16.17 – LA PARABOLA DEI CONTADINI OMICIDI II/II ( Matteo 21.28-32)

16.17 – La parabola dei contadini omicidi II/II (Matteo 21. 28-32)

 

40Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini?». 41Gli risposero: «Quei malvagi, li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo». 42E Gesù disse loro: «Non avete mai letto nelle Scritture: La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo; questo è stato fatto dal Signore
ed è una meraviglia ai nostri occhi?
43Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti. 44Chi cadrà sopra questa pietra si sfracellerà; e colui sul quale essa cadrà, verrà stritolato». 45Udite queste parabole, i capi dei sacerdoti e i farisei capirono che parlava di loro. 46Cercavano di catturarlo, ma ebbero paura della folla, perché lo considerava un profeta.

 

 

Terminata la parabola, viene il momento di tirarne le somme. Qui non si tratta più di parlare “…perché guardando non comprendono, udendo non ascoltano e non comprendono”, ma di maieutica, cioè far sì che una persona dotata di pensiero giunga da sola alla soluzione di un problema, o argomento che non comprende. Così, anziché dire “guarda che sbagli” spiegandone il motivo, ecco che esponendo un episodio simbolico adatto alla realtà di uno o più individui, questi trovano da sé la soluzione, o giungono comunque a un punto fermo. È quanto fece, ad esempio, il profeta Natan con Davide per fargli comprendere il peccato commesso nei confronti di Dio, quando commise adulterio con la moglie di Uria e poi creò le situazioni affinché venisse ucciso (2 Samuele 12).

L’uomo nella carne ha sempre un concetto di sé molto elevato: sembra che solo lui sappia, sia nel giusto, vede le colpe solo negli altri, li giudica e non si accorge che commette esattamente gli stessi errori, se non peggio. Un proverbio latino dice che il creatore ha messo addosso ad ogni uomo due borse, una davanti e una dietro e tutti vedono quella degli altri. E le persone interrogate da Gesù rispondono correttamente, andando addirittura oltre, alle conseguenze che vanno al di là del concetto di castigo (“li farà morire miseramente”), ma anche ai provvedimenti successivi, “darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo”, anticipando cioè il loro destino.

Credo che se l’uomo, quindi anche noi come credenti, non si pone nella posizione dell’osservatore distaccato di se stesso e non si valuta continuamente, rischia non di fare la fine dei personaggi cui Nostro Signore si rivolge, ma di chi pensa a giudicare gli altri ritenendosi immune da errori. Lo dice anche l’apostolo Paolo in un passo che dovremmo conoscere: “Perciò chiunque tu sia, o uomo che giudichi, non hai alcun motivo di scusa perché, mentre giudichi l’altro, condanni te stesso; tu che giudichi, infatti, fai le medesime cose” (Romani 2.1). Più incisivo ancora 2.3: “Tu che giudichi quelli che commettono tali azioni e intanto le fai tu stesso, pensi forse di sfuggire al giudizio di Dio?”.

La domanda “Quando verrà dunque il padrone della vigna, cosa farà a quei contadini?”, personalmente, mi fa tremare perché penso all’assurda speranza di quelle persone di restare impunite, anzi, di aver vinto sul padrone che “verrà”. Non si sa quando, ma comparirà nel momento in cui meno se le aspetteranno e allora tutti i progetti, l’eterno presente in cui quelle persone avranno vissuto, finirà in modo terribile. Proprio su questo tema l’autore della lettera agli Ebrei scrive “Quando qualcuno ha violato la Legge di Mosè, viene messo a morte senza pietà sulla parola di due o tre testimoni. Di quanto peggiore castigo pensate che sarà giudicato meritevole chi avrà calpestato il Figlio di Dio e ritenuto profano quel sangue dell’alleanza, dal quale è stato santificato, e avrà disprezzato lo Spirito della grazia?” (10. 22,23).

Se penso al “peggior castigo”, va da sé che questo vada ad aggravare ancora di più quanto già anticipato da Dio in caso di disubbidienza sistematica, di rifiuto al Suo ascolto, per cui possiamo trarre le nostre conclusioni: “Se non mi darete ascolto, se non metterete in pratica tutti questi comandi, se disprezzerete le mie leggi e rigetterete le mie prescrizioni, non mettendo in pratica tutti i miei comandi e infrangendo la mia alleanza, ecco come vi tratterò: manderò contro di voi il terrore, la consunzione e la febbre, che vi faranno languire gli occhi e vi consumeranno la vita. Seminerete invano le vostre sementi: le mangeranno i vostri nemici. Volgerò il mio volto contro di voi e sarete sconfitti dai nemici; quelli che vi odiano vi opprimeranno e vi darete alla fuga, senza che alcuno vi insegua” (Levitico 26. 14-16). Sono sette conseguenze, quindi la totalità del dolore, fisico e morale, aggravato dal fatto che verrà improvviso a distruggere ogni speranza presente, e chiaramente futura. E può essere chiuso l’argomento con Daniele 9.26 che profetizza l’evento quando “Dopo sessantadue settimane, un consacrato sarà soppresso senza colpa in lui. Il popolo di un principe che verrà distruggerà la città e il santuario; la sua fine sarà un’inondazione e guerra e desolazioni sono decretate fino all’ultimo”.

Ma veniamo alle parole degli avversari di Gesù, quando dopo aver parlato della morte dei contadini, dicono “darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo”: naturalmente è immediato il collegamento alle parole “Il regno di Dio vi sarà tolto” del verso 43, ma quello di cui non si parla sono le conseguenze, che ci pensa Isaia a ricordare. In 65. 13,14 leggiamo “Ecco, i miei servi mangeranno e voi avrete fame; ecco, i miei servi berranno e voi avrete sete; ecco, i miei servi gioiranno e voi resterete delusi; ecco, i miei servi giubileranno per la gioia del cuore, voi griderete per il dolore del cuore, urlerete per lo spirito affranto”.

Vedo molta atrocità in questo perché si tratta di sofferenze che non porteranno da nessuna parte perché non si tratterà di un dolore necessario per transitare da una condizione ad un’altra, come l’avere una malattia che poi si risolve, ma di un giudizio definitivo, di uno stato stabile che non risolve nel grido e nell’urlo, ma trova in questi ultimi la sua espressione. Infatti, nella visione della salvezza universale, il Signore Dio dice “Uscendo, vedranno i cadaveri degli uomini che si sono ribellati contro di me; poiché il loro verme – cioè il loro tormento interiore – non morirà, il loro fuoco – quello che dovrebbe bruciare i cadaveri – non si spegnerà e saranno un abominio per tutti” (66.24).

Proseguendo, nel “gli consegneranno i frutti a suo tempo” vediamo la descrizione, finalmente, di un rapporto rispettoso e consolidato, dove ciascuno fa ciò che deve, in obbedienza al contratto stipulato, nel quale è chiaro vedere la Nuova Alleanza e i suoi appartenenti.

 

Ora però, se confrontiamo tra loro i racconti dei sinottici, incontriamo un problema nel senso che Marco e Luca attribuiscono a Gesù la risposta alla domanda su cosa sarebbe accaduto: “Verrà, e farà morire i contadini e darà la vigna ad altri” (Marco 12.9), Luca addirittura aggiunge, dopo la stessa frase, “Udito questo, dissero: «Così non sia!». Allora Gesù fissò lo sguardo su di loro e disse…” (20.16). Occorre chiedersene la ragione, perché stravolgerebbe in parte il senso di quanto abbiamo finora estratto. Soprattutto Luca, facendo dire ai farisei e capi sacerdoti “Così non sia!”, ribalta l’ipotesi fatta secondo la quale quei personaggi avessero in un certo senso profetizzato inconsapevolmente sul loro destino. Alcuni commentatori hanno ipotizzato che quel “dissero” sia riferito agli uditori esterni, ma credo sia una teoria che non regga.

Penso piuttosto che, dato che la Scrittura non può contraddire sé stessa, se molto spesso gli evangelisti pongono l’accento su situazioni diverse all’interno degli stessi episodi, Matteo abbia voluto riferire l’accaduto dal punto di vista dell’ebraismo, descrivendo l’evento come effettivamente andò, mentre Marco e Luca riportino le parole di quella parte degli oppositori che non avevano capito il senso delle parole di Gesù. Tutti e tre gli evangelisti, quando scrivono “dissero”, non possono alludere a una risposta corale in cui tutti pronunciano le stesse parole all’unisono – il che sarebbe ridicolo –  per cui, alla fine della parabola, sorse un mormorio discorde e i sinottici inserirono le varie risposte e le frasi di tutti, ciascuno appropriandosene in base a quanto voleva sottolineare, altrimenti avrebbero dovuto dare una descrizione univoca, cosa che raramente avviene. Ad esempio, può essere che la sorte dei contadini sia stata anticipata da qualcuno degli interpellati, altri l’abbiano rifiutata (“Così non sia!”) e Gesù l’abbia dovuta ribadire. Non lo sappiamo, ma personalmente non vedo contraddizioni fra le tre cronache, se viste sotto questo aspetto.

Non per nulla è diverso anche il dopo perché Matteo fa spiegare a Gesù il significato della pietra scartata dai costruttori, Luca lascia intuire che i suoi avversari compresero che parlava di loro, Marco e Matteo lo scrivono esplicitamente: “Cercavano di catturarlo, ma ebbero paura della folla; avevano infatti capito che aveva detto quella parabola contro di loro”. Anche qui vediamo la lettura a senso unico di quelle persone, perché più che “contro” era “per”. Ma chi è avverso a priori, non può né vuole sentire ragioni, conta quello che pensa lui e non si pone il problema se sia giusto o sbagliato.

Gesù presenta a questo punto ai Suoi avversari un verso molto importante, appartenente al Salmo 118 (v. 22 e 23, “La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata pietra d’angolo. Questo è stato fatto dal Signore, una meraviglia ai nostri occhi”), ritenuto profetico sul Messia dai rabbini (v.26, “Benedetto colui che viene nel nome del Signore”) e quindi anche da quella delegazione che si era a Lui presentata. La “pietra” è il Signore Gesù stesso, “Figlio dell’Iddio vivente” come dichiararono l’apostolo Pietro e Marta sorella di Lazzaro, verità assolutamente contestata dai capi del popolo che la scartarono, verbo greco “apodokimàzo” che allude non al semplice eliminare, ma ad uno “scartare dopo attento esame”. I Giudei dunque, sia “condadini” che “costruttori”, respinsero quella pietra, ma divenne poi quella angolare, cioè che tiene unite due mura sopportando il peso della costruzione e tenendo in piedi la casa. È la prima pietra che viene posata, ma può essere anche identificata come la “chiave di volta”, quella che la costruzione la completa e qui possiamo avere il riferimento a Cristo come “primo e ultimo, Alfa e Oméga”.

A questo punto arriviamo alle conclusioni di Gesù: al di là di tutti i riferimenti, peraltro corretti, che sono stati presentati, con la frase “Il regno di Dio vi sarà tolto” viene decretata la fine dell’egemonia di Israele come Suo popolo. Citando il “regno di Dio” nostro Signore non parla del Suo, ma di quello del Padre, di YHWH, quindi decreta la fine dei privilegi spirituali e temporali di Israele, ma al tempo stesso, parlando di “popolo che ne produca i frutti”, non parla dei gentili, ma di “éthnos”, cioè una società spirituale composta sia da ebrei che da gentili credenti, veri eredi delle promesse contenute nel patto di Dio con Abramo.

Infatti: “Non c’è Giudeo né Greco, non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù. Se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abrahamo, eredi secondo la promessa” (Galati 3. 28,29). Anche Efesi 2. 19,20 “Così voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio, avendo come pietra d’angolo lo stesso Cristo Gesù. In lui tutta la costruzione cresce ben ordinata per essere tempio santo nel Signore; in lui anche voi venite edificati insieme per diventare abitazione in Dio per mezzo dello Spirito”.

Concludendo resta il verso 24, “Chi cadrà sopra questa pietra si sfracellerà, e colui sul quale essa cadrà, verrà stritolato”: è un richiamo assoluto a Isaia 8.13-15 in cui è rivelato che proprio il Signore Dio, a parole amato e osservato, sarà causa di vita o di morte. Abbiamo infatti: “Il Signore degli eserciti, lui solo ritenete santo. Egli sia l’oggetto del vostro timore, della vostra paura. Egli sarà insidia e pietra di ostacolo e scoglio d’inciampo per le due case di Israele – Giuda e le dieci tribù –, laccio e trabocchetto per gli abitanti di Gerusalemme. Tra di loro molti inciamperanno, cadranno e si sfracelleranno, saranno presi e catturati”.

Quindi scartare quella pietra porterà delle conseguenze proprio perché non sarà stata ritenuta inidonea così, per partito preso, per superficialità, ma come abbiamo visto dopo attento esame. Una pietra d’angolo senza la quale nessuna costruzione può sussistere. Non la nostra, non la Chiesa. Amen.

* * * * *

 

16.16 – LA PARABOLA DEI CONTADINI OMICIDI I/II (Matteo 21.33-39)

16.16 – La parabola dei contadini omicidi 1 (Matteo 21. 33-39)

 

33Ascoltate un’altra parabola: c’era un uomo che possedeva un terreno e vi piantò una vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano. 34Quando arrivò il tempo di raccogliere i frutti, mandò i suoi servi dai contadini a ritirare il raccolto. 35Ma i contadini presero i servi e uno lo bastonarono, un altro lo uccisero, un altro lo lapidarono. 36Mandò di nuovo altri servi, più numerosi dei primi, ma li trattarono allo stesso modo. 37Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: «Avranno rispetto per mio figlio!». 38Ma i contadini, visto il figlio, dissero tra loro: «Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!». 39Lo presero, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero.

Si concludono apparentemente qui gli interventi di Gesù sui capi del sacerdoti, farisei e scribi che lo avevano interrotto mentre insegnava chiedendogli con quale autorità facesse “queste cose”. In realtà, seguiranno la parabola delle nozze e altri avvenimenti. Comunque, dopo averli messi in difficoltà chiedendo loro se il battesimo di Giovanni venisse da Dio o dagli uomini e confessata la loro ignoranza in merito, Gesù espose la parabola dei due figli mettendo in evidenza il fatto che i pubblicani e le prostitute li precedevano nel regno ed ora, dopo quella dei contadini omicidi, conclude con parole che, dette da Lui, avevano la stessa gravità, autorità e valenza della maledizione sul fico: “Io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti” (v.43).

Credo che la parabola di cui ci occuperemo sia fra le più note e immediate del Vangelo: non c’è nessuna difficoltà a trovare l’identità dei contadini, dei servi, del figlio inviato né tantomeno non possiamo avere dei dubbi attorno alla vigna; ecco perché, lavorando su un materiale conosciuto e privo di punti oscuri, possiamo cercare di trovare quel messaggio latente, qualcosa di nuovo che si cela proprio nei testi semplici, in cui la lettura agevole fa sì, a volte, che divenga frettolosa.

Ora il primo personaggio è il proprietario di un terreno che decide di “piantare una vigna”; la cura che pone per la realizzazione del suo progetto denota una persona con una profonda conoscenza dell’arte vitivinicola, che richiede studio e applicazione: la tipologia di terreno influenza quella di coltivazione, la disposizione delle piantine messe a dimora, come farle crescere, la gestione degli spazi tra i filari e molti altri interventi. Altra caratteristica del proprietario è che non ha lasciato nulla di intentato perché il terreno producesse al meglio delle sue possibilità: prima “la circondò con una siepe” per proteggerla dagli animali, poi “scavò una buca per il torchio” perché in quei territori per pigiare si usava scavare una buca nel sasso, e quindi “costruì una torre” che serviva sia per vigilare e custodire il raccolto. In altri termini, organizzò quel terreno in modo tale che fosse indipendente, funzionale e produttivo.

Il Signore Dio fece lo stesso con Eden, circondandolo con quattro fiumi, ponendovi l’uomo e l’albero della vita, e poi, quando maturarono i tempi, liberando il Suo popolo dalla schiavitù dell’Egitto per trapiantalo nella terra promessa. Ricordiamo che, se fosse stato fedele, Israele non avrebbe certo impiegato quarant’anni per attraversare il deserto e neppure, una volta arrivato nel paese di Canaan, avrebbe conosciuto pesanti sconfitte e la deportazione a Babilonia, per non parlare delle altre.

Primo ampliamento in proposito è che Gesù presenta una realtà che, tanto ai colti quanto ai semplici del popolo, non poteva sfuggire perché era evidente che si richiamava ad Isaia 5. 1-7 che riporta: “Il mio diletto possedeva una vigna sopra un fertile colle. Egli l’aveva dissodata e sgombrata dai sassi e vi aveva piantato viti pregiate; in mezzo di aveva costruito una torre e scavato anche un tino. Egli aspettò che producesse uva; essa produsse, invece, acini acerbi. E ora, abitanti di Gerusalemme e uomini di Giuda, siate voi giudici tra me e la vigna. Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna, che io non abbia fatto? Perché, mentre attendevo che producesse uva, essa ha prodotto acini acerbi? Ora voglio farvi conoscere ciò che sto per fare alla mia vigna: toglierò la sua siepe e si trasformerà in pascolo; demolirò il suo muro di cinta e verrà calpestata. La renderò un deserto, non sarà potata né vangata e vi cresceranno rovi e pruni; alle nubi comanderò di non mandarvi la pioggia. Ebbene, la vigna del Signore degli eserciti è la casa d’Israele; gli abitanti di Giuda sono la sua piantagione preferita. Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi”.

Da questo passo vediamo tutta la sollecitudine di Dio che fa quanto in suo potere perché il popolo da Lui scelto, possa dare frutti secondo le Sue aspettative. È Lui a dissodare e sgombrare dai sassi il terreno, Lui a piantare, a far sì che, circondato dalle Sue attenzioni e protetto, potesse prosperare amandolo e osservando i Suoi statuti e leggi.

È ciò che troviamo anche in Salmo 80.9-14, non privo di considerazioni amare e profondi intrecci col passo precedente: “Hai sradicato una vite dall’Egitto, hai scacciato le genti e l’hai trapiantata. Le hai preparato il terreno, hai affondato le sue radici ed essa ha riempito la terra. La sua ombra copriva le montagne e i suoi rami i cedri più alti. Ha esteso i suoi tralci fino al mare, arrivavano al fiume i suoi germogli. Perché hai aperto brecce nella sua cinta e ne fa vendemmia ogni passante? La devasta il cinghiale del bosco e vi pascolano le bestie della campagna”.

Gesù, quindi, proponendo la parabola dei lavoratori della vigna in quel modo, pone il Suo uditorio nella condizione di far riferimento ai contesti offerti da Isaia e da Asaf, levita e cantore di Davide, che già avevano messo in risalto gli effetti dei giudizi di Dio nei confronti del loro popolo. Non dando i frutti sperati, quella vigna fu trattata come il fico seccato che abbiamo visto di recente nel senso che subì gli effetti della riprovazione del suo Creatore e Progettista.

Abbiamo poi un fatto apparentemente anomalo, ma in uso ai tempi di Gesù e cioè il dare il possedimento in affitto a dei contadini: in pratica, se il proprietario aveva degli impegni, lo dava a dei lavoranti che si impegnavano a coltivarlo per poi pagare l’affitto in natura, ricevendo percentuale sul raccolto. Infatti, quell’uomo “se ne andò in viaggio”, altra espressione frequente in diverse parabole per indicare l’assenza del padrone che delega ai suoi servi l’andamento della casa o il far fruttare delle monete che affida loro. Una persona di questo tipo, ricca e in quanto tale potente, non dà mai indicazioni sul suo ritorno perché in quanto padrone non era tenuto a farlo. Infatti “…non sapete quando è il momento. È come un uomo che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vigilare. Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino; fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati. Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!” (Marco 13.33-37).

Queste ultime parole, che si adattano alla Chiesa, contengono comunque il tema comune del rendiconto e della necessità di non farsi trovare impreparati o addormentati, il che per noi può avvenire o con la morte, o con il Ritorno di Gesù, ma per i contemporanei di Nostro Signore si sarebbe dovuto verificare con il Suo riconoscimento attivo come Figlio di Dio ora finalmente rivelato, come il “Dio con noi”, quel “un bambino è nato per noi, un figlio di è stato dato” (Isaia 9.5) e, quindi, il dare a lui la parte del ricavato della vigna presentandogli un popolo preparato a riceverlo. Al contrario, quelli che allora avrebbero dovuto essere i pastori di Israele, fecero di tutto per tenere Gesù lontano da lui.

Nel caso di Israele, però, il tema dell’esazione di un raccolto è frequente perché, tutte le volte che Dio si aspettava un risultato tanto in fede quanto in opere, questo veniva a mancare e di qui il suscitare dei profeti perché andassero dai conduttori del popolo per rimproverarli e indicar loro la via per ristabilire il corretto rapporto con Lui. Ecco perché abbiamo letto che Dio chiede cos’altro avrebbe potuto fare perché la vigna prosperasse. Ora, per quanto riguarda i profeti, non dobbiamo pensare solo agli autori dei libri che portano il loro nome, ma anche a tutti quelli che furono uccisi proprio da coloro che, in quanto re e per relazione contadini nella vigna di Dio, avrebbero dovuto dare, figurativamente, quella parte del raccolto pattuita.

“Quando venne il tempo del raccolto – di cui abbiamo parlato – mandò i suoi servi dai contadini a ritirare il raccolto”: ad esempio Uria, figlio di Semaià, inviato al re Ioiakim, che a fronte dei suoi rimproveri inviò dei suoi uomini fino in Egitto per ucciderlo, facendo poi “gettare il suo cadavere nelle fosse della gente comune” (Geremia 26.23). Geremia stesso fu percosso e gettato in prigione dai capi e rinchiuso “in una cisterna sotterranea a volta e rimase là molti giorni” (37. 15,16); lo stesso profeta, poi, “fu calato in una cisterna di fango dove affondò” (38.6). Anche Zaccaria, lapidato “nel cortile del tempio del Signore” (2 Cronache 24.21).

Parlando degli uomini di Dio dell’Antico Patto, l’autore della lettera agli Ebrei scrive: “Altri, poi, furono torturati, non accettando la liberazione loro offerta, per ottenere una migliore resurrezione. Altri, infine, subirono insulti e flagelli, catene e prigionia. Furono lapidati, torturati, tagliati in due, furono uccisi di spada, bisognosi, tribolati, maltrattati (di loro il mondo non era degno), vaganti per i deserti, sui monti, tra le caverne e le spelonche della terra” (11.35-39).

Ebbene questa cronologia, che ripercorre la storia di Israele, riprende esattamente le parole di Gesù nella nostra parabola, quando al verso 36 leggiamo “Mandò di nuovo altri servi, più numerosi dei primi, ma li trattarono allo stesso modo”. Possiamo dire che Dio mandò i suoi profeti ininterrottamente, diciamo a partire da Mosè e proseguì fino a Giovanni Battista, per quanto vi sia un considerevole periodo di silenzio (400 anni circa) fra lui, ultimo dell’Antico Patto, e Malachia, ultimo libro in tutte le versioni cristiane.

Un forte elemento di riflessione, che poi si riferisce anche all’ultima possibilità che quegli uomini avevano di salvarsi, è quel “Da ultimo, mandò il proprio figlio, dicendo: «Avranno rispetto per mio figlio!”, frase che però troviamo più incisiva in Luca 20.13, “Che cosa devo fare? Manderò mio figlio, l’amato, forse avranno rispetto per lui”. Possono sembrare parole strane messe in bocca a un personaggio che rappresenta l’Iddio Onnisciente, ma se non avesse inviato suo figlio e non fosse stato ascoltato dalle guide del popolo e loro seguaci, non solo non avrebbe potuto salvare nessuno, ma nemmeno condannare. Quel “forse avranno rispetto per lui” doveva purtroppo trovare un rifiuto e un oltraggio ufficiale che si sarebbe concretato solo nel momento della crocifissione. Sarebbe stata poi la risurrezione a trionfare sul peccato, sulla morte, sulla sentenza ingiusta emessa su di Lui, e da lì fino a Satana e all’apertura dei cieli.

A leggere il testo fin qui della parabola, notiamo che c’è un crescendo di interventi del proprietario della vigna per arrivare a una soluzione pacifica coi contadini: prima manda dei servi, poi altri in numero maggiore, infine il proprio figlio, che viene inviato “da ultimo”, come estrema risorsa. E ancora una volta possiamo collegarci alla lettera agli Ebrei: “Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose mediante il quale ha fatto anche il mondo” (1.1,2).

Questo per noi, ma il “Da ultimo” nella parabola rappresenta il tentativo finale del proprietario della vigna per avere quanto gli spetta, che come significato spirituale identifichiamo nelle anime, nel frutto costituito da un popolo ordinato ed osservante grazie al lavoro di quei contadini che però, come già rilevato, anziché per il proprietario, avevano agito esclusivamente in funzione del loro guadagno.

L’aspettativa espressa dalle parole “Avranno rispetto per mio figlio” esprime le due realtà: i contadini avrebbero dovuto riconoscere chi si presentava a loro e dargli quanto dovuto, i capi del popolo paradossalmente fanno altrettanto e coscientemente, come quei lavoratori, stabiliscono di ucciderlo. “Costui è l’erede”. In questa frase, in questo rapporto fra simbolo e riferimento, tutto lascia supporre che farisei, scribi e capi dei sacerdoti sapessero in realtà che Gesù era quello che diceva di essere. Del resto, furono loro a dire ad Erode il Grande che il Re dei Giudei avrebbe dovuto nascere da Bethlehem di Giuda. Proprio nelle prime riflessioni avevamo visto che tutto era stato organizzato da Dio, proprio come per la vigna, perché chiunque investigasse le scritture e nella vita di Gesù potesse trovare conferme al fatto che Lui fosse l’Emmanuele, così come Giovanni Battista il Suo precursore. Preferirono giustificarsi con un ipocrita “Non lo sappiamo” e identificarsi con i contadini omicidi che “lo presero, lo cacciarono fuori dalla vigna – nel quale come Gesù era entrato – e lo uccisero” parole che, per il tempo in cui furono pronunciate, contengono un’altra profezia della Sua morte, che avvenne appunto fuori da Gerusalemme.

Ricordando le parole di Salmo 2. 2,3, esiste una volontà precisa di persone consapevoli di combattere contro Dio e illuse di vincere: “Insorgono i re della terra e i prìncipi congiurano insieme contro il Signore e il suo consacrato: «Spezziamo le loro catene, gettiamo via da noi il loro giogo!»”, quello leggero e non opprimente, squalificante e mortale come quello del peccato. E a proposito di questo verso Atti 4. 27,20 riprenderà “davvero in questa città Erode e Ponzio Pilato, con le nazioni e i popoli d’Israele, si sono alleati contro il tuo santo servo Gesù, che tu hai consacrato, per compiere ciò che la tua mano e la tua volontà avevano deciso che ciò avvenisse”.

L’invio del Figlio, quindi, rappresentò per il Signore Dio l’ultima possibilità per quei contadini di mantenere i rapporti secondo la logica del contratto, ma, nel loro tentativo di usurpare il Suo diritto in quanto padrone, suscitarono davvero la Sua ira. Amen.

* * * * *

16.15 – LA PARABOLA DEI DUE FIGLI (Matteo 21.28-32)


16.15 – La parabola dei due figli (Matteo 21. 28-32)

 

28«Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: «Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna». 29Ed egli rispose: «Non ne ho voglia». Ma poi si pentì e vi andò. 30Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: «Sì, signore». Ma non vi andò. 31Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Risposero: «Il primo». E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. 32Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli.

 

            Si tratta di una parabola riferita dal solo Matteo, ma che seguì immediatamente le parole di Gesù “Neppure io vi dico con quale autorità faccio queste cose” (21.27), risposta che tutti, detrattori, discepoli o incerti avevano ascoltato. Allo stesso modo, anche i “due figli” qui raffigurati rappresentano, come vedremo, le categorie presenti nel cortile dei Gentili, gli uditori di Gesù e quelli che avevano già stabilito di ucciderLo.

Una delle chiavi di lettura dell’episodio è proprio nelle prime quattro parole, “Che ve ne pare?”, che costituiscono una domanda che Gesù rivolge ai suoi inquisitori (e all’uditorio fuori dal portico) alla quale non avranno difficoltà a rispondere, rivelando la loro posizione spirituale e l’evidente rifiuto al messaggio che Dio aveva dato al popolo tramite Giovanni Battista.

La vigna è il luogo di lavoro in cui il padre vuole mandare i due figli: non sono operai pagati, ma persone che di quel terreno fanno parte e un giorno avrebbero ereditato.

La vite è una pianta che richiede molta cura fin dall’inizio in quanto, crescendo, non riesce a sostenersi da sola, ma ha bisogno di arrampicarsi su dei supporti. Quando si prende il terreno per piantarla occorre sia chimicamente adatto, organizzare i filari, studiare il modo di disporre le piante in base al tipo di territorio; va poi concimata, innaffiata, potata in inverno sapendo quando per evitare le gelate e farlo con accuratezza perché se si lasciamo molte gemme l’uva avrà un basso potere zuccherino; poi anche d’estate vanno eliminati i germogli che non portano frutto, asportati i loro apici, eliminate le foglie a contatto con i grappoli e, infine, c’è la vendemmia.

C’è un testo che riporta “Figlio, va’ a lavorare oggi nella mia vigna” e credo che il possessivo sia importante, che permetta a chi legge o ascolta di avere già l’idea del distinguo che viene fatto nel senso che terreno e piante appartengono al padre anche se desidera che, con lui tutti, i due figli possano godere un giorno del frutto del loro lavoro. Abbiamo poi “oggi”, che indica una volontà precisa da parte di quell’uomo, conoscitore dei tempi e dei momenti per intervenire.

Lavorare nella vigna quindi non è qualcosa che si possa fare per passatempo, ma richiede impegno perché, nel linguaggio parabolico, è figura del regno di Dio o di quanto a lui collegato. Bene, esaminiamo ora il comportamento del primo figlio, che alla richiesta rivoltagli risponde negativamente: non ne ha voglia, preferisce occuparsi di altro, sue faccende che lo interessano sicuramente di più perché impegnarsi per qualcuno o qualcosa è sempre meno attraente che farlo per se stessi. Eppure, dopo un tempo che non possiamo quantificare, ma sempre nell’arco della giornata, “si pentì e vi andò” pensiamo non svogliatamente, ma dopo una riflessione: non riteneva giusto né non lavorare, né fare torto al proprio padre.

Quindi, il primo figlio ripensa al suo comportamento, alla risposta data e si pente, parola greca metameletheìs che sta a indicare un cambio nei sentimenti e nel comportamento, la stessa impiegata per indicare l’agire di coloro che accorrevano a Giovanni Battista per farsi battezzare obbedendo a un impulso interiore dato da quel pentimento che la Legge di Mosè, quanto al cerimoniale, non richiedeva. Chi sbagliava di certo pagava, ma col sacrificio anche se il pentimento sicuramente poneva il peccatore su un piano ben diverso dal mero assolvimento della forma. Sappiamo che l’immedesimazione nell’attesa del Messia provocava un pentimento che si concretava nella confessione pubblica dei peccati a riprova della loro volontà di immedesimarsi, di voler rientrare nel piano di Dio che veniva loro annunciato, “Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino” (3.2).

Il secondo figlio, invece, animato dagli stessi intenti del primo, cioè vivere di rendita o occuparsi della vigna saltuariamente, non rifiuta apparentemente l’ordine, anzi la versione greca dell’episodio ha un impianto particolare perché questo non dice “Sì, signore”, ma “Io, signore”, che pare molto più ipocrita di una semplice riposta affermativa: “Io” sono quello che ci va, “Io” sono quello che risponde subito e fa ciò che tu vuoi. È un “Io“ enfatico che ci porta direi immediatamente all’ “Io” di quel fariseo che, pregando nel Tempio al confine tra il cortile degli uomini e quello dei sacerdoti, ringraziava Dio perché non era “come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri e neppure come questo pubblicano. Io digiuno due volte la settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo” (Luca 18.11,12).

Questa persona, quindi, con il suo “Io, signore” è convinta di avere la benevolenza del padre solo per aver risposto così, non preoccupandosi minimamente del fatto che certo il suo genitore avrebbe saputo che nella vigna non vi era andato. Per questa persona fare quello che voleva il proprio padre non era importante, ma l’unica cosa cui teneva era continuare a fare i propri comodi mantenendo la veste di figlio ubbidiente e prediletto. Anche qui c’è un altro verso, riferito agli scribi e farisei, “Osservate – che non è un imperativo, ma la descrizione del presente –  tutto ciò che vi dicono, ma non agite – questo sì che è un invito –  secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno” (Matteo 23.2).

Quante persone conosciamo che, magari da noi interpellate in un momento di bisogno, danno la loro disponibilità salvo poi non farsi più sentire o trovare? Ne ho conosciute molte, e da quelle mi sono allontanato non perché permaloso o ritenga la mia persona importante, ma in quanto con l’ipocrita non è possibile alcun rapporto costruttivo, anzi è solo fautore di negatività e come tale contaminante. E la disponibilità negata è più sincera di quella data prontamente, ma che poi scompare.

Ora a questo punto la domanda di Gesù fu “«Quale dei due fece il volere del padre?» ed essi risposero: «Il primo»”. Fu un interrogativo ben diverso da quello sul Battista, di fronte al quale farisei, capi dei sacerdoti e scribi non potevano rispondere senza autoaccusarsi, e la risposta venne fuori immediata, quasi senza pensarci sopra, non calcolando che conteneva una soluzione semplice a quanto chiesto prima: chi aveva risposto all’appello di Giovanni Battista? Gesù non parla – ad esempio – dei soldati o delle persone semplici tra il popolo che si erano fatti battezzare, ma della detestata categoria dei “pubblicani e prostitute (che) gli hanno creduto”. E attenzione perché a parlare di “prostitute” è Gesù, che conosce i cuori e le azioni occulte degli esseri umani.

In altri termini, “pubblicani e prostitute”, nel loro essere così lontani dal comportarsi come richiesto dalla Legge e dai farisei, arrivati al punto del richiamo con un messaggio di ravvedimento perché stava per arrivare uno ben più che profeta, furono sensibili e andarono a lavorare nella vigna facendo il primo passo, cioè credere al messaggio loro proposto e “pentirsi” esattamente come aveva fatto il primo figlio del proprietario di quel terreno. Anche il pentimento di quelli – che fu un ripensare alle azioni commesse e trovarsi in difetto – non è che sconvolgesse le loro coscienze, ma era quello che bastava, né più né meno, per fare, agire secondo ciò che chiedeva Dio in quel momento. Le prostitute smisero di fare il loro mestiere e i pubblicani di frodare il loro prossimo facendo la cresta sulle tasse per il governo di Roma, accontentandosi della loro percentuale.

Per quelli c’era il battesimo del ravvedimento in attesa della venuta di Gesù al quale poi sarebbe seguito l’ascoltarlo e accoglierlo per determinare il proprio destino spirituale. Per questo “vanno innanzi a voi nel regno dei cieli”, cioè vi precedono, quando voi non vi ponete il problema perché vi ritenete già nel giusto, date per scontato che ciò che fate è santo e per il bene del popolo ma, non guardando mai dentro voi stessi, non vi accorgete che pubblicani e prostitute entrano per la porta stretta, mentre voi rimarrete fuori.

“Giovanni venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto”: Gesù risponde per loro alla domanda esaminata nella riflessione precedente: non era accettabile il loro “non lo sappiamo” perché non era vero, erano andati ad ascoltarlo per spiarlo, addirittura tramite i loro inviati da Gerusalemme gli avevano chiesto chi fosse e disse “Io sono voce di uno che grida nel deserto: rendete diritta la via del Signore, come disse il profeta Isaia” (Giovanni 1.22). Furono parole dalle quali, con tutta la loro scienza nelle scritture, non riuscirono a trarre alcun insegnamento, a differenza dei pubblicani e delle prostitute che non ci misero molto ad abbandonare un modo di vivere come se Dio non li vedesse, non esistesse.

Quindi, anziché “non lo sappiamo”, la vera risposta avrebbe dovuto essere “non abbiamo voluto credere”. Con “Non lo sappiamo” si intende che non volevano entrare nel merito, si dichiaravano a distanza perché, se così non fosse stato, avrebbero dovuto credergli e rinunciare a tutto il loro orgoglio, umiliarsi facendosi battezzare in mezzo a tanti testimoni, mostrarsi come qualunque altro israelita che si riconosceva peccatore e quindi rinunciava alla sua rispettabilità. E come avrebbero potuto fare una cosa del genere gli scribi e farisei, se si ritenevano superiori a tal punto da dire “Questa gente che non conosce la legge è maledetta”? (Giovanni 7.49).

“Giovanni venne a voi sulla via della giustizia”. Ce n’è una sola, non tante, e la giustizia è cercata da chi non l’ha o scopre di possederne una di quelle che, come un vestito che nulla copre, gli uomini amano indossare. I farisei, gli scribi e i sommi sacerdoti lì presenti, a quella giustizia furono insensibili, anzi, poiché alla luce delle investigazioni da loro fatte non emersero degli elementi per condannare Giovanni; lo lasciarono fare, ma si guardarono bene dal considerare che, se la “via della giustizia” era quella praticata da lui, non poteva essere la loro. Amen.

* * * * *

 

16.14 – L’AUTORITÀ DI GESÙ CONTESTATA (Marco 11-27-33)

16.14 – L’autorità di Gesù contestata (Marco 11. 27-33)

 

27Andarono di nuovo a Gerusalemme. E, mentre egli camminava nel tempio, vennero da lui i capi dei sacerdoti e gli anziani 28e gli dissero: «Con quale autorità fai queste cose? O chi ti ha dato l’autorità di farle?». 29Ma Gesù disse loro: «Vi farò una sola domanda. Se mi rispondete, vi dirò con quale autorità faccio questo. 30Il battesimo di Giovanni veniva dal cielo o dagli uomini? Rispondetemi». 31Essi discutevano fra loro dicendo: «Se diciamo: «Dal cielo», risponderà: «Perché allora non gli avete creduto?». 32Diciamo dunque: «Dagli uomini»?». Ma temevano la folla, perché tutti ritenevano che Giovanni fosse veramente un profeta. 33Rispondendo a Gesù dissero: «Non lo sappiamo». E Gesù disse loro: «Neanche io vi dico con quale autorità faccio queste cose».

 

            Commentato l’episodio del fico trovato seccato il giorno seguente e l’insegnamento sulla preghiera, Gesù entrò nel tempio e – particolare riferito solo da Matteo – si mise a insegnare. Il luogo era come sappiamo un grandissimo atrio (o cortile) detto “dei gentili”, posto di convegno abituale sia per gli abitanti di Gerusalemme che per chi era di passaggio. I gentili vi andavano per concludere i loro affari e i giudei per ascoltare le lezioni dei Dottori della Legge e le dissertazioni coi loro discepoli. Era diventato, come sappiamo, purtroppo anche un luogo di mercato, fraintendendo (e oltraggiando) il significato stesso del Tempio, che con tutte le sue suddivisioni in zone partiva dalla dimora di Dio nel luogo santissimo fino al cortile dei pagani. Il Tempio non era un luogo aperto, ma recintato e quindi conteneva quell’insegnamento spirituale secondo cui nei progetti del Creatore rientravano tutti gli esseri umani che si sarebbero disposti verso di Lui, ma non i loro interessi carnali.

A questo punto va considerato il comportamento di coloro che si avvicinarono a Gesù, mentre “passeggiava” insegnando, cioè probabilmente stando sotto i portici che ne potevano amplificare la voce. Ora, se prendiamo le tre narrazioni dell’episodio di cui disponiamo, ai “capi dei sacerdoti e gli anziani” Luca aggiunge “gli scribi”, quindi la rappresentanza di tutte le classi del Sinedrio tranne i Sadducei, non citati espressamente, ma qui compresi perché l’aristocrazia giudaica lo era. Il Maestro viene quindi raggiunto da queste persone che rappresentavano il supremo organo religioso della Nazione, con potere di approvare o disapprovare ufficialmente il suo operato.

Sappiamo che l’astio profondo che provavano nei confronti di Gesù era trattenuto dal timore della folla che lo seguiva e che aspettavano il momento migliore per arrestarlo, ma non rinunciavano a tentativi per poterLo mettere in difficoltà consci del fatto che, se vi fossero riusciti, l’imbarazzo da Lui eventualmente provato avrebbe potuto incrinare la fama che aveva agli occhi del popolo.

Le domande che gli rivolsero, “Con quale autorità fai queste cose? O chi ti ha dato l’autorità di farle?”, denotano infatti tutto il loro contenuto inquisitorio. Se ci chiedessimo quali fossero le “cose” a cui quelli si riferissero, penso dovremmo identificarle negli episodi più recenti: il Suo ingresso trionfale in Gerusalemme senza reprimere le acclamazioni di giubilo dei suoi discepoli e del popolo in genere, la cacciata dei mercanti dal Tempio che nessuno aveva mai fatto prima, oltre ai Suoi  insegnamenti e  tutti gli episodi che avvennero in quel cortile, come ad esempio il perdóno della donna adultera. In merito a quest’ultimo episodio, quel perdóno era stato implicitamente già ammesso da tutti coloro che, dai più anziani fino ai più giovani, se ne andarono lasciandola sola con Gesù che proprio nel Tempio, politicamente parlando territorio del Sinedrio, aveva più di chiunque altro diritto a stare, quale Figlio di Dio. Se si deve quindi parlare di “intrusi”, questi erano proprio coloro che Gli chiedevano con quale autorità facesse quelle cose.

Ecco allora che, se pensiamo a tutte le volte che Nostro Signore si scontrò dottrinalmente con gli scribi, i capi dei sacerdoti, i farisei e i dottori della legge, abbiamo qui il Suo primo conflitto diretto con le autorità di Israele perché si recano da lui organizzàti, praticamente come una delegazione ufficiale sinedrita che non lo convoca, ma va da Lui con lo scopo preciso di costringerlo a una risposta. Sarebbe inutile ipotizzare che, pensando a tutto quanto Gesù aveva fatto nei suoi tre anni circa di ministero, quei personaggi avrebbero potuto darsi una risposta da soli, ma questo non avvenne perché la loro posizione era contro di Lui, non certo a favore.

C’è infatti una polemica che può sorgere da un istintivo, naturale voler difendere le proprie convinzioni e ve n’è un’altra che invece proviene semplicemente da una forza avversa, da un resistere aprioristico, come avvenne ad esempio con Mosè che, quando intervenne in una lite violenta fra due ebrei, si sentì rispondere da chi era in torto “Chi ti ha costituito capo e giudice su di noi?” (Esodo 2.14); commentando l’episodio, Stefano disse “Egli pensava che i suoi fratelli avrebbero compreso che Dio dava loro salvezza per mezzo suo, ma essi non compresero” certo non perché lenti a capire, ma in quanto non volevano perché, nonostante fossero schiavi e quindi in una condizione umiliante, avevano comunque da mangiare. Ecco perché l’uomo in genere preferisce la tranquilla schiavitù del peccato alla libertà in Cristo, di una personalità che su di Lui si costruisce, si basa e vive.

Ricordiamo anche la domanda rivolta, sempre dal Sinedrio, a Pietro e Giovanni che avevano guarito uno storpio e insegnato nel Tempio, “Con quale potere e in quale nome avete fatto questo?” (Atti 7:27): non sono domande che provengono dall’interno profondo della persona, sintomo del voler trovare una risposta da parte di un cuore che vuole capire, ma di una mente chiusa nel proprio voler esistere prestabilito, del vivere polemico, dell’arroccarsi su posizioni dove l’importante non è se le risposte siano giuste o sbagliate in base alla Verità, ma che provengano da una persona o da un gruppo approvato, simile, consociato. E purtroppo questo avviene anche nel cristianesimo con fazioni, correnti, in cui alla serenità necessaria per affrontare problemi, spesso di poco conto, si ergono muri che vengono sempre di più consolidati. E così abbiamo la zizzania nel campo di grano.

 

La domanda dei rappresentanti del Sinedrio conteneva una trappola importante, perché se Gesù avesse risposto, come si potevano aspettare e come aveva già detto altre volte, che la Sua autorità proveniva da Dio col quale era un tutt’uno, avrebbe potuto essere accusato di bestemmia, come avvenne quando disse al paralitico “Ti sono rimessi i tuoi peccati” (Matteo 9.3) oppure, più avanti, quando alla domanda del sommo sacerdote “«Sei tu il Cristo, il figlio del Benedetto?», Gesù rispose: «Io lo sono! E vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi nel cielo». Allora il sommo sacerdote, stracciandosi le vesti, disse: «Che bisogno abbiamo ancora di testimoni? Avete udito la bestemmia, che vene pare?». Tutti sentenziarono che era reo di morte” (Marco 14. 61-64).

Le domande che vengono rivolte a Gesù, oltre all’intento chiaramente inquisitorio, rivelano la completa assenza di rispetto nei Suoi confronti perché gliele pongono “mentre insegnava”, dimostrandogli tutto il loro disprezzo, quasi che la loro fosse un’operazione di polizia volta a interrompere una riunione non autorizzata.

Prima di esaminare il Suo comportamento, che non sarà quello di rispondere a una domanda con un’altra come potrebbe sembrare, notiamo che Gesù seppe riconoscere immediatamente lo scopo di quell’intervento sia perché onnisciente, ma anche perché prudente, avveduto e soprattutto si chiese la ragione per cui gli ponessero quell’interrogativo. In altre parole non fu distratto e non cadde nella trappola che gli avevano teso. Tema già proposto in un’altra riflessione: se quando prendiamo atto di un certo tipo di comportamento o di domande nei nostri confronti ce ne domandassimo sempre la ragione, sono convinto ci risparmieremmo molte situazioni che si riveleranno poi penose unicamente per la nostra imprudenza. È la catena dei “perché?” che non viene seguita. La vera lettura (quindi analisi) dei comportamenti e delle parole che gli altri ci rivolgono è infatti suggerita nella Scrittura e si può citare l’invito a provare “gli spiriti per vedere se sono da Dio” (1 Giovanni 4.1), cioè sostituire l’approssimazione all’avvedutezza spirituale per non cadere nelle trappole dell’avversario.

Andando alle origini, se Eva si fosse chiesta la ragione per cui il serpente le rivolgeva la parola e avesse tenuto presente che, come essere superiore, non avrebbe dovuto consentirgli un’apertura del genere e un dialogo alla pari, non sarebbe caduta né avrebbe messo Adamo nelle condizioni di peccare. Non è quindi possibile porsi sullo stesso piano di chi non appartiene all’universo, all’àmbito della Grazia di Dio; se lo facciamo, finiremo per pagarne le conseguenze.

Ora veniamo al comportamento di Gesù che non è una tattica per evitare di rispondere, ma un metodo ritenuto normale nelle discussioni fra Dottori della Legge che consisteva, per trovare un punto comune di discussione, di rispondere facendo a propria volta un’interrogazione all’altro. Chi ha letto il Talmud, può testimoniare delle trattazioni lunghissime fatte di domande su domande e di risposte che ne generano di altre fino ad arrivare spesso, come si dice, a spaccare un capello in quattro per poi “filtrare il moscerino e ingoiare il cammello”.

Ora Nostro Signore chiede a quelle persone di pronunciarsi in merito al battesimo di Giovanni Battista, quello di ravvedimento di cui erano stati testimoni, ma al quale non avevano partecipato, anzi, che controllavano di persona (Matteo 3.6) perché “Accorrevano a lui tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme. E si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati”, che mai quei maggiorenti del popolo avrebbero confessato. Ricordiamo infatti le parole “Tutto il popolo che lo ascoltava, e anche i pubblicani, ricevendo il battesimo di Giovanni, hanno riconosciuto che Dio è giusto. Ma i farisei e i dottori della Legge, non facendosi battezzare da lui, hanno reso vano il disegno di Dio su di loro” (Luca 7.29,30). Ecco la colpa che torna indietro, ecco che gli interrogati da Gesù si ritrovano a fare i conti col loro passato. È il peccato che ritrova il peccatore.

La trappola quindi che i Giudei avrebbero voluto tendere a Gesù, si ritorce contro di loro perché, dietro loro stessa ammissione, se dichiaravano che il battesimo di Giovanni veniva da Dio, avrebbero dovuto spiegare la ragione per cui non gli credettero; viceversa, dichiarando la sua provenienza umana, il popolo avrebbe loro dato contro, perché “Tutti ritenevano che Giovanni fosse veramente un profeta”, come effettivamente era. Gli umili, i semplici, gli ultimi, erano arrivati là dove i “sapienti” secondo questo mondo si erano tenuti distanti. La sapienza religiosa, quindi, è inutile.

È importante sottolineare però che la domanda posta da Gesù andava in realtà oltre al fatto che quelli, per avere una Sua risposta, avrebbero dovuto replicare a quanto Lui chiedeva, perché coinvolgeva profondamente il destino spirituale di quelle persone: se Giovanni era un profeta mandato come lo spesso citato Elia, tanto il suo battesimo quanto più il suo Ufficio di precursore del Cristo avrebbero dovuto essere seguiti, compreso l’aderire a Lui. Rispondendo quindi che l’autorità di Giovanni proveniva da Dio, sarebbero stati costretti a riconoscere quella di Gesù, ma chiaramente non vollero e scelsero la risposta più indolore, “non lo sappiamo”, anche a costo di rendere inefficace il loro intervento.

Così finisce la questione e quel “non lo sappiamo” rimase lì, senza aver risolto nulla: il problema infatti non era tanto se quel battesimo venisse da Dio o dagli uomini, ma che Gesù andasse combattuto con ogni mezzo in quella frenesia omicida che caratterizzerà il Sinedrio sempre di più. Quell’organo giuridico che avrebbe dovuto essere di guida per il popolo verso la salvezza che veniva offerta, intraprenderà una condotta verso un suicidio di massa, rifiutando a priori la persona e l’opera del Figlio di Dio. Amen.

* * * * *