornita fino ad allora era assolutamente chiara. Era evidente che, riascoltando il racconto dalla viva voce dell’inquisito, speravano di trovarvi qualche contraddizione o un punto debole: tutto interessava al Sinedrio tranne la ricerca della verità per cui il cieco guarito rifiuta di farsi loro strumento e arriva addirittura ad ironizzare su di loro: “Perché volete ascoltarlo di nuovo? Volete forse diventare anche voi suoi discepoli?”.

L’ultima domanda contiene elementi importanti visti nel “forse”, “anche voi” e “suoi discepoli”: penso che il primo sia stato pronunciato in senso ironico perché i discepoli seguirono Gesù dopo essere venuti ed aver visto, cioè constatato chi Lui fosse, mentre in quel caso tante domande ripetute e tutti i tentativi per demolire la testimonianza di quell’uomo non avrebbero portato da nessuna parte; “anche voi”, poi, ci conferma che il cieco innominato desiderava conoscere e seguire Gesù oltre al fatto che sapeva dell’esistenza di “discepoli”. Ricordiamoci che abitava nei pressi del Tempio, che tutti lo conoscevano anche come mendicante e che i rapporti fra le persone allora erano molto diversi da quelli di oggi: a prescindere dal fatto che chiedesse l’elemosina, era comunque uno del popolo di Gerusalemme e con lui la gente si fermava – per quanto non tutti – parlando del più e del meno, ma soprattutto di Gesù che era in città già da qualche giorno e cosa aveva fatto. Se con l’ “anche voi” il cieco abbia voluto sottintendere “oltre a me”, abbiamo un chiaro distinguere fra i due elementi, lui e il Sinedrio; da una parte abbiamo chi aspettava di conoscere chi lo aveva guarito e dall’altra chi non credeva e chiedeva dettagli inutili: “una cosa so”, bastava quella.

La reazione a quello che il Sinedrio interpretò come un oltraggio fu quella di stabilire immediatamente una divisione: “Suo discepolo sei tu! Noi siamo discepoli di Mosè”, cioè siamo la sua discendenza spirituale, i suoi eredi perché se fu lui a dare la Legge di Dio al popolo, adesso noi ne siamo i custodi.

C’è qui, prima della risposta data dall’innominato, un particolare significativo, cioè che i farisei “lo insultarono”; è un dettaglio che passa quasi inosservato e compare solo una volta nei Vangeli, qui. Si sottolinea così l’ira e l’offesa del Sinedrio che, definendolo “discepolo”, rappresenta l’insulto più grave che potessero dargli, preannunciante la sua scomunica.

A questo punto emerge un’altra caratteristica dell’inquisito, quella di una persona in grado di cogliere il messaggio basilare delle Scritture: “Sappiamo – notare che utilizza il plurale – che Dio non ascolta i peccatori, ma che, se uno onora Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta. (…). Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto far nulla”.

Queste frasi rivelano molto su chi le ha pronunciate perché non sono una citazione di versi precisi, ma la loro elaborazione. Dalle sue parole rileviamo che quell’uomo non si era mai identificato nei “peccatori” di professione e sperava di essere da Lui ascoltato, come in effetti avvenne ed ecco perché Gesù disse di lui “è perché in lui siano manifestate le opere di Dio”. Quindi, il cieco nato non aveva utilizzato la sua invalidità e sofferenza come giustificazione per ribellarsi a Dio, ma al contrario cercava di fare “la sua volontà”. Sono molti che bestemmiano anche per il più piccolo contrattempo e mi chiedo, sotto quest’ottica, cosa avrebbe potuto fare quest’uomo se non coltivare un perenne risentimento nei confronti di Colui che aveva permesso che nascesse così. Sarebbe stato naturale, se quel cieco avesse avuto un ego smisurato come purtroppo oggi possiedono in tanti.

Altra sottolineatura possibile sta nelle parole “Proprio questo mi stupisce: che voi non sapete di dove sia”: i “discepoli di Mosè” facevano riferimento a  lui per il ruolo di ammaestramento e condotta del popolo che aveva avuto, ma ignoravano volutamente il fatto che prima di tutto ebbe un’elezione diretta e fu da Dio assistito e guidato prima del popolo stesso, senza contare che non si crogiolò mai nel suo ruolo, ma fu sempre attento a valutare e ad ascoltare tanto Colui che lo aveva chiamato quanto i propri simili. Quasi sempre si tende a guardare la Legge come a qualcosa di punitivo, costrittivo e non si pensa che, accanto a passi “penalizzanti” ve ne sono di liberatòri e di assistenza – ad esempio – per il povero, per l’orfano, la vedova e lo straniero che comunque doveva integrarsi perfettamente col popolo di Dio diventandone parte attiva. E posiamo ricordare anche gli avvertimenti a non fare preferenze in giudizio tra il ricco e il povero-

Che i farisei fossero sì “discepoli di Mosè”, ma perversi, lo dimostra il passo riferito alle modalità di riconoscimento per chiunque pretendesse di essere un profeta: “Quando un profeta parlerà in nome del Signore e la cosa non accadrà e non si realizzerà, quella parola non l’ha detta il Signore. Il profeta l’ha detta per presunzione, non devi avere paura di lui” (Deuteronomio 18.22). Sono parole che hanno la stessa logica e semplicità del “ero cieco e ora ci vedo”, non è necessario un grande studio o esegesi per capirle. Cosa dovesse accadere al falso profeta è descritto al verso 20: “Ma il profeta che avrà la presunzione di dire in mio nome  una cosa che io non gli ho comandato di dire, o che parlerà in nome di altri dèi, quel profeta dovrà morire”. Quindi dei veri “discepoli di Mosè” non avrebbero avuto nessuna difficoltà a mettere insieme i dati necessari su Gesù per riconoscerlo come il “Figlio di Davide, colui che doveva venire”.

Il passo in esame termina nell’unico modo possibile, cioè con la reazione farisaica che ancora  una volta spranga il cuore di fronte alla logica proposta dalle parole del cieco guarito, “Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?”: ancora una volta emerge lo spirito contrario di queste persone. Lo giudicano “nato tutto nei peccati” basandosi su ciò che quell’uomo era, incuranti di quello che “ora” era diventato. Un fratello ha detto un giorno che “la carità è paziente, ma l’errore non può” e qui abbiamo la dimostrazione più palese perché uno spirito contrario a Dio non può che attaccare violentemente, con parole o con fatti è irrilevante, chi è dalla Sua parte. “Tu” e “noi” sono i pronomi che stabiliscono la distinzione, la “gran voragine” che divide chi è figlio di Dio da chi non lo è ed il “bello” è che sono gli stessi Giudei a rimarcarla, per quanto presuntuosamente si ritenessero dalla parte giusta.

L’espulsione dalla sala del Sinedrio, violenta perché è scritto “lo cacciarono fuori”, preludeva alla scomunica di cui abbiamo già accennato, ma ecco che qui abbiamo un secondo intervento di Nostro Signore, non meno importante del primo quando lo aveva guarito: “Gesù seppe che lo avevano cacciato fuori” e si mise a cercarlo, trovandolo.

* * * * *

 

12.31 – IL CIECO NATO IV/VI (Giovanni 9.18-23)

12.31 – Il cieco nato IV (Giovanni 9.18-23)

 

18Ma i Giudei non credettero di lui che fosse stato cieco e che avesse acquistato la vista, finché non chiamarono i genitori di colui che aveva ricuperato la vista. 19E li interrogarono: «È questo il vostro figlio, che voi dite essere nato cieco? Come mai ora ci vede?». 20I genitori di lui risposero: «Sappiamo che questo è nostro figlio e che è nato cieco; 21ma come ora ci veda non lo sappiamo, e chi gli abbia aperto gli occhi, noi non lo sappiamo. Chiedetelo a lui: ha l’età, parlerà lui di sé». 22Questo dissero i suoi genitori, perché avevano paura dei Giudei; infatti i Giudei avevano già stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga. 23Per questo i suoi genitori dissero: «Ha l’età: chiedetelo a lui!».

 

Il verso 18, anticipato alla fine del nostro scorso capitolo per dare una conferma dell’ostinazione dei Giudei a non credere al miracolo – ma in realtà a rigettare completamente tutta l’opera di Gesù –, presenta un’interessante particolarità vista nel “finché”, che potrebbe farci pensare ad un suo riconoscimento tardivo. In realtà, quel “finché non credettero” significa “finché non ammisero” nel senso che, avuta la prova dai genitori del cieco che era effettivamente nato così, subito trovarono il modo per appigliarsi ad altri motivi per sminuire il miracolo. In realtà, chiamando quei parenti diretti, abbiamo un primo tentativo per rifiutare quanto avvenuto: li convocano per interrogarli sperando che o non riconoscessero il figlio, oppure non confermassero la sua invalidità dalla nascita. “Finché” indica quindi il momento in cui i Giudei rinunciarono al loro piano d’attacco, teso a mettere in dubbio la cecità di quell’uomo, ideandone uno nuovo.

In realtà, quanto fu ordito dai membri del Sinedrio fu un vero e proprio processo, come rilevabile dalle tre domande rivolte ai genitori del cieco, per quanto una di esse sia latente:

  1. “È questo vostro figlio?”;
  2. “Ci confermate che è cieco dalla nascita?”;
  3. “Come mai ora ci vede?”.

Rispondere alle prime due domande non costituiva certo un problema, ma la terza era molto insidiosa perché chiamava in causa non il riferire un fatto (come ogni testimone è chiamato a fare), ma introdurre nel dibattimento una deduzione o il riferire quanto eventualmente detto da altri. Per questo leggiamo che ai primi due punti risposero senza esitare, mentre sul terzo si trovarono in difficoltà prima di tutto psicologica, “avevano paura dei Giudei”, e chi frequenta le aule di giustizia sa bene che un buon giudice, o presidente di un Collegio, presta sempre la massima attenzione affinché le Parti (Difesa o Accusa) non intimidiscano o mettano in difficoltà psicologia chi è chiamato a deporre.

Ci chiediamo cosa potessero sapere i genitori del cieco al riguardo: pur essendo probabile che mendicasse nei pressi di casa sua,  era difficile che fosse controllato dal padre o dalla madre sia perché maggiorenne, sia perché non correva pericoli in quanto autonomo nonostante il grave handicap. Credo sia difficile che avessero assistito al primo incontro del loro figlio con Gesù mentre non si può escludere che, una volta tornato con la speranza di incontrare chi lo aveva guarito, sia andato dai genitori ed abbia raccontato loro come aveva ricuperato la vista. In alternativa, avrebbero potuto anche essere presenti quando, nel luogo in cui era solito mendicare, era stato riconosciuto come la persona che, fino a poco prima, era sempre stata cieca. Fatto sta che alla terza domanda il padre e la madre di quell’uomo risposero in modo logico e tale da non dire il falso: “Come ora ci veda, non lo sappiamo, e chi gli abbia aperto gli occhi, non lo sappiamo. Chiedetelo a lui: ha l’età, parlerà lui di sé” (v.20).

Analizzando la loro risposta vediamo che quel “non lo sappiamo”, anche se probabilmente il nome di chi aveva guarito il loro figlio lo conoscevano, non può essere considerato mendacio in virtù della presenza del diretto interessato. La terza domanda era quindi inopportuna e ininfluente ai fini dell’inchiesta: “ha l’età” significava che non era più sotto la loro tutela legale e che quindi si trovava nella piena condizione di riferire su fatti e persone, oltre ad essere responsabile di fronte alla Legge.

La loro fu una risposta prudente per non venire coinvolti in quel provvedimento dei Giudei che avrebbe decretato la morte civile di una persona che “lo avesse riconosciuto come il Cristo”. E qui abbiamo la ragione della paura non solo di quelle due persone, ma anche di tutti coloro che esitavano a farsi discepoli di Gesù, in un modo o nell’altro perché Lo si poteva seguire tanto facendo parte del suo gruppo, quanto personalmente, testimoniando che appunto Lui era “Il Cristo, il Figlio dell’Iddio vivente”.

Il fatto della scomunica dalla congregazione di Israele per chiunque avesse riconosciuto Gesù come “il Cristo” è interessante perché non sappiamo quando fosse stata istituita, ma comportava conseguenze estremamente umilianti a tal punto che Gesù stesso avviserà i suoi discepoli che ciò sarebbe accaduto. La sinagoga infatti, luogo in cui predicò spesso, è anche rappresentata come luogo che attrae i religiosi e gli ipocriti – si veda l’amore per avere là “i primi posti” ( Matteo 6.2 e 5; 23.6 e rif.) –, ma soprattutto provoca sofferenze in chi crede in Lui:  “Guardatevi dagli uomini, perché vi consegneranno ai tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe” (10.17); “…metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni” (Luca 21.12), oppure lo stesso Giovanni 16.2 “Vi scacceranno dalla sinagoghe; anzi, viene l’ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio”. Ricordiamo infine la confessione dell’apostolo Paolo quando era uno zelante fariseo: “In tutte le sinagoghe cercavo spesso di costringerli con le torture a bestemmiare e, nel colmo del mio furore contro di loro, davo loro la caccia perfino nelle città straniere” (Atti 26.11).

La scomunica dalla sinagoga era una punizione che poteva variare di intensità: alla base avevamo l’esclusione da essa per trenta giorni in cui lo scomunicato veniva trattato come un pagano – nessuno lo salutava né tantomeno gli rivolgeva la parola, ad esempio – e non poteva avere alcun contatto con la propria famiglia o conoscenti. Si passava poi alla esecrazione, cioè una maledizione di cui Dio era testimone per cui la persona era maledetta temporalmente o definitivamente. L’individuo diventava poi anàtema, termine che negli scritti dell’Antico Patto allude alla distruzione completa dei nemici di guerra.

Ecco allora che a questo punto credo che siamo chiamati a prendere la frase “avevano già stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga” come punto di partenza per una panoramica di raggio più ampio. Il termine “Sinagoga”, etimologicamente parlando, è di origine greca ed è composto da “syn”, insieme, e “ago”, condurre, poi tradotto come “luogo in cui ci si riunisce”. Potremmo dire che il termine allude a un cammino comunitario, per cui teoricamente non potremmo trovare nulla di meglio. Ma si tratta di una comunità che, alla luce del Vangelo, è purtroppo deviata nel senso che si presenta come qualcosa di non più attuale, passata, composta da persone religiose che però hanno sostituito alla fede e alla reale appartenenza a Dio tramite il proprio Figlio la ritualità, l’abitudine, la parvenza, l’attaccamento alle proprie tradizioni e  – sotto certi aspetti meravigliosa – scienza.

In più abbiamo una terribile definizione in Apocalisse 2 e 3.9, “sinagoga di satana” sulla quale possiamo riflettere a prescindere dal contesto originale della lettera a Smirne e Filadelfia. La sinagoga, dopo la resurrezione di Cristo e la nascita della Chiesa, è diventata un “cammino insieme” ingannatore ed infatti ad essa si è sempre contrapposta, uccidendo e cercando di uccidere chiunque la pensasse diversamente, non onorando YHWH, secondo loro, nella sua forma più pura. E questo è avvenuto dal martirio di Stefano in poi.

Ora “sinagoga” possiamo anche riferirla a qualcosa non necessariamente ebraico, ma a tutto quello che propone un “cammino insieme” non fondato direttamente su Cristo, ma su Satana che di Lui e della Chiesa è l’Avversario. Chiunque, singolo, gruppo, organizzazione o Stato, si dichiari fondato sulla solidarietà, fra i popoli o gli uomini in genere, e la pace lasciando Cristo fuori dalla porta non potrà fare altro che identificarsi nella “sinagoga di Satana” che si traveste e si maschera per ingannare e sedurre l’uomo. “Sinagoga di Satana” è la politica, sono stati ed è l’impero in formazione, le organizzazioni umanitarie e per estensione tutto ciò che si presenta al cittadino con obiettivi che vogliano migliorare la sua vita sulla terra. Non a caso, in particolare oggi, “comunità” è in termine più abusato anche negli spot pubblicitari che notoriamente fanno leva su ciò che manca al loro target. E l’essere umano tende sempre a prestare la sua attenzione a ciò di cui è privo.

Sotto questo aspetto, quindi, la “sinagoga di Satana” è ovunque ed è parente stretta di quella “dottrina dei Nicolaiti”, che compare sempre in Apocalisse 2 6 e 15, setta gnostica sorta nella Chiesa che non ammetteva la divinità di Cristo. Per andare però alla radice della loro dottrina, basta fare l’etimologia del nome, da “nìke”, cioè “vittoria”, e “làos”, popolo, quindi “popolo che vince”, anche qui tramite un cammino unitario, lo stesso inganno della torre di Babele i cui intenti erano gli stessi, così banali, di ogni impero: “Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo, e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra” (Genesi 11.4). Ecco perché, come Salomone osservò, “Non vi è nulla di nuovo sotto il sole”.

Avviandoci alla fine di queste riflessioni e dati sugli spunti identificativi a proposito della “sinagoga di Satana”, vanno sottolineate le conseguenze che portavano gli scomunicati di quella ai tempi di Gesù, cioè la morte civile, che poi non differisce più di tanto rispetto a quella reale: oggi, infatti, se un tempo la pena per i reati era la prigione, stanno moltiplicandosi le pene pecuniarie di entità anche molto forte, in grado di ridurre il condannato a una vita davvero di isolamento e di stenti che non è raro sfocino in casi di suicidio. La propaganda e gli incentivi a far sì che i pagamenti in denaro contante vengano progressivamente aboliti altro scopo non hanno di quello del pieno controllo da parte degli Stati nell’attesa che arrivi quello unico, sui conti correnti dei cittadini che si vedranno prelevate in automatico le somme che Tribunali, Governi o Enti da loro delegati decideranno.

Credo fermamente che siamo testimoni di una trasformazione sempre più veloce verso quell’ultimo regime che triterà ogni cosa sotto i suoi piedi, preferibilmente quanti, come ai tempi di Gesù e delle sinagoghe ormai a lui e ai suoi discepoli apertamente ostili, dichiareranno di credere in Lui. Conosciamo molto bene il passo di Apocalisse 13.17 relativo alla “Bestia che sale dalla terra”, cioè dagli istinti umani, che opererà insieme a quella “che nasce dal mare”, cioè dalla confusione, adorata da “tutti gli abitanti della terra, il cui nome non è scritto nel libro della vita dell’Agnello, immolato fin dalla fondazione del mondo”. La seconda bestia “fa sì che a tutti, piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi, ricevano un marchio sulla mano destra o sulla fronte, e che nessuno possa comprare o vendere senza avere tale marchio, cioè il nome della bestia o il numero del suo nome”: morte civile esattamente come avveniva nel nostro episodio.

“Non vi è niente di nuovo sotto il sole” perché Satana, nell’attesa della sentenza finale, è condannato a replicare sempre se stesso, a ripetersi perfezionando sempre di più la sua opera in attesa del suo capolavoro finale e finito che verrà distrutto. Per questo siamo chiamati a vegliare riconoscendo il tempo ormai breve. E citando una frase di Ingmar Bergman, “è come guardare in controluce l’uovo di un serpente: attraverso la sottile membrana, riesci a vedere il rettile perfettamente formato”.

* * * * *

 

12.30 – IL CIECO NATO III/VI (Giovanni 9. 8-17)


12.30– Il cieco nato III (Giovanni 9.8-17)   

 

8Allora i vicini e quelli che lo avevano visto prima, perché era un mendicante, dicevano: «Non è lui quello che stava seduto a chiedere l’elemosina?». 9Alcuni dicevano: «È lui»; altri dicevano: «No, ma è uno che gli assomiglia». Ed egli diceva: «Sono io!». 10Allora gli domandarono: «In che modo ti sono stati aperti gli occhi?». 11Egli rispose: «L’uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, mi ha spalmato gli occhi e mi ha detto: «Va’ a Sìloe e làvati!». Io sono andato, mi sono lavato e ho acquistato la vista». 12Gli dissero: «Dov’è costui?». Rispose: «Non lo so».

13Condussero dai farisei quello che era stato cieco: 14era un sabato, il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi. 15Anche i farisei dunque gli chiesero di nuovo come aveva acquistato la vista. Ed egli disse loro: «Mi ha messo del fango sugli occhi, mi sono lavato e ci vedo». 16Allora alcuni dei farisei dicevano: «Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato». Altri invece dicevano: «Come può un peccatore compiere segni di questo genere?». E c’era dissenso tra loro. 17Allora dissero di nuovo al cieco: «Tu, che cosa dici di lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi?». Egli rispose: «È un profeta!».

 

La lettura di questi versi, pur nella sua semplicità, presenta degli aspetti che vanno sottolineati, prima dei quali è “i vicini e quelli che lo avevano visto prima, perché era un mendicante”. Il fatto che alcuni di quelle persone fossero dei “vicini” ci indica che il cieco chiedeva l’elemosina a pochi passi da dove risiedeva, presumibilmente ancora coi suoi genitori che verranno poi chiamati dai Giudei a testimoniare. I primi ad essere posti davanti all’avvenuto miracolo furono quindi i suoi vicini di casa e ben riporta “mendicante” la nostra versione poiché ve ne sono altre che hanno “cieco” in osservanza al testo originale di altri manoscritti. È però opinione comune che la parola “cieco” sia stata sostituita a “mendicante” da un copista che volle porre ulteriormente in risalto il miracolo operato da Gesù.

In ogni caso tanto quelli che conoscevano quella persona da tempo quanto i testimoni occasionali della sua presenza costante a elemosinare  – il testo originale ha “che siede e mendica” al tempo presente – mettono in dubbio la sua identità perché, evidentemente, il recupero della vista ne aveva mutato l’espressione del volto e la postura.

Confermata la sua identità ai presenti – “Sono io!” – alla domanda “in che modo ti sono stati aperti gli occhi?” risponde senza enfatizzare nulla – si potrebbe dire “senza aggiungere né togliere” – quasi che quanto avvenuto in lui fosse un fatto naturale nel senso che non rileviamo, dal suo comportamento, manifestazioni che caratterizzarono altri guariti, come la donna emorroissa che si avvicinò a Gesù “tutta tremante”, o di tutte quelle altre persone che, di fronte alla scomparsa delle loro infermità, proclamavano a tutti il mutamento del loro stato.

Questo, a conferma anche di altri dettagli visti prima come l’ubbidienza all’ordine di Gesù di andarsi a lavare a Siloe e non a una fonte comune, ci parla dell’obiettività e razionalità di questa persona che prima di tutto attribuisce la sua guarigione a “l’uomo che si chiama Gesù” e poi racconta i fatti così come avvenuto senza omettere nulla. Potremmo dire, ricordando il monito a chi tratta la Scrittura, “senza nulla aggiungere o togliere” e, dato che Gesù non era più presente e nemmeno i suoi discepoli, si suppone, credo con fondatezza, che fu lo stesso cieco guarito che raccontò a Giovanni quanto avvenuto in loro assenza.

Quell’uomo disse solo quello che sapeva e così farà una volta condotto dai farisei: perché da loro? Perché i presenti non potevano fare diversamente: a differenza sua, sapevano chi era quel “Gesù” che lo aveva guarito. Considerando che si trattava di un miracolo avvenuto di sabato, avrebbero voluto prendere Nostro Signore e portarlo dai suoi “autorevoli” oppositori, ma non potendo farlo perché se ne era andato, condurre l’ignoto ex non vedente dai rettori del popolo era l’unica azione possibile. Infatti Giovanni stesso scrive “Era un sabato, il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi”. Sappiamo che di sabato i farisei e relativi accoliti proibivano addirittura di raccogliere un frutto caduto da un albero, figuriamoci l’affetto che ebbe su di loro la guarigione di un cieco nato, alla quale all’inizio non credettero nonostante la chiara presenza di testimoni che conoscevano quell’uomo da prima. Condurre “dai farisei” va letto come “davanti al Sinedrio” che sappiamo si riuniva tutti i giorni e, di sabato, poteva essere convocato d’urgenza. E così avvenne proprio per intervento diretto di quanti, riconosciuto il cieco, vollero usarlo quale ulteriore strumento di accusa contro Gesù.

I sinedriti allora ascoltarono i presenti e poi “gli chiesero di nuovo come avesse riacquistato la vista”, cioè dopo aver ascoltato il fatto, chiesero al diretto interessato di raccontarlo un’altra volta: ora il racconto è più sintetico non perché Giovanni volesse risparmiarsi la fatica – quante volte Mosè ripete nei suoi libri gli avvenimenti importanti? – ma perché quell’uomo guarito si stava spazientendo di fronte a tanta insistenza che non capiva. Ciò che era avvenuto e raccontato bastava, non aveva senso ripeterlo, ma ecco che il suo racconto, come sempre quando Gesù compie un miracolo “scomodo”, genera in alcuni repulsione e forte volontà di contrastarne la verità, e in altri attrazione, volontà di comprendere.

“Allora alcuni dei farisei dicevano: «Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato»” è la reazione raccontata per prima probabilmente in quanto parere della maggioranza dei presenti. Notiamo quanto sia primitiva l’affermazione: non si considera il miracolo come punto dal quale partire per valutare la potenza dell’intervento di Nostro Signore che aveva liberato una persona dalla prigionia della cecità per molti anni e della vergogna da lui provata di fronte al prossimo che lo giudicava un peccatore (lui o i suoi genitori), ma si guarda al sabato istituito da Dio perché l’uomo potesse riposarsi non per far nulla, ma per meditare senza distrazioni sull’ “opera delle sue mani”. Ora, credo che migliore occasione, quel giorno, non potesse essere loro offerta.

Una piccola parte del Sinedrio, però, ragionò in modo diverso: “«Come può un peccatore compere segni di questo genere?». E c’era dissenso fra loro”. Attenzione a queste parole perché implicano il fatto che Gesù fosse santo. Sicuramente fra le persone che parlarono così vi furono Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea, che fra l’altro, sempre leggendo la frase in modo esteso, avevano capito che non vi era stata alcuna violazione del sabato, istituito per l’essere umano e quindi per i peccatori.

Ricordiamo che, proprio alle stesse persone, Gesù aveva detto cose importanti quando guarì, sempre di sabato, il paralitico a Betesda: “Ora, se un uomo riceve la circoncisione di sabato perché non sia trasgredita la legge di Mosè, voi vi sdegnate conto di me perché di sabato ho guarito interamente un uomo? Non giudicate secondo le apparenze; giudicate con giusto giudizio!” (Giovanni 7.23). Un invito evidentemente non ascoltato, dire non ricordato volutamente perché la persona che segue se stessa non può tollerare alcun concetto diverso dal proprio: sia giusto o meno, lo ostacola e quindi va rimosso.

A proposito del “dissenso”, ricordiamo anche quanto avverrà dopo poco tempo: “Molti di loro dicevano: «È indemoniato ed è fuori di sé, perché state ad ascoltarlo?». Altri dicevano: «Queste parole non sono di un indemoniato; può forse un demonio aprire gli occhi ai ciechi?»”. Tutto questo avverrà poco tempo dopo, quando Gesù parlerà di Sé come “buon pastore” e possiamo notare che l’ “aprire gli occhi ai ciechi” è in ricordo del nostro episodio che la parte avversa a Nostro Signore aveva volutamente dimenticato.

Il “dissenso” sorto è allora frutto del mettere assieme ciò che è malleabile e aperto e ciò che è invece “ostinato”, caratteristica fortemente negativa; pensiamo a Siracide 3.26,27 “Un cuore ostinato alla fine cadrà nel male, chi ama il pericolo in esso si perderà. Un cuore ostinato sarà oppresso da affanni, il peccatore aggiungerà peccato a peccato”, dove “alla fine” ci rivela come le persone che hanno questa caratteristica, oltre a vivere male, cadranno in esso come coronamento di tutto il loro operato, “alla fine” cioè senza poter porre più rimedio alla loro condizione.

A proposito dell’ostinazione, di cui le vicende del faraone sono e saranno sempre un emblema, ricordiamo le parole di Ezechiele 3.7: “La casa di Israele non vuole ascoltare te, perché non vuole ascoltare me: tutta la casa di Israele è di fronte dura e di cuore ostinato”. L’apostolo Paolo in Romani 2.5 e 9.19 scrive “Tu, però, con il tuo cuore duro e ostinato, accumuli collera su di te per il giorno dell’ira e della rivelazione del giusto giudizio di Dio”, e “Dio quindi ha misericordia verso chi vuole e rende ostinato chi vuole”.

Il cuore. La sede del nostro “tesoro” quindi ciò che abbiamo di più caro (Matteo 6.21). Esprimiamo con la bocca ciò che sovrabbonda in lui (12.34), può diventare insensibile e da lui, soprattutto, quando non è rigenerato da Dio, “provengono propositi malvagi, omicidi, adultèri, impurità, furti, false testimonianze, calunnie” (15.19). Quando è ostinato e indurito, cioè non esiste alcuno spazio perché la Parola di Dio faccia breccia, non vi è nulla da fare.

A questo punto del racconto, chiaramente non portando ad alcun risultato il “dissenso” fra le parti, i Giudei chiedono al diretto interessato: “«Tu, cosa dici di lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi?». Egli rispose: «È un profeta!»”. Abbiamo una domanda e una risposta. Penso che la prima venne posta perché il cieco guarito desse ragione a una fazione piuttosto che a un’altra perché era ormai chiaro che di lui al Sinedrio importasse ben poco. “Tu, cosa dici di lui?” non era riferito al miracolo, ma alla persona di chi lo aveva prodotto. Cosa sapeva il guarito di Gesù? Probabilmente ne aveva sentito parlare cogliendo qualche discorso, ma non lo aveva mai incontrato se non quando, chino su di lui, gli aveva messo il fango sugli occhi e gli aveva parlato.

Per le conoscenze che aveva ed esperienza acquisita, non poteva rispondere diversamente, “È un profeta”: una conclusione semplice, la sola possibile, ma che verrà fermamente respinta dai cuori ostinati, che, a queste parole, arriveranno a non credere che fosse stato cieco: “Ma i Giudei non credettero di lui che fosse stato cieco e che avesse acquistato la vista, finché non chiamarono i genitori di colui che aveva ricuperato la vista” (v.18).

* * * * *