16.19 – La parabola delle nozze regali II (Matteo 22. 8-14)
8Poi disse ai suoi servi: «La festa di nozze è pronta, ma gli invitati non erano degni; 9andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze». 10Usciti per le strade, quei servi radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali. 11Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale. 12Gli disse: «Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?». Quello ammutolì. 13Allora il re ordinò ai servi: «Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti». 14Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti».
“La festa di nozze è pronta, ma gli invitati non erano degni” ci parla del progetto di Dio per il Suo popolo che, come sappiamo, non volle capire, comprendere l’importanza della chiamata totale realizzatasi con la venuta di Suo Figlio sulla terra. Il non essere “degni” è una pietra tombale che si chiude definitivamente su Israele come popolo, non certo sui singoli appartenenti che si sarebbero convertiti, quello che, a partire dall’epoca di Gesù in poi, lo ha costantemente rifiutato nonostante la scienza profonda nella Scrittura posseduta che però si disperdeva (e disperde) in un’infinità di rivoli che, anziché illuminare, portano il buio: “Guide cieche, che filtrate il moscerino e inghiottite il cammello!” (Matteo 23.24)
A proposito della constatazione sull’indegnità degli invitati, in base alla quale potremmo ipotizzare che Dio si fosse sbagliato a convocarli, si tratta di una constatazione in termini antropomorfi come in Genesi 6.6, “E il Signore di pentì di aver fatto l’uomo sulla terra e se ne addolorò in cuor suo” o 32.14, “E il Signore si pentì del male che aveva minacciato di fare al suo popolo”: qui è una visione amara sul fatto che i destinatari dell’invito non lo avevano tenuto in alcuna considerazione, “Ecco, ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e gli animali ingrassati sono già uccisi e tutto è pronto; venite alle nozze!”.
Quel re, che non aveva bisogno di nessuno, potente, assolutamente ricco, chiama gli invitati due volte e addirittura nella seconda chiamata spiega, quasi ce ne fosse bisogno, cosa quelle persone avrebbero trovato al pranzo e cioè cibi che mai avrebbero potuto gustare altrove, come rileviamo dalle parole “il mio pranzo”, “i miei buoi e gli animali ingrassati”.
Notiamo ora che ai “servi” viene data un’indicazione completamente diversa dalla prima e cioè di chiamare degli sconosciuti, gente trovata per le strade, chiunque avrebbero incontrato: i “servi” non sono più i profeti che parlavano a Israele di ravvedimento e conversione, ma quelli che operano nella dispensazione della Grazia per i quali non vale più l’ordine “Non andate ai Gentili, e non entrate in nessuna città dei Samaritani” (Matteo 10.5), ma piuttosto la realtà descritta in Colossesi 3.11, “Qui non vi è Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro, Sciita, schiavo, libero, ma Cristo è tutto e in tutti”. “Tutti – appunto – quelli che troverete” e, certo anche se non è detto, vorranno venire. Impensabile un trasporto coatto di sconosciuti, a cui nulla può importare, a una festa di nozze. Una risposta, affermativa o negativa, un invitato la dà sempre.
Abbiamo letto che quei servi “radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni”, non nel senso che costituirono un’accozzaglia di gente la cui presenza il re non avrebbe potuto tollerare, ma che quell’invito fu rivolto a tutti gli uomini senza distinzione di razza, condizione sociale e soprattutto esperienza di vita. Non esiste nessun essere umano che non sia degno del Vangelo come messaggio di salvezza e ravvedimento, ma esiste chi lo rifiuta e quindi sceglie da sé la morte in cui vivere.
Il radunare “cattivi e buoni” è però la figura dell’opera incessante della Chiesa portatrice del Vangelo, che alla fine conduce i suoi componenti nella sala delle nozze, quella in cui verrà servito il banchetto, ma in cui si trova “uno” che pretendeva paradossalmente di imporre al padrone di casa la propria presenza senza essersi minimamente adeguato alle sue esigenze che in nient’altro si concretavano se non in un vestito da indossare e portare. E proprio la Chiesa, in quanto territorio di Dio, è suscettibile alle invasioni, scorrerie e disturbi da parte dell’Avversario, come lo stesso Gesù insegna con parabole che la possono coinvolgere, come quella delle zizzanie che crescono nel campo seminato col buon seme: “Il campo è il mondo e il seme buono sono i figli del Regno. La zizzania sono i figli del Maligno e il nemico che l’ha seminata è il diavolo” (Matteo 13.38). E qui dovremmo aprire un capitolo a parte.
Abbiamo anche “Il regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci. Quando i pescatori la tirano a riva, si mettono a sedere, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi” (vv.47.48), e ancora 25.1,3 con la parabola delle dieci vergini che “presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; le stolte presero le loro lampade, ma non presero con sé l’olio”.
Sotto questo aspetto che vi siano elementi estranei apposta per minare il piano di Dio lo denota la stessa presenza di Giuda Iscariotha nei gruppo dei Dodici e poi di tutte le eresie che sorsero già al tempo di Pietro e di Paolo per poi diffondersi, come quella degli Ebioniti che volevano giudaizzare il cristianesimo, dei Doceti che negavano la natura umana di Gesù, dei Cerinti che vedevano in Lui un semplice uomo, per quanto illuminato in un certo periodo della sua vita.
Riassumendo, la nostra parabola finora è passata attraverso tre fasi: in una prima abbiamo l’invito a Israele alle nozze e il “non vollero venire” degli invitati che lo rifiutarono ai tempi del cosiddetto “Antico Testamento”; nella seconda una chiamata più dettagliata, quella fatta ai tempi di Gesù e subito dopo, col rifiuto reiterato del popolo che fa sì che il re giunga a distruggere «la loro città» come avvenuto nel 70 d.C.; infine la terza che è il tempo che tuttora viviamo, quello dei servi che costituiscono la Chiesa che si troverà poi, prima di sedersi al banchetto di Dio, quarta fase, ad affrontare il vaglio dell’operato di ogni suo componente che sarà salvato se si troverà “vestito”, o condannato se non avrà permesso all’amore di Dio di agire, rimanendo la stessa persona di prima.
L’ora della verità si ha con “la sala piena di commensali”, il re entra: sta per verificarsi ciò che aveva anticipato Isaia in 25.6, “Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di vini raffinati. Egli strapperà su questo monte il velo che copriva la faccia di tutti i popoli e la coltre distesa su tutte le nazioni. Eliminerà la morte per sempre”.
La “sala piena” in cui il re entra: era tradizione giudaica che quando una persona comune dava una festa, si trovava per prima nel luogo in cui riceveva gli ospiti, ma quando si trattava di un sovrano, questo compariva per ultimo, quando erano giunti tutti i suoi invitati. Quindi la quarta fase, che ho definito “l’ora della verità”, è quella del vaglio in cui il re entra “per vedere i commensali” e quindi conoscerli e accoglierli ufficialmente.
Certo il “vedere” di Dio coinvolge il tutto della nostra persona, le azioni fatte, i peccati non confessati e non lasciati, il nostro cuore che può essere più o meno sincero, ciò che ha realmente motivato ogni nostra azione e quindi il fine della nostra presenza in quel luogo: saremo lì perché desiderosi di entrare finalmente nel luogo promesso, o perché speranzosi di entrarvi nonostante questo non ci competa? E come reagiremo a quegli “occhi di fuoco” di Gesù che sarà lì e con quelli valuterà ciascuno dei presenti?
Qui, però, l’attenzione del re sugli invitati riguarda l’abito nuziale, che era stato offerto a tutta quella gente che, ricordiamolo, era stata presa così com’era, con vestiti inadeguati e per questo, secondo l’uso di allora, l’abito veniva portato sopra quello che già gli invitati avevano. Questo, si badi, nelle condizioni di emergenza perché era costume che i servi consegnassero all’invitato il vestito prima che si celebrassero le nozze e si presentasse così in modo consono all’evento.
Credo che il passo che più di ogni altro illustri il meccanismo del vestito sia quello di Zaccaria 3.3,4, nella visione di Giosuè davanti all’Angelo del Signore: “Giosuè era rivestito di vesti sporche e stava in piedi davanti all’angelo, il quale prese a dire a coloro che gli stavano intorno: «Toglietegli quelle vesti sporche!». Poi disse a Giosuè: «Ecco, io ti tolgo di dosso il peccato; fatti rivestire di abiti preziosi»”, il che per noi vale “Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo e non lasciatevi prendere dai desideri della carne” (Romani 13.14).
Il tema del vestito prelude all’individuazione di colui che non l’aveva, che certo non era il solo ma che Gesù rappresenta, per una migliore immedesimazione degli ascoltatori, in uno: “Ecco, io vengo come un ladro. Beato chi è vigilante e custodisce le sue vesti per non andare nudo e lasciar vedere le sue vergogne” (16.15). Può aiutare anche Apocalisse 19.7,8: “Rallegriamoci ed esultiamo, rendiamo a lui la gloria, perché sono giunte le nozze dell’Agnello; la sua sposa è pronta: le fu data una veste di lino puro e splendente. Le vesti di lino sono le opere giuste dei santi”.
Alla domanda “«Amico – termine generico, non “filos”, ma “epairos” – come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?», quello ammutolì”, cioè non ebbe argomenti giustificativi, il suo Io che si voleva imporre, è costretto a dissolversi, scomparire.
Era chiara e risaputa l’usanza: l’accettazione dell’invito comportava indossare l’abito che veniva donato. Chi aveva parlato era un re, non una persona qualunque che, anche se così fosse stato, avrebbe dovuto avere il riconoscimento dell’indossare il vestito per gratitudine, adeguamento. Quella persona, però, voleva fare a modo suo, cioè imporre la sua presenza a prescindere dall’uso consueto, ma soprattutto si opponeva chiaramente al volere del re, così insultando non solo lui, ma anche i presenti che si erano adeguati accettando di indossare quanto da lui richiesto.
Ecco allora che l’eliminare quella persona oggetto di disturbo, scandalo e inquinamento dell’ambiente, era inevitabile. L’ “uno” presente era un abusivo che, col suo comportamento, non si dimostrava tanto diverso da quelli che “non vollero venire”, anzi, col loro aperto rifiuto si erano dimostrati addirittura più onesti. Amen.
* * * * *