16.13 – Il fico seccato (Marco 11. 20-26)
20La mattina seguente, passando, videro l’albero di fichi seccato fin dalle radici. 21Pietro si ricordò e gli disse: «Maestro, guarda: l’albero di fichi che hai maledetto è seccato». 22Rispose loro Gesù: «Abbiate fede in Dio! 23In verità io vi dico: se uno dicesse a questo monte: «Lèvati e gèttati nel mare», senza dubitare in cuor suo, ma credendo che quanto dice avviene, ciò gli avverrà. 24Per questo vi dico: tutto quello che chiederete nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto e vi accadrà. 25Quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro qualcuno, perdonate, perché anche il Padre vostro che è nei cieli perdoni a voi le vostre colpe. 26Ma, se voi non perdonate, il Padre vostro non vi perdonerà le vostre colpe».
Il primo episodio del martedì della Passione inizia come il precedente, con l’incontro con il fico ormai completamente seccato: Gesù e i discepoli escono da Betania e passano nei pressi dell’albero ma, così come lo avevano trovato rigoglioso il giorno prima, ora lo vedono spoglio, “seccato fin dalle radici”, cosa che per avvenire in natura richiede molto tempo. Questo è ciò che intende dire Matteo al riguardo, che riporta “…e subito l’albero si seccò. Vedendo ciò, i discepoli rimasero stupiti e dissero: «Come mai l’albero di fichi si è seccato in un istante?» (21.19,20). Come tutti gli altri miracoli, quindi, anche questo fu tempestivo; i discepoli poterono constatare che ancora una volta la parola di Gesù si era rivelata non solo efficace, ma anche immediata perché, come così furono le sue guarigioni, tale fu (e saranno) la sua sentenza/e, come insegna questo episodio. In pratica, Matteo pone l’accento sul fatto che i primi effetti della maledizione iniziarono subito a vedersi (penso ad esempio alle foglie che iniziarono ad avvizzirsi) e Marco ci descrive ciò che avvenne dopo ventiquattro ore.
È probabile che, nella memoria dei discepoli, fosse ancora presente la parabola del fico sterile e le parole del vignaiolo “Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato intorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire, se no, lo taglierai” (Luca 6.8,9), per cui si stupirono di vedere gli effetti del disseccamento della pianta, alla luce anche di quelle parole; constatarono così gli effetti del “taglio” su entrambe le piante, figura dell’uomo che viene trovato privo di frutti.
La vista di un albero seccato è desolante sia per il colore e l’aspetto che assume, sia per il ricordo di come si presentava, con fronte rigogliose, forte, dando riparo ad animali e nutrendo insetti quando in fiore; come per l’uomo quando cessa di esistere nel corpo, ne resta solo un involucro inanimato, vuoto, e un ricordo destinato a perdersi nel tempo.
Venendo alla risposta di Gesù al verso 22, notiamo che non vi è un commento all’osservazione di Pietro, ma dice “Abbiate fede in Dio!”, come se quanto avvenuto al fico non dovesse riguardarli perché il contesto in cui erano chiamati a vivere era totalmente diverso: non solo non era ancora giunto il tempo per cui il Maestro venisse a chiedere loro un frutto, ma dovevano imparare a dipendere da Lui per ogni cosa, il che avevano già messo in pratica quando furono mandati in missione e anche nel seguirlo, dopo aver rinunciato alla loro vita di prima, quando si sostenevano con la loro professione e non con la cassa comune tenuta da Giuda.
Quello che Gesù chiede ai Dodici, e per riflesso a tutti i credenti dopo di loro, non è di vivere sperando di essere aiutati o di sapere che per qualunque cosa avranno un aiuto dal Padre, ma di strutturarsi, radicarsi su e in Lui. Nello specifico, qui la fede è quella nella potenza di Dio e nelle Sue promesse, grazie alle quali gli Apostoli avrebbero potuto fare miracoli. La “fede in Dio” è quella dell’appartenenza a Lui grazie all’annullamento della distanza che il peccato aveva stabilito tra Creatore e creatura, non certo autoconvincimento o una generica speranza di miglioramento delle situazioni penose che possiamo trovarci a vivere. Alla luce delle parole di Gesù, quindi, un cristiano può dire di avere fede in Dio quando le proprie radici affondano in Lui e da Lui traggono nutrimento, di modo che non può non portare frutto, pena essere come quel fico di cui ne condividerà la sorte. E il fico del nostro episodio è figura dell’uomo che occupa arbitrariamente un posto rubando il nutrimento agli altri.
Ogni volta che un cristiano prega, ha accesso al Trono della Grazia: è ricevuto, benvenuto e accolto in quanto figlio di Dio perché “…abbiamo la libertà di accedere a Dio in piena fiducia mediante la fede in lui” (Efesi 3.12). Senza questo, la fede non avrebbe senso. Ricordiamo che Pietro, se avesse esercitato la fede proveniente dall’appartenenza al suo Maestro, non sarebbe sprofondato nelle acque del Lago di Galilea, cosa che all’inizio non fece, e le parole “Uomo di poca fede, perché hai dubitato?” misero in rilievo tutta la sua inadeguatezza, così come per riflesso la nostra ogni volta che ci troviamo mancanti essendo nel dubbio, nel forse, dimenticando le parole riguardo alla fede e tutti gli inviti ad esercitarla che ci sono stati rivolti. La domanda posta a Pietro credo sia la stessa che viene data ad ognuno di noi quando registriamo un fallimento e alla quale siamo chiamati a dare una risposta perché possiamo rimediare agli inconvenienti che noi stessi ci procuriamo, “Perché?”.
Siamo ora giunti a un punto impegnativo, e cioè “In verità io vi dico”: a chi? L’esempio del monte spostato non compare solo qui ed è un concetto che Gesù, come tanti altri, ripeté più volte, ma in questo caso agli apostoli e non ai molti discepoli né alla folla, questo perché loro erano i primi a dover comprendere quel concetto così importante e basilare della vita in Cristo e, se la hanno trasmessa, è perché riguarda tutti coloro che avrebbero creduto. La citazione del monte, in particolare, avvenne nell’episodio in cui i dodici non riuscirono a guarire un ragazzo epilettico in cui il commento di Nostro Signore fu “Per la vostra poca fede. In verità io vi dico: se avrete fede pari a un granello di senape, direte a questo monte: «Spostati da qui a là», ed egli si sposterà, e nulla vi sarà impossibile” (17.20).
Da sottolineare poi, come dimostrato dall’episodio del fico seccato, che tanto le parole pronunciate in quel contesto quanto nel nostro non possono contenere esagerazioni: tutto quanto detto da Gesù è e fu verità, altrimenti la maledizione al fico non si sarebbe realizzata per cui sì, il detto secondo cui la fede sposta anche le montagne è assolutamente reale, anche se dobbiamo chiederci di quali monti si tratti perché nessuno, letteralmente parlando, ne spostò.
Ecco allora che se prendiamo il “monte” come quel rilievo più o meno elevato che conosciamo, più o meno imponente, abbiamo una visione, ma se lo prendiamo come ostacolo difficile da superare o apparentemente impossibile da, il senso prospettato da Gesù cambia. Ha scritto un commentatore della metà ‘800: “L’età dei miracoli fisici è passata e Dio non dà più la fede che si richiede ad operarli – il che mi trova d’accordo in parte –; ma quella fede che toglie di mezzo ogni montagna di separazione fra Cristo e il peccatore, e che fa trionfare il credente da ogni difficoltà, Lui ha promesso di accordarla”.
Credo quindi nei miracoli riportati nei Vangeli, meno in quelli che avvengono anche oggi, ma tanto io che ogni vero cristiano può testimoniare di quelli verificatisi dentro di lui. Penso che venga richiesto a ciascun figlio di Dio di effettuare un percorso che è lo stesso di Pietro sulla barca, fatte salve le distanze dovute al fatto che, allora, non aveva ancora ricevuto, come gli altri, lo Spirito Santo.
“Senza dubitare in cuor suo, ma credendo che quanto dice avviene, ciò gli avverrà” non sono le istruzioni per spostare il monte, ma il termometro della fede: sappiamo già che non si tratta di autoconvincimento, ma di autoesame. Se dubito, sono chiamato a ricercarne le ragioni, eventualmente facendo un percorso per cercare dove e su cosa ho certezze incrollabili e dove invece inizio a vacillare e proprio su quei punti lavorare. È un’auto analisi che dovremmo mettere in pratica sempre, uscendo anche da noi stessi per osservarci come faremmo con un estraneo.
Il tema della preghiera fu uno dei primi affrontati da Gesù nel Suo Ministero e così leggiamo nel sermone sul monte riguardo alle sue risposte: “Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto”. E ora viene un paragone che getta luce totale sul tema: “Chi di voi, al figlio che gli chiede un pane, darà una pietra? E se gli chiede un pesce, gli darà una serpe? Se voi, dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele chiedono!” (Matteo 7.7-12).
Ricordiamo la preghiera comunitaria: “In verità, in verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. Perché dove sono riuniti due o tre nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro” (18.19,20). Nel caso della preghiera della Chiesa, come per tutte le altre, vale la responsabilità del chiedere correttamente, proporzionalmente alla presenza del Cristo in mezzo ad essa, perché rivolgersi a Dio con lo Spirito non può escludere l’intelligenza, pena il non ottenimento di quanto chiesto.
Il non dubitare è ribadito anche da Giacomo, “fratello del Signore”: “Se qualcuno di voi è privo di sapienza, la domandi a Dio, che dona a tutti con semplicità e senza condizioni, e gli sarà data. La domandi però con fede, senza esitare, perché chi esita somiglia all’onda del mare, mossa e agitata dal vento. Un uomo così non pensi di ricevere qualcosa dal Signore: è un indeciso, instabile in tutte le sue azioni” (1.5.6).
Per finire, l’apostolo Giovanni nella sua prima lettera: “Questa è la fiducia che abbiamo in lui: qualunque cosa gli chiediamo secondo la sua volontà – ecco la condizione – egli ci ascolta. E se sappiamo che ci ascolta in tutto quello che gli chiediamo, sappiamo di avere già da lui quanto abbiamo chiesto” (5.14,15). Ecco data la spiegazione alle parole di Gesù “abbiate fede di averlo ottenuto e vi accadrà”.
Ora va fatta una breve sosta su ciò che comportano i termini “preghiera” e “meditazione” (per quanto qui non citato), che della prima è un aspetto. Purtroppo viviamo in un’epoca figlia di molte altre che, in una progressione dissestante, ne ha mutato, stravolto e generalizzato il significato. Da incontro e dialogo con Dio, da estrazione di tesori spirituali, da indagine profonda su ciò che ci muove o ci ha mosso, da ascolto, si è trasformata in esperienza fondamentalmente egoistica, qualcosa che soddisfa fondamentalmente la carne intesa come tutto quanto serve il sentimento. Capita cioè spesso anche nelle varie denominazioni che le persone recitino una parte concretando così la nota frase di Dio “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me”. Praticare il Vangelo, infatti, non è qualcosa di statico, ma di estremamente dinamico e se ciò non avviene dentro la persona ecco che allora cerca uno stato mentale che soddisfi la sua psicologia: si frequentano funzioni più o meno coreografiche, più o meno ricche di effetti e ci si crogiola in uno spazio mentale in cui partecipano tante persone, ma ciascuna è isolata dalle altre, ciascuna alla ricerca della propria soddisfazione.
Nel nostro passo, invece, Gesù si preoccupa di raffigurare non persone disgiunte dalle altre, ma profondamente, reciprocamente partecipi perché, se si è figli di Dio, non è possibile avere un comportamento oscuro o incoerente: “Quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro qualcuno, perdonate, perché anche il Padre vostro che è nei cieli perdoni le vostre colpe” (v.25); è infatti inammissibile che non venga fatto a noi così come noi facciamo ad altri e che noi non perdoniamo quando c’è pentimento da parte di colui o colei che ha fatto qualcosa nei nostri riguardi. E le contraddizioni del nostro agire in tal senso sono destinate ad emergere proprio quando ci accostiamo a Dio per pregare.
Potrei qui ricordare, per concludere, i frutti dello Spirito secondo l’apostolo Paolo e l’eccellenza della carità su tutti i doni, ma preferisco citare ancora una volta Giacomo: “Parlate e agite come persone che devono essere giudicate secondo una legge di libertà, perché il giudizio sarà senza misericordia contro chi non avrà avuto misericordia. La misericordia ha sempre la meglio sul giudizio” (2.12,13). Saremo trattati e accolti, infatti, così come avremo trattato gli altri e avremo regolato i nostri rapporti con loro. Amen.
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