15.36 – IL CONVITO DI BETANIA I/II (Marco 14.3-9)

15.36 – Il convito di Betania I/II(Marco 14.3-9)

 

3Gesù si trovava a Betània, nella casa di Simone il lebbroso. Mentre era a tavola, giunse una donna che aveva un vaso di alabastro, pieno di profumo di puro nardo, di grande valore. Ella ruppe il vaso di alabastro e versò il profumo sul suo capo. 4Ci furono alcuni, fra loro, che si indignarono: «Perché questo spreco di profumo? 5Si poteva venderlo per più di trecento denari e darli ai poveri!». Ed erano infuriati contro di lei.6Allora Gesù disse: «Lasciatela stare; perché la infastidite? Ha compiuto un’azione buona verso di me. 7I poveri infatti li avete sempre con voi e potete far loro del bene quando volete, ma non sempre avete me. 8Ella ha fatto ciò che era in suo potere, ha unto in anticipo il mio corpo per la sepoltura. 9In verità io vi dico: dovunque sarà proclamato il Vangelo, per il mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche quello che ha fatto».

 

Si tratta di un episodio ricordato da Matteo, Marco e Giovanni, anche se con qualche variante e un ordine cronologico diverso; Luca 19.20 scrive, come raccordo, “Dette queste cose, Gesù camminava davanti a tutti salendo verso Gerusalemme” e Giovanni, in 12.1. “Sei giorni prima della Pasqua”. Ora, provenendo da Gerico, Betania era l’ultima città che si incontrava e distava da lei circa tre chilometri, posizione che spiega la presenza di molti Giudei sul posto.

Introducendo l’episodio possiamo dire che Betania, il cui nome significa “Casa dei datteri” o “Casa di dolcezza”, rientra in quelle città particolari che Gesù incontrò durante il Suo Ministero, come Cana che vide il Suo primo miracolo, Capernaum che Lo annoverò fra i suoi concittadini acquisiti e tante altre. Betania però fu diversa perché costituì per Gesù la città dell’amicizia e della comunione in quanto gli amici che risiedevano là, Marta, Maria e Lazzaro, costituirono per Lui una pausa di letizia e gioia nell’attesa di dare la propria vita in sacrificio per la salvezza del peccatore.

Sul rapporto che Nostro Signore aveva con queste persone non credo vi sia bisogno di approfondire: probabilmente l’amicizia con loro nacque quando fu ospitato in casa di Marta, quando vi fu il famoso dialogo perché Maria non l’aiutava nei lavori e fu pronunciata la famosa frase “Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta”; con quella Gesù, come amava osservare un fratello, non solo ha avvisato l’uomo che la morte gli avrebbe rubato ogni cosa (parenti, amici e proprietà), ma ha altresì ribadito che nessuno, solo con le proprie opere, potrà evitare il giusto giudizio di Dio.

A questo riguardo è inevitabile pensare alla parabola dell’uomo ricco che disse “Anima mia, hai disposizione molti beni, per molti anni: ripòsati, mangia, bevi e datti alla gioia”. Sappiamo però che le cose per lui andarono diversamente, perché Dio gli disse “Stolto, questa notte stessa – in opposizione ai molti anni di godimento preventivati – ti sarà richiesta la tua vita – che s’illudeva di godere per molto tempo –, e quello che hai preparato di chi sarà?”. Tutto quello che quell’uomo aveva accumulato, da lì a poco sarebbe stato completamente sperperato dai suoi eredi, qualora ne avesse avuti, o in alternativa – aggiornamento ai tempi nostri – li avrebbe incamerati lo Stato.

 

Ora abbiamo letto che “Gesù si trovava a Betania, in casa di Simone il lebbroso”, persona sicuramente da Lui guarita che diede un convito in Suo onore, per cui anche Simone va annoverato tra le persone amiche, riconoscenti per tutto ciò che aveva fatto per loro. Alcuni identificano quest’uomo nell’unico tra i dieci (Samaritano) che tornò a ringraziare Gesù.

Ora, come abbiamo letto, l’arrivo di Nostro Signore a Betania provocò una festa fra i suoi amici e presumiamo tutto il villaggio, in cui tutti ricordavano molto bene la risurrezione di Lazzaro avvenuta pochi giorni prima e Simone mise la sua casa a disposizione per il convito che si svolse la sera, quindi a sabato concluso. Qui possiamo fare una prima riflessione: Simone, grazie all’intervento di Gesù nei suoi confronti, era passato da una condizione di emarginazione totale, evitato dal popolo, costretto a trovare rifugio in anfratti del terreno o caverne e a sopravvivere grazie alla carità altrui, al reintegro totale; era rientrato in possesso della sua casa, aveva potuto riallacciare le proprie amicizie sospese dalla malattia e ora si trovava vedere finalmente, non più soggetto al vincolo della distanza, Gesù da vicino, sentirlo parlare, muoversi nella sua spontaneità come mai gli era stato concesso.

Ragionando sul convito in casa di Simone si può pensare alla serenità e gioia reciproca che ne derivò, ma questa è una lettura umana e corrisponde al vero solo in parte, poiché a tavola vi era Colui che il profeta Isaia aveva descritto come “Consigliere ammirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace”, cioè il Figlio di Dio e il Figlio dell’uomo assieme, con quelle sue due nature che resero l’impossibile e l’impensabile possibile e concreto, cioè l’annullamento dell’inimicizia, a causa del peccato, fra Dio e l’uomo.

Se infatti col termine “Figlio di Dio” abbiamo la Sua provenienza e origine, col quello di “Figlio dell’uomo” abbiamo racchiusa tutta la realtà contemplabile dell’inimmaginabile. Mi spiego: Gesù visse fino a circa 30 anni come qualunque altro uomo, ogni suo risultato materiale e spirituale fu frutto di fatica e preghiera, poi dimostrò la sua sovrannaturalità e fu l’Emmanuele rivelato, il “Dio con noi” finalmente raggiungibile, tangibile, conoscibile. E tutto questo è così ancora oggi perché, da quando si manifestò, l’unico elemento cambiato è il non essere più in mezzo a noi con il corpo. Quando parlo di “contemplazione dell’inimmaginabile” è proprio tutto ciò che comprende 1 Corinti 2.14, “L’uomo naturale non comprende le cose dello Spirito di Dio; esse sono follia per lui, e non è capace di intenderle, perché se ne può giudicare solo per mezzo dello Spirito”. Al cristiano, di fatto e non di nome, salvato per Grazia mediante la fede, si apre in virtù dello Spirito Santo tutto un universo nuovo di cui non avrebbe mai potuto supporre l’esistenza.

Su Simone, poi, possiamo aggiungere che, a differenza di altri come ad esempio nell’episodio dell’unico tornato indietro su dieci, fu tra coloro che seppero essere riconoscenti a Gesù e glorificarono Iddio facendo di sé stesso una testimonianza continua: pensiamo al suo soprannome e al fatto che chiunque lo sentiva chiamato così, “il lebbroso” non poteva fare altro se non informarsi sulla sua guarigione avendo in risposta che era stato miracolato da Gesù, come noto a tutti.

Se quindi il primo personaggio con la lebbra avuta un tempo testimonia la realtà dell’uomo nel peccato che trova in Cristo il perdono e quindi la guarigione, in Lazzaro invece vediamo sperimentata la violenza della morte, che unisce tutti, credenti e non, tranne coloro che si troveranno in vita al rapimento della Chiesa, quando saranno trasformati “in un batter d’occhio”.

Con questi due personaggi, quindi, Gesù rivelò di essere in grado di ripristinare immediatamente la relazione fra l’uomo e Dio (la guarigione di Simone) e di liberare dal buio e dalla distruzione eterna della morte (Lazzaro), poiché sappiamo che questa non si limiterà a far cessare la vita in chi ha ancora un battito, ma chiuderà per sempre all’anima la possibilità di esistere qualora si sia consapevolmente non risposto al messaggio del Vangelo.

Terzo personaggio, la cui presenza è rivelata dal solo Giovanni, è Marta, di cui è scritto che “serviva” (12.2). Questo particolare, che apparentemente non aggiunge nulla al suo carattere perché l’abbiamo già conosciuta indaffarata nei lavori di casa, in realtà non è da sottovalutare perché, se Simone è figura del peccatore perdonato per Grazia e Lazzaro di colui che è risuscitato perché Gesù avrebbe vinto gli inferi e la morte, Marta lo è del servitore che non antepone mai le sue opere a quelle del suo Signore: in altri termini lei serve perché già facente parte di quella comunione e non per farsi notare o acquisire meriti, altrimenti ne sarebbe stata esclusa. Marta serviva al convito sotto lo sguardo benevolo di Gesù che la considerava a tutti gli effetti una dei Suoi e lo faceva come conseguenza naturale di questo nel senso che metteva a disposizione degli altri ciò che sapeva fare e qui risiede il valore di questa donna che dona liberamente quel che ha di suo. In lei e in ciò che fa vediamo le opere come conseguenza della fede e di ciò che si è gratuitamente ricevuto da Dio: “Per questa grazia, infatti, siete salvi mediante la fede e ciò non viene da voi, ma è un dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene” (Efesi 2.9).

Tra l’altro, particolare nascosto, tanto Marta che la sorella Maria di lì a poco, non avrebbero potuto trovarsi lì perché a quel tempo le donne non potevano presenziare ai conviti per cui non si può altro che dedurre che il loro stare in quel luogo fosse stato autorizzato da Gesù che, così facendo, anticipa ancora una volta la Dispensazione della Grazia in cui la donna non è più soggetta ad una società maschilista, ma al solo marito in modo non dispotico, cioè secondo la gerarchia spirituale stabilita da Dio che vede Lui al primo posto, seguito da Gesù, dall’uomo e dalla donna. Non è escluso, stante le regole di allora, che Marta servisse a tavola sotto lo sguardo magari contrariato dei Dodici, ancora legati a modelli di comportamento e tradizioni ormai antiquate.

Marta dunque, se è figura del peccatore perdonato abilitato dalla Grazia a servire, quindi a operare, necessita di una breve riflessione tesa a distinguere tra fede e opere perché al riguardo, purtroppo nella Chiesa, esiste confusione avendo chi le antepone alla fede (oppure le ritiene indispensabili per ottenere la salvezza) ed altri che, all’opposto, non le ritengono necessarie, dimenticando che queste altro non sono se non la conseguenza naturale del credere, come dal versetto successivo: “Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo” (Efesi 2.10). E notare il verbo “camminare” che allude ad un percorso preciso, fatto di volontà e decisione, ma anche possibilità di arresto, sospensione, deviazione cadute. Solo chi non cammina non corre dei rischi, ma come sappiamo dalle parabole delle dieci mine e dei talenti, non è una scelta consigliabile.

Chi vuole camminare nelle buone opere non è necessario che intraprenda chissà quali imprese, ma è sufficiente che porti con sé Gesù Cristo in ogni posto in cui si reca, in ogni spazio mentale che si prende. Se questo non è possibile, sappiamo già di sbagliare. Questo, spiegato in modo forse banale, ma essenzialmente semplice, credo sia l’unica cosa che possiamo fare perché sarà Lui poi a guidare, tramite lo Spirito Santo, i passi della persona.

Concludendo allora questa prima parte, abbiamo potuto considerare le prime tre persone che si incontrano nel racconto offertoci da Marco e Giovanni. Ciascuna di queste ci rappresenta nelle fasi della nostra vita spirituale (o, se preferiamo, di quanto ci è stato dato e siamo): abbiamo infatti il perdóno dei peccati cui segue la riconoscenza e il desiderio di conoscere Gesù sempre più da vicino, quindi la cittadinanza nel cielo, la promessa di risurrezione a nuova vita e la possibilità di agire e servire Colui che per il nostro perdóno ha dato la vita. Amen.

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15.35 – LA PARABOLA DELLE DIECI MINE III/III (Luca 19.15.27)

15.35 – La parabola delle dieci mine III: consegna e verifica (Luca 19.15-27)

 

15Dopo aver ricevuto il titolo di re, egli ritornò e fece chiamare quei servi a cui aveva consegnato il denaro, per sapere quanto ciascuno avesse guadagnato. 16Si presentò il primo e disse: «Signore, la tua moneta d’oro ne ha fruttate dieci». 17Gli disse: «Bene, servo buono! Poiché ti sei mostrato fedele nel poco, ricevi il potere sopra dieci città». 18Poi si presentò il secondo e disse: «Signore, la tua moneta d’oro ne ha fruttate cinque». 19Anche a questo disse: «Tu pure sarai a capo di cinque città». 20Venne poi anche un altro e disse: «Signore, ecco la tua moneta d’oro, che ho tenuto nascosta in un fazzoletto; 21avevo paura di te, che sei un uomo severo: prendi quello che non hai messo in deposito e mieti quello che non hai seminato». 22Gli rispose: «Dalle tue stesse parole ti giudico, servo malvagio! Sapevi che sono un uomo severo, che prendo quello che non ho messo in deposito e mieto quello che non ho seminato: 23perché allora non hai consegnato il mio denaro a una banca? Al mio ritorno l’avrei riscosso con gli interessi». 24Disse poi ai presenti: «Toglietegli la moneta d’oro e datela a colui che ne ha dieci». 25Gli risposero: «Signore, ne ha già dieci!». 26«Io vi dico: A chi ha, sarà dato; invece a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha. 27E quei miei nemici, che non volevano che io diventassi loro re, conduceteli qui e uccideteli davanti a me»».

 

Prima di entrare in questo capitolo, va ricordata la natura dell’incarico dato ai servi: è stato scritto che l’ “uomo di nobile famiglia” non li prende a caso, ma non è stato ancora dato alcun cenno sul fatto che la moneta consegnata era d’oro, metallo che nella Bibbia ha sempre riferimento a Dio. Se quell’uomo avesse dato ai servi una moneta d’argento, di rame o di bronzo, la parabola non avrebbe avuto senso. Certo sarebbe rimasto il principio dell’impegno a far fruttare quel denaro, dell’operosità e inoperosità, ma non sarebbe mai stato messo in risalto, in modo chiaro e assoluto, il fatto che quei personaggi ricevono qualcosa di prezioso che non solo non è loro, ma che viene da Dio e quindi ciascun servitore riceve una Sua piccola parte.

Questo amplia notevolmente e integra quanto scritto nello scorso studio perché ricevere una moneta d’oro comporta una responsabilità estrema in quanto non si tratta di maneggiare e impiegare un materiale qualsiasi: l’oro è diverso da tutti gli altri metalli, non ossida, ai tempi dell’Antico e Nuovo Testamento era inattaccabile ai composti chimici. Ecco allora che, per quei servi, ricevere una mina di quel metallo non poteva far sì che pensassero sempre al compito e all’onore ricevuti da quell’uomo che partiva per un paese lontano.

Quando nella prima parte di questo studio abbiamo fatto il confronto con la parabola dei talenti è stato fatto notare come la quantità affidata ai servi sia la stessa, quindi va da sé che il riferimento non possa essere allo stesso argomento: il talento viene consegnato in misura maggiore o minore, la mina è sempre e solo una e questo ci parla di due posizioni diverse nonostante il principio sia il medesimo. Da tener presente fra l’altro che, essendo la mina la sessantesima parte del talento, i significati delle due parabole devono essere differenti. La moneta d’oro che quei servi ricevono, a differenza dei talenti, ha connessione a ciò che viene consegnato a ciascun credente a monte, cioè la salvezza e il dono dell’acquisizione a figlio di Dio. Ad ogni credente viene affidata la responsabilità di condurre una vita degna della propria fede e del portare un “frutto”, che possiamo individuare anche solo in una posizione di coerenza che, di questi tempi, non è poco.

Rileviamo dal nostro testo che, all’atto della consegna della moneta, non viene dato ai servi alcun obiettivo da raggiungere nel senso che viene loro di farla fruttare, ma non quanto perché avrebbero dovuto farlo in base alle loro capacità, cosa che avvenne. Ognuno dei dieci è lasciato libero di agire come meglio crede con l’unica preoccupazione di portare un risultato, indipendentemente dall’ammontare della somma.

 

E giungiamo così al ritorno: chi ha consegnato le mine ora torna come re, tutto è cambiato: un re ha un potere assoluto, decide la vita e la morte dei suoi sudditi, non deve rispondere ad alcuno se non a se stesso, è padrone di tutto e il verso 15, così come è citato, è tradotto impropriamente poiché sarebbe “Accadde che, quanto tornò, dopo aver preso possesso del suo regno, ordinò che fossero chiamati i servi…”. “Dopo aver preso possesso del suo regno”, quindi una volta adempiute tutte le formalità necessarie e ricevuta l’investitura. Questo è un richiamo a tutti quegli avvenimenti che caratterizzeranno il ritorno di Gesù una volta per sempre, quello ufficiale e la presa di possesso del regno sarà caratterizzata dalla constatazione assoluta della Sua potenza e gloria, quando “ogni occhio lo vedrà” (anche quelli di quanti che non avranno creduto in Lui) perché nel Nome di Gesù sappiamo che dovrà piegarsi “ogni ginocchio”. Indipendentemente dal fatto che appartenga al numero dei servi o a quello di coloro che non lo volevano come re, tutti saranno costretti a inginocchiarsi, non esisteranno alternative come quelle escogitate prima del Suo ritorno per non credere, gli dèi illusori creati dagli uomini. Ricordiamo Filippesi 2.10 citato più volte nel corso di questi studi: “Perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: «Gesù è il Signore!» a gloria di Dio Padre”.

Ora sappiamo che “chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita” (Giovanni 5.24), ma anche del rendiconto, del giustificare il nostro operato proprio davanti a quel re che ha donato una moneta d’oro a ciascuno e – attenzione – non la vuole indietro, ma desidera constatare l’uso che ne abbiamo fatto. Tra l’altro va sottolineata la proporzione fra il risultato ottenuto dai servi e l’equivalenza in “città” loro consegnate, riferimento al premio e alla responsabilità nel mondo spirituale che ci attende.

Ora le dinamiche presentateci da questa parabola sono simili a quella dei talenti alla quale rimando, ma credo sia doveroso esaminare l’ultimo caso, quello del servitore infedele perché, anziché far fruttare la moneta come gli altri, la nasconde in un fazzoletto nell’attesa di restituirla al legittimo proprietario, e qui la meditazione si fa impegnativa perché sotto un’ottica prettamente umana quest’uomo non fa poi qualcosa di tanto deprecabile: non ruba, anzi restituisce ciò che gli era stato consegnato dichiarando la propria stima nei confronti del suo re che prende “quello che non ha messo in deposito e miete dove non ha seminato”. Però questo modo di vedere non considera prima di tutto l’oltraggio che viene fatto al re non avendo risposto con l’operosità e la fatica all’onore ricevuto: “io, che sono re, che raccolgo ciò che non ho depositato e mieto ciò che non ho seminato, chiedo la tua collaborazione”. E quello disattende in toto le aspettative del sovrano.

Non solo, ma possiamo considerare che, riponendo la moneta nel fazzoletto, quel servo abbia trascorso il tempo tra la partenza e il ritorno del suo padrone senza far nulla, mentre gli altri suoi pari si davano da fare per far fruttare il deposito ricevuto. È proprio il far nulla, ma ancor di più il totale disinteresse, a condannarlo perché, come viene detto anche nell’altra parabola, “perché allora non hai consegnato il mio denaro a una banca? Lo avrei riscosso con gli interessi” (v. 23).

Ecco allora che qui vengono messe in rilievo le capacità: quel servo è vero che ricevette una moneta e l’ordine di metterla a reddito come gli altri, ma non gli era stato detto come, era lui che avrebbe dovuto trovare il modo per farlo in base alla proprie forze e possibilità anche perché Gesù qui parla non di tutti i dieci servi, ma solo di quelli che portano il decuplo e il quintuplo, quindi il testo ci autorizza a pensare che gli altri otto abbiano portato tutte le quantità intermedie da dieci fino a due e che tutti vengano ricompensati. Quindi non importa quanto si fa, ma come e perché, qual è il motore del tutto. Se la moneta d’oro è assimilabile ad un’anima redenta, allora le dieci fruttate dal primo servitore sono altre anime e quella messa nel fazzoletto è chi, pur avendo creduto, resta immobile a livello di pensiero, di azione, senza che nessuno sappia niente di lui.

Ancora, se l’oro è oro e non può essere confuso con altro metallo, va da sé che la Chiesa non può barare o cercare, come avvenuto in passato, l’evangelizzazione delle masse e scambiare l’adesione formale delle persone con la conversione e la santificazione, possibile solo quando si ha chiara la propria responsabilità come figli di Dio e questa, purtroppo, viene raramente insegnata.

Appare allora chiara l’urgenza della comprensione del nostro testo che non afferma l’esistenza di una scala di merito, ma evidenzia il fatto che ciascuno dei servi, tranne uno, ha lavorato portando un risultato adempiendo così ai voleri di colui che, partito per ricevere l’investitura, non aveva fissato né un minimo, né un massimo perché il loro lavoro fosse considerato accettabile.

Emergono a questo punto dei personaggi ai quali si fa poco caso, cioè “i presenti”, certamente le guardie reali, pronte ad eseguire gli ordini, nei quali possiamo identificare gli Angeli, i perfetti esecutori delle volontà di Dio così come descritti in Matteo 25.31, “Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra”.

Troviamo gli Angeli anche in 2 Tessalonicesi 1.7, “…quando si manifesterà il Signore Gesù dal cielo, insieme agli angeli della sua gloria, con fuoco ardente, per punire quelli che non riconoscono e che non obbediscono al vangelo del Signore nostro Gesù”, e nella parabola della zizzania, “Come dunque si raccoglie la zizzania e la si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, che raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e quelli che commettono iniquità e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro” (Matteo 13.40-43).

A questo punto abbiamo un breve intermezzo, vale a dire un’osservazione a Gesù da parte di quanti lo ascoltavano, evidentemente stupiti dell’ordine dato alle guardie del re “prendete la moneta d’oro e datela a colui che ne ha dieci”: secondo costoro era troppo, perché il servo fedele era già stato premiato e aveva già abbastanza mine, ma non secondo il Maestro che stabilì un concetto importante, cioè che “A chi ha sarà dato, a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha”, cioè sarà privato anche del nulla cioè di ciò che credeva di avere, o meglio di quello che ha ricevuto, ma non ha voluto far fruttare. È questa l’unica punizione che rileviamo nella parabola, a parte la logica conclusione dei contrari al regno, e questo ci parla della benignità di Dio che non è un despota pretenzioso, ma valuta nella Sua perfezione l’opera dell’uomo da Lui onorato con un incarico, o dono che dir si voglia.

Con altrettanta perfezione, poi, Gesù fa emergere la condizione di quell’unico servitore che dice“ho avuto paura di te, che sei un uomo severo”, ma che in realtà non aveva avuto alcuna voglia di agire perché, appunto, viceversa sarebbe andato in banca ad affidare la moneta ricevuta, che qui credo sia la figura istituzionale della Chiesa nel senso di cooperazione e dedizione a compiti che, magari non “onorevoli” in senso umano come il Ministero, il Dottorato, la Predicazione etc., sono comunque necessari. Spesso, leggendo la Scrittura, tendiamo a vedere le “cose grandi” come alla nostra portata, ma dimentichiamo che prima dobbiamo dimostrare di saper gestire le piccole secondo Luca 16.10, “Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti”.

Al servitore che non aveva ottemperato l’ordine ricevuto, viene tolta la mina avuta, ma non ne viene rivelata la sorte. Non è cioè assimilato ai nemici del re e nemmeno di lui viene detto, come nella parabola dei talenti, “Il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti” (Matteo 25.30). Perché? Personalmente tendo a considerare il talento/i come uno specifico dono dello Spirito, mentre nella moneta d’oro la salvezza, il titolo di figlio di Dio che non può essere tolto e quindi quel servo poté restare nel palazzo, ma non certo con i privilegi e la posizione dei suoi simili, vivendo una vita a margine che prima non aveva. Per lo meno questo è ciò che mi pare di capire, a differenza dell’omologo di Matteo che chiaramente non tiene in alcun conto quanto ricevuto, cioè una somma più importante dalla quale il suo signore si aspettava di ricavare un reddito.

Le ultime parole di Gesù in questa parabola sono per i nemici che non lo hanno voluto come re: c’è quindi volontà nel rifiuto, visto che davanti a Lui non esiste possibilità di essere neutrali, esattamente come è una scelta non aprire quando Lui bussa alla porta della nostra vita. “Non volere” Gesù come re significa ostinarsi nelle proprie convinzioni, convinti di essere noi con la nostra vita – che poi nostra non è – a valere più di Lui. Significa non distogliere lo sguardo da ciò che siamo per rivolgerlo verso la perfezione, in pratica concretare l’amara constatazione di Gesù, “Quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia i suoi pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto!” (Luca 13.34). È il pianto di Gesù su Gerusalemme, nell’attesa che fosse lei a piangere davvero. Amen.

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15.34 – LA PARABOLE DELLE DIECI MINE II/III (Luca 19.15-27)

15.34 – La parabola delle dieci mine II: la partenza (Luca 19.15-27)

 

11Mentre essi stavano ad ascoltare queste cose, disse ancora una parabola, perché era vicino a Gerusalemme ed essi pensavano che il regno di Dio dovesse manifestarsi da un momento all’altro. 12Disse dunque: «Un uomo di nobile famiglia partì per un paese lontano, per ricevere il titolo di re e poi ritornare. 13Chiamati dieci dei suoi servi, consegnò loro dieci monete d’oro, dicendo: «Fatele fruttare fino al mio ritorno». 14Ma i suoi cittadini lo odiavano e mandarono dietro di lui una delegazione a dire: «Non vogliamo che costui venga a regnare su di noi». 

 

Anche se il capitolo precedente è stato dedicato allo sviluppo dei primi versi, possiamo ricordare che il dodicesimo corregge il falso concetto che i presenti avevano di Gesù, vale a dire che a Gerusalemme si sarebbe manifestato come Messia ed avrebbe instaurato il regno di Israele. Certo che, essendo a lei vicino, vi era qualcosa che stava per accadere, ma ciò era la Sua passione, morte e risurrezione: da lì sarebbe partito “per un paese lontano, per ricevere il titolo di re e poi ritornare”, non la definitiva instaurazione del Suo regno.

Ora, proseguendo la lettura della parabola, vediamo che l’uomo “di nobile famiglia”, quindi di rango elevato, aveva a disposizione una servitù composta da persone di vari profili professionali e ne chiama dieci, numero che non ha riferimento agli apostoli, ma all’esattezza e alla precisione. Più volte il dieci è stato associato soprattutto a quello dei comandamenti, detti “il sommario della Legge” perché quello è il numero riferito a ciò che Iddio si aspetta dall’uomo. Nei “dieci servi” e nelle altrettante monete vediamo allora la cura e premura perché tutto fosse fatto al meglio nel senso che viene organizzata ogni cosa perché fosse l’ideale, l’ottimo a disposizione perché il frutto portato potesse corrispondere pienamente alle aspettative di colui che avrebbe dovuto partire, una volta tornato.

C’è nelle prime parole di questo verso, “un uomo di nobile famiglia partì per un paese lontano” un concetto di distanza implicito nel senso che il “lontano” è chiaramente usato per chi rimane a casa, nel palazzo, ma non per lui. “Lontano” è un termine che implica a qualcosa di poco conosciuto, un luogo in cui le usanze sono diverse, presumibilmente anche la lingua, il modo di esprimersi, capire e intendere le cose. È l’ “uomo nobile” che vi può andare, è lui ad essere atteso in quel luogo, è lui che è destinato a tornare per occupare un posto che è solo il Suo tanto nel “paese lontano” quanto in quello che troverà al Suo ritorno. Tanto i servi quanto le monete, allora, non vanno prese letteralmente cercando di identificarle in personaggi precisi, ma sono figure nel senso che i dieci servi non possono essere gli apostoli, che erano e resteranno dodici anche dopo la morte di Giuda, ma tutti coloro che hanno ricevuto da Gesù un dono per servirlo, visto nella moneta d’oro.

Mine o talenti appartengono solo ed esclusivamente al Signore che le affida ai “servi” con l’unico scopo che vengano da loro usati perché il Suo reddito possa aumentare. Credo che non vi sia un collegamento più pertinente a questa procedura se non in Marco 16.15,16 quando, risorto e prima dell’ascensione, disse “Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato”. Ora è importante sottolineare che prima di queste parole, in Luca 24.45, leggiamo che “aprì loro la mente per comprendere le scritture”. Fu da questo momento che gli Undici, prima che Mattia entrasse nel Gruppo, poterono “comprendere”, quindi agire e parlare non più come “brave persone” che avevano dato quanto potevano al loro Maestro, ma come esseri spiritualmente responsabili e coscienti di ciò che erano, questo nell’attesa che fossero “rivestiti di potenza dall’alto” (v.49).

Ora, confrontando l’atto del chiamare i dieci servi, nel dar loro altrettante mine e nel dire “Fatele fruttare fino a mio ritorno” e quanto avvenuto dopo la resurrezione di Gesù, appare chiaro che il mandato viene conferito a persone di esperienza umana e di contatto profondo con Lui. Gli apostoli, nel contesto che abbiamo citato, non erano giunti a un punto di arrivo, ma a quello di partenza; dopo aver affidatoGli la vita per circa tre anni e mezzo, dopo averlo ascoltato, seguito, visto guarire ogni sorta di malattia e infermità di un popolo, ricevono l’abilitazione a comprendere le Scritture come nessuna scuola scientifica rabbinica avrebbe mai potuto insegnar loro. Sarebbero andati “in tutto il mondo” (conosciuto), ma non mandati allo sbaraglio senza avere idea di cosa avrebbero detto o fatto, avendo certezza della presenza costante di Gesù in e con loro.

La frase che viene detta ai dieci servi è emblematica, “Fatele fruttare fino al mio ritorno”, perché contiene l’istruzione e la durata dell’incarico. E qui si aprono numerosi argomenti di riflessione, il primo e più comodo dei quali è sulla qualifica di queste persone, tradotta col termine generico di “servi” che a una lettura superficiale potrebbero essere assimilati a quelli che avevano un profilo di cuoco, o lavapavimenti, ma in realtà erano persone di rango superiore che si trovavano solo nelle grandi famiglie: fra i Romani gli schiavi non erano tutti impiegati a fare i lavori di casa, ma alcuni ricevevano un’istruzione letteraria e venivano impiegati come maestri o scribi, altri ancora esercitavano mestieri e commerci il capitale dei quali era provveduto dai padroni che poi reclamavano una parte o il totale dei profitti.

Ecco allora che i “servi” e il mandato apostolico non possono essere confusi con la condizione che hanno tutti i credenti in genere: questi, in quanto salvati per grazia, possono sempre portare la loro testimonianza al prossimo come e quando lo ritengono opportuno, ma chi è “servo” non può essere altro che una persona preparata. Si tratta di una distinzione molto importante, esattamente come avviene per l’apostolo che oggi non può esistere per il semplice fatto che non ha vissuto, come quelli veri, con Gesù. Se così non fosse, gli Undici non si sarebbero posti il problema di scegliere, una persona che consentisse il numero originariamente stabilito da Gesù. Dopo il suicidio di Giuda, era necessario che fosse scelto “Uno che divenga testimone, insieme a noi, della sua resurrezione, tra coloro che sono stati con noi per tutto il tempo nel quale il Signore Gesù è vissuto fra noi, cominciando dal battesimo di Giovanni fino al giorno in cui è stato in mezzo a noi assunto in cielo” (Atti 1.21,22).

Se quindi agli Apostoli Gesù diede il mandato dopo tre anni e mezzo, se le mine vengono affidate ai servi dopo una formazione adeguata, allo stesso modo portare il Vangelo con efficacia richiede fondamenti il più delle volte sofferti, attraverso una plasmatura e un lavoro non indifferente di esperienza ed orientamento senza il quale si rischia di non giungere ad  un risultato apprezzabile; si potranno avere dei seguaci, degli adepti, dei religiosi, ma non persone in grado di essere illuminate dalla Verità del Vangelo.

Tornando alla frase “Fatele fruttare fino al mio ritorno” ci dà la durata, non definita, dell’incarico: i servi cioè sanno che il compito ricevuto è a tempo indeterminato. Da quel giorno in poi fu un succedersi di questi attraverso i secoli che hanno portato avanti lo stesso incarico, con efficacia maggiore o minore, come vedremo. L’importante è ricevere la mina, nel quale è indubbio distinguere il dono, e la funzione: non può esservi l’uno senza l’altro e chi porta il Vangelo in un modo o in un altro deve chiedersi se possiede entrambi, per evitare conseguenze devastanti.

“Fino al mio ritorno”, poi, è una frase che implica un’attività continua, che avrà una scadenza non quando lo decideranno i servi, ma quando avverrà il ritorno promesso. Sappiamo da parabole collegate al ritorno di Gesù che alcuni si addormenteranno, si stancheranno, avranno l’idea che obiettivamente il Signore “tarda a venire” e allora si dedicheranno all’inutilità delle cose della vita se non addirittura a sopraffare gli altri, potranno avere la tentazione di nascondere la mina o il talento senza far nulla perché in fondo quanto dato verrà restituito, ma la verità è depositata nel concetto del ritorno dell’ “uomo di nobile famiglia”.

A questo punto Gesù, che si trovava a Gerico e che per questo espose una parabola che, a motivo della reggia e delle vicende ad essa legate, poteva essere ben compresa, include un altro elemento di cui leggiamo al verso 14, “Ma i suoi concittadini lo odiavano e mandarono dietro di lui una delegazione a dire: «Non vogliamo che costui regni sopra di noi»”. Certo è facile individuare in questi personaggi le autorità religiose del popolo o anche solo quanti, fra lo stesso, erano contrari a Gesù, ma in queste parole c’è un riferimento preciso a tempi da poco trascorsi perché, quando in Giudea si seppe che Archelao, figlio di Erode il Grande, era partito per Roma per ottenere da Augusto il diritto a regnare su quel territorio, i suoi sudditi, conoscendo il suo carattere e sapendo a quali conseguenze avrebbe portato un regno diretto da lui, mandarono a Roma un’ambasciata per protestare contro la sua nomina e impedirla in ogni maniera. In realtà le cose furono molto più complesse perché vi fu un processo, Salome sorella del padre lo accusò di cattiva gestione, in Giudea scoppiarono disordini poi repressi da due legioni romane, ma di questo si può prendere atto leggendo i libri di storia.

Fatto sta che qui Gesù, citando i concittadini dell’uomo nobile che lo rifiutano come re, fa un richiamo politico assimilando il rifiuto dei capi religiosi del popolo a riceverlo come “Colui che viene nel nome del Signore” a quelli che non volevano che Archelao regnasse su di loro, cosa che poi avvenne anche se per breve tempo.

Già in queste parole c’è l’impressione di una sentenza imminente e al tempo stesso del fatto che i dieci servi sarebbero stati assolutamente indifferenti al rifiuto di quelli; a loro era stato detto “Fatele fruttare fino al mio ritorno” senza preoccuparsi di altro, come leggiamo dalle parole di Paolo a Timoteo nella sua seconda lettera: “E tu, figlio mio, attingi forza dalla grazia che è in Cristo Gesù: le cose che hai udito da me davanti a molti testimoni, trasmettile a persona fidate, le quali a loro volta siano in grado di insegnare agli altri. Come un buon soldato di Gesù Cristo, soffri insieme con me. Nessuno, quando presta servizio militare, si lascia prendere dalle faccende della vita comune, se vuol piacere a colui che lo ha arruolato. Anche l’atleta non riceve il premio se non ha lottato secondo le regole. Il contadino, che lavora duramente, dev’essere il primo a raccogliere i frutti della terra. Cerca di capire quello che dico, e il Signore ti aiuterà a comprendere ogni cosa” (2.1-7). Amen.

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15.33 – LA PARABOLA DELLE DIECI MINE I/III (Luca 19.11-57)

15.33 – La parabola delle dieci mine I/III: il paese lontano (Luca 19.11-27)

 

11Mentre essi stavano ad ascoltare queste cose, disse ancora una parabola, perché era vicino a Gerusalemme ed essi pensavano che il regno di Dio dovesse manifestarsi da un momento all’altro. 12Disse dunque: «Un uomo di nobile famiglia partì per un paese lontano, per ricevere il titolo di re e poi ritornare. 13Chiamati dieci dei suoi servi, consegnò loro dieci monete d’oro, dicendo: «Fatele fruttare fino al mio ritorno». 14Ma i suoi cittadini lo odiavano e mandarono dietro di lui una delegazione a dire: «Non vogliamo che costui venga a regnare su di noi». 15Dopo aver ricevuto il titolo di re, egli ritornò e fece chiamare quei servi a cui aveva consegnato il denaro, per sapere quanto ciascuno avesse guadagnato. 16Si presentò il primo e disse: «Signore, la tua moneta d’oro ne ha fruttate dieci». 17Gli disse: «Bene, servo buono! Poiché ti sei mostrato fedele nel poco, ricevi il potere sopra dieci città». 18Poi si presentò il secondo e disse: «Signore, la tua moneta d’oro ne ha fruttate cinque». 19Anche a questo disse: «Tu pure sarai a capo di cinque città». 20Venne poi anche un altro e disse: «Signore, ecco la tua moneta d’oro, che ho tenuto nascosta in un fazzoletto; 21avevo paura di te, che sei un uomo severo: prendi quello che non hai messo in deposito e mieti quello che non hai seminato». 22Gli rispose: «Dalle tue stesse parole ti giudico, servo malvagio! Sapevi che sono un uomo severo, che prendo quello che non ho messo in deposito e mieto quello che non ho seminato: 23perché allora non hai consegnato il mio denaro a una banca? Al mio ritorno l’avrei riscosso con gli interessi». 24Disse poi ai presenti: «Toglietegli la moneta d’oro e datela a colui che ne ha dieci». 25Gli risposero: «Signore, ne ha già dieci!». 26«Io vi dico: A chi ha, sarà dato; invece a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha. 27E quei miei nemici, che non volevano che io diventassi loro re, conduceteli qui e uccideteli davanti a me»».

 

Questa parabola, detta anche “dei dieci servi”, fu esposta con ogni probabilità al convito organizzato da Zaccheo in casa sua per salutare Gesù, preceduto dalla professione di fede che abbiamo esaminato. Viene istintivo accomunarla a quella, forse più celebre, dei talenti, ma ne differisce nei particolari: questa fu esposta poco prima di iniziare il viaggio da Gerico a Gerusalemme, l’altra sul Monte degli Ulivi; una fu esposta a tutti i presenti, quindi Apostoli, Discepoli e tutti gli ospiti di Zaccheo, l’altra ai soli Dodici. Da questo particolare rileviamo allora che ad ascoltare le parabole vi era anche Giuda, che nonostante tutto si assunse la responsabilità del tradimento. La parabola delle mine, poi, non parla solo di servitori come quella dei talenti, ma anche di cittadini che non vogliono riconoscere la sovranità di chi è partito e deve tornare. Poi qui ogni servo riceve la stessa somma, mentre nell’altra il numero cambia. In compenso, entrambe le parabole contengono il verdetto di condanna per il servo che nulla fa di quanto gli era stato ordinato.

Il testo che stiamo per esaminare, seppur brevemente, fu esposto “perché era vicino a Gerusalemme ed essi pensavano che il regno di Dio dovesse manifestarsi da un momento all’altro”: infatti, tra i Dodici, i discepoli e quelli che accompagnavano Gesù per varie ragioni, si era diffusa l’opinione che nell’imminente Pasqua si sarebbe verificato un non meglio precisato evento che avrebbe portato il Cristo ad instaurare a Gerusalemme il suo regno messianico. Ecco perché Salome, Giacomo e Giovanni si presentarono a Gesù per chiedergli di poter sedere l’uno alla sua destra e l’altro alla sua sinistra nel Suo regno, ed ecco il motivo per cui gli altri si sdegnarono non essendo riusciti a chiedere la stessa cosa prima di loro; può anche essere questo il motivo che fece dire a Cleofa e all’altro discepolo innominato, quando apparve loro in altra forma, “Noi speravamo che fosse lui quello che avrebbe liberato Israele” (Luca 24.21).

Possiamo dire che l’idea della restaurazione del regno rimase nella mente dei discepoli anche dopo la Sua risurrezione, quando in Atti 1.6-8, prima che il Consolatore si manifestasse, gli chiesero “Signore, è questo il tempo nel quale ricostruirai il regno per Israele? Ma egli rispose: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra»”.

Nella prima parte della nostra parabola Gesù, parlando di “un uomo di nobile famiglia” che parte “per un paese lontano per ricevere il titolo di re e poi tornare”, è certo di attirare l’attenzione dei presenti perché era noto che, da quando i Romani avevano unito al loro impero la Siria e la Palestina, tutti coloro che esercitavano un’autorità come re locali (vedi Erode il Grande, Archelao, i figli ed Erode Agrippa) dovevano andare a Roma per ricevere l’investitura.

Ecco allora la descrizione che Nostro Signore dà di sé: “un uomo di nobile famiglia”. Non “il Figlio di Dio” potente, colui che “prima che il mondo fosse, Io sono”, ma “un uomo” che non era come gli altri perché la “nobile famiglia” cui fa riferimento è quella di Abrahamo e di Davide dai quali discendeva.

“Per ricevere il titolo di re e poi ritornare” è lo scopo dell’assenza di quella persona dalle sue terre e dalla sua casa. Questo comporta un viaggio, un soggiorno nel Paese che lo avrebbe investito di quella carica, e un ritorno – attenzione – non fra i suoi famigliari, ma fra la sua gente, “i suoi concittadini” che “l’odiavano” che inviarono “una delegazione” a far presente che non volevano fosse lui a regnare su di loro.

È indubbiamente singolare la limpidità di questo racconto e i riferimenti che Gesù dà di sé stesso, poiché effettivamente, con la Sua ascensione, se ne andrà “per un paese lontano a ricevere il titolo di re” che prima non aveva nel senso che, pur essendo Dio e Uno con il Padre, non era ancora stato rivelato all’uomo, per lo meno non come nel tempo della Grazia. Gesù salì al Padre quaranta giorni dopo la Sua risurrezione e da allora è seduto alla Sua destra “finché io ponga i tuoi nemici – e già possiamo vedere i concittadini – a sgabello dei tuoi piedi” (Salmo 110.1) in attesa, come disse l’apostolo Pietro nel tempio, della Sua manifestazione: “Bisogna che il cielo lo accolga fino ai tempi della ricostituzione di tutte le cose, delle quali Dio ha parlato per bocca dei suoi santi profeti fin dall’antichità” (Atti 3.21).

Il protagonista della parabola parte “per un Paese lontano”, in quella dei talenti è scritto che “partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni” (Matteo25.14), da cui rileviamo l’enorme responsabilità di cui quelle persone furono rivestite. Qui, invece, abbiamo un “uomo nobile” che diventa re e poi, come anche nell’altro racconto, torna, soltanto che solo qui sappiamo dell’investitura quale Dio rivelato all’uomo una volta per sempre.

Quel “paese” era “lontano”, sia per i suoi uditori, ma anche per Lui perché dobbiamo ricordarci che “prese forma di servo”, rinunciò al proprio vivere nelle sfere celesti per scendere sulla terra e vivere trentatré anni circa come un qualunque essere umano. Il suo salire al cielo, figura dell’ingresso in una dimensione diversa e invisibile, ci parla non solo della vittoria sulla morte, ma della sua totale purezza nel senso che, se così non fosse stato, non avrebbe potuto risorgere. Nulla di impuro lo aveva intaccato, perché ogni cosa si era adempiuta e compiuta.

Il partire di Gesù per il “paese lontano” significa proprio questo, l’andare presentandosi al Padre come Colui che aveva con successo svolto quell’opera volontariamente scelta per salvare l’uomo che avrebbe creduto in Lui beneficiando della Sua Opera perfetta. In Efesi 1.20-23 leggiamo che la grandezza della Sua potenza verso di noi “la manifestò in Cristo, quando lo risuscitò dai morti e lo fece sedere alla sua destra nei cieli, al di sopra di ogni Principato e Potenza, al di sopra di ogni Forza e Dominazione e di ogni nome che viene nominato non solo nel tempo presente, ma anche in quello futuro”. Il Dio Figlio ricevette la posizione che Paolo ci ha ricordato proprio per il suo vissuto umano trionfante sul peccato, sul dubbio, sull’esitare, sull’inaffidabilità umana che non ebbe, solidarizzando con la creatura caduta senza cadere.

Non può esservi altro nome più grande al di fuori di quello di Gesù, e naturalmente del Padre che lo ha inviato. Se penso alle alternative che il mondo propone, mi viene male perché ognuna di esse, escogitata per non ascoltarlo, non accoglierlo e agire di conseguenza di fronte a Lui sarà dissolta. E dolorosamente.

In Filippesi 2.5-11 leggiamo che Gesù, “dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò un nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!» a gloria di Dio Padre”. Notiamo che è scritto “Signore” senza l’articolo davanti, perché anche un determinativo ne ridurrebbe la portata. Signore di tutto, senza possibilità di non essere accolti per alcuni e nemmeno di evitare una condanna per altri, come nel finale della parabola che qui limito ai concittadini contrari: “A quei nemici che non volevano che io diventassi loro re, conduceteli qui e uccideteli davanti a me”. In pratica, finisce il tempo del servo e inizia quello del regnante che dà il compenso per quanto si avrà operato, in bene o in male.

C’è un particolare in quest’ultimo verso, “ogni ginocchio si pieghi” che dà al tempo stesso l’idea della spontaneità e della costrizione: di fronte a Lui ci sarà chi si inginocchierà per rispetto spontaneo, desideroso di onorarlo finalmente alla Sua presenza, e chi non ne potrà fare a meno nonostante il suo averlo costantemente respinto, disprezzato, rinnegato. Sarà un piegare le ginocchia per sconfitta.

Altro passo su quanto avviene dal e nel “paese lontano” e la realtà delle cose l’abbiamo in Colossesi 1.17-20: “Egli è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono. Egli è anche il capo del corpo, della Chiesa. Egli è il principio, primogenito di quelli che risorgono dai morti, perché sia lui ad avere il primato su tutte le cose. È piaciuto infatti a Dio che abiti in lui tutta la pienezza e che per mezzo di lui e in vista di lui siano riconciliate tutte le cose, avendo pacificato con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli”.

Non sono parole messe a caso, non è una dossologia da recitare con enfasi rendendola inconcludente, ma la verità espressa sull’invisibile: “per mezzo di lui e in vista di lui” è un concetto che parte dalla creazione del mondo che conosciamo e termina con quella Nuova. Abbiamo poi letto che il sangue sparso alla croce ha “pacificato sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli”, vale a dire che il disequilibrio causato dalla disubbidienza dei nostri progenitori è stato eliminato, pur restando come conseguenza la morte, che verrà eliminata assieme a tutto ciò che è negativo con la nuova creazione.

L’ultimo verso, poi, quello sulla pacificazione, non sta ad indicare altro se non il riunire sotto la figura di Gesù glorificato ogni cosa, cioè “ricondurre al Cristo, unico capo, tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra”. Amen.

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15.32 – ZACCHEO (Luca 19.1-10)

15.32 – Zaccheo (Luca 19.1-10)

 

1 Entrò nella città di Gerico e la stava attraversando, 2quand’ecco un uomo, di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, 3cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura. 4Allora corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomòro, perché doveva passare di là. 5Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». 6Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia. 7Vedendo ciò, tutti mormoravano: «È entrato in casa di un peccatore!». 8Ma Zaccheo, alzatosi, disse al Signore: «Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto». 9Gesù gli rispose: «Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch’egli è figlio di Abramo. 10Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto».

 

Come avvenuto prima di affrontare il personaggio Bartimeo, anche l’introduzione di Luca “Entrò nella città di Gerico e la stava attraversando” merita un breve approfondimento che dovrà tener conto della geografia della zona e dei due (o tre secondo altri) ciechi lì guariti. Riflettendo sui racconti dei sinottici, abbiamo: “Mentre si avvicinava a Gerico, un cieco era seduto lungo la strada a mendicare” (Luca 18.35), “Mentre partiva da Gerico” (Marco 10.16) e “Mentre uscivano da Gerico, (…) due ciechi, seduti lungo la strada a mendicare…” (Matteo 20.29). Sapendo che esisteva una città vecchia e una nuova, ritengo più che plausibile che Matteo abbia riassunto in uno solo due incontri diversi che avvennero rispettivamente all’uscita dalla città vecchia e prima di quella nuova, che Marco abbia riferito del solo Bartimeo, che si era sistemato tra le due, e che Luca faccia un riferimento analogo. In più, sempre Luca in 18.43, abbiamo un dettaglio interessante e cioè che Bartimeo “Subito ci vide di nuovo e cominciò a seguirlo glorificando Dio. E tutto il popolo – della Gerico nuova –, vedendo, diede lode a Dio”.

Ecco allora che, quando leggiamo nel nostro testo al verso 1 “Entrò nella città di Gerico e la stava attraversando”, il miracolo della guarigione di Bartimeo era già avvenuto ed è facile immaginarsi la scena: la folla era entusiasta e acclamava Gesù; tutti, anche quelli che erano ignari del miracolo, non potevano fare altro che notare quella gente esultante con Bartimeo che vedeva perfettamente; la notizia si spargeva sempre di più ed era un accorrere generale verso il corteo dei discepoli che via via s’ingrandiva.

A questo punto inizia ad emergere la figura di Zaccheo, che significa “puro” o “innocente”. Era il “capo dei pubblicani ed era ricco” stante la città che amministrava per conto del Governo di Roma: ricordiamo che da lì si esportava il balsamo demdrom miræ e che, per il passaggio delle carovane, il traffico delle merci e delle persone era molto rilevante, quindi anche le riscossioni dei tributi. Zaccheo, per poter avere in appalto la gestione delle tasse, doveva essere già ricco di suo perché il Governo di Roma, per poter concederne l’appalto, richiedeva a chi ne faceva richiesta una forte cauzione.

Naturalmente malvisto più dei semplici pubblicani, quell’uomo era basso di statura e, in mezzo a tutta la confusione che si era venuta a creare e la gente più alta di lui, proprio non gli riusciva di vedere Gesù né tantomeno di farsi notare da lui, qualora fosse quello il suo intento.

E qui sorge spontaneo confrontare Bartimeo e Zaccheo: il primo pregava Iddio perché potesse passare per Gerico e guarirlo, il secondo invece suppongo avesse semplicemente sentito parlare di Gesù e volesse rendersi conto di persona chi fosse, quali fattezze avesse. Come tutti i suoi concittadini sapeva dei miracoli, della Sua predicazione e probabilmente gli era noto che, a differenza degli altri israeliti, non disprezzava i pubblicani, anzi a volte aveva loro insegnato e chissà se Zaccheo sapeva che, fra i discepoli, c’era qualcuno che faceva (o aveva fatto) il suo stesso mestiere, Matteo primo fra tutti.

La volontà di Zaccheo di vedere Gesù non era superficiale perché, se così fosse stato, non avrebbe certo escogitato un sistema per vederlo, anticipandone il percorso e arrampicandosi su uno dei tanti sicomori, piante simili ai gelso, che crescevano spontaneamente lungo la strada. Chissà perché, mi sono sempre immaginato la scena raccontata da Luca come avvenuta in una piazza, ma credo che Zaccheo abbia corso e trovato il punto più favorevole per vedere Gesù all’uscita della città; proprio fuori dalla Gerico nuova infatti, prendendo la strada per Gerusalemme come riferimento, Erode il Grande aveva fatto costruire diverse case e, dalla dinamica degli avvenimenti, può essere benissimo che Zaccheo abitasse in una di quelle.

Per quest’uomo era arrivato dunque il momento di rendersi conto personalmente di chi fosse Gesù: voleva “vederlo” nel senso di capire che persona fosse, cogliere quei particolari che solo quelle persone che hanno esperienza dell’uomo possono. In Zaccheo quindi esisteva il germe del dubbio nel senso che, prima di credere, voleva verificare con mano, scrutare l’esteriorità di Gesù per valutarlo come uomo, cosa alla quale era abituato nel scegliere i propri collaboratori ed esaminare la sincerità dei propri interlocutori che, oltre a disprezzarlo, cercavano sempre il modo migliore per pagare meno tributi possibili.

Arrampicandosi sul sicomoro, cosa non difficile per la conformazione di quest’albero, Zaccheo mostra un desiderio di capire così forte da renderlo incurante dell’eventuale, ridicola “figura” alla quale si sarebbe sottoposto qualora fosse stato visto dai suoi concittadini. La volgarità delle persone, infatti, si manifesta sempre attraverso la presa in giro, lo scherzo o il dileggio, come ricorda Salomone in Proverbi 26.18,19: “Come un pazzo che scaglia tizzoni e frecce di morte, così è colui che inganna il suo prossimo e poi dice: «Ma sì, è stato uno scherzo!»”.

Zaccheo quindi si arrampica: nulla ha da chiedere o da dire a Nostro Signore, ma vuole solo rendersi conto del personaggio, ma non sa che, così come Natanaele era stato visto “sotto il fico”, lui sarebbe stato visto “sopra il sicomoro”. Si può dire che, se il capo dei pubblicani aspettava di vedere Gesù, Lui aspettava di incontrarlo e di fermarsi a casa sua, e questo ci parla di quanto siamo sempre profondamente ignoranti: viviamo, pensiamo, progettiamo e poi, alla fine, le uniche cose che restano sono quelle che sempre Lui permette e prepara per noi. Zaccheo aveva tutto un programma, cioè rendersi conto personalmente chi fosse Gesù e poi incontra Uno che lo onora della Sua presenza e si lascia conoscere.

Leggiamo in una traduzione più corretta della nostra che “Come fu giunto in quel luogo, Gesù alzò gli occhi, e lo vide, e gli disse: Zaccheo, scendi giù in fretta, perché oggi devo albergare in casa tua”. Questo verso ci insegna molte cose, prima fra tutte il fatto che, quando è Dio a cercarci in salvezza o in giudizio, non possiamo nasconderci. E Zaccheo sono convinto che si fosse ben mimetizzato tra le fronde spesse di quel sicomoro. Seconda, Gesù “alzò gli occhi” proprio in quel punto, mentre di solito un albero lo si guarda da lontano per poi passargli vicino senza badargli: “alzò gli occhi e lo vide”, quindi sapeva di essere atteso da quell’uomo, anche se non per chiedergli un miracolo. Terzo, conosce il suo nome e non avrebbe potuto essere altrimenti. C’è chi ha detto che nessuno va in cerca di Cristo senza poi sapere che anche Cristo era in cerca di lui, ed è vero, credo che sia una realtà che ciascun credente ha provato.

Ecco allora che il vedersi scoperto quando credeva di essere ben nascosto e il sentire il suo nome pronunciato da chi non l’aveva mai visto, trafissero la mente e la coscienza di Zaccheo e lo convinsero subito che Colui che gli parlava non era un uomo come gli altri e che quindi non c’era alcuna ragione di valutarlo come faceva da tempo con i suoi simili.

La nostra traduzione dice “scendi giù perché devo fermarmi a casa tua”, ma non rende l’idea perché Gesù dice in greco mèinai, cioè “albergare”, quindi “fermarmi” non solo per un pasto, ma per la notte. Poi sottolineiamo che non viene detto “voglio”, ma “devo”, verbo che ci parla di un progetto, di qualcosa del tipo “se non mi fermo da te, sono passato di qui invano”, nonostante il miracolo di Bartimeo e dell’altro cieco, o ciechi. “Devo” perché l’itinerario preparato dal Padre prevedeva il ricupero di due persone, lui e Bartimeo per intervento diretto, senza contare le altre che credettero e “glorificarono Dio”.

Tralascio il commento del pubblico presente, “È entrato in casa di un peccatore!”, per concentrarmi sulla reazione di Zaccheo, che scende subito dall’albero sicuramente trasformato nel suo intimo per tutte le ragioni che abbiamo esposto. “Scese in fretta e accolse Gesù pieno di gioia”, sentimento che è incompatibile con la diffidenza e anzi è indice di completa disponibilità, chiaramente nella sua casa. Nulla sappiamo dei dialoghi che intercorsero fra i due, ma è agevole pensare che ci furono un pomeriggio, una sera e una notte di dialoghi, con qualche ora forse dedicata al riposo.

A questo punto sorge spontanea una domanda, e cioè quando si realizzò il verso 8, “Ma Zaccheo, alzatosi, disse al Signore…”: da una lettura sommaria, sembrerebbe che ciò si sia verificato quasi subito, una volta che Gesù e i Dodici si fossero accomodati, ma è molto più probabile che quelle parole furono pronunciate il giorno seguente, quando Gesù concluderà con “Oggi per questa casa è avvenuta la salvezza”; in pratica, se la frase di Zaccheo sul dare ai poveri e il restituire il quadruplo fosse stata presentata prima, come una credenziale, quell’uomo si sarebbe già sentito a posto con la propria coscienza e davanti a Dio, almeno secondo la Legge. In altri termini le sue parole sarebbero state identiche a quelle del fariseo al Tempio che, a differenza del pubblicano, sciorinava davanti a Dio i suoi meriti.

Se però quelle parole fossero state il frutto di una conversione, ecco che assumerebbero una valenza completamente diversa e inquadrerebbero quelle di Gesù in un contesto più appropriato. Non dimentichiamo che quel capo dei pubblicani, all’inizio del racconto, viene presentato solo come “ricco” e non come un buon uomo, un onesto o un benefattore: era una persona come tante, non insensibile né ai racconti che gli venivano presentati su Gesù e – credo – a fronte della guarigione di Bartimeo, ma niente di più; soltanto dopo un numero di ore che non possiamo quantificare a colloquio con Gesù, “Si alzò” – altri traducono “Si presentò al Signore” – e gli disse quanto riportato al verso 8, cioè dopo avere meditato e probabilmente aver capito che il vero guadagno consisteva nel credere e nella conversione: “do la metà di tutti i miei beni ai poveri”.

Quei beni che già possedeva, ma che si erano accresciuti col proprio lavoro, quindi beni cercati e conseguiti con impegno, ora hanno assunto un significato molto più relativo. Soprattutto, qualora avesse “rubato a qualcuno”, gli avrebbe restituito “quattro volte tanto”, parole molto importanti per capire il personaggio e la trasformazione operata in lui dalla Grazia perché il restituire il quadruplo era cosa che avveniva qualora l’autore di un furto fosse stato scoperto, ma, nel caso in cui vi fosse stata una riconsegna spontanea, sarebbe stata sufficiente la consegna della sola somma sottratta.

Zaccheo, prima della conversione, non era un uomo cattivo, ma semplicemente una persona che curava i propri interessi per star bene con la propria famiglia , rubando agli altri sulle percentuali dovute quel poco che bastava per non essere scoperto, un comportamento certo non deprecabile per il mondo che tante cose giustifica.

I dialoghi avuti con Gesù, invece, portano a uno stravolgimento completo perché al credere in Lui corrisponde immediatamente l’individuazione severa delle proprie mancanze e il desiderio di porvi rimedio. In pratica, si realizza Romani 10.10, “Con il cuore si crede per ottenere la giustizia, e con la bocca si fa professione di fede per ottenere la salvezza”.

Prima ancora, però, Zaccheo dovette scendere dal sicomoro, qui figura di una posizione conquistata con fatica, la stessa, idealmente parlando, che aveva portato quell’uomo ad aumentare la propria ricchezza. Scendendo da quell’albero, quel pubblicano dimostrò di essere disponibile a ripensare tutta la sua vita. Idealmente parlando, salì con tutte le proprie convinzioni, ma ne scese consapevole che ne avrebbe assunte delle altre, anche se non sapeva quali. Lo stesso avviene a qualunque essere umano alla ricerca di Dio, lo stesso avviene quando lo si trova. Amen.

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15.31 – Bartimeo II/II: salvezza e guarigione (Marco 10.46-52)

15.31 – Bartimeo II: salvezza e guarigione (Marco 10.46-52)

 

46E giunsero a Gerico. Mentre partiva da Gerico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timeo, Bartimeo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. 47Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!». 48Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». 49Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». 50Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. 51Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». 52E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada.

 

Dati nello scorso capitolo alcuni cenni di base su Gerico e chi fosse Bartimeo, ho ritenuto giusto chiedermi il motivo per cui, fra i tanti malati che furono guariti, anche “importanti” come ad esempio l’indemoniato di Gadara, proprio lui è riportato per nome da Marco. A volte si può supporre che un nome dal significato particolare possa avere spinto un autore alla sua citazione (pensiamo a Zaccaria, “Dio si è ricordato”, Zaccheo, “Puro, innocente”, Nicodemo, “Vincitore del popolo” e molti altri), ma “Bartimeo” non ha nulla di particolare, anzi in un certo senso sminuisce la persona perché il riferimento è al padre, “Figlio di Timeo” (Timeo=Onorato).

La dinamica dell’episodio, poi, apparentemente la si tende a vedere come qualcosa di già visto: abbiamo una richiesta insistente e gridata come ad esempio quella dei due ciechi che, quando Gesù uscì dall’abitazione di Giàiro, iniziarono a seguirlo e a gridare “Figlio di Davide, abbi pietà di noi!” (Marco 9.27-32).

Non credo sia allora difficile pensare che Bartimeo, vivendo in una città di transito, dove le notizie circolavano e quindi si parlava Gesù, dei suoi miracoli e di chi diceva di essere, abbia non sperato, ma pregato perché il “Figlio di Davide” potesse un giorno passare da Gerico. Se si spera si vive nell’attesa che un fatto improbabile si verifichi, se si prega si entra a far parte integrante del piano di Dio e quindi Bartimeo, nelle sue orazioni, chiese a Lui non tanto che potesse passare quel guaritore famoso, ma il Messia promesso cui riconosceva la facoltà di guarirlo da un’infermità che lo penalizzava e lo umiliava a tutto campo: in quanto non vedente non poteva accedere al Tempio, né offrire sacrifici, né avere qualche beneficio spirituale in quanto i rabbini consideravano la cecità al pari della lebbra; quelle condizioni erano ritenute un avvenimento conseguente all’infrazione del patto stabilito con Israele: “il Signore ti colpirà di delirio, di cecità e di pazzia, così che andrai brancolando in pieno giorno come il cieco brancola nel buio” (Deuteronomio 28.28).

Una vista sana fino alla tarda età, cosa improbabile a quel tempo, era una benedizione che Dio concedeva a chi gli era gradito, come ad esempio fu per Mosè, che “aveva 120 anni quando morì; gli occhi suoi non si erano spenti e il vigore non gli era venuto meno “ (Deuteronomio 34.7).

 

Gesù, “Luce del mondo”, definisce la funzione della vista con queste parole: “La lampada del tuo corpo è l’occhio: se il tuo occhio è puro, tutto il tuo corpo è illuminato; se il tuo corpo è impuro, tutto il tuo corpo è nelle tenebre” e un amico, commentando questo verso, aggiunse “Ciò nonostante, noi vediamo”.

Ebbene Bartimeo, saputo che chi passava per Gerico era “Gesù Nazareno”, quindi proprio e solo Lui, subito “cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!»”. Mi sono chiesto le modalità interne di quel gridare e non ho trovato altra spiegazione nel fatto che, a parte il voler farsi sentire come è logico, in quel grido c’era racchiusa tutta l’urgenza del suo caso nel senso che Gesù, lì arrivato, doveva assolutamente essere informato del fatto che in quel luogo, lungo la via, ignorata, stava un’anima fortemente desiderosa di un Suo intervento. Il grido di Bartimeo, necessario perché doveva sovrastare il brusio della folla e i rumori della strada, è paragonabile a quello di chi sta per annegare e vede delle persone che potrebbero salvarlo, a chi chiama perché ha un bisogno urgente di soccorso, è la naturale reazione al fatto che erano state esaudite le sue preghiere di poter incontrare il Figlio di Dio.

Bartimeo quindi grida ignorando coloro che “lo rimproveravano perché tacesse”, anzi lo fa più forte, attribuendo a Gesù un titolo, “Figlio di Davide”, che apparteneva solo al “Servo del Signore” la cui opera era stata profetizzata da Isaia con parole sulle quali quel cieco pose la sua fede, “Si apriranno gli occhi ai ciechi e si schiuderanno le orecchie dei sordi; allora lo zoppo salterà come un cervo,  griderà di gioia la lingua del muto” (35.5).

E allora arriviamo agli altri tre motivi per cui questa persona è ricordata col proprio nome:

 

Primo: Bartimeo non avanza nessuna pretesa o merito (come faceva il fariseo nei confronti del pubblicano) perché non ne aveva da offrire come garanzia di esaudimento. Non rimprovera Dio per la sua cecità, come molti fanno imputando a Lui tutti i mali di questo mondo senza tenere conto del bene che ricevono e del tempo di grazia prolungato a loro favore. È scritto che “Dio fa piovere sui giusti e sugli ingiusti” perché questi ultimi si ravvedano dalle loro opere, si convertano e siano salvati. Consapevole che il proprio bagaglio storico ereditato da Adamo ed Eva lo penalizzò con la cecità, Bartimeo si rimette alla pietà di Gesù che, come “il Dio che si è fatto carne”, era lì a pochi passi da lui.

Secondo: Bartimeo riconosce in Gesù la dichiarazione profetica di Isaia “Il Figlio ci è dato, il Figlio ci è stato dato, l’imperio è stato posto sulle sue spalle, ed è chiamato Consigliere ammirabile, Dio potente, Padre per sempre, principe della pace” (9.5) a differenza dei suoi compaesani che lo giudicavano come figlio di Giuseppe e di Maria da Nazareth (in altre parole, soltanto un uomo come noi).

Terzo, Bartimeo riconosce in Gesù la potenza di ridargli la vista: la sua preghiera, la sua grande fede non aveva ripensamenti, dubbi come spesso avviene per molti che si identificano nel tipo di terreno visto nella parabola del seminatore, “Quello seminato fra le spighe è colui che ascolta la parola, ma la preoccupazione del mondo e l’inganno della ricchezza soffocano la parola ed essa non dà frutto”. La preghiera di quest’uomo era di tale intensità che concretava la dichiarazione del profeta Geremia: “Voi mi invocherete e ricorrerete a me ed io vi esaudirò; mi cercherete con tutto il cuore, mi lascerò trovare da voi, dice il Signore, cambierò in meglio la vostra sorte” (29.12).

 

Ebbene, molti dei presenti, convinti che Bartimeo volesse chiedere a Gesù l’elemosina, lo sgridavano per farlo tacere poiché Lo importunava: se un tempo potevamo applicare questo comportamento a coloro che ostacolavano il percorso spirituale di quelli che gridavano a Gesù perché li liberasse dal loro stato di peccato, oggi così è per tutti coloro che propongono all’uomo alternative utili a reprimere sul nascere questo tendere a Dio. Non si tratta di abolire il crocifisso nei luoghi pubblici, ma di eradicare l’istinto naturale che porta l’uomo a porsi alla ricerca della Verità, pregarLo perché si possa rivelare a chi lo vorrebbe trovare. L’apostolo Pietro scrive, per entrambi i casi, “…per questo trovano strano che voi non corriate insieme con loro verso questo torrente di perdizione e vi oltraggiano. Ma renderanno conto a colui che è pronto a giudicare i vivi e i morti” (1a, 4.4).

Come fece la vedova protagonista della parabola del giudice iniquo, Bartimeo non si scoraggia davanti a quegli ostacoli umani e proprio questa sua importunità nel disturbare il Maestro, a dispetto di quanti lo sgridavano, fu giudicata da Lui positiva, e infatti obbligò quelle persone a chiamarlo. Nostro Signore non rifiuta la grazia a coloro che gliela chiedono con fede e certo che se non avesse visto quella sincera di Bartimeo, proprio perché Egli sa leggere nel cuore dell’uomo, gli avrebbe magari dato solo l’elemosina, se era questo che cercava.

Anche la reazione di quest’uomo è importante perché giunge addirittura a gettare via il proprio mantello, l’unico suo avere che lo riparava dal freddo, dal caldo (se teso per fare ombra) e dalla pioggia: questo gesto è il primo atto di fede nel fatto che avrebbe ricevuto la vista poiché egli sapeva che, una volta chiamato da Gesù, quel mantello, certo logoro, non gli sarebbe più servito perché, per come lo utilizzava, non lo avrebbe più qualificato come mendicante. Il mantello che penalizzava Bartimeo era, figurativamente, quello ereditato da Adamo ed Eva.

E siccome nella Scrittura non vi è nulla che non vada oltre al fatto in sé, ecco che l’applicazione spirituale a proposito del mantello gettato via è rilevabile nei seguenti brani di scrittura: “Anche noi, circondati da un così gran numero di testimoni, deposto tutto ciò che è di peso, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede” (Ebrei 12), dove “deposto tutto ciò che è di peso” ha connessione con l’invito di Gesù a tutti coloro che sono affaticati e oppressi secondo le sue parole “Venite a me, voi tutti che siete travagliati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra voi e imparate da me che sono mite e umile di cuore, e troverete riposo per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero” (Matteo 11.29).

Un secondo riferimento lo abbiamo nella prima lettera di Pietro 2.1: “Deposta dunque ogni malizia e ogni frode e ipocrisia, le gelosie e ogni maldicenza, come bambini appena nati bramate il puro latte spirituale per crescere con esso verso la salvezza, se davvero avete già gustato com’è buono il Signore”.

La domanda “che cosa vuoi che io faccia per te?” indica la disponibilità di Gesù a intervenire in modo risolutivo lui: vero è che il grido “Figlio di Davide, abbi pietà di me!” era già stato dato, ma era necessario che Bartimeo specificasse cosa volesse perché, per quanto potevano saperne Lui e gli altri, poteva essere stato lanciato per ottenere l’elemosina.

Certo che la risposta di Bartimeo, “Rabbonì – mio maestro –, che io riabbia la vista!”, fece provare vergogna ai presenti che lo volevano zittire e lo vedevano solo come un mendicante  importuno; per coloro che hanno vissuto tanto tempo nelle tenebre, avere la possibilità di vedere la luce ha un prezzo impagabile e per Bartimeo la speranza, da tempo tenuta nascosta in lui, di vedere la luce si era concretata con la visita di Gesù a Gerico e fu proprio Lui la prima persona che Bartimeo vide. Meraviglioso. Lo vide venire dal suo buio. Non riesco a pensare cosa possa aver provato non tanto nell’essere guarito, ma nel vedere il volto del suo Salvatore. Ogni dolore, umiliazione e pena evaporarono vedendo quello sguardo. Purtroppo, si tratta di un’esperienza che fisicamente non possiamo fare, ma spiritualmente sì.

Matteo riferisce che dopo la richiesta di Bartimeo, Gesù, mosso a quella pietà che con tanta forza era stata invocata, gli toccò gli occhi accompagnando il suo gesto con le parole “Va’, la tua fede ti ha salvato” unendo e guarendo così  l’infermità del corpo e quella dell’anima che, come afferma l’apostolo Paolo, sono due elementi indivisibili: “Il Dio della pace vi santifichi fino alla perfezione e tutto quello che è vostro, spirito, anima e corpo, si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo” (1 Tessalonicesi 5.23). Con il suo sacrificio, infatti, Gesù non salva solo l’anima, ma anche lo spirito e il corpo dell’uomo.

L’immediata guarigione di Bartimeo nella sua triplice componente di corpo, anima e spirito, viene poi dimostrata dal fatto che subito si mise a seguire il Maestro. Altri come lui non l’avevano fatto. Alcuni se ne andarono “glorificando Iddio”, altri, nove lebbrosi su dieci, non tornarono nemmeno a ringraziare, altri ancora avrebbero voluto seguire Gesù, ma fu loro ordinato di rimanere nel luogo in cui erano stati guariti perché dessero testimonianza nei loro territori. Bartimeo, invece, fece una scelta immediata e precisa divenendo un discepolo ed è anche questo uno dei motivi per cui gli evangelisti ne scrissero il nome. Lo stesso che, come per noi, era ed è scritto nel libro della vita, assieme al nuovo. Amen.

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15.30 – BARTIMEO I: Gerico (Marco 10.46)

15.30 – Bartimeo I: Gerico (Marco 10.46)

 

46E giunsero a Gerico. Mentre partiva da Gerico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timeo, Bartimeo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. 

 

Della guarigione del cieco Bartimeo parlano tutti e tre i Sinottici, pur se con qualche differenza che vedremo, trovandosi l’episodio anche nei racconti di Matteo 20.29-34 e Luca 18.35-48. Per quanto riguarda il Vangelo di Marco, quello della guarigione di Bartimeo è l’ultimo miracolo registrato di diciassette (10+7) e ha una valenza particolare perché lì, a Gerico, viveva anche quel Zaccheo, capo dei pubblicani, di cui parla solo Luca al capitolo 19. Va ricordato che il fatto che Gesù passasse per quella località non era dovuto al caso, ma come per tutti gli altri rientrava in quell’itinerario che il Padre gli aveva preparato per compiere il Suo progetto salvifico a favore del popolo di Israele e, per quanto esamineremo, di due non vedenti (Bartimeo e l’altro con lui rimasto innominato da Marco), e di Zaccheo stesso.

 

Prima di trattare l’episodio, è necessario fare una premessa, che occuperà tutto questo capitolo, ponendo le basi per le riflessioni spirituali perché Gerico è un argomento complesso e delicato. Definita “la città delle palme” (Deuteronomio 34.3), era un antico centro del territorio di Canaan dato da Dio in possesso agli israeliti come “terra promessa” che già esisteva a quando essi attraversarono il Giordano. Assieme a Damasco è la più antica città del mondo, ma è la sola ad avere la altitudine più bassa, ben 240 metri sotto il livello del mare. I Cananei, che occupavano il territorio, erano i discendenti di Canaan, figlio di Cam e quindi nipote di Noè sul quale pesava la maledizione pronunciata a seguito dell’oltraggio (di Cam) sul padre Noè: “Sia maledetto Canaan! Schiavo degli schiavi sarà per i suoi fratelli” (Genesi 9.25). Il paese di Canaan era stato promesso ad Abrahamo in Genesi 12.7 e, al momento opportuno, quando l’ingresso di Israele nella terra promessa era imminente, così Dio disse a Mosè: “Parla ai figli d’Israele e di’ loro: Quando avrete passato il giordano e sarete entrati nel paese di Canaan, scaccerete davanti a voi tutti gli abitanti del paese, distruggerete tutte le loro immagini – idolatre –, distruggerete tutte le loro statue di metallo fuso e demolirete tutti i loro luoghi sacri” (numeri 33.51,52).

Sappiamo che, alla morte di Mosè, Giosuè prese il suo posto, passò il Giordano e conquistò Gerico (Giosuè capp. 1-6), che fu distrutta e alla fine venne pronunciata una maledizione su chiunque l’avesse ricostruita (6.26), cosa che si concretò ai tempi del re Acab, 500 anni dopo circa. Di questo re è detto che “fece ciò che è male agli occhi del Signore, più di tutti quelli prima di lui” (1 Re 16.30) e tale Chièl di Betel (v.34), che la ricostruì materialmente, vide realizzarsi quanto pronunciato da Giosuè stesso: “Maledetto davanti al Signore l’uomo che si metterà a ricostruire questa città di Gerico! Sul suo primogenito ne getterà le fondamenta e sul figlio minore ne erigerà le porte!”, cioè la ricostruzione della città sarebbe stata pagata con la morte dei figli di chi avesse agito in oltraggio a quel giuramento.

Proprio alle vicende di Gerico sono legati due episodi importanti per la connessione spirituale all’opera del Cristo, cioè la vicenda di Rahab e quella della purificazione delle acque fatte dal profeta Eliseo col sale: Rahab, prostituta, sappiamo che nascose a rischio della propria vita gli esploratori d’Israele, sicura che quel popolo avrebbe conquistato la città giungendo a dir loro profeticamente “So che il Signore vi ha consegnato la terra” (Giosuè 2.9). Convinta di ciò chiese agli esploratori d’Israele, in cambio dell’assistenza che stava loro dando, la salvezza della propria famiglia. Il segno dell’patto stipulato con queste persone consisteva in una cordicella di colore scarlatto appesa ad una finestra, segno esteriore dell’alleanza ricevuta per fede la cui applicazione spirituale trova un chiaro riferimento col sangue di Gesù sparso sulla croce per la salvezza eterna del peccatore.

Il secondo episodio, quello in cui operò il profeta Eliseo, è narrato in 2 Re 2.19-22: “Gli uomini della città dissero a Eliseo: «Ecco, è bello soggiornare in questa città, come il mio signore può constatare, ma le acque sono cattive e la terra provoca aborti». Ed egli disse: «Prendetemi una scodella nuova e mettetevi del sale». Gliela portarono. Eliseo si recò alla sorgente delle acque e vi versò il sale, dicendo: «Così dice il Signore. Rendo sane queste acque; da esse non verranno più né morte, né aborti». Le acque rimasero sane fino ad oggi, secondo la parola pronunciata da Eliseo”.

Qui abbiamo un profondo riferimento alle parole di Gesù dette ai suoi discepoli “Voi siete il sale della terra; ma se il sale perdesse il suo sapore, con che cosa lo si potrà rendere salato? Non serve nient’altro che ad essere gettato via e calpestato dagli uomini” (Matteo 5.13), parole queste ultime che non dichiarano la perdita della salvezza, ma la testimonianza fallita.

Ai tempi di Nostro Signore Gerico era stata resa molto bella prima da Erode il Grande, che ne aveva fatto costruire la sua residenza estiva e vi morì, e in misura minore dal figlio Archelao. Era dotata di un anfiteatro, di un ippodromo oltre alla reggia, totalmente ricostruita sempre da Archelao. Fu però una Gerico diversa anche come posizione nel senso che fu costruita a un paio di chilometri a Sud rispetto a quella antica, fatto di cui dovremo necessariamente tenere conto per inquadrare i personaggi del nostro episodio in maniera corretta. Sempre ai tempi di Gesù, Gerico era meta di pio ritiro per scribi e farisei per il refrigerio che offrivano le palme e le acque del Giordano ed era diventata importante per il traffico carovaniero da e per Gerusalemme; lì si coltivava la pianta dalla quale si estraeva quel balsamo (il demdron mirae) che le donne d’Israele conservavano per il loro matrimonio, ma che Maria, sorella di Lazzaro, e la peccatrice innominata versarono sul capo e sui piedi di Gesù riconoscendoLo come il loro sposo spirituale, Salvatore e Signore della loro vita. Il nome “Gerico”, ha “profumo” come sua radice.

 

A questo punto però sorge una questione importante, da affrontare per quanto brevemente perché, se alcun dubbio è mai sorto sulla genuinità del racconto dei sinottici sulla vicenda di Bartimeo e dell’altro cieco, diverso è per le vicende narrate nel libro di Giosuè, alla cui redazione, secondo la critica biblica, intervennero più autori, uno detto “il compilatore”, e altri due, detti “i redattori”, che intervennero modificando il testo o aggiungendo sezioni. Va poi detto che le ricerche archeologiche più recenti non avrebbero trovato alcuna traccia di una città cananea a Gerico posteriore a quella distrutta dagli Egiziani verso il 1550, circa tre secoli prima dell’arrivo di Giosuè. Da qui la teoria secondo la quale il racconto della conquista di Gerico e della vicenda di Rahab abbiano valore eziologico, cioè siano stati costruiti per spiegare un fatto ed esaltare una sorta di “guerra santa”. C’è chi ha proposto che il libro di Giosuè sia da considerare come un’antologia di racconti famigliari inventati per rendere interessanti e memorizzare i nomi delle varie località.

La vicenda delle mura di Gerico, archeologicamente parlando, è molto più complessa perché tracce della sua distruzione sono state trovate, ma non coincidenti con il periodo storico in cui essa avrebbe dovuto avvenire. Il fatto però è che non c’è unanimità fra gli archeologi essendoci chi colloca il crollo nel 2000 a.C., chi molto tempo dopo, come Bryant Wood, dell’università di Toronto, che dichiarò le ricerche erano state fatte nel posto sbagliato, menzionando uno strato di cenere spesso un metro in cui abbondavano frammenti di vasellame e mattoni provenienti dal crollo di mura, oltre a travi annerite da un incendio che distrusse tutta la città. I frammenti di ceramica rinvenuti consentirono di datare l’evento al 1410, con uno scarto di 40 anni sulla data in cui Giosuè avrebbe dovuto distruggere la città.

Personalmente credo che la Scrittura debba comunque detenere il primo posto (altrimenti non sarebbe fonte di verità) e più di tutto valga a chiudere il discorso il fatto che, se Rahab non fosse esistita, non sarebbe mai stata nominata in due passi del Nuovo Testamento, uno in Ebrei 11.31 (“Per fede Rahab, la prostituta, non perì con gli increduli, perché aveva accolto con benevolenza gli esploratori”) e l’altro in Giacomo 2.25, “Così anche Rahab, la prostituta, non fu forse giustificata per le opere, perché aveva dato ospitalità agli esploratori e li aveva fatti ripartire per un’altra strada?”.

Infine, a chiudere la questione, è la genealogia di Gesù secondo Matteo in cui Rahab compare in 1.5, “Salmon generò Booz da Rahab”, citata senz’altro per premiare la sua scelta di fede e relativa conversione. In proposito, va segnalato che gli ebrei tradizionalisti negano che Rahab fosse una prostituta nel senso letterale del termine: Giuseppe Flavio, del resto, parla di lei come una “locandiera”, ma a quei tempi le locande erano anche dei postriboli. Comunque sia, credo che sia giusto armonizzare i due termini tra loro tenuto conto che, se Rahab non avesse avuto una locanda, difficilmente avrebbe potuto nascondere in casa sua gli esploratori.

 

Venendo ora al nostro testo, o per meglio dire ai testi, gli storici Eusebio di Cesarea (III° secolo) e Giuseppe Flavio (I°) riportano nei loro scritti la presenza di due città, cioè la vecchia costruita da Chièl e la nuova da Erode Antipa e questo spiega la variante degli altri sinottici dai quali traspare che i due ciechi fossero seduti uno all’entrata e l’altro all’uscita della città, non la stessa, ma la vecchia e la nuova. C’è anche chi ha ipotizzato, alla luce dei confronti fra i testi, che i ciechi fossero in realtà tre, ma stante il fatto che tutti gli evangelisti spostino l’attenzione su uno solo, direi che poco rileva.

Il verso 46, l’unico del nostro testo di oggi, dopo il riferimento a Gerico, nomina immediatamente “il figlio di Timeo” a indicare che suo padre fosse persona molto conosciuta; pare quasi che Matteo dia per scontato che alcuni suoi lettori del tempo sapessero immediatamente di chi parlasse. Già il nome, “Bartimeo” significa appunto “figlio di Timeo”. Costui, come molti ciechi o infermi gravi che vivevano di carità, erano persone spesso sfruttate dai loro familiari che, da quanto queste misere persone riuscivano a raccogliere, ne traevano guadagno.

Inoltre, il fatto che quest’uomo fosse costretto a mendicare denunciava il meneferghismo dei capi e del popolo di Israele che avevano smesso di praticare la Legge data da Dio a Mosè a vantaggio del pensare al loro prossimo esclusivamente come strumento per la realizzazione dei propri egoismi. E sono sicuro che a molti verranno in mente i versi che richiamano al principio della carità e comprensione dell’altrui condizione.

Bartimeo, quindi, sopravviveva con l’elemosina sfruttando il passaggio delle carovane e possiamo affermare che, come scriveva un fratello, “il concetto che il suo prossimo aveva di lui era più di commiserazione che di risoluzione del suo problema”.

Fatte tutte queste premesse, credo se non indispensabili molto utili per inquadrare l’episodio, passeremo nel capitolo successivo ad esaminare la vicenda dal suo punto di vista dottrinale e spirituale.

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15.29 – TRA VOI NON È COSÌ (Marco 10.41-45)

15.29 – Tra voi non è così (Marco 10.41-45)

 

41Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni. 42Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. 43Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, 44e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. 45Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».

 

Il verso 41 è la chiave di lettura non tanto delle parole di Gesù, ma di tutto l’episodio iniziato con l’avvicinarsi a Lui di Giacomo e Giovanni, sostenuti dalla loro madre, per chiedergli di poter sedere l’uno alla Sua destra e l’altro alla Sua sinistra una volta venuta la Sua gloria. È un verso sottovalutato, letto con frettolosità e soprattutto con la nostra mentalità che lo interpreta vedendo i dieci scandalizzati dalla proposta appena fatta al loro Maestro e nient’altro. Ciò ho pensato io stesso per anni, ma questa interpretazione non tiene conto del carattere dei dodici e dei rapporti che si instauravano fra loro soprattutto quando Gesù non era presente.

I Dodici erano uomini scelti da Gesù e a loro sarebbe stata affidata la costituzione e costruzione della Chiesa; in quanto tali, va sempre tenuto presente che la loro vita passò attraverso tre tappe fondamentali, vale a dire la chiamata, la formazione e l’azione vera, quest’ultima possibile solo una volta disceso lo Spirito Santo che non solo avrebbe ricordato loro quanto detto dal Maestro, ma soprattutto li avrebbe posti nelle condizioni di comprendere ed attualizzare quelle parole.

Nel Vangelo, quando si parla dei Dodici, va sempre tenuto presente che tutto quanto da loro fatto e detto avviene nel periodo intermedio e quindi, nonostante non fossero certo persone rozze o negative, erano quelli che erano, cioè uomini. Così li vediamo tante volte discutere tra loro su “chi fosse il maggiore”, quindi il capo o comunque il più importante, litigare perché nessuno di loro aveva pensato di comprare il pane (Matteo 16.5-7), vietare a una persona di cacciare i demoni nel nome di Gesù perché non era dei loro (Luca 9.49), cercare di guarire un epilettico dando per scontato di riuscirvi (Marco 9.18 e seg.), non credere all’annuncio della risurrezione da parte delle donne, non capire tante cose tra le quali un punto fondamentale qual era la morte e resurrezione imminenti del loro Maestro.

Allora, anche in virtù del tipo di insegnamento che verrà dato loro dal verso 42 in poi, è molto più facile che l’indignazione dei dieci verso Giacomo e Giovanni non fosse dovuta al fatto che i due avevano frainteso un principio importante qual era il posto preparato a destra e sinistra di Gesù, ma perché erano stati preceduti in tal senso ed erano invidiosi! E le parole di Gesù che seguono confermano questa tesi perché apre il suo discorso con i “governanti delle nazioni” che “dominano su di esse e i capi le opprimono”, quindi accennando a intrighi di palazzo e calcoli per avere favori, posizioni di prestigio e soprattutto mantenerle ad ogni costo.

“Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo”, con tutto quel che segue, la avrebbe voluta pronunciare ciascuno dei dodici con i medesimi scopi e ricordiamo che già Pietro, poco tempo addietro, aveva chiesto a Gesù “Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa dunque ne avremo?” (Matteo 19.27) avendo in risposta una promessa che tutti gli altri avevano sentito, “Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna”.

Ecco allora che Nostro Signore, nel passo in esame, conscio che il fraintendimento di Giacomo e Giovanni non costituiva un caso isolato, provvede a chiamarli a sé come aveva fatto tutte le volte in cui era necessario che ricevessero un insegnamento mirato e importante. Questo inizia come abbiamo accennato, “Voi sapete che coloro che sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono”, cioè li esorta a riflettere partendo dalla semplice osservazione di ciò che è tangibile.

In questa frase abbiamo due soggetti, “i governanti” e “i capi”, quindi viene chiamata in causa la totalità del potere, la sua architettura volta a reprimere e opprimere nei modi più svariati i suoi sottoposti. La prima cosa che si sa di una società è che questa non può reggersi senza un apparato repressivo che la mantenga, concedendo una libertà più o meno ampia ai suoi membri che, il più delle volte, liberi sono solo in apparenza. Non esiste nessun Paese, nessuno Stato in cui essere veramente liberi.

Se quindi, tornando ai nostri versi, il sedere alla destra e alla sinistra di Gesù nella sua gloria era un desiderio ispirato dalla carne, ecco che Lui provvede immediatamente a sgombrare il campo dalle illusioni e dalle consuetudini: “Tra voi però non è così”, cioè non può essere perché, se siete miei discepoli, anzi apostoli con tutto quello che comporta, ciò a cui dovete aspirare non è il pervenire ad una società gerarchica, piramidale, con onori e rituali di varia natura, perché siete/sarete Chiesa, quindi una realtà completamente diversa.

“Tra voi però non è così”, cioè nel momento in cui vi organizzerete con “governanti” e “capi” che “dominano” e “opprimono”, cesserete di essere miei rappresentanti, perderete la capacità di predicare il Vangelo e di portare delle anime alla salvezza, predicherete vuoto e illusione. Attenzione perché tutto questo non autorizza l’anarchia, ma inquadra semplicemente la vera autorità spirituale in seno alla Chiesa ed ecco perché “chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore”, principio che è un filtro teso a bloccare qualunque ambizione perché chi aspira a diventare importante in senso umano nella Comunità cristiana rifuggerà subito il concetto di servire e ancor di più il secondo principio, cioè “chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti”. I due termini, “servitore” e “schiavo”, possiamo vederli come i più bassi della scala sociale del tempo e nostra, per quanto non più in uso ma concettualmente impiegati.

A conferma poi che il principio stabilito in quella sede non sia filosofico, Gesù parla subito di sé: “Il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”, quindi in pratica se Lui aveva tutto il diritto di venire adorato in quanto Figlio di Dio, come Figlio dell’uomo era venuto per “servire”, cioè porsi allo stesso livello della creatura bisognosa e mettersi al suo servizio nel senso di indicarle la strada verso la salvezza fino a “dare la sua vita in riscatto per molti”, quindi una posizione, un ruolo più totale di quello era impossibile. Poteva giudicare tutti come Dio puro e non lo fece. Poteva accettare gli onori che avrebbero voluto attribuirgli quanti lo riconoscevano come Messia, ma non volle nemmeno questo, servendo fino a “dare la sua vita in riscatto per molti”, quella vita alla quale nessun uomo vuole mai rinunciare.

È importante sottolineare che i termini “servitore” e “schiavo” vanno rapportati non a una posizione subordinata ai desideri altrui, ma al “servire” di Gesù, che divenne “servo” non al volere capriccioso degli uomini, ma del loro voler elevarsi, cercare per trovare davvero, risolvere nel senso più nobile del termine un’esistenza che altrimenti, indipendentemente dalla loro posizione sociale, si sarebbe trascinata fino all’inconcludenza della morte, che poi della vita è è il punto di arrivo.

Non va neppure dimenticato quel suo “dare la sua vita in riscatto per molti”, termine che nella Scrittura allude a un pagamento quale equivalente per una vita tolta (Esodo 21.30), al prezzo per la liberazione di uno schiavo (Levitico 25.51), al risarcimento interiore di sofferenze (Proverbi 13.8), al prezzo di redenzione per un condannato a morte (Esodo 21,80) ed è usato per indicare liberazione da morte, calamità o peccato (Salmo 49.7,8; Isaia 35.10). Ecco cosa ha comportato il riscattare la creatura da parte di Gesù.

A questo punto, andando più in profondità nei due termini “servitore” e “schiavo”, il greco ha per il primo diàkonos, parola che nella Chiesa verrà utilizzata per quelli che ministravano ai poveri e agli infermi e attendevano alle necessità della Comunità cristiana, mentre per il secondo abbiamo doùlos, molto più forte, correttamente tradotta nella nostra versione e in altre.

Credo che, nella storia della Chiesa, nessun uomo sia stato più “servo” dell’apostolo Paolo, che dalla sua conversione, superato il periodo della formazione curata personalmente da Dio, affrontò ogni genere di persecuzione, prigionia, percosse, viaggi, malattie e sofferenze pur di portare il Vangelo agli altri. Anche senza la lettura del libro degli Atti, fondamentale per conoscere le vicende della Chiesa primitiva, l’esame delle cartine dei viaggi dell’Apostolo che troviamo in pressoché tutte le Bibbie non può lasciarci indifferenti se pensiamo ai mezzi allora in uso per spostarsi. E certo il “servire” di Paolo non si limitò alle fatiche nella carne, ma comprese quelle spirituali non solo nel formare quelli che sarebbero stati i futuri responsabili delle varie Chiesa, ma anche nel soffrire perché il Vangelo veniva interpretato falsamente e con scopi diversi dalla salvezza delle anime, senza contare tutto l’impegno profuso nelle lettere che costituiscono il quinto vangelo, senza le quali noi stessi non avremmo tutti quegli orientamenti dottrinali che Gesù non poté dare perché disse “Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera perché non parlerà da sé, ma dirà tutto quello che avrà udito e vi annunzierà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà del mio e ve lo annunzierà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo vi ho detto che prenderà del mio e ve lo annunzierà” (Giovanni 16.12-15).

Possiamo infine concludere con il nostro Esempio e Riferimento per eccellenza, Gesù Cristo e al suo “servire”, commentato da Paolo in questo modo: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso, assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!» a gloria di Dio Padre” (Filippesi 2.5-11). Amen.

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15.28 – GIACOMO, GIOVANNI, SALOME (Marco 10.35-40)

15.28 – Giacomo, Giovanni, Salome (Marco 10.35-40)

 

35Gli si avvicinarono Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». 36Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». 37Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra». 38Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». 39Gli risposero: «Lo possiamo». E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. 40Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato».

 

Si tratta di un episodio avvenuto dopo il terzo annuncio della Passione che non è collocabile con precisione nel tempo, ma dovette avvenire prima dell’arrivo del gruppo a Gerico. Protagonisti, dal parallelo di Matteo 20, furono gli apostoli Giacomo e Giovanni assieme alla loro madre Salome, che fu lei a presentare a Gesù la richiesta di cui abbiamo letto. Prima di affrontare il testo credo però sia necessario dare alcuni cenni su questi personaggi, per quanto i primi due molto noti.

Giacomo e Giovanni erano figli di un certo Zebedeo, il cui nome significa “Dio dona”, persona nota e stimata dagli abitanti del lago di Galilea per la piccola flotta di barche da lui posseduta e per il lavoro che dava a diversi operai. In Marco 1.16-20, quando i suoi due figli furono chiamati da Gesù, leggiamo infatti che “Essi lasciarono il loro padre Zebedeo nella barca con i garzoni e andarono dietro a lui”. Zebedeo era un uomo benestante, tanto che oltre a possedere una propria casa, poteva contare con tutta la sua famiglia dell’amicizia del sommo sacerdote di quel tempo, Giuseppe Caiafa. Leggiamo in proposito che “…questo discepolo – Giovanni – era conosciuto dal sommo sacerdote ed entrò con Gesù nel cortile del sommo sacerdote” (Giovanni 18.15).

Di Giacomo, più anziano di Giovanni essendo menzionato per primo nell’organigramma apostolico, sappiamo poco: non vi sono descrizioni della sua personalità, racconti che possano chiarire in qualche modo il suo carattere a parte il soprannome che Gesù pose tanto a lui quanto al fratello, “Boanerges”, probabilmente per descrivere il suo carattere impulsivo ed irruente che la grazia di Dio modificò.

Unitamente a Pietro, Giacomo e Giovanni formarono il gruppo più sensibile e intimo tra i discepoli che seguirono Gesù dopo la chiamata sulle sponde del Lago di Galilea; furono poi presenti, assieme a Filippo, Natanaele e Andrea, al miracolo delle nozze di Cana. Questi discepoli assistettero poi alla trasfigurazione, alla risurrezione della figlia di Giairo e all’agonia di Gesù nel Getsemane.

La descrizione di Giacomo può continuare ricordando l’episodio che lo ritrae incerto e pauroso quando fuggì con gli altri otto lasciati all’inizio dell’orto a pregare.

Questo apostolo, dopo aver ricevuto il dono dello Spirito Santo nel giorno di Pentecoste ed aver testimoniato di Gesù di fronte al sinedrio ebraico (Atti4.35; 5.29), venne subito imprigionato dai soldati di Erode Agrippa ed in seguito decapitato (Atti 12.2), divenendo così il primo degli apostoli a patire cruento martirio a causa del nome di Gesù, anche se se il primo vero martire della Chiesa fu Stefano.

 

Molto più sostanzioso e completo è il racconto fatto su Giovanni, che fu onorato dall’affetto particolare del suo Maestro quando disse di se stesso “il discepolo che Gesù amava” o “il discepolo diletto che riposava sul petto di Gesù” (Giovanni 13.25; 21.20). Anche Pietro lo riconobbe come colui che godeva di una fiducia particolare da parte del Maestro, facendogli chiedere chi sarebbe stato a tradirlo (13.23) ed a lui Gesù affidò Sua madre (19.26).

Ancora, a Giovanni fu profetizzato che sarebbe morto di morte naturale e che avrebbe vissuto a lungo, contrariamente a ciò che fu detto a Pietro riguardo alla sua morte, che sarebbe avvenuta tragicamente. Giovanni, poi, rimase con Pietro e venne con lui incarcerato e battuto dopo aver guarito lo zoppo mendicante alla porta del Tempio detta “Bella” (Atti 3.1-3; 4. 7,13,19). Fu poi, come sappiamo autore di un Vangelo, tre lettere e dell’Apocalisse, redatta sotto diretta dettatura di Gesù.

 

La madre di Giacomo e Giovanni era Salome, donna che faceva parte di quel gruppo che seguì Gesù durante i tre anni del Suo ministero in Israele sovvenendolo con le loro facoltà (Luca 8.1-3). Come vediamo da Matteo 22, era una persona intraprendente, forse sorella di Maria madre di Gesù, per quanto non abbiamo prove inequivocabili.

 

Ora, dai pochi dati raccolti, mi pare evidente che quanto i tre chiesero al Signore fosse dettato dal colossale fraintendimento secondo cui, in quanto suoi parenti, Giovanni e Giacomo potessero avere una corsia preferenziale di trattamento rispetto agli altri, sedendo alla sua destra e alla sua sinistra nella Sua gloria. Ricordiamo che i Dodici e i discepoli non ragionavano secondo lo Spirito – né avrebbero potuto farlo perché non era ancora disceso –, ma secondo i dati che avevano a disposizione: erano certi che Gesù fosse il Messia e che quindi avrebbe avuto un regno vittorioso e glorioso e, interpretandolo in senso umano, sotto quest’ottica Gli chiedono di poter avere una posizione assolutamente privilegiata tralasciando completamente alcuni principi che erano stati loro esposti, come l’esentarsi dalla mentalità dell’avere i primi posti, dall’ambire ad essere “il più grande”, regola che qui verrà ricordata ancora una volta.

Venendo ora all’episodio, il parallelo di Matteo 20, identico quanto alla risposta avuta, imputa alla madre di Giacomo e Giovanni la richiesta, che “si prostrò per chiedergli qualcosa”. Ora, sapendo che gli evangelisti non si pongono il problema di una narrazione concorde, ma che piuttosto tengono a dare dei quadri facendo risaltare i personaggi in un modo o in un altro, non possiamo che concludere che Marco abbia voluto mettere l’accento sul fatto che i due fratelli avevano recepito in pieno quello che era il desiderio della loro madre alla quale Matteo, che era presente, attribuisce l’intervento diretto, “Di’ che questi miei figli siedano uno alla tua destra e uno alla tua sinistra nel tuo regno” (v.21).

Non rileviamo una particolare reazione di sdegno da parte di Gesù, che comprendendo ciò che era alla base di quella richiesta si limitò a far rilevare quanto fosse distante da Lui un simile modo di pensare: rispondendo “Voi non sapete ciò che chiedete” intendeva proprio questo, che Salome, Giacomo e Giovanni non avevano capito nulla dei piani di Dio e della predestinazione – in senso scritturale e non certo filosofico – degli eletti. Credo che questo fraintendere contenga un insegnamento importante e cioè che l’essere umano non può comprendere alcunché di Dio se lo Spirito Santo non provvede a illuminarlo. Se infatti “l’uomo naturale non comprende le cose di Dio perché per lui sono pazzia”, è altrettanto vero che la sola volontà umana, la rinuncia, l’appartarsi dal mondo, non potrà mai arrivare ad una illuminazione.

Salome, Giacomo e Giovanni avevano consegnato la loro vita in mano a Gesù, mostrando una fede certo non comune o inferiore a quella degli altri, ma la visione che avevano dell’opera del Figlio di Dio era ancora imperfetta, non illuminata e per questo ancorata al loro essere umano che, poco prima, aveva impedito loro di comprendere l’annuncio della Passione che il loro Maestro dava per la terza volta.

Una lettura che personalmente trovo interessante di quest’episodio è che tutto, nella vita del cristiano, è una progressione, una scelta, un paradossale “non raggiungimento” della meta: Giacomo, Giovanni e Salome, prima di incontrare Gesù, erano persone buone e oneste, ma questo non bastava a salvarli. Incontrato il Figlio di Dio, credettero in Lui, ma con tutti i loro limiti, proprio come noi. Una volta disceso lo Spirito Santo, si verificò quanto già preannunciato loro, “…ma lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto” (Giovanni 14.26). Anche una volta disceso lo Spirito, nonostante il cambiamento di vita e il venire in possesso della Verità, non per questo avevano conseguito il premio né il posto preparato per loro nel cielo.

Ecco perché la vita cristiana esiste solo nel e dal momento in cui viene trovato il Dio, l’unico, a lungo ricercato e lo Spirito che si riceve, lungi dall’avere le manifestazioni registrate alla Pentecoste, è un lumicino che abilita all’orientamento a patto che venga custodito e rispettato, come leggiamo in Efesi 4.30 quando l’apostolo Paolo scrive “Non vogliate rattristare lo Spirito Santo di Dio, con il quale foste suggellati per il giorno della redenzione”: qui abbiamo le istruzioni tanto per una crescita spirituale, quanto per restare ancoràti alla carne e quindi vivere distanti, continuando a sbagliare e – visto che stimo riflettendo su un episodio preciso – continuare a non capire e fraintendere.

Poco prima ho parlato di non raggiungimento della meta: con questo non intendo dire che come credenti giriamo a vuoto, proseguiamo un percorso a tentoni fatto di continue tensioni che risolvono in delusioni; piuttosto il riferimento è a 1 Corinti 9.24, “Non sapete che, nelle corse allo stadio, tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo”, in cui viene descritto molto bene l’atteggiamento da tenere finché siamo in vita, cioè allenamento serio e corsa per vincere non un onore umano, ma quello che viene da Dio. Con questo paragone l’apostolo Paolo descrive l’atteggiamento mentale e non certo il fatto che occorra profondere ogni sforzo per conquistare un premio che, se non si arriva primi, non viene dato. Il vero atleta, infatti, prima di pensare a vincere, valuta e misura i progressi del proprio corpo, registra i dati che riporta quotidianamente per poi esaminarli e confrontarli andando a ritroso nel tempo, si alimenta in modo particolare, osserva tutta una serie di regole per poi misurarsi al meglio nella gara in cui, più che guardare agli altri, impegna tutto se stesso.

Che in proposito ci riguardano sono anche le parole in Filippesi 3.12-14: “Non ho certo raggiunto la meta, non sono arrivato alla perfezione, ma mi sforzo di conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù. Fratelli, io non ritengo ancora di averla conquistata. So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la meta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù. In Cristo Gesù”.

Soffermandoci brevemente su queste parole, vediamo che la meta è quel “posto” prenotato, riservatoci dal Padre prima della fondazione del mondo e che Nostro Signore andò a “preparare” (Giovanni 14.2): questo comporterà il raggiungimento della “perfezione” perché non più ancoràti a un corpo di carne e santificati dalla presenza di Dio. Sapendo tutto questo Paolo, lungi dall’assomigliare a colui che sotterrò il talento affidatogli, dice “mi sforzo di conquistarla” e per questo continua a lavorare incessantemente per il Vangelo. Abbiamo poi “dimenticando ciò che mi sta alle spalle”, quindi ogni peso, ogni errore fatto perché il ricordo di ciò che siamo stati è solo un peso che portiamo inutilmente e, riflettendo, è importante ciò che siamo e che abbiamo raggiunto (se abbiamo saputo coltivare la nostra persona), non certo ciò che eravamo, quando agivamo in preda a un’immaturità che non dovrebbe più appartenerci.

Tornando al nostro episodio vediamo che all’ambizione umana allora dimostrata da Salome, Giacomo e Giovanni si contrappone quella spirituale, che aspira a una meta che sarà raggiunta solo quando l’essere umano avrà raggiunto il “posto” preparato per lui, che non verrà dato per favoritismi o raccomandazioni, ma per legittima possessione che non verrà certo usata per sopraffare gli altri o per vanto, come spesso accade nel mondo.

E concludendo questa prima parte, sono convinto che con le parole “non sta a me concederlo, è per i quali è stato preparato”, Gesù intenda far capire a Salome, Giacomo e Giovanni che avrebbero dovuto accontentarsi di far parte del piano del Padre che, in quanto non solo creatore ma proprio perché in quanto tale conosce perfettamente i propri figli, avrebbe dato loro un “posto” perfettamente compatibile con le loro persone, che a Lui dedicarono la vita. Amen.

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15.27 – IL TERZO ANNUNCIO DELLA PASSIONE (Marco 10.32,34)

15.27 – Il terzo annuncio della passione (Marco 10.32-34)

 

32Mentre erano sulla strada per salire a Gerusalemme, Gesù camminava davanti a loro ed essi erano sgomenti; coloro che lo seguivano erano impauriti. Presi di nuovo in disparte i Dodici, si mise a dire loro quello che stava per accadergli: 33«Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai capi dei sacerdoti e agli scribi; lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani, 34lo derideranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno, e dopo tre giorni risorgerà».

 

Prima di iniziare il commento del brano va dato un brevissimo quadro geografico degli avvenimenti: Gesù è a Betania, il Sinedrio riunito si trova a Gerusalemme, pochi chilometri in linea d’aria. Saputa la decisione di quell’organo di governo, “Gesù dunque non andava più in pubblico fra i Giudei, ma da lì si ritirò nella regione vicina al deserto, in una città chiamata Efraim, dove rimase con i discepoli” (Giovanni 11.54). I Vangeli non ci danno particolari notizie di ciò che avvenne in quel territorio salvo che si avvicinava la Pasqua, l’ultima da Lui vissuta e si mise in viaggio percorrendo, come vedremo con gli episodi e le località che seguiranno, la strada più lunga, cioè quella che passava per Gerico, la stessa ove aveva ambientato la parabola detta del “Buon Samaritano”.

Nell’occasione di questo ultimo viaggio verso Gerusalemme, Marco annota quanto gli riferisce l’apostolo Pietro, che fu al pari degli altri colpito da tre elementi, per primo il fatto che “Gesù camminava davanti a loro”, cioè al gruppo di persone che lo seguivano sul cui numero non possiamo dire salvo che quando leggiamo “presi in disparte i Dodici” dovevano essere tante.

Abbiamo quindi un primo atteggiamento di Gesù che cammina davanti al gruppo: perché? Non per fare da guida, non perché non desiderasse avere compagnia durante il viaggio, ma in quanto sapeva ciò che lo attendeva, vale a dire la conclusione del Suo Ministero terreno per morte violenta e non vedeva l’ora che tutto ciò si verificasse, come già aveva dichiarato in Luca 12.50: “Ho un battesimo nel quale sarò battezzato, e come sono angosciato finché non sia compiuto”.

“Battesimo” da “baptìzo”, cioè immergere. Non in acqua, non nello Spirito, ma nella sofferenza, nel sangue fino alla morte ignominiosa sulla croce, come poi dirà dettagliatamente nei versi da 33 a 34.

Abbiamo poi, sempre soffermandoci sul verso di Luca, “come sono angosciato”, di difficile traduzione dal greco “sunéxo” utilizzato nel Nuovo Testamento per indicare tormento o acuto dolore continui (Matteo 4.24 “conducevano a lui tutti i malati, tormentati da varie malattie e dolori”), uno stato d’animo che perdura nel tempo (2 Corinti 5.14 “L’amore del Cristo ci possiede”), il conflitto fra due opposti intenti (Filippesi 1.23 “Sono stretto fra queste due cose: ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; ma per voi è più necessario che io rimanga nel corpo”), e infine timore accompagnato da angoscia (Luca 8.37 “…la popolazione del territorio dei Gheraséni gli chiese che si allontanasse da loro, perché avevano molta paura”). Possiamo quindi ragionevolmente supporre che nello stato d’animo di Gesù ci fossero tutti questi elementi assieme. Sunéxo, da dizionario di greco antico, ha come terzo significato proprio “l’essere costretto, stretto, oppresso da qualcosa”, mai da qualcuno, per cui va da sé che si tratti di un pensiero o da una situazione che causa quel tipo particolare di sofferenza.

Il camminare di Gesù “davanti a loro”, allora, testimonia il Suo atteggiamento interno: agisce volendo accelerare i tempi, andando incontro al Suo arresto, ai processi, alle violenze sulla sua persona che si risolveranno nella morte di croce. E i discepoli ne furono impressionati e temettero perché avevano ben presente il fatto che, a Gerusalemme, si sarebbero verificati eventi non da loro controllabili. Erano impauriti, credo, perché non lo avevano mai visto così, evidentemente più di quanto, in Luca 9.51 dopo la Trasfigurazione, leggiamo letteralmente “…ed egli indurì il volto per andare a Gerusalemme”.

E, ben conoscendo il loro stato d’animo, (“sgomenti” e “impauriti”), ecco che Gesù prende “di nuovo in disparte i Dodici” – non la folla che lo seguiva – per ripetere appunto “di nuovo”, cioè per la terza volta, ciò che dovevano sapere e che non avevano ancora compreso.

Luca, dopo “Ecco, noi saliamo a Gerusalemme” aggiunge “e tutte le cose scritte dai profeti attorno al Figlio dell’uomo saranno adempiute”, quindi quelle strettamente attinenti alle sue sofferenze fisiche e morali di cui troviamo dettagliata descrizione nel Salmo 22 e nel capitolo 53 del profeta Isaia che qui non riporto ma che andrebbero lette, senza trascurare Daniele 9. 26, “Un consacrato sarà soppresso senza colpa in lui”. Non si possono non sottolineare in proposito le parole di Stefano in atti 4.27,28, “Davvero in questa città Erode e Ponzio Pilato, con le nazioni e i popoli d’Israele, si sono alleati contro il tuo santo servo Gesù, che tu hai consacrato – ecco il rimando a Daniele – per compiere ciò che la tua mano e la tua volontà avevano deciso che avvenisse”.

A questo punto Gesù, che non poteva fermarsi ad un richiamo ai profeti, specifica: “sarà consegnato ai capi sacerdoti e agli scribi”, cioè a coloro che, fino a quel momento, erano stati impotenti a confutare la Sua dottrina e soprattutto a catturarlo; “lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani”, inequivocabile riferimento ai Romani che detenevano l’ordine pubblico in città. Le parole “lo derideranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno e dopo tre giorni risorgerà” sono il vero aggiornamento alle parole di Davide, Isaia e Daniele perché, dalla lettura dei loro testi che abbiamo prima indicato, sono dettagli che non rileviamo, ma che possiamo intuire: “Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la bocca; era come un agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori” (Isaia 53.7).

I Dodici erano chiamati a sapere tutte queste cose, ma Luca, a conclusione della spiegazione di Gesù, scrive “Ma quelli non compresero nulla di tutto questo; quel parlare restava oscuro per loro e non capivano ciò che egli aveva detto”: sono tre situazioni che denotano l’incapacità dell’uomo naturale a comprendere le cose di Dio, come dimostreranno di lì a poco Giacomo, Giovanni e la loro madre Salome.

I Dodici, Giuda a parte perché i suoi pensieri erano altri e opposti, avevano dato prova di una forte abnegazione, avevano seguito il loro Maestro fin lì, avevano avuto il mandato di guarire e predicare, eppure ora si ritrovano incapaci di comprendere perché le loro convinzioni impedivano loro una corretta interpretazione di quelle parole: Gesù era “il Cristo, il Figlio dell’Iddio vivente” e come tale non poteva morire. Era il Messia vittorioso e come tale non sarebbe stato mai sconfitto e nella prospettiva profetica dell’eternità avevano ragione, ma come accettare che Dio potesse morire, anche se per soli tre giorni? Quando mai la vittoria ha conosciuto umiliazione? In base alla loro esperienza, Gesù fino ad allora era passato indenne non solo di fronte a qualunque complotto, ma anche ai tentativi di lapidazione e a Nazareth se ne era allontanato da quanti volevano gettarlo giù da una rupe, quindi “quel parlare rimaneva per loro oscuro” nel senso che, anche ragionandoci attorno, con tutte le esperienze pregresse che avevano fatto al riguardo, non riuscivano a trovare un significato, una ragione, un perché. E restarono muti perché “non capivano ciò che egli aveva detto”, quasi parlasse una lingua diversa dalla loro.

La stessa cosa capita molto spesso ai credenti quando si trovano di fronte a passi difficili della Scrittura, Antica o Nuova che sia, ma purtroppo anche a versi semplici dove devono mettersi in gioco praticando ciò che trovano scritto.

Le parole udite dai Dodici erano talmente fuori dalla loro comprensione che le dimenticarono subito (salvo ricordarsene per lo Spirito più avanti) giungendo a non credere a Maria Maddalena (e alle altre donne) che, dopo avere visto e parlato con Gesù risorto, “…andò ad annunciarlo a quanti erano stati con lui ed erano in lutto e in pianto. Ma essi, udito che era vivo e che era stato visto da lei, non credettero” (Marco 16.10,11).

Ricordiamo anche le parole dei due discepoli che incontrarono Gesù lungo la strada di Emmaus quando, non avendolo riconosciuto perché “i loro occhi erano impediti a riconoscerlo”, gli dissero “Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele – ecco la concezione terrena del Messia –; con tutto ciò sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. Ma alcune donne, delle nostre – quindi persone non estranee, coinvolte al pari di loro – ci hanno sconvolti: si sono recate al mattino alla tomba e, non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di avere avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati alla tomba e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto”, quindi devono essersi per forza sbagliate (Luca 24.21-24).

Circa la mancata comprensione delle parole di Gesù, possiamo citare altre occasioni, la prima delle quali in Luca 2.50 dove, alle Sue parole quando si trovava fra i maestri nel Tempio “Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?” è scritto che Giuseppe e Maria “Non compresero ciò che aveva detto loro”. Ancora, come certamente ricorderemo, la nota al secondo annuncio della Passione, “Essi però non capirono queste parole: restavano per loro così misteriose che non ne coglievano il senso e avevano timore di interrogarlo su questo argomento”.

La stessa cosa avvenne all’esposizione dell’identità di Gesù con il pastore delle pecore: “Ma essi non capirono di che cosa parlava loro” (Giovanni 10.6) così come quando vi fu l’ingresso trionfale a Gerusalemme è scritto che “i suoi discepoli sul momento non compresero queste cose; ma, quando Gesù fu glorificato, si ricordarono che di lui erano state scritte queste cose e che a lui essi le avevano fatte” (Giovanni 12.16). E comunque anche noi, se ci voltiamo indietro e passiamo in rassegna la nostra vita trascorsa, possiamo renderci conto di quante cose non capivamo, pur avendole a portata di mano: scelte da fare che abbiamo sbagliato, percorsi da intraprendere dai quali ci siamo tenuti lontani, rinunce irrisolte, concetti trascurati, pensieri insufficienti.

E mi viene in mente che, alla Croce, Gesù fu realmente solo perché a parte la presenza di sua madre e le altre donne con Giovanni, gli altri non c’erano; soprattutto, avvertiva tutto l’odio che Lo circondava, la derisione, l’indifferenza

Quanto avvenne in tutti questi episodi, compreso quello qui esaminato brevemente, assume per il credente un significato importante e cioè che tutto quanto ha acquisito finora, indipendentemente dagli anni che possa avere, va sempre approfondito, scoperto e riscoperto, affrontando un cammino spirituale anche lento, che più di quello rapido dà più possibilità di realizzazione a meno che il Signore non decida diversamente. Occorre rivisitare direi continuamente le posizioni che abbiamo assunto davanti a Dio tramite un esame che ci distolga il più possibile, come i Dodici in questo terzo annuncio, dai nostri preconcetti o da un metodo di pensiero che, forse, appartiene a una tradizione nostra, umana, che va ad inquinare e rallenta il nostro cammino spirituale. Amen.

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15.26 – CAIAFA, SOMMO SACERDOTE (Giovanni 11.47-57)

15.26 – Caiafa, sommo sacerdote (Giovanni 11.47-57)

 

47Allora i capi dei sacerdoti e i farisei riunirono il sinedrio e dissero: «Che cosa facciamo? Quest’uomo compie molti segni. 48Se lo lasciamo continuare così, tutti crederanno in lui, verranno i Romani e distruggeranno il nostro tempio e la nostra nazione». 49Ma uno di loro, Caifa, che era sommo sacerdote quell’anno, disse loro: «Voi non capite nulla! 50Non vi rendete conto che è conveniente per voi che un solo uomo muoia per il popolo, e non vada in rovina la nazione intera!». 51Questo però non lo disse da se stesso, ma, essendo sommo sacerdote quell’anno, profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione; 52e non soltanto per la nazione, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi. 53Da quel giorno dunque decisero di ucciderlo.
54Gesù dunque non andava più in pubblico tra i Giudei, ma da lì si ritirò nella regione vicina al deserto, in una città chiamata Èfraim, dove rimase con i discepoli. 55Era vicina la Pasqua dei Giudei e molti dalla regione salirono a Gerusalemme prima della Pasqua per purificarsi. 56Essi cercavano Gesù e, stando nel tempio, dicevano tra loro: «Che ve ne pare? Non verrà alla festa?». 57Intanto i capi dei sacerdoti e i farisei avevano dato ordine che chiunque sapesse dove si trovava lo denunciasse, perché potessero arrestarlo.

 

“Allora” è un chiaro riferimento al fatto che “molti dei Giudei, visto tutto ciò che Gesù aveva fatto, credettero in lui”. La conseguenza non poté essere che una sola e cioè una forte preoccupazione per il futuro di tutto quel sistema politico-religioso esistente. Notiamo che i capi dei sacerdoti e i farisei, riunito il Sinedrio, non negano affatto la verità (“quest’uomo fa molti segni”), ma non la vogliono accettare per cui qualunque altro miracolo fosse stato prodotto non avrebbe avuto alcun effetto su di loro. Ecco perché disse “Questa generazione è una generazione malvagia; essa cerca un segno, ma non le sarà dato alcun segno, se non quello di Giona” (Luca 11.29)

È molto importante la parola usata, cioè “segni”, non “miracoli” perché, anche se potrebbe sembrare che indichino la stessa cosa, così non è perché il “segno” è qualcosa che viene inequivocabilmente da Dio o è da lui ordinato, mentre il miracolo può essere anche qualcosa di simulato, di presunto. Ricordiamo tra i “segni” l’arcobaleno quale “segno dell’alleanza che io pongo fra me e voi” (Genesi 9.12), la circoncisione, “segno dell’alleanza fra me e voi”, tutti i grandi avvenimenti narrati nel libro dell’Esodo e così via fino alla visione dell’apostolo Giovanni in Apocalisse 15.1 quando scrive “E vidi nel cielo un altro segno, grande e meraviglioso: sette angeli che avevano sette flagelli; gli ultimi, poiché con essi è compiuta l’ira di Dio”.

Quindi, dicendo “quest’uomo fa molti segni”, in pratica quei Giudei è come se dicessero “Quest’uomo dimostra di essere davvero ciò che dice: cosa facciamo?”.

La prima riflessione fattibile è quindi rimarcare la differenza fra quanti credettero in Gesù grazie alla risurrezione di Lazzaro, che “non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio”, e coloro che invece “andarono dai farisei, e riferirono loro ciò che Gesù aveva fatto”: gli uni fanno una scelta di vita, gli altri di morte, perché vogliono far sì che venisse annullato, in quale modo non sapevano, quel “segno” che parlava infinitamente più dei miracoli di guarigione degli indemoniati quando fu detto “Se io scaccio i demòni per mezzo dello Spirito di Dio, allora è giunto a voi il regno di Dio” (Matteo 12.18).

Di fronte alla risurrezione di Lazzaro alcuni capitolano di fronte all’evidenza di Gesù come Signore, altri persistono in una fede che non aveva più senso ignorando deliberatamente il fatto che quei Cherubini posti a guardia di Eden con “la fiamma della spada guizzante” erano stati in un certo senso tolti perché “Io sono la via, io sono la verità e la vita. Solo per mezzo di me si va al Padre” (Giovanni 14.6). Quindi si era aperta la via per un futuro certo di beatitudine. L’uomo, che indubbiamente può fare molto coi propri mezzi per determinare il proprio futuro terreno (ammesso che non trovi ostacoli insuperabili), nulla può per quello spirituale. Gesù, poi, era ed è l’unica via proprio perché Dio fattosi uomo, cioè in tutto simile a noi quanto al corpo.

La riunione del concistoro, quindi del Sinedrio, organizzata dai “capi dei sacerdoti e i farisei”, ci riporta a Salmo 2.2, “Insorgono i re della terra e i prìncipi congiurano insieme contro il Signore e il suo consacrato”, dove vediamo applicato un primo riferimento del verso, in attesa di tutti gli altri in cui i “re della terra e i prìncipi” sono identificabili coi persecutori della Chiesa dalle origini fino agli ultimi tempi in cui l’Avversario stabilirà l’Anticristo che si identificherà con la Bestia cui “fu concesso di fare guerra contro i santi e di vincerli, le fu dato potere sopra ogni tribù, popolo, lingua e nazione. La adoreranno tutti gli abitanti della terra, il cui nome non è scritto nel libro della vita dell’agnello, immolato fin dalla fondazione del mondo” (Apocalisse 13.7,8).

Il comportamento di coloro che riuniscono il concistoro per perorare la causa dell’annientamento di Gesù, è cambiato ed esprime molta più preoccupazione rispetto a quando, alla Festa delle Capanne, consideravano chi aveva creduto in Lui come un fatto solo disturbante: allora infatti, alle guardie che non riuscirono ad arrestarlo perché dissero “Mai un uomo ha parlato così”, replicarono “Vi siete lasciati ingannare anche voi? Ha forse creduto in lui qualcuno dei capi, o dei farisei? Ma questa gente, che non conosce la Legge, è maledetta!” (Giovanni 7.45-49). Ora, invece, è tutto diverso perché “Molti dei Giudei (…) vedendo ciò che aveva compiuto, credettero in lui”.

Ciò che viene paventato al concistoro è descritto al verso 48, “Se lo lasciamo continuare così, tutti crederanno in lui, verranno i romani e distruggeranno il nostro tempio e la nostra nazione”: Gesù, secondo loro, se non fermato avrebbe proseguito nella sua opera, i miracoli sarebbero aumentati e avrebbero finito per convincere altri che – attenzione – non si sarebbero ribellati ai Romani, ma fondamentalmente al Sinedrio che non avrebbe avuto più alcun potere ponendo fine a quello stato di indipendenza relativa che la Nazione ebraica ancora possedeva, svolgendo quell’Organo una funzione di mediazione nella vita politica e religiosa del Paese.

Poi naturalmente c’è un discorso squisitamente politico: i Romani diffidavano degli ebrei, sapevano che erano sempre pronti a insorgere e, proprio partendo da come la predicazione di Gesù si sarebbe sviluppata, era facile prevedere che le folle sarebbero accorse a Lui in massa, lo avrebbero fatto re d’Israele in contrapposizione al procuratore di Gerusalemme e all’imperatore di Roma provocando l’intervento militare che avrebbe fatto strage di israeliti, distruggendo il Tempio e la nazione. È curioso notare che tutti questi timori si concretarono nel 70, quando Nostro Signore era salito al Padre da 37 anni circa.

 

Il Sinedrio teneva le sue riunioni in un luogo del Tempio chiamato “l’aula della pietra squadrata” oppure, per i casi d’emergenza, nella casa del sommo sacerdote che lo presiedeva. Tutti sedevano a semicerchio di modo che potessero vedersi fra loro; il presidente, appunto il sommo sacerdote, sedeva nel centro e gli anziani a destra e a sinistra di lui. Il Sinedrio contava settanta membri più il presidente, ma la sua seduta era legale se le presenze erano almeno ventitré: c’erano allora, nella riunione di cui parla Giovanni, coloro che avevano creduto in Gesù? Alla luce del numero legale, credo di no anche perché partecipare a quell’assemblea avrebbe provocato in loro non pochi problemi di coscienza. Se mai, non si può escludere ci fossero i discepoli di Gesù “ma in occulto, per paura dei Giudei”, come Nicodemo.

A questo punto emerge la figura di Giuseppe Caiafa, o Caifa, che incontreremo spesso da qui in poi, che deteneva l’ufficio di sommo sacerdote assieme ad Anna, padre di quell’ “eccellentissimo Teofilo”, anche lui sommo sacerdote, cui Luca dedica il Vangelo e gli Atti. Anna, suocero di Caiafa, era stato deposto dalla sua carica nell’anno 15 dal procuratore romano Valerio Grato, lo stesso che poi eleggerà nel 18 Caiafa al suo posto, che vi rimase fino al 36. Il fatto che Giovanni scriva di lui “sommo sacerdote di quell’anno” ha lasciato ipotizzare che sia Anna che Caiafa si succedessero alla carica un anno ciascuno. Entriamo qui in un campo problematico perché, se per la Legge la funzione di sommo sacerdote durava per tutta la vita, siamo in un tempo in cui Israele era comunque soggetto ai Romani che nominavano e destituivano i sommi sacerdoti a loro piacimento proprio come fece Valerio Grato, predecessore di Ponzio Pilato. Comunque, a quel tempo i sommi sacerdoti erano due, uno in carica e l’altro – verrebbe da dire – “supplente”, per quanto fosse Anna che deteneva il maggior rispetto proprio perché, legalmente, il sommo sacerdozio spettava a lui.

A questo punto cerchiamo di esaminare le parole di Caiafa che in questa circostanza non parlò come un uomo comune, ma “profetizzò” essendo “sommo sacerdote di quell’anno”, cioè la sua carica – a prescindere dal fatto che stava per venire chiusa la dispensazione della Legge – lo poneva comunque come responsabile – mi si passi il termine – della comunicazione fra JHWH e il popolo ragion per cui, pur essendo convinto di parlare da se stesso, in realtà in quel momento veniva usato da Dio per stabilire una verità fondamentale e cioè che “è conveniente per voi che un solo uomo muoia per il popolo, e non vada in rovina la nazione intera”: anche qui abbiamo una frase che ha una doppia lettura, la prima della quale è politica e sulla quale è inutile soffermarsi, mentre la seconda è così sottile da costringere l’apostolo alla nota del verso 51 in cui afferma che Gesù non doveva morire “solo per la nazione, ma per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi”, come “pecore senza pastore”. Così scrive l’apostolo Pietro nella sua prima lettera: “Eravate erranti come pecore, ma ora siete stato ricondotti al pastore e custode delle vostre anime” (1.25): può esservi un custode più perfetto?

“È conveniente che uno solo muoia per il popolo” ha così due letture, quella di Caiafa e quella dello Spirito; nel primo caso si voleva che fosse risolto il problema di eventuali massacri da parte dei Romani, nel secondo, quello appunto dello Spirito che aveva parlato tramite Caiafa, il perdono dei peccati sarebbe potuto venire solo dal sacrificio dell’Agnello di Dio e non da un animale, per quanto innocente. Certo che quel sommo sacerdote non era consapevole del doppio senso della frase, ma lo Spirito aveva parlato così, nonostante l’indegnità del personaggio che dalle sue parole iniziali, “Voi non capite nulla”, originale “Non avete nessuna conoscenza”, con cui Caiafa manifesta tutto il suo disprezzo verso i suoi non simili.

Certo quest’uomo, inconsapevolmente, con la nota di Giovanni richiama Isaia 49.6 quando, nel secondo canto del Servo, scrive “È troppo poco che tu sia mio servo per restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti d’Israele. Io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra” mentre lo stesso apostolo ha nella prima lettera “Se qualcuno ha peccato, abbiamo un Avvocato presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto. È lui la vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo”. Ecco quindi dove risiede il significato delle parole di Caiafa, personaggio accomunabile a Balaam, mago e incantatore di cui possiamo leggere in Numeri 24.1-10. Senza andare così lontano, riguardo al fatto che Dio si serve degli uomini senza che questi ne siano consapevoli, credo possa bastare anche il censimento voluto da Cesare Augusto, che consentì a Gesù di nascere a Betlehem e non a Nazareth come sarebbe altrimenti avvenuto, vanificando le profezie su di Lui attestanti il fatto che sarebbe nato, appunto, là.

Proseguendo la lettura del nostro testo, vediamo che “da quel giorno cercavano di ucciderlo” nel senso che lì si prese la decisione ufficiale, quella che Gesù venne a sapere e che fece sì che si spostasse nel territorio di Efraim. Evidentemente, quella notizia venne anche alle orecchie di Giuda perché proprio al verso 57 leggiamo “Intanto i capi dei sacerdoti e i farisei avevano dato ordine che chiunque sapesse dove si trovava lo denunciasse, perché potessero arrestarlo”: chi meglio di lui poteva farlo? Se chiunque avrebbe potuto segnalare la presenza di Gesù da qualche parte, Giuda avrebbe potuto farlo catturare stando dall’interno del gruppo dei discepoli, indicandolo con precisione a chi non lo conosceva salutandolo e baciandolo di fronte a tutti. E considero terribili le parole che gli disse, “Salve – cioè salute a te – Maestro!” (Matteo 26.48).

Concludendo queste riflessioni: da qui in poi abbiamo la ferma decisione del Sinedrio di eliminare Gesù una volta per tutte. L’intervento di Caiafa ufficializza inconsapevolmente una verità fondamentale sul ruolo del Cristo e in un certo senso anticipa le Sue parole nel terzo annuncio della passione, quando cercò di far capire ai discepoli ciò che sarebbe successo e non volendo che si trovassero impreparati. E pregò per essi, affinché la loro fede non venisse meno. Amen.

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15.25 – LA RISURREZIONE DI LAZZARO (Giovanni 11.38-46)

15.25 – La risurrezione di Lazzaro (Giovanni 11.38-46)

 

38Allora Gesù, ancora una volta commosso profondamente, si recò al sepolcro: era una grotta e contro di essa era posta una pietra. 39Disse Gesù: «Togliete la pietra!». Gli rispose Marta, la sorella del morto: «Signore, manda già cattivo odore: è lì da quattro giorni». 40Le disse Gesù: «Non ti ho detto che, se crederai, vedrai la gloria di Dio?». 41Tolsero dunque la pietra. Gesù allora alzò gli occhi e disse: «Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato. 42Io sapevo che mi dai sempre ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato». 43Detto questo, gridò a gran voce: «Lazzaro, vieni fuori!». 44Il morto uscì, i piedi e le mani legati con bende, e il viso avvolto da un sudario. Gesù disse loro: «Liberatelo e lasciatelo andare». 45Molti dei Giudei che erano venuti da Maria, alla vista di quello che aveva compiuto, credettero in lui. 46Ma alcuni di loro andarono dai farisei e riferirono quello che Gesù aveva fatto”

 

Gesù quindi, “ancora una volta commosso profondamente” per le ragioni che abbiamo esposto, “si recò al sepolcro” con Marta e Maria seguìto dai Giudei. Il “sepolcro” cui dà cenno Giovanni era, data la famiglia benestante, costruito nel tufo orizzontalmente con un piccolo atrio dal quale si accedeva alla camera funeraria vera e propria. L’atrio era quello che comunicava con l’esterno con una porta che veniva, a sepoltura ultimata, chiusa da una grossa e pesante pietra che vi veniva fatta rotolare sopra. Questi erano i sepolcri nei terreni collinosi; in quelli pianeggianti lo scavo era verticale.

A questo punto abbiamo l’ordine di Gesù, “Togliete la pietra!” sul quale possiamo fare qualche riflessione: prima, nessuno ne capì il motivo e fu trovato da tutti illogico, Marta per prima. Per lei era assurdo che Nostro Signore potesse far qualcosa per il fratello visto che era lì “da quattro giorni”, proprio quando l’anima, secondo una tradizione giudaica, dopo aver cercato inutilmente per tre giorni di tornare nel corpo, il quarto vi rinunciava e lo abbandonava per sempre. Seconda osservazione riguarda i presenti perché era proibito aprire un sepolcro per evitare la contaminazione dovuta al contatto col cadavere. Suppongo che grande fu la riluttanza in proposito e credo che fu aperto solo perché Gesù a Betania era molto conosciuto.

Terza considerazione la farei sull’ambiente e cioè che lì ogni cosa “sapeva di morte”: abbiamo il dolore per la dipartita di Lazzaro, le lacrime sparse, quel silenzio così anomalo che riflette lo stato d’animo dei presenti, interrotto magari da qualche mormorio o calpestio, comunque un ambiente “pesante”, destinato a mutare radicalmente qualche istante dopo l’ordine di Dio di togliere via la pietra. Quarta considerazione: nessuno sapeva cosa sarebbe successo tranne Gesù, che avrebbe chiamato Lazzaro dalla morte alla vita. E così è sempre, anche nel caso del credente che, nel momento in cui accoglie il Figlio di Dio dentro di sé, risorge a nuova vita: infatti si affida a Colui che “dà vita ai morti e chiama all’esistenza le cose che non esistono” (Romani 4.17) e noi siamo quelli che “da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo” (Efesi 2.5).

Quinta e ultima considerazione: nessuno tra i presenti – è stato già scritto – comprese quell’ordine perché nessun uomo potrà mai comprendere il piano di Dio se Lui stesso non glielo rivela. Isaia 55.8 riporta “I miei pensieri non sono i vostri pensieri e le vostre vie non sono le mie vie”. La presenza di Gesù in quel luogo poteva essere garanzia di consolazione, ma nessuno tra i presenti poteva sapere come avrebbe agito, neppure una volta dato l’ordine di togliere la pietra che copriva l’ingresso del sepolcro.

La risposta di Marta è interessante perché in essa possiamo intravedere due sentimenti il primo dei quali – non necessariamente nell’ordine che le vennero alla mente – è l’assurdità della situazione: aprire un sepolcro con dentro un morto che per giunta già mandava cattivo odore era cosa del tutto inutile; poi, in qualità di sorella maggiore, si preoccupa del fratello non desiderando che il suo corpo fosse disturbato, quindi abbiamo un profondo senso di rispetto per lui.

Anche qui mi viene un paragone con Pietro, forse perché entrambi sono personaggi accomunati da una grande forza d’animo, di carattere e impulsivi: Marta, come l’apostolo, aveva dato da poco una formidabile testimonianza col suo credere in Gesù definendolo “Il Cristo, il Figlio di Dio, colui che deve venire nel mondo”, ma ora non ha idea di cosa Lui stia per fare e si frappone, per quanto inconsapevole, fra la resurrezione del fratello (che non immaginava sarebbe avvenuta) e l’artefice di questa proprio come Pietro che, all’annuncio del Maestro in merito alla Sua futura morte, reagì rimproverandolo “Dio non voglia, Signore, questo non ti accadrà mai” (Matteo 16.22). Sono certo due circostanze diverse, ma l’intento ostativo è lo stesso: l’essere umano raramente accetta immediatamente il volere o il piano che Dio ha per lui ed ecco perché per Marta abbiamo il richiamo “Non ti ho detto che, se crederai, vedrai la gloria di Dio?”.

E che cos’è la “gloria di Dio”? Tutto ciò che esula dall’ordinario umano, che lo vince, che trascende. “Gloria di Dio” è un’anima che si converte e ne dà testimonianza, è l’inizio di una nuova vita, un’esistenza che pone Cristo al centro e da lì fino a un corpo che risorge, la Nuova Gerusalemme, i Nuovi cieli e Nuova terra, la nostra esistenza là. La “Gloria di Dio” è il tutto cui siamo destinati: “saremo per sempre col Signore” (1 Tessalonicesi 4.17).

Poi, “Vedrai la gloria di Dio” non è solo una promessa fatta a Marta, ma ad ogni persona che crede nella morte e resurrezione di Gesù per il riscatto dei propri peccati, nell’ “Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo”; Marta, e i presenti con lei, ebbero un’ennesima prova di come il Signore può operare nei confronti di un corpo non solo inerte, ma sotto decomposizione cioè quando ogni organo dà prova ufficiale di una corruzione cui è impossibile porre rimedio.

A questo punto, tolta la pietra a chiusura del sepolcro facendola rotolare, abbiamo un intervento verbale di ringraziamento di Gesù al Padre. Non è quello che definiremmo “preghiera” in senso stretto perché non chiede nulla, ma lo è se andiamo oltre il termine, che contempla la comunicazione di qualunque sentimento o necessità per cui “preghiera” è per noi studio, lavoro, dialogo con Lui, attesa, silenzio e contemplazione.

Le parole di Gesù furono pronunciate ad alta voce e vediamo che iniziano con un ringraziamento, “Padre, io ti rendo grazie perché mi hai ascoltato”, parole dette “per la gente che mi sta attorno, perché credano che mi hai mandato”: qui dobbiamo prestare la massima attenzione perché i presenti, testimoni di un evento che nessuno avrebbe potuto contestare, dovevano sapere sì che Gesù era Figlio di Dio e come tale in grado di risuscitare un morto, ma soprattutto lo dovevano riconoscere tanto come Uno con il Padre, quando come Colui che tutto faceva tranne che l’agire da solo ed ecco perché pregava continuamente! Nessuna guarigione, piccola o grande, avveniva dietro iniziativa personale ed i presenti avevano bisogno di sapere che chi aveva visto lui aveva visto il Padre (14.9), che il Figlio da sé non poteva far nulla (5.17) e che quindi tutta la sua vita era di sottomissione a Lui per il pieno, perfetto recupero della creatura caduta, ferita e umiliata dal peccato. Ecco perché abbiamo il ringraziamento.

C’è però un’altra lettura per la preghiera di Gesù ad alta voce e cioè che, consapevole dell’ascolto del Padre, si sottopone al giudizio di tutti i presenti: Deuteronomio 18.22 afferma che “Quando il profeta parlerà in nome del Signore e la cosa non accadrà e non si realizzerà, quella parola non l’ha detta il Signore. Il profeta l’ha detta per presunzione. Non devi aver paura di lui”.

 

Finito questo intervento, abbiamo il secondo imperativo, questa volta a Lazzaro come persona, quindi rivolto alla sua realtà, spirito, anima e corpo, “Lazzaro, vieni fuori!”. Lo chiama per nome e Lazzaro non può fare a meno di sentire e di ubbidire a quella voce, cosa impensabile e assolutamente straordinaria per tutti, ma non per chi crede perché sa già di essere destinato alla resurrezione che porta alla vita eterna. Gesù ha fatto qualcosa di straordinario per noi che abitiamo un corpo di carne, ma non per Lui che, prima di occuparsi dell’uomo alla creazione, era là col Padre che stendeva l’Universo. Con la resurrezione dell’amico, il Figlio di Dio ha voluto anticipare, dare un esempio di quello che sarà la resurrezione di tutti, che non potranno non rispondere alla “tromba di Dio” che li chiamerà a risorgere.

Qui si parla di tutti gli uomini e le donne vissuti/e da Adamo in poi. Si parla di corpi di cui non esiste nemmeno la polvere, corpi che sono andati ben oltre la decomposizione di quattro giorni, ma che sono stati bruciati, che sono affogati, seppelliti sotto frane o valanghe, esseri di cui non esiste più memoria, ma sappiamo ciò che vide l’apostolo Giovanni: “il mare restituì i morti che esso custodiva, la Morte e gli inferi resero i morti da loro custoditi e ciascuno venne giudicato secondo le sue opere” (Apocalisse 20.13).

La risurrezione di Lazzaro rende quindi testimonianza di tutte queste cose, è un miracolo che va oltre, confermando che di fronte alla chiamata rigeneratrice di Dio, in salvezza o in giudizio, sarà impossibile nascondersi e resistere perché la volontà umana non esisterà più nel senso che ogni scelta sarà già stata fatta e sarà finito il tempo del libero arbitrio.

Mi sono chiesto quanto tempo passò da quando Gesù ordinò a Lazzaro di uscire e a quando comparve sulla porta del sepolcro: stante il fatto che ogni miracolo fatto ebbe sempre un effetto immediato, credo che ci abbia impiegato il tempo necessario ad una persona avvolta in bende per scendere dal loculo e guadagnare l’uscita, raggiunta con fatica stante l’impedimento dato dal rivestimento funebre che fu probabilmente secondo l’uso egiziano in cui si avvolgevano le membra separatamente, poi coperte da un lenzuolo, altrimenti non avrebbe potuto uscire se le bende fossero state avvolte in modo stretto attorno al corpo, arti compresi. Anche se fosse stata adottata la seconda tecnica, comunque, certo la potenza di Dio non sarebbe stata ostacolata da quella.

Non riesco ad immaginare la scena non tanto di quest’uomo che esce dal sepolcro, ma quella relativa alle reazioni dei presenti, Marta e Maria comprese. Sicuramente, per un tempo non quantificabile, scese un silenzio assoluto. Quale sentimento si impossessò dei presenti, paura? Gioia? Senso di liberazione perché era giunto il Messia tanto atteso? Credo che ci sia dato sapere la sola cosa che conta e cioè che “Molti dei Giudei che erano venuti da Maria, alla vista di ciò che egli aveva compiuto, credettero in lui” (v.45) e, se ci pensiamo, fu un miracolo nel miracolo perché ci troviamo di fronte non a persone ordinarie del popolo, ma a notabili e rettori che finalmente si arresero all’evidenza, ad un miracolo fatto non per Lazzaro, Marta e Maria, ma fondamentalmente per loro, “perché credano che tu mi hai mandato”.

Ecco allora che la motivazione della resurrezione di Lazzaro non va ricercata nel fatto che il “Maestro buono” abbia voluto fare un regalo a quella famiglia o voleva stare col suo amico, ma dimostrare a tutti di essere in grado di sconfiggere la morte, aggiungendo così certezza e autorità alla Sua frase in base alla quale avrebbe ricostruito il Tempio in tre giorni. Lazzaro fu uno strumento nelle mani di Dio per dimostrare non la Sua esistenza, ma la Sua fedeltà e veridicità di tutto quanto da lui fatto e detto per la salvezza dell’uomo. Amen.

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15.24 – IL DIALOGO CON MARTA E MARIA (Giovanni 11.28-37)

15.24 – Il dialogo con Marta e Maria (Giovanni 11.28-37)

 

28Dette queste parole, andò a chiamare Maria, sua sorella, e di nascosto le disse: «Il Maestro è qui e ti chiama». 29Udito questo, ella si alzò subito e andò da lui. 30Gesù non era entrato nel villaggio, ma si trovava ancora là dove Marta gli era andata incontro. 31Allora i Giudei, che erano in casa con lei a consolarla, vedendo Maria alzarsi in fretta e uscire, la seguirono, pensando che andasse a piangere al sepolcro. 

32Quando Maria giunse dove si trovava Gesù, appena lo vide si gettò ai suoi piedi dicendogli: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!». 33Gesù allora, quando la vide piangere, e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente e, molto turbato, 34domandò: «Dove lo avete posto?». Gli dissero: «Signore, vieni a vedere!». 35Gesù scoppiò in pianto. 36Dissero allora i Giudei: «Guarda come lo amava!». 37Ma alcuni di loro dissero: «Lui, che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva anche far sì che costui non morisse?».

 

A conclusione del dialogo con Marta, di cui Giovani riporta le frasi più importanti, Gesù le aveva comunicato il suo desiderio di parlare con la sorella: “Il Maestro è qui, e ti chiama” è il messaggio prontamente accolto da Maria che abbandona “subito” l’ambiente di consuetudini in cui si trovava. Gli comunica il desiderio del “Maestro” che certamente avrebbe avuto per lei parole ben diverse da quelle che poteva ascoltare dai presenti in casa sua. Maria, quindi, si alza e va da Gesù consapevole di tutto questo, di una chiamata individuale, precisa, memore delle parole che aveva ascoltato da Lui tempo addietro. Allora si era posta ai piedi di Gesù, la stessa posizione che assumevano i discepoli coi loro maestri, in un dialogo profondo e non in un’acquisizione passiva di concetti. Consapevole che da Lui avrebbe ricevuto ben altro, “si alzò e andò da lui”.

È su questo alzarsi di Maria che possiamo fare le prime considerazioni perché, nella Scrittura, questa azione equivale ad ottemperare ad un invito ad entrare nel piano di Dio: andando a ritroso alle origini, quindi al libro della Genesi, fu il primo invito rivolto ad Abramo (a parte quello di lasciare il suo parentado) quando gli fu detto “Àlzati, percorri la terra in lungo e in largo, perché io la darò a te” (13.17); ancora, ricordiamo le parole ad Agàr, “Àlzati, prendi il fanciullo e tienilo per mano, poiché io ne farò una grande nazione” (21.18) e poi Mosè, “Àlzati di buon mattino e preséntati al faraone quando andrà alle acque. Gli dirai: «Così dice il Signore, il Dio degli Ebrei: lascia partire il mio popolo, perché mi serva” (Esodo 8.16).

Ancora, tralasciando tutti gli altri, tanti episodi dell’Antico Patto, questo fu l’imperativo rivolto a molti dei guariti da Gesù e non solo, e qui vediamo la vita nuova alla quale venivano chiamati che andava ben oltre al fatto che era stato risolto il problema della loro infermità: ciò avvenne già con Giuseppe, quando fu invitato ad andare in Egitto, al paralitico di Capernaum, “Àlzati, prendi il tuo letto e va’ a casa tua” (Matteo 9.6), all’uomo con la mano paralizzata, “Àlzati, vieni qui in mezzo!” (Marco 3.3), a quelli che chiamarono il cieco, “Coraggio, àlzati, ti chiama!” (Marco 10.49) per non parlare della figlia di Giairo, morta da poco: “Fanciulla, io ti dico, àlzati” (Marco 5.41).

 

Alla chiamata di Gesù, Maria non ascoltò altro, lasciò il suo stato di persona vittima del dolore, e “andò”, cioè impresse alla sua vita una direzione diversa da quella consueta talché i presenti, fraintendendo, ritennero logico che volesse raggiungere la tomba del fratello per piangere come atto spontaneo e veramente doloroso perché, va ricordato, nei funerali e anche dopo venivano impiegate persone pagate apposta per piangere accompagnandosi con alte grida.

I Giudei quindi sappiamo che si misero a seguirla, rendendo così vano l’originale proposito di Gesù che, fuori dal paese per evitare di essere visto e circondato dai molti che lo conoscevano,  intendeva incontrarla riservatamente. Così, quelle persone diventeranno involontari testimoni di qualcosa assolutamente impossibile da spiegare: mettiamoci per un attimo nei panni dei detrattori di Gesù: se con la prima risurrezione si poteva supporre che la figlia di Giàiro dormisse e che chi ne aveva decretato la morte si era sbagliato, già con il figlio della vedova di Nain, portato con il corteo funebre, non ammettere il suo ritorno alla vita dietro intervento del Figlio di Dio sarebbe stato molto più difficile. Con un morto da quattro giorni, però, altro non rimaneva se non accettare una volta per tutte che Gesù era veramente chi diceva di essere.

L’incontro di Gesù con Maria, nonostante le parole identiche di Marta, ha delle differenze che ancora una volta ci rivelano il carattere delle due sorelle perché mentre la prima dimostra un carattere più forte, la seconda gli si getta ai piedi piangendo, sintomo di un dolore non ancora elaborato, di maggiore sensibilità e quindi vulnerabilità. Inoltre, Maria appare affetta da un sentimento privo di speranza perché mancano le parole “ma pure, so che tutto ciò che chiederai a Dio, egli te lo darà”. Maria non va, come la sorella, al di là del fatto in sé, ma accantona per un momento tutte le parole ascoltate, ma di cui si ricorderà e che elaborerà nell’episodio dell’unzione. Non vede al di là della morte del fratello che considera un fatto irrimediabile. La porta del sepolcro era stata chiusa così come la possibilità di tornare indietro.

L’apostolo Giovanni non ci riferisce altro al di là della notifica a Gesù di questo pensiero ed è molto probabile che così sia avvenuto perché, se con Marta l’incontro fu privato, nel caso di sua sorella c’erano persone presenti, per di più non ordinarie, cioè i Giudei. Se Gesù avesse detto qualcosa a Maria in quel momento, costoro avrebbero ascoltato e avrebbero certamente fatto commenti dall’ “alto” del loro sapere, per cui Gesù lasciò ai fatti il compito di parlare al Suo posto. Le parole tra i due sembrano, almeno secondo il mio punto di vista, pronunciate apposta perché gli altri le sentissero: “Dove lo avete posto?”, “Togliete via la pietra” ed altro che esamineremo. Gesù darà quindi ai presenti non più occasione di criticarlo e giudicarlo, ma parole e un fatto inequivocabile, incontrovertibile.

 

A questo punto però dobbiamo affrontare due particolari sui quali si sono spese molte parole e cioè le reazioni di Gesù al clima che si era venuto a creare il primo dei quali è descritto al verso 33, e cioè “quando la vide piangere, e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente, e molto turbato domandò: dove lo avete posto?”.

Credo che sia d’obbligo cercare di capire le ragioni e cosa significhi quel “si commosse profondamente, e molto turbato…”, descrizione sulla cui veridicità non possiamo dubitare visto che Giovanni, che era presente, descrisse questo stato d’animo.

Va detto che “si commosse profondamente” è una libera interpretazione più che una traduzione letterale che sarebbe “fremette nello spirito”, ma a livello di indignazione e rimprovero. Verrebbe da attribuire tutto questo allo stato di inconsolabilità di Maria e al pianto ipocrita dei Giudei, ma si tratta di una lettura troppo immediata del carattere di Gesù, che – è vero – respinse sempre i sentimenti umani quando portavano a posizioni estranee alla fede: piuttosto credo che in quel momento Lui si trovò a constatare personalmente gli effetti del peccato e dell’opera dell’Avversario, vedesse insomma il trionfo del male e soprattutto il modo assolutamente impreparato con cui l’uomo reagiva ad essi. Certo erano cose che sapeva benissimo, ma in questo caso Lui era lì, Dio, ma nel corpo. Dio, ma uomo e questa sua reazione è per me qualcosa di assolutamente spontaneo, che lo rivela veramente come scritto in Ebrei 4.14-16: “Dunque, poiché abbiamo un sommo sacerdote grande, che è passato attraverso i cieli, Gesù il Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della fede. Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato. Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno”.

Secondo dato su Gesù in questa circostanza è che fu “molto turbato”: direi che fu la conseguenza diretta del primo sentimento. Sono convinto che il turbamento, che poi provocò il Suo pianto, fu proprio causato dal perfetto equilibrio fra il suo essere uomo e il suo essere Dio: in altri termini, avendo rivelato il Padre in modo consono all’uomo, non essendo più il Dio distante e irraggiungibile dell’Antico Patto (nel senso di non alla portata dell’uomo a livello di identificazione), non poteva non essere partecipe di tutta quella sofferenza, di tutto quel deserto interiore. Sono convinto che pensò non tanto a Lazzaro, che sapeva benissimo “dormire” e che avrebbe risuscitato di lì a poco, ma alla morte intesa come fine reale dell’esistenza che avrebbe conosciuto la maggioranza dei presenti che lo rifiutava come l’ “Io sono la resurrezione e la vita”. L’uomo, fatto per amare Dio ed essere da Lui amato, si ritrovava ora vittima del peccato, della morte e soprattutto di Satana nei confronti dei quali non aveva – mi verrebbe da dire “non voleva avere” – difese.

La domanda “Dove lo avete posto?”, rivolta al plurale, ci conferma che con Maria ci fosse anche Marta, che però si tenne a rispettosa distanza dalla sorella perché, se così non fosse, questa non sarebbe stata presente alla risurrezione del fratello, cosa che mi sembra improbabile stante i trascorsi umani e spirituali del tre con Lui.

Terzo comportamento di Gesù “anomalo” è il pianto, diretta conseguenza dei primi due sentimenti che aveva provato. Ricordo di una persona a me cara che un giorno mi fece notare l’assurdità di quel pianto perché, siccome Gesù avrebbe risuscitato Lazzaro di lì a poco, non avrebbe avuto senso e da lì traeva le convinzioni che fosse un episodio inventato o appartenente comunque a una leggenda. Si tratta però di una lettura profondamente errata perché il pianto di Gesù, come gli altri due modi con cui rivelò i suoi sentimenti, non era certo dovuto alla morte dell’amico.

C’è poi una sostanziale differenza tra il suo piangere e quello dei presenti, che in italiano non è possibile rilevare, ma in greco sì. Per costoro viene impiegato “klàio”, che significa “lamentarsi ad alta voce e con grida”, per Gesù “diakrùo”, cioè “versar lacrime in silenzio”. Il verso 36 quindi, non si può tradurre con “E Gesù scoppiò in pianto”, ma semplicemente “Gesù pianse”, facendolo il versetto più breve di tutta la Bibbia. E questo pianto è del tutto assimilabile a quello su Gerusalemme: “Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, quello che porta alla pace! Ma ora è stato nascosto ai tuoi occhi. Per te verranno giorni in cui i tuoi nemici ti circonderanno di trincee, ti assedieranno e ti stringeranno da ogni parte; distruggeranno te e i tuoi figli dentro di te e non lasceranno in te pietra su pietra, perché non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata” (Luca 19.41-44).

C’è chi ha supposto che in quel momento, che sapeva così profondamente di perdita, morte e disorientamento, Gesù avesse visto anche la propria: Lui che non ne aveva bisogno, che avrebbe potuto benissimo rimanere dov’era, ma senza salvare nessuno, fu talmente immerso nella condizione di uomo da passare attraverso una morte così squalificante da essere perfetta. E anche qui, il pianto non trovò le sue origini nel suo consegnarsi in sacrificio, ma fu diretto a quel muro di morte che dominava quasi tutti i presenti. Come reagire infatti al verso che conclude la nostra terza parte, “Lui, che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva far sì che anche costui non morisse”?

Abbiamo il trionfo dell’ignoranza più profonda: i Giudei ne fraintesero il pianto – “Guarda come lo amava!” –, altri davano per scontato che potesse compiere un miracolo evidente come quello del nato cieco, senza però credere in lui e pure osavano giudicarlo moralmente! Si tratta di manifestazioni di fronte alle quali non ci si può chiedere cosa fare per porvi rimedio semplicemente perché non esiste, essendo l’uomo abitato dallo spirito di Dio o dell’Avversario. Amen.

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15.23 – L’INCONTRO CON MARTA (Giovanni 11.17-27)

15.23 – L’incontro con Marta (Giovanni 11.17-27)

 

17Quando Gesù arrivò, trovò Lazzaro che già da quattro giorni era nel sepolcro. 18Betània distava da Gerusalemme meno di tre chilometri  19e molti Giudei erano venuti da Marta e Maria a consolarle per il fratello. 20Marta dunque, come udì che veniva Gesù, gli andò incontro; Maria invece stava seduta in casa. 21Marta disse a Gesù: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! 22Ma anche ora so che qualunque cosa tu chiederai a Dio, Dio te la concederà». 23Gesù le disse: «Tuo fratello risorgerà». 24Gli rispose Marta: «So che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno». 25Gesù le disse: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; 26chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?». 27Gli rispose: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo».

 

Tra la morte e la resurrezione di Lazzaro sappiamo che trascorsero quattro giorni, ma anche tre incontri: quello con Marta, con Maria e quindi con quanti furono presenti e testimoni dell’accaduto. Nonostante i versi oggetto di riflessione siano pochi, dieci, molti sono i dati che possiamo ricavare leggendo “tra le righe” per renderci conto del contesto: dal particolare espresso al verso 19, “Molti Giudei erano venuti da Marta e Maria a consolarle per il fratello” possiamo avere conferma di quanto avevamo ipotizzato a proposito della condizione sociale della famiglia, evidentemente altolocata per la presenza appunto dei “Giudei”, quindi i rettori del popolo, quei membri del Sinedrio che conoscevano molto bene Lazzaro e le sue sorelle che non si sarebbero certo scomodati per una persona di rango inferiore al loro.

Va poi dato un breve cenno sulle usanze in merito alla gestione del lutto per la perdita di un proprio caro a quel tempo, poiché il periodo dedicato al cordoglio era di trenta giorni: i primi tre erano di “pianto” cui ne seguivano sette di “lamento” e i rimanenti erano di “lutto” quindi, arrivando al quarto giorno, Gesù arriva alla fine di quelli di pianto e al primo del lamento. Arriva, ma non irrompe in casa con tutti i presenti perché Marta, saputo da qualcuno che il Maestro stava per arrivare, gli corre incontro confermandosi così la donna concreta e d’azione che aveva già dimostrato di essere. Anche qui abbiamo un ulteriore dato della personalità di Marta che, assolutamente convinta che non sarebbe stata mai lasciata sola da Gesù, aveva posto qualcuno, alle porte o nei dintorni del villaggio, che la avvisasse del Suo arrivo.

Nostro Signore si era fermato prima di Betania perché sarà lì che verrà trovato anche da Maria più tardi (“Gesù non era ancora giunto nel villaggio, ma era nel luogo in cui Marta l’aveva incontrato”): fuori dal villaggio e quindi dalle consuetudini, dal cordoglio rituale che tiene ancora più prigioniero il dolore, da quel contegno discutibile di molti che mormorano le stesse frasi di circostanza ai parenti del morto. Si può dire che, col Suo sostare, è Lui ad attendere Marta e Maria prima di risuscitare il loro fratello perché il messaggio, le parole che ha da dire a loro è/sono profondamente diverse da quelle degli altri. E lo stesso accade con ogni cristiano nel momento in cui si mette a confronto con Lui, chiamato fuori dall’ordinarietà e banalità della vita terrena, consapevole dell’ascolto, in preghiera, nel senso bidirezionale del termine: Dio ascolta me, ma io devo ascoltare Lui, che si esprime non solo con parole, ma anche con i fatti, risposte anche costituite da silenzi e attese. Così, se veniamo a conoscenza di un comportamento che dovremmo assumere perché lo impongono la nostra dignità e fede e non lo concretiamo, inevitabilmente veniamo catapultati in un ambito in cui perdiamo tempo, tutto resta nell’ambito del sentimento (religioso) e la nostra comunione con Dio si interrompe.

 

E ora veniamo all’incontro con Marta, persona che, per degli strani meccanismi psicologici, viene sempre in mente collegarla all’episodio in cui rimproverò Gesù perché non aveva detto alla sorella di aiutarla nelle faccende domestiche quando qui, al verso 27, abbiamo l’espressione di un concetto che addirittura va a completare quello espresso da Pietro che riconobbe in Gesù “Il Cristo, il figlio del Dio vivente” aggiungendo “che deve venire nel mondo”.

Marta ha una reazione pronta, immediata perché “come udì che veniva Gesù, gli andò incontro” mentre la sorella minore “stava seduta in casa” in ossequio alla tradizione che vedeva nello stare seduti a terra il modo per esprimere il dolore che, per quanto necessario, stanca sempre, come se fosse una persona che ti sta vicino per convenienza, consuetudine, tradizione o per i suoi scopi. Comunque non perché ti ama.

Non sappiamo se Gesù fu raggiunto da Marta di corsa o con passo veloce, ma di sicuro ciò che gli dice rivela molto di lei: “Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto” è la prima parte del suo breve discorso, che contiene anche qui un rimprovero perché, a suo modo di vedere, Gesù avrebbe potuto intervenire sulla malattia e impedire la morte del fratello. Marta era quindi legata, come nel caso del figlio del funzionario del re in 4.49, al fatto che Gesù dovesse per forza essere presente per operare senza contare il fatto che quanto le due sorelle gli avevano fatto sapere – ricordiamo le parole “Signore, ecco, colui che tu ami è ammalato” – non aveva provocato in Lui, apparentemente, nessuna reazione, anzi, era giunto in ritardo. Nelle parole di Marta non c’è una richiesta di spiegazione sul messaggio che le era stato recapitato, “Questa malattia non porta alla morte, ma è per la gloria di Dio” che sicuramente non aveva capìto, ma solo il dolore per il decesso di una persona cara che non avrebbe dovuto verificarsi, dimenticando che l’essere umano su questa terra è provvisorio e non sa quando verrà il tempo in cui verrà chiamato da Dio perché “il giorno del Signore – che ha una quantità innumerevole di significati e riferimenti – verrà come un ladro di notte”.

La seconda parte di quanto detto da Marta, invece, è molto più interessante dal punto di vista della crescita della rivelazione: “Ma anche ora so che qualunque cosa chiederai a Dio, egli te la concederà”. La conoscenza che questa donna ha di Gesù – e non poteva essere altrimenti – è imperfetta, legata alla Sua presenza guaritrice e risolutrice, al concetto già espresso dal cieco nato, “Sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma che, se uno onora Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta” (9.41); non solo, ma noto anche un parallelo con Maria, madre di Gesù, che alle nozze di Cana disse ai servi “Fate tutto quello che vi dirà”, lasciando a Lui ogni decisione sul da farsi. Marta, quindi, accanto alla sua convinzione in base alla quale se Gesù fosse stato presente avrebbe potuto impedire la morte di Lazzaro, qui dà un’apertura nel senso che sa che il Signore farà senz’altro qualcosa, anche se non sa cosa o come. Con la sua ultima frase Marta non chiede a Gesù di resuscitare il fratello, ma sa che la Sua presenza non si sarebbe limitata al porgere le proprie condoglianze rituali e soprattutto prive di una reale partecipazione come spesso accade anche ai nostri funerali, dove magari si va per non recare offesa ai parenti del defunto e non per dare idealmente un ultimo saluto o portare, con la propria presenza, un’espressione di condivisione o supporto al dolore.

A questo punto abbiamo una rivelazione particolare di Nostro Signore che dapprima dice “Tuo fratello risusciterà” ponendola in un futuro che Marta comprende essere lontano nel tempo – “So che risorgerà alla risurrezione nell’ultimo giorno” –, ma poi, alla dichiarazione “Io sono la resurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque crede in me, non morirà in eterno”, abbiamo il vero spostamento dell’asse su cui basare la propria fede: “chi crede in me, anche se nuore, vivrà” e “non morirà in eterno”, quindi non si perderà nel tempo e nello spazio, o meglio nel nulla, nell’informe, nel vuoto dove niente ha più senso perché al di fuori di Dio non ce n’è alcuno. Si ritorna a prima della creazione, quando “La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso”. E, in proposito, va notato che non ci sarà più “lo spirito di Dio (che) aleggiava sulle acque” che ai tempi era sinonimo di speranza di vita, come in effetti fu. Per chi sarà fuori dal regno di Dio, quindi, non ci sarà una nuova creazione, ma solo morte.

Qui Gesù, parlando di risurrezione, intende quella di un corpo trasformato, che in virtù della fede avuta si riappropria del proprio soma per vivere e non per morire un’altra volta: “…e se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna” (Matteo 25.46). Marta, con le sue parole, esprime un concetto indubbiamente vero, ma dimostra di avere l’idea di Gesù come il più perfetto degli uomini e per questo ascoltato da Dio, ma non del fatto che proprio a Lui appartenessero la risurrezione e la vita. Ecco allora che Nostro Signore, con il suo “Io sono” ne rivendicherà l’essenza sapendo che dovrà dimostrare di essere “la resurrezione e la vita” non solo con se stesso, ma anche con gli altri, fino a quel momento due e, da lì a poco tempo, tre con Lazzaro. E l’apostolo Paolo potrà scrivere “Se per mezzo di un uomo – Adamo – venne la morte, per mezzo di un uomo – Gesù – verrà anche la resurrezione dei morti” (1 Corinti 15.21). Notiamo i due “uomo” che ci parlano del Cristo venuto a porre rimedio al peccato di Adamo. Quanto alla “vita”, poi, così scrive Giovanni nella sua prima lettera: “Dio ci ha donato la vita eterna e questa vita è nel suo Figlio. Chi ha il Figlio ha la vita, chi non ha il Figlio di Dio, non ha la vita” (5.11).

Lazzaro quindi, che aveva creduto in Gesù, gli apparteneva e in quanto tale avrebbe potuto risorgere non solo nell’ultimo giorno, ma in qualsiasi momento se Lui lo avesse chiamato, come poi avverrà. Ecco perché abbiamo, a proposito di Lazzaro morto, il presente “dorme”, che prelude a un risveglio, lo stesso che avranno tutti, e “…ma io vado a svegliarlo”: c’è il “ma”, cioè la morte ha potere sul corpo fino a quando Dio non decide altrimenti. E, del resto, fu Lui a dire “Sia la luce!”, che diede poi origine alla biodiversità, che intervenne sull’uomo personalmente per infondergli spirito e vita.

Abbiamo poi “Chi vive e crede in me, non  morirà in eterno”, dove le condizioni per non morire davvero sono due, “vivere” e “credere” cioè una identificazione costante perché come diamo prova di essere vivi nel mondo con l’azione (ci muoviamo, lavoriamo, esistiamo ciascuno con la nostra personalità e idee), così dobbiamo dimostrare di essere vivi in Cristo, dimostrazione del fatto che crediamo. Non può esserci un “credere” senza un “vivere” e viceversa ed ecco perché Gesù conclude il suo intervento su Marta con la domanda “Credi tu questo?”: non le sta chiedendo un’enormità, ma una verifica prima di tutto interiore. Marta aveva visto e sentito parlare Gesù molte volte e non possiamo escludere che fosse stata testimone di più di un miracolo, come quello di Simone il lebbroso; ora, viene chiamata a dichiarare la sua opinione in proposito su di Lui e a riflettere sulle sue ultime parole.

Ora qui abbiamo, sottovalutata perché si pensa sempre a Pietro e mai a lei, una delle più belle risposte a una domanda di Gesù nel Vangelo circa la Sua identità, che qui viene spontanea: “Sì, o Signore; credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo”. Totale. E guardando nel Vangelo, non è l’unico riconoscimento avuto da Nostro Signore, pensiamo ai Samaritani che in 4.42 dissero “Noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo”. A parte Pietro, abbiamo anche i presenti  alla moltiplicazione dei pani e dei pesci, ma con un fraintendimento perché alle parole “Questi è davvero il profeta, colui che viene nel mondo!” (6.14) volevano farlo re.

Marta, invece, si appropria di Gesù non come re, ma come suo Salvatore personale, attribuendogli le due qualifiche più importanti, “Cristo” e “Figlio di Dio”, aggiungendo “colui che doveva venire nel mondo”, atteso e annunciato dai profeti. Non poteva aggiungere altro. Non serviva altro non per ottenere la risurrezione del fratello, ma per appartenere al vero popolo, alla vera famiglia di Dio. Amen.

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15.22 – LA MORTE DI LAZZARO (Giovanni 11.1-6)

15.22 – La morte di Lazzaro (Giovanni 11.1-16)

 

 1Un certo Lazzaro di Betània, il villaggio di Maria e di Marta sua sorella, era malato. 2Maria era quella che cosparse di profumo il Signore e gli asciugò i piedi con i suoi capelli; suo fratello Lazzaro era malato. 3Le sorelle mandarono dunque a dirgli: «Signore, ecco, colui che tu ami è malato».
4All’udire questo, Gesù disse: «Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato». 5Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro. 6Quando sentì che era malato, rimase per due giorni nel luogo dove si trovava. 7Poi disse ai discepoli: «Andiamo di nuovo in Giudea!». 8I discepoli gli dissero: «Rabbì, poco fa i Giudei cercavano di lapidarti e tu ci vai di nuovo?». 9Gesù rispose: «Non sono forse dodici le ore del giorno? Se uno cammina di giorno, non inciampa, perché vede la luce di questo mondo; 10ma se cammina di notte, inciampa, perché la luce non è in lui». 11Disse queste cose e poi soggiunse loro: «Lazzaro, il nostro amico, si è addormentato; ma io vado a svegliarlo». 12Gli dissero allora i discepoli: «Signore, se si è addormentato, si salverà». 13Gesù aveva parlato della morte di lui; essi invece pensarono che parlasse del riposo del sonno. 14Allora Gesù disse loro apertamente: «Lazzaro è morto 15e io sono contento per voi di non essere stato là, affinché voi crediate; ma andiamo da lui!». 16Allora Tommaso, chiamato Dìdimo, disse agli altri discepoli: «Andiamo anche noi a morire con lui!».

 

L’episodio della morte e resurrezione di Lazzaro occupa nel Vangelo di Giovanni un posto particolare: è il settimo ed ultimo da lui narrato e, rispetto ai precedenti, viene arricchito di una gran quantità di particolari; delle resurrezioni operate da Gesù è la terza, quella che scatenò, nei capi dei saceroti e dei farisei, l’assoluta determinazione di ucciderLo. Si tratta di una vicenda che ci costringe a raccogliere dei dati importanti e a fare riflessioni anche particolari.

Sappiamo dell’esistenza di Lazzaro, il cui nome significa “Dio aiuta”, solo in questo Vangelo poiché i sinottici parlano di Marta e Maria sua sorella minore; non a caso Giovanni nei primi due versi si preoccupa di inquadrare questa famiglia, citando il gesto di Maria nel cospargere “di profumo il Signore”. Se quindi abbiamo dei dati sulle due sorelle, nulla sappiamo del mestiere o del carattere di Lazzaro, ma in compenso, dal messaggio che le due sorelle gli mandano, “Signore, ecco, colui che tu ami è infermo” e dalla nota dello stesso Giovanni, “Gesù amava Marta, sua sorella e Lazzaro”, notiamo la presenza di un sentimento particolare. Questo verrà ribadito poi al verso 11 quando viene detto “Lazzaro, il nostro amico, si è addormentato”.

Già da questi particolari brevemente raccolti abbiamo materiale su cui lavorare e la prima cosa che personalmente ho sottolineato è che Marta, Maria e Lazzaro ebbero con Gesù un rapporto particolare senza diventare discepoli, per lo meno non nel senso comunemente inteso, vale a dire entrando nel numero di quelli che lo seguivano ovunque andasse dopo aver rinunciato a una vita normale fatta di lavoro, famiglia e pratiche religiose.

Ora, ragionando su queste tre persone vediamo che il fatto di restare a casa propria senza vendere tutto, darlo ai poveri e seguire Gesù non impedì a Marta di occuparsi dell’ospitalità ed aiutare con le sue competenze Lui e i discepoli, né a Maria, la più propensa alla riflessione spirituale, di elaborare verità e fatti che la porteranno ad agire con la famosa unzione che esamineremo, che porterà a queste parole del Maestro: “Versando questo profumo sul mio corpo, lei lo ha fatto in vista della mia sepoltura. In verità io vi dico: dovunque sarà annunciato questo Vangelo, nel mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche ciò che ha fatto”.

Del terzo personaggio della famiglia, Lazzaro, si può dire solo che certamente non era diverso dalle sorelle quanto ad attitudine a ricevere il Vangelo perché altrimenti Gesù non lo avrebbe amato né avrebbe usato la parola “amico”, che certo nessuno impiega per indicare una persona indifferente. Va poi rivolto uno sguardo attento ai verbi usati, nel caso di specie l’ “ami” al verso terzo, riferito a Lazzaro, e l’ ”amava” al quinto, al nucleo famigliare: l’amore per Lazzaro è indicato con “filèin”, che indica l’affezione verso una persona cara, che nel caso dei tre personaggi è “agapàn”, impiegato per indicare delle persone che si sono scelte e per le quali si nutre un sentimento volto a costruire qualcosa: è un verbo meno appassionato rispetto al primo, ma sicuramente più elevato. E tutti e tre godevano di questa attenzione affettiva di Nostro Signore.

Altra annotazione va fatta sul termine “nostro amico”, quindi anche del discepoli, che nel Nuovo Testamento è utilizzato solo qui, riferito ad un rapporto che Gesù aveva con una persona e viene da pensare che Lazzaro non era ritenuto un semplice conoscente anche da parte di tutti gli altri. L’essere “amico” ci fa ritenere allora Lazzaro come una persona che aiutava e favoriva apertamente Gesù e il suo gruppo. Se Lui, che chiamò i discepoli “amici miei” in Luca 12.4, con “nostro amico” allude a intimità, condivisione, partecipazione. E non possiamo che concludere con Giovanni 15.13-15: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici – quindi Gesù per tutti coloro che avrebbero creduto in Lui per essere salvati –. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che io ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi”.

Tornando al nostro testo non possiamo trascurare nemmeno il villaggio di Betania, che significa “casa del pane”, villaggio che “distava da Gerusalemme meno di tre chilometri” (11.18), dove Gesù aveva persone che credevano in Lui ed erano piene di gratitudine per i benefici ricevuti, come Simone il lebbroso che aveva organizzato il famoso convito (Matteo 26, Marco 14). Sempre in quel villaggio Nostro Signore si recava per dormire quando si intratteneva in città, come quando “entrò a Gerusalemme, nel tempio. E dopo aver guardato ogni cosa attorno, essendo ormai l’ora tarda, uscì con i dodici verso Betania” (Marco 11.11). Appena fuori di questo villaggio avvenne l’episodio del fico sterile (Marco 11.12) e, sempre nello stesso capitolo, fu in un paese vicino che i discepoli avrebbero trovato quel “puledro legato” che verrà utilizzato per l’ingresso di Gesù a Gerusalemme: “Andate nel villaggio di fronte a voi e subito, entrando in esso, troverete un puledro legato, sul quel nessuno è ancora salito. Slegatelo e portatelo qui. E se qualcuno vi dirà: «Perché fate questo?», risponderete «Il signore ne ha bisogno, ma lo rimanderà qui subito»” (vv.2-4).

 

Dopo aver brevemente inquadrato l’ambiente, veniamo agli eventi: Gesù, che si trovava nella Perea, viene raggiunto da un messaggero delle due sorelle; sono otto parole, “Signore, ecco, colui che tu ami è malato”: non è una comunicazione ordinaria nel senso che tutto lascia intuire tanto l’urgenza che la gravità delle condizioni in cui versava Lazzaro perché non Lo avrebbero certo disturbato per una semplice febbre. Piuttosto, in quell’ “ecco”, traducibile anche con “vedi”, rileviamo tutto lo stupore per quanto stava succedendo in quanto, molto probabilmente, tutta la famiglia era ancora legata al concetto di benedizione dell’Antico Patto, quando la malattia e altri inconvenienti erano esclusi. Può anche essere che le due sorelle fossero comunque convinte che, credendo, potessero essere risparmiate da grandi sofferenze come poteva essere la morte di un loro caro, di trovarsi al riparo da quanto può turbare anche gravemente la salute di una persona. Allo stesso tempo vediamo che manca qualsiasi riferimento alla necessità di una presenza di Gesù in loco, ma quelle parole contengono una dichiarazione di fede, quasi a dire “fa’ come ritieni giusto”.

A questo punto accade qualcosa di anomalo rispetto ad altri miracoli precedentemente operati: Lazzaro non viene guarito né immediatamente, né a distanza come in altri casi (ricordiamo il figlio del funzionario reale in 4.43-54 o il servo del centurione in Matteo 8.5-13), non viene dato un messaggio teso a tranquillizzare le sorelle del tipo “state tranquille, ci penso io”, ma abbiamo la consegna, al messaggero e ai presenti, di una verità difficile in quel momento da capire e per noi da interpretare: “Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato” (v.4). Pensiamo a cosa avrebbero capìto Marta e Maria: il loro fratello non sarebbe morto; però, restava da risolvere il significato delle altre parole, perché se Lazzaro fosse guarito naturalmente, nel senso che la febbre lo avesse abbandonato, che quella malattia fosse stata “per la gloria di Dio” non avrebbe avuto senso.

Se invece prendiamo le parole di Gesù intendendo che “Questa malattia non poterà alla morte” intesa come fine di tutto, di separazione dell’anima e dello spirito dal corpo che si corromperà fino alla polvere, le possiamo inquadrare nel loro significato corretto perché l’infermità di Lazzaro non lo avrebbe ucciso. Gesù, contrariamente alle aspettative delle due sorelle, non guarisce subito Lazzaro liberandole dall’angoscia perché la “Gloria di Dio” e il fatto che “per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato” sono il vero fine di quella malattia che sarebbe sfociata in una morte sì, ma temporanea. E il miracolo che il Figlio di Dio avrebbe compiuto lo avrebbe “glorificato” proprio perché con esso avrebbe inequivocabilmente dimostrato di essere tale e infatti sappiamo che fu proprio quella resurrezione a generare, come detto all’inizio, la decisione assoluta di ucciderLo assieme a Lazzaro. Ricordiamo le parole “Molti dei Giudei che erano venuti a Maria, considerato tutto quanto che Gesù aveva fatto, credettero in lui. Ma alcuni di loro andarono dai farisei, e dissero loro ciò che Gesù aveva fatto”.

I credenti dovrebbero tenere sempre presente che, per chi ha posto la propria fede nel Figlio di Dio, non può esistere nessuna malattia che “porta alla morte” così come nessuna morte è veramente tale perché si tratta solo di un passaggio di stato, diverso e soprattutto migliore nel senso più vero del termine. Questo non toglie che la dipartita di una persona cara ci lasci deserti, che il dolore provato non assomigli alla sradicazione di un albero piantato nel cuore, che il silenzio e il vuoto che lascia siano importanti, ma se l’amore che si porta verso questo fratello o sorella è vero, non potrà mai “tramontare il sole” proprio sulla nostra sofferenza e penseremo a chi è venuto a mancare come un essere finalmente libero dal proprio corpo di carne ora alla presenza del Padre, cosa che non ha fatto altro che aspettare per tutta la sua vita spirituale terrena.

 

Tornando alla cronologia del racconto, anche il verso 6 è particolarissimo, perché dopo la nota sui sentimenti di Gesù verso Marta, Maria e Lazzaro, leggiamo “Quando sentì che era malato, rimase per due giorni nel luogo dove si trovava”, che parrebbe farci optare per un disinteresse nei confronti dell’amico morente, o forse già morto visto che, quando raggiungerà Maria, questa gli dirà “Signore, manda già cattivo odore: è lì da quattro giorni” (v.39). Al contrario, il comportamento di Gesù è assimilabile a quello già avuto quando, trovandosi coi discepoli sulla barca, dormiva mentre tutti gli altri si affannavano e lo svegliarono dicendo “Maestro, non t’importa che siamo perduti?” (Marco 4.38). In entrambi gli episodi tutto ciò che avrebbe dovuto fare Gesù era stato fatto: nel caso delle due sorelle c’erano state le sue parole, “questa malattia non porterà alla morte”, che avrebbero dovuto essere sufficienti, in quello dei discepoli sulla barca c’era la Sua presenza e il Suo stesso sonno, sinonimo di tranquillità assoluta e antitesi di qualunque timore.

Da tutto questo possiamo dedurre che ogni qualvolta veniamo assaliti dal timore di non poter uscire da una situazione che tutti umanamente giudicherebbero insuperabile – come la morte e una tempesta in cui la barca affonda soffocata dalle onde –, ciò è dovuto alla carne che domina esattamente come agisce su tutti gli altri esseri umani che non sanno, né possono, né appartengono, né hanno a che fare con gli interventi diretti di Dio. Qualunque avvenimento umanamente doloroso e angosciante può venire superato con l’abbandonarsi al Padre non perché abbiamo bisogno di un rifugio o di un amico immaginario, di un dio da noi creato come spesso avviene, ma proprio perché consapevoli che per ogni credente esiste un progetto, una protezione diretta che, se passa per la morte, in realtà non lo è perché la prospettiva è quella della vita eterna, l’opposto della “morte seconda” alla quale non esisterà rimedio alcuno.

Nel caso di Lazzaro, leggiamo che appunto dopo i due giorni è Gesù a dire ai suoi “Andiamo in Giudea” (regione in cui si trovava Betania) nel senso che è solo a Lui che spetta, quale Signore di tutte le cose, il momento di operare, intervenire a favore dell’uomo qualunque sia la situazione in cui versa.

Dopo la frase dei discepoli che vollero far notare al loro Maestro l’inopportunità della cosa, “I Giudei poco fa cercavano di lapidarti e tu ci vai di nuovo?” e la relativa spiegazione, cioè dopo aver risposto che nulla poteva accadergli di negativo fino a quando non sarebbe giunta la sua ora, abbiamo un’altra espressione che dovrebbe dirci molto, ma che così non fu per i discepoli: “Lazzaro, il nostro amico, si è addormentato, ma io vado a svegliarlo”. Questo ci riconduce a un’altra espressione che Gesù uso con i presenti alla morte della figlia di Giàiro, “La fanciulla non è morta, ma dorme” (Matteo 9.24). A quell’affermazione leggiamo che “la gente lo derideva”, qui invece abbiamo, dimentichi di quelle parole, le parole dei discepoli, “Signore, se si è addormentato, si salverà”, incapaci di capirne il senso. In entrambi i passi, poi, c’è a dominare su tutto quel “ma” di Gesù, il solo in grado di cambiare la storia e le strade di una persona, o di un popolo, o del mondo intero.

“Io vado a svegliarlo”: solo Lui, che aveva “le chiavi della morte e degli inferi” (Apocalisse 1.18) lo poteva fare e infatti leggiamo “Lazzaro è morto e io sono contento per voi di non essere stato là, affinché voi crediate; ma andiamo da lui” (v.15). Perché “contento per voi”? Perché i discepoli erano già stati testimoni di altre due eventi analoghi di persone morte da poco, per cui se si fosse trovato a Betania alla morte di Lazzaro quella resurrezione avrebbe potuto venire interpretata soltanto come la terza del Suo Ministero. Oppure, sempre se fosse stato là, lo avrebbe potuto guarire come fece con la suocera di Pietro. Resuscitando invece un cadavere a quattro giorni dal decesso, quando gli effetti della decomposizione iniziavano a farsi sentire con l’odore, avrebbe realmente potuto dimostrare che “nulla è impossibile a Dio”.

Le parole “affinché voi crediate” indicano non il fatto che i discepoli vedendo quel miracolo avrebbero creduto in Lui – lo avevano già fatto – ma proprio capissero che fosse il Signore nel senso più ampio del termine, in grado di chiamare un’anima dalla morte e risuscitare il corpo che la conteneva. Amen.

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15.21 – GLI OPERAI DELLA VIGNA (Matteo 20.1-6)

15.21 – Gli operai della vigna (Matteo 20.1-16)

 

 1 Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. 2Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. 3Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, 4e disse loro: «Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò». 5Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno, e verso le tre, e fece altrettanto. 6Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano lì e disse loro: «Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?». 7Gli risposero: «Perché nessuno ci ha presi a giornata». Ed egli disse loro: «Andate anche voi nella vigna».
8Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: «Chiama i lavoratori e da’ loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi». 9Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. 10Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero ciascuno un denaro. 11Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone 12dicendo: «Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo». 13Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: «Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? 14Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: 15non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?». 16Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi».

 

Riferita dal solo Matteo, è una delle parabole a mio giudizio più complesse esposte da Gesù e suscettibile, ad una generica lettura, di fraintendimenti destinati a provocare domande che restano irrisolte.

Prima di addentrarci nel racconto, va detto che la nostra versione, per come inizia, lascia supporre che l’esposizione della parabola sia avvenuta per un insegnamento isolato, difficilmente collocabile nel tempo, ma questo accade perché qui è stato omesso di tradurre l’avverbio greco “gar”, “poiché, infatti”, col quale si apre il verso 1. Dobbiamo quindi collegare la vicenda degli operai della vigna alla domanda che Pietro aveva rivolto a Gesù poco prima: “Ecco, noi abbiamo abbandonato ogni cosa e ti abbiamo seguito: cosa ne avremo?”. Questa parabola allora non solo rientra  nell’insegnamento sulle conseguenze del “lasciare ogni cosa”, ma lo estende, lo amplifica inquadrandolo nell’ottica dei tempi che si sarebbero succeduti e la destina a tutti coloro che avrebbero creduto, come possiamo già intravedere dal fatto che il “padrone di casa” esce cinque volte nel corso della giornata: all’alba, alle nove, a mezzogiorno, alle tre del pomeriggio e alle cinque.

 

Se nell’identificare il “padrone di casa” non esistono problemi, credo sia necessario spendere un po’ del nostro tempo per indagare attorno alla “vigna”, che si riferisce chiaramente a un territorio, o per meglio dire a un ambiente di proprietà di Dio e sul quale ha dei progetti. Per capire la vigna occorre tener presente le numerose parabole su di essa, come quella dei contadini omicidi e del fico sterile, piantato appunto nella vigna del padrone che parlò al suo fattore perché lo tagliasse. Proprio in quest’ultima è interessante sottolineare l’inizio, “C’era un uomo che possedeva un terreno e vi piantò una vigna” (Matteo 21.33), che ci rivela quanto fosse coinvolta quella persona che, invece di vendere il suo terreno e non occuparsi più di nulla, decise di lavorarlo e piantare una coltivazione che richiede molta professionalità e attenzione come non avviene per un generico campo di frumento.

Invece quel padrone, tramite collaboratori, desidera che da terra anonima quell’appezzamento diventi qualcosa di particolare e ne personalizza l’aspetto rendendola autosufficiente per la produzione del vino: “la circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre” (v.33,34). Ecco il progetto: una siepe per proteggerla da eventuali animali, una buca per il torchio per estrarre il succo dagli acini e produrre vino, una torre per vigilare su di essa, segno che quel territorio doveva essere davvero vasto.

La “vigna” è composta da un numero indefinito di piante ed in essa si individua il popolo di Dio secondo Salmo 80.8-16 Dio degli eserciti, fa’ che ritorniamo, fa’ splendere il tuo volto e noi saremo salvi. Hai sradicato una vite dall’Egitto, hai scacciato le genti e l’hai trapiantata. Le hai preparato il terreno, hai affondato le sue radici ed essa ha riempito la terra. La sua ombra copriva le montagne e i suoi rami i cedri più alti. Ha esteso i suoi tralci fino al mare, arrivavano al fiume i suoi germogli. Perché hai aperto brecce nella sua cinta e ne fa vendemmia ogni passante? La devasta il cinghiale del bosco e vi pascolano le bestie della campagna. Dio degli eserciti, ritorna! Guarda dal cielo e vedi e visita questa vigna, proteggi quello che la tua destra ha piantato, il figlio dell’uomo che per te hai reso forte”. Possiamo vedere da questi versi lo sviluppo e la testimonianza del Popolo di Dio che, a un certo punto, fallisce e viene punito per la sua inerzia e infedeltà.

Altro passo interessante che integra il precedente lo troviamo in Isaia 51.1-7 in cui vengono contrapposte le intenzioni migliori del costruttore e il risultato assolutamente anomalo delle piante: “Il mio diletto possedeva una vigna sopra un fertile colle. Egli l’aveva dissodata e sgombrata dai sassi e vi aveva piantato viti pregiate; in mezzo vi aveva costruito una torre e scavato anche un tino – si notino le affinità con la parabola sopra ricordata –. Egli aspettò che producesse uva; essa produsse, invece, acini acerbi. E ora, abitanti di Gerusalemme e uomini di Giuda, siate voi giudici fra me e la mia vigna. Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna che io non abbia fatto? Perché, mentre attendevo che producesse uva, essa ha prodotto acini acerbi? Ora voglio farvi conoscere ciò che sto per fare alla mia vigna: toglierò la sua siepe e si trasformerà in pascolo; demolirò il suo muro di cinta e verrà calpestata. La renderò un deserto, non sarà potata né vangata e vi cresceranno rovi e pruni; alle nubi comanderò di non mandarvi la pioggia. Ebbene, la vigna del Signore degli eserciti è la casa d’Israele; gli abitanti di Giuda sono la sua piantagione preferita. Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi”.

Questo aspetto viene poi ripreso da Geremia 2.21, “Io ti avevo piantato come vigna pregiata, tutta di vitigni genuini; come mai ti sei mutata in tralci degeneri di vigna bastarda? Anche se tu ti lavassi con soda e molta potassa, resterebbe davanti a me la macchia della tua iniquità. Oracolo del Signore”.

 

La vigna allora, figura del Popolo di Dio, ha un suo significato storico ed uno attuale, è anche quel “campo” in cui “un nemico” ha seminato la zizzania, è un sistema molto più complesso che è stato descritto da Gesù in Giovanni 15.1-8 Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli”.

Altro elemento che indica il territorio di Dio è il “campo”, quando Gesù disse, spiegando la parabola delle zizzanie, “il campo è il mondo e il seme buono sono i figli del Regno. La zizzania sono i figli del Maligno” (Mt 13.38): una zona enormemente vasta in cui l’Avversario ha potuto seminare grazie alla disubbidienza di Adamo che lo ha messo in condizione di operare quando, al contrario, doveva operare in un ambito diverso ed essere collaboratore dell’Eterno.

Non è possibile classificare univocamente la vigna, nel senso che comporta più atteggiamenti tanto di Dio e di Gesù quanto dell’uomo che vi lavora, operaio e tralcio al tempo stesso e si possa fare attorno a lei un’ultima annotazione: in Matteo 9. 37,39 Gesù, vedendo le folle, “ne sentì compassione perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore. Allora disse ai suoi discepoli: «La messe è grande, ma pochi sono gli operai! Pregate dunque il Signore della messe, perché mandi operai nella sua messe»” (Matteo 9.37,38; Luca 10.2); qui vediamo un campo sterminato pronto – in prospettiva – per essere colto, in cui è necessario che ci siano uomini in grado di lavorare e mettere al sicuro ogni piantina. E da questi versi vediamo quando sia facile generalizzare e confondere la terminologia: c’è un “campo” che è il “mondo”, c’è un “granaio”, c’è la “zizzania” che verrà raccolta e bruciata (non da noi), c’è una “vigna” che ha bisogno di “operai”, c’è una “vite” che ha dei “tralci” e ciascuno di questi elementi è in stretto rapporto comunque con gli altri; credo che, nel caso della parabola che stiamo per esaminare, la “vigna” in cui gli operai vengono mandati a lavorare sia un territorio che simboleggia l’opera di Dio attraverso i secoli che si concreta attraverso il cammino del Suo Popolo, sempre Chiesa nel senso di “chiamati fuori” a prescindere dall’epoca in cui ha operato. Non a caso Giovanni Diodati, commentando l’Antico Testamento, parla di “Chiesa” anche riguardo a Israele.

 

Tornando al nostro testo, la prima uscita del padrone è all’alba, quando ai tempi di Gesù e ancora per molto tempo dopo i lavoratori a giornata si riunivano coi loro attrezzi sulla piazza del mercato e attendevano chi li chiamasse. È molto indicativo il fatto che è il padrone stesso a svegliarsi, alzarsi e uscire di casa, chiamando personalmente ciascun lavoratore stabilendo il prezzo, cioè un denaro che era la paga giornaliera ordinaria di un operaio. Avrebbe potuto delegare questo compito a un servitore che certamente aveva, ma volle interessarsi personalmente della vigna quasi fosse un prolungamento di se stesso, una parte di lui.

Appare chiaro che la “vigna” allude a qualcosa di grande, importante a tal punto da richiedere manodopera aggiuntiva per cinque volte: prima all’alba, poi alle nove del mattino (l’ora terza), a mezzogiorno, alle tre del pomeriggio (l’ora sesta e la nona) e infine verso le cinque (l’ora undicesima), quando mancava poco al finire del giorno e nonostante tutto l’opera di quegli uomini era ancora necessaria.

Mi sono chiesto cosa simboleggiassero queste differenti ore e i relativi lavoratori: si tratta del Popolo di Dio in cammino? Gli operai che vengono chiamati all’alba, sono coloro che operarono sotto la Legge e gli ultimi nella “Grande Tribolazione”, oppure si tratta di persone che si convertono chi in età giovane, chi quando la vita è in gran parte trascorsa? Propenderei per la seconda ipotesi perché nella parabola c’è questa successione temporale e sono proprio quelli delle cinque pomeridiane cui viene detto “Perché ve ne state qua tutto il giorno senza far niente?”, domanda che si collega ad un invito ben più importante che leggiamo in Isaia 55.2,3 “Perché spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro guadagno per ciò che non sazia? Su, ascoltatemi e mangerete cose buone e gusterete cibi succulenti. Porgete l’orecchio e venite a me, ascoltate e vivrete”.

L’invito ai lavoratori dell’ultimo tempo credo sia da leggersi in questo modo, così come tutte le persone chiamate a lavorare sono da inquadrarsi sotto l’ottica dell’apostolo Paolo in 1 Corinti 3.9 quando scrive “Siamo infatti collaboratori di Dio, e voi siete campo di Dio, edificio di Dio”, arrivando a Colossesi 3.23,24 che ci anticipa il senso della parabola relativo al denaro ricevuto da quei lavoratori: “Qualunque cosa facciate, fatela di buon animo, come per il Signore e non per gli uomini, sapendo che dal Signore riceverete come ricompensa l’eredità”.

L’eredità è proprio la ricompensa che è simboleggiata dal “denaro” col quale il padrone della vigna si era accordato coi lavoratori all’alba e che viene dato anche agli ultimi, quelli del tardo pomeriggio che avevano faticato molto meno, un’ora o poco più stante il fatto che la paga viene data al tramonto: i lavoratori dell’alba non si sentono defraudati di qualche cosa perché il denaro convenuto era stato loro dato, ma perché non ritenevano giusta la proporzione fra il loro lavoro e quello degli ultimi chiamati; in altre parole, sono la figura di quei credenti che dimenticano di confrontarsi con Dio e guardano i loro simili, come vivono, vanno a sindacare ciò che hanno ricevuto da Dio e si lasciano sopraffare da sentimenti di invidia e restano scontenti.

Gesù, con questa parabola, non intende screditare l’operato dei primi, ma con le parole “Prendi il tuo e vattene” intende ribadire che, in quanto padrone, così è il suo deciso e che non poteva essergli nulla rilevato perché i patti erano stati rispettati: “un denaro” per quelli chiamati all’alba, “ciò che è conveniente” per quelli delle nove, di mezzogiorno e delle tre, addirittura non si era parlato di compenso per quelli delle cinque.

Possiamo fare una connessione con Romani 9.15-23: Che diremo dunque? C’è forse ingiustizia da parte di Dio? No, certamente! Egli infatti dice a Mosè: Avrò misericordia per chi vorrò averla, e farò grazia a chi vorrò farla. Quindi non dipende dalla volontà né dagli sforzi dell’uomo, ma da Dio che ha misericordia. (…) O uomo, chi sei tu, per contestare Dio? Oserà forse dire il vaso plasmato a colui che lo plasmò: «Perché mi hai fatto così?». Forse il vasaio non è padrone dell’argilla, per fare con la medesima pasta un vaso per uso nobile e uno per uso volgare? Anche Dio, volendo manifestare la sua ira e far conoscere la sua potenza, ha sopportato con grande magnanimità gente meritevole di collera, pronta per la perdizione. E questo, per far conoscere la ricchezza della sua gloria verso gente meritevole di misericordia, da lui predisposta alla gloria, cioè verso di noi, che egli ha chiamato non solo tra i Giudei ma anche tra i pagani.

Questo ci porta a considerare un fatto importante e cioè che il mormorio prodotto, “Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo”, contengono tutto il metodo valutativo umano in senso egoistico descritto con la contrapposizione dei termini “invidioso” e “buono” delle parole del padrone della vigna. In altri termini i “mormoratori” non avrebbero avuto nulla da ridire sulla paga di un denaro per un giorno di lavoro, ma criticano l’operato del padrone senza motivo visto che, del suo, poteva fare quello che voleva, anche dare la stessa paga a chi aveva “lavorato solo un’ora”.

Da qui deriva la risposta “Prendi ciò che è tuo e vattene”: chi aveva ragionato in quel modo era bene che prendesse la sua ricompensa e non dicesse più nulla, tenendosi il compenso per la fatica che certamente aveva impiegato nel lavorare tutto il giorno, ma sarebbe stato un “ultimo” nel senso che la valutazione espressa sugli altri lavoratori aveva fatto sì che avesse perso parte della considerazione in cui lo avrebbe tenuto il proprietario della vigna.

Quindi: ogni operaio prende il proprio premio, lo stesso, indipendentemente da quanto ha lavorato in termini di quantità oraria che non ha nulla a che vedere con quello che verrà dato in seguito, “in base a quanto ognuno avrà operato”, per cui l’essere “primo” o “ultimo” è qualcosa che compete solo a Dio, sorpassando ogni valutazione o presunzione umana.

“Prendi ciò che è tuo e vattene” può suonare anche come una sentenza e in un certo senso lo è perché, pur non andando ad intaccare la retribuzione in cui possiamo vedere la salvezza, comporta l’assegnazione della stanza in quella “casa” dove ve ne sono molte e vi sarà chi avrà posti prestigiosi, i “primi”, e chi invece dovrà occupare “gli ultimi”.

Si può concludere con le parole di Giuseppe Ricciotti che scrive “L’insegnamento generico di questa parabola è che la liberalità di Dio si riversa su chi vuole e nella misura che ne vuole e che la ricompensa finale dei seguaci di Gesù sarà nella sua parte essenziale eguale per tutti. (…) I braccianti della vigna si riferiscono a quei discepoli che in vista del regno dei cieli si ritenevano per qualsiasi ragione più adorni di meriti che altri, specialmente quei Giudei di spirito onesto ma di mentalità strettamente giudaica che si ritenevano più accetti a Dio per la loro appartenenza alla nazione eletta. Per costoro i pubblicani, le meretrici e anche i pagani, potevano essere ammessi nel regno dei cieli quando si fossero convertiti, tuttavia in quel regno sarebbero stati di gran lunga dietro ai fedeli e genuini israeliti, pieni di millenari meriti al cospetto di Dio. Gesù invece insegna che siffatti primati scompariranno e che la liberalità del Re dei cieli potrà far passare gli ultimi ai primi posti, cosicché coloro che già erano primi diventeranno ultimi”. Amen.

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15.20 – RICEVERE (Marco 10.28-31)

15.20 – Ricevere (Marco 10.28-31)

 

 28Pietro allora prese a dirgli: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito». 29Gesù gli rispose: «In verità io vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, 30che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà. 31Molti dei primi saranno ultimi e gli ultimi saranno primi».

 

Nel riflettere sul discorso successivo all’uscita di scena del ricco che aveva interpellato Gesù a proposito di cosa avrebbe dovuto fare per avere la vita eterna, torniamo al testo di Marco perché aggiunge, rispetto a Matteo, un particolare importante: come avremo notato manca della parte relativa ai dodici sul giudicare le dodici tribù di Israele e parla di una retribuzione, per chi avrebbe abbandonato i propri averi, “già ora, in questo tempo, cento volte tanto” (v.30), mentre Luca scrive “…che non riceva molto di più nel tempo presente e nel tempo che verrà” (18.30).

La riposta di Gesù a Pietro inizia con “In verità io vi dico”, quindi con il proprio Amen, con tutta la solidità di quanto affermerà subito dopo. Non vi è alcun rimprovero all’apostolo perché la sua domanda è impertinente, anzi la ritenne di grande importanza perché gli dà l’occasione di stabilire un concetto fondamentale: chi avrà lasciato i propri beni, del mondo o affettivi, “per causa mia e per causa del Vangelo”, avrebbe ricevuto “già ora, in questo tempo, cento volte tanto (…) insieme a persecuzioni”.

Ora, presa letteralmente questa affermazione, potrebbe lasciare supporre che il discepolo di Cristo veda moltiplicare già in questa vita ciò che ha lasciato, quindi il suo guadagno sia materialmente tangibile: chi abbandona una casa, ne avrà cento e così via.

La chiave per interpretare correttamente ciò che vuol dire Nostro Signore sta però nel numero 100 che indica piena soddisfazione, il punto in cui si uniscono le aspettative dell’uomo e di Dio. Da qui ne deriva che, chi avrà abbandonato ciò che ha per Gesù ed il Vangelo, avrà molto di più nel senso che troverà il suo premio nella sazietà e nell’abbondanza spirituale “già da ora, in questo tempo” che si concreterà nel non rimpiangere le cose lasciate e si troverà nella condizione di essere pienamente soddisfatto a prescindere.

Non si possono categorizzare le ricompense di Dio nel senso che le sue benedizioni sono diverse e ancora una volta guidate dallo Spirito: guardando alla dispensazione della Legge, cui certamente Gesù volse lo sguardo nel citare la nostra frase, ricordiamo Giobbe quando fu ristabilito: “Il Signore benedisse il futuro di Giobbe più del suo passato. Così possedette quattordicimila pecore e seimila cammelli, mille paia di buoi e mille asine. Ebbe anche sette figli e tre figlie. Alla prima mise nome Colomba, alla seconda Cassia e alla terza Argentea. In tutta la terra non si trovarono donne così belle come le figlie di Giobbe e il loro padre le mise a parte dell’eredità insieme con i loro fratelli”.

Ancora, in Proverbi 3.9,10 e 15.18, abbiamo “Onora il Signore con i tuoi averi e con le primizie di tutti i tuoi raccolti; i tuoi granai si riempiranno oltre misura e i tuoi tini traboccheranno di mosto. (…) La sapienza è più preziosa di ogni perla e quanto puoi desiderare non l’eguaglia. Lunghi giorni sono nella sua destra e nella sua sinistra ricchezza e onore; le sue vie sono vie deliziose e tutti i suoi sentieri conducono al benessere. È un albero di vita per chi l’afferra, e chi ad essa si stringe è beato”.

            Ora, essendo come sappiamo la Legge “un pedagogo che guida verso Cristo” (Galati 3.22), ecco che i “cento” elementi promessi vengono convogliati in uno stato di soddisfazione e quiete che nemmeno le persecuzioni possono scalfiggere e qui entriamo in un campo estremamente particolare perché quel “persecuzioni” della frase in esame sta a significare che, per lo Spirito, la pace con Dio e la Sua approvazione provocano un atteggiamento del tutto nuovo: ricordiamo Mosè che, divenuto adulto, rifiutò di essere chiamato figlio della figlia del faraone, preferendo essere maltrattato con il popolo di Dio piuttosto che godere momentaneamente del peccato. Egli stimava ricchezza maggiore dei tesori d’Egitto l’essere disprezzato per Cristo; aveva infatti lo sguardo fisso sulla ricompensa” (Ebrei 11.24-26). Quest’uomo abbandonò la sua agiata, potremmo dire splendida vita di corte, per farsi carico di un’esistenza profondamente diversa, opposta, ma avendo “lo sguardo fisso sulla ricompensa” non esitò a vivere come sappiamo, un servizio incessante e faticoso sentendone il peso in minima parte, senza tornare indietro.

Riguardo alle persecuzioni, senza citare quelle a cui sono sottoposti i cristiani anche nel tempo presente, guardiamo a quelle subite dall’apostolo Paolo che elenca le sue traversie in 2 Corinti 11. 24-27: “Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i quaranta colpi meno uno; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balìa delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; disagi e fatiche, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità”.

Pietro e gli altri apostoli, del resto, quando furono arrestati e flagellati dai Giudei, leggiamo che … se ne andarono via dal sinedrio, lieti di essere stati giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù. E ogni giorno, nel tempio e nelle case, non cessavano di insegnare e di annunciare che Gesù è il Cristo” (Atti 5.41). Da notare che Luca, autore di questo commento, omette di citare la sofferenza che gli apostoli avranno indubbiamente provato per la flagellazione, non descrive il loro umanamente pietoso ritorno a casa né le cure di cui saranno stati certamente bisognosi, ma focalizza tutto sullo stato d’animo: paradossalmente, il dolore fisico fu sopportato dall’essere stati giudicati “degni di subire oltraggi per il nome di Gesù”. La sofferenza si tramutò allora in gioia. Del resto leggiamo “…ci vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato”. (Romani 5.3-5).

Credo che in questi scritti ci troviamo di fronte a un concetto di dolore totalmente diverso, rivoluzionario rispetto a quello comunemente sentito perché non leggiamo di personaggi che affrontano stoicamente un destino e neppure all’imperturbabilità di un Budda, ma a una condizione precisa in cui lo Spirito è naturalmente dominante sulla carne e, avendone il sopravvento, non porta più l’uomo naturale a comportarsi nelle sue reazioni guardando costantemente per terra e a se stesso. La sua esistenza materiale non è più qualcosa di prioritario, da tenere a mente fra gli obiettivi primari, qualcosa da difendere gelosamente con ogni mezzo perché lo Spirito porta la mente, da lui dipendente, ad un livello differente; ecco perché, quando a Lui si sostituisce quello umano, i risultati sono disastrosi.

Consideriamo la morte, che per l’essere umano che conosciamo rappresenta la fine di tutto. In 2 Timoteo 4.6-8, 18 leggiamo qualcosa di totalmente diverso quando l’apostolo Paolo sa che sta per concludere la propria esistenza e scrive “Io infatti sto già per essere versato in offerta ed è giunto il momento che io lasci questa vita. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione. (…) Il Signore mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli, nel suo regno; a lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen”.

Giunti a questo punto resta da considerare la frase, divenuta poi una sorta di proverbio, “Molti dei primi saranno ultimi e molti ultimi, primi”: può essere un riferimento a quella persona che gli si era gettata ai piedi chiedendo lumi per avere la vita eterna? Indubbiamente, per la società in cui viveva, quell’uomo era un “primo” che però, per la sua ostinazione e incapacità di andare oltre se stesso, si sarebbe ritrovato ultimo.

Il tema è però molto più complesso e riguarda prima di tutto lo stravolgimento del concetto che vedeva Israele come popolo di Dio per eccellenza, ora non più – pur mantenendo l’elezione secondo Romani 11.28-32 – ed “il regno è stato dato ad altri”, perché lo avrebbero “fatto fruttificare” (Matteo 21.43). A commento dell’episodio del servo del centurione, Gesù disse che molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli, mentre i figli del regno saranno cacciati fuori, nelle tenebre, dove sarà pianto e stridore di denti” (8.11-13).

Ricordando poi un altro passo già meditato, Luca riporta “Io vi dico: fra i nati da donna non vi è alcuno più grande di Giovanni, ma il più piccolo nel regno di Dio è più grande di lui.  Tutto il popolo che lo ascoltava, e anche i pubblicani, ricevendo il battesimo di Giovanni, hanno riconosciuto che Dio è giusto. Ma i farisei e i dottori della Legge, non facendosi battezzare da lui, hanno reso vano il disegno di Dio su di loro” (7.28-30).

Lo stravolgimento delle aspettative primi-ultimi e viceversa sarà qualcosa che stravolgerà tutti quelli che lo constateranno, compresi quelli che vedono Israele condannato a prescindere: Non voglio infatti che ignoriate, fratelli, questo mistero, perché non siate presuntuosi: l’ostinazione di una parte d’Israele è in atto fino a quando non saranno entrate tutte quante le genti. Allora tutto Israele sarà salvato, come sta scritto: Da Sion uscirà il liberatore, egli toglierà l’empietà da Giacobbe. Sarà questa la mia alleanza con loro quando distruggerò i loro peccati. Quanto al Vangelo, essi sono nemici, per vostro vantaggio; ma quanto alla scelta di Dio, essi sono amati, a causa dei padri, infatti i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili! 30Come voi un tempo siete stati disobbedienti a Dio e ora avete ottenuto misericordia a motivo della loro disobbedienza, così anch’essi ora sono diventati disobbedienti a motivo della misericordia da voi ricevuta, perché anch’essi ottengano misericordia. Dio infatti ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per essere misericordioso verso tutti!” (Romani 11.12-25).

Il concetto ultimi-primi, riguarda dunque per prima cosa questo rapporto sostitutivo in cui i pagani, i quali non cercavano la giustizia, hanno raggiunto la giustizia, la giustizia però che deriva dalla fede; mentre Israele, il quale cercava una Legge che gli desse la giustizia, non raggiunse lo scopo della Legge. E perché mai? Perché agiva non mediante la fede, ma mediante le opere. Hanno urtato contro la pietra d’inciampo” (Romani 9.30.32).

In second’ordine, sempre riguardo gli “ultimi” e i “primi”, non può non esservi un accenno alla Chiesa, corrottasi nel corso dei secoli ma che ha visto sempre la presenza di un “rimanente fedele”, non considerato dagli uomini, che ha custodito e praticato le parole di Cristo.

Concludendo, tutto si riassume nel commento di Gesù a commento della parabola del fariseo e del pubblicano recentemente esaminata: “Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta – da se stesso – sarà umiliato, chi invece si umilia – da se stesso –, sarà abbassato” (Luca 18.14). Si tratta allora di un processo interiore, che emergerà quando tutti, volenti o nolenti, compariranno al tribunale di Cristo. Amen.

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15.19 – LASCIARE E SEGUIRE (Matteo 19.27-30)

15.19 – Lasciare e seguire (Matteo 19.27-30)

 

 27Allora Pietro gli rispose: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa dunque ne avremo?». 28E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: voi che mi avete seguito, quando il Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, alla rigenerazione del mondo, siederete anche voi su dodici troni a giudicare le dodici tribù d’Israele. 29Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna. 30Molti dei primi saranno ultimi e molti degli ultimi saranno primi.

 

Il discorso di Gesù sulle ricchezze da abbandonare si completa con le parole provocate da una domanda di Pietro, quello che più di tutti gli altri undici è sempre pronto a farsi domande e soprattutto a porle. Il confronto fra le versioni dei sinottici, poi, ci consentirà di effettuare delle interessanti applicazioni ed estensioni. L’Apostolo, tornando alle sue parole in questo episodio, non esprime dei dubbi sulle parole del Maestro, ma, consapevole di averlo seguito fin dall’inizio del Suo Ministero, (Marco 1.16), gli chiede “Ecco, noi abbiamo lasciati tutto e ti abbiamo seguito: che cosa ne avremo?”. La sua non è una domanda mossa da interesse “venale”, ma dettata da quel “tesoro nel cielo” che avrebbe avuto il ricco se avesse lasciato i suoi beni. In realtà anche le parole “questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile”, più che essergli oscure, non sapeva come connetterle a quanto era appena accaduto: quel ricco era andato via da poco, era appena stato detto che persone della sua categoria sarebbero entrate nel regno dei cieli con enorme difficoltà, ma l’apostolo aveva ben presente che lui e i suoi compagni da ormai circa tre anni avevano scelto di vivere diversamente e, quindi, “Che dunque ne avremo?” è la domanda che scaturisce dall’incapacità di trovare da solo una risposta. Anche noi dovremmo fare la stessa cosa, cioè chiedere a Nostro Signore, attraverso il suo Santo Spirito, di illuminarci quando non capiamo, di aiutare la nostra intelligenza spirituale impossibile a gestire con le nostre forze o possibilità umane.

A questo punto, armonizzando i testi, la risposta di Gesù è doppia nel senso che riguarda da un lato i dodici, dall’altro gli altri discepoli, compresi quelli che verranno dopo di loro. I primi avranno un posto elevatissimo “alla rigenerazione del mondo”, termine che il tutto il Nuovo Testamento si trova solo anche in Tito 3.5: “Egli ci ha salvati non per opere giuste da noi compiute, ma per la sua misericordia, con un’acqua che rigenera e rinnova nello Spirito santo”, chiaro riferimento alla nuova nascita, a quell’essere “nati di acqua e di spirito” che costituisce l’unica condizione per entrare nel regno di Dio (Giovanni 3.5).

Ecco allora che con “rigenerazione del mondo” Gesù parla non di quello che conosciamo, ma di una trasformazione che inizierà col Millennio, quando Satana sarà “legato” e si concluderà con la realizzazione di Apocalisse 21.1-5: E vidi un cielo nuovo e una terra nuova: il cielo e la terra di prima infatti erano scomparsi e il mare non c’era più. E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii allora una voce potente, che veniva dal trono e diceva: «Ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio. E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate»”.

Altro dettaglio Gesù lo dà con le parole “Quando il Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono della sua gloria”, cioè quando sarà visibile a tutti come tale, non nella Gloria di Dio Padre nella quale è ora e fu visto dai profeti. L’oggi, in cui si nega l’esistenza di Gesù anche solo come personaggio storico, è l’illusione, la finzione, la fede nelle proprie possibilità e nient’altro, ma in quanto “oggi” è destinato inevitabilmente a finire: Quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita? O che cosa un uomo potrà dare in cambio della propria vita? Perché il Figlio dell’uomo sta per venire nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e allora renderà a ciascuno secondo le sue azioni” (Matteo 16,27).

Ancora Matteo (25.31,33) chiarisce ulteriormente il concetto: “Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra”.

Ebbene, nel nostro passo Gesù dà un’importante notizia ai suoi che ribadirà poi più avanti con le parole “Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove e io preparo per voi un regno, come il Padre mio l’ha preparato per me, perché mangiate e beviate alla mia mensa nel mio regno. E siederete in trono a giudicare le dodici tribù d’Israele” quando, in 1 Corinti 6.2,3 l’apostolo Paolo sostiene “Non sapete che i santi giudicheranno il mondo? E se siete voi a giudicare il mondo, siete forse indegni di giudizi di minore importanza? Non sapete che giudicheremo gli angeli? – quelli che hanno seguito Lucifero – Quanto più le cose di questa vita!”.

Abbiamo quindi due compiti: gli apostoli, ebrei, che perseverarono con lui nelle sue prove, giudicheranno “le dodici tribù d’Israele” proprio in quanto appartenenti allo stesso popolo, gli altri, i credenti, i santi, “giudicheranno il mondo” perché si saranno da lui separati e non avranno voluto condividere i suoi metodi, ideali, morale.

 

Dopo il messaggio specifico, individuale diretto ai dodici – ricordiamo che Giuda verrà sostituito da Mattia, (Atti 1.26) –, abbiamo quello diretto a “chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome”. All’elenco Luca aggiunge la moglie. Sul significato del verbo “lasciare” sono state spese molte parole, ma qui credo che vada inserito un aggiornamento, fermo restando che il senso, come per le ricchezze, è che tutto quanto elencato non deve diventare un pensiero dominante a tal punto da oscurare il servizio e, se così accade, va abbandonato. Ad esempio Pietro, che certamente lasciò ciò che aveva, portò con sé la moglie nel suo ministero, come sappiamo da Paolo che scrive “Non abbiamo noi – plurale che interessa gli apostoli – il diritto di portare con noi una donna credente, come fanno anche gli altri apostoli e i fratelli del Signore e Cefa?” (1 Corinti 9.5).

Lasciare “per il mio nome” significa, fatti gli stessi calcoli per la costruzione della torre recentemente citata a proposito dello studio sul matrimonio, porsi nelle condizioni di abbandonarsi a Lui in quanto realmente chiamati a svolgere un compito per cui il doversi occupare di “case, fratelli, sorelle, padre, madre, figli o campi” risulterebbe di intralcio. Questo naturalmente esclude i doveri di assistenza perché un “lasciare” a senso unico, perché colti da misticismo o da un senso religioso facili si ritorcerebbero contro colui che così agisce: infatti 1 Timoteo 5.8 riporta “Se poi qualcuno non si prende cura dei suoi cari, soprattutto quelli della sua famiglia, costui ha rinnegato la fede ed è peggiore di un infedele”. Ecco perché chi “lascia” senza una chiamata ben precisa di Dio si assume un’enorme responsabilità coi quali si ritroverà presto o tardi a fare i conti.

Appare chiaro allora che tutto deve venire svolto sotto l’insegna dell’equilibrio e che non si può all’improvviso abbandonare non tanto gli averi materiali, ma le persone a noi vicine a meno che, come detto e vedremo, non costituiscano un vincolo che impedisce il servizio cristiano se c’è una chiamata in proposito. Anche qui, sbaglieremmo a cercare grandi cose, grandi strade, compiti: tutto parte dall’obiettività, come ad esempio scrisse Paolo parlando della sua condizione di fariseo, di appartenente alla tribù di Beniamino e di scrupoloso osservante la Legge di Mosè: “Queste cose, che per me erano guadagni – ecco un’altra forma di ricchezza –, io le ho considerate una perdita a morivo di Cristo. (…) Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo” (Filippesi 3.7,8). Quello fu il punto di partenza dell’apostolo; pensiamo che abbandonò la grande considerazione che godeva fra i Giudei. Poi vennero le rinunce a tutto il resto, i viaggi, le persecuzioni e le liberazioni di Dio.

“Lasciare”, se è un’azione che viene svolta correttamente, è un atto di profonda maturità e fede che, come nel caso di Abramo, il primo che mise in pratica questo verbo dietro espressa chiamata di Dio, non può che portare a benedizioni: “Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò. Farò di te una grande nazione e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e possa tu essere una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò, e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra” (Genesi 12.1-3).

Sempre parlando di Antico Patto ricordiamo la figura dei leviti, cui era demandato il servizio di cantare, suonare e assistere i sacerdoti oltre al trasporto dell’Arca dell’Alleanza: di Levi, loro capostipite, Mosè dice “…lui che dice del padre e della madre: «Non li ho visti», che non riconosce i suoi fratelli e ignora i suoi figli (…), benedici, Signore, il suo valore e gradisci il lavoro delle sue mani” (Deuteronomio 33.7-10). E se volessimo domandarci cosa significa tutto questo per noi oggi possiamo rifarci al fatto che, semplicemente, non siamo più del mondo e quindi ci troviamo in una condizione in cui il suo abbandono è l’unica scelta possibile: “Se il mondo vi odia, sappiate che prima ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma vi ho scelti io dal mondo, per questo lui vi odia” (Giovanni 15.18,19). Partendo da questo principio, ogni cosa viene da sé.

Credo che non esista credente che non abbia abbandonato qualcosa e dobbiamo tenere sempre presente che ogni discorso di Gesù porta sempre con sé affermazioni che vanno interpretate alla condizione della persona e alla realtà in cui si trova e al fatto che, come già riportato altrove, dobbiamo “accomodarci alle cose basse”, al “poco” perché ci venga affidato il “molto”, altrimenti saremmo come quelli che, anziché procurarsi uno sviluppo muscolare armonico con allenamento e fatica, si gonfiano di anabolizzanti ottenendo risultati molto discutibili. La stessa cosa si verifica in ambito spirituale.

Restano da esaminare le ultime parole di Gesù, quelle che riguardano gli effetti dell’abbandono, ma mancando lo spazio, sarà argomento del prossimo capitolo.

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15.18 – DIFFICILE ENTRARE NEL REGNO DI DIO (Marco 10.23-27)

15.18 – Difficile entrare nel regno di Dio (Marco 10.23-27)

 

23Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!». 24I discepoli erano sconcertati dalle sue parole; ma Gesù riprese e disse loro: «Figli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio! 25È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio». 26Essi, ancora più stupiti, dicevano tra loro: «E chi può essere salvato?». 27Ma Gesù, guardandoli in faccia, disse: «Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio».

 

L’uscita di scena del ricco portò Gesù ad alcune considerazioni che possiamo dividere in due parti, questa e un’altra relativa alle benedizioni conseguenti, come chiese Pietro, all’abbandono dei loro beni, che affronteremo nel prossimo capitolo.

Qui Gesù volge “lo sguardo attorno” per vedere le reazioni degli astanti alle sue parole e alla risposta, non verbale, di colui che lo aveva appena interrogato circa il conseguimento della “vita eterna” e che se ne era andato, triste. Ciò che disse, “Quanto è difficile, per coloro che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!”, li lasciò “sconcertati” perché mai si sarebbero immaginati che persone autorevoli e stimate dagli uomini non sarebbero stati altrettanto considerati e accolti nel Regno e soprattutto occorresse abbandonare “le loro ricchezze”. Per questo occorreva specificare e le Sue parole non sono ben tradotte nella nostra versione, poiché sarebbe più corretto scrivere “Quanto è difficile che coloro che si confidano nelle ricchezze entrino nel regno di Dio”, frase che corregge l’idea che uno si potrebbe fare leggendo la nostra che parrebbe sostenere che a una persona, solo perché benestante o di condizione agiata, sia quasi preclusa la possibilità di salvarsi.

Prima di passare ad esaminare le parole successive va sottolineato che l’avere delle “ricchezze” potrebbe far sì che colui che ne è dotato basi la propria vita su di esse ritenendosi al sicuro da tutto e da tutti, che quello sia il suo “tesoro” e sappiamo che là dove questo è, lì sarà il suo cuore (Matteo 6.19). Il problema è quello, espresso anche nell’impossibilità di “servire a Dio e a Mammona” (Luca 16.13) oltre all’immensa differenza fra l’avere un tesoro sulla terra, “dove tignola e ruggine consumano e i ladri scassinano e rubano” (Matteo 6.19) e in cielo, dove tutto ciò è impossibile. La differenza sta nel fatto che il primo “tesoro” è qualche cosa di oggettivamente tangibile mentre il secondo, quello “nel cielo” viene accettato per fede, rivelato non tanto e non solo dalle parole di Gesù, ma soprattutto dallo Spirito.

C’è quindi un’enorme differenza fra la ricchezza quando viene impiegata per sé stessi o per aiutare il prossimo, quest’ultima stigmatizzata da Gesù a conclusione della parabola dell’amministratore disonesto: “Fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare – con la morte –, essi vi accolgano nelle dimore eterne” (Luca 16.9).

Il dover gestire delle somme ingenti, infatti, porta la persona a darsi interamente ad esse agendo a danno di altri per accumularne di ulteriori, come constatiamo dalle cronache di ogni giorno in cui uomini senza scrupoli, totalmente asserviti alla loro insaziabilità per l’accumulare, sono pronti a calpestare i diritti altrui e, nel caso ad esempio delle multinazionali, provocare squilibri all’ambiente fino a quando la terra stessa non presenterà una volta per tutte un conto che sarà impossibile pagare.

È quindi l’amore disordinato per il denaro, indipendentemente dal fatto che uno sia ricco o povero, che preclude la possibilità di aprirsi verso quello per l’Unico che, alla fine, darà la giusta retribuzione in base a come la persona avrà speso la propria vita perché “Non abbiamo portato nulla nel mondo e nulla possiamo portare via. Quando abbiamo dunque di che mangiare e di che coprirci, accontentiamoci. Quelli invece che vogliono arricchirsi – notare il “vogliono” –, cadono nella tentazione, nell’inganno di molti desideri insensati e dannosi, che fanno affogare gli uomini nella rovina e nella perdizione. L’avidità del denaro infatti è la radice di tutti i mali; presi da questo desiderio alcuni hanno deviato dalla fede e si sono procurati molti tormenti” (1 Timoteo 6.7-10).

Il testo prosegue con l’indicazione dell’unica strada possibile: “Ma tu, uomo di Dio, evita queste cose; tendi invece alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza. Combatti la buona battaglia della fede, cerca di raggiungere la vita eterna alla quale sei stato chiamato e per la quale hai fatto la tua bella professione di fede davanti a molti testimoni” (vv. 11,12). Sono queste azioni chiaramente impossibili anche solo a tentarsi da chi ha obiettivi diversi, visti appunto nel denaro e infatti l’uomo che aveva appena interrogato Gesù su cosa avrebbe dovuto fare per avere la vita eterna, se ne andò rattristato. E a quanto sappiamo non fece più ritorno a Lui.

Il problema, quindi, è nel fare affidamento sugli averi materiali. Così infatti leggiamo in Giobbe 31.24,25: “Se ho riposto la mia speranza nell’oro e all’oro fino ho detto: «Tu sei la mia fiducia». Se ho goduto perché grandi erano i miei beni e guadagnava molto la mia mano, (…) anche questo sarebbe stato un delitto da denunciare, perché avrei rinnegato Dio, che sta in alto”. Ricordiamo che “quest’uomo era il più grande – cioè ricco – tra tutti i figli d’oriente”.

Ancora Salmo 49.7-10: “Essi confidano nella loro forza, si vantano della loro grande ricchezza. Certo, l’uomo non può riscattare se stesso, né pagare a Dio il proprio prezzo. Troppo caro sarebbe il riscatto di una vita: non sarà mai sufficiente per vivere senza fine e non vedere la fossa”. E anche qui possiamo intravedere il “tesoro nel cielo” di cui parla Gesù.

La constatazione della ricchezza e l’associarsi ad altri della stessa condizione, poi, genera la prepotenza, e di chi così agisce è scritto “Perciò Dio ti demolirà per sempre, ti spezzerà e ti strapperà dalla tenda – da te tanto amata e nella quale ti credevi al sicuro – e ti sradicherà dalla terra dei viventi” (52.7).

A conferma poi che la ricchezza non è solo in termini di denaro o possedimenti, ecco Geremia 9.22,23: “Così dice il Signore: «Non si vanti il sapiente della sua sapienza, non si vanti il forte della sua forza, non si vanti il ricco della sua ricchezza. Ma chi vuol vantarsi, si vanti di avere senno e di conoscere me, perché io sono il Signore che pratico la bontà, il diritto e la giustizia sulla terra, e di queste cose mi compiaccio”.

Concludiamo il tema della difficoltà ad entrare nel regno di Dio con le parole di Giacomo 5.1-5 che inquadrano molto bene la categoria del ricco in senso negativo, che poi è un idolatra: “E ora a voi, ricchi: piangete e gridate per le sciagure che cadranno su di voi! Le vostre ricchezze sono marce, i vostri vestiti sono mangiati dalle tarme. Il vostro oro e il vostro argento sono consumati dalla ruggine – espressione figurata per indicare la loro inutilizzabilità di fronte a Dio –, la loro ruggine si alzerà ad accusarvi e divorerà le vostre carni come un fuoco. Avete accumulato tesori per gli ultimi giorni – per vivere la vecchiaia come se fosse una seconda giovinezza –! Ecco, il salario dei lavoratori che hanno mietuto sulle vostre terre, e che voi non avete pagato, grida, e le proteste dei mietitori sono giunte agli orecchi del Signore onnipotente. Sulla terra avete vissuto in mezzo a piaceri e delizie, e vi siete ingrassati per il giorno della strage – convinti di resistere anche al Giudizio –. Avete condannato e ucciso il giusto ed egli non vi ha opposto resistenza”.

Tornando al nostro passo, a questo punto abbiamo una frase diventata famosa anche nell’àmbito non cristiano, “È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio”, apparentemente incomprensibile, come già notato a suo tempo, se si interpreta l’ago come strumento usato per cucire; se infatti “kàmilos” fosse inteso come fune, equivarrebbe sostenere che nessun ricco potrebbe salvarsi, ma se quel termine fosse “kàmelos” “cammello” e l’ “ago” la porticina lasciata aperta di notte alle porte delle città in quanto quella principale veniva chiusa, il discorso cambia. A favore del “cammello” o della “corda” sono state fatte le più svariate ipotesi, ma resta comunque il fatto che Gesù, in questo caso, riferisce un detto comune nel mondo orientale per indicare un paradosso: “Nessuno ha mai visto fiorire una palma d’oro, o un cammello passare per la cruna di un ago”, o anche “Sei forse uno della Scuola giudaica in Babilonia, che sai far passare un elefante per la cruna di un ago?”.

Resta un fatto comunque fondamentale e cioè che quando Gesù parla di “ricco”, in questo caso non indica una persona più o meno agiata, ma chi si identifica nella tipologia di quanti intendono la ricchezza come un bene loro esclusivo e la usano a danni di altri o la idolatrano. In questo caso penso appaia chiaramente l’impossibilità indicata da Nostro signore.

Dal testo rileviamo che i discepoli furono ancora più pronti nella loro reazione, chiedendosi, dato che le cose stavano così, chi potesse essere salvato. Prima rimasero senza parole (il testo dice “erano sconcertati”), poi le trovano esprimendo tutto il loro disorientamento interrogandosi fra loro, cioè sperando di trovare una risposta l’uno con l’altro e non osavano chiedere a Colui che avrebbe potuto chiarire loro ogni cosa. Capirono che l’amore per il denaro e la ricchezza poteva trovarsi in chiunque e di lì la domanda? Non possiamo dirlo con certezza, ma il problema sorse in tutto il suo peso e non sapevano come interpretare le parole del loro Maestro.

A questo punto leggiamo che Gesù li guarda, ed è la terza volta che abbiamo quest’annotazione: la prima fu al verso 21, quando “guardò in viso” l’anonimo notabile, la seconda quando si “guardò intorno” al verso 23, ed infine qui, dicendo “Impossibile agli uomini, ma non a Dio, perché a Dio tutto è possibile!”, cioè spiegando che nessuno, impiegando i propri mezzi o virtù più o meno grandi, potrà mai salvarsi, cosa possibile a Dio tramite la Sua chiamata e lo Spirito Santo, non salvando Lui senza la partecipazione attiva dell’uomo convinto di peccato, giustizia e giudizio.

Credo che un passo significativo a commento di questa frase sia in Geremia 21.17: “Con la tua forza e potenza hai fatto il cielo e la terra, nulla ti è impossibile. (…) Grande nei pensieri e potente nelle opere sei tu, i cui occhi sono aperti su tutte le vie degli uomini, per dare a ciascuno secondo la sua condotta, secondo il frutto delle sue azioni”. Più avanti (v.27) leggiamo “Ecco, io sono il Signore, Dio di ogni essere vivente; c’è qualcosa di impossibile per me?”. Ecco perché, di fronte a Colui che tutto può, compreso rimettere il peccato della creatura che grida a Lui – e qui si manifesta l’ “impossibile” e il “possibile” –  ogni problema trova la sua soluzione, compreso quello della destinazione finale. Amen.

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15.16 – MATRIMONIO E CELIBATO (Matteo 19.10-12)

15.16 – Matrimonio e celibato (Matteo 19.10-12)

 

10Gli dissero i suoi discepoli: «Se questa è la situazione dell’uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi». 11Egli rispose loro: «Non tutti capiscono questa parola, ma solo coloro ai quali è stato concesso. 12Infatti vi sono eunuchi che sono nati così dal grembo della madre, e ve ne sono altri che sono stati resi tali dagli uomini, e ve ne sono altri ancora che si sono resi tali per il regno dei cieli. Chi può capire, capisca».

 

“Due facce della stessa medaglia” potrebbe essere il sottotitolo a queste riflessioni. Se il tema del matrimonio è molto complesso, quello del celibato, stando a quanto abbiamo letto, lo è altrettanto perché i discepoli, udite le parole del loro Maestro, si sentirono profondamente coinvolti in quanto molti di loro erano sposati: per l’ebraismo, come già ricordato, l’età del matrimonio per l’uomo era di 18 anni, 16 per la donna. Parlando poi dell’età necessaria per poter contrarre matrimonio, va detto che chi arrivava a 20 senza sposarsi era visto con sospetto che si annullava solo se questa persona si dava totalmente agli studi della Torà. Celibato e ascetismo erano eventi molto rari e la stessa lettura della Bibbia lo conferma. Gli insegnamenti rabbinici al riguardo, poi, tendono a vedere questa condizione come qualcosa di innaturale: “Non è chi si sposa a commettere il peccato: il peccatore è l’uomo non sposato che spende tutti i giorni in pensieri peccaminosi. Il matrimonio non serve solo a raggiungere l’amicizia e a procreare, ma realizza un individuo come persona. Entrambi gli sposi concorrono ad innalzare l’unione a livelli superiori per mezzo della mutua considerazione e del rispetto”.

Ora i discepoli, che consideravano sacro il vincolo matrimoniale ma fino a un certo punto perché avevano sempre il divorzio come via di uscita – e gli ebrei ne andavano fieri perché, secondo loro, era qualcosa che Dio aveva concesso solo al Suo popolo –, quando Gesù ebbe finito di rispondere ai Giudei furono molto stupiti delle Sue parole e conclusero che “Se – quindi formula dubitativa – è questa la situazione dell’uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi”. In pratica, i discepoli stentavano a credere che il divorzio non fosse quella pratica che intendevano, cioè un espediente a favore dell’uomo che, quando voleva liberarsi della donna per un motivo o per l’altro, poteva farlo e quindi, se così non poteva essere, era meglio restare senza vincoli.

A questo punto Gesù torna nuovamente a correggere il pensiero appena espresso, “non conviene sposarsi”, non contestando l’idea come aveva appena fatto col divorzio, ma dicendo “Non tutti capiscono questa parola – meglio “questo detto”, cioè il concetto appena espresso –, ma solo coloro ai quali è stato concesso”.

Da queste brevi parole possiamo effettuare alcune considerazioni: primo, “capire” forma un tutt’uno col mettere in pratica, non essendo possibile il celibato per tutti. Secondo, questo stato è qualcosa che “è stato concesso” come un dono, talché la traduzione più appropriata sarebbe “ma solo coloro ai quali è stato dato”. E comunque già l’avverbio “solo” allude a un restringimento di campo per cui, guardando le due condizioni opposte viste nello sposarsi o essere celibi, è innegabile che sia la prima condizione quella più naturale nonostante l’obbligo alla fedeltà e dell’impossibilità del divorzio tranne nel caso di fornicazione o adulterio.

Il celibato, quindi, è un dono e come tale va considerato e vissuto, è inutile praticarlo se non lo si possiede perché altrimenti, come per tutti gli altri doni, la persona si imbatterebbe altrimenti in seri disturbi mentali o, in questo caso, della sfera sessuale come possiamo constatare pressoché ogni giorno dalle cronache, quando leggiamo degli abusi praticate da vari sacerdoti della Chiesa di Roma e non solo. L’assenza della controparte femminile, non porta a una vita serena ed equilibrata per chi non ha il dono di cui trattiamo.

Come il matrimonio, il celibato non può essere imposto come condizione per accedere a compiti “più alti” nel senso che non è condizione migliore di servizio, ma indica una diversa espressione del proprio dare anche se, come vedremo, esiste un distinguo.

Al verso 12 Gesù parla di “eunuchi”, cioè persone che non sono in grado di procreare o di avere un rapporto sessuale e quindi non hanno interesse per il sesso opposto. Questo “non essere in grado” è riferito a una condizione di asessualità in cui il desiderio è del tutto assente; chi la vive considera il sesso come una perdita di tempo, qualcosa di noioso, lo paragona al mangiare senza sentire fame e se ne astiene in modo del tutto volontario e senza sforzo.

La prima delle categorie elencate è quella degli “eunuchi che sono nati così dal grembo della madre”, riferimento a quanti nascono privi delle ghiandole sessuali. La seconda riguarda coloro che “sono stati resi tali dagli uomini”, pratica barbara e crudele che consisteva nella castrazione che rendeva quelli parzialmente o completamente incapaci di attività sessuale, mentre la terza è riferita a quanti “si sono resi tali per il regno dei cieli”, cioè hanno rinunciato a questo tipo di espressione del loro corpo senza – attenzione – che questa presentasse per loro un problema determinante nei loro rapporti interpersonali. In altri termini, in questo caso, si tratta di persone che non soffrono per questa astinenza preferendo la castità non andandosi ad indentificare nei verbi “bruciare” o “non dominarsi” di cui parla l’apostolo Paolo in 1 Corinti 7.9, “Ai non sposati e alle vedove dico: è cosa buona per loro rimanere come sono io – cioè celibe –; ma se non sanno dominarsi, si sposino: è meglio sposarsi, che bruciare – dal desiderio –“.

Il matrimonio, infatti, fermo restando tutto quanto è stato detto finora, nella dispensazione della grazia non è più e non è tanto un’istituzione tesa alla procreazione – fatta di comune accordo e in base alla naturale tendenza ad allevare una prole –, ma ad evitare la fornicazione, cioè un uso libero del proprio corpo con chiunque per soddisfarsi: “Riguardo a ciò che mi avete scritto – perché la Chiesa di Corinto risentiva della filosofia greca in merito –, è cosa buona per l’uomo non toccare donna, ma, per evitare la fornicazione, ciascuno abbia la propria moglie e ogni moglie il proprio marito” (ibidem, 7.1). Certo qui Paolo parla del corpo, ma non per questo sostiene che non siano necessari la compatibilità interpersonale e comunione d’intenti e progetti.

L’astinenza dai rapporti sessuali e quindi il celibato, sono da preferirsi al matrimonio a condizione che l’uomo o la donna non avvertano dentro di sé quegli stimoli che, in assenza di marito o moglie, li porterebbero a trasgredire il comandamento di Dio in merito alla purezza del proprio corpo: “Non sapete voi che i vostri corpi sono membra di Cristo? Prenderò dunque le membra di Cristo e ne farò membra di una prostituta? Non sia mai! Non sapete che chi si unisce a una prostituta forma con essa un corpo solo? I due, è detto, diventeranno una sola carne. Ma chi si unisce al Signore firma con lui un solo spirito. State lontani dall’impurità! Qualsiasi peccato l’uomo commetta, è fuori dal suo corpo; ma chi si dà all’impurità, pecca contro il proprio corpo. Non sapete che il vostro corpo è il tempio dello Spirito Santo, che è in voi? Lo avete ricevuto da Dio e voi non appartenete a voi stessi. Infatti siete stati comprati a caro prezzo: glorificate dunque Dio nel vostro corpo!” (1 Corinti 6.15-20).

Da queste importanti parole rileviamo allora che il nostro essere fisico non ci appartiene esclusivamente come un tempo, quando facevamo di lui quello che volevamo, ma è destinato al pari dell’anima alla resurrezione, per cui Dio ha riscattato l’una e l’altro. Peccare “fuori dal corpo” succede tutti i giorni, ma “contro il proprio corpo” richiede una volontà precisa e crea una situazione che coinvolge profondamente in negativo l’anima, la psiche della persona, creando così una grave dicotomia fra l’essere di Cristo e di un individuo che non è quello con cui si è creato un rapporto duraturo di fedeltà attraverso il matrimonio.

Che il celibato, al pari del matrimonio, sia una libera scelta lo troviamo sempre nella stessa lettera ai Corinti quando leggiamo “Vorrei che tutti fossero come me – cioè celibe –; ma ciascuno riceve il proprio dono, chi in un modo, chi in un altro” (7.7).

Questo verso trova due motivazioni essenziali la prima delle quali è in vista nelle persecuzioni alle quali erano già sottoposte i primi cristiani che erano sentite in maniera più grave e angosciosa in quelli che avevano famiglia; la seconda, di ordine pratico-spirituale, è che il celibe sarebbe stato più propenso, in quanto libero da vincoli sentimentali e fisici, a dedicarsi interamente al Servizio. Infatti: “Penso che sia bene per l’uomo, a causa delle presenti difficoltà – quelle di cui è stata fatta menzione poc’anzi –, rimanere com’è. Ti trovi legato a una donna? Non cercare di scioglierti. Sei libero da donna? Non andare a cercarla. Però se ti sposi non fai peccato; e se la giovane prende marito, non fa peccato. Tuttavia costoro avranno tribolazioni nella propria vita – altri traducono “carne”ed io vorrei risparmiarvele” (7.26-28).

La seconda motivazione a favore del celibato, sempre nello stesso capitolo, la rileviamo in queste parole: “io vorrei che foste senza preoccupazioni: chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore; chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie, e si trova diviso! Così la donna non sposata, come la vergine, si preoccupa delle cose del Signore, per essere santa nel corpo e nello spirito; la donna sposata si preoccupa invece delle cose del mondo, come possa piacere al marito. Questo io lo dico per il vostro bene: non per gettarvi un laccio, ma perché vi comportiate degnamente e restiate fedeli al Signore, senza deviazioni” (7.32-35).

Prestiamo bene attenzione: qui l’apostolo parla di persone a parità di intenzioni di servire il Signore dando se stessi completamente ed è chiaro che l’essere senza un compagno/a non comporta l’osservanza di varie incombenze cui sono sottoposti coloro che l’hanno. “Come piacere alla moglie” (o al marito) non è un riferimento alla vanità del vestire o al truccarsi, ma a quell’accomodarsi l’uno all’altro che in alcuni casi può andare a ridurre la disponibilità per l’altrui. È chiaro dal contesto che la preferenza per il celibato è teorica, perché altrimenti il ministero sarebbe stato non consentito agli sposati.

Nota conclusiva al riguardo è “Chi può capire, capisca”, originale “ricevere”, che altre versioni hanno “Chi è capace di queste cose, lo sia”. Entrambe le versioni mettono in condizione gli uditori di riconoscersi o meno in quelle parole e mettere in pratica. È un invito a porsi, come sempre di fronte alla Parola ed esaminare se stessi per scegliere la condizione in cui vivere: tanto il matrimonio che il celibato non sono imponibili, come da 1 Timoteo 4.3: “…a causa dell’ipocrisia di impostori, già bollati a fuoco nella loro coscienza: gente che vieta il matrimonio e impone di astenersi da alcuni cibi che Dio ha creato perché i fedeli, e quanti conoscono la verità, li mangino rendendo grazie. Infatti ogni creazione di dio è buona e nulla va rifiutato, se lo si prende con animo grato, perché esso viene reso santo dalla parola di Dio e dalla preghiera”.

Parlando delle donne giovani che hanno perso il marito, poi, in 5.14, “Desidero quindi che le più giovani si risposino, abbiano figli, governino la loro casa, per non dare ai vostri avversari alcun motivo di biasimo”.

Matrimonio e celibato, quindi, sono condizioni di vita che vanno praticate con intelligenza e da persone che, se non mature, abbiano almeno chiaro il loro progetto di vita.

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15.17 – IL GIOVANE RICCO (Marco 10.17-22)

15.17 – Il giovane ricco (Marco 10.17-22)

 

17Mentre andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?». 18Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. 19Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre». 20Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». 21Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!». 22Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni.

 

Narrato da tutti i sinottici, è un episodio noto come quello del “giovane ricco” anche se sulla sua identità gli evangelisti danno un quadro interessante: Marco lo descrive come “un tale” che “possedeva molti beni” o “molte ricchezze” secondo Matteo; Luca invece ci parla di “un notabile”, traduzione dal greco “tis árchon”, letteralmente “un certo dei rettori”, termine che ci autorizza a pensare che sia stato un alto membro del Sinedrio, un magistrato, comunque una persona importante per rango e posizione sociale o anche il rettore di una Sinagoga.

Si tratta comunque di un dialogo dal significato chiaro ed immediato, citato diverse volte in riflessioni precedenti in cui si è cercato di sviluppare il significato della ricchezza secondo Dio, per cui non è tanto su una ripetizione di concetti che baseremo il nostro percorso, quanto su un indagine sulle motivazioni interiori del personaggio e sull’atteggiamento di nostro Signore nei suoi confronti.

Il tutto si svolse “per la strada” perché Gesù, terminato il suo insegnamento sul matrimonio ed avere accolto i bambini, intendeva raggiungere Gerico; la traduzione esatta, invece che “per la strada” sarebbe “E, come egli – Gesù – usciva fuori”, probabilmente dal paese, sulla via principale in cui si svolsero gli episodi ricordati, per cui l’accento che qui viene posto è sul fatto che quell’uomo attese l’ultimo momento per parlare con Lui.

Dopo questa breve introduzione, passiamo ad esaminare la psicologia del personaggio: era “giovane”  (Matteo 19.20) rispetto a quelli che avevano la sua carica e, a differenza degli altri e dalla maggioranza dei suoi coetanei, si poneva dei problemi importanti sul suo destino spirituale. Certo la definizione di “giovane” lascia perplessi perché non abbiamo elementi per definirne l’età, ma credo si possa presumere che fosse sotto i cinquant’anni, l’età pensionabile per lo meno per i sacerdoti. Era profondamente religioso, viveva senza dissipare le sue sostanze né soprattutto si sentiva soddisfatto della reputazione che aveva presso i suoi conterranei, anzi la sacrifica “gettandosi in ginocchio davanti a lui” sulla pubblica via non per adorarlo, ma in segno di profonda deferenza chiamandolo “maestro” e aggiungendo “buono”, aggettivo che non veniva dato neppure ai rabbini più autorevoli. Per questo gli verrà chiesto “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo”, cioè gli viene data l’opportunità di esprimere una precisazione in merito, essendo Gesù Colui di fronte al quale ogni ginocchio, volente o nolente, dovrà piegarsi.

Inoltre il fatto che ciò sia avvenuto mentre il Maestro stava andando via e che “gli corse incontro” ci lascia pensare che, fino a quando rimase nel villaggio, non aveva fatto altro che aspettare il momento opportuno per chiedergli la risposta al problema che lo assillava. In alternativa, possiamo anche pensare che aspettò l’ultimo momento in preda all’indecisione se interpellarLo o meno e che, quando Lo vide andar via, capì che non poteva attendere oltre. In ogni caso, tutto il suo comportamento ci parla dell’urgenza e del peso che aveva per lui il conseguimento della vita eterna che non era sicuro di avere. Dobbiamo pensare che di Gesù quell’uomo, per la carica che aveva, aveva già sentito parlare e sapeva che era un profeta, altrimenti non gli si sarebbe inginocchiato davanti. Gli si presenta con tutto il suo bagaglio storico-culturale, la sua storia, il suo sapere e i suoi dubbi; in poche parole, Gli parla senza tendere trappole teologiche e tutto il suo atteggiamento, come anche le sue parole, denotano una persona profondamente assetata di sapere. Questa persona, allora, è figura di tutti coloro che sono alla ricerca di Dio per risolvere il problema della loro esistenza eterna e incontrano Gesù attraverso il Vangelo. Si sentono insoddisfatti, mancanti di qualcosa magari anche se la loro vita procede tranquillamente, con pochi problemi.

Proseguiamo la lettura: alla domanda sul perché dell’aggettivo “buono” non seguì alcuna risposta: per quella persona Gesù era tale perché sapeva molto più degli altri e per questo la sua dottrina era degna di attenzione, ma in lui, in fondo al cuore, magari in un angolo che neppure sapeva di avere, veniva a mancare quell’interesse autentico e il riconoscimento che porta alla resa. Ecco allora che, se da una parte abbiamo una persona cui evidentemente la Legge non bastava per sentirsi appagato, dall’altra non aveva analizzato approfonditamente il problema e la persona di Gesù nonostante il suo prostrarglisi davanti.

A questo punto, per provare quel notabile, ma ancor più per mettere in condizione i presenti di capire ciò che dirà dopo, Gesù si rifà al contenuto della seconda pietra riportante il Decalogo e appositamente nomina i comandamenti relativi ai rapporti tra l’uomo e il suo prossimo dimostrando così la continuità che intercorre con i primi, quelli verso Dio stesso. In altri termini solo amando il Signore sarebbe stato possibile vedere nell’altro il proprio fratello e quindi diventare incapaci di nuocergli attraverso l’omicidio, l’adulterio, il furto, la falsa testimonianza, la truffa e il non onorare il padre e la madre. Se amiamo Dio, non amiamo noi stessi e viceversa. Il decalogo infatti, con la sua divisione in quelli verso YHWH e verso l’uomo, è un continuo orientamento verso il dare ai due poli dell’esistere, il Creatore e la creatura, o meglio il fratello; essendo l’antitesi all’egoismo e alla carne, è difficile da osservare interamente perché il suo contrario è ciò a cui tende un essere privo della Sua guida amorevole.

Ora, a sentire “tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza” (Matteo aggiunge “Che altro mi manca?”) Gesù compie la sua prima azione, fissa lo sguardo su di lui. Il “fissare lo sguardo” di Gesù lo vede impegnato ad esaminare ciò che dimorava nel cuore del suo interrogante e, pur conoscendo i limiti che emergeranno dopo, lo vide sincero, riconobbe in lui una persona che andava oltre al dare le decime, all’assolvere alla legge cerimoniale per sentirsi a posto con se stesso, al non essere legato alla formalità quale strumento di cauterizzazione della coscienza.

Quella persona, infatti, si dichiara insoddisfatta della risposta di Gesù e chiedendo “Che altro mi manca ancora?” è come se avesse aggiunto “eppure tutto questo non mi basta”. Molti commentatori insistono sull’ipocrisia di questo personaggio, ma non credo, per lo meno non qui: il “giovane ricco” non sa ancora di essere la persona limitata di cui darà prova di lì a poco, crede davvero in quello che dice perché è ciò che sente, non è un frivolo perché altrimenti Gesù non lo avrebbe “amato”.

Proprio questa scansione della personalità provocò la risposta: “Una sola cosa ti manca” (Marco e Luca), “Se vuoi essere perfetto” (Matteo), quindi il percorso spirituale di quell’uomo era stato fin lì approvato e la parte mancante per la perfezione, tanto cercata a parole, era finalmente a portata di mano: con le varianti minime che ho riportato, la risposta è una sola, “Va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo, poi vieni e, presa la tua croce – testo che in alcune versioni manca –  seguimi!”.

La reazione di quell’uomo è nota, cioè se ne andò rattristato, senza dire nulla (il farsi “scuro in volto” è un’aggiunta). È singolare che tutti i sinottici specifichino lo stato d’animo del giovane che non se ne andò contrariato, offeso o indifferente, ma sconfitto da se stesso perché Gesù gli aveva indicato ciò che lo limitava, l’unico antidoto all’insoddisfazione che provava espressa dalla frase “Che altro mi manca?”.

A questo punto, evitando le solite considerazioni sulla ricchezza e su ciò che comporta, credo sia importante sottolineare che Gesù, anche se non potrebbe essere altrimenti, ancora una volta in quanto Parola di Dio si dimostra “efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore” (Ebrei 4.12): nel caso di questa persona, fu proprio il raggiungere “il punto di divisione dell’anima e dello spirito”, cioè il confine tra ciò che è il nostro carattere e il motore invisibile che ci spinge ad essere ciò che siamo, a causare la tristezza di questa persona che, venuto a sapere ciò che le mancava per “essere perfetto”, posto di fronte alla perdita dei suoi averi, preferì ritrarsi rinunciando a fare i conti con se stesso da quel momento in avanti. La “spada a doppio taglio”, che “scruta i sentimenti e i pensieri del cuore”, cioè che li fa emergere, aveva svolto il suo compito e dal testo rileviamo che Gesù offrì solo un percorso, non respinse quella persona che si escluse da sé dal piano di Dio preparato per lui.

Da notare che nell’episodio fin qui esaminato può sfuggire un particolare molto significativo e cioè che nostro Signore, in tutti i tre testi che abbiamo, si preoccupa di specificare al suo anonimo interlocutore che, all’abbandono dei suoi beni, avrebbe corrisposto il trovare “un tesoro in cielo”, luogo che purtroppo non poteva vedere, ma che gli veniva promesso da quel “maestro buono” da lui con tale riverenza interpellato. Gesù, all’abbandono dei beni terreni, si faceva garante di qualcosa di immensamente più grande nel mondo a venire, offrendo ancora di più rispetto alla “vita eterna” così apparentemente cercata. Solo nel momento in cui al tesoro sulla terra fu contrapposto il “tesoro in cielo” quell’uomo scoprì di non essere più interessato e che l’insoddisfazione che si portava dentro, di fronte alla perdita delle sue ricchezze, poteva benissimo starci.

 

Mi sono chiesto quale può essere l’insegnamento di questo episodio per i credenti di questo tempo, per i ricchi di oggi che, anche se dessero tutto ciò che possiedono ai poveri, non avrebbero certo la possibilità di essere discepoli di Cristo senza una conversione profonda anteriore al loro gesto. È ancora una volta l’apostolo Paolo a intervenire al riguardo scrivendo a Timoteo nella sua prima lettera “A quelli che sono ricchi in questo mondo ordina di non essere orgogliosi, di non porre la speranza nell’instabilità delle ricchezze – come in fondo era per il personaggio esaminato –, ma in Dio, che tutto ci dà con abbondanza perché possiamo goderne. Facciano del bene, si arricchiscano di buone opere, siano pronti a dare e a condividere: così metteranno da parte un buon capitale per il futuro, per acquistarsi la vita vera” (6.17,18).

Rimanendo nel tema di chi è ricco, vediamo che quanto chiesto al nostro personaggio era un qualcosa di dispensazionale nel senso che era legato al fatto che Gesù era presente e gli offriva un posto all’interno della comunità dei discepoli. Proporzionalmente non è così dissimile da quanto prospetta l’apostolo Paolo perché abbiamo l’abbandono dell’orgoglio, il passaggio delle ricchezze in secondo piano, la prontezza al dare e alla condivisione, cosa molto rara se una persona ha posto se stesso al centro del proprio mondo e in cui è ricco a prescindere da ciò che ha realmente. Amen.

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15.15 – MATRIMONIO E DIVORZIO III/III (Matteo 19.3-9)

15.15 – Matrimonio e divorzio III (Matteo 19.3-9)

 

3Allora gli si avvicinarono alcuni farisei per metterlo alla prova e gli chiesero: «È lecito a un uomo ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo?». 4Egli rispose: «Non avete letto che il Creatore da principio li fece maschio e femmina 5e disse: Per questo l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne? 6Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto». 7Gli domandarono: «Perché allora Mosè ha ordinato di darle l’atto di ripudio e di ripudiarla?». 8Rispose loro: «Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli; all’inizio però non fu così. 9Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di unione illegittima, e ne sposa un’altra, commette adulterio».

 

Credo emerga, arrivati a questo punto dopo due capitoli, per quanto sintetici, sull’istituzione matrimoniale, che questa sia un contratto assimilabile, concettualmente, al battesimo che ogni credente sincero ha compiuto. Quest’ultimo infatti può considerarsi la firma che la persona appone ad un contratto di salvezza fra lui e Dio: sa ciò che riceve, sa che dovrà iniziare un cammino diverso da quello degli altri, perseguendo la santificazione. Sa che dovrà compiere tutta una serie di azioni, percorrere un’infinità di strade, che cadrà nel suo itinerario magari anche facendosi del male e che si dovrà rialzare, da solo o con l’aiuto di altri a seconda delle circostanze. Ma sa anche che affidarsi a Dio sarà l’unica opzione possibile per avere un futuro reale di vita nel regno promesso e che questa scelta non sarà un punto di arrivo, ma di partenza. Dovrà ascoltare lo Spirito Santo, impegnarsi per far fruttare il o i talenti ricevuti.

Non ho mai conosciuto una persona battezzatasi, parliamo ovviamente di adulti o individui in grado di capire le elementari differenze fra bene e male, tornare indietro salvo nel caso in cui non fosse pienamente consapevole a suo tempo delle sue azioni o abbia agito per imitazione altrui o per profonda immaturità, per un entusiasmo irresponsabilmente passeggero. Questo, per quanto in casi eccezionali, avviene per motivi profondamente umani che non credo mi competa giudicare, mentre è innegabile che, se solitamente si giunge al battesimo informati da chi o coloro che sono preposti a una Chiesa, purtroppo la stessa cosa non avviene col matrimonio e qui si apre indubbiamente una ferita dolorosa perché, a differenza del battesimo che è qualcosa di strettamente intimo e personale, per quanto effettuato in presenza di testimoni, il matrimonio è gestito anche al di fuori, nel mondo, che ha al riguardo ideali, metodi di vita diametralmente opposti. Spesso chi arriva a questo passo così importante, se credente e in particolare giovane, porta con sé ciò ha appreso guardando il comportamento dei suoi genitori al riguardo e non è detto che il modello a lui offerto sia qualcosa di sano.

Il matrimonio, col relativo cosiddetto “fidanzamento” che lo precede, è spesso il risultato di scelte inconsapevolmente affrettate, non sufficientemente ponderate, influenzate dal sentimentalismo o da un falso concetto di esso; in poche parole da molti, troppi elementi che non sono spirituali. E coloro che sono/sarebbero preposti al mantenimento e ristoro delle anime nella Chiesa spesso non fanno nulla per formare e informare le persone che si accostano a questa istituzione limitandosi a dire che, se c’è fede, il matrimonio è destinato a durare, che tutto andrà bene, che “i due saranno una sola carne”, commentando più o meno sommariamente alcuni versetti, parlando di una generica sottomissione della moglie al marito, insomma senza formare, istradare le persone ad un passo così fondamentale per la loro vita.

A volte, peggio, non si fa nulla per i futuri sposi che, se credenti, intraprendono un cammino senza avere altro motore se non un amore reciproco che, se non basato su una forte compatibilità di caratteri e vero, profondo interesse reciproco, è destinato a spegnersi naufragando nell’indifferenza lasciando nella solitudine entrambe le parti che poi vivono enormi, profondi drammi interiori, incapaci di comunicarli nel timore di gettare imbarazzo e sconforto negli altri nella Chiesa locale.

Credo che, per quanto non nominato, il matrimonio possa rientrare a pieno titolo nella parabola della costruzione della torre in Luca 14.28-30: “Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: «Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro»”. Qui Gesù parla di una “torre”, non di una “casa”, quindi di qualcosa che non è indispensabile per vivere e dimorarvi, ma va a completare una proprietà esattamente come il matrimonio può farlo nei confronti di una persona.

Ora abbiamo letto “non siede prima a calcolare la spesa e vedere se ha i mezzi per portarla a termine”, cioè un’attività che stupisce il lettore superficiale che si aspetterebbe di trovare la descrizione di un uomo che, dotato di sola fede, s’imbarca in un’attività di quel tipo e, pregando, alla fine riesce nell’impresa suscitando magari l’ammirazione di tutti. Ma questo corrisponde più a un pensiero pentecostale che alla dinamica del credere: la persona della parabola prima di prendere qualunque decisione “siede” – azione che presuppone futuri calcoli, esami, prospetti, fogli, annotazioni, quindi di un ragionamento severo e importante qual è la situazione che lo richiede – “per calcolare la spesa” – cioè valuterà punto per punto non solo se ha il denaro strettamente necessario, ma se è in grado di sostenere eventuali imprevisti – “e i mezzi per portarla a termine” – vale a dire le risorse umane e meccaniche per poterlo fare. Solo allora vi saranno garanzie perché la torre possa arrivare ad essere costruita e a rimanere stabile.

Gesù, con questa parabola, parla a tutti i presenti, “Chi di voi”, quindi a persone esperte, adulte, mature, in grado di capire perfettamente le sue parole. Chiaramente, non ho visto la stessa cosa nella Chiesa nel senso che non si esortano coloro che intendono unirsi in matrimonio a fare come quel costruttore e i cosiddetti “anziani”, o pastori, o sacerdoti, troppo spesso spingono ad unioni affrettate, “perché non c’è l’uomo senza la donna e la donna senza l’uomo”, senza mettere in guardia le anime che dovrebbero essere loro affidate dal pericolo di una scelta non ponderata. Infatti (Marco 3.24-26) “Se un regno è diviso in se stesso, non può reggersi; se una casa è divisa in se stessa, non può reggersi. Alla stessa maniera, se Satana si ribella contro se stesso ed è diviso, non può sussistere, ma sta per finire”.

Queste parole, date da Gesù in risposta a coloro che lo accusavano di scacciare i demoni usando il loro principe, contiene implicitamente una dichiarazione di fallimento per qualunque struttura umana che sia “divisa” cioè non solidale, unita dai medesimi obiettivi e progetti. E all’inizio di queste riflessioni avevamo già individuato come base del matrimonio la volontà di condividere reciprocamente la vita basata su intenti e caratteri comuni. Se la “sola carne”, che comunque comprende due persone, “si ribella contro se stessa ed è divisa, non può sussistere, ma sta per finire”. E tutto questo si verifica già in partenza. Ebbene, io credo che se il regno è diviso in se stesso e la casa altrettanto, lo è perché le persone non sono state adeguatamente preparate e non hanno tenuto conto del fatto che i caratteri e la stessa concezione della vita devono essere, se non identici, certamente molto, ma molto simili; ricordiamo che l’età del matrimonio era di 18 anni per i maschi e 16 per le femmine, per cui gli uni avevano cinque anni dopo il bar mitzwah, il conseguimento della maggiore età, e le altre tre anni per prepararsi a questo evento. Certo non studiavano tutto il giorno le dinamiche e le leggi sul matrimonio, ma quando lo contraevano erano preparati ad affrontarlo responsabilmente anche dal punto di vista “religioso”.

Prima di parlare di matrimonio cristiano, quindi, occorre parlare di preparazione ad esso che non può ridursi a un elenco asettico del tipo “questo lo puoi fare, questo non lo puoi fare”, o raccomandare la sottomissione della moglie al proprio marito intendendola quasi militarmente, ma si deve mettere le persone in grado di sedersi e fare i calcoli per vedere se sono o meno in grado di costruire per evitare poi il crollo di quanto da loro realizzato: allora – e solo allora – si potrà parlare di ciò che significa vivere cristianamente insieme e portare avanti i concetti dell’Antico e Nuovo Testamento finora citati. Viceversa, questi princìpi rimarranno norme di comportamento impossibili da realizzare. È come la fede, che non può essere cieca, ma deve porsi domande anche difficili. La fede non può basarsi su una serie di dogmi, ma deve essere illuminata, basata sull’essere, sull’esistere, sull’incontro con un Dio che non ama imporre, ma discutere, non essendo il padre dispotico che dice “Obbedisci e basta”. Un cammino di fede non è fatto di certezze incrollabili, ma di pesanti dubbi risolti, passo dopo passo, gradino dopo gradino.

 

Il matrimonio cristiano è figura del rapporto Cristo-Chiesa: “Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola per il lavacro dell’acqua della parola al fine di farla comparire davanti a sé gloriosa, senza macchia o altri simili difetti, ma santa e irreprensibile” (Efesi 5.25,26. Infatti “Nel timore di Cristo, siate sottomessi gli uni agli altri: le mogli lo siano ai loro mariti, come al Signore; il marito infatti è capo della moglie, così come Cristo è capo della Chiesa, lui che è salvatore del corpo. E come la Chiesa è sottomessa a Cristo, così anche le mogli lo siano ai loro mariti in tutto” (21-24), versi che trovano la loro conclusione al verso 33 che afferma “D’altronde, anche fra di voi, ciascuno individualmente ami la propria moglie come ama sé stesso, e altresì la moglie rispetti il marito”.

Se ci soffermiamo sulle parole “Cristo ha amato la Chiesa”, è ovvio che questa è formata da persone che lui ha scelto, e sappiamo che i nostri nomi scritti del libro della vita lo furono “prima della fondazione del mondo”. Quindi, come il salmista scrive, siamo stati oggetto di una cura del tutto particolare: “Signore, tu mi scruti e mi conosci; tu conosci quando mi siedo e quando mi alzo, intendi da lontano i miei pensieri, osservi il mio cammino e il mio riposo, ti sono note tutte le mie vie. La mia parola non è ancora sulla lingua ed ecco, Signore, già la conosci tutta. Alle spalle e di fronte mi circondi e poni su di me la tua mano” (Salmo 139).

Se ogni credente è stato scelto con l’infinita cura e sapienza di Dio, il matrimonio non è qualcosa che possa essere organizzato o posto in essere per procura o qualunque imposizione esattamente come non può essere imposto il credere in Cristo se non a causa di terribili inquinamenti e fraintendimenti. La Chiesa, quella dei salvati e non del cristianesimo nominale, è composta da persone che, pur non avendo alcun merito umano, sono state cercate e messe da parte da Dio per costituire un giorno quella che è chiamata la Sua “Sposa” le nozze verranno celebrate al compimento dei tempi come è scritto in Apocalisse 19.7-10: 7Rallegriamoci ed esultiamo, rendiamo a lui gloria, perché sono giunte le nozze dell’Agnello; la sua sposa è pronta: le fu data una veste di lino puro e splendente. La veste di lino sono le opere giuste dei santi”.

Il matrimonio cristiano, quindi, riflette questa realtà e dev’essere spiegato ai futuri sposi come effettivamente è dal punto di vista umano e spirituale. Purtroppo, è l’istituzione più fraintesa nelle Chiese attorno alla quale si sono alzati muri di assoluto integralismo o tolleranza, cioè l’uno e il contrario dell’altro, che comunque cela dietro a sé uno stesso modo di pensare. Amen.

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15.14 – MATRIMONIO E DIVORZIO II/III (Matteo 19.3-9)

15.14 – Matrimonio e divorzio II/III (Matteo 19.3-9)

 

3Allora gli si avvicinarono alcuni farisei per metterlo alla prova e gli chiesero: «È lecito a un uomo ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo?». 4Egli rispose: «Non avete letto che il Creatore da principio li fece maschio e femmina 5e disse: Per questo l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne? 6Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto». 7Gli domandarono: «Perché allora Mosè ha ordinato di darle l’atto di ripudio e di ripudiarla?». 8Rispose loro: «Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli; all’inizio però non fu così. 9Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di unione illegittima, e ne sposa un’altra, commette adulterio».

 

Dato qualche cenno in più sul matrimonio e il divorzio ai tempi di Gesù, in questa seconda parte si cercherà di studiare le sue parole. Il verso 4 inizia con “Egli rispose”: non è una semplice cronaca, ma sta a indicare “Egli parlò così”, cioè l’AMEN, l’IO SONO partecipe e, sotto l’aspetto della Parola, motore della Creazione, sta per enunciare quando da Lui stesso vissuto essendo presente ad essa. Quanto Gesù sta per dire non è il frutto di una vita passata a studiare la Torà come i vecchi, umanamente autorevoli maestri del tempo, ma la Verità totale proveniente dal Testimone che troviamo in Giovanni 1.3, “Tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste”.

Il verso prosegue con una forma interrogativa di rimprovero di fronte alla cecità del Suo uditorio che, seguendo la tradizione, poneva tutta la sua attenzione al meccanismo del divorzio anziché alla sacralità del matrimonio. “Non avete letto che il Creatore – che mise la sua intelligenza nella Sua opera – che da principio fece ogni cosa – parole che nella nostra versione mancano – fece gli uomini maschio e femmina?”: Gesù quindi ricorda che, prima di creare l’uomo, il Padre “da principio fece ogni cosa”, quindi tutti i giorni precedenti (ere) della creazione in cui si dedicò alla realizzazione dell’Universo e della Terra, dal firmamento all’asciutto e da lì ai componenti del regno vegetale e animale per poi arrivare, al sesto, all’uomo.

È interessante notare che, per vegetali e animali, il sesso era già stabilito nel senso che furono così creati, mentre per l’uomo vi fu un passaggio in più, cioè “…l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli animali selvatici, ma per l’uomo non trovò un aiuto che gli corrispondesse”. Di qui la creazione della donna che fu sì realizzata da una costola di Adamo, ma venne dotata di personalità autonoma per cui, in quel crearli “maschio e femmina”, oltre a realizzarsi il fatto che Adamo finalmente trovò una creatura che gli corrispondesse e che potesse frequentare, riconobbe in lei una parte importante di se stesso, un simile: “Questa volta è osso delle mie ossa, carne della mia carne. La si chiamerà donna – isha – perché dall’uomo è stata tolta”. Tra l’altro la parola che tutte le versioni traducono con “costola”, originale “Tselàh” significa anche “un fianco, una parte”, quindi una metà che è stato supposto essere il cromosoma X, tolto dall’uomo e subito duplicato in lui. Le cellule della donna, infatti, contengono due cromosomi X e nessun Y, il DNA dell’essere umano donna è infatti costituito da coppie XX.

Se nel creare animali e piante differenziandoli per sesso il fine era quello riproduttivo, nel caso dell’uomo quel “maschio e femmina” era riferito alla comunicazione, a una visione d’insieme, alla stessa comune progettualità, comunione e intenti che avrebbero poi dovuto essere alla base del matrimonio anche nel territorio purtroppo contaminato dal peccato. Nelle origini tanto Adamo quando Eva dovevano caratterizzarsi attraverso un dono continuo di sé l’uno per l’altro in un’armonia che si risolvesse al tempo stesso verso loro stessi e Dio anche se, dopo, una volta introdotti nell’ambiente nuovo, a loro ostile, al di fuori di Eden, tutto si fece enormemente più complicato. Adamo, nonostante avesse anche lui la sua parte di colpa, non si fidava più della moglie.

 

L’uomo e la donna sarebbero divenuti “una sola carne” cioè “non più due – cioè ciascuno con una propria personalità – ma uno solo” e questa unicità è espressa poi, molto tempo dopo, da Malachia (2.13-16) che, parlando proprio di questa unione, scrive “Un’altra cosa fate ancora: voi coprite di lacrime, pianti e sospiri l’altare del Signore, perché egli non guarda all’offerta né accetta con benevolenza dalle vostre mani. E chiedete. «Perché?». Perché il Signore è testimone fra te e la donna della tua giovinezza, che hai tradito, mentre era la tua compagna, la donna legata a te da un patto. Non fece egli un essere solo dotato di carne e soffio vitale? Che cosa cerca quest’unico essere, se non prole da parte di Dio? Custodite dunque il vostro soffio vitale e nessuno tradisca la donna della sua giovinezza. Perché io detesto il ripudio, dice il Signore, Dio d’Israele, e chi copre d’iniquità la propria veste, dice il Signore degli eserciti. Custodite dunque il vostro soffio vitale – cioè la vostra anima – e non siate infedeli”.

In questo verso vediamo l’ultima espressione: “Custodire” che significa “sorvegliare qualcosa con attenzione e cura in modo che non subisca danni e si conservi intatto”. Questa azione, nel matrimonio è reciproca, ciascuno deve vigilare affinché l’altro non cada e tutto questo non ha nulla a che fare con la gelosia, quel sentimento che provano i bambini o gli adulti non cresciuti con effetti devastanti, ma è l’amore, l’interesse profondo che una persona, maschio o femmina, prova per la sua controparte. L’amore spesso è confuso col sentimento, ma fondamentalmente è scelta, dono reciproco di sé, occuparsi della persona (che si è responsabilmente scelti) per tutta la vita in un reciproco, identico scambio.

Nelle parole di Gesù, poi, c’è un monito molto importante, cioè “ciò che Dio ha unito, l’uomo non lo separi”, due volontà a confronto: nel momento in cui uomo e donna si uniscono, è Lui il testimone. È una frase che inutilmente cercheremmo, così espressamente dichiarata, negli scritti dell’Antico Patto, che ci rivela che chi vuol separare le due persone fatte una, con il divorzio e una successiva nuova unione, si pone in antitesi a Dio che del matrimonio è testimone e artefice al tempo stesso.

Può sorgere a questo punto una questione, e cioè se quanto detto da Gesù riguardi gli ebrei, stante che il nostro passo appartiene a Matteo che scrive per loro, oppure no e la risposta non può essere che negativa, poiché di questo riferisce anche Marco (10.1-12, “L’uomo non divida ciò che Dio ha congiunto”. Se mai, l’intervento di Nostro Signore fu limitato alla domanda dei farisei in merito al matrimonio e divorzio così come da loro inteso, e fu aggiornato dall’apostolo Paolo grazie alle domande che le varie Chiese gli sottoponevano per cui, per avere un’idea chiara del tema, andrebbe affrontato alla luce del suo insegnamento in cui distingue nettamente ciò che è propria opinione da quello che è quanto ricevuto da Gesù in persona, in spirito.

Il tema del matrimonio si conclude al verso 9, “Ma io vi dico”, “Io” quale inviato dal Padre per rivelare la Sua volontà perché “Tutto è stato dato a me dal Padre mio e nessuno sa chi è il Figlio se non il Padre, né chi il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo” ( Matteo 11.27; Luca 10.22). “Chiunque ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, se non in caso di unione illegittima – o meglio “fornicazione” – e ne sposa un’altra, commette adulterio”, frase – attenzione – per chi già ha a che fare con Dio, sia esso ebreo o cristiano, rivolta a chi a Lui appartiene, perché per chi si ritrova in questa condizione prima di convertirsi viene purificato da un peccato che non sapeva di commettere.

Ancora una volta entriamo in un territorio molto delicato, perché occorre definire la fornicazione, termine dal significato poco conosciuto che il greco indica con “pornèia”, cioè prostituzione, fornicazione, lussuria. Da lì vengono “pornèion”, postribolo, e “pornéuo”, esercitare la prostituzione. Tutti queste parole hanno come significato alternativo attività idolatre che nel nostro caso non rilevano, ma tornano utili per identificare altri contesti. Il termine “fornicazione” trae la sua origine anche dalla parola “fornix”, cioè “fornice”, vale a dire la luce di un arco o di una porta monumentale, sotterraneo a volta sotto le quali le prostitute erano solite sostare nell’attesa di clienti, ma anche bordello, quindi allusione a rapporti sessuali con persone diverse dal proprio marito o dalla propria moglie, quindi, per estensione, un’attività sessuale disordinata. L’ebraico ha zenùt, riferito a rapporti incestuosi.

Certo Gesù qui parla della donna perché il tema era il divorzio ebraico che era prerogativa dell’uomo, ma adattata al nostro tempo vale per entrambe le parti: nel caso della fornicazione, che comprende anche l’adulterio, abbiamo un colpevole e un innocente, cioè chi la pratica all’insaputa dell’altro e, così facendo, rompe, rovina quell’equilibrio della “sola carne” realizzatosi a suo tempo col matrimonio. A quel punto, la parte innocente è libera davvero di attuare le pratiche per il divorzio e quindi, se lo vuole, risposarsi proprio perché non è stata lei a rompere l’istituzione matrimoniale. Stiamo parlando di questioni legali quali erano quelle portate a Gesù all’epoca dai farisei e dell’interpretazione delle due scuole.

Resta quindi aperto il problema di definire la fornicazione, perché se fosse sinonimo di adulterio la lettera di divorzio non avrebbe avuto senso in quanto la donna sarebbe stata condannata per lapidazione unitamente al proprio correo, se trovato: non trovo altri termini se non assimilando la fornicazione a pratiche estranee al matrimonio che hanno appunto a che fare con una sua contaminazione che, proprio in quanto patto tra due persone e Dio – stiamo parlando di appartenenti al Suo popolo sia prima che dopo la dispensazione della Grazia – lo rende nullo davanti a Lui.

La fornicazione è disordine e sconvolgimento così come la prostituzione che, benché si caratterizzi con atti sessuali di vario tipo e natura, non può essere considerata adulterio perché altrimenti le prostitute in Israele sarebbero state tutte lapidate, mentre erano, per usare un eufemismo, ai margini della società. La stessa Legge di Mosè (Deuteronomio 23.17) proibisce decisamente la prostituzione sacra, ma nulla dice di quella “normale” mentre lo stesso libro, in 22.21, afferma che debba essere lapidata la giovane che, al momento del matrimonio, risulta non vergine. Si tratta di un tema che a tutt’oggi non ho saputo completamente risolvere nonostante la consultazione di molti testi e pareri.

A questo punto la conclusione di Gesù è la stessa di 5.32, “Chiunque manda via sua moglie, tranne che nel caso di fornicazione, commette adulterio; ed altresì chi sposa colei che è mandata via, commette adulterio”. Non potrebbe essere diversamente perché, nel caso di un unione non inquinata dalla fornicazione, i due sono e restano una sola carne davanti a Dio indipendentemente dai motivi che producono il divorzio. Stessa cosa la riporta Luca in 16.18 a conferma che il principio è valido per tutti e non si tratta solo di una risposta alla dottrina ebraica sul matrimonio.

Se guardiamo però al divorzio, vediamo che non è permesso allo scopo di sposare una terza persona, ma può realizzarsi a condizione che le parti si astengano da altre unioni. Sarà l’apostolo Paolo a definire il tema scrivendo: “Agli sposati ordino, non io, ma il Signore: la moglie non si separi dal marito. E qualora si separi, rimanga senza sposarsi, o si riconcili col marito. E il marito non ripudi la moglie” (1 Corinti 7.10). Da notare che nel testo originale si parla ancora una volta di “uomo” e “donna” e che ciò che è scritto per uno vale anche per l’altro.

Resta il fatto che il divorzio è e rimane uno squilibrio che interviene, quando non causato da una “unione illegittima”, come risultato di una serie di circostanze non ponderate a suo tempo che finiscono per penalizzare e inquinare profondamente un rapporto il più delle volte gestito lasciandolo lo Spirito fuori dalla porta.

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15.13 – MATRIMONIO E DIVORZIO I/III (Matteo 19.3-9)

15.13 – Matrimonio e divorzio I/III (Matteo 19.3-9)

 

3Allora gli si avvicinarono alcuni farisei per metterlo alla prova e gli chiesero: «È lecito a un uomo ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo?». 4Egli rispose: «Non avete letto che il Creatore da principio li fece maschio e femmina 5e disse: Per questo l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne? 6Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto». 7Gli domandarono: «Perché allora Mosè ha ordinato di darle l’atto di ripudio e di ripudiarla?». 8Rispose loro: «Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli; all’inizio però non fu così. 9Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di unione illegittima, e ne sposa un’altra, commette adulterio».

 

Dopo aver sostato per un certo tempo sul Vangelo di Luca, occorre affrontare un tema che, dal racconto degli altri sinottici, sappiamo fu affrontato da Gesù in quello stesso giorno, ma prima della presentazione dei bambini. Per quanto al tema del matrimonio e del divorzio siano stati dedicati diversi capitoli a commento di Matteo 5.31-32, torniamo sull’argomento data la sua vastità e il fatto che Gesù stesso ricorda il tema anche se dietro domanda di “alcuni farisei per metterlo alla prova”.

Prima considerazione va fatta richiamando le differenze tra il sermone sul monte e questo episodio:  allora Gesù, ammaestrando la folla, fece un discorso a 360 gradi fra i molti princìpi dati per scontati dal popolo e i suoi capi e la Verità secondo Dio: in quell’episodio, infatti, contiamo complessivamente dodici “ma”, due “eppure”, sette “invece” e quattordici “Io vi dico” per un totale di 35 (5×7) nuovi enunciati. Nel sermone sul monte, poi, l’insegnamento sul matrimonio fu libero, nel senso che fu Gesù a parlare in base a ciò che la folla aveva bisogno di ascoltare, mentre in questo episodio abbiamo una risposta a una questione posta con un fine preciso, quello di “metterlo alla prova”, o “tentarlo” come altri traducono.

In pratica i farisei volevano costringere Gesù a dichiarare valida una delle teorie delle due scuole rabbiniche più autorevoli del tempo, quella di Shammai e di Hillel che, ricordiamo, davano interpretazioni opposte a Deuteronomio 24.1 che recita: “Quando un uomo ha preso una donna e ha vissuto con lei da marito, se poi avviene che ella non trovi grazia ai suoi occhi, perché egli ha trovato in lei qualche cosa di vergognoso, scriva per lei un libello di ripudio e glielo consegni in mano e la mandi via dalla casa”.

La scuola di Shammai, per “qualche cosa di vergognoso”, sosteneva che altro non poteva essere se non l’adulterio, cioè la contaminazione del corpo della donna (o dell’uomo) tramite un rapporto sessuale con persona diversa dal proprio marito; per l’altra scuola, invece, il “vergognoso” poteva avere più significati in quanto il testo della Torah non specificava di cosa effettivamente si trattasse. Allora, come ricordato quando trattammo l’argomento in Matteo 5, l’interpretazione di quel passo era in senso molto più largo, riferito a qualunque cosa fosse sconveniente nella vita familiare o civile: una minestra bruciata, un brutto carattere o addirittura, come sosteneva Rabbi Aqiba, il disagio provato dal marito di una moglie meno bella di un’altra donna.

Ora che questi farisei appartenessero a una scuola piuttosto che all’altra, non rileva perché comunque, se Gesù avesse dato ragione a una delle due, avrebbero potuto accusarlo di faziosità, di rigidità o tolleranza, schierandosi immediatamente dalla parte della scuola ritenuta in torto. L’ignoranza da sempre è astuta, mai intelligente.

A questo punto vediamo che Gesù si esenta dal giudicare il risultato delle riflessioni dei vari maestri, ma fa l’unica cosa possibile e cioè va alle origini, dove tutto cominciò e si svolgeva nella perfetta dispensazione dell’innocenza nella quale vivevano i nostri progenitori, citando Genesi 1.27 in cui leggiamo “E Iddio fece l’uomo a sua immagine – spirituale –; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò.”, verso che riassume tutte le fasi della sua creazione, Adamo prima, poi Eva, tratta da lui.

 

Ecco, già qui c’è  molto da ragionare perché quel “li” allude all’essere umano integro, vale a dire che se prima c’era Adamo da solo e poteva definirsi “uomo”, “ish”, lo stesso avvenne poi, con la donna, “isha” non creata dalla polvere della terra, ma formata: “Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e rinchiuse la carne al suo posto” (Genesi 2.21). Quella fatta sull’uomo fu la prima operazione chirurgica della storia in cui Dio fu anche l’anestesista e il rianimatore. Da allora i termini “uomo” e “donna”, che per noi sono due parole diverse ma come abbiamo visto in ebraico hanno la stessa radice, furono comunque riuniti sotto il primo, “a immagine di Dio lo creò”, cioè senza nulla di diverso a parte il sesso e il differente criterio di formazione. Tutte le altre caratterizzazioni, le divisioni, il reciproco fidarsi o meno, il voler dominare e interferire l’uno sull’altro spesso senza capirsi, avverranno dopo, come conseguenza dell’aver trasgredito all’unico comandamento ricevuto.

A parte le infinite considerazioni fattibili che rendono molto arduo uno studio sul tema, le scuole rabbiniche riguardo al matrimonio usano il termine “qiddushìm”, cioè “consacrazione”, plurale di “qiddùsh” che indica alcuni riti come ad esempio il lavaggio di mani e piedi richiesto ai sacerdoti prima di fare servizio nel luogo Santo, o la consacrazione del sabato. Già quindi la consacrazione è qualcosa che dura per sempre, un patto fra l’uomo e il Creatore, quindi che non coinvolge soltanto i due esseri umani che si donano vicendevolmente.

Così comprendiamo proverbi 30.18-20, “Tre cose mi sono difficili, anzi quattro, he io non comprendo: il sentiero dell’aquila nell’aria, il sentiero del serpente sulla roccia, il sentiero della nave in alto mare, il sentiero dell’uomo in una giovane”.

“Qiddushìm”, plurale di “qiddùsh”, è usato solo per  indicare il matrimonio che, negli scritti cosiddetti veterotestamentari, si suole definire anche con l’espressione giuridica “essere di”. Quindi, parlando di tradizione e di testo, se Gesù si rifà al verso di Genesi, altrettanto fecero gli antichi rabbini prima che si analizzasse il problema del divorzio.

 

Ancora, Gesù prosegue nella citazione di Genesi e attribuisce a Dio, e non ad Adamo come alcuni intendono, le parole “Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una stessa carne”. Anche qui si dovrebbe aprire un capitolo enorme, perché la Bibbia non ci dà delle indicazioni su come si concreta il matrimonio se non che questo si ufficializza una volta per tutte con la penetrazione, unico modo per diventare “una sola carne”.

Il problema però, guardando come questo si dipana nel Pentateuco o Torà, è che ci fu una evoluzione riguardo al modo di gestirlo, come si può riassumere con le parole di Maimonide, vissuto nel 1100 d.C.: “Prima che venisse data la Torà un uomo incontrava una donna per strada e, se lui e lei – attenzione – erano d’accordo che lui la prendesse, la portava a casa da lui e si univa a lei riservatamente e lei diveniva sua moglie. Quando fu data la Torà al popolo d’Israele fu ordinato che un uomo che volesse sposare una donna dovesse prima acquistarla davanti a testimoni, e dopo diventasse sua moglie”.

Scorrendo il libro della Genesi, anche nella dispensazione della coscienza, vediamo che inizia a diffondersi l’usanza di intendere il matrimonio come un atto formale sancito da un acquisto, cioè l’uomo pagava una famiglia per avere da questi una donna. Tracce di questa usanza sono molte, come quella di Genesi 34.12 nell’episodio di Dina e Sichem, quando leggiamo “Alzate pure molto a mio carico il prezzo nuziale e il valore del dono; vi darò quanto mi chiederete, ma concedetemi la giovane in moglie”. Chi conosce l’episodio sa che, a monte, vi è una violenza carnale, ma la frase citata rimane come testimonianza dell’uso di quel tempo (v.2).

Da qui iniziò a diffondersi il termine “prendere una donna”, tradotto in alcune versioni come “sposare” per brevità, ma non correttamente. Tra l’altro il testo di Deuteronomio 22.13 potrebbe aiutare a individuare il “qualcosa di vergognoso” su cui si interrogavano le due scuole citate all’inizio su 24.1, dove anche lì il “prendere” ha lo stesso significato: “Se un uomo prende una donna e, dopo essersi unito a lei, la prende in odio, le attribuisce azioni scandalose e diffonde sul suo conto una fama cattiva, dicendo: «Ho preso questa donna, ma quando mi sono accostato a lei non l’ho trovata in stato di verginità…».

 

Occorre però una precisazione fondamentale, perché vero è che il matrimonio era un contratto, che spesso erano le famiglie a organizzarlo, quanto dichiarano i rabbini moderni su questa antica usanza distrugge un’opinione diffusa, della quale mi sono appropriato per lungo tempo, che vede il tutto organizzato a prescindere dal fatto che i due futuri sposi fossero o meno d’accordo. Se le scuole di Hillel e Shammai dibattevano anche sull’importo della somma da versare quando l’uomo “acquistava” una donna dalla sua famiglia, perché l’atto matrimoniale fosse valido non era sufficiente il semplice versamento della somma, ma era necessario – attenzione – il pieno consenso degli sposi. Il carattere di acquisto era necessario perché senza di esso il matrimonio non poteva avere una struttura giuridica, ma la base era che fra il futuro marito e la futura moglie ci fosse consenso, progettualità comune, armonia e volontà di crescita spirituale.

Ma c’è molto di più perché l’insegnamento dei maestri al riguardo sosteneva che il matrimonio può essere descritto come una associazione fondata su un interesse reciproco. Maimonide, chiaramente venuto dopo il tempo in cui Gesù parlò ai farisei, vede questa istituzione come un’unione allo scopo di condividere problemi, piaceri, dispiaceri e gioie perché quando vengono condivise le gioie si moltiplicano e i dolori si dimezzano. Poi, il matrimonio è visto come la ricerca di ideali per i quali i coniugi sono disposti a sacrificarsi e solo quando c’è questa intesa è possibile creare una famiglia. Ci vuole poco a dedurre che, mancando questi presupposti, un matrimonio non ha ragione di essere ed è destinato alla rovina esattamente come “la casa costruita sulla sabbia” o il “regno diviso in parti contrarie”.

Di questo non troviamo traccia esplicita nella Bibbia, ma il fatto che gli ebrei, ai quali credo competa l’ultima parola in quanto detentori di un Libro che fu loro “dato” ed è studiato da millenni, si esprimano così su questo tema non può lasciare indifferenti. Allora, partendo da questo punto di armonia e condivisione necessaria, capiamo meglio perché, idealmente, dovesse essere e fosse un vincolo sacro.

Una triste nota a margine è che, purtroppo, mentre nel campo scientifico esistono testi che ribadiscono un concetto che è “quello”, studiare la Scrittura proficuamente non è facile nel senso che tutto va bene se un argomento viene affrontato su un solo testo, ma nel momento in cui lo si “parallelizza” si incontrano contraddizioni o variazioni sul tema a volte incompatibili tra loro. E questo affatica e snerva al tempo stesso chi studia e vorrebbe scavare con strumenti idonei e non con piccozze spuntate, per altro non da lui. Sapere per bocca di un rabbino che il matrimonio per procura indipendentemente dalla volontà degli sposi in Israele non era cosa praticata, mi ha costretto ad aggiornare molti dei dati che avevo costruito sul tema, sbagliando, per quanto in modo marginale. Il problema è che però, come credenti, non possiamo avere le idee vaghe, ma devono essere il più possibile nitide.

Riporto un passo tratto da un breve trattato al riguardo: “Formare una coppia ben assortita è difficile come aprire le acque del Mar Rosso e richiede l’infinita saggezza di Dio stesso. Per questo motivo, benché da un certo punto di vista il matrimonio sia predeterminato, l’individuo deve scegliere saggiamente. Il matrimonio non dovrebbe essere contratto per denaro, ma un uomo dovrebbe scegliere una moglie che sia di temperamento mite ed abbia tatto, che sia modesta ed industriosa e che risponda ad altri requisiti: di rispettabilità della famiglia, di età e stato sociale simili, di bellezza e di scolarità del padre”.

 

Tornando al tema e nella storia descritta dal Pentateuco, partiamo da un “principio” in cui l’essere “una sola carne” doveva durare per tutta la vita, ma poi troviamo bigamia, concubinato e infine il divorzio causato da “qualcosa di vergognoso” interpretato come sappiamo: perché? La risposta la dà Gesù: “Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, all’inizio però non fu così”.

Certo Mosè ha “permesso”, per ordine e per parola di Dio, non certo autonomamente, ma ciò non toglie che sia necessaria una importante domanda perché esiste apparentemente una contraddizione fra quanto ordinato alla creazione e quanto letto qui sul divorzio, ma non è così o, meglio, così sembrerebbe se si prendono le dichiarazioni di Dio come qualcosa di granitico, impossibile a non subire variazioni quando è Lui, a differenza di noi, perfetto proprietario di se stesso, ad emanare, dichiarare norme che, in quanto nuove, sostituiscono o modificano più o meno leggermente quelle precedenti.

 

“Per la durezza dei vostri cuori” dove il cuore è la sede dell’anima e quindi della capacità o incapacità di fare una cosa. Il divorzio è parte della Legge, la stessa che sancisce la fedeltà fra uomo e donna e dà la morte in caso di adulterio ma permette che, in caso di convivenza impossibile, sia consentito redigere un documento che dia la possibilità alle due parti di interrompere legittimamente il rapporto e di crearne uno nuovo. Credo che senza il divorzio gli adultérii si sarebbero moltiplicati e diffusi e che la Legge, senza il divorzio “per la durezza dei vostri cuori”, non avrebbe potuto essere definita con le parole di Deuteronomio 30.11-14, “Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da te. Non è nel cielo, perché tu dica: «Chi salirò per noi in cielo, per prendercelo e farcelo udire e lo possiamo eseguire?». Non è al di là dal mare, perché tu dica: «Chi attraverserà per noi il mare per prendercelo e farcelo udire e lo possiamo eseguire?», Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica”.

Ricordiamo le parole precedenti: “Le cose occulte appartengono al Signore, nostro Dio, ma le cose rivelate sono per noi e per i nostri figli, per sempre, affinché pratichiamo tutte le parole di questa legge” (39.28).

 

E in tutto questo trattare il divorzio, arriviamo al punto finale, “Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di unione illegittima – altri traducono più propriamente “fornicazione” – e ne sposa un’altra, commette adulterio” (v. 9). Fu sempre così? Certamente no. Fu così da quando Gesù parlò in quel modo? Certamente sì, perché è Lui la Parola e dichiara se stesso alla luce della dispensazione della Grazia, sul cui inizio ufficiale potremmo stare a discutere per mesi: quando nacque, quando iniziò a predicare? Quando morì? Quando risorse, ascese al cielo, o quando lo Spirito Santo fu sui centoventi?

Il “documento di divorzio”, poi, come ha scritto un fratello, “era inteso a proteggere la donna innocente contro il capriccio o la licenza di un cattivo marito, poiché quella scritta non era un’accusa di infedeltà, ma piuttosto un certificato di innocenza, come risulta dal fatto che tale scritta si consegnava alla moglie medesima, mentre la legge prescriveva che l’adultera fosse messa a morte”.

 

Siamo così giunti alla fine di questa prima parte in cui abbiamo tratteggiato in una linea lieve, con tutti i limiti dello spazio a disposizione, il matrimonio e il divorzio dai testi antichi che abbiamo, per capire perché Gesù abbia risposto così ai farisei che lo interrogavano. Al prossimo capitolo la responsabilità di commentarle. Amen.

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15.12 – GESÙ BENEDICE I BAMBINI (Luca 18.15-17)

15.12 –Gesù benedice i bambini (Luca 18.15-17)

 

15Gli presentavano anche i bambini piccoli perché li toccasse, ma i discepoli, vedendo ciò, li rimproveravano. 16Allora Gesù li chiamò a sé e disse: «Lasciate che i bambini vengano a me e non glielo impedite; a chi è come loro, infatti, appartiene il regno di Dio. 17In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come l’accoglie un bambino, non entrerà in esso».

 

Luca, dopo l’esposizione della parabola del fariseo e del pubblicano, si collega ai racconti di Matteo e Marco che narrano della disputa, sempre coi Giudei, riguardo al matrimonio e la benedizione dei bambini. È un tema che abbiamo già trattato, ma più con le applicazioni relative alla necessità, da parte dell’uomo che ha accolto il Vangelo, di essere come loro perché “In verità io vi dico, se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli” (Matteo 18.3).

Proseguendo la lettura di Matteo, anche il capitolo 19 ha forti analogie col racconto di Luca perché, subito dopo l’episodio, abbiamo l’incontro col giovane ricco, di cui abbiamo già parlato. Il parallelo di Matteo 19.13-15 ci aiuta a comprendere quanto avvenne: “Allora gli furono portati dei bambini perché imponesse loro le mani e pregasse, ma i discepoli li rimproverarono. Gesù però disse: «Lasciateli, non impedite che i bambini vengano a me; a chi è come loro, infatti, appartiene il regno dei cieli». E, dopo avere imposto loro le mani andò via di là”.

Cerchiamo di concentrarci ora sulla scena: Gesù aveva appena concluso il suo insegnamento, parlando davanti a tutti, gente comune, farisei, pubblicani e peccatori. Tra di loro solo la categoria dei religiosi (ma non tutti) lo disprezzava e odiava, ma quando leggiamo che “gli presentavano anche i bambini piccoli perché li toccasse”, vediamo che le madri presenti gli portavano i loro figli, quelli ancora in fasce o poco più grandi, perché era in uso in Israele condurre i piccoli ai rabbini più importanti perché li benedicessero. Così facendo dimostrano proprio agli avversari di Gesù che, indipendentemente dal fatto che volessero seguirlo o convertirsi o meno, Lo ritenevano molto più autorevole di loro. Ricordiamo le parole dei due discepoli sulla via di Emmaus, che ricordando il loro Maestro lo definirono “profeta potente in parole e in opere, davanti a Dio e a tutto il popolo” (Luca 24.19) e quelle di Giuseppe Flavio, già ricordate all’inizio di questa serie di studi, che scrisse “Ci fu verso questo tempo Gesù, uomo saggio, se pure bisogna chiamarlo uomo: era infatti autore di opere straordinarie, maestro di uomini che accolgono con piacere la verità, ed attirò a sé molti Giudei, e anche molti dei greci. Questi era il Cristo. E quando Pilato, per denunzia degli uomini notabili fra noi, lo punì di croce, non cessarono coloro che da principio lo avevano amato. Egli infatti apparve loro al terzo giorno nuovamente vivo, avendo già annunziato i divini profeti queste e migliaia d’altre meraviglie riguardo a lui. Ancor oggi non è venuta meno la tribù di quelli che, da costui, sono chiamati Cristiani” (Ant. XVIII, 63-64).

Va detto che l’imposizione delle mani era un atto simbolico e non la trasmissione di una sorta di potere magico. Colui che la riceveva, fosse un adulto o un bambino come nel caso di questo episodio, non riceveva altro se non l’approvazione, l’attestazione del fatto che nulla di negativo si frapponeva fra lui e Dio. Imponendo le mani, o “toccando” la persona, si chiedeva che si potesse idealmente trasmettere la volontà di chi agiva in tal senso al fine di porlo in un condizione futura diversa da quella di prima. Portando a Gesù i bambini, quelle madri Gli chiedevano di agire in modo favorevole ai loro figli, nella speranza-certezza che potessero diventare un giorno uomini di Dio.

Imporre le mani a qualcuno, uomo o animale nell’Antico Patto, era un modo per trasmettere ritualmente un’autorità, un dono, ma anche una maledizione. Era un atto formale, valeva come una dichiarazione scritta, un attestato e tutto questo andrebbe praticato ancora oggi nelle Chiese locali nel caso di credenti in cui si distingue un dono, al fine di porlo ufficialmente nelle condizioni di svilupparlo e ricercarlo al meglio: un riconoscimento pubblico. Così fu per Saulo da Tarso, Barnaba, Timoteo e molti altri.

Sappiamo che molti furono guariti toccando Lui o il lembo della sua veste, che impose le mani a molte persone e le guarì (Luca 4.40). Anche l’apostolo Paolo usò questa forma per guarire, ad esempio, il padre di Publio, governatore dell’isola di Malta, episodio in cui leggiamo che “Paolo andò a trovarlo e, dopo aver pregato, gli impose le mani e lo guarì” (Atti 28.8).

Altra considerazione possibile su quelle madri è che non erano animate da un sentimento di superstizione, ma erano consce della differenza che intercorreva fra il Cristo e gli altri uomini che, magari autorevoli tra il popolo a livello religioso, non avrebbero potuto benedire i loro figli con la stessa autorevolezza; da qui possiamo dedurre che tutto questo avvenisse con una certa urgenza e trepidazione, cosa che provocò nei discepoli fastidio perché leggiamo che “li rimproveravano”, convinti anche del fatto che il Suo ministero fosse riservato agli adulti.

Però Marco 10.14 precisa che “Gesù, al vedere questo, si indignò e disse loro…”, quindi ancora una volta furono posti di fronte al fatto che non erano in grado di interpretare correttamente il senso delle cose: certo quei bambini, di età inferiore ai quattro anni come abbiamo ricordato, non avrebbero potuto capire nulla né del peccato, né della necessità di essere salvati, ma erano comunque degni dell’attenzione di Dio talché sempre Marco scrive “E, prendendoli tra le braccia, li benediceva, imponendo le mani su di loro” (v.16). Pensiamo al fatto che non è un caso se proprio Marco, informato da Pietro, scrive queste cose.

E, in merito a questo particolare, penso a quelle creature innocenti, che, senza nulla capire, nulla sapere di ciò che un giorno sarebbero diventate, una volta cresciuti avrebbero appreso di essere stati in braccio e benedetti dalla Parola fatta carne, venuta a dimorare in mezzo a noi. È una piccola cosa, ma che è pervasa d’infinito, ci parla del piano esistente per ognuno di loro (e quindi noi), dello sguardo di Gesù che trapassa il tempo, fatto di secondi e millenni, di attesa e di accoglienza nel suo regno. Per fede quelle donne gli portavano i loro figli e già Lui pregava per loro. Ecco, i discepoli, frapponendosi tra lui e quelli, ancora una volta dimostrarono di pensare secondo la terra e quel che è peggio è che, forse, io avrei fatto altrettanto pensando, in quanto discepolo e operatore fattivo del regno di Dio, di avere fatto già abbastanza e di avere il diritto di riposare.

Invece non si finisce mai di imparare, soprattutto nel campo spirituale: se mi aspetto che il Signore arrivi da una parte, ecco che giunge da quella opposta. Se mi aspetto che si manifesti nelle cose grandi o gravi, eccolo nelle minute, nel dettaglio, nell’assoluto inatteso e le Sue parole, “lasciate” e “non glielo impedite”, riguardano tanto la pratica fisica dell’ostacolare quanto quella mentalità della disapprovazione a priori, la convinzione di sapere ciò che è giusto e sbagliato senza prima riflettere.

I discepoli, che tante volte avevano sentito Gesù parlare di pecore e di “buon pastore” avevano dimenticato che il gregge non è composto solo di animali della stessa età, come ricorda Isaia 40.11: “Come un pastore gli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore madri”. Il bambino quindi non ha bisogno di venire battezzato in quanto, fino a quando non raggiunge l’età delle scelte e non si caratterizza come figlio di Dio oppure no, appartiene già al Suo regno. Sarà poi il tempo a qualificarlo, caratterizzarlo, una volta cresciuto.

Il bambino, prima di diventare autonomo, guarda ogni cosa con stupore e occhi grandi che poi non avrà più. E allo stesso modo il credente, quando viene messo di fronte alle cose di Dio e al progetto che ha per lui.

Il bambino, prima di diventare autonomo, ha bisogno delle cure di genitori preparati (mai abbastanza e imperfetti viste le parole “Se voi, che siete cattivi, siete in grado di dare cose buone ai vostri figli…”) e le accoglie, allo stesso modo il credente deve affidarsi interamente a Lui se desidera imparare, sopravvivere al mondo contaminante e ostile in cui vive. Sarà solo crescendo che, posto di fronte a delle scelte, dovrà decidere da quale parte stare.

E guardando il suo essere indifeso, la sua assoluta necessità di protezione, capiamo quanto sia inevitabile il nostro dipendere da Dio. Il bambino è quindi il metro di paragone fra ciò che siamo e ciò che dovremmo essere nelle nostre dinamiche spirituali.

Il bambino non è certo quello petulante, capriccioso ed egoista che quasi sempre incontriamo, non accuratamente cresciuto da genitori distratti; se mai, quello lo si trova – o si dovrebbe trovare – fuori dalla Chiesa.

E questo chiama in causa un’altra, terribile eventualità, cioè che proprio nella Comunità ci si trovi davanti a degli adulti che in realtà sono bambini mal cresciuti che generano fraintendimenti ed assumono comportamenti molto tristi e disturbanti: inevitabile ricordare la raccomandazione di Paolo ai Corinti, “Non comportatevi da bambini nei giudizi. Quanto a malizia, siate bambini, ma quanto a giudizi, comportatevi da uomini maturi” (1a, 14.20).

Credo sia una frase che possa istruire molto, perché la crescita cristiana nella Parola porta a rimanere bambini quanto alla dipendenza da Dio, ma a una maturità, che solo la pratica di Essa può dare, per valutare accuratamente tutto quanto ci si presenta davanti, sia un evento personale, un consiglio da dare, una persona che ci si propone. Da qui la necessità che l’uomo ha del coltivare il proprio interno mantenendo la sua caratteristica di bambino da un lato, ma dall’altro procedere a una crescita che in parte proviene dalle esperienze fatte e dall’altra dalla dottrina.

Davide scrisse “Signore, non si esalta il mio cuore né i miei occhi guardano in alto – come quelli del fariseo della parabola da poco esaminata –; non vado cercando cose grandi né meraviglie più alte di me. Io invece resto quieto e sereno; come un bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è in me l’anima mia” (Salmo 131.1,2). Lui, re e uomo di guerra, realizzò questa condizione e i fratelli che ci hanno preceduto, compresa la necessità di dare dei riferimenti scritturali agli episodi della Bibbia e del Vangelo, inserirono questi versi connettendoli proprio al passo di Paolo ai Corinti che abbiamo ricordato.

Abbiamo poi l’ultima frase, “Chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso”: non necessariamente il Vangelo dev’essere accettato in toto, passivamente e senza dubbi. Se c’è scritto “venite e discutiamo insieme” un motivo c’è e riguarda proprio il confronto fra Dio e l’uomo, ma dev’essere sempre affrontato con la coscienza di chi siamo noi e di chi è Lui. Un bambino accoglie qualcosa senza riserve, senza anteposizioni di qualsiasi natura, non ha preconcetti, non è ancora influenzato dalle aspirazioni materne o paterne su di lui, quando presenti.

Ecco perché si tratta di un regno che, per molti, è distante. Ecco perché in quel regno, di questi molti non entreranno mai. Amen.

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15.11 – IL FARISEO E IL PUBBLICANO II/II (Luca 18.9-14)

15.11 – Il fariseo e il pubblicano I/II (Luca 18.9-14)

 

9Disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: 10«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. 11Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: «O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. 12Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo». 13Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: «O Dio, abbi pietà di me peccatore». 14Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

 

La volta scorsa abbiamo tratteggiato il comportamento del Fariseo e l’opinione che aveva di se stesso e che quindi Dio doveva avere di lui. Se si era spinto fino al confine tra l’atrio degli Uomini e il Santuario, il pubblicano no. Leggiamo “Fermatosi a distanza” o, come altri traducono, “stando lontano”. Se consideriamo che senz’altro vi erano altre persone, ciascuna delle quali aveva occupato un posto preciso, l’atteggiamento dei due uomini è ancora più marcato perché il primo si pone davanti a tutti, il secondo all’ultimo posto, forse addirittura prima dell’ingresso del cortile, termine che ci dice molto se pensiamo all’insegnamento di Gesù su dove collocarsi.

E ciò che suscita il nostro interesse è che la posizione del pubblicano non è calcolata, ma riflette il suo stato d’animo, l’opinione che aveva di sé in rapporto a Dio: sta lontano conscio della propria distanza da Lui. Ha presente le sue azioni, i suoi pensieri, il suo non essere degno nell’eventualità che cercasse, nonostante tutto, di migliorarsi, ma senza successo. È conscio della sua incompatibilità, ma sa che in quanto israelita può essere ascoltato e non prega secondo un formulario prestabilito, ma guardandosi dentro non può che dire “O Dio –  parole con le quali anche il fariseo inizia a pregare – abbi pietà di me, peccatore”. Sono sette, anche in traduzioni diverse. Entrambi gli uomini partono allo stesso modo, ma prendono subito direzioni diametralmente opposte.

Prima di esaminarle notiamo che “non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo”, particolare importantissimo perché denota il suo profondo senso di inadeguatezza: guardare verso il cielo, luogo dell’irraggiungibile, di ciò che è alto, per lui non è neppure ipotizzabile; possiamo dire che in un certo senso, così facendo, teme di compiere un atto di presunzione essendo il cielo, o meglio “i cieli” la reale dimora, dimensione di Dio.

Ricordiamo le parole di Davide in Salmo 40.12.13, “Non rifiutarmi, Signore, la tua misericordia; il tuo amore e la tua fedeltà mi proteggano sempre, perché mi circondano mali senza numero, le mie colpe mi opprimono e non riesco più a vedere: sono più dei capelli del mio capo, il mio cuore viene meno”. Davide qui si dichiara oppresso dalle proprie colpe che lo hanno ridotto a uno stato di lontananza dal Signore che gli ha prodotto cecità spirituale, cioè non è più in grado di distinguere ciò che è bene da ciò che è male non a livello di conoscenza legale, ma di pratica, di sentire spirituale. Come re d’Israele, avrebbe potuto proseguire ignorando il suo stato perché nessuno avrebbe osato chiedergliene conto, ma avendo YHWH come unico punto di riferimento sapeva bene di essere inadatto a proseguire nella sua vita senza l’amore e la fedeltà di Colui che pregava.

Analogo sentimento lo provava Esdra, il sacerdote che guidò il ritorno degli ebrei dall’esilio babilonese: “Mio Dio, sono confuso, ho vergogna di alzare la mia faccia verso di te, mio Dio, perché le nostre iniquità si sono moltiplicate fin sopra la nostra testa, la nostra colpa è grande fino al cielo”, e Daniele, in 9.7, “A te conviene la giustizia, o Signore, a noi la vergogna sul volto”.

Questo è l’unico modo che può avere un uomo per venire ascoltato da Dio quando acquisisce conoscenza della propria condizione spirituale, se in lui dimorano l’onestà e la ragione. Attenzione, perché si tratta di una condizione ben diversa dal fatto che, in quanto cristiani, abbiamo libero accesso al trono della Grazia del Padre! Qui si tratta di quell’essere nostro umano attaccato inevitabilmente alla terra con tutto ciò che ne consegue perché la nostra natura è quella di peccatori, per quanto perdonati.

Pensiamo all’apostolo Giovanni, “il discepolo che Gesù amava”: lo aveva seguito con gli altri, era stato testimone di miracoli che altri non videro assieme a Pietro e Giacomo, aveva faticato per lo sviluppo della Parola di Dio, si trovava relegato all’isola di Patmos, da Gesù aveva ricevuto si può dire ogni cosa, eppure quando se lo trovò davanti glorificato in tutta la Sua potenza, scrive “Appena lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto”. E tale sarebbe restato se non leggessimo “Ma egli, posando su di me la sua mano destra, disse: «Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo, e il Vivente. Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi” (Apocalisse 1.17).

La sua esperienza non fu l’unica, ma a parte l’apostolo Paolo con la visione sulla strada di Damasco, anche i profeti dell’Antico Patto provarono un profondo, doloroso senso di inadeguatezza quando furono portati in spirito davanti a Dio: ad esempio Isaia in 6.5 “Ohime! Io son perduto, perché io sono un uomo dalle labbra impure e abito in mezzo a un popolo dalle labbra impure; eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti”.

Qui, tra l’altro, abbiamo anche una delle ragioni per le quali Nostro Signore prese una forma umana a parte il Sacrificio che avrebbe dovuto compiere di se stesso: “Chi ha visto me, ha visto il Padre”, senza timore perché potesse salvarsi, in forma umana, cioè perfetto in un corpo imperfetto. Anche qui possiamo distinguere l’amore portato al suo livello più elevato perché tutta la sua vita fu caratterizzata da questo, incessantemente.

Dal comportamento del pubblicano emerge non solo il fatto che, per riconoscersi peccatore, doveva essere onesto al contrario dell’altro personaggio, ma che Dio lo beneficiava delle sue attenzioni: “Davanti a te poni le nostre colpe, i nostri segreti alla luce del tuo volto” (Salmo 50.8). A quell’uomo non interessava né l’opinione che i suoi simili avevano di lui, né il contegno che eventualmente poneva nella società del tempo, ma sapeva che ogni giorno, ogni istante della sua vita, sopra di lui, esisteva Uno che aveva ben presente i suoi comportamenti, ne valutava pensieri, parole e azioni e a questo giudizio non poteva sfuggire.

Da qui la sua preghiera, la più breve riportata in tutta la Bibbia, che racchiude il distillato di una vita, di un giorno o di cent’anni poco importa.

Poi, accanto all’incapacità di alzare gli occhi al cielo, abbiamo il battersi il petto, segno esteriore di pentimento, termine ebraico Teshuvah che letteralmente significa “ritorno”, lo stesso del figlio prodigo che, appunto, torna al padre non perché gli conveniva secondo un’ottica mondana, perché pentito di tutto il suo agire.

Credo sia da citare parte della preghiera di Salomone quando fu edificato il Tempio: “Anche lo straniero, che non è del tuo popolo Israele, se – notare bene la condizione – viene da una terra lontana a causa del tuo nome, perché si sentirà parlare del tuo grande nome, della tua mano potente e del tuo braccio teso, se egli viene a pregare in questo tempio, tu ascolta nel cielo, luogo della tua dimora – ecco perché il pubblicano non osava alzarvi gli occhi – e fa’ tutto quello per cui ti avrà invocato lo straniero, perché tutti i popoli della terra conoscano il tuo nome, ti temano come il tuo popolo Israele e sappiano che il tuo nome è stato invocato su questo tempio che io ti ho costruito” (1 Re 8.41-43).

Il pubblicano, che forse questi versi non conosceva, sapeva comunque che, se da un lato non poteva pretendere nulla, dall’altro poteva chiedere a Dio di avere pietà di lui. Con il petto che si batteva certo non formalmente e per ritualità, esternava pentimento e volontà di essere rinnovato conscio dell’impossibilità di poterlo fare coi propri mezzi. Le sue parole sono associabili a quelli del padre di quel ragazzo epilettico, “Io credo, Signore, aiuta la mia incredulità” (Matteo 9.24)

In pratica: il pubblicano avverte dentro di sé tutta la sofferenza della distanza che il peccato creava tra lui e il Creatore che non conosceva ma che sapeva esistere, ma il fariseo proprio coi contenuti della sua preghiera, la stabilisce perché non è possibile alcun dialogo con Dio senza avere presente un principio già noto agli antichi Padri, cioè “Ricòrdati che Dio è in cielo e tu sulla terra! Perciò devi pesare le tue parole” (Qeèlet 5.1): solo attraverso la consapevolezza di essere una parte insignificante, infinitesimale del creato, per giunta impura, può domandare l’accesso al trono della Grazia, al confronto con Dio, e questo vale tanto per l’Antico che per il Nuovo Patto.

Precede il testo citato, nella traduzione del Diodati, “Guarda il tuo piede – cioè fai attenzione ai tuoi percorsi – quando tu andrai nella casa di Dio – il Tempio –. Ed avvicinati per ascoltare, anziché per dare quello che danno gli stolti, cioè sacrificio: poiché essi, facendo il male, non però se ne accorgono”.

In pratica, le parole del pubblicano, profondamente sentite, rivelano che lui aveva capito molto più del fariseo, con tutta la sua scienza religiosa e tradizione.

A questo punto le parole di Gesù chiudono l’episodio: “Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato – cioè perdonato –, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà salvato”, perché “Egli umilia l’alterigia del superbo, ma soccorre chi ha gli occhi bassi” (Giobbe 22.29), oppure “L’orgoglio dell’uomo ne provoca l’umiliazione, l’umile di cuore ne ottiene onori” (Proverbi 20.23).

Perché l’umile avrà sempre una via d’uscita che gli sarà indicata, al contrario dell’orgoglioso che ne vedrà sempre e soltanto una, quella che lui stesso avrà chiuso. Amen.

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15.10 – IL FARISEO E IL PUBBLICANO I/II (Luca 18.9-14)

15.10 – Il fariseo e il pubblicano I/II (Luca 18.9-14)

 

9Disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: 10«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. 11Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: «O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. 12Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo». 13Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: «O Dio, abbi pietà di me peccatore». 14Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

 

Questa parabola, una delle più note del Vangelo e anche una delle più commentate, ha una particolarità espressa nella dedica del verso 9: “per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri”. Mentre gli altri evangelisti inquadrano le parabole che Gesù espone a volte specificando il luogo o i destinatari (popolo o discepoli), Luca introduce l’argomento con parole sue, come ad esempio abbiamo visto con la parabola del giudice iniquo (“sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai”, 18.1) o quella delle dieci mine, ancora da analizzare: “Disse ancora una parabola, perché erano vicini a Gerusalemme ed essi pensavano che il regno di Dio dovesse manifestarsi da un momento all’altro” (19.11). Quindi, nell’esposizione delle parabole di Gesù, c’è sempre una dedica e uno scopo preciso affinché la gente possa riconoscersi e meditare.

La parabola del fariseo e del pubblicano è efficace perché pone a confronto due posizioni, due mentalità diametralmente opposte, la prima delle quali è purtroppo presente allora come oggi in molti credenti che, come i farisei del tempo, si credono superiori agli altri e li guardano dall’alto in basso. Per costoro valgono le parole di Romani 12.3 in cui l’apostolo Paolo scrive “Non valutatevi più di quanto conviene, ma valutatevi in modo saggio e giusto, ciascuno secondo la misura di fede che Dio gli ha dato”. Disprezzare gli altri è la conseguenza inevitabile della presunzione che porta a tenere l’altro in nessuna considerazione senza far caso alle qualità che può avere; l’esatto contrario di quanto leggiamo in Filippesi 2.3, “Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiore a se stesso”. Ecco perché la parabola ha valore universale nel tempo e coinvolge tutti, certo non solo i due protagonisti e le categorie storiche che rappresentano.

Nel corso di questi scritti molti dati abbiamo portato sui farisei, sul loro formalismo religioso esasperato, camuffato da un sapere fine a sé stesso che li portava a “filtrare il moscerino e ad inghiottire il cammello” (Matteo 23.24), poche sui pubblicani, categoria che non subì mai rimproveri  da Gesù come la prima.

Costoro avevano in appalto, dal governo romano al quale pagavano un fisso annuale, la riscossione delle imposte. L’esazione delle entrate era stabilita dalla legge romana ed era inferiore all’incasso reale previsto, per cui il guadagno dei pubblicani consisteva nel tenere per sé la somma eccedente e spesso, per aumentarla, cercavano di far versare ai contribuenti più di quanto dovuto arrivando a fare delle vere e proprie estorsioni. Il termine “pubblicano” nei Vangeli indica sia l’appaltatore, come ad esempio Zaccheo, ma molto più spesso i semplici esattori, che dipendevano da chi aveva ufficialmente l’appalto. Sappiamo che costoro venivano sempre associati ai “peccatori” perché mal considerati e invisi alla società che li vedeva come dei venduti all’occupante pagano; non parliamo poi dell’opinione che dovevano avere di loro i farisei, che se disprezzavano gli israeliti non appartenenti alla loro categoria, dovevano odiare profondamente coloro che, riscuotendo tasse secondo loro non dovute – ricordiamo la domanda sulla legittimità della riscossione del tributo a Cesare posta a Gesù – le derubavano ai loro correligionari e al Tempio.

La prima sottolineatura possibile è sulle prime parole, “Due uomini salirono al tempio a pregare”, che istintivamente può suscitare in noi un sentimento di comunione sia perché capiamo il loro impulso, sia perché viene spontaneo considerarli fratelli tra loro, uniti almeno nel sentimento della preghiera perché appartenenti allo stesso popolo di Dio. Queste due persone percorrono più o meno il medesimo tratto di strada, compiono lo stesso sforzo del salire che non farebbero se non ne avvertissero il bisogno. I due uomini “salgono” perché hanno bisogno di farlo, perché la preghiera in casa propria non basta e il Tempio, allora, era la dimora di Dio che stava nel “Luogo santissimo” in cui, come sappiamo, poteva accedere solo il Sommo Sacerdote una volta all’anno.

I due quindi arrivano al Tempio, superano il Cortile del Gentili, quello delle Donne ed entrano nell’altro, degli Uomini, e lì si fermano perché oltre non potevano andare. Il Fariseo percorre tutto quel cortile, giunge davanti al Luogo Santo e lì si ferma, il pubblicano invece leggiamo “fermatosi a distanza”, quindi dal fariseo e dal Santuario. Il primo, rispettoso dei ruoli tra l’essere fariseo e sacerdote, non invade il luogo a loro riservato, ma va fino al limite estremo a lui consentito, come siamo autorizzati a pensare dalle parole “stando in piedi” che, se si riferissero a una mera posizione, non avrebbero senso perché tutti, indipendentemente dalla classe sociale, pregavano in quel modo, quindi anche il pubblicano.

“Stando in piedi” indica allora non la posizione del corpo, ma il contegno, l’atteggiamento, mentre “in disparte”, contrariamente a quanto potrebbe apparire, non intende collocare la persona ai margini del cortile, ad esempio vicino a una colonna o a un muro, ma semplicemente che la sua preghiera fu muta, “tra sé” come propriamente traduce una sola versione, quella di don Emilio Ottaviano.

Ecco allora che già qui abbiamo un primo indicatore di ciò che animava i due personaggi avanti che iniziassero a parlare: il fariseo era colui che, secondo lui conoscendo la Scrittura e praticando la Legge, aveva pieno diritto a stare “davanti”, ad “avere i primi posti”, come dirà Gesù in un altro contesto; il pubblicano non sa dove stare, al di là del fatto che, essendo un uomo, poteva avere accesso a quel settore del Tempio. Ma si ferma “a distanza”, cioè appena all’ingresso, evidentemente non sentendosi degno di avvicinarsi, ma come vedremo avendo ben chiaro come pregare.

Vediamo allora la preghiera del fariseo, che inizia con un ringraziamento, il che di per sé sarebbe positivo se non fosse solo una scusa per glorificare se stesso: “Ti ringrazio perché non sono – cioè non esisto, non mi estrinseco – come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri e neppure come questo pubblicano”. La sua preghiera si divide in due parti: nella prima elenca ciò che non è, ma è lui a dirlo e non YHWH a cui si rivolge. Quest’uomo in poche parole si dichiara giusto da se stesso e in quanto tale ritiene di collocarsi a pieno diritto davanti al Luogo Santo, lui puro non solo per il suo non essere “come gli altri uomini”, ma anche per tutte le formalità cui adempie e che elencherà subito dopo.

Il dramma della sua “superiorità” personalmente lo individuo nelle parole “e neppure come questo pubblicano”, segno che si era accorto della sua presenza guardandosi attorno prima di iniziare a snocciolare in preghiera le proprie presunte qualità, oppure fin dalla salita al Tempio. “Neppure come questo pubblicano” è il confronto sprezzante con un’altra creatura di Dio venuta lì per pregarLo, alla quale nega la possibilità di venire ascoltato perché, se il fariseo è puro e separato, l’altro rappresenta l’esatto suo contrario, quindi, secondo quest’ottica, chi merita ascolto è sempre e solo uno, che non può essere altri se non chi è puro, “non come gli altri uomini”.

E qui occorre fare attenzione perché si tratta di una presunzione istintiva e al tempo stesso ragionata, visto come si consideravano i farisei, ma che trova nella Scrittura una forte e chiara opposizione. Così troviamo in Isaia 1.15-17: “Quando venite a presentarvi a me, chi richiede a voi questo, che veniate a calpestare i miei atri? – quelli del Tempio – Smettete di presentare offerte inutili; l’incenso – pure ordinato da Dio – per me è un abominio, i noviluni – i giorni di festa –, i sabati e le assemblee sacre: non posso sopportare delitto e solennità. Io detesto i vostri noviluni e le vostre feste; per me sono un peso, sono stanco di sopportarli. Quando stendete le mani, io distolgo gli occhi da voi. Anche se moltiplicaste le preghiere, io non le ascolterei: le vostre mani grondano sangue. Lavatevi, purificatevi, allontanate dai miei occhi il male delle vostre azioni. Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, cercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova”. Ancora in 58.1,2: “Grida a squarciagola, non avere riguardo: alza la voce come il corno, dichiara al mio popolo i suoi delitti, alla casa di Giacobbe i suoi peccati. Mi cercano ogni giorno, bramano conoscere le mie vie, come un popolo che pratichi la giustizia e non abbia abbandonato il diritto del suo Dio; mi chiedono giudizi giusti, bramano la vicinanza di Dio”.

Si può pretendere di pregare e di essere ascoltati, come questo fariseo, senza avere la minima idea di ciò che si è veramente, di sentirsi superiori perché si appartiene non più a un’etnia quanto a una Chiesa o denominazione, soprattutto perché si osserva tutta la forma che una religione prescrive e, infatti, la seconda parte della preghiera del nostro personaggio si snoda attraverso una serie di osservanze, “digiuno due volte la settimana e pago la decima di tutto quanto posseggo” (v.12): azioni che certo non coinvolgono la persona nel suo intimo, nella coscienza.

La Legge di Mosè prescriveva un giorno solo di digiuno in un anno e ciò avveniva per il giorno dell’espiazione (Levitico 16.29,30; Numeri 19.7) cioè lo yom kippur caratterizzato dall’invio del capro espiatorio, ma col tempo si aggiunsero molti altri digiuni volontari e i farisei, per loro, ne avevano istituito due alla settimana, corrispondenti al nostro lunedì e giovedì. Anche sulla decima la Legge prescriveva si pagasse sul bestiame e i frutti della terra (Numeri 18.21; Levitico 28.30; Deuteronomio 14.22), ma quest’uomo le pagava su “tutto quanto” possedeva, le cose minute come “la menta, l’aneto e il cumino” (Matteo 23.23), tema su cui le scuole giudaiche si interrogavano se fossero dovute o meno. Erbe aromatiche, a volte dalle quali si estraeva un olio di gradevole sapore che aveva proprietà riscaldanti e stimolanti, erano oggetto di decima, ma poi si trascuravano “le cose più gravi della legge, il giudizio, e la misericordia, e la fede” (ibidem)

Concludendo questa prima parte, lo studio delle minuzie aveva trascurato la pietà e la pratica vera dell’essere popolo di Dio, come già sappiamo. Eppure Geremia 2.35 dichiara “Tu dici: «Io sono innocente, perciò la sua ira si è allontanata da me». Ecco, io ti chiamo in giudizio perché hai detto: «Non ho peccato»”. Ricordiamo anche Apocalisse 3.17, la chiesa di Laodicea di cui ci siamo occupati da poco. Questo si verifica quanto la metodologia della carne, sempre la stessa, opprimente, banale, schiavizzante, prende il posto di quella vera, spirituale, unica a dare una prospettiva nel tempo: “C’è gente che si crede pura, ma non si è lavata dalla sua lordura”.

Non credo che a questa gente interessi “lavarsi”: si reputano presentabili, non hanno bisogno di pentirsi di nulla, tantomeno di guardarsi dentro perché, avendo loro stessi, credono di avere ogni cosa perché l’Io è il contenitore totale, perché siamo e l’essere comporta il potere e il volere. Tutto possono, tutto vogliono. E oltre a ciò, pretendono che Dio li ascolti. Amen.

* * * * *

 

15.09 – LA FEDE SULLA TERRA III/III (Apocalisse 3.14-21; Luca 18.8)

15.09 – La fede sulla terra III/III: Apocalisse 3.14-21 (Luca 18.8)

 

17Tu dici: Sono ricco, mi sono arricchito, non ho bisogno di nulla. Ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo”.

 

Presunzione. La stessa che s’impossessa di chi si scorda, quando ha svolto tutti i compiti affidatigli, di appartenere alla categoria dei “servi inutili”. Al limite, credo che siamo autorizzati a prendere atto che qualcuno degli incarichi lo abbiamo svolto con diligenza e ci è riuscito bene, ma non per questo possiamo ritenerci importanti. Come abbiamo letto non tanto tempo fa, l’unico commento possibile è “Abbiamo fatto quanto dovevamo fare” (Luca 17.10).

Invece, dando spazio all’orgoglio, i Laodicesi anziché interrogarsi sulla loro reale posizione spirituale davanti a Dio, si consideravano semplicemente nel giusto secondo la loro ottica, che poi era quella del popolo, convinzione forse derivante dalla realtà che vivevano come appartenenti a una città, appunto ricca, confondendo la vita nel mondo con quella spirituale. Si tratta di una convinzione non certo appartenente solo a loro, ma proveniente da una sopravvalutazione delle possibilità e realtà che avevano, come certi Corinti di cui Paolo dice nella sua prima lettera “Voi siete già sazi, siete già diventati ricchi; senza di noi, voi già siete diventati re” (4.8) per concludere “…mi renderò conto delle parole non già di quelli che sono gonfi d’orgoglio, ma di ciò che veramente sanno fare” (v.19).

Stridono con la posizione dei Laodicesi, e di chiunque li imita, le parole di Giacomo, “fratello del Signore”: “Siate di quelli che mettono in pratica la Parola del Signore, e non ascoltatori soltanto, illudendo voi stessi; perché, se uno ascolta la Parola e non la mette in pratica, costui assomiglia a un uomo che giarda il proprio volto allo specchio: appena si è guardato, se ne va, e subito dimentica com’era. Chi invece fissa lo sguardo sulla sua legge perfetta, la legge della libertà – precisazione importante, perché altrimenti potremmo pensare a quella di Mosè – e le resta fedele, non come un ascoltatore smemorato ma come uno che la mette in pratica, questi troverà la sua felicità nel praticarla” (1.22).

“Non ho bisogno di nulla” è un’affermazione indicativa perché non ha riferimento all’autosufficienza di chi da Dio dipende, ma di chi è convinto che quel poco che ha appreso sia sufficiente a prescindere da come agisce, pensa, progetta. Ignazio, vescovo di Antiochia, scrivendo ai Corinti attorno all’anno 107, usa infatti queste parole: “Non vi comando come Pietro e Paolo: loro furono apostoli, mentre io non sono altro che un rifiuto”.

La realtà che l’ “Amen” mette di fronte ai Laodicesi l’abbiamo letta: “Non sai – cioè non ti rendi conto perché sazio di te stesso – di essere – cioè vivere, che in realtà esisti come – un infelice, un miserabile – che vivi nella desolazione, nella miseria -, un povero – privo di risorse, non in grado di mantenersi – cieco – non in grado di vedere, valutare, comportarsi in modo a quel tempo e non solo presentabile – e nudo – privo di quei vestiti che solo Dio può dare”.

 

 

18Ti consiglio di comperare da me oro purificato dal fuoco per diventare ricco e abiti bianchi per vestirti e perché non appaia la tua vergognosa nudità, e collirio per ungerti gli occhi, e recuperare la vista.

 

“Consiglio”, non “ordino”. Dio non obbliga nessuno, ma dà indicazioni nel solo interesse della sua creatura. Sappiamo che da Lui si compera “senza denari e senza prezzo”, ma cosa vuol dire? Che l’unica “moneta” è la conversione, le “opere degne” di essa che consistono in un profondo stravolgimento delle nostre abituali azioni, modo di pensare. Se prima eravamo indifferenti a qualunque richiamo o invito spirituale pensando solo alla santificazione del nostro orgoglio, al portare avanti sempre ed ostinatamente le nostre esigenze, con la conversione viene tutto eliminato per un vantaggio nuovo, un premio nei cieli. Non si tratta di rinunciare a tutto ciò che ci circonda, ma solo a ciò che torna a nostro danno spirituale.

Gli “abiti bianchi per vestirti” rivelano, nel colore dell’innocenza e della purezza, l’uomo non più asservito alla mentalità inculcata dall’Avversario e finalmente libero dai suoi vincoli. E infatti il vero cristiano è colui che è stato “strappato dall’attuale, malvagio secolo”.

Indicativo è il “collirio”, che a Laodicea veniva prodotto assieme ad altre sostanze idonee a curare il corpo, per “recuperare la vista”, ricordo di quella perfetta che Adamo possedeva in Eden. “Oro purificato dal fuoco” – quindi attraverso la sofferenza, la fede, la preghiera, la nuova ottica proveniente da esse -, “abiti bianchi” e “collirio” vanno “comperati”, come dissero le vergini savie alle stolte in Matteo 26.9, “No, perché – l’olio, figura dello Spirito Santo – non venga a mancare a noi e a voi; andate piuttosto dai venditori e compratene”. Ricordiamo anche la parabola del tesoro nascosto, “Il regno dei cieli è simile ad un tesoro nascosto in un campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo” (13.44). Impossibile comprare senza rinuncia, senza sbarazzarsi dell’inutile avere, quel bagaglio che ognuno di noi porta con sé non senza fatica ed ecco perché “il mio gioco è dolce e il mio carico leggero”. Nessuno comprerebbe mai qualcosa che gli è veramente utile senza rinunciare al denaro, o parte di esso, che possiede ed è solo quando la ricchezza materiale viene vista come un ostacolo alla vita spirituale che questo può avvenire.

I “vestiti bianchi” sono per coprirsi e al tempo stesso i soli, perché comprati da Dio, che possono impedire la vergogna antica di Adamo e sua moglie che, una volta che ”i loro occhi si aprirono”, si scopersero privi di qualsiasi forma di presentabilità di fronte a Colui che li aveva creati per amarli ed essere amato.

 

Quindi, prima di passare all’esame dei versi successivi e a conclusione di questo primo blocco, possiamo concludere che Gesù parla in maniera inequivocabile ai Laodicesi usando termini che potevano ben capire: con gli aggettivi “freddo – caldo – tiepido” chiama in causa l’acqua che avevano, che partiva pressoché bollente da Ierapoli, o fredda dalle sorgenti di Colosse, ma arrivava da loro tiepida. Poi i termini “ricco” e “arricchito” trovavano constatazione nella condizione agiata dei cittadini. L’ “oro purificato dal fuoco” è quello più puro possibile, al 999,99% che non contempla la presenza di altri metalli come l’argento, il rame o il palladio che ne abbassano la caratura, né tantomeno quelle impurità che vengono eliminate da una continua fusione e rifusione passando per il crogiuolo. Quando Gesù parla di questo oro, sapeva di essere immediatamente compreso. Lo stesso avviene per i “vestiti”, perché Laodicea li produceva: vengono richieste vesti bianche, quindi prive di quei colori ricercati che tanto piacevano ed erano tesi ad esaltare la ricchezza delle persone. Infine, anche quando viene citato “il collirio”, abbiamo la stessa cosa, essendo anch’esso un prodotto Laodicense.

Sta all’essere umano fare i necessari collegamenti: vivere in quella città equivaleva ad avere tutto, essere autosufficienti (la zecca, gli altri manufatti e i conseguenti guadagni), ma proprio perché ciò che avevano consentiva un’autonomia raramente riscontrabile, sono chiamati a capire che il vero benessere è un altro, che se dal punto di vista della vita orizzontale avevano tutto, non erano affatto autorizzati a sentirsi tali dal punto di vista spirituale perché, in realtà, non avevano nulla ed erano esattamente come quei poveri che disprezzavano e costituivano per loro motivo di imbarazzo.

Quale insegnamento per noi e per loro? Possiamo citare, partendo dall’Antico Patto, il consiglio in Proverbi 3.7, “Non ti stimare savio da te stesso; temi il Signore e allontanati dal male”, e per il Nuovo abbiamo le importanti parole dell’apostolo Paolo in  Galati 6.5: “Se uno pensa qualcosa pur essendo nulla, inganna se stesso. Ciascuno esamini invece l’opera propria, così avrà modo di vantarsi in rapporto a se stesso e non perché si paragona ad altri”. Capiamo? È evidente che il primo nemico lo abbiamo nel nostro uomo carnale, il primo a ingannare quello spirituale; e l’autoinganno si verifica anche nella vita reale quando sottovalutiamo o sopravvalutiamo determinate circostanze. Invece, siamo chiamati ad esaminare il risultato delle nostre opere dalle quali potremo trarre o motivo di soddisfazione, sempre nell’ottica dell’inutilità del servo, o di critica costruttiva per migliorare. Anche questo fa parte del cammino, del pellegrinaggio perché, migliorando noi, i talenti affidatici iniziano a fare frutto.

Infatti: “Voi, mettendoci da parte vostra ogni impegno – ecco l’essere “caldi” – aggiungete alla vostra fede la virtù. Alla virtù la conoscenza – perché senza di lei si commettono molti errori –; alla conoscenza l’autocontrollo; all’autocontrollo la pazienza; alla pazienza la pietà; alla pietà l’affetto fraterno e all’affetto fraterno l’amore. Perché se queste cose si trovano in voi, non vi renderanno né pigri, né sterili – tiepidi – nella conoscenza del nostro Signore Gesù Cristo. Ma colui che non ha queste cose è cieco o miope, avendo dimenticato di essere stato purificato dei suoi vecchi peccati” (2a, 3.7-10).

Abbiamo da queste parole una lezione molto importante: ci sono credenti che, fraintendendo i doni dello Spirito con l’entusiasmo, non hanno compreso che il cammino cristiano passa attraverso le tappe indicate dall’apostolo: impegno – fede – virtù – conoscenza – autocontrollo – pazienza – pietà – affetto fraterno e amore, tappe interdipendenti nel senso che non è che una volta raggiunta una debba ritenersi cosa conclusa per passare alla successiva. E basta poco per rendersi conto che certo a Laodicea tutto questo non veniva praticato.

A questo punto torniamo alla domanda di Gesù che ha dato origine a queste riflessioni, “Ma il figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?”: la Chiesa di Laodicea sarà quella che Lo vedrà, come del resto anche tutti gli uomini di quel tempo. Anche se molti cristiani sono incappati nell’inganno della simulazione, dell’ascolto della Parola senza praticarla, della superficialità nella religione che non salva, Laodicea è un sistema di vita praticato, predicato, profondamente avvertito, sentito, istituzionalizzato ed è qui che sta la sua colpa: nell’insieme, perché è la Chiesa del fallimento in quanto ha disatteso il proprio compito di “colonna e sostegno della verità”. Quando parla il popolo, chiude la bocca a Dio nel senso che gli impedisce di parlare e rivelarsi se non quando è troppo tardi, a meno che non intervenga in ravvedimento, non “compri” da Lui il necessario.

Ecco perché subito dopo Gesù dice “tutti quelli che amo li riprendo e li correggo. Sii dunque zelante, e ravvediti”, ultimo verso che considereremo. Se il Signore non ci riprendesse e correggesse, non saremmo Suoi figli. La correzione mette a disagio, fa soffrire, costringe a cercarne le ragioni, ad un esame rigoroso. E l’esortazione della seconda parte del verso è di per sé un filtro, perché può esservi zelo senza conoscenza (quindi spiritualmente inconcludente, portatore di errori perché soggetto a fraintendimenti colossali), o può esservi conoscenza senza zelo (altrettanto inconcludente, con l’aggravante dell’indifferenza). E tutto converge ancora una volta nel ravvedimento, greco metànoia, cioè “trasformazione della mente”. È quanto di più facile e al tempo stesso difficile che ci sia perché richiede che l’uomo si abbandoni a Dio, si lasci amare, lasciando da parte le proprie aspirazioni e interessi terreni, tenendo la propria mano nell’attesa che Lui stesso la prenda. Amen.

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15.08 – LA FEDE SULLA TERRA II/III (Apocalisse 3.14-21; Luca 18.8)

15.08 – La fede sulla terra II/III: Apocalisse 3.14-21 (Luca 18.8)

 

8Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».

 

Proseguendo nelle nostre meditazioni sulla domanda di Gesù, resta da esaminare il testo di Apocalisse 3.14-22, lettera alla Chiesa di Laodicea il cui nome significa “Giustizia al popolo” oppure “Il popolo parla”. Dando uno sguardo veloce al significato delle sette Chiese, va specificato che queste in primo luogo sono reali e appartengono al tempo in cui Giovanni scrive ma sono anche figura, stante le loro caratteristiche profondamente diverse l’una dall’altra, delle varie epoche attraverso le quali è passato il cristianesimo; ciascuna di esse, quindi, ha un periodo storico in cui ha operato nel senso che si parte da Efeso, figura della Chiesa primitiva, per arrivare appunto a Laodicea che è quella degli ultimi tempi, colei che finirà con il rapimento, senza nulla togliere alle realtà che queste avevano al tempo in cui Giovanni scrive questo libro.

Ogni lettera è indirizzata all’angelo di ciascuna Comunità, cioè al responsabile, colui che ha il dono della sua presidenza, che veglia sul suo andamento morale, spirituale e dottrinale come descritto in 1 Timoteo 5,17, “I presbìteri – o vescovi, coloro cui è affidato il governo della Comunità – che esercitano bene la presidenza siano considerati meritevoli di un duplice riconoscimento, soprattutto quelli che si affaticano nella predicazione e nell’insegnamento”.

Il presbìtero è colui che veglia su se stesso per essere irreprensibile e al tempo stesso sugli altri perché non entrino all’interno della Chiesa dottrine estranee a quella del Vangelo ed è responsabile della condotta globale di essa. Agisce non in termini e modi dispotici, ma mette a frutto e in pratica ciò che ha appreso e gli è stato rivelato dallo Spirito, non anteponendo la propria umanità ed essere, ma ha disinteressatamente a cuore che tutti camminino secondo verità e carità essendo, appunto, responsabile del comportamento e condotta sua e degli altri.

Va da sé che in questo suo agire non può essere solo, ma necessita della collaborazione e pratica di vita da parte di tutti che, col loro battesimo e confessione di fede, hanno dato il proprio benestare affinché l’amore di Dio e di Gesù Cristo potesse agire in loro. Ecco allora che, sotto questo profilo, la responsabilità dell’angelo della Chiesa è proporzionalmente la stessa di ogni appartenente ad essa e così ogni lettera è, per connessione, indirizzata ad ogni credente. Una Chiesa non ha un “capo”, ma una persona che è connessa vicendevolmente con gli altri e l’unica distinzione è il dono e le capacità affidategli. L’angelo della Chiesa locale agisce indirizzando gli altri senza costringerli, forzarli, tenendo conto delle capacità e attitudini di ciascuno.

Per capire Laodicea, e per connessione ciascuna delle sette Chiese, è allora necessario acquisire i dati basilari su di esse. La città in cui si trovava quella Comunità era molto ricca, un centro commerciale sede di numerose banche e di una zecca. Laodicea era rinomata per la sua attività produttiva (tessuti in particolare) e aveva una scuola di medicina che preparava unguenti. Il problema di Laodicea – altro motivo di applicazioni spirituali che ciascuno di noi può fare liberamente – era quello dell’acqua perché per questo dipendeva da due città vicine, Ierapoli e Colosse.

Strabone e Vitruvio, storico e geografo il primo, architetto e scrittore il secondo, riportano che l’acqua di Laodicea conteneva sedimenti minerali a tal punto da costringere gli ingegneri romani ad installare dei filtri per limitare la dannosa quantità di calcare ed evitare che le tubature scoppiassero. L’acqua di Laodicea, di per sé, era imbevibile.

Siccome Paolo non risulta vi sia stato, si ipotizza fosse stata fondata da Epàfra basandosi su Colossesi 4.12,13 ove leggiamo “Epafra, che è dei vostri del è servo di Cristo Gesù, vi saluta. Egli lotta sempre per voi nelle sue preghiere perché siate saldi, come uomini compiuti, completamente disposti a fare la volontà di Dio. Infatti gli rendo testimonianza che si dà molta pena per voi, per quelli di Laodicea e per quelli di Ierapoli”.

Al verso 16, poi, abbiamo “Quando questa lettera sarà letta da voi – a Colosse – fate che venga letta anche nella Chiesa dei Laodicesi e anche voi leggete quella inviata ai Laodicesi”, andata perduta. Dal tenore della lettera data da Nostro Signore Gesù Cristo a Giovanni nell’Apocalisse, abbiamo la conferma che tutti gli elementi negativi di Laodicea come città, cioè l’autonomia conseguente alla constatazione dell’importanza avuta nel mondo, alle conquiste in campo commerciale e scientifico di allora, avevano finito per raffreddare pressoché completamente il messaggio cristiano nella sua essenza e pratica. I Laodicesi confondevano il benessere materiale con quello spirituale.

Infatti:

 

14Così parla l’Amen, il testimone degno di fede e veritiero, il Principio della creazione di Dio.”

 

Abbiamo qui le credenziali della fonte che sta per parlare: in primo luogo l’Amen, parola in cui si racchiude il tutto, cioè la Verità, essendo questa la sua traduzione corretta, ben diversa da “così sia” come comunemente accettato. Oltre a questo, troviamo “il testimone degno di fede e veritiero” che l’Amen rafforza. Giovanni, al contrario di quanto ha fatto per il Vangelo, qui scrive sotto dettatura, non inserisce né aggiunge nulla di suo come farà per tutto il libro, salvo brevi annotazioni che rendono se possibile ancora più vero ciò che riporta. Giovani infatti aggiunge, nel libro, preziose note sulla sua esperienza, come fecero alcuni profeti prima di lui.

Abbiamo poi “Il principio della creazione di Dio” dove con questo termine possiamo includere tutti quei riferimenti alla parola “principio” che troviamo nella Scrittura a partire dalla Genesi fino a questo libro. “Principio” inteso certo come “inizio”, ma soprattutto come “scopo”, quello vero della creazione, che contemplava tanto le sei “ere” quanto la conoscenza e il rimedio del/al peccato di Adamo e sua moglie, quindi la redenzione dell’uomo attraverso i millenni. Il verso 14 costituisce un avvertimento a tutti i credenti di quella Chiesa e al tempo stesso fornisce loro, in ventun parole (3×7) la firma, il sigillo d’autorità che precede il messaggio.

 

15Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo!”

 

L’ “Amen”, con tutti gli altri due attributi, “conosce”. Il suo sapere è dato dalla perfezione che costituisce la Sua stessa Essenza, da sempre, quale “Io sono”. Il “Conosco” non è una semplice presa d’atto di un dato o condizione, ma il risultato di una profonda analisi, valutazione dei pro e dei contro, dei motivi che hanno portato l’angelo, e per correlazione tutti i credenti di quella Chiesa, a una condizione spirituale che non può classificarsi né come apertamente positiva o negativa esattamente come fu, per connessione, per quel servitore che, ricevuto un talento in una conosciutissima parabola, non crea al suo padrone né un danno né un guadagno. Quella moneta che viene restituita, in pratica, è la summa della neutralità: tanto mi hai dato, tanto ti restituisco, il tuo dovuto è questo; in pratica è come se dicesse “non ho lavorato per te, ma non nemmeno ho peccato perché non ti ho tolto nulla”. Dimenticando che “In questo è glorificato il Padre mio, che voi portiate molto frutto”.

“Le tue opere” e la conoscenza di esse, oltre a sottolineare ancora una volta la totale, perfetta conoscenza del Gesù glorificato, sono il risultato dell’amore per Lui e della fede al tempo stesso che qui, evidentemente, difettano in maniera profonda perché i termini “freddo” e “caldo” hanno riferimento con la posizione spirituale dei Laodicesi che, se fossero freddi, sarebbe come se non avessero mai conosciuto il messaggio del Vangelo e quindi avrebbero modo di riceverlo e, se “caldi”, godrebbero di quella posizione felice di dipendenza da Dio con fede. Il risultato delle loro “opere”, invece è “tiepido”, cioè si colloca nella dimensione dell’ambiguità, nella pratica del “un colpo al cerchio e uno alla bótte”, privo di entusiasmo, fervore, amore, ma basato sul compromesso. Come ha scritto un fratello, il credente di Laodicea “non è contrario alla pratica cristiana, ma nemmeno è acceso di ardore per la verità, di amore per Dio: si adagia nella mediocrità di un cuore diviso”.

Perché? Le ragioni vanno ricercate nel significato del suo nome, “il popolo parla”. Appunto l’attenzione a ciò che dice e vuole il popolo hanno preso il posto all’osservanza della parola di Dio. Gli appartenenti a Laodicea, allora, non hanno né danno un’identità precisa, non illuminano, non conducono in un luogo o verso una direzione chiara, predicano usanze e riti, sono religiosi, dicono magari “Signore, Signore, ma il loro cuore è lontano da me”. Non solo, ma inseriscono nel loro credo e metodo di vita l’apparenza intesa come sostituzione della fonte: praticano la solidarietà, ma esaltandola come pratica del “buon uomo”, portano avanti un Vangelo adulterato, con aggiunte ed eliminazioni per non turbare una “pace” che consiste nel non disturbare prima di tutto la coscienza, insomma l’esatto contrario del vero messaggio cristiano portato avanti dagli Apostoli e da tutti coloro che ne hanno accolto le parole, le spiegazioni, gli esempi forniti loro dal Maestro.

Il popolo parla, vuole un messaggio su misura. Prende il Vangelo e lo adatta alle proprie esigenze, ricorda ciò che gli piace e scarta tutto quanto non gli fa comodo e così insegna a fare. E proprio per questo è tiepido. Coltiva la religione e non la sostanza, pecca con comodità e naturalezza perché “tanto poi si pente” con una pratica-visione errata della confessione, non fa propria la freschezza della parola di Dio che non solo non lo disseta, ma impedisce agli altri di potersi dissetare. E l’acqua di Laodicea, come sappiamo, era imbevibile a meno che non provenisse – ma fino a un certo punto – dalle due città di Colosse e Ierapoli, non eccessivamente distanti da lei.

Tra l’altro, sempre a proposito di acqua, anche quella proveniente da Ierapoli, che usciva bollente dalle sue sorgenti, quando arrivava a Laodicea era tiepida, ma i depositi calcarei che conteneva, le davano ancora un sapore sgradevole che provocava spesso il vomito causato dal carbonato di calcio. Quella proveniente da Colosse, poi, fresca e dissetante  in loco, giungeva dopo un percorso di 17 km circa e dissetava poco perché aveva perso la sua freschezza originale. A Laodicea, quindi, nessuno poteva bere da una fonte fresca, figura della Parola di Dio, di “Chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete in eterno”.

Abbiamo poi la frase “Magari tu fossi freddo, o caldo!” che è a mio giudizio terribile perché, secondo quanto mi pare di capire, la condizione di chi è ateo è preferibile a quella di chi è religioso formalmente, che magari chiama in causa principi cristiani e poi li disattende, ma soprattutto è rimasto e intende rimanere quello di prima, rifiuta la conversione, cerca o pratica un equilibrio esclusivamente egoistico. Abbiamo allora la Chiesa del fallimento.

 

16Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca”

 

Gesù parla ai Laodicesi in modo che capiscano molto bene il Suo messaggio, in quanto l’acqua tiepida era l’unica che potevano bere, con tutti gli inconvenienti del caso. Notiamo però che, nonostante la gravità dei termini con cui si esprime, non dice “Ti ho vomitato”, ma “Sto per”, oppure come altre versioni “ti vomiterò”, a sostegno del fatto che così avverrà se i membri di quella Chiesa non si ravvedranno, non riprenderanno a considerare tutte le loro azioni.

Per non appesantire, concludo il capitolo, che volutamente non va mai oltre, salvo rari casi, i tre fogli dattiloscritti. Laodicea è una Chiesa immobile. Non fa passi né in avanti, verso l’uomo portando un messaggio che potrebbe liberarlo, né indietro perché a parole non rinnega nulla di quanto le è stato affidato, ma lo fa coi fatti. Dovrebbe illuminare, ma porta pallidi riflessi che altro non fanno se non allungare o esaltare le ombre. Dovrebbe scaldare i cuori, ma provoca al limite dei battiti curiosi e anomali. Dovrebbe porsi come fonte di verità, ma preferisce andare a braccetto con idee sociali e buone azioni dimenticando di avere avuto un ruolo ben diverso. Amen.

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15.07 – LA FEDE SULLA TERRA I/III (Luca 18.8)

15.07 – La fede sulla terra I/III (Luca 18.8)

 

8Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».

 

È il verso che, come ricorderemo, conclude la parabola del giudice iniquo e, per l’importanza che assume, non può essere ignorato sia per il tema che propone, quando per l’apparente anomalia del contenuto, oggettivamente spiazzante: Gesù parla del pregare senza stancarsi, secondo l’ottica con cui abbiamo inquadrato questa azione, sulla Sua promessa di intervenire “prontamente” per far ragione delle ingiustizie subite dai credenti, e tutto ad un tratto abbiamo “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà fa fede sulla terra?”, che coinvolge tutta una serie quasi infinita di elementi e circostanze che non possono portare solamente ad un generico “No” come risposta, essendo dubitativa già in partenza.

È chiaro infatti che quel “quando verrà” non può che riferirsi al Suo ritorno, quello descritto in tante parabole quando si parla di “un uomo” che parte per un paese lontano e lascia incarichi ai suoi servi vuoi per far fruttare il denaro avuto in consegna, vuoi per amministrare il suo palazzo, oppure per attendere che arrivi col corteo nuziale.

La domanda di Gesù fu posta e soprattutto scritta perché giungesse intatta attraverso i secoli fino ai legittimi destinatari, cioè quei credenti che vivranno i cosiddetti “ultimi tempi”, quelli in cui sarà concesso all’Avversario di agire come mai gli era stato dato per poter realizzare il suo capolavoro effimero costituito da un impero terribile che avrà una durata di tre anni e mezzo. SI noti il numero, che non è né tre, perfezione, né quattro, numero dell’equilibrio.

La domanda di Gesù chiama in causa altri concetti da Lui espressi che anticipano le sofferenze della Chiesa e che riprendono, ampliandola, la parabola della zizzania nel campo in cui le piantine di grano sono condannate a “convivere” con le altre, dannose, fino al raccolto conclusivo, quando agli angeli verrà affidato il compito di raccoglierle tutte e separarle. Posto che è ovvio che “la fede sulla terra” riguardi la Chiesa, posto che sappiamo che “Molti falsi profeti sorgeranno e ne sedurranno molti” (Matteo 24.11), che il “molti” di Gesù ha una valenza enorme e che possiamo constatare nelle vere eresie sorte, che “per il dilagare dell’iniquità, si raffredderà l’amore di molti” (ibidem), vediamo nell’interrogativo di Nostro Signore un ammonimento, un richiamo proprio a coloro che si ritroveranno a vivere un periodo più difficile rispetto a quelli vissuti dai fratelli che li hanno preceduti, trovandosi a impattare con esseri profondamente corrotti e privi di qualunque remora.

Scrive l’apostolo Paolo al suo discepolo Timoteo: “Lo Spirito dice apertamente che negli ultimi tempi alcuni si allontaneranno dalla fede, dando retta a spiriti ingannatori – si noti “spiriti” e non “persone”, che saranno animate da loro – e a dottrine diaboliche, a causa di spiriti impostori, già bollati a fuoco nella loro coscienza” (1a, 4.1).

Poi nella sua seconda lettera, “Sappi che negli ultimi tempi verranno momenti difficili. Gli uomini saranno egoisti, amanti del denaro, vanitosi, orgogliosi, bestemmiatori, ribelli ai genitori, ingrati, empi, senza amore, sleali, calunniatori, intemperanti, intrattabili, disumani, traditori, sfrontati, accecati dall’orgoglio, amanti del piacere più che di Dio, gente che ha una religiosità solo apparente, ma ne disprezza la forza interiore” (3.1-5). Notiamo come particolarmente indicative “senza amore” (a parte per loro stessi), “intrattabili” (cioè sarà impossibile qualunque forma di dialogo e correzione), “disumani” (cioè privi di qualsivoglia qualità morale) e “accecati dall’orgoglio” perché in assenza di Dio l’unica possibilità di adorazione va all’uomo corrotto di per sé che non può che santificare ciò che è miserabile. È un quadro che va oltre alla società conosciuta nella storia, coi suoi errori e i suoi crimini che comunque erano perpetrati da una parte di essa e non da tutti, escluse le guerre che da sempre hanno generato soltanto mostri.

Ora abbiamo il dovere di discernere gli “ultimi tempi”, perché dalla lettura delle caratteristiche degli uomini elencate in questi versi, apparentemente, non vediamo nulla di straordinario: quando non sono stati egoisti o amanti del denaro, o non hanno avuto le altre caratteristiche che abbiamo letto? Si potrebbe rispondere “da sempre” e sarebbe vero visto che l’uomo senza Cristo nella sua vita tende e tenderà sempre a questo; eppure qui si tratta di contrassegni negativi che una collettività eleggerà a norma di vita, e lo possiamo vedere – o per lo meno iniziare a vedere – nel nostro tempo.

Non ci inganni il principio che molti portano avanti secondo il quale “queste cose ci sono sempre state” poiché, se questo è vero, lo è altrettanto il fatto che mai fino ad ora c’è stato un disprezzo così accentuato per le norme della convivenza morale e civile, la giustizia è assente, mai fino ad ora si sono venute a creare le condizioni per una pubblicità martellante non tanto su determinati prodotti, ma sul raggiungimento della soddisfazione personale a qualunque costo e con qualunque mezzo. Mai fino ad ora si stanno promulgando leggi liberticide nel profondo che vanno a colpire non chi delinque o persegue condotte contrarie alle più elementari regole dell’educazione e del buon senso, ma le persone comuni, spesso oneste, che si trovano impossibilitate a far valere i propri diritti più elementari.

Ecco allora l’importanza della preghiera ancora una volta intesa non come elenco di richieste, ma come cammino di unità con Dio. E questo credo che possiamo vederlo in due passi assolutamente lampanti, il primo nella parabola delle dieci vergini (Matteo 25.1-13), il secondo nella lettera alla Chiesa di Laodicea (Apocalisse 3.14-22).

Nella parabola abbiamo dieci vergini, cinque savie ed altrettante stolte, tutte invitate a far parte di un corteo nuziale, tutte che si presentano lungo la via ad attendere “lo sposo”. Tutte portano con sé la lampada con il materiale per illuminare, ma solo la metà di esse hanno olio sufficiente ad adempiere la loro chiamata. Eppure tutte, indipendentemente dalla loro caratteristica interiore, cadono in uno stato di torpore perché “lo sposo tardava”: è esattamente quello che non deve accadere, è quella condizione che caratterizzò anche i discepoli in un momento terribile per il loro Maestro, al Getsemani: “Poi venne dai discepoli e li trovò addormentati. E disse a Pietro: «Così, non siete stati capaci di vegliare con me una sola ora? Vegliate e pregate, per non entrare in tentazione»” (Matteo 26.40,41).

“Vegliare” e “pregare” sono i due verbi, impossibile non praticarli entrambi, pena l’inefficacia tanto della veglia che della preghiera. Vegliare è in un certo senso andare contro corrente, fare qualcosa di difficile, di contrario alle esigenze dell’organismo (quindi della carne). “Pregate”, dice Gesù ai suoi, “per non entrare in tentazione”, cioè chiedere il sostegno, nella fattispecie, per non cedere alla paura, allo scoraggiamento perché, per la prima volta, i discepoli si sarebbero trovati soli con loro stessi, privi del Maestro come riferimento e rifugio come tante volte accaduto. E infatti, guardando al contingente, proprio Pietro rinnegò il Maestro per tre volte, in preda ad una crisi di nervi vista nelle parole “cominciò a maledirsi”. Sappiamo che si stava adempiendo il testo di Zaccaria 13.7, “Percuoterò il pastore, e le pecore saranno disperse”.

Quando la vita assume una direzione a noi umanamente favorevole, siamo portati a ringraziare il Signore perché ci riteniamo protetti, ma nel momento in cui questa assume un andamento a noi contrario, ecco che possiamo rimanere scandalizzati nel senso aderente del termine, cioè avere degli intoppi nel nostro cammino spirituale. E il rischio di “addormentarsi” si fa reale perché si può vacillare, ci si può fermare, si può perdere di vista l’obiettivo, in poche parole si inizia a trascurare ciò per cui viviamo e siamo. È anche il sonno derivante dalla frase “Il Padrone tarda ad arrivare”.

C’è un bellissimo verso in Ebrei 2.1, “Per questo bisogna che ci dedichiamo con maggiore impegno alle cose che abbiamo ascoltato, per non andare fuori rotta”, cosa che può avere conseguenze disastrose per chi naviga. Quindi, più la prova è forte, o citando un episodio del Vangelo, più “il vento era – è – contrario”, più deve crescere l’impegno a ciò che abbiamo ascoltato. E di tutto questo occorre far tesoro proprio quando “ascoltiamo”, cioè leggiamo e studiamo la Scrittura, che poi è quel tempo che Dio ci concede per prepararci.

Tornando alla parabola delle dieci vergini, vediamo che a farle entrare a pieno titolo nel corteo nuziale e nel cortile della festa prima che la porta fosse chiusa fu proprio l’olio che avevano conservato, atto a garantire alle “lampade”, che poi erano delle torce, il funzionamento continuo, quindi in tutto questo vediamo la differenza fra la fede reale – che c’era comunque nonostante l’assopirsi – delle savie e quella apparente, convenzionale, formale, finta, delle stolte. E questo ci parla del fatto che lo Spirito, che non lascia mai solo il credente, è memoria e appartenenza che non può essere tolta dall’Avversario che, se gli fosse possibile, sedurrebbe anche gli eletti. Amen.

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15.06 – IL GIUDICE E LA VEDOVA (Luca 18.1-8)

15.06 – Il giudice e la vedova (Luca 18.1-8)

 

1 Diceva loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai: 2«In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. 3In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: «Fammi giustizia contro il mio avversario». 4Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: «Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, 5dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi»». 6E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. 7E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? 8Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».

 

Questa parabola è da considerarsi non come qualcosa di nuovo rispetto al capitolo precedente, quasi che Luca abbia voluto citarla come intermezzo a sé stante verso nuovi episodi, ma in quanto il discorso già in atto si sta avviando verso la sua conclusione. Ricordiamo il capitolo 17 in cui Gesù volle dare indicazioni consolatorie sui “giorni del Figlio dell’uomo”, ma certo non ha omesso il fatto che sarebbero stati di sofferenza. Ecco perché abbiamo letto “diceva loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai”, parole che, inquadrate in quel contesto, demoliscono ancora una volta il falso concetto della preghiera che molti cristiani hanno, ricorrendo ad essa unicamente quando hanno bisogno di qualcosa che va al di là delle loro possibilità: spesso, persone che vivono la loro vita come se Dio non esistesse, spinte dal timore pregano per guarire, per essere liberati da qualcosa che li opprime, fanno gesti scaramantico-religiosi come il “segno della croce”, portano talismani, medagliette ed altro, ma non si interrogano sulla posizione che hanno davanti a Lui e, se “l’emergenza” viene a cessare per i motivi più svariati, tornano alle loro attività e interessi come se niente fosse, pronti comunque a riprendere i loro riti se e solo ce ne fosse bisogno.

Contrariamente, la “necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai”, trova la sua necessità nell’acquisizione del fatto che siamo nulla, che senza di Lui niente possiamo fare, che abbiamo bisogno ogni istante della Sua assistenza, in ogni cosa. Credo che un esempio in tal senso ce l’abbia lasciato proprio Nostro Signore, che pregava sempre perché, se poteva ogni cosa per l’uomo, così non era per Lui. E infatti non fece mai nessun miracolo per se stesso.

Il Dio in terra, il Figlio fattosi uomo, in quanto tale viveva e poteva fare affidamento  unicamente sul Padre per avere il necessario sostegno.

“Sempre” e “senza stancarsi mai” sono le due indicazioni date e la prima è riferita alle occasioni e ai momenti, più che stare a indicare una continuità totale: “sempre” non vuol dire giorno e notte senza interruzione, ma “in ogni momento”, “per ogni cosa”. Troppo spesso la vita ci porta a ritenere che gran parte di ciò che affrontiamo in essa dipenda da noi, in ossequio al detto “potere è volere”, ma così è per il mondo che ci circonda, non per il credente e se chiunque abbia studiato o lavori sa che si tratta di attività che richiedono fatica, fisica o mentale che sia, come credenti siamo tenuti a pregare per avere sostegno anche in quelli. Pregare quando siamo stanchi, quando siamo deboli, quando siamo perplessi, quando dobbiamo per una qualsiasi ragione compiere una scelta, quando ci troviamo di fronte al silenzio e, ascoltandolo, ci sentiamo parte di lui e scopriamo di non sapere. A parte quest’ultima situazione, Gesù provò tutte le altre. A parte il pregare perché – ad esempio – non venisse meno la fede dei discepoli, nei suoi dialoghi col Padre sono convinto abbia chiesto sostegno e soprattutto si sia consultato per i Suoi itinerari, le persone che avrebbe incontrato proprio in quanto, come detto all’inizio, era Figlio di Dio e al tempo stesso Figlio dell’uomo.

“Senza stancarsi mai”, poi, trova il suo riferimento più chiaro in questa parabola: di fronte al silenzio di Dio provare scoraggiamento è la cosa più inutile che possiamo fare, mentre è produttivo continuare fino a quando non abbiamo avuto da Lui una risposta che – attenzione – può essere positiva, cioè rispecchiare quanto chiediamo, oppure negativa, quindi il suo contrario, ma comunque costituisce una risposta. Ho conosciuto persone che si sono sentite profondamente offese dal fatto che Dio rispondesse l’opposto di quanto chiedevano, non riuscendo a capire che l’importante non era tanto un esaudimento in positivo, ma un segnale, una risposta che li togliesse dal dubbio o dalle false speranze, da quella fastidiosissima, insopportabile condizione che è l’incertezza. E invece no, volevano che Dio rispondesse come loro volevano, senza pensare che spesso il piano per la creatura è differente da quello che lei pretenderebbe poiché, in quanto esseri limitati, non sappiamo cosa è realmente per il nostro bene, mentre Lui sì. Chi non chiede una risposta, ma pretende che Dio sia succube dei propri desideri, è una persona che non si è mai distaccata dal bambino capriccioso che si porta dentro, quello che continua a chiedere una caramella e strilla fino allo sfinimento se non la ottiene.

Il pregare “sempre”, “senza stancarsi mai” non è l’interloquire petulante di chi mendica un’attenzione da parte di Dio, ma di chi si presenta a Lui perché ne ha il privilegio dell’accesso in quando suo figlio/a. C’è chi lo fa di giorno, chi di notte, chi parla, chi ascolta, chi produce suoni, ma tutti costoro sanno che la risposta non può non arrivare e qui abbiamo il confronto fra i nostri tempi e i Suoi, così differenti, e quando leggiamo che chi chiede deve farlo “con fede, senza stare in dubbio” non abbiamo una chiave per l’esaudimento, ma nel fatto che, se quanto richiesto lo consideriamo ricevuto, quando ciò arriva è un dettaglio, è quasi virtuale. Io almeno posso dire di avere provato questo. L’attesa nel silenzio non è così diversa dall’avere quanto richiesto e infatti, quando ciò avviene, è come se al ringraziamento necessario e dovuto venga annesso un senso di già posseduto, non so se riesco a spiegarmi. La preghiera è tante cose, fondamentalmente la gioia per il fatto che siamo comunque ascoltati e il silenzio può bastare a farci rendere conto della presenza di Dio. O anche denunciare la Sua assenza, quando ci troviamo in una condizione di peccato per cui si rende necessario confessarlo e abbandonarlo.

Veniamo ora alla parabola, che ci permette di dare un breve quadro sull’amministrazione della giustizia nell’antico Israele che troviamo, quanto ad organizzazione in Deuteronomio 16.18: “Ti costituirai giudici e scribi in tutte le città che il Signore, tuo Dio, ti dà, tribù per tribù; essi giudicheranno il popolo con giuste sentenze. Non lederai il diritto, non avrai riguardi personali e non accetterai regali, perché il regalo acceca gli occhi dei saggi e corrompe le parole dei giusti. La giustizia e solo la giustizia seguirai, per poter vivere e possedere la terra che il Signore tuo Dio, sta per darti”. A parte il Sinedrio, il Tribunale supremo di appello, vi erano in tutte le città della Palestina delle corti inferiori ed altre ancora che decidevano in merito a cause civili di importanza minore composte da un giudice unico, come in questo caso.

Il carattere del giudice della parabola, “Non temeva Iddio, né aveva riguardo per alcuno” è l’esatto contrario di tutte le norme in merito alla giustizia, come Esodo 23.6, “Non ledere il diritto del tuo povero nel suo processo”, Levitico 19.15, “Non commetterete ingiustizia in giudizio; non tratterai con parzialità il povero né userai preferenze verso il potente: giudicherai il tuo prossimo con giustizia”, Deuteronomio 1.16, “Ascoltate le cause dei vostri fratelli e decidete con giustizia fra un uomo e suo fratello o lo straniero che sta presso di lui”.

Possiamo infine ricordare le parole di Giosafat, re di Giuda, proprio ai giudici: “Guardate a quello che fate, perché non giudicate per gli uomini, ma per il Signore, il quale sarà con voi quando pronuncerete la sentenza. Ora il terrore del Signore sia con voi; nell’agire badate che nel Signore, nostro Dio, non c’è nessuna iniquità: egli non ha preferenze personali né accetta doni” (2 Cronache 19.6,7). Queste sono quindi le parole che il giudice della parabola avrebbe dovuto osservare: al di là delle prescrizioni della Legge, il “non giudicate per gli uomini, ma per il Signore” e “il terrore del Signore sia con voi” costituiscono una definizione di terribile gravità per il giudice – e per noi oggi per chi ha il ministero – che tuttavia, nel nostro caso, non osservava.

Abbiamo poi la vedova, persona che dovette richiamare immediatamente l’attenzione dei discepoli o di qualunque altro ebreo che sapeva quanto fosse penosa la condizione di quelle persone in Israele: senza protezione, erano alla mercé di oppressioni e ingiustizie, oltre a vivere in povertà. Per questo nella Legge godevano di particolare tutela a partire da esodo 22.22, “Non maltratterai la vedova e l’orfano”, Deuteronomio 24.17, “Non lederai il diritto dello straniero e dell’orfano e non prenderai in pegno la veste della vedova”, 27.19, “«Maledetto chi lede il diritto del forestiero, dell’orfano e della vedova». Tutto il popolo dirà: «Amen»”.

Ebbene, una dei protagonisti della parabola va da questo personaggio, che esercitava il suo ufficio alle porte della città, sede abituale per l’amministrazione della giustizia, a chiedere “Fammi giustizia contro il mio avversario” quindi non che questo fosse condannato, ma che fosse finalmente pronunciata una sentenza che quel giudice continuava a procrastinare. “Fammi giustizia” nel senso di “Non ignorarmi”, richiesta che viene rivolta ad una persona profondamente negativa perché trascurava completamente tutti i riferimenti alla condizione di giudice che abbiamo ricordato. Inutile fare appello alla sua umanità, perché non l’aveva, quindi inutile sperare, come purtroppo fanno le persone sensibili, che questa persona potesse provare una pur piccola forma di empatia per cui si decidesse ad esaminare la causa e a provvedere.

Abbiamo letto che quel giudice “non aveva riguardo per alcuno”, e quindi tutte le sue attenzioni erano rivolte alla propria persona, quindi l’unico modo per cercare di avere giustizia da lui era quello di importunarlo andando a toccarlo proprio su quanto gli stava più a cuore, la tranquillità, il far nulla. Quell’uomo “non aveva riguardo per alcuno”, quindi nemmeno per un avvertimento a mio giudizio terribile cui ben pochi, allora e ancor di più oggi, prestano attenzione, quello di Isaia 10.1-4, “Guai a coloro che fanno decreti iniqui e scrivono in fretta sentenze oppressive, per negare la giustizia ai miseri e per frodare del diritto i poveri del mio popolo, per fare delle vedove la loro preda e per defraudare gli orfani. Ma che cosa farete nel giorno del castigo, quando da lontano sopraggiungerà la rovina? A chi ricorrerete per protezione? Dove lascerete la vostra ricchezza? Non vi resterà che curvare la schiena, o cadere fra i morti” (Isaia 10.1-4).

Le parole del “giudice disonesto” sono chiare, eppure Gesù dice “Ascoltate ciò che dice”, quindi “fatene tesoro”, “meditate”: ci troviamo di fronte a una parabola che riguarda la preghiera solo apparentemente, per quanto siano possibili molte applicazioni su di essa, perché in questo caso il vero scopo di Gesù è rincuorare tutti coloro che si aspettano giustizia da Lui quanto a provvedimenti verso persone che magari li opprimono, ne hanno approfittato o comunque patiscono le conseguenze di trovarsi in una condizione di debolezza rispetto a una prepotenza come probabilmente era per questa vedova.

“Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che giorno e notte gridano verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente”, che un’altra versione scrive “li vendicherà”. Occorre sottolineare che un altro testo, dopo “aspettare a lungo”, aggiunge “benché sia lento ad adirarsi per loro” in quanto Gli preme il recupero del peccatore. Ritengo questo testo più rispondente al pensiero originale di Gesù, perché mette molto bene in evidenza il contrasto fra l’impazienza dell’uomo, che vorrebbe tutto subito nonostante la pratica spirituale ne abbia attenuato le aspettative, e il metodo di Dio, il solo che verrà a capo di ogni cosa.

Sono però le ultime parole ad indicarci che Nostro Signore si riferisce soprattutto ai tempi del Suo ritorno, “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?”: sappiamo infatti che “si raffredderà l’amore di molti per il dilagare dell’iniquità”, per cui la pratica dell’ingiustizia contagerà tutti, “se possibile, anche gli eletti” ed ecco perché leggiamo che “chi persevererà fino alla fine, sarà salvato” (Matteo 24.12,13). L’apostolo Paolo scriverà “Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è degno di fede colui che ha promesso” (Ebrei 10.13).

Ecco, io credo che da questo ultimo verso veniamo riportati all’inizio, alla preghiera senza stancarsi. Perché abbiamo bisogno, tanto nei momenti in cui la calma è apparente perché prelude sempre a nuove situazioni o prove, quanto ancora di più nei momenti di oppressione, della comunione con il Padre e il Figlio attraverso quei “sospiri ineffabili” mediante i quali lo Spirito Santo interviene per noi (Romani 8.26). Amen.

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15.05 – QUANDO VERRÀ IL REGNO DI DIO IV/IV (Luca 17.33-37)

15.05 – Quando verrà il Regno di Dio IV/IV (Luca 17.33-37)

 

33Chi cercherà di salvare la propria vita, la perderà; ma chi la perderà, la manterrà viva. 34Io vi dico: in quella notte, due si troveranno nello stesso letto: l’uno verrà portato via e l’altro lasciato; 35due donne staranno a macinare nello stesso luogo: l’una verrà portata via e l’altra lasciata». [ 36] 37Allora gli chiesero: «Dove, Signore?». Ed egli disse loro: «Dove sarà il cadavere, lì si raduneranno insieme anche gli avvoltoi».

 

Conosciamo il verso 33 per averlo citato e spiegato sommariamente in altri capitoli; qui, però, è citato in un contesto che non lascia adito a dubbi quanto a interpretazione, perché collegato a quanto abbiamo letto negli scorsi capitoli: “Come avvenne ai tempi di Noè, così ancora avverrà ai tempi del Figlio dell’uomo. Gli uomini mangiavano, bevevano, sposavano mogli, si maritavano, fino al giorno che Noè entrò nell’Arca; e il diluvio venne, e li fece tutti perire. Parimente ancora, come avvenne ai giorni di Lor, la gente mangiava, beveva, comperava, vendeva piantava e costruiva; ma nel giorno che Lot uscì da Sodoma, piovve dal cielo fuoco e zolfo, e li fece tutti perire: tal sarà il giorno, nel quale il Figlio dell’uomo apparirà. In quel giorno, colui che sarà sopra il tetto della casa, e avrà le sue masserizia dentro la casa, non scenda per toglierle e allo stesso modo chi sarà nella campagna non torni indietro. Ricordatevi della moglie di Lot” (vv.26-32).

Ora cosa ci rappresentano tutti questi esempi? La volontà di svincolarsi, da parte dell’uomo, rispetto a ciò che Lui vuole dalla Sua creatura. Abbiamo da poco sviluppato il tema di Noè e dei suoi contemporanei così come quello di Lot, ma meno quello degli altri. In ogni caso, Noè per salvarsi dovette rinunciare alla sua vita, che presumiamo tranquilla con la propria famiglia, per dedicarsi interamente alla costruzione dell’arca (e abbiamo visto cosa comportò il realizzarla), fatica che non si risolse certo con l’avvento del diluvio, ma che proseguì fino alla sua fine, dopo di che fu necessario ricominciare tutto da capo: coltivare, costruire, allevare animali. Noè e i suoi figli, quindi, furono tra quelli che non cercarono “di salvare la propria vita” intesa come la volevano i loro contemporanei, e per questo la trovarono. Allo stesso modo Lot, che si distinse dal resto dei Sodomiti e degli altri prima coltivando pietà e giustizia, poi abbandonando tutto ciò che aveva – per quanto con forte esitazione – assieme ai suoi parenti, così salvandosi.

Allo stesso modo abbiamo gli esempi di chi si trova sul tetto della casa e di chi a lavorare nei campi: di fronte alle parole di Gesù che invita a fuggire senza badare a ciò che si possiede, quindi lasciando in casa ciò che si ha (anche di più caro), sia esso a portata di mano o lontano. È questa, se ci pensiamo, una specie di morte perché si tratta di abbandonare qualunque cosa, perderla, scappare coi soli vestiti indosso. E penso a coloro che, come abbiamo visto precedentemente, si comportarono così avendo salva la vita nel senso che non perirono nella distruzione di Gerusalemme come gli altri. Certo, per poter ubbidire all’ordine di Gesù non dovevano appartenere a quella categoria di persone che vede nel possesso di cose e/o persone la propria espressione di sé.

Abbiamo poi l’esempio della moglie di Lot, la cui morte singolare trova una delle sue ragioni in 1 Corinti 10.6, “Ciò avvenne come esempio per noi, perché non desiderassimo cose cattive, come essi le desiderarono”. Mi sono chiesto il perché del voltarsi indietro di questa donna, che certamente avrà ascoltato le parole di Lot che a sua volta le aveva avute dell’angelo “Fuggi, per la tua vita. Non guardare indietro e non fermarti dentro la valle: fuggi sulle montagne, per non essere travolto!” (Genesi 19.17): non trovo altri motivi nel suo riguardare se non nella curiosità o nel dolore (o in entrambi) perché, con la distruzione di quella città, moriva anche una parte dei suoi affetti e abitudini. Qualunque sia stata la sua reale motivazione, si tratta di un comportamento umanamente comprensibile, ma non spiritualmente perché avrebbe dovuto ascoltare la Parola di Dio. Se lei divenne “una statua di sale”, cioè un corpo morto, secco, direi cristallizzato, fu perché dette ascolto istintivamente alla propria carne che, paradossalmente, fu quella che la condannò. Per non voltarsi indietro, la moglie di Lot avrebbe dovuto annullare profondamente il proprio Io, cosa che non avvenne ed ecco che il voler “salvare la propria vita” riguarda anche quella più profonda, quella istintiva, nostra, che va persa se la si vuole “mantenere viva”. Io non vivo solo perché il mio battito cardiaco esiste, ma perché penso, voglio, ho, credo comunque in qualcosa e quando Gesù parla di “perdere la propria vita” fa proprio riferimento a ciò che possediamo e ci caratterizza come persone. Certo che siamo e restiamo unici, col nostro carattere e non saremo mai automi, ma qui si parla di “uomini nuovi”, di “nuove creature” che con quella di prima non hanno più niente a che fare.

E arrivare a questa condizione non è cosa che si possa fare in poco tempo, perché si finirebbe per tornare indietro; l’abbandono dev’essere qualcosa di progressivo, dev’essere attuato quando se ne è maturata la necessità, quando è Gesù ad abitare la persona e tutto il resto diventa superfluo. La rinuncia non è mai dolore, ma qualcosa che avviene con una spontaneità disarmante; quello che può provocare sofferenza è il trovarsi in situazioni dove la carne vorrebbe conseguire un risultato, ma questo non è ottenibile a meno di non perdere delle caratteristiche spirituali conquistate comunque con rinuncia. In altri termini Pietro e Andrea, Giacomo e Giovanni – per citare i primi quattro – rinunciarono a una tranquilla vita (sottolineo agiata) di pescatori perché consci di aver trovato il Messia, ma faticarono comunque e soprattutto soffrirono una volta diventati ufficialmente figli di Dio e servi di Gesù Cristo, comprendendo però l’importanza della scelta che avevano fatto e ben lieti che fosse stata irrevocabile.

 

Tenuto presente che qui Nostro Signore parla senza seguire una cronologia precisa, leggiamo di due persone che si troveranno in determinate attività e che di queste “una sarà presa, l’altra lasciata”: posto che è impossibile che queste parole si rifacciano alla distruzione di Gerusalemme, non resta altro che collegare il prendere e il lasciare al rapimento della Chiesa, “Perché il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi, che viviamo e che saremo ancora in vita, verremo rapiti insieme con loro nelle nubi, per andare incontro al Signore in alto, e così per sempre saremo con il Signore” (1 Tessalonicesi 4.16,17).  Ancora, sappiamo che questo avverrà all’improvviso, con un’estrema rapidità: “Ecco, io vi annuncio un mistero: noi tutti non moriremo, ma tutti saremo trasformati, in un istante, in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba. Essa infatti suonerà e i morti risorgeranno incorruttibili e noi saremo trasformati. È necessario infatti che questo corpo corruttibile si vesta d’incorruttibilità e questo corpo mortale d’immortalità” (1 Corinti 15.51-53).

Abbiamo però letto “In quella notte”: quale? Non è notte perché si sarà a letto a dormire, ma il riferimento è a quella della Sua assenza, quella in cui, in contrapposizione al “giorno” della Sua venuta, quando era il mezzo a noi, tutto farà presumere la sua mancanza, quando l’umanità avrà fatto definitivamente a meno di Lui e, forse, se ne sarà dimenticata. In Belgio si pensa di abolire l’ora di religione nelle scuole elementari – che comunque un riferimento a Gesù lo dava, per quanto blando – con quella di filosofia, in cui i bambini cresceranno nella confusione delle teorie, incapaci di orientarsi. O, meglio, verranno orientati in base alle direttive di uno Stato che obbedirà al “Principe di questo mondo”. Ora credo che, se non viviamo propriamente in quella “notte”, siamo comunque nella sera che la precede.

Non sarà certo sfuggita, nella lettura del nostro testo, l’assenza in questa versione del verso 36 e ciò è dovuto al fatto che, con ogni probabilità, si tratta di un aggiunta di un anonimo copista che, mosso dall’idea di completare un concetto secondo lui rimasto in sospeso, ha preso in prestito il testo di Matteo; il verso 36 infatti recita “Due saranno nella campagna; uno sarà preso, l’altro lasciato”. Le attività umane, essere a letto, macinare e stare ai campi, sono tese a dimostrare l’universalità dell’azione della chiamata attraverso i fusi orari.

A questo punto non poteva mancare la domanda dei discepoli che chiedono “Dove, Signore?”: in effetti Gesù non aveva menzionato alcun luogo e, soprattutto, mescolato eventi che sarebbero appartenuti ad epoche diverse e, a conferma che il comportamento umano sarebbe rimasto invariato rispetto a quello dei tempi di Noè, di Lot e di tutti gli altri, risponde in modo che per i discepoli sarebbe stato certamente criptico: “dove sarà il cadavere, lì si raduneranno insieme anche gli avvoltoi”. È interessante notare il sostantivo greco per indicare “cadavere” e qui occorre dar ragione a quanti sostengono che, purtroppo, nessuna traduzione potrà mai rendere lo stesso concetto della lingua originale: ptòma, oltre che “cadavere”, significa “caduta, disgrazia, sciagura, disfatta, errore, rovina, rottame”, per cui l’allusione è a tutto ciò che è conseguenza del peccato inteso come risultato dell’allontanamento volontario da Dio.

È quindi chiaro che la frase “dove sarà il cadavere, qui si raduneranno gli avvoltoi” allude non a una salma prossima ad essere divorata da quei rapaci, ma ha un senso molto più elevato ed ampio, riferendosi prima di tutto ad un’umanità già morta anche se vivente, che ha quindi perso senza alcuna possibilità di recupero qualsiasi possibilità di salvezza proprio perché avrà cercato di “salvare la propria vita”. E il ricordo della frase detta a quel tale che disse “Permettimi prima di seppellire mio padre”, “lascia i morti seppellire i loro morti”, può aiutarci nella comprensione.

“Gli avvoltoi”, tradotti anche con “aquile”, sono allora gli esecutori dei piani di Dio, siano essi un popolo con l’effige dell’aquila che si comporterà secondo i criteri di Deuteronomio 28.49 e seguenti, come abbiamo citato, oppure gli angeli, radunati per eseguire gli ordini negli ultimi giorni, o tempi, come parla diffusamente l’apostolo Giovanni nella sua Apocalisse, che hanno la funzione ora di aquila (animale che non lascia nessuno scampo) ora di avvoltoio, chiamato anche “spazzino del deserto”.

Concludendo, Gesù con questo discorso profetico dà ai discepoli una prima indicazione di qualcosa di molto più ampio che affronterà in seguito, cui Matteo dedica due capitoli e Marco uno. Partire, in questo panorama di eventi futuri, dal Luca, è importante perché, essendo il discorso più “leggero”, ci fornisce le chiavi interpretative per il successivo, che Dio concedendo affronteremo quando Nostro Signore starà a Gerusalemme per il poco tempo ancora a lui dato per concludere il Suo Ministero. Amen.

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15.04 – QUANDO VERRÀ IL REGNO DI DIO III/IV (Luca 17.26-32)

15.04 – Quando verrà il Regno di Dio III/IV (Luca 17.26-32)

 

26Come avvenne nei giorni di Noè, così sarà nei giorni del Figlio dell’uomo: 27mangiavano, bevevano, prendevano moglie, prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca e venne il diluvio e li fece morire tutti. 28Come avvenne anche nei giorni di Lot: mangiavano, bevevano, compravano, vendevano, piantavano, costruivano; 29ma, nel giorno in cui Lot uscì da Sòdoma, piovve fuoco e zolfo dal cielo e li fece morire tutti. 30Così accadrà nel giorno in cui il Figlio dell’uomo si manifesterà. 31In quel giorno, chi si troverà sulla terrazza e avrà lasciato le sue cose in casa, non scenda a prenderle; così, chi si troverà nel campo, non torni indietro. 32Ricordatevi della moglie di Lot.

 

Nel verso 24 Gesù aveva parlato di Lui e del Suo giorno paragonandolo alla folgore che splende improvvisa da un capo all’altro del cielo e che sorprende tutti, ma al 26 usa il plurale, “mangiavano, bevevano” etc.:“così sarà nei giorni del Figlio dell’uomo” a conferma che ogni qualvolta Lui si manifesta, indipendentemente dalle sue forme e dal tipo di giorno, ci sarà sempre chi resterà annientato e chi si salverà. E vengono scelti due esempi immediati, il diluvio su cui abbiamo dato qualche cenno nello scorso capitolo e la distruzione del territorio di Sodoma.

Vediamo brevemente i due contesti a partire da “i giorni di Noè”. Genesi 6.1-3 introduce la vicenda del diluvio così: “Quando gli uomini cominciarono a moltiplicarsi sulla terra e nacquero loro delle figlie, i figli di Dio videro che le figlie degli uomini erano belle e ne presero per mogli a loro scelta. Allora il Signore disse: «Il mio spirito non resterà sempre nell’uomo, perché egli non è altro che carne e la sua vita sarà di centoventi anni»”.

Ora si tratta di versi su cui si potrebbero spendere molte parole, ma rimanendo aderenti al testo dobbiamo considerare che quanto ci viene presentato riguarda il fatto che la visione umana della vita aveva finito per ridursi esclusivamente al quotidiano, alla sua orizzontalità dimenticando completamente l’esistenza di Dio. Questa condotta aveva riguardato anche “i figli di Dio”, termine che indica coloro che si erano un tempo a lui votati secondo Genesi 4.26 “Anche a Set nacque un figlio, che chiamò Enos. Allora si cominciò a invocare il Nome del Signore”. “I figli di Dio” erano allora quelli che avevano uno scopo spirituale ed erano destinati, secondo il progetto del Creatore, ad ereditare le Sue promesse.

Ora, da quanto abbiamo letto, il peccato degli uomini ai tempi di Noè fu proprio quello di avere abbandonato il tendere naturale verso Dio seguendo la coscienza – perché tale era la dispensazione di allora – a vantaggio della propria carne che l’annullò, la ridusse, la cauterizzò; facciamo infatti attenzione a ciò che si cela dietro le parole “Vedendo che le figlie degli uomini – cioè di chi non era come loro, i profani e penso alla generazione dei figli di Caino – erano belle – cioè diverse da quelle che avevano loro, quindi più sensuali, che curavano l’aspetto del proprio corpo per sedurre – ne presero per mogli a loro scelta”: i “figli di Dio” guardarono solo alla propria soddisfazione, fisica ed estetica e probabilmente impostarono la propria vita sull’appagamento sessuale fine a se stesso.

La scelta di quei “figli di Dio” non fu volta alla ricerca di una compagna che collaborasse al piano di Dio costruendo un rapporto di coppia volto al servizio e ai figli visto che, a differenza di oggi, c’era una terra da popolare, ma a qualcosa di distruttivo a lungo andare come sarà descritto in Esodo 34.16, quindi nella dispensazione della Legge: “Non prendere per mogli dei tuoi figli le loro figlie – quelle dei popoli vicini a Israele –, altrimenti, quando esse si prostituiranno ai loro dèi, indurrebbero anche i tuoi figli a prostituirsi ad essi”, e l’apostolo Paolo, considerando l’argomento nella sua globalità, scriverà “Non lasciatevi legare al giogo estraneo dei non credenti. Quale rapporto infatti può esservi fra giustizia e iniquità e quale comunione fra luce e tenebre?” (2 Corinti 6.14).

Ecco, ai tempi di Noè da questa mescolanza di usi e costumi giunse la deriva del genere umano cui il Creatore volle inizialmente risparmiare lo sterminio attendendo centoventi anni prima di agire, lo spazio intercorrente tra il piantare gli alberi necessari alla costruzione dell’arca e il diluvio che avvenne 1656 anni dopo che Adamo ed Eva furono esclusi da Eden. Basta poco per collegare 1656 a 666, numero che più di qualunque altro ha attinenza con ciò che è immondo ed assolutamente imperfetto, incompatibile a Dio. E altrettanto poco basta per individuare nel 120 il numero della pazienza di Dio, 12×10.

Ora, tornando al testo, cosa dice Gesù? Che “nei giorni del Figlio dell’uomo”, cioè ogni volta che vi sarà un intervento in giudizio, sarà perché gli uomini Lo avranno dimenticato: “mangiavano, bevevano, prendevano moglie, prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca e venne il diluvio e li fece morire tutti”. Se sostituiamo a “venne il diluvio” “finì la pazienza di Dio” abbiamo il senso di ciò che intende dire Nostro Signore. Tanto ai tempi di Noè quanto a ai “giorni del Figlio dell’uomo” il mondo sarà immerso nella totale indifferenza alle Sue aspettative, alla Sua esistenza, al Suo sacrificio e non credo sia un caso se si legge sempre con maggiore frequenza sulla stampa la parola “Dio” scritta in minuscolo: da Persona, è diventato un ingombrante oggetto che ormai appartiene al passato perché, se così non fosse, l’espansione umana verso la libertà egoistica non potrebbe realizzarsi. La libertà di fare e farsi del male, perché ciò che facciamo agli altri inevitabilmente torna indietro. L’appagamento personale predicato dev’essere pórto come qualcosa di legittimo, perché sia raggiunto non può essere considerato come egoismo.

Ora Luca è l’unico, dopo Matteo e Marco che riportano l’esempio di Noè, a parlare di Lot, e lo fa inquadrando il suo tempo e relativa morale vigente nella regione di Sodoma, con verbi diversi da quelli impiegati prima, cioè leggiamo “mangiavano, bevevano, compravano, vendevano, piantavano, costruivano; ma, nel giorno in cui Lot uscì da Sòdoma, piovve fuoco e zolfo dal cielo e li fece morire tutti”: mangiare e bere riguardano il sostentamento, ma qui sono chiaramente usati nel senso di indifferenza allo stare davanti a Dio per rendere grazie di ciò che si mangia e si beve o render conto di ciò che si progetta e realizza. C’è poi una grande differenza fra il nutrirsi di chi conduce vita sobria e di chi porta avanti la filosofia del “mangiamo e beviamo perché domani morremo” (1 Corinti 5.32). Ancora una volta, quindi, i due verbi sono impiegati per designare una ricerca, una dedizione, una schiavitù al mangiare e al bere visto come piacere cui dedicarsi senza essere mai sazi.

Gli altri verbi, poi, sono operativi e indicano una volontà di sviluppo; comprare e vendere, quindi il commercio, per poi piantare e costruire che ci rimanda ancora una volta al voler conquistare un’autonomia che escluda una volta per tutte l’uomo da Dio, il non dover rendergli conto. E qui possiamo andare all’episodio della torre di Babele, le cui intenzioni furono molto simili: “Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo, e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra” (Genesi 11.4). Il “nome” doveva essere dato alla città e alla torre che arrivasse al cielo (in opposizione a quello di Dio), simbolo dell’ingegno e della potenza umana di allora, espediente per impressionare gli altri popoli che avrebbero potuto così temere chi fosse in grado di costruire un simile prodigio e aderire così al loro progetto di autonomia.

I popoli pre-diluvio e i costruttori di Babele sono gli antesignani di coloro che poi costruirono e fondarono gli imperi e coadiuveranno l’Avversario nell’ultimo suo capolavoro che si realizzerà con la Bestia e il Falso Profeta.

Uscito Lot da Sodoma, “piovve fuoco e zolfo dal cielo e li fece morire tutti”, altro grande giudizio dal quale però furono risparmiati i giusti che vivevano in quel territorio, cioè Lot e coloro che beneficiavano delle sue benedizioni cioè il genero, i suoi figli e figlie “e quanti aveva in città”, che ci parla del fatto che alcuni, in Sodoma, si erano dimostrati sensibili a uno stile di vita opposto a quello della maggioranza (Genesi 19.12).

A proposito della “pioggia di fuoco e zolfo” che distrusse la regione, è interessante rilevare che la scienza ha escluso un’attività vulcanica, ma ha optato per l’esplosione di una meteorite individuandola nella presenza, in quella regione, del cosiddetto “quarzo da impatto”, cioè di una formazione rocciosa spiegabile solo ipotizzando una variazione di pressione estremamente elevata, del genere di quella causata dall’esplosione di un asteriode in aria. Si è calcolato che questa abbia rilasciato circa 1000 volte l’energia della bomba che colpì Hiroshima: nella regione di Sodoma morirono più di 8mila persone e la frammentazione degli scheletri individuata dagli archeologi sembrerebbe indicare un evento di enorme violenza. Addirittura si pensa che lo sbalzo di pressione provocato dall’immane esplosione sui cieli di Sodoma possa essere la causa della particolare salinità del vicino Mar Morto e le prove sembrano indicare che notevoli quantità di sale si siano alzate dal terreno, provocando anche la desertificazione delle zone circostanti. Ricordiamo infatti che la zona, prima del giudizio di Dio, fu descritta in 13.10 con queste parole: “Allora Lot alzò gli occhi e vide che tutta la valle del Giordano era un luogo irrigato da ogni parte, prima che il Signore distruggesse Sodoma e Gomorra, come il giardino del Signore, come la terra d’Egitto fino a Soar”.

Ancora, le parole “li fece morire tutti” ci parlano della fine di tutto, quindi della non più esistenza del mangiare, bere, comprare, vendere, piantare, costruire, di ogni progetto, ci parlano dell’alt di Dio alle iniziative dell’essere umano che da sempre a Lui è ribelle. E abbiamo letto “Ma, nel giorno in cui Lot uscì da Sodoma”, cioè di fronte alle rivendicazioni di autonomia da Dio esisterà sempre il Suo “Ma”.

 

Abbiamo così il verso 30, “Così accadrà nel giorno in cui il Figlio dell’uomo si manifesterà” in cui Gesù allude a tutti quei momenti in cui farà irruzione nella storia per variare i piani dell’uomo che Lo avrà rifiutato e, in questo caso, parla appunto della distruzione di Gerusalemme, poiché esorta i credenti di allora a scappare senza preoccuparsi di nient’altro: chi si sarebbe trovato sulla terrazza, che nelle case di allora era il tetto al quale si accedeva con una scala dall’esterno, non sarebbe dovuto passare a prendere qualcosa nell’alloggio, e così chi si sarebbe trovato “nel campo” non avrebbe dovuto tornare indietro, pena le perdita della vita.

È bello sapere che nella distruzione di Gerusalemme non perì nessun cristiano perché, come scrive Eusebio nel III° secolo, l’avevano abbandonata prima obbedendo ad un ordine profetico. Infatti, citando Matteo, Gesù disse ai Suoi come riconoscere il tempo della fuga, “Quando dunque vedrete presente nel luogo santo l’abominio della devastazione di cui parlò il profeta Daniele…” e con questo termine si allude certamente alla profanazione del tempio ad opera di Antioco Epifane, ma estende il fatto alla distruzione di tutto ciò che era santo, compresa la città, per cui tra il vedere le insegne romane e l’assedio dovette passare davvero pochissimo tempo; dopo fuggire sarebbe stato impossibile anche perché a vigilare affinché nessuno uscisse dalla città c’erano gli zeloti, che ammazzavano chiunque ci provasse. E comunque, quand’anche uno fosse riuscito a scampare a loro, in città, avrebbe trovato i romani ad attenderlo fuori.

 

Infine abbiamo l’avvertimento “Ricordatevi della moglie di Lot”, che si voltò indietro e divenne “una statua di sale”: commise l’errore di pensare al suo passato, volle tornare indietro, indugiò mentre avrebbe dovuto pensare solo a scappare. Il suo errore fu quello di non aver dato retta alle parole dell’angelo, “Fuggi, per la tua vita. Non guardare indietro e non fermarti dentro la valle: fuggi sulle montagne per non essere travolto”. Da notare che comunque Lot e la sua famiglia abbandonarono Sodoma con esitazione al punto tale che gli angeli “presero lui, la sua moglie e le sue due figlie per la mano e lo fecero uscire e lo misero fuori dalla città”.

Allo stesso modo, il non ubbidire all’ordine profetico di Gesù avrebbe comportato la morte sotto l’assedio della città.

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15.03 – QUANDO VERRÀ IL REGNO DI DIO II/IV ( Luca 17.22-25)

15.03 – Quando verrà il Regno di Dio 2 (Luca 17.22,25)

 

22Disse poi ai discepoli: «Verranno giorni in cui desidererete vedere anche uno solo dei giorni del Figlio dell’uomo, ma non lo vedrete. 23Vi diranno: «Eccolo là», oppure: «Eccolo qui»; non andateci, non seguiteli. 24Perché come la folgore, guizzando, brilla da un capo all’altro del cielo, così sarà il Figlio dell’uomo nel suo giorno. 25Ma prima è necessario che egli soffra molto e venga rifiutato da questa generazione.

 

Se ai farisei furono rivolte parole indispensabili per correggere la falsa opinione che avevano sulla venuta del regno di Dio, ai discepoli disse molto di più e, come già anticipato, possiamo interpretare questo breve discorso come un’anticipazione di quello detto “escatologico” che Matteo e Marco riporteranno più nei dettagli. Non ci troviamo infatti di fronte ad un frammento evangelico, ma ad un discorso autonomo col quale Nostro Signore fornisce dei contenuti che i suoi avrebbero dovuto assimilare nell’attesa di una trattazione più ampia.

Tutta la vista spirituale, non solo loro ma di tutti i credenti, si basa sull’ascolto di concetti che magari non si comprendono immediatamente, ma restano impressi nella mente in attesa che lo Spirito faccia sì che germoglino spontaneamente o con esperienze che ne diano dimostrazione, li rendano concreti. Certo, anche sul tornare con ripetizioni e l’aggiunta di nuovi particolari o elementi che poi vadano a comporre un quadro più ampio.

I farisei, nonostante le parole di Gesù, avrebbero sicuramente continuato nella ricerca di “segni” sulla venuta del regno e del Messia, avranno detto “Eccolo qui, eccolo là” incapaci di individuare quello vero, ma non così i discepoli, che nelle varie epoche avrebbero voluto riconoscere i segni preannuncianti il ritorno del loro Signore e la fine del mondo, ma non avrebbero dovuto equivocarli, fraintendere.

Va specificato cosa si debba intendere con “i giorni del Figlio dell’uomo”, che secondo lo stesso Gesù nel verso in esame sono diversi, o “la venuta del Figlio dell’uomo”, perché istintivamente tendiamo a identificarli con il Suo Ritorno, il che è giusto in parte o, meglio, così è per noi e per i tempi che restano, ma all’epoca in cui furono pronunciate queste parole il significato era diverso perché così si indicavano altri eventi. Ad esempio, leggendo con la nostra forma mentis le parole “In verità io vi dico: vi sono alcuni tra i presenti che non moriranno, prima di aver visto venire il Figlio dell’uomo con il suo regno” (Matteo 16.28) si potrebbe concludere che Gesù non abbia detto il vero o si sia comunque sbagliato poiché per noi la Sua venuta sarà secondo Apocalisse 1.7, “Ecco, Egli viene con le nuvole e ogni occhio lo vedrà: lo vedranno anche quelli che lo trafissero, e tutte le tribù della terra faranno lamenti per lui. Sì, Amen”. L’apostolo Paolo, poi in 2 Tessalonicesi 2.8-11 annuncia un ritorno del Signore per la distruzione dell’Anticristo e l’inaugurazione del Millennio.

Si tratta di parole importanti perché, oltre a segnalare ciò che avverrà, spiegano alcune dinamiche di Dio: “Allora l’empio sarà rivelato e il Signore Gesù lo distruggerà con il soffio della sua bocca e lo annienterà con lo splendore della sua venuta. La venuta dell’empio avverrà nella potenza di Satana, con ogni specie di miracoli e segni e prodigi menzogneri e con tutte le seduzioni dell’iniquità, a danno di quelli che vanno in rovina perché non accolsero l’amore della verità per essere salvati. Dio perciò manda loro una forza di seduzione, perché essi credano alla menzogna e siano condannati tutti quelli che, invece di credere alla verità, si sono compiaciuti dell’iniquità”.

Ecco allora che tutti gli avvenimenti che caratterizzarono le reazioni di Dio all’empietà dell’uomo, dalla distruzione di Gerusalemme in poi, possano essere definiti come un “ritorno del Figlio dell’uomo”, e parlo naturalmente dei grandi eventi che la storia ha registrato e di cui troviamo traccia negli scritti dell’Antico e soprattutto del Nuovo Patto. Certo, tutto questo avrà il punto culminante e finale con la Sua apparizione personale “quando si manifesterà il Signore Gesù dal cielo, insieme agli angeli della sua potenza, con fuoco ardente, per punire quelli che non riconoscono Dio e quelli che non obbediscono al vangelo del Signore nostro Gesù. Essi saranno castigati con una rovina eterna, lontano dal volto del Signore e dalla sua gloriosa potenza. In quel giorno egli verrà per essere glorificato nei suoi santi ed essere riconosciuto mirabile da tutti quelli che avranno creduto” (2 Tessalonicesi 1.7-10).

Ma cosa significano le parole del verso 22, “Verranno giorni in cui desidererete vedere anche uno solo dei giorni del Figlio dell’uomo, ma non lo vedrete”? Il riferimento è proprio al senso di smarrimento che molti di loro avrebbero provato a fronte degli avvenimenti terribili di distruzione della santa città, che avrebbero suscitato in loro un ardente desiderio di vedere “uno solo dei giorni” di Gesù trionfante che li consolasse dal loro sentirsi inermi.

Se insisto sulla distruzione di Gerusalemme non è per ribadire un concetto già noto, ma perché fu un avvenimento atroce a tal punto che Gesù lo definì con queste parole, “…una tribolazione grande, quale non vi è mai stata dall’inizio del mondo fino ad ora, né mai più vi sarà” (Matteo 24.21). E infatti le cronache degli storici di allora, oggi dimenticate e relegate ad un ristretto numero di studiosi, ci parlano di seicentomila cadaveri buttati giù dalle mura e di 115.880 portati fuori da una sola porta della città.

E possiamo anche prendere atto delle parole di Deuteronomio 28 sulle conseguenze del non ascolto della Parola del Signore, qui Gesù Cristo: “Il signore solleverà contro di te da lontano, dalle estremità della terra, una nazione che si slancia a volo come aquila – notare che i Romani e non solo la ebbero come emblema – una nazione della quale non capirai la lingua – perché di ceppo non semita –, una nazione dall’aspetto feroce, che non avrà riguardo per il vecchio né avrà compassione del fanciullo. Mangerà il frutto del tuo bestiame e il frutto del tuo suolo, finché tu non sia distrutto e non ti lascerà alcun residuo di frumento, di mosto, di olio, dei parti delle tue vacche e dei nati delle tue pecore, finché ti avrà fatto perire. (…) Durante l’assedio e l’angoscia alla quale ti ridurrà il tuo nemico, mangerai il frutto delle tue viscere, le carni dei tuoi figli e delle tue figlie che il Signore tuo Dio ti avrà dato”. Riporto i versi da 49 a 53, ma andrebbe letto tutto il capitolo. Certo, fare i conti con Dio in giudizio è sempre stato e sarà cosa terribile.

Ecco allora che Gesù, con questo verso, vuol dire ai Suoi che, benché il Regno di Dio fosse dentro di loro e in mezzo a loro, non per questo Lui avrebbe accompagnato i discepoli in un cammino glorioso in senso umano. Certo avrebbe lasciato loro lo Spirito Santo, che non per nulla è definito “Il Consolatore”, ma le Sue manifestazioni non sarebbero state così immediate come l’averlo in carne ed ossa in mezzo a loro nel senso che, col passare anche di un secolo, l’accettazione per fede sarebbe stata sempre più impegnativa. Infatti dirà: “Ancora per poco sono con voi; voi mi cercherete ma, come ho detto ai Giudei ora lo dico anche a voi: dove vado io, voi non potete venire” (Giovanni 13.33), Sarebbe giunto un tempo in cui “chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio” (16.2).

Le altre parole di Gesù sono affrontabili sotto due prospettive, quella primaria del tempo a venire nel giro di qualche decennio, e quella futura, allora lontana nel tempo umanamente misurabile. Avrebbero detto “Eccolo là” o “Eccolo qui”: questo era il Messia tanto cercato e atteso, ma altrettanto ignorato che i Giudei crederanno di riconoscere, ma è un’espressione per indicare tutte quelle manifestazioni false di Dio portate avanti da altrettanto falsi profeti per loro scopi personali e basta pensare alle fortune economico-finanziarie costruite sulla religione per rendersene conto. Ecco allora che l’imperativo “Non andateci, non seguiteli” ha senso sia nell’una che nelle altre epoche perché i discepoli e chi segue Gesù anche oggi hanno già avuto il loro maestro e lo hanno ancora secondo la sua promessa “Io sono con voi fino alla fine del mondo”; andare a cercarlo là dove non può essere, non ha senso, è una perdita di tempo.

Le ultime parole, secondo la suddivisione che ho dato a questi studi, sono “Perché come la folgore, guizzando, brilla da un capo all’altro del cielo, così sarà il Figlio dell’uomo nel suo giorno”: è la spiegazione, il riporto alla vera realtà che vede da una parte uomini che attendono il Messia e lo cercano secondo le loro aspettative, dall’altra uomini che hanno trovato “il Figlio dell’uomo”, il loro personale Salvatore.

Anche qui, qual è il “giorno” del Figlio dell’uomo: quello imminente per i discepoli del 70 d.C., o quello finale, l’ultimo, in cui la zizzania verrà bruciata e il grano riposto? E ancora, cosa si intende per “Fine”, sono “I cieli e la terra” che “passeranno”? O la discesa della Nuova Gerusalemme, il gettare Satana e i suoi angeli “nello stagno ardente”? La risposta corretta credo che sia “tutti”, così come tutti loro dipendono dal verso 25, “Ma prima è necessario che egli soffra molto e venga rifiutato da questa generazione”, cioè quella dei Giudei che Lo avrebbe condannato in vita, nel momento in cui parlava. Sono parole simili al primo annuncio della passione, dopo quelle di Pietro che lo riconosceva come il Cristo di Dio: “Il figlio dell’uomo deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno” (Luca 9.22), anche loro entrambi “giorni” del Figlio dell’uomo perché in essi ha fatto cose fondamentali per la salvezza del peccatore, immolandosi come “Agnello di Dio che prende su di sé il peccato del mondo” e dimostrando una volta per tutte di esserlo, visto che la resurrezione altro non è che la conferma di tutto quanto detto da Lui e dal profeti.

“È necessario che prima soffra molto” dove “molto” non è inteso come “tanto”, come potrebbe sembrare, ma nel senso di “molte cose”, come traducono altri, facendo riferimento ai tanti tipi di sofferenze che dovette affrontare. La condizione per la quale sarebbe poi arrivato il Suo Giorno, termine che abbiamo visto racchiudere tante situazioni e significati, era proprio il soffrire, il morire ed il risorgere. Amen.

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15.02 – QUANDO VERRÀ IL REGNO DI DIO I/IV Luca 17.20,21)

15.02 – Quando verrà il Regno di Dio 1/4 (Luca 17.20,21)

 

 

20I farisei gli domandarono: «Quando verrà il regno di Dio?». Egli rispose loro: «Il regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione, 21e nessuno dirà: «Eccolo qui», oppure: «Eccolo là». Perché, ecco, il regno di Dio è in mezzo a voi!».

 

Entriamo ora in un ambito molto delicato per una quantità innumerevole di motivi. Luca pone qui un discorso di Gesù ai farisei (e poi ai discepoli) che troviamo in quello detto “escatologico” riportato da Matteo e Marco. L’Evangelista quindi anticipa una trattazione che, più avanti nell’ultima settimana della Passione, si farà estremamente più complessa e la fa originare da una domanda dei farisei. È assai probabile che l’argomento sia stato affrontato da Gesù due volte, una prima quando la colloca Luca e una seconda a Gerusalemme. Ora, poiché la richiesta dei farisei come vedremo era del tutto strumentale, Nostro Signore risponderà loro per il minimo indispensabile, dando qualche accenno in più ai discepoli che comunque lo avrebbero correttamente interpretato una volta sceso lo Spirito Santo.

Una premessa di basilare importanza va fatta sulle parole di Gesù sui tempi futuri in genere, che vengono spesso lette dai credenti con troppa superficialità nel senso che tendono a considerarle come se riguardassero soltanto loro e l’epoca in cui vivono, o al limite i tempi futuri; lo stesso avviene nella lettura dei profeti dell’Antico Patto, ma ci si dimentica che le parole che leggiamo sono state scritte per tutti, indipendentemente dall’epoca in cui sono vissuti per cui una parte di esse si è già adempiuta ed un’altra deve ancora accadere. Non solo, ma siccome il linguaggio dello Spirito non segue i criteri umani, spesso un significato ha valenza per più tempi e comprende più elementi, procedendo il messaggio per simboli, idee che nulla hanno di preconcetto, messaggi la cui comprensione si apre e si chiude secondo una logica che non è quella dell’ “uomo naturale” che conosciamo.

Così questo nuovo episodio si apre con una domanda dei farisei, cui nulla importava apprendere da Gesù, su un tema che a loro stava molto a cuore, cioè la venuta del regno di Dio. Questa era impossibile che avvenisse, secondo loro, senza la presenza operante di quel Messia vittorioso, risolutore dei problemi della Nazione ebraica che avrebbe eliminato l’oppressione di Roma. Il Messia che aspettavano avrebbe dovuto governare e guidare il popolo verso un’era di pace e prosperità per tutti i popoli, primo fra tutti Israele (ecco perché Gesù si ritirò sul monte quando “volevano farlo re” in Giovanni 6.15).

L’attesa del Messia si può dire che per Israele fosse (e sia) spasmodica: era venuto Giovanni il Battista che Lo aveva annunciato, ma secondo loro Colui che attendevano non si era visto e allora scrutavano e interpretavano i segni anche minimi nella storia per poterli cogliere ed essere in grado di riceverLo. E lo avevano lì, davanti a loro! Quindi la domanda “Quando verrà il regno di Dio?” fa riferimento al loro stato d’animo di ricerca – attesa (ipocrita), ma al tempo stesso alla loro ostilità nei confronti di Gesù, alla speranza di coglierlo in flagrante attraverso non tanto una risposta, ma tramite tutti i discorsi che ne sarebbero conseguiti e che non avrebbero portato da nessuna parte. Se Gesù avesse risposto “il regno di Dio è qui, è adesso, sono io che ve lo porto”, non avrebbe avuto senso perché erano tutti concetti che aveva già portato avanti e ampiamente dimostrato.

Era come se i farisei avessero detto: “Noi non vediamo alcun segno glorioso che ci faccia pensare che sia tu a portarci il regno di Dio; aspettiamo il Messia esattamente come i nostri padri, ma non sappiamo quando questo potrà realizzarsi: diccelo tu, visto che ci parli continuamente di questo”. Possiamo anche dire che quando al verso 21 e 23 troveremo la stessa espressione, “Eccolo là, oppure Eccolo qui”, il riferimento sarà (anche) all’attesa che Israele continuerà avere per quel Messia non riconosciuto ma tanto atteso e a tutte le fedi riposte in falsi cristi.

La risposta di Nostro Signore ai farisei fu lapidaria e assolutamente veritiera, mostrando loro quanto fossero distanti dalla comprensione di un concetto che invece era stato certamente accolto dai Padri da cui si vantavano di discendere: “Il regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione”, primo enunciato. La traduzione non è corretta perché sarebbe “in modo da potersi osservare”, greco paratéresis che allude a uno scrutare continuo, come quello dei Magi d’Oriente che aspettavano una stella che indicasse la nascita del “Re dei giudei”, uno stare all’erta per scoprire qualcosa che altrimenti passerebbe inosservato.

Il regno di Dio quindi, secondo queste parole, è qualcosa che trascende, cioè non è riconducibile alle determinazioni dell’esperienza in quanto sussiste indipendentemente dalla realtà di cui è peraltro il presupposto. Infatti ricordiamo cosa disse Gesù a Pilato: “Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù” (Giovanni 18.36). Quindi il regno di Dio è qualcosa che sfugge alla logica umana, non si vede, geograficamente è introvabile e, se aspetti che si riveli attraverso manifestazioni eclatanti, rimarrai fermo e deluso. Il regno dei cieli non può essere “toccato con mano”, visto coi nostri occhi che il peccato un tempo ha “aperto” a realtà ben diverse e, quando ciò sarà possibile, verrà preclusa ogni salvezza a tutti coloro che non l’avranno accolto. Non si può dire “«Eccolo qui» o «Eccolo là»” cioè andando alla ricerca di un luogo più santo di altri, di manifestazioni appariscenti, di fenomeni inspiegabili per poter finalmente credere, di qualcosa che dissipi uno stato d’animo che altro non è che la ferrea volontà di rimanere ciò che si è e tenere ciò che si ha.

Perché la vera rivelazione è “ecco, il regno dei cieli è in mezzo a voi”, greco “enròs umòn” traducibile anche con “dentro di voi”, entrambe esatte perché, tra l’altro, prese assieme mostrano il progressivo sviluppo della “nuova creatura” che si realizza in Cristo. Dire che Dio è in mezzo agli uomini mi sembra eccessivo perché tra essi è stato, ma è accanto a chi lo cerca ed è proprio una volta lasciatosi trovare che viene ad essere “dentro” di loro anche secondo Apocalisse 3.20 “Ecco, io sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, cenerò con lui ed egli con me”.

Quando poi si realizza la nuova nascita, ecco che il “regno di Dio” è anche “in mezzo” perché si crea la Chiesa, la Comunità dei credenti, dei “chiamati fuori” da un mondo al quale appartenevano e che ora non riconoscono più come prima in quanto ormai privo di attrattive.

Quella che abbiamo dato, però, è una lettura che allora non era possibile, per cui ne va cercata un’altra che non credo possa essere diversa da quella che vede il regno di Dio in mezzo a “voi”, farisei, perché Gesù era presente in mezzo a loro, pronto a leggere i cuori di ognuno e a salvare e sono convinto che, se tra quelle persone ci fosse stato qualcuno che credeva in Gesù e non si manifestava come discepolo per timore, questi avrebbe compreso immediatamente ciò che voleva dire. Quelle persone vivevano “in mezzo” al regno di Dio, eppure continuavano a non vederlo e a cercarlo da un’altra parte perché la sua venuta gli era sfuggita o, più propriamente, non avevano voluto vederla.

Allora, con questi pochi dati che abbiamo raccolto, possiamo tornare indietro alla prima frase, “Il regno di Dio non viene in modo da potersi osservare”, e adattarla ai giorni nostri in cui il regno di Dio certo non occupa i pensieri della gente, anzi esiste tutta una strategia per elevare una creatura insignificante come l’uomo a signore assoluto, padrone del proprio destino, delle proprie scelte e del mondo intero. Qui il “non potersi osservare”, o il meno adatto “attirare l’attenzione” significa da un lato che, come in ogni altro tempo, il regno va cercato, e dall’altro che quando si manifesterà sarà troppo tardi perché la miopia autoinflitta dagli uomini avrà impedito loro di riconoscerlo, e qui possiamo effettuare un piccolo “sconfinamento” sul grandissimo discorso escatologico di Gesù ai suoi che darà in proposito almeno due indizi importanti. E siccome il regno implica il ritorno di Cristo, andiamo a vederli brevemente.

Il primo indizio è di carattere storico e si sarà sicuramente impresso in modo indelebile in tutti e lo troviamo pochi versi più avanti: “Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del figlio dell’uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell’uomo” (Matteo 24.37,39; vv. 26,27 del nostro capitolo). Questo è un atto di accusa perché anche a quel tempo nessuno volle vedere: tutti noi sappiamo che Noè fu il costruttore dell’Arca, ma spesso ci sfugge il lavoro che quest’opera immensa richiese ed il fatto che è impossibile che sia passata inosservata dai suoi conterranei: è stato calcolato che per costruirla – occorrerà attendere la fine del 1800 per avere una “nave” pari a quelle dimensioni – ci vollero circa 40mila piante di cedro o di pini di Aleppo da prelevare in un bosco estensivo di circa 8000 ettari; ogni albero poi doveva essere abbattuto, pulito dai rami, scortecciato e sommariamente squadrato e solo per queste operazioni una persona impiega un giorno per ogni pianta; poi questi dovevano essere trasportati in un punto di raccolta che era l’area dove doveva essere costruita l’arca. In ogni albero, per permettere la giunzione, dovevano essere praticati minimo (6+6) fori in cui innestare i relativi pioli. Poi i diversi alberi dovevano essere accatastati e giuntati. Alla fine bisognava calatafare il tutto con circa 300 q.li di pece bollente; per fare il tutto circa 160 persone avrebbero dovuto lavorare per circa 400 giorni. Da notare che, secondo una tradizione ebraica, Noè ha effettivamente diffuso tra gli uomini l’avvertimento divino della distruzione ed ha piantato dei cedri quasi centoventi anni prima dell’inondazione perché i peccatori avessero il tempo di prendere coscienza del loro vivere errato e di convertirsi.

Ecco perché il 120 è il numero della pazienza di Dio.

Credo che questa non sia affatto un’interpretazione azzardata perché l’apostolo Pietro ci dice che Noè “fu un predicatore di giustizia” (IIa, 2.5). Eppure, non si accorsero di nulla.

Il secondo indizio lo possiamo trovare in 1 Tessalonicesi 5.2,3, “Infatti voi ben sapete che come un ladro di notte, così verrà il giorno del Signore. E quando si dirà: «Pace e sicurezza», allora d’improvviso li colpirà la rovina, come le doglie una donna incinta, e nessuno scamperà”. Credo che si tratti di un verso auto referenziante.

Concludendo, in questa prima parte Gesù replica ai farisei che, con quella domanda, gli fanno capire di non credere affatto in Lui. “Quando verrà il regno di Dio?” contiene infatti l’affermazione in base alla quale, visto che secondo loro non era certo Lui a portarlo, gli chiedono quando ciò sarebbe avvenuto. Oppure, peggio ancora, la loro richiesta era quella di “muoversi ad agire” perché, se era Lui quello che avrebbe portato il regno, allora beh, non lo aveva ancora fatto. Se teniamo buona questa lettura, una delle tante possibili, la risposta calma di Nostro Signore assume ancora più valore: “È in mezzo a voi”, o “è dentro di voi”; se nonostante tutta la vostra scienza religiosa non lo sapete trovare, è solo colpa vostra.

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15.01 – I DIECI LEBBROSI (Luca 17.11-19)

15.01 – I dieci lebbrosi (Luca 17.11-19)

 

11Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samaria e la Galilea. 12Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza 13e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». 14Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati. 15Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, 16e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano. 17Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? 18Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». 19E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».

 

Il verso 11 è utilizzato da Luca per inquadrare il periodo dedicato al viaggio di Gesù verso Gerusalemme, città dalla quale si era allontanato, come abbiamo visto, dopo gli eventi riportati da Giovanni 10 alla festa della Dedicazione. Ricordiamo che lo stesso evangelista, ai versi 40-42 , scrive che Gesù “ritornò quindi nuovamente al di là del Giordano, nel luogo dove prima Giovanni battezzava, e qui rimase. Molti andarono da lui e dicevano: «Giovanni non ha compiuto nessun segno, ma tutto quello che Giovanni ha detto di costui era vero». E in quel luogo molti credettero in lui”. Qui, con la cronaca di Luca, siamo già ufficialmente nell’ultimo viaggio verso la città in cui Nostro Signore avrebbe dovuto affrontare il Suo Sacrificio. Questo “attraversava la Samaria e la Galilea” è più probabile che in realtà alluda ad un transitare attraverso i confini delle due regioni per poi portarsi in Perea in cui era Betania dove risusciterà Lazzaro.

Abbiamo quindi un episodio particolare non solo per gli insegnamenti contenuti, ma anche per il passare di Gesù per un villaggio di cui non ci è detto il nome, alle cui porte stavano dieci lebbrosi, persone che abbiamo già affrontato quanto a significato della malattia e al tipo di vita che conducevano, essenzialmente condannati alla totale emarginazione: venivano cacciati dalla loro famiglia e dal villaggio, per il loro sostentamento dipendevano unicamente dalla compassione di chi portava loro qualcosa da mangiare, tenendosi accuratamente a distanza.

Il lebbroso doveva portare indumenti stracciati, tenere il capo scoperto, il labbro superiore velato e doveva gridare, quando una o più persone si avvicinavano a lui, “L’immondo! L’immondo!”, poi “…starà solo finché durerà in lui il male – quindi fino a quando non sarà guarito da Dio con successiva attestazione del sacerdote –; è impuro, se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento” (Levitico 13.46). Lo stare “solo”, riferito al fatto che nessuna persona sana poteva avvicinarsi a lui, non impediva che il lebbroso potesse accompagnarsi ad altri come lui ed è quello che si verifica nel nostro episodio in cui abbiamo un gruppo composto da nove giudei e un samaritano, segno che la loro triste condizione aveva annullato la tradizionale rivalità e disprezzo che intercorreva fra i due popoli.

Cerchiamo ora di esaminare la scena: Gesù e i discepoli, non sappiamo quanti, sono in avvicinamento all’ignoto villaggio e, giungendo nei pressi ma non dentro, incontrano i lebbrosi che si fermano “a distanza”, cioè rispettosi della Legge, dopo averlo riconosciuto, e comunicano per quanto possono “dicendo ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Mi sono chiesto a che distanza potessero trovarsi fra loro i due gruppi: il lebbroso doveva stare sempre controvento rispetto ad un eventuale incrociante, ma credo fosse la prudenza a regolarla, posto che tra il viandante occasionale che li incontrava e loro raramente potevano esservi dialoghi.

Qui, la richiesta dei dieci fu ridotta al minimo; dimostrano di conoscerlo, lo chiamano “maestro” e lo pregano di immedesimarsi in loro, indice del fatto che, onestamente, non imputavano la condizione in cui versavano a Dio, ma alle loro colpe: l’isolamento sociale e la sofferenza che provavano nel corpo e nell’anima era solo una parte di ciò che sperimentavano quotidianamente perché cosa significasse davvero l’essere estromessi dalla comunità del villaggio lo leggiamo in Numeri 5.1 e segg.: “…li allontanerete dall’accampamento, così non renderanno impuro il loro accampamento, dove io abito tra loro”: capiamo? L’Iddio di Israele abitava con gli altri, i sani, ma non con i lebbrosi. All’isolamento sociale, quindi, si accompagnava anche quello dell’anima, un esilio perché impuri e più peccatori degli altri.

E Gesù, l’Emmanuele, il “Dio con noi”, dà loro una risposta immediata, diversa dalle solite perché non dice, ad esempio, “Lo voglio, siate guariti”, ma ordina loro di andare a presentarsi ai sacerdoti, i soli che potevano legalmente dichiarare la guarigione in un caso del genere e quindi la riammissione della persona nella società. E il controllo da parte dei sacerdoti doveva essere ripetuto per tre volte a distanza di tempo, non è che l’assenza di macchie autorizzava a un ingresso nella congregazione. L’andare dai sacerdoti, quindi, era quanto Gesù richiedeva da loro, che così fecero ponendo quindi la loro fede in quell’ordine ricevuto. “Andate a presentarvi ai sacerdoti”, non chiese nient’altro e dobbiamo prestare attenzione al fatto che Gesù disse ciò non “appena li vide” come troviamo tradotto, ma “dopo averli visti”.

Il “dopo” ci dice che intercorse uno spazio di tempo, Nostro Signore non fece qualcosa di avventato o perché essendo misericordioso voleva far del bene quanto più possibile, no: in realtà li valutò. Considerò la loro sofferenza, il loro gridare, gli anni passati nell’esclusione, nell’essere ignorati, nel constatare la loro malattia che si aggravava senza possibilità di un riscatto, nel vedere il loro corpo disfarsi poco a poco, cadere letteralmente a pezzi. Il “vedere” di Gesù non comporta mai indifferenza come nella parabola del “buon samaritano”, unico a “vedere” e a non “passare oltre” come avevano fatto tutti coloro che lo avevano preceduto nel transito.

Gesù guarda e cerca sempre qualcuno che lo cerchi, o che lo riconosca e, naturalmente, gridi a lui, come in questo caso. E quei dieci lebbrosi sapevano che Lui era l’unico al quale potevano rivolgersi per essere guariti; dagli altri uomini, al limite, potevano avere un gesto di riluttante consegna di qualcosa da mangiare per non morire di fame, ma già morti dentro, come sapevano i quattro lebbrosi di 2 Re 7.3,4 per i quali, fra il vivere e il morire, non intercorreva differenza alcuna: “Ora c’erano quattro lebbrosi sulla soglia della porta – di Samaria –. Essi dicevano fra di loro: «Perché stiamo seduti qui ad aspettare le morte? Se decidiamo di andare in città, in città c’è la carestia e vi moriremo. Se stiamo qui, moriremo. Ora, su, passiamo all’accampamento degli Aramei: se ci lasceranno in vita, vivremo; se ci faranno morire, moriremo».

“Andate a presentarvi ai sacerdoti” era quanto veniva richiesto a queste persone che infatti si incamminarono subito, senza chiedersi come mai non li aveva voluti guarire subito, anche se sapevano benissimo che senza una dichiarazione sacerdotale era impossibile venire riammessi in società. E allora andarono, ma anche qui va prestata attenzione perché non è detto che in quel villaggio il sacerdote vi fosse e in ogni caso si dovettero separare perché il lebbroso samaritano avrebbe dovuto venire dichiarato guarito dal sacerdote del suo rito e non da quello ebraico, per quanto sia i samaritani che gli ebrei si rifacessero alla stessa Legge di Mosè.

Ancora mal tradotto è “Mentre essi andarono” che lascia supporre una guarigione progressiva mentre il testo più propriamente ha “Come essi andarono, furono purificati”, cioè non appena si misero in cammino, cioè non appena manifestarono la loro fede ubbidendo all’ordine ricevuto: Gesù aveva detto così? Tanto bastava. Non fecero quindi come il generale Naaman, che quando Eliseo gli ordinò, per guarire, di bagnarsi sette volte nel Giordano, disse “Ecco, io pensavo: «Certo verrà fuori e, stando in piedi, invocherà il nome del Signore, suo Dio, agiterà la sua mano verso la parte malata e toglierà la lebbra». Forse l’Abanà e il Parpar, fiumi di Damasco, non sono migliori di tutte le acque d’Israele? Non potrei bagnarmi in quelli per purificarmi?»” (2 Re 5.11,12), ma ubbidirono e andarono.

Però il parallelo con Naaman rimane nella sua parte finale, quando, dopo avere obbedito all’ordine di Eliseo, guarì ed è scritto che “il suo corpo ridivenne come il corpo di un ragazzo, egli era purificato”, quindi non solo la lebbra andò via, ma la pelle non era più quella di prima; non sappiamo quanti anni avesse quell’uomo, ma era “comandante dell’esercito del re di Aram, personaggio autorevole presso il suo signore e stimato” (v.1) e certo non aveva la pelle di un ragazzo. La guarigione di Gesù, quindi, supererò ogni aspettativa.

Si verifica però un fatto nuovo e cioè, vistisi guariti ma bisognosi di un attestato, i nove ebrei accelerarono ancora di più il passo verso i sacerdoti, ma il samaritano, “vedendosi guarito” pensò immediatamente a ringraziare Colui che lo aveva reso così. In questi uomini, tutti con un passato identico di vita (ma di peccato diverso), accomunati dalla stessa guarigione e dallo stesso guaritore, si crea immediatamente una priorità: nove vogliono tornare al più presto alla loro casa e ai loro parenti, rioccupare il loro posto nella società, ma uno pensa in modo diverso: tutto ciò che gli altri desideravano si compisse al più presto, per lui poteva attendere, sarebbe arrivato a suo tempo, la priorità era esprimere la sua riconoscenza all’Unico che avrebbe potuto guarirlo, cioè Dio nella persona del Figlio. Per cui abbiamo letto che “tornò indietro glorificando Dio a gran voce”, modalità da non dare per scontata: non andò gridando – faccio per dire – “che bello, sono guarito”, ma “Dio mi ha guarito”, come i tanti venuti prima di lui.

Possiamo ricordare in proposito Salmo 30.12,13, “Hai mutato il mio lamento in danza, mi hai tolto l’abito di sacco, mi hai rivestito di gioia, perché canti il mio cuore, senza tacere; Signore, mio Dio, ti renderò grazie per sempre”, oppure 103.2,4: “Benedici il Signore, anima mia, non dimenticare tutti i suoi benefici – perché si possono dimenticare –. Egli perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue infermità, salva dalla fossa la tua vita, ti circonda di bontà e misericordia”.

Ecco, mentre i nove lebbrosi provarono la guarigione, il decimo provò la gioia della lode, che non a tutti è data. Quel samaritano conobbe da subito, spontaneamente, la priorità del ringraziamento, era per lui impossibile tacere. In pratica i nove, vedendosi guariti, non pensarono al ringraziamento perché, secondo la loro ottica, Gesù li aveva ascoltati e infondo aveva fatto ciò per cui era venuto per cui si reimpossessarono immediatamente dei loro spazi esattamente come prima della malattia. Per loro nulla era cambiato e poco importava che fossero stati posti in una prospettiva che fino all’esaudimento della loro preghiera era assolutamente impensabile. La stessa cosa la fanno anche oggi i cristiani cosiddetti “nominali”, che quando hanno bisogno pregano, magari partecipano a funzioni religiose e poi, una volta secondo loro ottenuto quanto richiesto, tornano imperturbabili alla vita di prima.

Anche il modo del samaritano è importante, cioè gli si getta ai piedi, in posizione subordinata, sottolineo adorante a riconoscergli chi fosse e la sua gratitudine che troviamo sicuramente espressa nei due Salmi citati in cui ciò che emerge è il principio in base al quale Dio – e non potrebbe essere altrimenti – è il tutto: “perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue infermità”, nessuna esclusa e proprio perdonando le colpe guarisce le infermità che sono ad essa conseguenti, per i lebbrosi la loro malattia, per noi la nostra miopia, egoismo, le nostre antitesi, sopraffazioni, la guerra dell’uno nei confronti dell’altro che, non conoscendo e quindi diffidando del proprio simile, trova nella difesa, violenta in un modo o in un altro, l’ unica soluzione.

Nello studio di un medico un po’ particolare che ho conosciuto c’è un cartello con su scritto “Dio c’è, ma non sei tu. Rilàssati”, ma il verbo andrebbe sostituito con “lasciati amare”, molto più impegnativo perché richiede fondamentalmente l’abbandono, quello che è più difficile da realizzare. Ci fidiamo di Dio? E se sì, fino a che punto, ammesso che ci sia? Dandoci queste risposte, credo che possiamo avere la temperatura dell’amore e della fede che abbiamo in Lui e per Lui.

Concludendo il nostro episodio, Gesù aveva guarito dieci lebbrosi, numero che ci collega ai comandamenti, che qui presumo infranti, tanto quelli verso Dio che quelli verso l’uomo, per cui possiamo dire che aveva perdonato a tutto tondo, in modo perfetto, come diversamente non avrebbe potuto fare. Eppure, uno solo era tornato, per giunta straniero per cui uno che avrebbe potuto benissimo evitare di farlo. Eppure, quell’uno solo fu salvato, a differenza degli altri che furono soltanto guariti e che, contrariamente alle loro aspettative, si sarebbero trovati con il loro problema fondamentale irrisolto. Amen.

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14.24 – QUATTRO DISCORSI DI GESÙ IV: I SERVI INUTILI (Luca 17.7-10)

14.24 – Discorsi 4: servi inutili (Luca 17.7-10)

 

7Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: «Vieni subito e mettiti a tavola»? 8Non gli dirà piuttosto: «Prepara da mangiare, stringiti le vesti ai fianchi e servimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu»? 9Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? 10Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: «Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare»».

 

Sono tanti gli interrogativi che un credente si pone dopo aver letto l’insegnamento conclusivo di Gesù, che finora ha toccato come temi gli scandali provocati, una colpa eventualmente commessa da un fratello e il perdóno. Ebbene i versi che abbiamo appena letto forniscono agli apostoli un importante aspetto della dottrina cristiana che da un lato vede la persona come un salvato, amato da Dio al punto da dare in dono il Figlio “affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna” (Giovanni 3.16), non più straniero né avventizio, “ma concittadino dei santi e membro della famiglia di Dio” (Efesi 2.19), eppure dall’altro un semplice servo, certo non trattato in modo umiliante, ma comunque una persona che non può aspettarsi la gratitudine del padrone perché, a fine compito, non ha svolto altro che il proprio dovere.

Sono convinto che, se qui manca del tutto l’onore che il padrone conferisce in Luca 12.37 (“Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli”) è solo perché il cristiano, per quanto faccia, studi, aiuti il suo prossimo ed evangelizzi, deve guardarsi bene dal sentirsi importante o presumere per questo di avere una corsia preferenziale di ascolto o considerazione da parte di Dio al di là di quanto promesso. Si tratta di un atteggiamento che può portare ad importanti e dannose manifestazioni di orgoglio che contraddirebbero l’esortazione più volte prodotta all’attenzione dei discepoli in base alla quale, se uno vuole essere maggiore degli altri, deve essere “l’ultimo di tutti e il servo di tutti” (Marco 8.35).

Il fatto di non avere meriti, allora, viene ancora una volta confermato poiché non siamo salvati per le nostre opere, affinché nessuno si insuperbisca altrimenti la Grazia non sarebbe più tale; piuttosto siamo stati “comprati a caro prezzo” (1 Corinti 6,20; 7.23) e come tali siamo chiamati a vivere per cui, quando lavoriamo per Lui, non facciamo altro che dargli ciò che è Suo, noi e la nostra fatica. È interessante che per la parola “servo” il greco ha due sostantivi diversi, uno per indicare quello salariato e l’altro, doulos, per quello comprato ed è quest’ultima la parola impiegata nei versi oggetto di attenzione. Una persona comprata al pari di un bue, una pecora o un asino perché adatta a un certo tipo di lavoro o produzione, nient’altro, per lo meno in questo contesto anche se non va dimenticato che si tratta di un servitore nel senso giudaico e non presso altri popoli, che non aveva solo doveri, ma anche diritti e uno stato sociale, che poteva essere riscattato o decidere di rimanere a servizio.

Molti, in proposito, gridano alla contraddizione, come in tanti altri punti della Scrittura in cui pare vi sia contrasto ma si dimenticano che qui, come in altri punti, a variare è il contesto e quindi la considerazione di Dio o, meglio, quella che deve avere di sé l’uomo che per Lui opera. È la negazione dell’orgoglio, come fu per Davide quando, nella sua preghiera di ringraziamento alla presenza di tutta l’assemblea, disse “Chi sono io e chi è il mio popolo, per essere in grado di offrirti tutto questo spontaneamente? Tutto proviene da te: noi, dopo aver ricevuto dalla tua mano, te l’abbiamo dato. Noi siamo forestieri davanti a te e ospiti come tutti i nostri padri – vedi l’aggiornamento in Efesi che abbiamo citato all’inizio –. Come un’ombra sono i nostri giorni sulla terra e non c’è speranza – al di fuori di te –. Signore, nostro Dio, quanto noi abbiamo preparato per costruire una casa al tuo santo nome proviene da te ed è tutto tuo” (1 Cronache 29.14-16).

Ebbene da queste parole vediamo che manca totalmente qualsiasi dichiarazione di merito presunto ed è da sottolineare che in questa stessa preghiera Davide aveva dichiarato “Da te provengono la ricchezza e la gloria, tu domini tutto; nella tua mano c’è forza e potenza, con la tua mano dai a tutti ricchezza e potere” (v.12), quindi ancora una volta viene dichiarato che, al di fuori di Lui, nulla ha senso e nulla esiste. Davide non si presenta davanti a Dio come qualcuno che ha raggiunto degli obiettivi o ha risolto problemi, ma come una persona che semplicemente ha avuto dal suo Signore in dono degli elementi per i quali non ha fatto nulla per conquistarli e quindi non ha alcun merito. Tutto questo nonostante la sua storia, guardando a tutto quanto riuscì a compiere in difesa del Nome e del suo popolo. Se umanamente Davide può avere avuto dei meriti, spiritualmente non ne ha in quanto si è solo prestato per un’opera, un lavoro che, per quanto importante, non stava a lui portare avanti per poi gloriarsene.

 

Altri versi istruttivi li troviamo nel libro di Giobbe, per quanto vadano lette con prudenza soprattutto le dichiarazioni dei tre suoi “amici” Elifaz, Bildad e Sofar perché riferiscono la saggezza del tempo, ma non adatta alla situazione che quell’uomo viveva: “Può forse l’uomo giovare a Dio, dato che il saggio può giovare solo a se stesso? Quale interesse ne viene all’Onnipotente che tu sia giusto, o che vantaggio ha, se tieni una condotta integra?” (22.2,3). Qui viene dato lo stesso concetto espresso da Gesù: se è vero che Dio ha bisogno dell’uomo perché l’amore non può che espandersi per cui ha creato Adamo e tratto da lui Eva, è altrettanto vero che i suoi progetti vanno avanti comunque e troverà sempre chi sarà disposto a farsi carico di cooperare a realizzarli, come insegna la storia del popolo di Israele che, a un certo punto, si ritrovò escluso dalla funzione di testimone per cui fu detto “Il regno di Dio vi sarà tolto e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare”. La frase “dato che il saggio può giovare solo a se stesso” intende sottolineare l’interesse che ha l’uomo a farsi servo di Dio e, se ciò non avviene, va solo a suo danno. Infatti “Il mio Signore sei tu, solo in te è il mio bene” (Salmo 16,2) nel senso che, nel rapporto tra Dio e l’uomo, è il secondo ad avvantaggiarsene un po’ come quando andiamo ad abbeverarci a una fonte. L’unica cosa che YHWH fa, è chiamare a sé in quanto amore, ma la scelta se andare a Lui o no appartiene all’essere umano. E chi risponde può essere solo ed unicamente il diretto interpellato, come fu per tutti i credenti antichi e moderni il cui nome sappiamo che è “scritto fin dalla fondazione del mondo”.

Altro verso di interesse lo troviamo in 35.7 dello stesso libro: “Se pecchi, cosa gli fai? Se aumenti i tuoi delitti, che danno gli arrechi? Se tu sei giusto, che cosa gli dai o che cosa riceve dalla tua mano?”; l’uomo non ha modo migliore per farsi del male se non quello di ignorare la voce di Dio e, se “giusto” non fa altro che ricevere una retribuzione positiva come fu per tutti coloro che ci hanno preceduto e per quanti sono in vita su questa terra continuando nel loro cammino davanti a Lui. Uno dei più grandi equivoci è che l’essere umano sia debitore nei Suoi confronti: “Ora, Israele, che cosa ti chiede il Signore, tuo Dio, se non che tu tema il Signore, tuo Dio, che tu cammini per tutte le sue vie, che tu lo ami, che tu serva il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore e con tutta l’anima, che tu osservi i comandi del Signore e le sue leggi, che oggi ti do per il tuo bene?” (Deuteronomio 10.13).

Notare, “per il tuo bene” e non “per il mio”, perché tutte le iniziative prese da Dio sono state sempre gratuite e per il bene della Sua creatura: gratuitamente, dopo averla creata, l’ha posta in Eden ed altrettanto gratuitamente ha poi dato inizio a tutto un progetto per il suo pieno recupero passando attraverso le dispensazioni. Fu proprio quella della Legge la più impegnativa sotto il profilo dell’adempiere, del fare e del non fare, prima che arrivasse quella della Grazia che, nonostante la sua leggerezza, è quella che fa delle scremature ancora maggiori.

Ed è l’uomo che a un certo punto, nonostante il peccato, scegliendo di appartenergli e servirgli, determina il proprio stato assicurandosi o meno un futuro tante volte descritto da Gesù con le parabole in cui, parlando di “servi”, annuncia comunque una retribuzione futura, una prospettiva in cui il “servo” non è mai trattato con asprezza, ma con libertà e amore unici. Non solo, ma chi crede ed è salvato, è chiamato anche “fratello” e “amico” di Cristo ed ecco perché lo stato di servitù descritto con le parole oggetto di meditazione vanno tenute presente in relazione ad un aspetto, cioè uno, ma non unico.

Ed arriviamo così, dopo gli esempi che Gesù fa della giornata lavorativa del servo, che solo dopo aver svolto tutti i suoi compiti potrà sedersi a tavola e magiare e bere, alla conclusione personale cui dobbiamo giungere: “Così anche voi, quando avrete fatto ciò che vi è stato ordinato, dite: «Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”.

Un aforisma che mi ha colpito su questo tema diceva: “Guai all’uomo che Dio chiama inutile, ma felice colui che così chiama se stesso”, e credo che poco si possa aggiungere; ricordiamo la domanda dell’apostolo Paolo in Romani 11.34,35: “Chi ha mai conosciuto il pensiero del Signore, o chi mai è stato suo consigliere? O chi gli ha dato qualcosa per primo tanto da riceverne il contraccambio?”. Piuttosto, dato che per primi siamo noi ad avere ricevuto, proseguiamo il nostro percorso sapendo che il “contraccambio” ci verrà dato al momento opportuno. Da qui l’umiltà, il non pretendere, l’acquisizione della vera coscienza di ciò che siamo realmente.

C’è poi una domanda che sempre Paolo rivolge ad alcuni della Chiesa di Corinto che si vantavano di essere personaggi di chissà quale importanza spirituale: “Chi dunque ti dà questo privilegio? Che cosa possiedi, che tu non l’abbia ricevuto? – quindi se hai un dono non puoi gloriartene perché lo hai, appunto, ricevuto – E se l’hai ricevuto, perché te ne vanti come se non l’avessi ricevuto – cioè come se lo avessi conquistato per tuoi meriti, o con le tue forze –?” (1a, 4.7).  Poi, circa l’annunciare il Vangelo, lui stesso dichiarerà che “non è un vanto, ma una necessità che mi si impone. (…) Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto alla ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato” (9.16,17).

Ecco, così parlò un uomo che ricevette tante rivelazioni da Dio di cui una parte riversò nelle sue lettere e nella predicazione personale. Credo che Paolo, per la colossale opera da lui compiuta, i viaggi, le sofferenze e la salute malferma che ne derivò, sicuramente possa annoverarsi tra i più grandi collaboratori di Dio, ma se può ricevere tutta la nostra ammirazione, in realtà fu un servo che non fece altro che restare fedele agli ordini ricevuti. E così dev’essere per noi, che dobbiamo rimanere nel piccolo orto che il Signore ci ha incaricato di coltivare. Perché, come tutti, non abbiamo alternative. Amen.

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14.23 – QUATTRO DISCORSI DI GESÙ III: FEDE E UMILTÀ (Luca 17.5,6)

14.23 – Discorsi 3: fede e umiltà (Luca 17.5,6)

 

 

5Gli apostoli dissero al Signore: 6«Accresci in noi la fede!». Il Signore rispose: 6«Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: «Sràdicati e vai a piantarti nel mare», ed esso vi obbedirebbe.

 

Sembra strano, eppure, almeno per me, il verso cinque rappresenta un problema perché le ipotesi sono due: o Luca qui riferisce un insegnamento di Gesù avvenuto in un secondo momento rispetto al contesto fin qui rappresentato, oppure, soprattutto tenendo conto di altre traduzioni che riportano “Allora gli apostoli dissero al Signore”, la loro richiesta “Accresci in noi la fede” proveniva dalla consapevolezza di quanto fossero distanti dal comprendere le dinamiche spirituali che venivano loro proposte. Ed effettivamente lo erano, perché lo Spirito Santo non era ancora sceso su di loro. Ancora era possibile che fossero intimoriti dal discorso sugli scandali ed avessero capito che, senza restare uniti a Lui, avrebbero potuto commetterne. ChiedendoGli di accrescere la fede in loro, allora, dimostrano di aver capito che possederla pienamente era il solo modo per camminare correttamente in Lui. Ricordiamo le parole “Ora senza fede è impossibile piacergli; poiché chi si accosta a Dio deve credere che egli è, e che ricompensa tutti quelli che lo cercano” (Ebrei 11.6). Importante in proposito quanto scrive un fratello: “La religione non può piacere a Dio perché è essenzialmente un sistema sviluppato da Satana per contrastare la verità”. Essa infatti non possiede fede, ma credenze indimostrabili se non tramite manifestazioni assolutamente umane, o miracoli costruiti artificiosamente, o ancora preparati dall’Avversario che è in grado di farne. Infatti “Anche Satana si traveste da angelo di luce. Non è dunque cosa eccezionale se anche i suoi servitori si travestono da servitori di giustizia; la loro fine sarà secondo le loro opere” (2 corinti 11.14,15). Ed è cosa che possiamo notare quotidianamente. Anche il Cristianesimo, quindi, se viene inteso come pratiche, riti, credenze e dogmi cui aderire incondizionatamente, può diventare religione e dar luogo a profonde inconcludenze e superstizioni.

La fede è qualcosa che viene provata, come fu per Abrahamo di cui è detto “Egli non vacillò nella fede, pur vedendo già come morto il proprio corpo – aveva circa cento anni – e morto il seno di Sara. Di fronte alla promessa di Dio non esitò per incredulità, ma si rafforzò nella fede e diede gloria a Dio” (Romani 4,19,20) e sappiamo che fu proprio la fede a giustificarlo davanti al signore: “Abrahamo credette a Dio e ciò gli fu imputato a giustizia” (v.4).

Ora gli apostoli – interessante notare che non furono i discepoli – capiscono che non avrebbero mai potuto, senza fede, mettere in atto compiti tanto contrari all’istinto umano come il perdonare senza una forza-dote interiore che sapevano di avere in misura infinitesimale, anzi, fu proprio il concetto del perdóno che li mise in imbarazzo, proprio loro che erano stati inviati da Gesù che “diede loro potere sugli spiriti impuri per scacciarli e guarire ogni infermità” (Matteo 10.1). Pensiamo: gli Apostoli che, tornando dalla loro missione, avevano portato al Maestro un rapporto entusiasta delle loro attività – ricordiamo le parole “Signore, anche i demoni si sottomettono a noi nel tuo nome” (Luca 10.17) ma che in un caso fallirono perché non sapevano che “questa razza di demòni non esce se non mediante preghiera e digiuno” (Matteo 17.21) – sanno di non avere fede sufficiente per arrivare a gestire il perdóno e chiedono aiuto. Piccolo inciso sul verso appena ricordato: la parola “digiuno” è frutto dell’aggiunta probabilmente di un monaco copista che volle inserirla per rafforzare una sua credenza.

Ecco allora che la risposta di Gesù che andiamo ad analizzare, “Se aveste fede quanto un granello di senape…” non è un rimprovero a significare che ne erano sprovvisti o una frase tesa ad umiliarli, ma è piuttosto un’affermazione come quella che troviamo in Marco 9.23, “Tutto è possibile a chi crede”. Sottolineiamo che queste parole furono rivolte al padre di quel ragazzino epilettico che i discepoli non avevano potuto guarire, il quale rispose “Credo; aiuta la mia incredulità”: una disperata richiesta di intervento, l’ennesima che un uomo consapevole dei propri limiti gli rivolse e quel poco di fede che aveva fu sufficiente a far sì che il figlio fosse guarito.

Come fosse la fede degli apostoli la vediamo sempre nello stesso episodio: “Allora i discepoli – presumo i dodici stante l’incarico ricevuto – si avvicinarono a Gesù in disparte e gli chiesero: «Perché non siamo riusciti a scacciarlo?». Ed egli rispose loro: «Per la vostra poca fede. In verità io vi dico: se avrete fede pari a un granello di senape, direte a questo monte: «Spòstati da qui a là» ed esso si sposterà, e nulla vi sarà impossibile” (Matteo 17.19,20). La fede quindi c’era, ma era “poca”, non sufficiente in quel caso perché legata al quotidiano, al contingente, distratta dal vivere camminando sulla terra, guardando l’orizzontale, tutti elementi che contaminano e spesso sfiniscono, prostrano. Ma abbiamo letto “nulla vi sarà impossibile”, naturalmente sotto la prospettiva spirituale, ai risultati. E qui pensiamo a tutte le manifestazioni dello Spirito narrate nel libro degli Atti.

Vediamo ora un po’ più da vicino cosa si intende per “fede” perché darne una definizione è impossibile stante le due sfaccettature. L’apostolo Paolo in Ebrei 11.1 scrive che è “certezza delle cose che si sperano, dimostrazione di cose che non si vedono” e per sviluppare queste parole non basterebbero dei libri. Possiamo dire che la fede nasce in una persona e si sviluppa col tempo a patto di coltivarla e di vivere secondo la Parola, ma la sua base, risolto il problema della ricerca di Dio in quanto trovato, consiste nella certezza – non forzata né forzosa – che sia solo Gesù, il Cristo, a risolvere il problema dell’essere umano riguardo alla propria destinazione finale. Ma poiché vita futura e presente formano un tutt’uno, è certezza di soluzione di qualunque situazione nella quale possiamo venirci a trovare. Non si può scrivere un manuale sulla fede: è consapevolezza, attesa, certezza, preghiera, realizzazione spirituale, è cammino fatta di cadute e di risollevamenti.

Questa, il possesso della fede, fu la caratteristica che permise ai contemporanei di Gesù di venire da lui ascoltati e guariti. Egli infatti non risolse i problemi umani di chiunque, ma solo di quanti si accostavano a lui riconoscendoLo come loro unica fonte di salvezza. Pensiamo al tristissimo commento che fanno gli evangelisti in merito alla visita a Nazareth, quando scrivono che, a parte la guarigione di poche persone malate, non poté fare miracoli “per la loro incredulità”.

Vediamo però la fede operante nel centurione di Capernaum, quando Gesù disse “In verità io vi dico, non ho trovato nessuno in Israele con una fede così grande” (Matteo 8.10), nel paralitico e nei suoi amici che, pur di avere guarigione, giunsero a produrre un’apertura nel tetto della casa e in davvero molti altri casi.

Questa è la fede che potrebbe definirsi “di primo grado”, quella che serve alla persona per avere la cittadinanza celeste, ma poi arriva quella operante, che Gesù chiama in causa nel nostro verso, la stessa che, venendo a mancare, fece sprofondare Pietro nell’acqua: dalla lettura dell’episodio vediamo che fino a quanto in lui rimasero impresse le parole del suo Maestro, “Vieni”, ed accoglierle fu per lui naturale, non successe nulla di spiacevole; quando però vide “che il vento era forte, s’impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: «Signore, salvami!». E subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?»” ( Matteo 14.30,31).

Non oso pensare a quanto Pietro si ritrovò umiliato, anche per il tono di voce e soprattutto lo sguardo di Gesù: aveva iniziato nel migliore dei modi, ma poi la propria umanità non poté fare a meno di emergere. E noi facciamo la stessa cosa, vediamo “che il vento” è “forte”, cioè prendiamo atto che tutti gli elementi che ci circondano creano le premesse per un’impossibilità che si verifichi un fatto del genere. Eppure saremmo in grado di camminare sull’acqua, di spostare le montagne, di dire “a questo gelso – mal tradotto, poiché era un sicomoro – «Sràdicati e vai a piantarti in mare», ed esso vi ubbidirà”.

Ecco la fede cui Nostro Signore faceva riferimento, quella pratica come conseguenza di un mandato ricevuto. Credo che qui Gesù parli agli apostoli, ai portatori del Vangelo e non ai credenti indistintamente, come possiamo prendere atto da Giovanni 14.12: “In verità in verità io vi dico: anche chi crede in me, compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi, perché io vado al Padre”. Il riferimento alle “opere più grandi” non è riferito ai miracoli (che comunque ci furono), ma alla predicazione, alla conversione dei molti che sarebbero venuti il cui numero sicuramente oltrepassa quello di quanti credettero alla predicazione di Nostro Signore mentre era nel corpo.

La frase sullo spostare le montagne e sul sicomoro piantato nel mare è allora non tanto un rimprovero come ve ne furono molti sulla poca fede, ma un invito a valutare noi stessi su quanto realmente la nostra vita terrena influisca negativamente su quella spirituale: le interferenze come quelle che distolsero Pietro dal camminare sull’acqua non sono costituite soltanto dalla presa d’atto che c’è “vento”, ma da tutto ciò che è contaminante provenendo dalla terra e distrae dall’esercizio libero della fede che, altrimenti, non avrebbe ostacoli. Non so spiegarmi diversamente il concetto di “fede” qui utilizzato perché tanto i dodici quanto i discepoli la dimostravano quotidianamente avendo rinunciato a starsene nella quiete delle loro case e al loro tranquillo inserimento nella società del tempo: chi glielo faceva fare, se non l’avessero avuta?

Ecco allora che con gli esempi fatti Gesù intende passare ad un altro livello, quello che porta – vista la distanza con cui pratichiamo non tanto la “fede”, ma quella “fede” – al concetto del “niente è impossibile a chi crede”. La fede non ha e non può avere limiti salvo quelli che noi le imponiamo con la nostra carnalità, e questo lo vedo purtroppo tutti i giorni, naturalmente guardando a me stesso e alla mia immaturità. Ecco perché sgorgò la preghiera “Accresci in noi la fede”! Di fronte alle manifestazioni dello Spirito, i discepoli si trovarono distanti, anche molto. La “poca fede” non solo ci impedisce di trascendere, di non avere limiti, ma anche di fraintendere in modo colossale quel Gesù sempre presente che a volte riteniamo dorma sulla nostra barca col mare in tempesta. Anche lì, quando succede, è perché guardiamo verso il basso ed il fatto stesso che a volte sia così ed altre, nella stessa situazione, avvenga l’esatto contrario è proprio dovuto alla nostra carne che a volte è mortificata ed altre vorrebbe avere il sopravvento.

Ecco perché, nella solitudine apparente del nostro stare davanti a Dio, dobbiamo fare la stessa preghiera che Gli rivolsero i Suoi, “Accresci in noi la fede!”; sapevano che solo lui lo poteva fare e chissà se si ricordarono di quanto aveva detto loro un giorno: “Chi tra di voi al figlio che gli chiede un pane darà una pietra? O se gli chiede un pesce, darà una serpe? Se voi dunque che siete cattivi sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a coloro che gliele domandano!” (Matteo 7.9,10). Amen.

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14.22 – QUATTRO DISCORSI DI GESÙ: II – IL PERDONO (LUCA 17.3-4)

14.22 – Quattro discorsi di Gesù: II, il perdono (Luca 17.3-4)

 

“Se il tuo fratello commetterà una colpa, rimproveralo; ma se si pentirà, perdonagli. 4E se commetterà una colpa sette volte al giorno contro di te e sette volte ritornerà a te dicendo: «Sono pentito», tu gli perdonerai”.

 

Certo non è la prima volta che Gesù affronta coi Suoi il tema del perdóno; ricordiamo la domanda che gli rivolse Pietro in Matteo 18.21,22 che “gli si avvicinò e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette»”. Qui probabilmente Pietro, con le sue “sette volte” accresceva il numero prescritto dal Talmud che diceva doversi perdonare fino a tre volte, ma non fino a quattro per cui il limite posto da Pietro, sette, faceva riferimento con il numero della manifestazione, rivelazione di Dio all’uomo, quindi della completezza. Eppure Gesù lo moltiplica per dieci, cioè rivelazione ed esigenza per cui, perdonando settanta volte sette, esprime la totalità: se il cristiano è stato ammesso alla comunione con Dio per aver accettato il sacrificio del Figlio, è inevitabile che non pratichi il perdóno esattamente come è stato fatto con lui. Credo sia questo il significato tanto delle parole rivolte a Pietro, e quindi ai dodici, quanto ai presenti in questo passo.

Ancora una volta la nostra traduzione interpreta: l’ipotesi non è quella di un fratello che commette “una colpa” generica, ma “una colpa contro di te”, quindi un torto o crea una situazione per cui ne consegue una sofferenza o un danno più o meno grande. Non ho potuto fare a meno di sottolineare il fatto che questi versi siano rivolti fondamentalmente ai rapporti tra cristiani e che Gesù faccia un discorso destinato ad essere accolto nella Chiesa e sia quindi in questa prospettiva che vada inquadrato. Noi, che dal mondo veniamo, sappiamo benissimo cosa voglia dire lasciarsi trasportare dagli effetti negativi delle offese, dei tradimenti o delle colpe, elementi che generavano rancore, livore, progetti di vendetta.

Ebbene qui Nostro Signore, per quanto ai discepoli dia delle istruzioni, per tutti coloro che sarebbero venuti dopo dà un metro per auto valutarsi e valutare gli altri (salvati come lui): io non perdóno perché è scritto, ma perché la mia fede mi porta inevitabilmente a farlo tenendo presente – ancora una volta – prima la trave che è nel mio occhio: il “fratello” è “uno per cui Cristo è morto” e quindi, se sono forte, sono chiamato a sopportare – attenzione, costruttivamente – le sue debolezze.

Abbiamo letto al verso 3 “Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, rimproveralo”: non è una novità, ma già nella Legge troviamo enucleato il principio che è teso non allo sfogo di una rabbia repressa, ma a qualcosa che ha per fine un recupero e quindi l’intervento dev’essere mirato alla persona, al suo carattere, alla sua psicologia: “Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello; rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai di un peccato per lui. Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore. Osserverete le mie leggi”.

Certo, sono versi importanti perché nelle relazioni di fede non esiste la persona-isola, ma ciascuno è collegato all’altro tramite il ponte della fratellanza e ciascuno è responsabile al tempo stesso di sé e del fratello o sorella che sia. Quando entrai nella famiglia di Dio attraverso il battesimo ci fu un fratello che mi disse “Da adesso sono responsabile di te come tu lo sei di me”.

Nel momento in cui avviene il “rimprovero” – e vedremo cosa significhi – la persona oggetto si esso si rivela perché può accettarlo o rifiutarlo e in tal caso il “perdóno” risulta impossibile. Proverbi 17.10 scrive che “Fa più effetto un rimprovero all’assennato che cento percosse allo stolto” per cui una riprensione, certo studiata sulla persona perché la verità deve sempre essere accompagnata dalla carità, può essere utile per correggere un cammino che porterebbe l’ “assennato” ad errori e colpe non più nei nostri confronti, ma di Dio. Se questo principio veniva applicato dagli antichi, quando più dovrà essere nella Chiesa di Cristo?

E qui possiamo collegarci a Giacomo 5.19,20: “Fratelli  miei, se uno di voi si allontana dalla verità e un altro ve lo riconduce, costui sappia che chi riconduce un peccatore dalla sua via di errore lo salverà dalla morte e coprirà una moltitudine di peccati”. Qui mi pare che si vada oltre alla visione rosa che alcuni hanno della vita cristiana, in cui si parla di salvezza e di fratellanza con Gesù e i cristiani a prescindere, di libertà: il cammino nella fede è qualcosa di molto, molto serio che non può venire influenzato dal sentimentalismo perché è proprio lì che si annida l’allontanamento dalla verità, si rischia l’anarchia spirituale e la conseguente distanza dello Spirito di Dio dall’uomo. Deviare dalla verità è qualcosa di molto pericoloso perché più restiamo nella nostra autonomia carnale, più perdiamo di vista quel cammino che ci è stato mostrato e che troviamo quotidianamente nella Scrittura. La verità, poi non è qualcosa che si impossessa di noi improvvisamente per cui tutto è chiaro e illuminato, ma si costruisce giorno per giorno sia con lo studio che con l’esperienza.

È molto bello comunque ciò che abbiamo letto sul salvare “dalla morte” ed al “coprire una moltitudine di peccati”, azione che verrà messa per così dire “in conto premio” a chi si sarà così comportato.

Basilare, sempre al verso 3, è la condizione del perdóno che non può essere data indipendentemente dal comportamento di chi ha sbagliato: “Se si pente, perdonagli”. Se. Viceversa, dando un perdóno comunque e a prescindere, commetteremmo un illecito, ricordando che il l’azione del perdonare è qualcosa che una persona si deve meritare non perché noi siamo speciali,  superiori, ma perché va dato quando sono presenti le caratteristiche del pentimento e della volontà di ravvedersi dall’errore che ha generato la “colpa contro di te”. Capiamo? È qualcosa che va oltre noi e la nostra misera persona, è la stessa azione che ha compiuto Dio nei nostri confronti nel senso che l’essere umano non è perdonato comunque e per pietà delle sua condizione, ma solo quando si pente e confessa il proprio peccato.

Non agendo così, generalizzando il perdóno, saremmo come quelli che aggiungono o tolgono alla Scrittura, faremmo di essa qualcosa di poco credibile perché il pentimento è ciò che prelude alla Grazia di Dio e tutta la storia degli uomini che gli appartennero, lo conferma; Davide primo fra tutti, che giunse all’adulterio e all’omicidio, quando prese coscienza del suo peccato grazie a Natan, scrisse il meraviglioso Salmo 51 che andrebbe analizzato integralmente e di cui riporto qualche verso: “Lavami molto e molto della mia iniquità. E nettami dal mio peccato. Perché io conosco i miei misfatti e il mio peccato è del continuo davanti a me. Io ho peccato contro a te solo, ed ho fatto quel che ti dispiace; io te lo confesso, affinché tu sia riconosciuto giusto nelle tue parole, e puro nei tuoi giudizi. (…) Purgami con Ìsopo – sinonimo di perdóno e sofferenza –, e sarò netto; lavami e sarò più bianco che neve”.

Gestire il perdóno è una gioia più grande del riceverlo perché si concreta la carità che “è magnanima, benevola: non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si aira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si rallegra della verità” (1 Corinti 13.4-6). L’esatto contrario di ciò che prova l’uomo naturale.

Chiude il discorso la nostra stessa storia, che è quella dei molti che, incontrato Gesù di persona, quando era nel corpo ai tempi del Vangelo o in spirito dalla sua ascensione in poi, gli hanno chiesto perdóno per le proprie colpe, sono stati perdonati e hanno così iniziato un cammino volto al recupero del loro essere. Impensabile che un essere umano, convinto dallo Spirito Santo di “peccato, giustizia e giudizio”, prosegua imperturbabile un percorso nella carne: non sarebbe un salvato, un peccatore perdonato. E allo stesso modo, non perdonare in mancanza di pentimento significa non restare offesi come dei bambini permalosi, ma essere consapevoli di un conto in sospeso di cui la persona dovrà rispondere non più a noi: “A chi perdonerete i peccati saranno perdonati, a chi li riterrete, saranno ritenuti” (Giovanni 20.23).

Possiamo ricordare Colossesi 3.12.13, “Scelti da Dio, santi ed amati, rivestitevi dunque di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità, sopportandovi – nel senso di capirvi – a vicenda e perdonandovi gli uni gli altri, se qualcuno avesse a lamentarsi nei riguardi di un altro. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi”.

Ecco allora che si spiega anche il verso 4 del nostro Vangelo, “E se commetterà una colpa sette volte al giorno contro di te e sette volte ritornerà da te dicendo: «Sono pentito», tu gli perdonerai”. Sembra una cosa assurda che una persona sana di mente si comporti in questo modo, ma è ciò che facciamo noi con Lui: magari ci sentiamo superiori agli altri e siamo convinti di non cadere, ma “il giusto pecca sette volte al giorno” (Proverbi 24.16), cioè sempre. Se non intervenisse quotidianamente il perdóno di Dio verso di noi, non avremmo senso né come credenti, né come persone. Ed è quando ci si ritrova umiliati per aver fatto un percorso non voluto, detto cose o provato pensieri o fatto azioni non consone alla nostra condizione, che nasce l’umiliazione e la nostra fragilità si scontra con l’amore di Dio.

E nel guardare a Cristo troviamo la spiegazione del nostro agire che non è un’imitazione, la finzione di un atteggiamento, ma il metodo di chi ha compreso quale sia il metro con il quale agire, tutti i giorni della nostra vita. Amen.

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14.21 – QUATTRO DISCORSI DI GESÙ: I – GLI SCANDALI (LUCA 17.1-3)

14.21 – Quattro discorsi di Gesù: I. Gli scandali (Luca 17.1-3)

 

 

1 Disse ai suoi discepoli: «È inevitabile che vengano scandali, ma guai a colui a causa del quale vengono. 2È meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare, piuttosto che scandalizzare uno di questi piccoli. 3State attenti a voi stessi!

 

Il capitolo 17 di Luca si apre con un gruppo di quattro brevissimi discorsi di Gesù ai suoi discepoli poco prima che si apra ufficialmente quel periodo che Lo porterà a Gerusalemme per l’ultima volta. Lì inizierà la settimana della Passione. Si noti che questo gruppo di dieci versi sembra voler costituire una sorta di intermezzo fra la parabola del ricco e Lazzaro e l’episodio dei dieci lebbrosi. Può essere che effettivamente Luca abbia voluto inserire un ponte narrativo fra un insegnamento pubblico attraverso una parabola e la partenza per così dire “ufficiale” verso Gerusalemme. Leggiamo infatti in 17.11, poco prima dell’incontro coi dieci lebbrosi, “Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samaria e la Galilea”, quindi aveva abbandonato la Transgiordania dove erano avvenuti tutti gli altri episodi che abbiamo esaminato.

Cosa significhi “scandalo” lo abbiamo già sviluppato identificandolo come un ostacolo, qualcosa su cui si inciampa e infatti il greco per questo termine ha “sasso, pietra d’inciampo”; è qualcosa che si trova o si pone su un sentiero perché altri, nel camminare, cadano e si facciano male. Lo scandalo è un ostacolo, un impedimento ad un cammino che ci si augurerebbe sereno a prescindere dai suoi fini. Ad esempio, Siracide 32.15 afferma “Chi scruta la Legge – chiaramente andando oltre alla semplice norma – viene appagato, ma l’ipocrita vi trova motivo di scandalo”, quindi trova difficoltà nel porre in essere le sue trame perché la Legge lo smaschera, deve andare contro corrente rispetto alla sua coscienza, per lo meno all’inizio perché poi la cauterizza, per proseguire.

Altro passo lo troviamo quando viene affrontato il discorso degli abitanti di Nazareth, i quali anziché interrogarsi su Gesù per risolvere il problema di come affrontare l’eternità, “dicevano: «Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». Ed era per loro motivo di scandalo” (Marco 6.3) cioè li ostacolava nella comprensione delle Sue parole, non riuscivano a capire come Lui, “uno di loro”, potesse dire e fare ciò che diceva e faceva. Lo “scandalo”, quindi, è qualcosa che riguarda tutti, anche se differisce profondamente a seconda delle categorie che lo provano, credenti, non credenti e persone che ascoltano Gesù per la prima volta: “Beato è colui che non trova in me motivo di scandalo” (Luca 7.23) rendendolo così in grado di agire sulla sua persona e condurlo alla vita eterna.

Un ostacolo può essere rappresentato da un organo del corpo, sempre collegato alla mente, come la “mano”, l’ “occhio” o il “piede”, come insegnato nel sermone sul monte, ma può essere una persona per ciò che fa o dice consapevolmente: questo accade quando a parlare e ad agire non è lo Spirito Santo, ma quello dell’uomo che inevitabilmente, fatto di terra, non può che guardare a ciò che è basso e squalificante.

 

Ora però consideriamo le parole di Gesù: “È inevitabile che vengano scandali”, prima parte di una frase che di per sé basta comunque a se stessa. “Inevitabile” può essere tradotto con “inammissibile, impossibile” (naturalmente col “non”), tutti termini corretti perché il credente vive in mezzo al mondo.

Pur rifiutando l’idea che non esistano cristiani migliori o peggiori di altri, ma spirituali o carnali sì, è inevitabile che questo generi una condizione per cui paradossalmente gli stessi elementi che si trovano nel mondo, per opera dell’Avversario, si trasferiscano all’interno della Chiesa, cosa confermata da tutto il libro degli Atti e dalle stesse epistole.

L’impossibilità di cui parla Nostro Signore è riferita proprio al fatto che l’amore di Dio, che tanto scalda e sostiene, non è tenuto in considerazione da tutti allo stesso modo e, come la storia del popolo di Israele insegna, basta poco per deviare, lasciarsi trasportare – perché non sufficientemente vigilanti – verso territori diversi. In altri termini, dire che “è inevitabile che avvengano scandali” è come sostenere che è inevitabile che l’uomo pecchi. Certo cadute involontarie, non operate per sfida, non coscientemente, ma perché irretiti da un momento di distrazione che poi può prolungarsi, di scarsa vigilanza in quanto, purtroppo, soggetti a stancarci, magari perché in crisi oppure semplicemente perché sfiancati dal giorno.

Ancora, “è inevitabile che gli scandali avvengano”, è un modo di Gesù per dire che la Chiesa è un territorio santo nella misura in cui i suoi membri vigilano gli uni sugli altri, espressione questa che non allude allo spiare e giudicare, ma a quell’opera di mutuo soccorso, attivo attraverso l’assistenza morale e la preghiera, nel confronto per evitare che si creino divisioni dovuti alla carne, da sempre fautrice di discordie e attriti. Infatti l’apostolo Paolo, nella sua seconda lettera ai Corinto, parlando delle divisioni al suo interno, scrive “È necessario infatti che sorgano fazioni tra voi – ad esempio fra circoncisi e incirconcisi, sul mondo di legare o meno la Legge alla salvezza ed altro ancora come il modo di celebrare il Memoriale – perché in mezzo a voi si manifestino quelli che hanno superato la prova” (11.19).

Molto dolorose infine le parole a Timoteo, seconda lettera, profetiche e dirette al nostro tempo: “Verrà il giorno in cui non si sopporterà più la sana dottrina – ecco il cristianesimo sociale e “benpensante” – ma, pur di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo i propri capricci rifiutando di dare ascolto alla verità per perdersi dietro alle favole” (4.3,4). Sottolineiamo “pur di udire qualcosa” che nascondono una forte, direi violenta necessità di legittimazione che spenga ogni remora: la verità andrà soffocata, serviranno profeti e dottori falsi che pongano l’accento su alcuni passi della Scrittura piuttosto che su altri, che non armonizzino, che anziché cercare una verità secondo Dio si rivolgano a quella secondo l’essere umano, ammettendo tutti in un calderone indistinto in cui sarà impossibile distinguere il vero dal falso.

Gesù non parla dello scandalo inteso come comportamento licenzioso come si credeva un tempo, ma proprio di attentato alla dottrina, quella che scandalizza appunto “questi piccoli che credono in me” come riportato anche da Matteo e da Marco in modo pressoché identico: “Chi invece scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, gli conviene che gli venga appesa al collo una macina da mulino e sia gettato nel profondo del mare. Guai al mondo per gli scandali! È inevitabile che vengano scandali, ma guai all’uomo a causa del quale viene lo scandalo!” (Matteo 18.6,7; Marco 9,42).

E il riferimento alla “macina da mulino” non è a quella enorme che poteva essere mossa soltanto da un asino che girava in tondo collegato ad un meccanismo che la azionava, ma a quella più piccola, che veniva agevolmente comandata a mano. Ecco allora che il “guaio” per chi è fautore di uno scandalo, dottrinale o anche comportamentale, è descritto proprio dalla morte per annegamento che, secondo le parole di Gesù, è preferibile a quella che subirà il fautore del disordine creato.

E a questo punto entriamo in un àmbito molto delicato che è quello del comportamento che deve avere il credente spirituale. Infatti: “D’ora in poi non giudichiamoci più gli uni gli altri; piuttosto fate in modo di non essere causa di inciampo o di scandalo per il fratello. Io so, e ne sono persuaso nel Signore Gesù, che nulla è impuro in se stesso; ma se uno ritiene qualcosa come impuro, per lui è impuro. Ora se per un cibo il tuo fratello resta turbato, tu non ti comporti secondo carità. Non mandare in rovina con il tuo cibo colui per il quale Cristo è morto! Non divenga motivo di rimprovero il bene di cui godete! Il regno di Dio infatti non è cibo o bevanda, ma giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo: chi si fa servitore di Cristo in queste cose è bene accetto a Dio e stimato dagli uomini” (Romani 14.13-15).

Credo che qui si apra un universo. Legando questi versi al contesto primario, essendo la Chiesa di Roma di allora composta da ebrei e gentili va da sé che attorno al cibo sorgessero gravi questioni, che Paolo affronta col principio che abbiamo letto: invece che questionare all’infinito creando risentimenti e intoppi, fate in modo di non essere “causa di inciampo o di scandalo per il fratello” per cui “se per un cibo il tuo fratello resta turbato, tu non ti comporti secondo carità”.

Ora ritengo queste parole molto impegnative perché vanno a stabilire una verità molto particolare: se l’amore è la negazione di sé a vantaggio dell’altro, certo Paolo non accomuna chi prende un certo cibo a un seminatore di scandali, ma a chi non pensa agli altri più deboli sicuramente sì. “Non ti comporti seconda carità”, quindi pensaci, provvedi perché altrove è scritto che “se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita. E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla” (1 Corinti 13.1,2).

Altro elemento degno di nota si trova in Romani 15.1,1: “Noi, che siamo i forti, abbiamo il dovere di portare le infermità dei deboli, senza compiacere noi stessi. Ciascuno di noi cerchi di piacere al prossimo nel bene, per edificarlo. Anche Cristo infatti non cercò di piacere a se stesso”, ma certo nemmeno agli scribi e ai farisei. Ecco allora che va trovato un punto di equilibrio perché, come Gesù entrava in contrasto con chi gli si opponeva spinto dalla propria cecità e dall’Avversario, non è pensabile che il credente finisca per essere succube di quelli che non la pensano come lui e lo vogliono condizionare a usi e comportamenti che hanno molta apparenza e nessuna sostanza. Come sempre, anche qui entra in gioco il discernimento spirituale e la necessità di non urtare la sensibilità dei fratelli e/o sorelle che camminano onestamente verso la verità e non disonestamente nelle loro convinzioni. Qui viene chiamato in causa il dono, il ruolo che una persona ha nell’interno della Comunità nella quale il Signore lo ha posto.

Più selettive in proposito sono le parole in 1 Corinti 8.10-13: “Badate però che questa vostra libertà non divenga occasione di caduta per i più deboli. Se uno infatti vede te, che hai conoscenza, stare a tavola in un tempio di idoli, la coscienza di quest’uomo debole non sarà forse spinta a mangiare le carni sacrificate agli idoli? Ed ecco, per la tua conoscenza, va in rovina il debole, un fratello per il quale Cristo è morto! Peccando così contro i fratelli e ferendo la loro coscienza debole, voi peccate contro Cristo. Per questo, se un cibo scandalizza il mio fratello, non mangerò mai più carne, per non dare scandalo al mio fratello”.

Qui Paolo parla dell’ipotesi in cui una persona, maturato il principio in base al quale non è quello che entra nel corpo a contaminare l’uomo, ma ciò che è al suo interno e di cui la bocca si fa interprete, partecipa ad un pranzo in un tempio pagano: non essendo tale, chiaramente non pecca, ma visto da uno più debole, questo potrebbe fraintendere, male interpretando il suo esempio e quindi potrebbe essere spinto a peccare. Ecco allora che può instaurarsi una reazione a catena che viene sintetizzata con le parole “per la tua conoscenza, va in rovina il debole, un fratello per il quale Cristo è morto!”.

Lo scopo di queste riflessioni attraverso la lettura cronologica del Vangelo, molto spesso, è quello di dare spunti, tracce per sviluppare temi importanti e non concluderli, per cui va sottolineato il modo con cui Gesù conclude il suo intervento in merito agli scandali, “State attenti a voi stessi!”, cioè dovete essere voi i primi giudici di come operate. In altri termini, vestite l’armatura di Dio secondo Efesi 6.

Il riferimento però va a qualcosa di più impegnativo: “Vigilate perché nessuno vi privi della grazia di Dio. Non spunti né cresca in mezzo a voi alcuna radice velenosa, che provochi danni e molti ne siano contagiati” (Ebrei 12.15). Qui i verbi sono al plurale per cui riguardano tutti i componenti (responsabili) della Chiesa che devono parlarsi, discutere avendo come unico faro la Parola di Dio e non le loro misere aspirazioni. Perché proprio la Chiesa è il terreno preferito per le scorrerie dell’Avversario, che semina al suo interno i suoi angeli. Amen.

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14.20 – IL RICCO E LAZZARO III/III (Luca 16.27-31)

14.20 – Il ricco e Lazzaro 3 (Luca 16.27-31)

 

27E quello replicò: «Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, 28perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento». 29Ma Abramo rispose: «Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro». 30E lui replicò: «No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno». 31Abramo rispose: «Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti»».

 

Nello scorso capitolo abbiamo accennato alla psicologia del ricco che, nei versi che abbiamo letto, inizia una sorta di trattativa che potremmo definire “dell’inutilità”, sempre improntata all’egoismo e alla considerazione negativa in cui teneva Lazzaro (abbiamo letto “ti prego di mandare Lazzaro”). Tale modo di agire contrasta terribilmente con un’altra trattativa, quella che Abrahamo aveva instaurato con Dio quando gli comunicò la sua intenzione di distruggere Sodoma in Genesi 18: dalla lettura del capitolo vediamo che tutta l’attenzione di quest’uomo era rivolta alla salvezza dei giusti che avrebbero potuto trovarsi all’interno della regione e al fatto che, nel suo intimo, si ribellava a questo: “Davvero sterminerai il giusto con l’empio?” (v.23). Abrahamo cominciò allora a ipotizzare il fatto che in città avrebbero potuto trovarsi “cinquanta giusti” per poi scendere fino a “dieci”, il numero minimo per poter creare una Sinagoga.

Quando Abrahamo parlò con Dio assunse l’ufficio di intercessore e, in un dialogo in cui la perfezione del Creatore si incontra con l’umanità del proprio servo, abbiamo la domanda “Forse il giudice di tutta la terra non praticherà la giustizia?” (v.25). Da sottolineare che Abrahamo non ricevette un trattamento di ascolto e dialogo dal Signore a caso; infatti leggiamo “Io l’ho scelto perché obblighi i suoi figli e la sua famiglia dopo di lui a osservare la via del Signore e ad agire con giustizia e diritto” (v.19). Anche il cristiano deve meditare e chiedersi per cosa è stato scelto e ad agire di conseguenza incamminandosi per la sua strada.

Abrahamo, nella sua trattativa con Dio, pensava a Lot suo nipote? Certo sapeva che si era stabilito “nelle città della valle” e aveva piantato “le tende vicino a Sodoma”, ma non credo che fu quello l’unico impulso a spingerlo a parlare standogli a cuore la giustizia e ribellavandosi all’idea che un “giusto” a lui sconosciuto perisse “assieme all’empio”, cioè allo stesso modo.

 

Vediamo invece il ricco: ha capito troppo tardi che la sua condotta lo ha portato in una condizione di tormento, ma pensa ai suoi cinque fratelli che, evidentemente ricchi come lui ed altrettanto dediti a soddisfare ogni loro istinto, avrebbero subìto la sua stessa sorte. Ancora una volta va ribadito che non è la ricchezza ad essere un ostacolo a salvarsi, ma la priorità che l’uomo dà ad essa: la rincorre, la desidera e, una volta ottenuta, vuole vivere come un dio, senza rispondere a nessuno delle sue azioni, incurante del domani che considera identico all’oggi all’infinito.

Si badi che l’essere “ricco” non dipende da quanto si possiede, ma dall’attaccamento che si ha per le proprie cose indipendentemente dal loro valore oggettivo. Il gusto del possesso, il non voler condividere con altri ciò che si ha, la difesa ad oltranza dell’avere sono cose che riguardano tanto il plurimilionario che il povero.

L’uomo della parabola sa benissimo che i suoi fratelli, ebbri dell’odierno, non pensano minimamente al fatto che esiste un luogo di tormento in cui finiranno, e chiede che sia proprio Lazzaro, in quanto conosciuto da loro, ad andare e ad ammonirli “severamente”, cioè con tutto il convincimento di cui è capace. Ma Lazzaro era un’anima finalmente in riposo e consolazione, non un profeta.

E a questo punto occorre prestare la massima attenzione alle parole di Abrahamo, “Hanno Mosè e i profeti, ascoltino loro”, che nascondono importanti messaggi. Sempre leggendo la parabola inquadrandola al tempo in cui fu esposta, non va commesso l’errore di ritenere l’osservanza della Legge e dei Profeti come condizione per la salvezza perché altrimenti Gesù sarebbe sceso e morto invano. “Mosè e i Profeti” non erano ascoltati neppure dai farisei che, se lo avessero fatto, sarebbero certo diventati Suoi discepoli perché tanto l’uno che gli altri a Lui conducono, sapendo che “il fine della Legge è Cristo, per la giustificazione di ognuno che crede” (Romani 10.4).

Dove avrebbe potuto portare Mosè i cinque fratelli del ricco? A quella pietà che non esercitavano verso l’affamato, il povero, la vedova, l’orfano e lo straniero (che però per venire accolto doveva farsi circoncidere), ad esempio. E i profeti, posto che lui stesso lo era? Al ravvedimento e all’attesa del Messia promesso che avrebbe richiesto una profonda rivisitazione della propria vita e conversione come predicava Giovanni Battista, il maggiore fra gli uomini “nati di donna”. Del resto, il vero significato del vivere, inteso come scelta, lo spiega proprio Mosè che riporta le parole di Dio al riguardo: “Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male” (Deuteronomio 30.15). Tutto lì.

 

La colpa di questi personaggi fu di coltivare ed utilizzare la ricchezza del mondo ignorando del tutto l’altra (e servendo a “Mammona” non potevano che odiare l’altro padrone): “Il timore del Signore è puro, rimane per sempre; i giudizi del Signore sono fedeli, sono tutti giusti, più preziosi dell’oro, di molto oro fino, più dolci del miele e di un favo stillante”.

L’ascolto di Mosé e dei Profeti è qui raccomandato ed è definito sufficiente per inquadrare correttamente la propria vita, certo tenendo presente l’uditorio cui erano dirette in primis queste parole. Quest’ascolto fu praticato da tanti uomini e donne dell’Antico Patto, e penso a Simeone ed Anna che, sotto certi aspetti, si può dire aprano il Nuovo Testamento.

Tornando al dialogo tra il ricco e Abrahamo, però, vediamo che questo insiste: sa benissimo che lui e i suoi fratelli avevano ricevuto un’istruzione religiosa, ma con basi che avevano ben presto provveduto a rimuovere; se però, secondo lui, avessero fatto un’esperienza diretta, soprannaturale, certamente si sarebbero ravveduti ancor più se rimproverati da Lazzaro, che da loro sarebbe certo stato visto non più coperto di piaghe, ma nella luce.

Questo però è un ragionamento secondo il mondo, fuorviante. E Isaia 8.20 entra nel merito: “Quando vi diranno: «Interrogate i negromanti e gli indovini che bisbigliano e mormorano formule. Forse un popolo non deve consultare i suoi dèi? Per i vivi consultare i morti?», attenetevi all’insegnamento, alla testimonianza. Se non faranno un discorso come questo, non ci sarà aurora per loro”. Invece: “Cercate nel libro del Signore, e leggete: nessuno di essi vi manca, l’uno non deve attendere l’altro, poiché la bocca del Signore lo ha comandato e il suo spirito li raduna” (43.6).

Capiamo? Al miracolo desiderato, alla manifestazione soprannaturale, inspiegabile, spettacolare che l’uomo cerca per credere, è sostituita la lettura del “libro del Signore”, anticipazione di quello della vita, perché lì non manca nulla, compreso il ritrovarsi nella condizione di Lazzaro prima e nei Nuovi Cieli e Nuova Terra poi. Perché “La bocca del Signore lo ha comandato e il suo spirito li raduna”, quindi sono esclusi tutti coloro che condizionano il loro “credere” al “vedere”, al “toccare con mano”. Al contrario, è proprio chi ragiona in questo modo che si perde dietro ricerche o esperienze che portano all’oltre del nulla e del vuoto perché sono proprio le manifestazioni cosiddette “soprannaturali” a perdere le persone.

E in questo possiamo comprendere tutto ciò che esula dalla realtà di Dio ma è ampiamente compreso in quella dell’Avversario, come ad esempio lo spiritismo che, quando non è frutto di artificio, è pericoloso e vietato ai credenti. Ricordiamo infatti le parole di Deuteronomio 18.9: “Quando sarai entrato nella terra che il Signore, tuo Dio, sta per darti, non imparerai a commettere gli abomini di quelle nazioni. Non si trovi in mezzo a te chi fa passare per il fuoco il suo figlio o la figlia, né chi faccia incantesimi, né chi consulti i negromanti o gli indovini, né chi interroghi i morti, perché chiunque fa queste cose è in abominio al Signore”.

Lazzaro non avrebbe mai potuto essere mandato ai fratelli dei ricco perché il volere di Dio è che si creda attraverso la Sua Parola e non per miracoli che portano a distorsioni nella fede come quelli avvenuti da quando l’opera apostolica venne a cessare per la chiamata dei Dodici alla presenza del Signore. I miracoli al di fuori dei Vangeli, infatti, hanno sempre portato o alla superstizione o allo stabilire dottrine a lui non conformi che poi hanno generato posizioni estranee che sono perdurate nel tempo, travisando la fede e trasformandola in atteggiamento e pratica carnale. E vivere senza memoria dei fondamenti equivale a vivere senza una direzione.

Certo, anche qui come in molti altri casi da noi affrontati, non si tratta di un argomento che può essere sviluppato in poche righe, ma se analizziamo le ultime parole di Abrahamo al ricco, notiamo che il credere accettevole a Dio è uno solo, quello basato sulle parole “di Mosè ed i Profeti” e quindi, per noi oggi, sulla totalità della Scrittura, sul messaggio del Vangelo: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti” (v. 31). Ecco il materiale su cui ragionare: abbiamo una visione, quella di Lazzaro che ipoteticamente risorge dai morti, che avrebbe lasciato sbalorditi e in preda al terrore i cinque fratelli che avrebbero avuto la prova di una vita dopo la morte, ma poi? Poi tutta quella violenta emozione sarebbe svanita poco a poco, Lazzaro se ne sarebbe tornato da dov’era venuto e loro avrebbero fatto i conti con il loro cuore immutato e la ricchezza ancora lì disponibile, pronta ad essere usata a loro piacimento. Il ricordo di Lazzaro sarebbe stato coperto da una coltre, da una frase del tipo “Ma sì, lo abbiamo visto, ma ci siamo sbagliati, abbiamo avuto un’allucinazione, lui non era reale come invece lo è questa tavola imbandita, mangiamo e beviamo”.

Ricordiamoci di ciò che riferisce Matteo: “i sepolcri si aprirono e molti corpi di santi, che erano morti, risuscitarono. Uscendo dai sepolcri, dopo la sua resurrezione, entrarono nella città santa e apparvero a molti” (27.52.53): se quanto detto dal ricco fosse stato vero, avremmo avuto una conversione in massa di Israele a seguito di quelle apparizioni, cosa che non fu.

Certo che lì per lì i fratelli del ricco avrebbero creduto alle parole che sarebbero state rivolte loro, sarebbe stato impossibile non ascoltarle, ma poi tutto sarebbe tornato come prima e di qui l’inutilità di mandare Lazzaro ad ammonirli “severamente”. Abrahamo dice “Non sarebbero persuasi”, cioè convinti. Di che cosa? Di “peccato, giustizia e giudizio”, cosa che solo lo Spirito Santo può fare provocando la salvezza del peccatore che infatti si converte, lascia poco a poco le cose che riteneva importanti, primarie per la sua vita e ne abbraccia di altre.

 

Se fosse sufficiente venire coinvolti più o meno direttamente in un miracolo per essere salvati, i dieci lebbrosi guariti sarebbero tornati da Gesù tutti e non uno solo. I miracoli propagandati da certe chiese, il più delle volte grotteschi, spesso risibili e contrari alla Scrittura stessa, generano manifestazioni isteriche o iper superstiziose senza apportare alcuna variazione nel comportamento e soprattutto nella mentalità della gente; di qui vediamo perché Abrahamo abbia parlato in quel modo.

C’è invece una sola conversione vista in Ezechiele 14.6, “Convertitevi, abbandonate i vostri idoli e distogliete la faccia da tutti i vostri abomini”, che mostra due azioni: primo, l’abbandono dei nostri idoli, quindi ciò che in noi ha la priorità nella carne, secondo, prendere atto di tutte le azioni sbagliate nei confronti della Parola che, in quanto tali, impediscono uno sviluppo alla sua luce. Infatti, al verso 30 dello stesso capitolo, abbiamo “Convertitevi e desistete da tutte le vostre iniquità“tutte”, quindi individuarle una per una e provvedere -, e l’iniquità non sarà più causa della vostra rovina”, quindi troverete perdono e redenzione.

Infine, adatto al contesto della parabola, 18.32, “Io non godo della morte di chi muore. Oracolo dei Signore Dio. Convertitevi e vivrete”. Ecco una piccola parte del patrimonio spirituale a disposizione dei cinque fratelli di quel ricco. Era lì, certo scritto nei rotoli della Sinagoga, ma lì letto e spiegato, magari con parole non sempre adatte, ma c’era. Purtroppo, una volta ascoltati, quei contenuti venivano prontamente dimenticati oppure passavano sugli astanti senza fermarsi. Per tutti coloro che, anche oggi, la Parola di Dio fa questo effetto, qualsiasi apparizione soprannaturale o miracolo, è inutile. Amen.

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14.19 – IL RICCO E LAZZARO II/III (Luca 16.23-26)

14.19 – Il ricco e Lazzaro 2 (Luca 16. 23-26)

 

 

23Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. 24Allora gridando disse: «Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma». 25Ma Abramo rispose: «Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. 26Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi». 

 

Siamo giunti alla seconda parte della parabola, quella a mio avviso più difficile per gli interrogativi che porta. Per noi “moderni” infatti, forse più rispetto ai contemporanei di Nostro Signore, l’interpretazione delle parabole risulta ostica non tanto nel suo significato generale, quanto del particolare perché si può sempre incorrere in errori, primo fra i quali pretendere che ciascun elemento o situazione in esse descritte debba necessariamente corrispondere a un simbolo, a una realtà del mondo spirituale, a una categoria, siano in atto o a venire.

E il primo grande scoglio da superare è rappresentato proprio dal verso 23, che vede il ricco stare “negli inferi fra i tormenti” che vede “di lontano Abrahamo e Lazzaro accanto a lui”. Dobbiamo chiederci cosa significa perché da questo verso trasparirebbe che gli “inferi” e i “tormenti” siano la retribuzione immediata del peccato e che questa venga prima del giudizio finale: è possibile?

Al tempo di Gesù si credeva che le anime di chi concludeva la propria esistenza terrena andassero nello Sheol, o Ades, che si divideva in due luoghi distinti, il Paradiso per i giusti e la Geenna per gli empi, ma andare oltre nella comprensione non si poteva se non ipotizzare che questo fosse comunque un luogo intermedio prima della resurrezione.

Ora effettivamente pensare a un “luogo intermedio” nell’attesa della resurrezione del corpo e del premio o della pena non è totalmente sbagliato, solo che più che “luogo” dovrebbe parlarsi di “condizione”, o di “condizione che è anche luogo” e, partendo dai casi positivi, viene in mente il ladro pentito sulla croce al quale Gesù disse che “oggi” sarebbe stato con lui in Paradiso, frase messa in discussione dai cosiddetti “Testimoni di Geova” che qui giocano sulla punteggiatura per sostenere le loro tesi.

Abbiamo altri versi a sostegno del fatto che, dopo la morte del corpo, l’anima raggiunga uno stato preciso; ad esempio in 2 Corinti 5.6-8 leggiamo “Dunque, sempre pieni di fiducia e sapendo che siamo in esilio e lontano dal Signore finché abitiamo nel corpo – camminiamo infatti nella fede e non nella visione –, siamo pieni di fiducia e preferiamo andare in esilio dal corpo e abitare presso il Signore”. Appunto, “finché abitiamo nel corpo”, cioè il fatto stesso di abbandonare l’involucro umano significa, per chi crede in Lui, andare alla Sua presenza. Quindi, dopo la morte, ci sarà chi sarà col Signore e chi invece ne sarà lontano e parlo di “condizione” o di “stato” perché ciò che saremo per sempre avverrà solo con la resurrezione del corpo e la conseguente occupazione nella “casa dalle molte stanze”. O si concluderà con il venire gettati nello stagno di “fuoco e zolfo”.

Ancora ricordiamo Filippesi 1.23: “Sono stretto fra queste due cose: ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; ma per voi è più necessario che io rimanga nel corpo”.

Allo stesso tempo, però, non possiamo pensare che l’ “abitare presso il Signore” ai tempi di Paolo e nostri sia cosa identica rispetto a quando il mondo non esisterà più e al suo posto ci sarà il Regno perfetto di Dio, nei Nuovi cieli e Nuova terra.

Allo stesso modo, chi viene sepolto e dovrà passare per il giudizio entra in una condizione in cui necessariamente è escluso dalla Luce e dall’Amore di Dio per cui si stabilisce in un àmbito di tormento perché quegli elementi, Luce e Amore, vengono a mancare. Dopo aver molto riflettuto, credo che sia questa l’unica possibilità come punto dal quale partire perché poi Gesù non parla di un corpo che soffre nella sua realtà di elemento risorto al tempo della fine, ma di posizioni spirituali limitate alla condizione dello “stato” del ricco e di Lazzaro, che non sono certo di incoscienza.

Se così non fosse, se cioè il riferimento fosse a entrambi i personaggi che si ritrovano per così dire “a cose fatte”, cioè dopo il giudizio finale, il riferimento ai parenti del ricco da spingere alla conversione con fenomeni soprannaturali, non avrebbe senso.

Dalla lettura del verso 23, caratterizzato dalla descrizione della condizione del ricco che, fra i tormenti alza gli occhi e vede Lazzaro nel seno di Abrahamo, constatiamo che la loro condizione è caratterizzata dalla coscienza di quello che si è, si prova e si vede, a conferma che anima e spirito hanno una vita autonoma che però dipende dalle azioni commesse quando si era nel corpo.

 

Prima di tutto leggiamo che il ricco è negli inferi (Sheol) fra i tormenti, quindi nella Geenna dove ha memoria di tutto ciò che era e faceva. E infatti riconosce Lazzaro e continua a considerarlo un oggetto. Quali tormenti? La stessa persona parla di “fiamma”, che potrebbe riferirsi a quella che conosciamo, che in questo caso brucia elementi da lei intaccabili, ma anche qualcosa che divora dall’interno e che non può essere spento, quindi il desiderio impossibile di trovarsi in una realtà diversa.

Mi permetto di ricordare i versi 28 e 29 del capitolo 13 di questo stesso Vangelo: “Là sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abrahamo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti del regno di Dio, voi invece cacciati fuori”. Viene da pensare quindi che questa reazione sia causata proprio dalla vista di un mondo precluso per sempre, quello stesso non considerato, valutato adeguatamente quando c’era ancora la possibilità di scegliere la vita. E il ricco vede “da lontano” Abrahamo e Lazzaro proprio a sottolineare la distanza intesa come irraggiungibilità perché altrimenti, se questo “da lontano” fosse stato reale, non avrebbe potuto riconoscerli.

Poi, questo personaggio innominato ha “sete”: per il caldo della fiamma? Come può, se è privo di corpo non essendo risorto? Non si può pensare diversamente se non che quella “sete” e quella “fiamma” fossero interiori, come dalle parole di Gesù “Chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno” (Giovanni 4.14) e, riguardo a Lazzaro, “Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati”.

Sappiamo che, come insegna il Qoèlet o Ecclesiaste, “C’è un tempo per ogni cosa” e questo riguarda anche quella della scelta, oggi, del riconoscere che l’unica possibilità di trovare riposo, pace e rifugio è nel Signore Gesù Cristo, Colui che è “l’Alfa e l’Oméga, il Principio e la Fine. A colui che ha sete io darò gratuitamente da bere alla fonte dell’acqua della vita”. Questa è cosa possibile solo quando si è in vita sulla terra. Ecco perché la “sete” del ricco non poteva essere saziata.

 

Abbiamo però a disposizione altri dati sulla psicologia del ricco, che tale era e tale è rimasta: nella sua ipocrisia giunge a chiamare Abrahamo “padre”, cioè lo invoca sperando di essere ascoltato in quanto ebreo, di avere una corsia preferenziale. Non solo, ma chiede che gli venga usata “pietà”, quella stessa che lui non aveva mai avuto nei confronti di Lazzaro che, giacente in modo penoso alla porta, visto da tutti, sperava di potersi nutrire con gli avanzi che invece venivano dati ai cani. Per quanta fame e sete Lazzaro potesse avere, per quanto cercasse con lo sguardo un minimo di solidarietà umana, gli veniva negata. Ancora: i cani che gli leccavano le piaghe, erano quelli di casa del ricco, oppure randagi?

Ancora una volta le parole di costui ad Abrahamo rivelano soltanto egoismo e che il concetto che aveva di sé come persona potente, da rispettare e/o temere, non era cambiato perché dice “Manda Lazzaro”, cioè considera quell’ex povero comunque un suo sottoposto, un servo, un inutile che deve ubbidire ad Abrahamo perché lui lo chiede. C’è chi ha visto la goccia d’acqua che avrebbe potuto cadere dal dito di Lazzaro corrispondere al pezzo di pane che cadeva dalla tavola del ricco in quel mondo “capovolto”.

Vengono in mente le parole del discorso sul monte “Guai a voi, ricchi, perché già avete ricevuto la vostra consolazione. Guai a voi, che ora siete sazi, perché avrete fame. Guai a voi, che ora ridete, perché sarete nel dolore e piangerete” (Matteo 6.24,25). Un “ora” che non contempla un futuro, ma solo l’illusione che possa continuare per sempre, cosa che non può essere. E va sottolineato che quel “che ora siete sazi” è riferito al ritenere la ricchezza l’unica possibilità di espressione, conquista, realizzazione della persona.

E a questo punto possiamo leggere le parole di Abrahamo che, chiamato “padre” dal ricco, si rivolge a lui chiamandolo “figlio”, che contiene un’accusa perché in quanto “figlio di Abrahamo”, come rivendicavano i Giudei, non si era comportato e infatti lo invita ad andare con la memoria alla sua esistenza finita: “ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato e tu invece sei in mezzo ai tormenti”.

In Proverbi 10.15 leggiamo che “I beni del ricco sono la sua roccaforte”, cioè tutto ciò su cui basa la sua esistenza, il suo essere, la sua speranza, ma ciò che ha “verrà lasciato ad altri e morirà” (Siracide 11.19), “accumula per altri, con i suoi beni faranno festa gli estranei” (14.4).

Le parole di Abrahamo, quindi, non sono rivolte a un ricco che, come Giobbe, aveva ben presente la sofferenza umana di chi era povero e si adoperava per alleviarla, ma a una persona che aveva fatto di sé stesso un arbitro che volgeva ogni cosa a suo esclusivo favore.

C’è qualcosa che accomuna però i “beni” ricevuti dal ricco e i “mali” di Lazzaro e cioè che sono entrambi, per quanto così all’opposto, delle prove che Dio manda per vedere come reagirà la persona: così come il ricco avrebbe potuto gestire i suoi averi per aiutare il prossimo e nulla gli impediva di goderne comunque, allo stesso modo Lazzaro avrebbe potuto incattivirsi come molti nella sua situazione e agire per rubare o, qualora impossibilitato perché – ad esempio – invalido, organizzare furti o rapine informando altri del livello di difesa dell’abitazione presso la cui porta stava. La morale di questo mondo, infatti, si sintetizza nel detto “Mors tua, vita mea” e chi non si adegua, spesso, ne paga le conseguenze, come vediamo soprattutto in campo politico e commerciale dove a soccombere non sono solo le persone che non si adeguano al principio, ma anche gli Stati.

Ebbene, Lazzaro sceglie di guardare oltre al suo contingente, aspetta di essere consolato. Come Davide comunque poteva dire “Non abbandonerai la mia vita negli inferi, né lascerai che il tuo fedele veda la fossa. Mi indicherai il sentiero della vita, gioia piena alla tua presenza, dolcezza senza fine alla tua destra” (Salmo 16.10,11 riferito a Gesù, ma comunque a tutti coloro che nei vari tempi hanno creduto).

Ancora, il 17.14,15, parlando dei “mortali del mondo, la cui sorte è in questa vita”, dice: “Sazia pure dei beni il loro ventre, se ne sazino pure anche i figli e ne avanzi per i loro bambini. Ma io nella giustizia contemplerò il tuo volto, al risveglio mi sazierò della tua immagine”.

Infine Abrahamo conclude spiegando che i due territori, quello della beatitudine e quello dei tormenti, sono organizzati, cioè è stato posto fra loro “un grande abisso”, uno spazio non oltrepassabile colmandolo con terra o detriti né gettando un ponte “talché coloro che vogliono passare da voi non possono, né di lì possono giungere fino a noi”. Il “talché” manca nel nostro testo ed è stato sostituito dai traduttori coi due punti, ma è ben presente nel greco con la parola “òpos” che può essere tradotta con “di modo che”, ma anche “affinché” che rimarca maggiormente il fatto che questo confine è stato stabilito da Dio.

Ebbene questo “grande abisso” non è superabile in alcun modo a prescindere dalle intenzioni espresse nel voler passare da un ambiente all’altro da leggersi come “anche se volessero, non potrebbero”.

“Di qui” e “di lì” sono i limiti stabiliti da Dio. Lazzaro va nel territorio della consolazione, il ricco in quello dei tormenti; purtroppo per i religiosi, non c’è Purgatorio per nessuno, entrambi sono stati ricevuti in un luogo o nell’altro per i pensieri e le conseguenti azioni fatte quando erano in vita e credo che sia a questo punto, che cercheremo di sviluppare con la terza parte, Gesù introduce l’impossibilità di credere e convertirsi affidandosi a manifestazioni miracolose che non possono venire da Dio. Amen.

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14.18 – IL RICCO E LAZZARO I/III (Luca 16.19-31)

14.18 – Il ricco e Lazzaro 1 (Luca 16.19 – 31)

 

19C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. 20Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, 21bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe. 22Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. 

 

Abbiamo letto una delle parabole più celebri dei Vangeli, ma che per questo nasconde aspetti interessanti che vanno al di là delle semplici implicazioni letterali.

I versi da 19 a 21 descrivono i personaggi: il primo, di cui non è detto il nome, è un “uomo ricco” di cui non sappiamo nulla quanto al passato, che vestiva “di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti”. La prima caratteristica di questo personaggio è il vestire, “di porpora”, tintura che si dava su vestiti pregiati e che si ricavava da una conchiglia che anticamente abbondava nei dintorni di Tiro, molto costosa perché ciascuna di esse non dava che pochi ml di liquido per colorare gli abiti. Vestirsi di porpora era cosa che ben poche persone potevano permettersi, come i re o i loro alti dignitari. Chiariscono in proposito le parole del re di Babilonia agli indovini, Caldei e astrologi in Daniele 5.7: “Chiunque leggerà quella scrittura e me ne darà la spiegazione, sarà vestito di porpora, porterà una collana d’oro al collo e sarà terzo nel governo del regno”; ciò avvenne nel famoso episodio in cui, al gran banchetto di Baldassàr, “apparvero le dita di una mano d’uomo che si misero a scrivere sull’intonaco della parete del palazzo reale, di fronte al candelabro, e il re vide il palmo di quella mano che scriveva. Allora il re cambiò colore: spaventosi pensieri lo assalirono, le giunture dei suoi fianchi si allentarono, i suoi ginocchi battevano l’uno contro l’altro” (vv.5,6).

L’abito di porpora formava il vestito esterno dell’uomo ricco, ma l’interno era costituito da una tunica di lino finissimo, noto per la sua bianchezza e la morbidezza, molto apprezzato dai sacerdoti egiziani per queste caratteristiche secondo Plinio il Vecchio che ne parla nella sua “Storia Naturale”.

La frase “ogni giorno si dava a lauti banchetti” è ancora una volta un’interpretazione del letterale “facendo festa ogni giorno splendidamente”, quindi, poiché ben difficilmente una persona può far festa da solo, dava dei ricevimenti che si protraevano per molto tempo e Giovanni Diodati in proposito traduce con “ogni giorno godeva splendidamente” lasciando al lettore di immaginare come. Raccogliendo le diverse traduzioni, quindi, possiamo concludere che la vita di quell’uomo trascorreva senza farsi mancare nulla per i propri piaceri. Quella persona, come tanti oggi anche se non necessariamente hanno le sue ricchezze, viveva ponendo la sua persona al centro del mondo che lo circondava, incurante del suo prossimo visto nel povero Lazzaro, variante di Eleazaro che significa “Dio ha aiutato”, oppure “Aiutato da Dio”. Siamo qui nell’unico caso in cui Gesù dà un nome proprio a un personaggio delle Sue parabole.

Il nostro testo riporta che “stava alla sua porta” (della casa del ricco), ma si tratta di una traduzione troppo blanda: altri traducono “giaceva” dal geco “ebébleto”, letteralmente “era stato gettato”, quindi Lazzaro stava là, come un rifiuto, a margine, e mi sono chiesto come mai quel ricco non avesse dato ordine che fosse portato stonando la sua presenza, le cui piaghe venivano leccate dai cani, con tutta la sontuosità del luogo.

Può essere che l’ego del proprietario fosse giunto a tal punto da compiacersi del fatto che ci fosse qualcuno che desiderasse sfamarsi con gli avanzi che cadevano dalla sua tavola senza poterlo fare.

Infatti il testo non ci dice che Lazzaro si sfamasse, anzi, era “bramoso” di farlo, “ma – avversativo – erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe”, quindi animali impuri che, al contrario di lui, si saziavano davvero con gli avanzi. Il testo non ci dice come venisse trattato quel povero, cioè se qualche servo mosso a compassione gli desse qualcosa da mangiare, ma credo che l’accento sia da porre sul fatto che, là dove la dignità di un uomo veniva costantemente calpestata e oltraggiata senza il minimo senso della carità, ve ne era un altro che soddisfaceva se stesso con tutti i mezzi possibili, senza freni, spendendo il suo denaro.

Si può dire che, sotto il punto di vista dell’esistenza umana, entrambi non avessero un futuro perché Lazzaro non avrebbe mai trovato nessuno disposto a prendersi cura di lui, cioè fasciare le sue piaghe e dargli un lavoro per mantenersi, e il ricco sarebbe stato condannato a continuare con le sue feste e quant’altro per non annoiarsi, condizione che secondo me già provava perché anche le cose più belle e appetibili, quando sono durature, finiscono col generare assuefazione e al tempo stesso quasi infastidire. Si rimane prigionieri del proprio status, protagonisti dell’apparire e cercare una ragione in tutto quel vuoto può condurre a gravi fenomeni nevrotici.

Il povero sogna di avere qualcosa per sfamarsi, il ricco di avere nuovi riempitivi per non essere condannato a ripetere le stesse azioni, né poteva trovare un vero appagamento frequentando i propri simili perché affetti dal suo stesso problema. Di ricchi ne ho conosciuti davvero tanti e posso dire di averli visti soddisfatti solo perché potevano mostrare agli altri cose che questi non avrebbero mai potuto fare. Li ho visti costretti a inventare passatempi, modi di essere, cercare nelle “feste” (come il personaggio della parabola) un senso ad una vita che ne era di per sé priva.

 

Poi arriva la morte per entrambi, come per tutti, quindi più o meno poveri, più o meno ricchi, che pone fine all’esistenza terrena. La morte accomuna, appiattisce, livella, annulla le distanze sociali, economiche, è la negazione dell’esistere, dell’essere in termini umani e infatti la persona cessa di essere tale e si tramuta in cadavere, in salma, qualcosa di cui ci si deve sbarazzare entro un certo limite di tempo. Da persone che erano tanto l’uno, Lazzaro, quanto il ricco innominato, diventano entrambi un peso, qualcosa da chiudere in un sepolcro (fossa comune per l’uno, sepolcro per l’altro) che sarebbe diventato un luogo impuro, contaminante a prescindere dalle sue fattezze.

In realtà però sappiamo che la morte è soltanto una porta attraversata che ci si lascia alle spalle un corpo spento, mentre l’anima e lo spirito restano integre e subiscono un destino che non dipende da Dio, ma è il risultato del vissuto di chi per quella porta obbligatoriamente transita.

E a questo punto nella lettura della parabola occorre prestare attenzione perché parrebbe che Lazzaro abbia un premio solo perché povero mendicante nella vita anteriore e il ricco il tormento solo perché tale un tempo. Gesù, invece, si serve dell’espressione “fu portato dagli angeli accanto ad Abrahamo” (più corretto “nel seno di Abrahamo”) come sinonimo di Paradiso a sottolineare l’importanza del suo atteggiamento interiore confermato dall’operato degli angeli, chiave di lettura della persona di Lazzaro.

In Salmo 34.8 leggiamo “L’angelo del Signore si accampa a coloro che lo temono, e li libera”.  In 91.11,12, che andrebbe comunque letto integralmente, “Egli per te darà ordine ai suoi angeli di custodirti in tutte le tue vie. Sulle mani essi ti porteranno, perché il tuo piede non inciampi nella pietra”.

Infine aggiungiamo 103.20, “Benedite il Signore, angeli suoi, potenti esecutori dei suoi comandi, attenti alla voce della sua parola”, che ci lasciano concludere che Lazzaro non imputava a Dio la sua condizione, ma viveva attendendo una Sua risposta, certo soffrendo ma, come direbbe Paolo di Tarso, “non come quelli che non hanno speranza”. Ho visto e sentito persone morire gridando e bestemmiando, ne ho viste altre andarsene in silenzio, altre ancora in grande quiete, direi pregustando la liberazione da un corpo di carne a vantaggio di una vita in Cristo.

Lazzaro quindi venne – traduzione più idonea della nostra – “portato dagli angeli nel seno d’Abrahamo” non perché questa è la fine che fanno tutti i poveri, ma per conseguenza di ciò in cui credeva.

Si noti a questo punto cosa si dice dell’altro personaggio, “Morì anche il ricco e fu sepolto”. Fine. La morte di Lazzaro è un fatto naturale come quella del ricco, ma a differenza sua prevede un “oltre” che l’altro non ha: la vita del ricco si ferma al presente, è un fermo fotogramma, si chiude con la sepoltura perché il luogo dove va questa persona è un tumulo, per quanto l’anima e lo spirito continuino a vivere un tormento che sembra essere senza fine.

Il ricco “fu sepolto”, fine per lui; sarebbe vissuto per un altro poco nella memoria dei suoi compagni di feste, per poi venire da loro dimenticato non appena qualcun altro ne avrebbe organizzate di nuove.

Per chi, come l’ignoto personaggio di questa parabola, vive allo stesso modo, valgono queste parole: “Essi confidano nella loro forza, si vantano della loro grande ricchezza. Certo, l’uomo non può riscattare se stesso né pagare a Dio il proprio prezzo. Troppo caro sarebbe il riscatto di una vita: non sarà mai sufficiente per vivere senza fine e non vedere la fossa. Vedrai infatti morire i sapienti – secondo questo mondo -: periranno insieme lo stolto e l’insensato e lasceranno ad altri le loro ricchezze. Il sepolcro sarà la loro eterna dimora, loro tenda di generazione in generazione: eppure a terre hanno dato il proprio nome. Ma nella prosperità l’uomo non dura; è simile alle bestie che muoiono. Questa è la vita di chi confida in se stesso, la fine di chi si compiace nei propri discorsi. Come pecore sono destinati agli inferi, sarà loro pastore la morte; scenderanno a precipizio nel sepolcro, svanirà di loro ogni traccia, gli inferi saranno la loro dimora” (Salmo 49.7. 15).

Per essere “portato dagli angeli nel seno d’Abrahamo” credo che Lazzaro avesse fatto proprie le parole finali del Salmo appena citato: “Certo – Amen –, Dio riscatterà la mia vita, mi strapperà dalla mano degli inferi. Non temere se un uomo arricchisce, se aumenta la gloria della sua casa. Quando muore, infatti, con sé non porta nulla né scende con lui la sua gloria – umana –. Anche se da vivo benediceva se stesso: «Si congratuleranno perché ti è andata bene», andrà con la generazione dei suoi padri, che non vedranno mai più la luce. Nella prosperità l’uomo non comprende, è simile alle bestie che muoiono” (vv. 16-21).

A questo punto, per concludere questa prima parte, se abbiamo visto i meriti di Lazzaro, dobbiamo chiederci quali furono le colpe del ricco. Credo che sia stata una sola, e cioè non avere mai pensato a Dio e conseguentemente agli altri, nella fattispecie Lazzaro: “Ad ogni uomo, al quale Iddio concede ricchezze e beni, egli dà facoltà di mangiarne, prendere la sua parte e godere della sua fatica: anche questo è un dono di Dio. Egli infatti non penserà troppo ai giorni della sua vita, poiché Dio lo occupa con la gioia del suo cuore” (Ecclesiaste 5.13-16).

Per quanto l’ultima parte sia chiaramente appartenente a un tempo diverso dal nostro, va da sé che se la ricchezza è un dono di Dio, è al tempo stesso una prova molto severa e importante perché è da lì che si vede la persona carnale, destinata a finire col suo battito, o spirituale: ci sarà chi capirà il dono e darà e chi invece vorrà tenere tutto per sé, soddisfacendosi fino a morirne. Amen.

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14.17 – FEDELI NEL POCO E NEL MOLTO (Luca 16.10-14)

14.17 – Fedeli nel poco e nel molto (Luca 16.10-14)

 

 

10«Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. 11Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? 12E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra?
13Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza».
14I farisei, che erano attaccati al denaro, ascoltavano tutte queste cose e si facevano beffe di lui. 15Egli disse loro: «Voi siete quelli che si ritengono giusti davanti agli uomini, ma Dio conosce i vostri cuori: ciò che fra gli uomini viene esaltato, davanti a Dio è cosa abominevole».

 

Sono parole che troviamo a conclusione della parabola dell’amministratore infedele, quando Gesù sposta l’attenzione del suo uditorio tirando le somme di quanto detto mettendo in evidenza l’esistenza di un rapporto fra ciò che facciamo nella vita quotidiana e quanto siamo spiritualmente.

Vediamo che nei versi da 10 a 12 vengono presentati due tipi di persone che vengono entrambe messe di fronte ad un “poco” che viene loro affidato. “Poco” è un aggettivo che a volte è sgradevole perché descrive sempre una quantità ridotta o un numero limitato di qualcosa che ci interessa e sappiamo che la carne aspira sempre al suo esatto contrario, cioè il “molto”, o le “cose importanti” per il cui conseguimento si effondono spesso molte energie.

Ora siccome il “poco” è qualcosa che in genere si sottovaluta, non si ritiene importante e quindi si tratta con sufficienza, è in realtà un significativo metro valutativo della persona che lo usa: è infatti da come si affrontano “cose di poco conto”, o genericamente il “poco” come nell’originale,  che riveliamo ciò che siamo veramente.

“Fedele” significa comportarsi conformemente alla fiducia che ci è stata accordata, dimostrarsi costanti sul piano dei sentimenti e degli affetti o su quello dei comportamenti pratici o dei pensieri, “disonesto”, anche se più propriamente andrebbe tradotto “infedele”, comporta l’essere privi della rettitudine necessaria in tutti i rapporti sociali che sono fondati sulla reciproca fiducia e, come nella nostra parabola, può riferirsi al modo di amministrare e gestire una cosa o un rapporto fra persone; credo, particolarmente adatto per i tempi in cui viviamo, il riferimento possa adattarsi alla Politica indipendentemente dal colore e dalla nazionalità.

Persone superficiali potrebbero guardare con sufficienza la fedeltà (o la disonestà) nel poco, dimenticando che si tratta di azioni solo in scala, che vanno al di là delle aspirazioni personali e che ciò che importa è il principio di base che guida la persona nelle sue scelte e nei suoi criteri d’azione.

Ricordiamo che quanto detto qui da Gesù è spiegato nella parabola dei talenti, quando leggiamo le parole a commento dell’operato dei servi che li avevano fatti fruttare: “Bene, servo buono e fedele; sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto” (Matteo 25.21). Notiamo che la frase è la stessa indipendentemente dal risultato raggiunto, poiché il servo che aveva ricevuto cinque unità ne produce altrettante e lo stesso fa quello che ne aveva avute due. Certo, c’è anche ci rimane fermo come quel tale che, invece che far fruttare la moneta, la sotterrò, dimostrando di non aver tenuto in alcun conto i voleri del suo padrone.

Costui verrà definito “malvagio e pigro” perché disubbidiente in modo passivo di fronte alle istruzioni ricevute. La “fedeltà” quindi, come ha rilevato un fratello, “non dipende dall’ammontare dato a uno, ma dal sentimento di responsabilità che ha nel cuore”.

Tornando al nostro testo, i versi 11 e 12 vanno più in profondità: “Se non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra?”, parole che mi hanno impegnato molto perché presentano due tipi di averi, quelli “disonesti”, quindi del mondo, e quelli di altri, cioè non nostri, quindi di Dio, comportamenti che richiedono entrambi attenzione e hanno relazione l’uno con l’altro.

Essere “fedeli nella ricchezza disonesta” trova il suo primo riferimento nel protagonista della parabola che abbiamo recentemente esaminato il quale, avendo derubato il proprio datore di lavoro, è figura di quelli che hanno amato “Mammona”, cioè la ricchezza terrena, il “dio denaro”, incompatibile con quello Unico e Vero. E infatti il nostro testo dice “Non potete servire a Dio e alla ricchezza”, “Mammona” nel testo originale. L’amministratore infedele, amando prima di tutto se stesso e quindi la propria carne, con lo sguardo sempre attento ad accrescere le sue sostanze consapevolmente a danno di altri, si precludeva la possibilità di partecipare ad una ricchezza ben diversa, quella spirituale, che mai avrebbe posseduto.

E a questo punto si aprirebbe un capitolo sterminato, perché il paragone fra “ricchezza disonesta” e “ricchezza vera” può benissimo oltrepassare l’esempio appena fatto: la salvezza è già qualcosa di enorme, ma è la base su cui costruire e si pone in relazione a come agiamo su questa terra per cui la “ricchezza vera” sono i doni dello spirito, che sono successivi ad essa e i talenti lo confermano, ricordiamo le parole “Fateli fruttare fino al mio ritorno” (Luca 19.13). E sappiamo che Gesù tornerà.

Ecco allora che la “fedeltà nel poco” e nelle “ricchezze disoneste” si riferiscono a quella gestione elementare tanto della Parola di Dio che ci è affidata, quanto di ciò che abbiamo materialmente volta non ad un arricchimento, ma a un equilibrio complessivo che porta a qualificare la persona come coerente. In altri termini i servi della parabola, per far fruttare i talenti, hanno dovuto seguire un percorso in salita partendo dalle cinque o due monete avute fino al ritorno del padrone, un periodo di tempo non quantificabile anche se tutto lascia supporre che sia stato lungo. Hanno dovuto operare con attenzione, conoscendo giorni di inerzia e giorni di fatica, ma constatando sempre un progresso o rimediando al più presto in caso di stasi.

Così il cristiano che rimane fermo alla salvezza, ragiona su di essa, magari legge la Parola di Dio per avere consolazione ma senza confrontarsi con Lei, non cerca di accrescere la propria conoscenza e comprensione perché si accontenta di ciò che è e ciò che sa, difficilmente otterrà un riconoscimento: “Se non siete fedeli nella ricchezza altrui – quella di Dio come già detto –, chi vi affiderà la vostra – cioè quella che vi aspetta nel Suo regno – ?”. Esiste infatti la ricompensa, meritata, del servo che fa fruttare il talento.

Ecco cosa significa l’essere “fedeli nel poco”, concetto che può anche essere allargato all’uso personale che si fa di quanto di sacro abbiamo davanti, cioè il Vangelo e la Bibbia in genere: sono infatti molti coloro che vorrebbero imitare le gesta dei personaggi importanti dell’Antico o del Nuovo Patto dimenticando che quelle persone sono giunte a conseguire quanto ricevuto prima di tutto per elezione, fatta da Dio e non negoziabile, poi per tutta una serie di contrassegni caratteriali che li hanno portati ad essere ciò che effettivamente furono. Soprattutto, poi, operarono in epoche profondamente diverse dalla nostra.

C’è un’esortazione – che personalmente definisco un ordine – data dall’apostolo Paolo ai credenti di Roma: “Abbiate fra voi un medesimo sentimento; non abbiate l’animo alle cose alte, ma accomodatevi alle basse; non siate savi secondo voi stessi” (21.16). Qui vengono proposti tre livelli, il primo il sentire comune – che comporta rigettare la presunzione, l’ego, il “tu dici, ma io ti dico”, il “fatti più in là perché io sono più santo di te”, ma richiedono comprensione spontanea e reciproca – il secondo è l’accomodarsi “alle basse” perché prima di scalare un monte (terzo livello), ci vuole tutta una preparazione che si acquisisce con gli anni. Chi non fa così appartiene alla categoria di chi è “savio secondo se stesso”.

L’essere “fedeli nella ricchezza altrui” comporta la gestione del talento o dei talenti, anche questa cosa non facile perché, per non avere problemi, andrebbero sotterrati ma sappiamo che il menefreghismo, tanto verso di noi che verso gli altri, non è ammissibile. Ecco, qui per rendere fattive le parole di Gesù in merito dobbiamo esaminare noi stessi e guardarci serenamente, profondamente indietro per vedere se la nostra persona ha fatto progressi nel tempo o se è rimasta quella di prima, cosa abbiamo sviluppato al di là della nostra esperienza, se abbiamo imparato o meno dai nostri errori, se siamo stati perseveranti. Ma il punto nodale non è nemmeno questo: si tratta di crescita e sviluppo, di conoscenza e pratica, di tenersi stretto ciò che si è riusciti a guadagnare prestando la massima attenzione a non perderlo perché, se è vero che farsi un tesoro nel cielo significa avere ricchezze eterne, basta poco per cadere e magari rovinare anni di lavoro.

Scrivendo a Timoteo nella sua seconda lettera, così parla a Timoteo: “Le cose che hai udite da me in presenza di molti testimoni, trasmettile a uomini fedeli, che siano capaci di insegnarle anche ad altri” (2.2). Uomini fedeli, che portano e aspirano alle dinamiche dello Spirito, che rifuggono il sentimentalismo religioso, la retorica, esprimersi con lunghi giri di parole che non arrivano da nessuna parte come fanno gli uomini inconcludenti. Il fedele è colui che va oltre e che pone Dio nelle condizioni di agire attraverso di lui.

Tutto questo discorso è specifico per i credenti e per quelle persone che guardano alle proprie sostanze materiali inquadrandole nel loro giusto àmbito e infatti leggiamo al verso 14 che “I farisei, che erano attaccati al denaro, ascoltavano tutte queste cose e si facevano beffe di lui”: pensiamo a cosa ha prodotto in loro quel verbo bellissimo che è “ascoltare”. Refrattari a qualunque richiamo, loro che vedevano simboli ovunque ed erano sempre pronti a studiare a interpretare, di fronte a tutte le verità di Dio dichiarate, lo deridevano.

E riguardo comunque alla nostra attività, al nostro essere davanti a Lui, credo che possa salvarci dal cadere doloroso solo una linea di continuità di studio, assimilazione e ricerca per quella che è la sola condizione idonea ad orientare la persona nel suo naturale percorso di vita, e cioè la dottrina per evitare quei “peccati di inavvertenza” che finiscono per minare il nostro rapporto col Signore senza che ce ne accorgiamo e possono finire per trasformarci in alberi sterili. Magari belli, con tante foglie, ma nessun frutto. Amen.

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14.16 – LA PARABOLA DELL’AMMINISTRATORE INFEDELE (Luca 16.1-9)

14.16 – La parabola dell’amministratore infedele (Luca 16.1-9)

 

 

1 Diceva anche ai discepoli: «Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. 2Lo chiamò e gli disse: «Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare». 3L’amministratore disse tra sé: «Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. 4So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua». 5Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: «Tu quanto devi al mio padrone?». 6Quello rispose: «Cento barili d’olio». Gli disse: «Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta». 7Poi disse a un altro: «Tu quanto devi?». Rispose: «Cento misure di grano». Gli disse: «Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta». 8Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce.  9Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne.

 

Questa parabola, di difficile comprensione anche perché molte versioni in lingua italiana interpretano più che tradurre, fu pronunciata da Gesù in un contesto diverso da quello della pecora, della dramma e del figlio perduti. La precisazione del verso 1, “diceva anche ai discepoli”, la pone in un contesto più riservato e infatti è riferita alla gestione delle nostre sostanze, definite “ricchezza disonesta” secondo la parabola del ricco stolto che termina con la frase “Così avviene a chi accumula tesori per se stesso, e non è ricco in Dio” (Luca 12.21). La “ricchezza disonesta” è quindi quella che possiamo avere non necessariamente perché abbiamo frodato il prossimo, ma anche grazie ai nostri risparmi, perché la professione ci ha portato a guadagnare cifre importanti o perché abbiamo avuto in eredità dei beni, cose che comunque non potremo portare con noi nel mondo a venire.

Questa ricchezza, quindi, è definita “disonesta” paragonandola a quelli vera, che Gesù esorta a cercare nel sermone sul monte quando dice “Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano; accumulatevi invece tesori nel cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove ladri non scassinano e non rubano. Perché là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore” (Matteo 6.19-21).

Fatta questa importante premessa, possiamo iniziare l’analisi della parabola che presenta “Un uomo ricco (che) aveva un amministratore” evidentemente disonesto perché viene accusato – senza possibilità di accampare scuse perché il padrone aveva in mano prove certe della sua infedeltà – di frodarlo e per questo di rendere conto della sua amministrazione prima del licenziamento.

Ora qui, come in tutto il resto della parabola, abbiamo un continuo rimando fra la vicenda di questo personaggio, che Gesù prende in prestito dal mondo reale in cui i ricchi cercavano servi onesti o comunque che non rubassero oltre misura, e i due assoluti visti nell’ “uomo ricco” e dell’imperativo “rendi conto della tua amministrazione”. Il primo è facilmente riferibile a Dio Padre che in Salmo 24.1 è definito il proprietario della “terra e quanto contiene: il mondo con i suoi abitanti” e il secondo a qualcosa che spesso imbarazza certi cristiani a tal punto da portarli a rimuovere dentro di sé il fatto che verrà un giorno, come nel caso del personaggio del nostro racconto, in cui saremo chiamati a rispondere di tutto ciò che avremo fatto, “in bene e in male”, dove per “male” intendiamo quei peccati che non avremo confessato e lasciato. Quello del rendiconto è un tema che Nostro Signore espose anche nella parabola dei talenti (Matteo 18.23,24; 25.14), ma che troviamo definito in altri passi in modo molto più “diretto”. Non possiamo infatti ingannare noi stessi crogiolandoci sul fatto che siamo salvati tralasciando tutti gli altri elementi che dobbiamo possedere per definirci come degli appartenenti a Cristo.

Ricordiamo Matteo 12.36,37: “Ma io vi dico: di ogni parola vana che gli uomini diranno, dovranno rendere conto nel giorno del giudizio; infatti in base alle tue parole sarai giustificato e in base alle tue parole sarai condannato” perché “Io vivo, dice il Signore: ogni ginocchio si piegherà davanti a me e ogni lingua renderà gloria a Dio. Quindi ciascuno di noi renderà conto di se stesso a Dio” (Romani 14.11,12).

Diretta al credente, in base alle responsabilità che gli sono state affidate, è poi 1 Corinti 4.1,2 “Ognuno ci consideri come servi di Cristo e amministratori dei misteri di Dio. Ora, ciò che si chiede agli amministratori, è che ognuno risulti fedele” perché “Tutti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, per ricevere la ricompensa ciascuno delle opere compiute quando era nel corpo, sia in bene che in male” (2 Corinti 5.10). Se quindi chi ha creduto “non viene in giudizio, ma è passato dalla morte alla vita” (Giovanni 5.24) dovrà comunque avere un incontro in cui non potrà esimersi dal rispondere del proprio operato.

 

A questo punto Gesù inizia a descrivere il metodo dell’amministratore infedele che non ha nulla a che vedere con il credente, ma si riferisce alla cronaca frequente di quel tempo e non solo: si ruba da sempre come da sempre si cerca di fare di tutto per tamponare i danni che arrivano nel momento in cui si è scoperti. Ciò che premeva a Nostro Signore era descrivere il carattere di questa persona e la sua scaltrezza che, per la tecnica usata, arriva a suscitare nel padrone un riconoscimento non in senso positivo, ma una specie di compiacimento, la stessa che possiamo provare noi quando viene fatta una rapina con ingegno (ad esempio le famose “bande del buco”) alle cui spalle magari c’è uno studio di anni e l’impiego di tecniche specializzate. Certo il reato rimane e non evita la condanna in caso di cattura dei colpevoli, ma resta altrettanto la meraviglia e quel senso di vaga ammirazione per l’intelligenza con cui il fatto è stato commesso. Quando Gesù parla del fatto che “il padrone lodò quell’amministratore disonesto perché aveva agito con scaltrezza” si riferisce appunto in questo senso e non col fatto che lo avesse tenuto al suo servizio trovandolo meritevole di qualcosa.

L’amministratore disonesto aveva un carattere particolare: fuggiva il lavoro manuale che non aveva mai svolto (“zappare non ne ho la forza”) e la sua disonestà derivava proprio dal fatto che lo aveva sempre evitato: “Chi è già indolente nel suo lavoro è fratello del dissipatore” (Proverbi 18.9) e “Il desiderio del pigro lo porta alla morte perché le sue mani si rifiutano di lavorare” (21.25). Il vergognarsi a mendicare, poi, sentimento comprensibile perché per farlo si è costretti a rinunciare alla propria dignità, sarebbe stato per lui una sconfitta di fronte al suo prossimo che lo avrebbe deriso per la sua caduta, da persona di alto rango (era propriamente una sorta di amministratore unico) a mendicante.

Ciò che però “salva” quest’uomo è la scaltrezza, la capacità di trarre vantaggio anche da una situazione emergenziale come quella in cui si era venuto a trovare: agevola clamorosamente i debitori del suo padrone i quali si sarebbero sicuramente sentiti di ricambiargli il favore. Per far questo, quindi, costui deruba ulteriormente il proprio padrone utilizzando “una sapienza che non discende dall’alto, anzi è terrena, animale, diabolica” (Giacomo 3.15) che, umanamente, lo salva: il primo dà 50 barili d’olio anziché 100, risparmiando 1705 litri, il secondo si trova a tenere per sé 7 quintali su 34 di grano che doveva, certo non poca cosa in entrambi i casi.

Ora Gesù, dopo aver riferito la reazione del padrone che “lodò quell’amministratore disonesto” nelle modalità che abbiamo visto, stabilisce una verità basilare che tendiamo a non considerare, e cioè che “i figli di questo mondo, verso i loro pari – uomini – sono più scaltri dei figli della luce” (v.8). Ancora una volta siamo costretti a considerare gli opposti: da un lato chi vive sulla e per la terra, è costretto a sopravvivere e per questo basa la propria esistenza sull’inganno a cui ricorre, sistematicamente o saltuariamente non importa, agendo a danno degli altri. Ebbene, la conferma del fatto che il cristiano non ha nulla a vedere con loro la dà l’apostolo Paolo quando scrive che Gesù “ha dato se stesso per i nostri peccati al fine di strapparci da questo secolo malvagio” (Galati 1.3,4).

I secondi, invece, vivono sulla terra, ma non per essa perché hanno ubbidito alle parole di Gesù in Giovanni 12.36: “Mentre avete la luce, credete nella luce e diventate figli della luce”. Questa “luce” è importante e chissà quanti versi possono venire in mente al riguardo, che non cito salvo qualcuno che colloca il credente nel suo ambito corretto. Abbiamo infatti un passato di errori che ci è stato cancellato, condonato perché “un tempo eravate tenebre, ora siete luce nel Signore” (Ef. 5.8). Ancora, “Siete figli della luce e figli del giorno; noi non apparteniamo alla notte, né alle tenebre” (1 Tessalonicesi 5.5) e infine 1 Pietro 2.9, “Voi invece siete la stirpe eletta, sacerdozio regale, popolo che Dio si è acquistato perché proclami le ammirevoli opere di lui, che ci ha chiamato dalle tenebre alla sua meravigliosa luce”.

 

Infine, arriviamo alla conclusione della parabola: “Fatevi degli amici con – quindi usandola – la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare – cioè non sarà più necessaria perché sarà finita la vita – essi vi accolgano nelle dimore eterne”. Ecco, quando ho parlato di interpretazione mi riferivo proprio a questo punto nel senso che “essi” è un’aggiunta e sembrerebbe che il soggetto siano gli amici acquistati con la ricchezza terrena. Il testo originale invece ha solo “vi accolgano…”, plurale riferito a tutti coloro che abitano il cielo, in altri termini “perché possiate entrare nelle dimore eterne”.

Farsi “amici con la ricchezza disonesta” a questo punto è chiaro cosa implichi: il non tenere per sé, non per nulla argomento della prossima parabola. Gesù già parlò di chi invitare ai banchetti, del fatto che “chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un mio discepolo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa” (Matteo 10.41,42), di tutte quelle attenzioni che vanno date a quanti, per un motivo o un altro, si ritrovano sofferenti come conclude Giacomo 1.27: “Religione pura e senza macchia – quindi vera – davanti a Dio è questa: visitare gli orfani e le vedove – che allora non avevano di che sostenersi – nelle sofferenze e non lasciarsi contaminare da questo mondo”. Perché, questo è il punto, se non si sta attenti il mondo contamina credo non tanto con la volgarità di cui ha la gestione, ma con quei princìpi che sono buoni solo in apparenza e che in realtà nascondono un rifiuto anche di una solo blanda idea di Dio. Si vuole dimostrare che l’uomo è buono, solidale, è perfettamente in grado di vivere da solo. Come già detto da qualcuno, se si toglie la “D”, rimane l’ “Io”.

Dobbiamo infine chiederci se, come “figli della luce” siamo tutti illuminati oppure abbiamo delle zone d’ombra che magari custodiamo. Il pensiero al rendiconto dovrebbe infatti essere costante, così come la gestione doverosa delle “ricchezze disoneste” se da noi possedute. Amen.

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14.15 – TRE PARABOLE: IL FIGLIO PRODIGO IV (Luca 15.23)

14.15 – Tre parabole – 3, il figlio prodigo 4 (Luca 15.23)

 

 

25Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; 26chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. 27Quello gli rispose: «Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo». 28Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. 29Ma egli rispose a suo padre: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. 30Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso». 31Gli rispose il padre: «Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; 32ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato»».

 

Possiamo affermare che l’ultima parte della parabola è interamente dedicata alle reazioni e al carattere del figlio maggiore che vediamo gran lavoratore (“si trovava nei campi”), fedele ai compiti che gli dava il padre (“ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando”, attento a quanto succedeva in casa (“chiamò i servi e domandò cosa fosse tutto questo”) e, con un comportamento anche al di fuori dell’ambiente “aziendale”, irreprensibile (accusa il fratello minore di avere “divorato le tue sostanze con le prostitute” dimostrandosi estraneo a tale stile di vita).

Eppure, a queste note positive, ve ne sono di negative perché era incapace di provare qualunque forma di empatia, con un concetto del vivere del tutto particolare escludendo qualsiasi forma di distrazione da quello che era il dovere svolto come un obbligo, unica possibilità di espressione che non includeva il piacere, la soddisfazione nell’operare. Il figlio maggiore, quindi, è un rigido osservante di norme, per lui esistono solo quelle. E qui, nonostante la parabola non porti ad identificare inequivocabilmente alcune sue componenti, abbiamo un riferimento ai Giudei che sicuramente fu compreso da tutti i presenti perché anche loro si ritenevano irreprensibili e guardavano gli altri con disprezzo o, nel migliore dei casi, sufficienza.

 

Esaminando la reazione alla risposta di uno dei servi, “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”, vediamo che “si indignò e non voleva entrare”. Qui osserviamo che, quando il fratello minore se ne era andato, oltre a essere in disaccordo con la sua scelta, aveva emesso dentro di sé un decreto di condanna senza possibilità di appello: le parole “Tuo fratello è qui” lo avevano immediatamente allarmato, certo non rallegrato ed il fatto che il padre avesse voluto far festa usando il vitello migliore e soprattutto avesse “riavuto sano e salvo” quel giovane, lo scandalizzò a tal punto che abbiamo letto che “non voleva entrare”, cioè non si riconosceva più in quell’ambiente per il quale aveva certo dato molto, direi tutto se stesso, prestando un’opera continua per il sostentamento e lo sviluppo di quella casa.

Abbiamo qui una reazione stizzita, dettata dall’orgoglio che precludeva qualunque forma di apertura al rinnovamento, a ciò che andava al di fuori della consuetudine. Da quando il fratello minore si era allontanato, evidentemente quell’uomo si era convinto di essere l’unico erede compiacendosene, dicendo dentro di sé “un giorno tutto questo sarà mio” ed il fatto che il padre avesse riaccolto colui che, legalmente, aveva già avuto tutta l’eredità spettantegli, lo offendeva profondamente. Certo, se fosse stato come il figlio maggiore, quel padre avrebbe potuto benissimo dire al minore che tutto quanto gli spettava gli era stato dato per cui non aveva nulla da pretendere e, quindi, che si arrangiasse come meglio potesse. Infatti, nelle intenzioni originali del figlio più giovane, vi era quella di essere trattato come uno dei servi presi a giornata.

Il maggiore, quindi, nonostante tutto il suo desiderio di servire il padre, aveva agito solo per se stesso perché, nonostante avesse vissuto con lui quotidianamente, non ne aveva assorbito il carattere, non aveva imparato nulla da lui, anzi era rimasto schiavo delle sue convinzioni, come fece Eliab, fratello maggiore di Davide, che lo rimproverò di aver abbandonato poche pecore nel deserto per venire a combattere contro il filisteo Golia, accusandolo di essere malizioso e borioso (1 Sam 17.28).

Ancora, ravvisiamo nel comportamento del figlio maggiore lo stesso di quei Giudei che rimproverarono Pietro a Gerusalemme dicendogli “Sei entrato in casa di uomini non circoncisi e hai mangiato insieme a loro!” (Atti 11.3) ritenendosi superiori. Lo stesso successe con l’apostolo Paolo, quando predicava ad Antiochia (13.45) ed ancor più a Gerusalemme (capp. 21 e 22): qui è interessante quanto avvenne perché fu ascoltato con interesse fino a quando non parlò della sua conversione e del martirio di Stefano.

C’è quindi, in ogni persona religiosa, un punto di non ritorno e proprio lì si scandalizza e cade, proprio come il figlio maggiore della nostra parabola.

C’è un contrasto direi lacerante fra l’ostinazione del maggiore che non vuole entrare e il padre che, con lo stesso amore con il quale aveva accolto l’altro fratello, ora lo prega di partecipare alla mensa.

C’è qualcosa di insanabile nelle parole del figlio “irreprensibile”: al contrario dell’altro, omette di chiamarlo “padre”, ma inizia a autoincensarsi, esattamente come il fariseo della parabola col pubblicano: sicuramente da sottolineare l’ “io” e il “tu” che da sempre, nelle discussioni anche umane, nostre, sono usate automaticamente per dar ragione a una parte e torto all’altra. I versi 29 e 30 mostrano un tragico infantilismo e non potrebbe essere altrimenti perché quando una persona non ha maturato in profondità il vero senso dell’essere, non potrà restare altro se non il bambino capriccioso e insoddisfatto che era un tempo, sempre pronto a vedere soprusi e torti là dove non ci sono, perseguitato dalla sua stessa, inguaribile, insoddisfazione. La frase “tu non mi hai dato nemmeno un capretto per far festa con i miei amici” non solo dimostra che in realtà non aveva mai cercato comunicazione col padre al di là di un arido rapporto di lavoro – perché non chiedergliene uno, quando gliene avrebbe dati certamente di più? –, ma che tutto il suo operare era dettato dall’interesse e non dall’amore e gratitudine per lui.

Poi leggiamo “Ma ora che è tornato questo tuo figlio”, parole che accrescono ulteriormente la distanza da tutto il contesto familiare: quello che poteva essere considerato il figlio buono, irreprensibile, gran lavoratore, ora emerge come una persona insensibile, acida, che in realtà a quella famiglia non era mai appartenuta. E mi viene in mente un’altra parabola, sempre con due figli protagonisti, che troviamo in Matteo 21.28-32 che penso possa raccordarsi a questa: “Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: «Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna». Ed egli rispose: «Non ne ho voglia». Ma poi si pentì e vi andò. Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: «Sì, signore». Ma non vi andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre? Risposero: «Il Primo». E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli”.

Forma e sostanza sono quindi due cose diverse e la prima si rivela sempre nel momento in cui l’essere umano viene provato, come nel caso della parabola su cui stiamo ragionando: la persona, qualunque persona, appare ciò che è nel momento in cui si trova nelle circostanze che la provano: il figlio maggiore è considerato positivo fino a quando non si ribella al fatto che il minore torni pentito.

Gesù non dice come andò a finire quella faccenda famigliare, né era necessario perché ciò che gli premeva era far emergere due condizioni opposte, quelle di un orgoglio che muore visto nelle vicende del figlio minore, e quello che resiste, alberga nel profondo e si mimetizza nel maggiore, persona che viene posta davanti a parole che è libero di condividere o meno: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo, ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”.

Quindi il maggiore era libero di scegliere se unirsi o meno alla festa per il fratello ritrovato, che qui credo sia un’occasione per Gesù di richiamo a quella per eccellenza, quando tutti i credenti si ritroveranno nel regno di Dio e/o alla gioia perché era venuto il Figlio in mezzo a loro: “Le genti invece glorificano Dio per la sua misericordia, come sta scritto: Per questo ti loderò fra le genti e canterò inni al tuo nome. E ancora: Esultate, o nazioni, insieme al suo popolo. E di nuovo: Genti tutte, lodate il Signore; i popoli tutti lo esaltino. E a sua volta Isaia dice: Spunterà il rampollo di Iesse, colui che sorgerà a governare le nazioni: in lui le nazioni spereranno” (Romani 15.9-12). Amen.

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14.14 – TRE PARABOLE: IL FIGLIO PRODIGO 3/4 (Luca 15.22-24)

14.14 – Tre parabole – 3, il figlio prodigo 3 (Luca 15.22-24)

 

22Ma il padre disse ai servi: «Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. 23Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, 24perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». E cominciarono a far festa.

 

Questi due versi sono interamente dedicati alla reazione del padre e alle sue parole ed iniziano con l’avversativa “Ma” che introduce qualcosa che il figlio non si aspettava: era convinto di finire un discorso che si era preparato, quello di chiedere un posto tra i servi, e si ritrova accolto con una gioia che lo sorprende. Non è una banalità affermare che, se si vive in un peccato, professionalmente o incidentalmente a causa della propria defettibile natura (persistendo in esso), quando si ritrova il Padre dopo avergli confessato la colpa e averla abbandonata, si scopre un mondo che va al di là delle nostre aspettative.

Ricordando la frase che il giovane avrebbe voluto pronunciare, “Trattami come uno dei tuoi salariati”, vediamo che il riferimento è a quelle persone che venivano prese e pagate a giornata, come insegna la parabola dei lavoratori delle diverse ore. È una frase che andava a rafforzare la precedente, “Ho peccato verso il Cielo e davanti a te, non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”: conscio del fatto che nella casa paterna non gli apparteneva più nulla, avrebbe voluto dire che da ora in poi avrebbe lavorato per mantenersi.

Il padre non solo non gli lascia finire il discorso, ma ordina che gli fosse fatto indossare “il vestito più bello”, di mettergli “l’anello al dito” – anche se la traduzione corretta è “un” – e “i saldali ai piedi”, anche se vedremo che sandali non erano. Cerchiamo ora di analizzare questi tre elementi.

 

Il vestito più bello

Il vestito, da sempre, qualifica la persona e molto si può capire del suo carattere e condizione osservando come viene indossato e dalla cura con la quale è tenuto. Il vestito a volte rivela la funzione che ha un individuo nella società e in ogni caso serve per renderci presentabili agli altri. Ciò che indossava quel giovane era quanto di più umiliante ci fosse perché non solo si portava addosso lo sporco dei maiali, ma anche il risultato dell’impossibilità di lavarlo decentemente, la polvere, il sudore, insomma tutto quanto si era accumulato nel tempo passato a custodire i porci e a camminare da quel “paese lontano” fino a casa.

Questo ci parla del fatto che quando l’essere umano compare davanti a Dio è sempre impresentabile perché, a prescindere dalla vita che ha vissuto fino a quel punto, si troverà sempre a indossare qualcosa di inadatto: il problema non è cosa si è fatto prima dell’incontro con Lui, ma che il vestito è comunque sporco, impossibile da lavare come leggiamo in Geremia 2.22, “Anche se tu ti lavassi con soda e molta potassa, resterebbe davanti a me la macchia della tua iniquità”. Ecco il perché della parabola degli invitati alle nozze in cui a tutti i convenuti, tranne uno, era stato inviato un vestito dal padrone di casa ed ecco perché proprio quell’uno viene cacciato fuori.

Abbiamo anche Isaia 61.10 che introduce un altro elemento di questa parabola: “Io gioisco pienamente  nel Signore, la mia anima esulta nel mio Dio, perché mi ha rivestito delle vesti della salvezza, mi ha avvolto con il mantello della giustizia, come uno sposo si mette il diadema e come una sposa si adorna di gioielli”. Qui abbiamo un soggetto, il Signore, che riveste una persona, cioè toglie un abito inadeguato e ne mette uno nuovo che mai potrebbe comprare coi propri mezzi: è Lui a vestire con le “vesti della salvezza”, ma non solo, avvolge “con il mantello della giustizia”, la persona.

È solo la gioia del padre, e del suo amore per il figlio ritrovato, che lo porta a far sì che quello indossasse “il vestito più bello”: non “uno” dei tanti, ma “il”, vale a dire che, una volta indossato, quel giovane avrebbe potuto essere considerato più di tutti gli altri perché nessuno avrebbe potuto vestire in quel modo senza il consenso del padrone di casa. Per il solo fatto di essere tornato a casa, quindi, il figlio ex prodigo viene posto in una posizione privilegiata, addirittura migliore di quella del fratello maggiore che, mentre accadevano queste cose, era al lavoro nei campi.

 

Un anello al dito

È importante specificare che un conto è tradurre “un” e un conto “lo”: il determinativo infatti allude a un oggetto unico, l’indeterminativo a qualcosa di generico, per quanto importante trattandosi non di un semplice gioiello, ma di un segno di autorità che va ad affiancarsi al vestito. A proposito dell’anello ricordiamo Giuda, che lo diede a Tamar come pegno (Genesi 38.18), quelli che portavano Giuseppe, Jezebel, Aman, Mardocheo. Per capire l’anello vale la citazione di Genesi 41.41,42: “Il faraone disse a Giuseppe: «Ecco, io ti metto a capo di tutta la terra d’Egitto». Il faraone si tolse di mano l’anello e lo pose sulla mano di Giuseppe – particolare da tenere a mente perché verrà utile più avanti –; lo rivestì di abiti di lino finissimo e gli pose al collo un monile d’oro”.

Ora quel padre, ordinando ai servi di mettere al figlio minore “un anello al dito” non voleva significare che fosse diventato di punto in bianco la sola autorità – o comunque quella più alta – della casa, ma che gli era stata data una responsabilità e una funzione che prima non aveva. E viene da pensare, credo a ragione, che l’anello lo portassero anche il padre e il fratello.

Altra osservazione che costituisce un eccellente parallelo con Giuseppe: in realtà il genitore non dice ai servi “mettetegli l’anello al dito”, ma “date l’anello nella sua mano” e non è una sottigliezza così tanto per fare della pignoleria perché se l’anello fosse stato messo al dito da uno dei servi avrebbe costituito un’azione passiva da parte del figlio ritornato che, invece, doveva accettare, indossandolo, quanto gli veniva dato in mano. Lo stesso fece Giuseppe: entrambi, mettendosi al dito l’anello, si impegnavano a vivere in modo nuovo, accettando non un ordine, ma una proposta. L’anello era in un certo qual modo la firma che veniva apposta al contratto e possiamo paragonarlo al battesimo, fondamentale per la persona che è stata salvata e ha maturato la sua intenzione di entrare nella famiglia di Dio.

 

I sandali

Ancora una volta va fatta una correzione al testo: personalmente, per l’analisi, faccio riferimento a tre versioni, la Diodati del 1641, quindi non ancora deturpata da interventi a volte molto discutibili, la traduzione letterale di Don Piero Ottaviano sul sito Didaskaleion, e il testo greco. Ebbene, Diodati al posto di “sandali” usa “scarpe” e gli altri due “calzari” a indicare che il terzo elemento dato al figlio tornato a casa era qualcosa che i servi non portavano.

Se i sandali erano un oggetto idoneo al camminare per le strade o per svolgere le attività comuni, i calzari erano sinonimo di una vita diversa, che pochi potevano condurre.

 

Considerando quanto finora esaminato, va fatta una precisazione importante e cioè che questa parabola non va vista, in questa parte del pentimento e della riabilitazione, come qualcosa di immediato, ma, nel momento in cui si desidera decifrarla per portarla al mondo reale, di progressivo, qualcosa che dura nel tempo. A parte tutto ciò che è stato scritto, il vestito più bello che viene dato, per noi, ha attinenza sicuramente con la nuova dignità acquistata vista nella nostra “adozione a figli” (Galati 4.5), ma ancor più con il percorso di santificazione al quale siamo chiamati.

E per indossare un nuovo vestito occorre mettere da parte il vecchio, “La notte è avanzata, il giorno è vicino. Perciò gettiamo via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce” (Romani 13.12). Ancora Efesi 4.20-24: “ma voi non così avete imparato a conoscere il Cristo, se davvero gli avete dato ascolto e se in lui siete stati istruiti, secondo la verità che è in Gesù, ad abbandonare con la sua condotta di prima l’uomo vecchio che si corrompe seguendo le passioni ingannevoli, a rinnovarvi nello spirito della vostra mente e a rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità”.

Infine, il passo più impegnativo: “Non dite menzogne gli uni agli altri: vi siete svestiti dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova per una piena conoscenza ad immagine di colui che l’ha creato”. Impegnativo perché non sempre riusciamo a rinnovarci tutti i giorni: fuori dalla meditazione, dalla preghiera personale e dalle riunioni di Chiesa, qualora essa sia degna di tale nome, esiste un mondo dominato da un principe che allarga sempre i più i suoi domìni manifestandosi nel modo che tutti noi constatiamo e restarne fuori non è facile. È un mondo dove l’ingiustizia si traveste da giustizia, in cui se si cerca la giustizia si trova la legge, la dignità è assente e quei sentimenti che, indipendentemente dalla fede, un tempo potevano formare le persone predisponendole alla ricezione di un messaggio anche solo morale, vengono repressi e se possibile cancellati dalla memoria. E questo a volte, quando viene “toccato con mano”, può essere molto disturbante.

Il vestito, l’anello e i calzari sono tutti oggetti che, perdurando la situazione di peccato, quel giovane non avrebbe mai potuto possedere, permettersi; invece, gli sono stati donati gratuitamente. E qui possiamo avere un riferimento a Giosuè, che davanti all’Angelo del Signore “Era rivestito di vesti sporche e stava in piedi davanti all’angelo, il quale prese a dire a coloro che gli stavano intorno: «Toglietegli quelle vesti sporche». Poi disse a Giosuè: «Ecco, io ti tolgo di dosso il peccato, fatti rivestire di abiti preziosi»” ( Zaccaria 3.3,4).

Al figlio prodigo, successe così. All’umiliazione del peccato, fu sostituita la pienezza della grazia e fu posto in grado, con i tre elementi che gli vennero consegnati, di camminare in novità di vita. Solo una volta vestito con gli elementi che il Padre volle che vengano dati al peccatore pentito questi può essere reso presentabile agli occhi di Dio, a se stesso e agli altri; viceversa potrà essere solo protagonista di una mediocre e noiosa commedia recitata da attori scadenti che, a volte, dimenticano la propria parte.

A noi e a chiunque si pente della propria vita e dei propri errori sono stati offerti il vestito, l’anello e i calzari, doni di cui dovremo un giorno rendere conto e di qui la necessità di pregare e agire per non essere colti in un doloroso rimprovero.

Infine, abbiamo la festa che viene data immediatamente con una motivazione che usa termini contrapposti fra loro, “morto – tornato in vita”, “perduto – ritrovato” che sicuramente colpirono l’uditorio di Gesù perché andavano a completare entrambe le parabole prima esposte e contemporaneamente ampliandole perché, lontani dal Padre, c’è sempre uno stato di morte. “Ma Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo: per grazia siete stati salvati” (Efesi 2.4), perché “eravate erranti come pecore, ma ora siete stati ricondotti al pastore e custode delle vostre anime” (1 Pietro 2.25).

Ultima osservazione credo sia doverosa farla sul cibo che il padre avrebbe offerto al figlio pentito, certo non paragonabile a quello che assumeva in quel “paese lontano”: là, caduto in rovina, non poteva neppure prendere le carrube per i porci; tornato dal padre, però, si trovò nella situazione opposta, soprattutto per la dignità che aveva non solo riacquistato, ma che si era in un certo senso accresciuta. Così è stato anche per me e, non essendo un privilegiato nel senso umano del termine, anche per tutti coloro che del figlio prodigo hanno fatto l’esperienza. Amen.

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14.13 – TRE PARABOLE: IL FIGLIO PRODIGO 2/4 (Luca 15.20-21)

14.13 – Tre parabole – Il figlio prodigo 2/4 (Luca 15.20-21)

 

20Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. 21Il figlio gli disse: «Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio».

 

In questa seconda parte cercheremo di affrontare il punto centrale della parabola, cioè il comportamento del padre del giovane che, ricordiamo, aveva fatto una spietata disamina della sua situazione e soprattutto di ciò che l’aveva creata.

Il verso 20 ci presenta cinque azioni che compie il padre verso di lui che non vanno certamente ignorate: lo vide, ne ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. La prima è “lo vide” certo non per caso, non perché, per riposarsi magari dal fare dei conti o dall’aver tenuto una lunga riunione coi suoi amministratori, si affacciò alla finestra per snebbiarsi le idee. Piuttosto, questo scorgere e riconoscere il figlio “quando era ancora lontano”, è indice tanto del fatto che quell’uomo era in attesa del suo ritorno, quanto della conoscenza che aveva del suo carattere. Si può dire che, se accettò di dare al secondogenito la parte di eredità che gli chiedeva, fu per consentirgli di fare delle esperienze dolorose che lo maturassero, conoscendo le sue attitudini, il carattere e le intemperanze. Un padre, se tale è, conosce il proprio figlio e imposta per lui la strategia educativa più idonea per renderlo in grado di presentarsi agli altri senza essere umiliato. Quindi, quello della parabola, acconsentendo alla partenza del proprio figlio minore e dotandolo di quanto gli chiedeva, sapeva come avrebbe speso il suo denaro, cosa avrebbe fatto, i legami sbagliati che avrebbe intessuto, le sue cadute perché in un “paese lontano” non avrebbe saputo vivere autonomamente, soprattutto con dignità, nonostante pensasse l’esatto contrario. Quel territorio era per lui sinonimo di libertà fuori dal controllo di qualsiasi precetto anche solo morale cui altrimenti avrebbe dovuto sottostare.

Ora il padre lo vede e lo riconosce “quando era ancora lontano”: cosa vide? Un puntino, una figura umana? E ancora, quanto era “lontano” dalla casa, uno o due centinaia di metri, o chilometri? Fu visto da un territorio pianeggiante, o da un’altura? L’importante è che lo riconobbe e basta, ma fu quasi un sesto senso, oppure lo vide arrivare da una strada o da una direzione presso la quale passavano in pochi?

In mezzo alle cinque azioni che il padre compie, non possiamo dimenticare che ve n’è una del figlio, cioè che torna a piedi perché non aveva più nulla di suo, tanto meno un mezzo di trasporto animale, asino o cavallo che potesse essere. E quel ritorno lo compie da “un paese lontano” non solo per usi e costumi, ma anche quanto a chilometri, quindi con sofferenza questa volta fisica, senza sandali ai piedi e non sappiamo se, casualmente, nel suo lungo percorso abbia incontrato qualcuno, carovana o mercante, che gli abbia consentito di salire su un carro per alleviargli la fatica di un lungo viaggio, ben diverso da quello che aveva fatto all’andata, pieno di sé, convinto di conquistare chissà chi e chissà cosa.

 

Tutti questi elementi ci portano al secondo punto, “ebbe compassione”, cioè si immedesimò nel vissuto più recente del figlio conoscendo la natura umana sempre pronta a cadere, a sbagliare, non calcolare bene ciò che si è in rapporto a che si vuole, a sopravvalutandosi sempre. Certo, per avere “compassione” quell’uomo non si limitò a considerare che suo figlio aveva vissuto tristi esperienze, ma piuttosto le mise in relazione al pentimento, quello che fa più male degli insuccessi e dei piedi che sanguinano perché si tratta di qualcosa che nasce dal dolore di un cuore sconfitto da se stesso. Chi ha provato pentimento sa che è già punizione, non ha bisogno di altra pena. Chi è autenticamente pentito è perché ha già elaborato, pensato, ha già emesso una sentenza su di lui e questa è sempre molto amara.

Terza azione che, se vista sotto il metro dell’orgoglio umano, lascia stupiti, è “gli corse incontro”, che rivela tanto la gioia del padre, quanto il voler risparmiare al figlio ulteriore fatica. Fosse stata una persona animata da risentimento o si fosse offesa, certamente avrebbe aspettato che il figlio bussasse alla porta e si umiliasse, ma invece gli corre incontro. Un fratello ha scritto in proposito che “se il peccatore fa un passo verso di Lui, Dio ne fa dieci per incontrarlo per mostrargli il suo amore” ed è una dinamica che ogni credente ha sperimentato. Attenzione, perché quando parlo di “credente” e di “cristiano” mi riferisco a chi ha avuto una reale esperienza col Signore, non a quelli che frequentano la Chiesa restando sempre se stessi, lasciandolo fuori dal loro cuore e dalla loro vita ricordandosi di Lui quando desiderano “sentirsi buoni” o provare emozioni false, carnali, ipocrite. E penso a quanti magari recitano il “Padre nostro” offendendo quel “rimetti a noi i nostri debiti come li rimettiamo ai nostri debitori” proseguendo a coltivare rancori, invidie, chiudendo non solo ostinatamente il cuore, ma sigillandolo ancora di più.

 

La quarta e la quinta azione sono le più difficili da capire umanamente, “gli si gettò al collo e lo baciò” perché ci aspetteremmo, forse, che la prima iniziativa debba spettare al figlio che ha sbagliato: lui aveva voluto i soldi e andarsene? Lui avrebbe dovuto chiedere perdono, ma non è così, la sua presenza, com’era vestito e la mancanza di sandali ai piedi era già sufficiente e parlava più di mille richieste di scuse. Certo il nostro testo non potrà mai descrivere gli occhi dell’uno e quelli dell’altro o il linguaggio non verbale che spesso dice molto di più di tante parole. Quel padre, poi, non badò allo stato di impresentabilità in cui il figlio si presentava ed altrettanto fa con chiunque ritorni a lui poiché il peccato rende sempre la persona in tali condizioni che, come vedremo ma comunque già sappiamo, dovrà essere vestita a nuovo.

Nello scorso studio abbiamo citato le parole di Geremia 31.18, “Dopo il mio smarrimento, mi sono pentito; quando me lo hai fatto capire, mi sono battuto il petto, mi sono vergognato e ne provo confusione perché porto l’infamia della mia giovinezza”, ma al 19 Iddio dice “…per questo il mio cuore si commuove per lui e sento per lui profonda tenerezza”.

Il gettarsi al collo del figlio e baciarlo costituiscono un segnale di disponibilità e di perdono assoluto talché ogni parola, da entrambe le parti, era superflua e infatti abbiamo solo la prima parte di quanto quel giovane aveva pensato di dire al padre: manca “non sono più degno di essere considerato tuo figlio, trattami come uno dei tuoi salariati”.

Sia il gettarsi al collo di una persona quanto il baciare sono sinonimi di comunione e appartenenza che supera divisioni e rancori, come possiamo leggere in Genesi 33.4 nell’incontro fra Esaù e Giacobbe: il secondo, per le dinamiche accadute negli anni, temeva fortemente che il fratello avesse intenzioni violente nei suoi confronti, ma “Esaù gli corse incontro, lo abbracciò, gli si gettò al collo, lo baciò e piansero”. Possiamo anche ricordare l’incontro in cui Giuseppe si rivelò ai suoi fratelli che lo avevano venduto a una carovana di egiziani: “Allora egli si gettò al collo di suo fratello Beniamino e pianse. Anche Beniamino piangeva, stretto al suo collo. Poi baciò tutti i fratelli e pianse. Dopo, i suoi fratelli si misero a conversare con lui” (Genesi 45.14,15).

 

Arrivati a questo punto è giusto considerare il significato spirituale delle dinamiche fin qui esposte, cioè andare a reperire, se non tutti, i principali punti di meditazione questa volta offerti, più che ai “pubblicani e peccatori” presenti, all’uditorio colto – e altrettanto indifferente – di Gesù. Parlando la parabola del figlio prodigo di pentimento e perdono, il primo verso cui rivolgersi è reperibile in Salmo 32. 5: “Ti ho fatto conoscere il mio peccato, non ho coperto la mia colpa. Ho detto: «Confesserò al Signore le mie iniquità» e tu hai tolto la mia colpa e il mio peccato”. E infatti il figlio dice “Ho peccato contro il cielo e davanti a te”.

Salmo 103.8-14: “Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore. Non è in lite per sempre, non rimane adirato in eterno. Non ci tratta secondo i nostri peccati e non ci ripaga secondo le nostre colpe. Perché quanto il cielo è alto sulla terra, così la sua misericordia è potente su quelli che lo temono; quanto dista l’oriente dall’occidente, così egli allontana da noi le nostre colpe. Come è tenero un padre verso i figli, così il Signore è tenero verso quelli che lo temono, perché egli sa bene di che siamo plasmati, ricorda che noi siamo polvere”. Quella che avremmo potuto non essere osservando un solo comandamento.

Per la profondità e la stretta attinenza all’episodio è sicuramente da riportare Isaia 57.17,18: “Per l’iniquità della sua avarizia – che è tenere per sé – mi sono adirato, l’ho percosso, mi sono nascosto e sdegnato; eppure egli, voltatosi, se n’è andato per le strade del suo cuore. Ho visto le sue vie, ma voglio sanarlo, guidarlo e offrirgli consolazioni”.

Ezechiele 18.26-28 è dedicato all’errore, al ripensamento delle proprie azioni e alla conversione: “Se il giusto si allontana dalla giustizia e commette il male e a causa di questo muore, egli muore appunto per il male che ha commesso. E se il malvagio si converte dalla sua malvagità che ha commesso e compie ciò che è retto e giusto, egli fa vivere se stesso. Ha riflettuto, si è allontanato da tutte le colpe commesse: egli certo vivrà e non morirà”. Nello specifico, il “giusto” erano i farisei e il “malvagio” i pubblicani, il cui ravvedimento era molto più vicino che non agli altri.

Michea 7.18,19: “Quale dio è come te, che toglie l’iniquità e perdona il peccato al resto della sua eredità? – Israele –. Egli non serba per sempre la sua ira, ma si compiace di manifestare il suo amore. Egli tornerà ad avere pietà di noi, calpesterà le nostre colpe. Tu getterai in fondo al mare tutti i nostri peccati”.

 

Il perdono del padre umano, quindi, è arrivato al pari di quello soprannaturale del quale è figura, perché il pentimento del figlio era assolutamente sincero, reale, frutto di un’elaborazione interiore profonda, come avviene per chiunque si rivolge a Dio per chiedere la remissione di un peccato: “Lavami tutto dalla mia colpa, dal mio peccato rendimi puro. Sì, le mie iniquità io le riconosco, il mio peccato mi sta sempre dinanzi” (Salmo 51.4,5). Perché? Perché senza il perdóno di Dio, il peccato rimane e tortura. Amen.

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14.12 – TRE PARABOLE: IL FIGLIO PRODIGO 1/4 (Luca 15.20)

14.12 – Tre parabole – 3, il figlio prodigo 1/4 (Luca 15.11-20)

 

 

11Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. 12Il più giovane dei due disse al padre: «Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta». Ed egli divise tra loro le sue sostanze. 13Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. 14Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. 15Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. 16Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. 17Allora ritornò in sé e disse: «Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! 18Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; 19non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati». 20Si alzò e tornò da suo padre.

 

L’ultima delle tre parabole esposte da Gesù quel giorno è forse quella che colpisce, più profondamente perché offre dinamiche particolari e un esempio di ciò che succede da sempre, vale a dire un carico di speranze, progetti, illusioni che svaniscono per far trovare la persona coinvolta di fronte alla dura realtà delle cose. È una parabola di completamento delle precedenti – e non solo – perché mostra l’opera dello Spirito Santo e la misericordia del Padre verso l’uomo che cade vittima della propria autonomia.

Ora la prima sottolineatura la possiamo fare sul numero due, relativo ai figli: si tratta di una cifra che abbiamo già sviluppato con esempi e che è ambigua nel senso che può indicare tanto collaborazione e sostegno reciproco, quanto rivalità, contrasto e opposizione come in questo caso: abbiamo un figlio maggiore, sempre presente nella casa e lavoratore irreprensibile (il verso 25 ci dice che “era nei campi” e il 29 “ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando”), e uno minore che, irretito dai suoi progetti e convinto di potersi gestire, chiede anticipatamente la divisione dei beni.

Va detto che la Legge obbligava la spartizione dell’eredità in percentuali precise, vale a dire che tutto veniva diviso in parti uguali di cui due andavano al primogenito e una a ciascuno degli altri figli come si legge in Deuteronomio 21.16,17.

Ciò che vi è di particolare in questa parabola è che la richiesta del figlio minore è anomala nel senso che non vi era nulla, nel codice civile ebraico, che desse la facoltà di chiedere la porzione di eredità quando il genitore era ancora in vita mentre qui non solo ciò avviene, ma abbiamo un padre che in un certo senso sacrifica una parte di ciò che ha per soddisfare i desideri del figlio minore.

La lettura del verso 13, col più giovane che “raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano” ci consente di osservare alcuni aspetti del suo carattere: quel ragazzo prende tutto ciò che è suo nel senso che il suo desiderio di indipendenza, e ancor di più la ferma convinzione di farcela da solo, giunge al punto tale da non voler lasciare nulla di proprio nella casa che lo aveva visto crescere. Ciò è indice della volontà di dare un taglio netto, non lasciando nulla di sé, fosse anche solo un ricordo; potremmo dire che nel suo gesto si può leggere una volontà di rinnegare le proprie origini, a dire “finora ho vissuto in base a ciò che gli altri si aspettavano da me, d’ora in avanti farò ciò che voglio io”, alludendo al fatto che nella casa paterna si sentiva un subordinato, una persona non libera, costretto in un lavoro che lo infastidiva.

E infatti, guardando alla seconda parte del racconto, il figlio maggiore lavorava nei campi, il padre era un uomo ricco che aveva diversi lavoranti alle sue dipendenze e, oltre all’agricoltura, si dava anche all’allevamento.

Altro elemento sulla psicologia del figlio minore lo vediamo nelle parole “partì per un paese lontano”, che vanno ad accrescere quanto detto prima sulla sua volontà di dare un taglio netto col passato. In un “paese lontano” nessuno ti conosce, quindi non solo puoi ripartire da zero a costruire la tua vita, ma puoi fare nuove amicizie, intessere nuovi rapporti anche se – attenzione – ciò che animava quella persona non era tanto costruire quanto vivere sperperando averi che erano suoi solo in apparenza. Avere un’eredità (terrena) infatti consiste nel venire in possesso di beni che altri ci hanno lasciato e per cui non abbiamo faticato.

Spiritualmente, il “partire per un paese lontano” e vivere seguendo i propri impulsi significa fare lo stesso ragionamento espresso in Giobbe 21.14: “…dicevano a Dio: «Allontànati da noi, non vogliamo conoscere le tue vie»”. Si può ricordare ancora Salmo 10.4.6 che anticipa quanto accadrà al personaggio della nostra parabola: “Nel suo orgoglio il malvagio disprezza il Signore: «Dio non ne chiede conto, non esiste!»; questo è tutto il suo pensiero. (…) Egli pensa: «Non sarò mai scosso, vivrò sempre senza sventure»”.

Sono versi scritti più di 2.500 anni da noi, eppure assolutamente attuali. Abbiamo letto “questo è tutto il suo pensiero” e si commenta da solo, è il riassunto non solo di tutte le idee e i ragionamenti della persona, ma anche della sua vita; qualunque cosa faccia, il distillato finale è quello, si riassume nella negazione dell’esistenza di Dio. E siccome chi pensa così è terribilmente superficiale, ecco che guarda il presente come se fosse eterno: nulla potrà turbare l’ “equilibrio” costruito e le preoccupazioni, gli imprevisti, le malattie riguarderanno sempre gli altri.

Asaf, il cui nome significa “Colui che raccoglie”, levita e cantore al tabernacolo, guardando l’apparente prosperare di chi vive lontano da Dio, ha scritto: “Io per poco non inciampavo, quasi vacillavano i miei passi, perché ho invidiato i prepotenti, vedendo il successo dei malvagi. Fino alla morte infatti non hanno sofferenze e ben pasciuto è il loro ventre. Non si trovano mai nell’affanno dei mortali e non sono colpiti come gli altri uomini. Dell’orgoglio si fanno una collana e indossano come abito la violenza – fisica o morale non importa –. (…) dicono: «Dio, come può saperlo? L’Altissimo, come può conoscerlo?»” (Salmo 78.2-7).

Se Asaf guarda alla vita nel presente di colui che vive lontano da YHWH (esattamente come il figlio prodigo) anche se la sua esistenza si conduce senza problemi apparenti fino alla morte, Geremia va alla radice riportando le parole di Dio e cioè che chi corre dietro al nulla diventa lui stesso un nulla (2.5), quindi pula di grano che verrà gettata nella fornace.

Così poi l’apostolo Paolo, in Tito 3.3, riassume l’esistenza del cristiano prima dell’incontro con il Cristo: “Anche noi un tempo eravamo insensati, disobbedienti, corrotti, schiavi di ogni sorta di passioni e di piaceri, vivendo nella malvagità e nell’invidia, odiosi e odiandoci a vicenda” perché, per prosperare, l’uomo inevitabilmente danneggia il proprio simile. Il raggiungimento del benessere non potrà mai soddisfare chi non è in grado di saziarsi, di “dire basta” come i tre elementi, “anzi quattro” di Proverbi 30.

 

Proseguendo nella lettura, vediamo quale fu lo stile di vita adottato dal protagonista della parabola: visse in modo dissoluto, cioè permettendosi tutto ciò che potesse soddisfare la sua carne, quindi penso al gioco, a pranzi e cene dove ingozzarsi, al sesso disordinato, tutte cose che portano in breve tempo all’esaurirsi di un patrimonio soprattutto se si tratta di una riserva che non viene mai alimentata da entrate, come in questo caso. È ancora il libro dei Proverbi ad ammonire contro uno stile di vita disordinato, in particolare dalla frequentare la “donna straniera” simbolo di corruzione perché i suoi costumi, lontani da quelli di un israelita che ha ricevuto un tipo di educazione diversa, traviano quasi senza accorgersene (e Salomone lo imparò a sue spese): “Tieni lontano da lei il tuo cammino e non avvicinarti alla porta della sua casa, per non mettere in balìa degli stranieri il tuo onore e i tuoi anni alla mercé del crudele, perché non si sazino dei tuoi beni i forestieri, e le tue fatiche non finiscano in casa di uno sconosciuto e tu non debba gemere alla fine, quando deperiranno il tuo corpo e la tua carne”. (5.11)

La caduta del figlio prodigo. Come descritta, completa il triste quadro fatto poc’anzi: l’onore di quell’uomo era stato ormai ampiamente compromesso perché si era ritrovato con un nulla in mano, i suoi beni li aveva ceduti ad altri e cominciava a deperire per cui andò da una persona che conosceva, suo compagno di bagordi e ricco, che non trovò nulla di meglio che mandarlo nei suoi campi a pascolare dei maiali. Ciò, per un ebreo, è quanto di meglio si può usare per esprimere la degradazione umana, senza contare che un appartenente ad un facoltoso e onorato casato israelita si ritrovava ad allevare maiali, in più alle dipendenze di un incirconciso, di un pagano.

Può essere spesa anche qualche parola sull’ignoto conoscente del figlio prodigo: per nulla memore dell’ “amicizia” trascorsa, lo umilia dandogli un impiego che non gli consentiva neppure di mangiare decentemente, del tipo “Va’ e cura i miei maiali” senza dargli uno stipendio se pur misero.

E tutti quelli coi quali aveva fatto feste, che avevano preso il suo denaro? Svaniti. Tutto si riassume in Proverbi 28.19 “Chi va dietro agli uomini da nulla sarà saziato di povertà”, certo sia materiale che spirituale. Si rivela allora in tutta la sua concretezza l’impossibilità di rispondere con argomenti convincenti davanti a Dio per riparare ai nostri sbagli, come in Giobbe 9.4: “come può un uomo aver ragione dinnanzi a Dio? Se uno volesse disputare con lui, non sarebbe in grado di rispondere una volta su mille. Egli è saggio di mente, potente di forza: chi si è opposto a lui ed è rimasto salvo?”.

La frase “Avrebbe voluto saziarsi delle carrube di cui si nutrivano i porci, ma nessuno gli dava nulla” rivela tutto il disinteresse dell’uomo che, costretto dalla sua limitata visione a pensare solo a se stesso, non si cura dei suoi simili.

Il passo “Chi coltiva la sua terra si sazia di pane, chi insegue chimere si sazia di miseria” (Proverbi 28.19 credo sia utile per introdurre i pensieri che a un certo punto iniziano a sorgere nel cuore del protagonista della parabola: prima leggiamo che “ritornò in sé”, fatto non così comune quanto possa sembrare, perché alcuni persistono nel proprio stato di errore indipendentemente dalle sofferenze che provano. Questa persona, però, guarda alla sua condizione con obiettività e ripensa al proprio passato ricordando non tanto se stesso, ma i dipendenti del padre che avevano “pane in abbondanza, mentre qui io muoio di fame!” (v.17). Poteva ricordarsi dei privilegi che il padre gli concedeva, ma non lo fa; piuttosto collega la differenza che intercorreva fra la sua posizione di lavorante coi maiali e quella degli altri, i dipendenti di suo padre, che vivevano nella dimora che aveva lasciato. A proposito del “ritornò in sé” c’è chi ha ipotizzato che il “pianto e stridore di denti” delle anime perdute sarà causato proprio dal fatto che “torneranno in loro” quando il tempo dato per pentirsi sarà scaduto una volta per sempre. E certo non è un pensiero sbagliato.

Si tratta di un percorso che ci anticipa il profeta Geremia in due passi che illustrano molto bene come avviene il pentimento in un certo senso “costrittivo”: “La tua stessa malvagità ti castiga e le tue ribellioni ti puniscono. Renditi conto e prova quanto è triste e amaro abbandonare il Signore, tuo Dio, e non avere più timore di me” (2.19), questo perché Dio aspetta sempre il pentimento di chi lo ha abbandonato, o del peccatore. Infatti: “Mi hai castigato e ho subìto il castigo come un torello non domato. Fammi tornare e io ritornerò, perché tu sei il Signore, mio Dio. Dopo il mio smarrimento, mi sono pentito; quando me lo hai fatto capire, mi sono battuto il petto, mi sono vergognato e ne provo confusione, perché porto l’infamia della mia giovinezza” (31.18,19).

Dalla lettura dei pensieri di quest’uomo possiamo rilevare qualcosa di singolare che denota il suo pentimento, cioè che non desidera tornare a casa per rioccupare il posto di prima, convinto di averlo perduto, ma di avere un posto da dipendente: “Padre, ho peccato davanti al Cielo – quindi davanti a Dio – e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio, trattami come uno dei tuoi salariati”. Da queste parole vediamo che non tanto andandosene da casa sua, ma vivendo come ha vissuto aveva “peccato davanti al cielo”, cioè dimenticato deliberatamente gli insegnamenti che gli erano stati impartiti, compresi i versi che abbiamo citato, visto che sono sempre stati fatti rimandi agli scritti dell’Antico Patto.

L’ultimo verso, “Si alzò e tornò da suo padre”, rende già operativo il pentimento: si alza, come aveva fatto prima dell’abbandonare la casa paterna, ma con tutt’altro intento. Si alza e parte: non aveva nulla da prendere con sé, solo i vestiti che aveva, sporchi, logori, ben diversi da quelli che aveva fino a qualche tempo prima, quanto non sappiamo perché ciò che importa non è il tempo che passa, ma le decisioni che si prendono. Sono questi vestiti che saranno l’emblema, il marchio temporaneo del suo fallimento, oltre a costituire testimonianza di un’esistenza condotta in modo sbagliato.

Infine, possiamo anche osservare che, nella sua decisione di tornare, quest’uomo manca completamente il timore di venire respinto: credo che l’importante per lui fosse tornare, dire al padre ciò che aveva da dire e poi rimettersi alle sue decisioni. Questo è importante perché ci mette in grado di capire che, quando si vuole avere riscatto da un errore commesso, c’è un solo percorso da seguire e cioè confessare il peccato senza giustificazioni o enfatizzazioni di sorta: “Ho peccato contro il cielo e contro di te” sono parole che riassumono un’esistenza sbagliata spesa in non sappiamo quanto tempo, ma certamente non poco.

Per questa persona il pentimento fu generato dal constatare la degradazione obiettivamente raggiunta e i suoi effetti, e la stessa cosa può avvenire anche per noi perché sono convinto che la parabola del figlio prodigo riguardi tutti, credenti compresi, soggetti a sbagliare e a rivendicazioni di autonomia soprattutto nel tempo della loro giovinezza in fede quando, per ignoranza, presunzione o mancata assimilazione per esperienza dei principi che vengono a conoscere, a un certo punto decidono di partire, convinti di poter sussistere. Sappiamo però che Gesù già disse ai suoi “Senza di me non potete far nulla”. Amen.

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14.11 – TRE PARABOLE: LA MONETA PERDUTA (Luca 15.8-10)

14.11 – Tre parabole – 2, la moneta perduta (Luca 15.8-10)

 

8Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? 9E, dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: «Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto». 10Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte.

 

“La moneta”. Purtroppo nelle traduzioni cosiddette moderne il lettore si trova da un lato agevolato a capire nell’immediato di cosa si tratti, ma penalizzato in tutto quello che è il contorno che consente di capire meglio il messaggio, o contesto che sia. Il greco infatti non ci parla di “dieci monete”, il cui valore è quanto mai indefinito, ma di “dramme”.

La dramma, o dracma, costituiva l’unità monetaria principale presso i popoli ellenici dell’antichità, aveva multipli e sottomultipli oltre a poter essere “pesante” o “leggera” e quindi avere un valore diverso. La moneta che ci interessa è quella d’argento, che era assimilata al “denaro” che costituiva la paga ordinaria giornaliera di un operaio. Da qui possiamo dedurre che le “dieci dramme” costituissero i risparmi della protagonista della parabola.

Da notare poi il personaggio, una donna, che nella precedente era un uomo (il pastore) e nella prossima sarà addirittura un padre, a sottolineare l’universalità del problema quando qualcosa che si ha di caro si perde, sia esso animale, cosa o persona. E Gesù offrì tre esempi proprio perché desiderava che i suoi uditori, a seconda della loro personalità, se non tutti, ne comprendessero almeno uno per fare poi le considerazioni del caso e, ricordandosi degli altri due, giungere ad una piena comprensione del messaggio. Da qui possiamo considerare che il Vangelo, e per riflesso tutta la Scrittura, sono semplici quando devono comunicare ciò che serve all’uomo come primo elemento per giungere alla verità dell’amore di Dio per la propria salvezza: non serve cultura, conoscenza del greco o dell’ebraico, ma un cuore onesto che cerchi perché altrimenti quel “cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto” non costituirebbe una verità.

La donna ha “dieci dramme”, anche qui da vedere come numero che esprime la quantità ideale turbata appunto dalla mancanza di quell’ “uno” che rende il “nove”, come il “novantanove” precedente, simbolo dell’incompletezza.

Quelle “dieci dramme” erano il punto di arrivo, il risultato di un risparmio, qualcosa che stava ad indicare una tranquillità raggiunta per poter sopperire a un momento di bisogno che prima o poi sarebbe eventualmente (o certamente) arrivato. Qui sta la chiave di lettura della parabola perché Gesù non avrebbe certo potuto prendere a modello una persona avara, che sì avrebbe cercato la dramma come quella donna, ma unicamente per puro amore di possesso perché quell’ “uno” in meno avrebbe rappresentato qualcosa di intollerabile a fronte di un progetto di arricchimento, cosa che qui non è: la scoperta di un elemento mancante nel gruppo dei dieci e il conseguente accendere la lampada (perché le case dell’epoca erano buie), spazzare la casa e cercare la dramma “accuratamente finché non la trova”, sono tutte azioni che denotano l’importanza che viene dato alla moneta a livello di principio, avendo un valore che, assieme alle altre nove, non è trascurabile.

Ecco allora che Gesù, con la parabola della pecora smarrita, spiega l’amore del pastore per il suo animale e con quella della dramma rivela quanto è prezioso per lui il peccatore. Proviamo a pensare un attimo: entrambe, pecora e dramma, sono ricerche non facili. Il pastore deve rinunciare a starsene in casa, vicino all’ovile, a riposare meritatamente dopo una giornata (o mezza) di lavoro. Per trovare la pecora perduta deve fare della strada, presumibilmente molta, sotto il sole, sa che sarà inutile pensare a una logica nel percorso che può aver fatto il suo animale e per questo deve andare dappertutto, percorrere siepi, fossi, radure, fermarsi ad ascoltare se per caso giunge al suo orecchio qualche belato.

Per la dramma, poi, non so se ci siamo mai trovati nella condizione di cercare qualcosa di piccolo come una moneta, che sappiamo esserci caduta in casa: una moneta, se cade di costa, rotola e può andare a infrattarsi in mille posti. Il principio che quella è preziosa, frutto di un sacrificarsi perché una cosa è il risparmiare e tutt’altra l’accumulare, spinge quella persona a tutta una serie di accorgimenti per il recupero di quell’elemento che si è perso.

Anche qui, come nel caso del pastore, vi è poi il rallegrarsi coi suoi simili a ritrovamento avvenuto: “ho trovato la moneta che avevo perduto”, parole importanti perché quel “che avevo perduto” pone l’accento sull’affanno e la preoccupazione che aveva destato in lei quella perdita. Ha scritto un fratello: “Siccome non è la compassione, ma l’interesse che anima questa donna nella sua ricerca, così l’amore di Dio viene rivelato in una forma tutta nuova. Il peccatore non è più ai Suoi occhi un essere sofferente come la pecora, ma è una creatura preziosa, perché fatta a sua immagine, una sua proprietà la cui perdita provoca un vuoto nel suo tesoro”. Da qui vediamo che anche il peccatore porta dentro di sé come contrassegno il fatto di essere a immagine di Dio, salvo che non sia posseduto da un angelo dell’Avversario, per cui il non credere o peggio porsi in opposizione a lui costituisce un oltraggio che, se non interviene il ravvedimento, comporterà l’essere “gettato di fuori” come i personaggi di parabole che abbiamo incontrato e incontreremo.

Cosa significa allora il ritrovamento della dramma? Il ripristino dell’equilibrio, il ritrovamento di un altro mattone per la costruzione dell’edificio spirituale di Dio, un altro elemento che si aggiungerà ai tanti salvati che costituiranno la Sua Sposa che lo attende.

Possiamo poi osservare le due parabole sotto un altro aspetto: la pecora si perde, per quanto sia priva di orientamento, per sua volontà perché decide si andare da sola, la dramma perché è pesante ed inerte e c’è chi ha giustamente sostenuto che “negli uomini caduti il peccato è al tempo stesso attivo e progressivo. In altri termini i peccatori scelgono il proprio corso e vanno errando per loro decisione – ecco la pecora –, ma gravitano verso il male in virtù di una corruzione innata che agisce come legge nelle loro membra”. E qui abbiamo la dramma, che col suo peso non può che cadere a terra a seguito di un trasporto o di uno spostamento anche breve.

Questo comprende tutti gli uomini e ci porta alle parole dell’apostolo Paolo che, meditando sulla sua natura umana e sull’incapacità della Legge a salvare, paragonando le due dispensazioni, Grazia e Legge, scrive: “Sappiamo che la Legge è spirituale – perché proveniente da Dio –, mentre io sono carnale, venduto come schiavo del peccato – come conseguenza della trasgressione di Adamo –. Non riesco a capire ciò che faccio: infatti io faccio non quello che voglio, ma quello che detesto. (…) Dunque io trovo in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti nel mio intimo acconsento alla Legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che combatte contro quella della mia ragione e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra” (Romani 7.14-23).

Ecco spiegato, credo nel modo migliore, gli effetti del peso della dramma, già comunque constatabile nel fatto che si sia perduta.

Se vi fosse stata immobilità, né la pecora né la moneta si sarebbero perse. Non solo, ma la stessa cosa si può dire qualora, nelle nuove dinamiche di Dio con la creazione, Eva non avesse a un certo punto scelto di infrangere il comandamento ricevuto e Adamo non le avesse dato ascolto facendo la stessa cosa. La leggerezza è di Dio, ma il peso è dell’Avversario e con lui si cade, ci si perde, si rimane umiliati sempre. Si rimane col freddo nell’anima perché il sole proposto da Satana è apparente, illusorio, non scalda; si vede l’immediato e non si va oltre, l’archivio delle rivendicazioni si espande, il rancore causato dalla differenza fra ciò che si desidererebbe e ciò che si ha ci fa implodere, l’attaccamento all’idea di ciò che vorremmo essere o avere, che si scontra con la realtà di ciò che siamo o abbiamo, genera un disagio e una paura patologica. Chi non ha soffre perché è mancante, chi ha soffre ugualmente perché teme di perdere. E qui ricordo la frase “Al malvagio sopraggiunge il male che teme” (Proverbi 10.24).

Allo stesso modo, così come la leggerezza appartiene a Dio e il peso a Satana, l’appartenenza e la separazione sono sempre competenza dell’Uno e dell’Altro.

Ma degno di ringraziamento in preghiera è il verso 24, sempre di Romani 7: “Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte? Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore!”. Al capitolo successivo poi: “Ora, dunque, non c’è nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù. Perché la legge dello Spirito, che dà vita in Cristo Gesù, ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte”.

Ecco allora cosa contempla il ritrovamento della pecora e della dramma: la creazione di un nuovo equilibrio. Princìpi e parole che prima sembravano vuoti/e prendono forma, si inizia a leggere correttamente la vita e le sue prospettive, si ha un porto cui approdare, un riparo certo, l’unico possibile proprio perché trovati da Dio.

E allora arriviamo all’esempio della chioccia che tiene i suoi pulcini sotto le ali, comprendiamo Salmo 40.3 “…mi ha tratto da un pozzo di acque tumultuose, dal fango della palude; ha stabilito i miei piedi sulla roccia, ha reso sicuri i miei passi”. Che in questa vita ci siano degli incerti o persone assolutamente convinte delle loro scelte, in realtà, senza la mano di Dio su di loro, cammineranno sempre nell’errore, in quello che presto o tardi presenta il conto che non potrà che approdare al “pianto e stridore di denti” perché “Il Signore rende sicuri i passi dell’uomo: come può l’essere umano conoscere la sua strada?” (Proverbi 20.24). Ecco perché si perde, ecco il perché della direzione sbagliata e del peso.

Al contrario è l’esperienza di chi è stato ritrovato che troviamo in Salmo 139 1-12: “Signore, tu mi scruti e mi conosci, tu conosci quando mi siedo e quando mi alzo, intendi da lontano i miei pensieri, osservi il mio cammino e il mio riposo, ti sono note tutte le mie vie. La mia parola non è ancora sulla lingua ed ecco, Signore, già la conosci tutta. Alle spalle e di fronte mi circondi e poni su di me la tua mano. Meravigliosa per me la tua conoscenza, troppo alta, per me inaccessibile. Dove andare lontano dal tuo spirito? Dove fuggire dalla tua presenza? Se salgo in cielo, là tu sei; se scendo negli inferi, eccoti. Se prendo le ali dell’aurora per abitare all’estremità del mare, anche là mi guida la tua mano e mi afferra la tua destra. Se dico: «Almeno le tenebre mi accolgano e la luce intorno a me sia notte»m nemmeno le tenebre sono per te tenebre e la notte è luminosa come il giorno; per te le tenebre sono come luce”. Amen.

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