16.13 – IL FICO SECCATO (Marco 11.20-26)

16.13 – Il fico seccato (Marco 11. 20-26)

 

20La mattina seguente, passando, videro l’albero di fichi seccato fin dalle radici. 21Pietro si ricordò e gli disse: «Maestro, guarda: l’albero di fichi che hai maledetto è seccato». 22Rispose loro Gesù: «Abbiate fede in Dio! 23In verità io vi dico: se uno dicesse a questo monte: «Lèvati e gèttati nel mare», senza dubitare in cuor suo, ma credendo che quanto dice avviene, ciò gli avverrà. 24Per questo vi dico: tutto quello che chiederete nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto e vi accadrà. 25Quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro qualcuno, perdonate, perché anche il Padre vostro che è nei cieli perdoni a voi le vostre colpe. 26Ma, se voi non perdonate, il Padre vostro non vi perdonerà le vostre colpe».

 

            Il primo episodio del martedì della Passione inizia come il precedente, con l’incontro con il fico ormai completamente seccato: Gesù e i discepoli escono da Betania e passano nei pressi dell’albero ma, così come lo avevano trovato rigoglioso il giorno prima, ora lo vedono spoglio, “seccato fin dalle radici”, cosa che per avvenire in natura richiede molto tempo. Questo è ciò che intende dire Matteo al riguardo, che riporta “…e subito l’albero si seccò. Vedendo ciò, i discepoli rimasero stupiti e dissero: «Come mai l’albero di fichi si è seccato in un istante?» (21.19,20). Come tutti gli altri miracoli, quindi, anche questo fu tempestivo; i discepoli poterono constatare che ancora una volta la parola di Gesù si era rivelata non solo efficace, ma anche immediata perché, come così furono le sue guarigioni, tale fu (e saranno) la sua sentenza/e, come insegna questo episodio. In pratica, Matteo pone l’accento sul fatto che i primi effetti della maledizione iniziarono subito a vedersi (penso ad esempio alle foglie che iniziarono ad avvizzirsi) e Marco ci descrive ciò che avvenne dopo ventiquattro ore.

È probabile che, nella memoria dei discepoli, fosse ancora presente la parabola del fico sterile e le parole del vignaiolo “Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato intorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire, se no, lo taglierai” (Luca 6.8,9), per cui si stupirono di vedere gli effetti del disseccamento della pianta, alla luce anche di quelle parole; constatarono così gli effetti del “taglio” su entrambe le piante, figura dell’uomo che viene trovato privo di frutti.

La vista di un albero seccato è desolante sia per il colore e l’aspetto che assume, sia per il ricordo di come si presentava, con fronte rigogliose, forte, dando riparo ad animali e nutrendo insetti quando in fiore; come per l’uomo quando cessa di esistere nel corpo, ne resta solo un involucro inanimato, vuoto, e un ricordo destinato a perdersi nel tempo.

Venendo alla risposta di Gesù al verso 22, notiamo che non vi è un commento all’osservazione di Pietro, ma dice “Abbiate fede in Dio!”, come se quanto avvenuto al fico non dovesse riguardarli perché il contesto in cui erano chiamati a vivere era totalmente diverso: non solo non era ancora giunto il tempo per cui il Maestro venisse a chiedere loro un frutto, ma dovevano imparare a dipendere da Lui per ogni cosa, il che avevano già messo in pratica quando furono mandati in missione e anche nel seguirlo, dopo aver rinunciato alla loro vita di prima, quando si sostenevano con la loro professione e non con la cassa comune tenuta da Giuda.

Quello che Gesù chiede ai Dodici, e per riflesso a tutti i credenti dopo di loro, non è di vivere sperando di essere aiutati o di sapere che per qualunque cosa avranno un aiuto dal Padre, ma di strutturarsi, radicarsi su e in Lui. Nello specifico, qui la fede è quella nella potenza di Dio e nelle Sue promesse, grazie alle quali gli Apostoli avrebbero potuto fare miracoli. La “fede in Dio” è quella dell’appartenenza a Lui grazie all’annullamento della distanza che il peccato aveva stabilito tra Creatore e creatura, non certo autoconvincimento o una generica speranza di miglioramento delle situazioni penose che possiamo trovarci a vivere. Alla luce delle parole di Gesù, quindi, un cristiano può dire di avere fede in Dio quando le proprie radici affondano in Lui e da Lui traggono nutrimento, di modo che non può non portare frutto, pena essere come quel fico di cui ne condividerà la sorte. E il fico del nostro episodio è figura dell’uomo che occupa arbitrariamente un posto rubando il nutrimento agli altri.

Ogni volta che un cristiano prega, ha accesso al Trono della Grazia: è ricevuto, benvenuto e accolto in quanto figlio di Dio perché “…abbiamo la libertà di accedere a Dio in piena fiducia mediante la fede in lui” (Efesi 3.12). Senza questo, la fede non avrebbe senso. Ricordiamo che Pietro, se avesse esercitato la fede proveniente dall’appartenenza al suo Maestro, non sarebbe sprofondato nelle acque del Lago di Galilea, cosa che all’inizio non fece, e le parole “Uomo di poca fede, perché hai dubitato?” misero in rilievo tutta la sua inadeguatezza, così come per riflesso la nostra ogni volta che ci troviamo mancanti essendo nel dubbio, nel forse, dimenticando le parole riguardo alla fede e tutti gli inviti ad esercitarla che ci sono stati rivolti. La domanda posta a Pietro credo sia la stessa che viene data ad ognuno di noi quando registriamo un fallimento e alla quale siamo chiamati a dare una risposta perché possiamo rimediare agli inconvenienti che noi stessi ci procuriamo, “Perché?”.

Siamo ora giunti a un punto impegnativo, e cioè “In verità io vi dico”: a chi? L’esempio del monte spostato non compare solo qui ed è un concetto che Gesù, come tanti altri, ripeté più volte, ma in questo caso agli apostoli e non ai molti discepoli né alla folla, questo perché loro erano i primi a dover comprendere quel concetto così importante e basilare della vita in Cristo e, se la hanno trasmessa, è perché riguarda tutti coloro che avrebbero creduto. La citazione del monte, in particolare, avvenne nell’episodio in cui i dodici non riuscirono a guarire un ragazzo epilettico in cui il commento di Nostro Signore fu “Per la vostra poca fede. In verità io vi dico: se avrete fede pari a un granello di senape, direte a questo monte: «Spostati da qui a là», ed egli si sposterà, e nulla vi sarà impossibile” (17.20).

Da sottolineare poi, come dimostrato dall’episodio del fico seccato, che tanto le parole pronunciate in quel contesto quanto nel nostro non possono contenere esagerazioni: tutto quanto detto da Gesù è e fu verità, altrimenti la maledizione al fico non si sarebbe realizzata per cui sì, il detto secondo cui la fede sposta anche le montagne è assolutamente reale, anche se dobbiamo chiederci di quali monti si tratti perché nessuno, letteralmente parlando, ne spostò.

Ecco allora che se prendiamo il “monte” come quel rilievo più o meno elevato che conosciamo, più o meno imponente, abbiamo una visione, ma se lo prendiamo come ostacolo difficile da superare o apparentemente impossibile da, il senso prospettato da Gesù cambia. Ha scritto un commentatore della metà ‘800: “L’età dei miracoli fisici è passata e Dio non dà più la fede che si richiede ad operarli – il che mi trova d’accordo in parte –; ma quella fede che toglie di mezzo ogni montagna di separazione fra Cristo e il peccatore, e che fa trionfare il credente da ogni difficoltà, Lui ha promesso di accordarla”.

Credo quindi nei miracoli riportati nei Vangeli, meno in quelli che avvengono anche oggi, ma tanto io che ogni vero cristiano può testimoniare di quelli verificatisi dentro di lui. Penso che venga richiesto a ciascun figlio di Dio di effettuare un percorso che è lo stesso di Pietro sulla barca, fatte salve le distanze dovute al fatto che, allora, non aveva ancora ricevuto, come gli altri, lo Spirito Santo.

“Senza dubitare in cuor suo, ma credendo che quanto dice avviene, ciò gli avverrà” non sono le istruzioni per spostare il monte, ma il termometro della fede: sappiamo già che non si tratta di autoconvincimento, ma di autoesame. Se dubito, sono chiamato a ricercarne le ragioni, eventualmente facendo un percorso per cercare dove e su cosa ho certezze incrollabili e dove invece inizio a vacillare e proprio su quei punti lavorare. È un’auto analisi che dovremmo mettere in pratica sempre, uscendo anche da noi stessi per osservarci come faremmo con un estraneo.

Il tema della preghiera fu uno dei primi affrontati da Gesù nel Suo Ministero e così leggiamo nel sermone sul monte riguardo alle sue risposte: “Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto”. E ora viene un paragone che getta luce totale sul tema: “Chi di voi, al figlio che gli chiede un pane, darà una pietra? E se gli chiede un pesce, gli darà una serpe? Se voi, dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele chiedono!” (Matteo 7.7-12).

Ricordiamo la preghiera comunitaria: “In verità, in verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. Perché dove sono riuniti due o tre nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro” (18.19,20). Nel caso della preghiera della Chiesa, come per tutte le altre, vale la responsabilità del chiedere correttamente, proporzionalmente alla presenza del Cristo in mezzo ad essa, perché rivolgersi a Dio con lo Spirito non può escludere l’intelligenza, pena il non ottenimento di quanto chiesto.

Il non dubitare è ribadito anche da Giacomo, “fratello del Signore”: “Se qualcuno di voi è privo di sapienza, la domandi a Dio, che dona a tutti con semplicità e senza condizioni, e gli sarà data. La domandi però con fede, senza esitare, perché chi esita somiglia all’onda del mare, mossa e agitata dal vento. Un uomo così non pensi di ricevere qualcosa dal Signore: è un indeciso, instabile in tutte le sue azioni” (1.5.6).

Per finire, l’apostolo Giovanni nella sua prima lettera: “Questa è la fiducia che abbiamo in lui: qualunque cosa gli chiediamo secondo la sua volontà – ecco la condizione – egli ci ascolta. E se sappiamo che ci ascolta in tutto quello che gli chiediamo, sappiamo di avere già da lui quanto abbiamo chiesto” (5.14,15). Ecco data la spiegazione alle parole di Gesù “abbiate fede di averlo ottenuto e vi accadrà”.

Ora va fatta una breve sosta su ciò che comportano i termini “preghiera” e “meditazione” (per quanto qui non citato), che della prima è un aspetto. Purtroppo viviamo in un’epoca figlia di molte altre che, in una progressione dissestante, ne ha mutato, stravolto e generalizzato il significato. Da incontro e dialogo con Dio, da estrazione di tesori spirituali, da indagine profonda su ciò che ci muove o ci ha mosso, da ascolto, si è trasformata in esperienza fondamentalmente egoistica, qualcosa che soddisfa fondamentalmente la carne intesa come tutto quanto serve il sentimento. Capita cioè spesso anche nelle varie denominazioni che le persone recitino una parte concretando così la nota frase di Dio “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me”. Praticare il Vangelo, infatti, non è qualcosa di statico, ma di estremamente dinamico e se ciò non avviene dentro la persona ecco che allora cerca uno stato mentale che soddisfi la sua psicologia: si frequentano funzioni più o meno coreografiche, più o meno ricche di effetti e ci si crogiola in uno spazio mentale in cui partecipano tante persone, ma ciascuna è isolata dalle altre, ciascuna alla ricerca della propria soddisfazione.

Nel nostro passo, invece, Gesù si preoccupa di raffigurare non persone disgiunte dalle altre, ma profondamente, reciprocamente partecipi perché, se si è figli di Dio, non è possibile avere un comportamento oscuro o incoerente: “Quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro qualcuno, perdonate, perché anche il Padre vostro che è nei cieli perdoni le vostre colpe” (v.25); è infatti inammissibile che non venga fatto a noi così come noi facciamo ad altri e che noi non perdoniamo quando c’è pentimento da parte di colui o colei che ha fatto qualcosa nei nostri riguardi. E le contraddizioni del nostro agire in tal senso sono destinate ad emergere proprio quando ci accostiamo a Dio per pregare.

Potrei qui ricordare, per concludere, i frutti dello Spirito secondo l’apostolo Paolo e l’eccellenza della carità su tutti i doni, ma preferisco citare ancora una volta Giacomo: “Parlate e agite come persone che devono essere giudicate secondo una legge di libertà, perché il giudizio sarà senza misericordia contro chi non avrà avuto misericordia. La misericordia ha sempre la meglio sul giudizio” (2.12,13). Saremo trattati e accolti, infatti, così come avremo trattato gli altri e avremo regolato i nostri rapporti con loro. Amen.

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16.12 – CHI CREDE IN ME (Giovanni 12.44-50)


16.12 – Chi crede in me (Giovanni 12. 44-50)

 

44Gesù allora esclamò: «Chi crede in me, non crede in me ma in colui che mi ha mandato; 45chi vede me, vede colui che mi ha mandato. 46Io sono venuto nel mondo come luce, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre. 47Se qualcuno ascolta le mie parole e non le osserva, io non lo condanno; perché non sono venuto per condannare il mondo, ma per salvare il mondo. 48Chi mi rifiuta e non accoglie le mie parole, ha chi lo condanna: la parola che ho detto lo condannerà nell’ultimo giorno. 49Perché io non ho parlato da me stesso, ma il Padre, che mi ha mandato, mi ha ordinato lui di che cosa parlare e che cosa devo dire. 50E io so che il suo comandamento è vita eterna. Le cose dunque che io dico, le dico così come il Padre le ha dette a me».

 

            Credo che, con questi versi, l’apostolo Giovanni metta tutti i suoi lettori di fronte a un momento solenne perché abbiamo qui, secondo l’impostazione che ha dato al suoVangelo, le ultime parole di Gesù pronunciate in pubblico. Infatti, i capitoli da 13 in poi sono dedicati esclusivamente all’ultima formazione dei discepoli oltre che, dal 18, al racconto della Sua Passione, morte, risurrezione.

Sono parole che vanno lette come un intervallo, come contenute in un foglio a parte, perché sappiamo che poi Nostro Signore riprenderà ad insegnare il giorno successivo, martedì, con parabole esponendo concetti importanti che riguarderanno la responsabilità dell’uomo di fronte a Dio, ma mancheranno gli appelli alla conversione, al credere in Lui e al perdóno che per più di tre anni aveva portato avanti. Giovanni, allora, all’incredulità dei Giudei decritta prima, oppone queste parole, a ricordare le conseguenze tanto dell’accoglienza che del rifiuto della Sua Persona.

A “Esclamò” preferisco “Gridò” usata dal Diodati e altri a conferma del fatto che con le parole che seguono Gesù riassume la Sua identità, lo scopo della Sua venuta, le conseguenze dell’accoglierLo o meno, la Sua fedeltà, quattro concetti che chiudono l’uomo in un futuro di vita o di morte a seconda di ciò che sceglie. Gridare nel senso non comunemente inteso da noi, cioè urlare, strillare, ma in quello di chiamare, porre l’attenzione su un fatto o un argomento, rappresentare l’urgenza di una comunicazione. Ad esempio, quando Giovanni Battista predica nel deserto è presentato da Isaia come “Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri” (Matteo 3.3), ma certo non urlava né parlava in modo alterato come alcuni lo hanno voluto rappresentare e così Gesù.

Il “gridare” è qui utilizzato come presentare delle alternative chiare,  una voce purtroppo udibile solo da pochi quasi che occupi una frequenza sulla quale si possono sintonizzare solo le persone interessate; ricordiamo ancora Proverbi 1.20,21, “La sapienza grida per le strade, nelle piazze fa udire la sua voce; nei clamori della città essa chiama, pronuncia i suoi detti alle porte della città”. Ora, è lo stesso autore del libro a spiegare chi sia questa “sapienza” poco più avanti: “Il Signore mi ha creata come inizio della sua attività, prima di ogni sua opera, all’origine. Dall’eternità sono stata formata, fin da principio, dagli inizi della terra”, quindi “io ero con lui come artefice ed ero la sua delizia ogni giorno; giocavo davanti a lui in ogni istante, giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo” (8.22,23; 30,31). Queste ultime parole ci parlano dell’opera sostenitrice e di conferma dei “figli dell’uomo” da parte della Sapienza, e cioè di tutti coloro che a Lui avrebbero risposto e gli avrebbero ubbidito, da Set in poi. Si noti, poi la citazione del “globo terrestre” che sconfessa la teoria in base alla quale la Bibbia proponga la terra come piatta.

 

Ora con il suo “gridare” Gesù proclama la propria identità col Padre perché solo così avrebbe potuto manifestarsi nel senso che credere in Lui ha senso unicamente se lo si prende come Colui che rivela, come mai accaduto prima, quel Dio che esprimeva la sua potenza, distanza e inaccessibilità, ma anche amore, aiuto e giustizia, essendo fonte di benedizione o maledizione, ma certo non alla portata della creatura come invece lo è il Figlio fattosi uomo. Infatti Dio Padre è “…colui che abita una luce inaccessibile: nessuno fra gli uomini lo ha mai visto né può vederlo”. Se ci pensiamo, l’Iddio dell’Antico Testamento non ha mai avuto discepoli, ma profeti, uomini chiamati ad assolvere una funzione che poi si esauriva, lasciavano un’eredità più o meno forte, ma non una linea di continuità, rivelando la volontà di Dio su un preciso punto, non Lui, che aveva già comunicato le Sue aspettative tramite la Legge.

Senza Gesù noi crederemmo in un Creatore, forse nell’Iddio d’Israele e saremmo passati dalla categoria dei “timorati” a quella dei “proseliti” come scritto qualche capitolo fa, avremmo un’infarinatura scientifico-rabbinica, ma certo non potremmo “vedere” Dio con gli occhi dello Spirito, non potremmo “credere” con la Sua assistenza e guida. Quando leggiamo “Chi crede in me, non crede in me, ma in colui che mi ha mandato” significa proprio questo, andare oltre l’Iddio che si rivela tramite pochi profeti eletti per arrivare a Gesù Cristo, da Lui appositamente inviato per manifestare tutto ciò che occorre sapere tanto per la nostra salvezza che, soprattutto, comunione con Lui, la sola che può farci capire che gli apparteniamo.

Quindi: il Padre era troppo lontano? Ha mandato il Figlio come tramite, rivelatore umano e divino e, se il divino è irraggiungibile, l’umano no ed è al divino che può condurre e porta. Anche il “chi vede me, vede colui che mi ha mandato” sta a significare la stessa cosa, dove “vedere” per noi non significa guardare le sue sembianze fisiche, ma essere presenti con Lui nel Vangelo assimilando le Sue parole, vedendolo guarire, rimproverare, commentare e rispondere agli interrogativi delle persone. Perché Gesù è quello che ha rivelato non “il volto umano del Padre” (che non ha), ma la Sua benevolenza verso di noi, la Sua Nuova Alleanza. Inoltre, Gesù è il Dio che si è fatto uomo, fatto da non trascurare perché di più, per comprendere la creatura prigioniera in un corpo di carne, non poteva davvero fare.

Ciò che sconvolge in quest’ultima frase di Gesù, però, è il fatto che gli ebrei sapevano benissimo che Dio non poteva essere “visto” con occhi umani perché non sarebbe fisicamente e costituzionalmente in grado di reggerne la presenza, come dalle parole di Esodo 33.20, “Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi, e restare vivo”. Tale è la forza, energia e santità che irradia la Sua presenza.

Sull’unicità del Cristo leggiamo in Atti 4.12 le parole dell’apostolo Pietro ai Sinedrio: “…in nessun altro vi è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati”. Quindi non possiamo inventarci altri dèi, altre persone, perché è già stato dato Colui che avrebbe riscattato l’essere umano; abbiamo infatti il verbo “stabilito”, cioè la salvezza può passare solo ed esclusivamente attraverso di Lui.

Solo come Dio fattosi uomo Gesù avrebbe potuto essere “la porta delle pecore” e il “buon pastore” al tempo stesso, solo come Dio sacrificato avrebbe potuto produrre quell’immenso miracolo ricordato in Ebrei 10.19-22: “Avendo dunque fratelli, piena libertà d’entrare nel santuario – prima azione concessa solo al Sommo Sacerdote una volta all’anno – per mezzo del sangue di Gesù, per questa via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne: avendo noi un sacerdote grande sopra la casa di Dio, accostiamoci con cuore sincero nella pienezza della fede, con i cuori purificati da ogni cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura”.

 

Gesù è venuto “nel mondo come luce, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre”, quelle in cui l’uomo naturale ha dimora stabile a meno che non si converta, non riconosca il calore che proviene dalla luce e scelga di far parte di essa. E il “rimanere nelle tenebre”, che Diodati traduce “dimorare”, suggerisce proprio l’idea da un lato della volontà del soccorritore di liberare da esse, dall’altro il fatto che la persona può anche scegliere di persistere nella propria condizione, come purtroppo accade. Il verbo “dimorare” suggerisce l’idea di un’abitualità, di realtà date per scontate ed acquisite, di un metodo fisso di lavoro, azione e pensiero. Per contro, Giovanni al capitolo primo del suo Vangelo scrive “Egli era la luce vera che illumina ogni uomo”, certo che gli consente di farlo, perché sono davvero molti coloro che si nascondono.

L’azione dell’illuminare proviene sì dalla volontà del Figlio, ma contemporaneamente dalla Sua stessa natura; quindi, rifiutandola, la persona si condanna da sola con un suicidio assurdo che si realizza, paradossalmente, con una vita costruita sulla morte. Sappiamo che il ritorno di Gesù non sarà in salvezza, ma in giudizio, eppure qui Lui stesso dichiara che saranno le Sue stesse parole di Grazia e di Verità non accolte che si ritorceranno contro coloro che le avranno rigettate: “La parola che io vi ho detto, lo condannerà nell’ultimo giorno” (v.48). Terribile: l’uomo troverà solo in se stesso la ragione della propria rovina e scoprirà di essersi condannato da solo perché così avrà scelto. Se ci pensiamo, la Parola di Dio in un modo o in un altro è annunciata anche oggi e credo che la sola presenza di un edificio in cui la comunità cristiana si raduna dia una testimonianza, se non altro di esistenza e stia alla persona interrogarsi sul fatto che esista qualcosa di superiore oppure no, cercare e trovare.

Per la superficialità che caratterizza l’uomo naturale, sempre pronto ad evitare responsabilità che chiamino in gioco le sue scelte più profonde, non è frequente sentire, a commento di certe affermazioni di Gesù, che abbia esagerato e da qui deriva la visione universalista del Vangelo, quella del “Ma sì, tanto perdonerà tutti” o de “l’inferno è qui, su questa terra, non può esservene un altro”. Ora che il Maestro a volte esagerasse era ciò che pensava Pietro che – fra due giorni secondo la cronologia di Marco – si stupirà del fico trovato seccato dicendogli “Maestro, guarda, l’albero che hai maledetto è seccato!” (Marco 11.21). Però, come insegna quell’episodio, ogni parola detta da Gesù si è avverata e soprattutto si concreterà puntualmente; non era venuto a scherzare, a enfatizzare dei concetti, ma le Sue parole hanno la stessa valenza di quelle della Legge, che non potevano essere prese con sufficienza. Se Dio non esagerava dandole a Mosè, Gesù fece altrettanto coi discepoli e con tutte le persone con le quali parlò.

Abbiamo poi al verso 47 la citazione di un tempo dispensazionale nel senso che Gesù non è venuto per giudicare il mondo, come avverrà in futuro, ma per salvarlo in quanto, come Lui stesso disse, “venuto non per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Matteo 20.28). Credo proprio che Nostro Signore non avrebbe mai potuto venire al mondo (la prima volta) per giudicare e condannare: su quali basi? Non bastavano gli interventi punitivi di Dio riportati nelle Antiche Scritture, così esatti e chirurgici? Come condannare un mondo che non era stato messo in grado di scegliere da che parte stare, chi servire, a chi aderire, su chi basare la propria fede?

Venendo come servo, invece, e rivelandosi non solo come tale, ma in tutti i suoi aspetti salvifici, identificandosi nell’uomo, nel peccatore ma non nel peccato, trionfando su quel personaggio tremendo che è l’Avversario che nessun altro avrebbe potuto sconfiggere, lì veramente l’essere umano è stato posto di fronte a una scelta: credi in me e in Colui che mi ha mandato, oppure rifiutami.

Rifiutare Gesù Cristo non è semplicemente non credere a un personaggio storico o porre dei dubbi sul fatto che sia stato veramente Dio, ma è opporsi tanto all’amore del Padre nell’inviarlo quando al Suo nel morire per la creatura che, per quelle che erano le sue possibilità, avrebbe potuto solo “dimorare nelle tenebre”.

Gesù, Figlio di Dio ebbe questo compito e lo mantenne per tutta la vita; non è che visse tranquillamente fino al momento del Suo Sacrificio, anzi: ogni Sua parola, ogni miracolo, dottrina, esposizione, procedeva dal Padre e quindi fu il Padre, tramite Lui, ad avere una parola per ogni uomo, peccatore o convertito. Amen.

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16.11 – L’INCREDULITÀ DEI GIUDEI (Giovanni 12.37-43)

16.11 – L’incredulità dei Giudei (Giovanni 12.37-43)

 

37Sebbene avesse compiuto segni così grandi davanti a loro, non credevano in lui, 38perché si compisse la parola detta dal profeta Isaia: Signore, chi ha creduto alla nostra parola? E la forza del Signore, a chi è stata rivelata? 39Per questo non potevano credere, poiché ancora Isaia disse: 40Ha reso ciechi i loro occhi e duro il loro cuore, perché non vedano con gli occhi e non comprendano con il cuore
e non si convertano
e io li guarisca!
41Questo disse Isaia perché vide la sua gloria e parlò di lui. 42Tuttavia, anche tra i capi, molti credettero in lui, ma, a causa dei farisei, non lo dichiaravano, per non essere espulsi dalla sinagoga. 43Amavano infatti la gloria degli uomini più che la gloria di Dio.

 

            Abbiamo visto nel nostro scorso intervento che Giovanni chiude la sua cronaca relativa a quel giorno con le parole “Gesù disse queste cose, poi se ne andò e si nascose loro”; poi, fino alla fine del capitolo, appone queste annotazioni per presentare altre parole del Maestro sulla Sua natura e funzione, che esamineremo.

Ora, il primo scopo di Giovanni è presentare la realtà assurda che si era venuta a creare e cioè che, nonostante i “segni così grandi compiuti davanti a loro”, questi, i Giudei e gran parte del popolo, non credevano. Va ricordato, come già avvenuto in uno scritto precedente, che esiste una sottile differenza fra “segno” e “miracolo”, per quanto sia una distinzione che necessiterebbe di uno studio approfondito: in generale si può affermare che il primo è una manifestazione diretta, chiaramente attribuibile a Dio mentre il secondo, pur da lui proveniente, può essere fatto anche da un suo inviato. Tanto l’uno quanto l’altro vanno valutati attentamente, miracoli li compirono i profeti dell’Antico e del Nuovo Patto, oltre che gli apostoli nel libro degli atti, ma i “segni” sono diversi, indipendenti.

“Segno”, per citarne qualcuno, fu quello che Dio impose a Caino (Genesi 4.15), l’arcobaleno (9.13), la circoncisione, certo fatta dall’uomo sull’uomo ma non da lui inventata (17.11), il sangue sugli stipiti delle porte e le sue conseguenze (Esodo 12.13), il sabato (31.13), l’altare spezzato (1 Re 13.3), l’ombra che avanzò o retrocesse di dieci gradi (2 Re 20.9), la stessa nascita di Gesù (Isaia 7.14).

Entrambe queste manifestazioni vanno comunque ponderate accuratamente prima di decretarne l’origine divina: leggiamo infatti in Deuteronomio 13. 2 “Qualora sorga in mezzo a te un profeta o un sognatore che ti proponga un segno o un prodigio, e il segno e il prodigio annunciato succeda, ed egli ti dica: «Seguiamo dèi stranieri, che tu non hai mai conosciuto, e serviamoli», tu non dovrai ascoltare le parole di quel profeta o di quel sognatore perché il Signore, vostro Dio, vi mette alla prova per sapere se amate il Signore, vostro Dio, con tutto il vostro cuore e con tutta l’anima”. Questo verso, quindi, esclude il “misticismo”, la generalizzazione, l’attribuire al Creatore qualsiasi evento soprannaturale perché le entità in grado di produrli son due, Lui o l’Avversario che ha proprio come scopo quello di traviare, inquinare, togliere la comunione possibile fra Dio e l’uomo. Satana infatti, “principe di questo mondo”, considera l’uomo come sua proprietà, uno schiavo da non cedere per nessuna ragione.

Un “Segno” è un segnale, un messaggio che avverte, ammonisce o ricorda, qualcosa che non può essere ignorato, una testimonianza inequivocabile di un fatto avvenuto o imminente, un avvertimento. Certo, anche il miracolo è un segno della benevolenza di Dio, è incontestabile, ma se Gesù si fosse limitato solo a qualcuno di essi avrebbe dimostrato di essere soltanto un profeta. Essendo stata tutta la sua intera vita un segno, abbiamo tutti questi due elementi, segni e miracoli, fondersi in Lui dimostrando così la sua esistenza come Figlio di Dio. Ecco perché una delle domande che i Giudei si posero l’un l’altro, proprio dopo la risurrezione di Lazzaro, persona da loro conosciuta, fu “Che facciamo? Quest’uomo fa molti segni” (Giovanni 11.47): fu un avvenimento che rappresentò per loro la dimostrazione più grande della Sua natura, impossibile da ignorare, fatto appunto “davanti a loro”. In particolare, il fatto che Lazzaro fosse stato portato dalla morte del corpo alla vita dopo quattro giorni fu considerato un “segno”, dice molto sul loro rifiuto a credere.

E qui è inevitabile riportare Numeri 14.20-23 che si adatta benissimo alla situazione di coloro che assunsero una posizione avversa nei confronti di Gesù: “Com’è vero che io vivo e che la gloria del Signore riempirà tutta la terra, tutti gli uomini che hanno visto la mia gloria e i segni compiuti da me in Egitto e nel deserto e tuttavia mi hanno messo alla prova già dieci volte e non hanno dato ascolto alla mia voce, certo non vedranno la terra che ho giurato di dare ai loro padri, e tutti quelli che mi trattano senza rispetto non la vedranno”.

Se però i Giudei “non credevano in lui” abbiamo letto che, la prima Pasqua cui Gesù salì a Gerusalemme con ministero, “Mentre era a Gerusalemme per la festa, molti, vedendo i segni che compiva, credettero nel suo nome” per quanto non si fidasse di loro (Giovanni 2. 23,24) e che “lo seguiva una grande folla, perché vedeva i segni che compiva sugli infermi” (6.2): il popolo (non tutto) ha un comportamento, i suoi reggenti uno completamente diverso. Stessa vista, stesso udito, ma cuore opposto. E un differente modo di essere considerati da Dio.

Un appunto particolare poi lo possiamo fare sul “perché si compisse la profezia”, espressione che sappiamo cara a Matteo che scrive per gli ebrei, ma che qui Giovanni utilizza la prima volta con lo scopo di rilevare che tutto quell’atteggiamento di ostilità profonda era stato previsto. L’apostolo cita le prime parole di Isaia 53, che dal primo all’ultimo verso dà una descrizione minuziosa di quanto avverrà al Figlio di Dio a partire dal rifiuto dei maggiorenti del popolo: “Signore, chi ha creduto al nostro annuncio? A chi sarebbe stato manifestato il braccio del Signore?”, una riflessione amara, un’anticipazione dei tempi del Messia che non avrebbe trovato un accoglimento totale da parte di Israele cui era diretto, in cui la “predicazione” era il suo “annuncio” e il “braccio” figura della forza del Vangelo.

Nel verso di Isaia, oltre che alla precisazione “per questo non potevano credere”, abbiamo il cuore, l’anima e lo spirito dell’uomo che emerge nel senso che assistiamo all’aderire a una religione che si scontra con la potenza dello Spirito che stravolge ogni cosa, mette in discussione, costringe a scegliere, fa sì che l’uomo si spinga fino al confine di ciò che ritiene sia suo per poi andare oltre; non esiste un limite perché si tratta di elementi che vanno al di là dell’umano. Ascoltare il Vangelo, meditarlo, assimilarlo nell’elaborazione silenziosa di un cuore ben disposto, equivale a contemplare l’infinito perché tale è, proviene dall’eternità e soprattutto a lì porta. Ovvio che quanti sono attaccati al loro presente, religioso o meno, rifiutino tutto il mondo spirituale puro che Gesù propone e inevitabilmente lo combattano: hanno bisogno di tradizioni, di norme, di riti, di credenze, di agenti inquinanti, di compromessi con la carnalità perché senza di essa si sentono persi. La mente, infatti, genera mondi che, soddisfacendola, ne placano i bisogni. La mente umana, senza lo Spirito, è “carne”.

“Nonostante i segni che faceva”, cioè incuranti delle attestazioni che non tanto Gesù dava di sé, ma il Padre di Lui nel senso che quel Dio che aveva liberato personalmente il suo popolo “dalla schiavitù del paese d’Egitto” ora voleva fare altrettanto con quella del peccato alla quale volevano restare ancoràti, incuranti di ogni dimostrazione prima di tutto d’amore, poi teologica.

E tutto questo ci parla del cammino di ognuno, che deve scegliere se intraprendere un percorso illuminato dalla Parola, faticoso, spesso incerto, fatto di comprensioni e fraintendimenti, di forze e di debolezze, di sconfitte e vittorie, oppure da quello nelle tenebre in cui si è sempre convinti di raggiungere una meta che poi però sfugge o, quando la si consegue, lascia il posto ad altre e passa. Non si sa in realtà dove si va, tutto alla fine lascia un’insoddisfazione di fondo perché, paradossalmente, ciò che è umano non può saziare fino in fondo l’uomo che ha bisogno di altro, quello che non può trovare se non nel Dio che però rifiuta.

Scrive l’autore della lettera ai Romani: “Ma non tutti hanno ubbidito al Vangelo. Lo dice Isaia: «Signore, chi ha creduto, dopo averci ascoltato?». Dunque, la fede viene dall’ascolto e l’ascolto riguarda la parola di Cristo” (10.16). Ecco allora che comprendiamo come, per ascoltare il Vangelo e quindi Gesù, occorre cessare di ascoltare noi stessi e soprattutto rinunciare, o per lo meno disporsi a mettere in discussione tutto quel patrimonio conoscitivo che ci ha guidati fino al momento in cui ascoltiamo la Sua Parola che, in quanto Sua, è vera e a noi infinitamente superiore. Perché questo possa avvenire, è necessario che ci mettiamo quanto meno in secondo piano e questo, come sappiamo e leggiamo anche in questo episodio, non è facile.

Giovanni, nello scritto in esame, dopo avere citato il primo verso di Isaia 53, passa a 6.9,10: “Egli disse: «Va’, e riferisci a questo popolo: «Ascoltate pure, ma non comprenderete, osservate pure, ma non conoscerete». Rendi insensibile il cuore di questo popolo, rendilo duro d’orecchio e acceca i suoi occhi, e non veda con gli occhi né oda con gli orecchi né comprenda con il cuore né si converta in modo da essere guarito»”. La loro resistenza, come ricordo sempre, aveva finito per provocare questa reazione, la stessa che sperimentò il Faraone che si rifiutava di ascoltare le parole si Mosè, “lascia andare il mio popolo, perché mi serva”. E i sette verbi usati in questo passo, “rendere duro d’orecchi”, “accecare”, “non vedere”, “non udire”, “non comprendere”, “non convertirsi”, “non essere guarito”, costituiscono una sentenza, un sigillo di chiusura che tale rimarrà fino a quando non verrà un tempo diverso, quello della conversione di massa a Gesù Cristo da parte di Israele nell’ultimo tempo.

Nella parabola dei contadini omicidi leggiamo “il padrone della vigna verrà e farà morire i contadini e darà la vigna ad altri” (Marco 12.9), ma così non è per tutti coloro che si pongono all’ascolto senza pregiudizi carnali: “Beati invece i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano. In verità io vi dico: molti profeti e giusti hanno desiderato vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non le ascoltarono” (Matteo 13.14).

Ancora, “A voi è stato dato il mistero del regno di Dio. Per quelli che sono fuori, invece, tutto avviene in parabole affinché guardino, sì, ma non vedano, ascoltino, sì, ma non comprendano, perché non si convertano e venga loro perdonato” (Marco 4.12), tutto perché a monte manca l’umiltà, la consapevolezza di aver bisogno di qualcosa e, poiché c’è questa situazione, il senso di sufficienza della persona fa sì che ritenga non necessario il messaggio che le si offre, altrimenti ascolterebbe e vorrebbe comprendere, non si arrenderebbe di fronte alla difficoltà della ricezione, cercherebbe. E il risultato è l’impossibilità del perdóno.

La stessa cosa avverrà parecchi anni dopo quando l’apostolo Paolo, prigioniero a Roma, insegnava ai Giudei di quella città che aveva convocato a casa sua, essendo agli arresti domiciliari: “E avendo fissato con lui un giorno, molti vennero da lui nel suo alloggio. Dal mattino alla sera egli esponeva loro il regno di Dio – ricordiamo che erano Giudei –, dando testimonianza, e cercava di convincerli riguardo a Gesù, partendo dalla legge di Mosè e dai Profeti. Alcuni erano persuasi delle cose che venivano dette, altri invece non credevano. Essendo in disaccordo fra di loro, se ne andavano via, mentre Paolo diceva quest’unica parola: «Ha detto bene lo Spirito Santo, per mezzo del profeta Isaia ai vostri padri…” e qui abbiamo il verso di 6.9 e segg. che abbiamo già citato (Atti 28.26.27).

Ancora Paolo, riguardo al sistema religioso contorto, scrive in proposito: “Che dire dunque? Israele non ha ottenuto quello che cercava; lo hanno ottenuto invece gli eletti. Gli altri invece sono stati resi ostinati, come sta scritto: Dio ha dato loro uno spirito di torpore, occhi per non vedere e orecchi per non sentire, fino al giorno d’oggi” (Romani 11. 7,8).

C’è una nota da fare riguardo a questi versi, che riguardano Israele nel momento storico fino a quando non si convertirà al Signore nell’ultimo tempo, ed è che l’indurimento degli occhi e delle orecchie, oltre che del cuore, è cosa che si verifica a seguito del rifiuto ostinato di resistere alla Parola di Dio: arriva un momento, che solo Lui può stabilire, in cui è impossibile per questa persona tornare indietro, comprendere, ravvedersi, proprio perché Lui è il Signore e come tale fa ciò che vuole.

Arriviamo così all’ultimo verso che ci presenta la condizione intermedia di “molti fra i capi credevano in lui, ma, a causa dei farisei, non lo dichiaravano, per non essere espulsi dalla sinagoga”: è la condizione in cui si è compreso che Gesù è il Signore, ma manca il coraggio per ammetterlo davanti agli altri perché farlo equivarrebbe all’espulsione dalla sinagoga con l’esclusione dalla congregazione di Israele (Giovanni 9.22, “I Giudei avevano già stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga”).

Di cosa ci parla questa situazione, soprattutto alla luce della conclusione finale, “Amavano infatti la gloria degli uomini più della gloria di Dio”? Credo di tormento irrisolto, di soffocamento, perché da un lato quei “capi” non potevano ignorare quanto avevano elaborato nel privato del loro cuore, ma dall’altro si trovavano mancanti di quella forza necessaria per emergere da quel contesto, ponendosi in contrasto, effettuando quella distinzione netta fra ciò che era da Dio e ciò che non lo era. Il loro credere in Gesù veniva vanificato e coperto dal timore di perdere la loro onorabilità presso gli uomini, cosa che Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea smisero di fare, dopo un lungo lavoro personale di elaborazione. Ricordiamo le parole “Come potete credere, voi che ricevete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dall’unico Dio?” (Giovanni 5.44).

Amare “la gloria degli uomini più di quella di Dio”, poi, non può essere adattato certo a questa sola situazione, ma anche in tutte quelle in cui, come cristiani, ci possiamo venire a trovare: ciò avviene tutte le volte in cui, se non prendessimo una posizione netta di rifiuto o estraniamento, verremmo inevitabilmente confusi con tutti gli altri, perdendo così un’occasione di testimonianza e, soprattutto, dimostrando di non anteporre alla nostra funzione come credenti, la comodità delle relazioni interpersonali, il cosiddetto “quieto vivere”. E questo è un punto dottrinale molto importante, perché con le nostre scelte ci qualifichiamo di fronte agli altri, come loro oppure no. E dimostriamo a Gesù di non vergognarci di Lui, prendendo posizione. Amen.

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16.10 – FIGLI DELLA LUCE (Giovanni 12.34-36)

16.10 – Figli della luce (Giovanni 12.34-36)

 

34Allora la folla gli rispose: «Noi abbiamo appreso dalla Legge che il Cristo rimane in eterno; come puoi dire che il Figlio dell’uomo deve essere innalzato? Chi è questo Figlio dell’uomo?». 35Allora Gesù disse loro: «Ancora per poco tempo la luce è tra voi. Camminate mentre avete la luce, perché le tenebre non vi sorprendano; chi cammina nelle tenebre non sa dove va. 36Mentre avete la luce, credete nella luce, per diventare figli della luce». Gesù disse queste cose, poi se ne andò e si nascose loro.

 

            Le domande che abbiamo letto furono conseguenti alla dichiarazione di Gesù “quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me”. L’osservazione “Noi abbiamo appreso dalla Legge che il Cristo rimane in eterno” appare però provenire, per la richiesta che segue, più da menti abituate allo studio della Scrittura che da semplici pellegrini giunti a Gerusalemme per la festa. Il testo del verso 34, poi, per come è strutturato presenta, più che una domanda rivolta umilmente ad un Maestro da parte di chi gli riconosce un’autorità superiore a quella degli scribi e farisei, un attacco presuntuoso, un invito a chiarire più davanti a dei “sapienti” che a persone del popolo. Il termine usato da Gesù, “Figlio dell’uomo”, era a loro estraneo nonostante l’avessero sentito tante volte.

In altri termini, poiché è impossibile che “la folla” parlasse simultaneamente, non resta che concludere che uno dei Giudei presenti, anziché accusarlo di falso perché pretendeva di essere il Messia, gli abbia voluto far notare che da nessuna parte della Legge si parlasse dell’innalzamento di un “Figlio dell’uomo”. Questo, però, da parte di persone che non guardavano alla totalità, ad armonizzare il testo per comprenderlo al di là delle questioni secondarie che si ponevano costantemente l’uno l’altro.

Eppure, a parte i passi a cui quella domanda si riferiva e che possono essere reperiti in 2 Samuele 7.12-15; Salmo 89. 27-29; 90.4; Isaia 9. 6,7 e altri, è Daniele 7.12-13 a rispondere al tema: “Guardando ancora nelle visioni notturne ecco apparire, sulle nubi del cielo, uno, simile a un Figlio dell’uomo; giunse al vegliardo e fu presentato a lui, che gli diede potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano; il suo potere è un potere eterno, che non tramonta mai, il suo regno è tale che non sarà mai distrutto”. Quindi, il Messia era ed è il “Figlio dell’uomo”, “simile” a lui perché, se fosse stato uguale, sarebbe stato uno come tanti e non avrebbe mai potuto vincere la morte e gli inferi. Vedendo un essere di siffatto aspetto, Daniele contemplava il mistero del Dio fattosi uomo.

Sull’ “innalzamento” è già stato detto, ma certo senza esaurirlo perché, pur essendo vera la similitudine col serpente di rame nel deserto, è altrettanto innegabile che, se come abbiamo letto nel passo esaminato nello scorso capitolo “Ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori”, al precipitare dell’Avversario corrisponde l’ascesa di Gesù, come sancito nel futuro in Apocalisse 12.10: “Ora si è compiuta la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio e la potenza del suo Cristo, perché è stato precipitato l’accusatore dei nostri fratelli, colui che li accusava davanti al nostro Dio giorno e notte”. Satana, infatti, è già precipitato così come “chi non crede è già condannato”; si tratta solo di tempo e di spazio.

Nel “colui che li accusava” vediamo tutta l’inutilità dell’opera di questo personaggio, che vorrebbe sedurre fino ad arrivare a strappare gli eletti di Dio dalla Sua mano, ma per l’annullamento del suo potere definitivo, non può. Infatti: “Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà ogni cosa insieme a lui? Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica! Chi condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi”.

E va sottolineato e ricordato che l’intercessione –e questo compito appartiene al Figlio e non ad altri –  è stata possibile solo perché “è morto, anzi è risorto”. Ecco allora cosa significa quell’essere “innalzato”: parte dalla croce e da lì in poi prosegue, esattamente come il cammino della creazione, della persona da quando nasce a quando muore.

Vediamo dal testo che Gesù, alla domanda “Chi è questo figlio dell’uomo?”, provocata anche dalla contrarietà di non riuscire a conciliare la figura del Messia con quel titolo, non risponde, iniziando a parlare di qualcosa di molto più urgente, cioè porsi nelle condizioni di affrontare un cammino che abbia finalmente un senso: “Ancora per poco tempo la luce è con voi; camminate mentre avete la luce, che le tenebre non vi colgano, perché chi cammina nelle tenebre non sa dove va”.

Come osservò un fratello, era passato il tempo della discussione e dell’istruzione ed il tempo dato ad Israele per convertirsi e scegliere di seguire il Servo stava per concludersi. C’era “poco tempo” per ravvedersi, come del resto è anche oggi, dare luogo ad un serio processo interiore per mettere in discussione le proprie convinzioni, “poco tempo” per gioire – per i nemici – della Sua morte, “poco tempo” per rimanere nella quiete delle loro case nell’attesa che, circa quarant’anni dopo, arrivassero le truppe romane a distruggere la città. Il tempo, anche per tutti gli uomini oggi, è poco, nonostante cerchino di rallentarlo, fermarlo in ogni modo dimenticando di essere soggetti a termine con un’eternità da affrontare preparàti.

Come dirà al verso 46, “Io sono venuto nel mondo come luce, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre” e lo stesso Giovanni, presentando Gesù, scriverà “Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo”, certo, che lo accoglie. E cosa dice Isaia 42.6, parlando di Lui? “Così dice il Signore Dio, che crea i cieli e li dispiega, distende la terra con ciò che vi nasce, dà il respiro alla gente che la abita e l’alito a quanti camminano in essa: «Io, il Signore, ti ho chiamato per la giustizia e ti ho preso per mano; ti ho formato e ti ho stabilito come alleanza del popolo e luce delle nazioni, perché tu apra gli occhi ai ciechi e faccia uscire dal carcere i prigionieri, dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre”.

Le “tenebre” allora, senza un intervento di Gesù, sono una realtà in cui si dimora stabilmente, senza possibilità di liberazione; appunto, ci si “abita”, verbo che suggerisce anche l’abitudine a farlo. Chi vive nelle tenebre non vive solo nel buio, ma in un’oscurità profonda, nel silenzio, nella devastazione, nell’assenza di vita, solo che non se ne rende conto. Vivere nell’assenza di vita può sembrare un controsenso, eppure è quello che accade perché se vivo nella prospettiva certa di un accoglimento presso il Padre ho un futuro, ma se lo faccio prendendo ciò che mi dà la mia vita a termine senza pensare ad altro agisco solo rifugiandomi in ciò che passa, portato via da una corrente che è il trascorrere stesso del tempo, l’invecchiamento, i mutamenti che il mondo porta senza che io li voglia. In altre parole, porto in me, e con me, la mia stessa fine e, se quello che conta il risultato, non credo che questo sia un ragionamento pessimista, ma l’unico possibile. Ovviamente, tutto questo se Cristo non interviene a spezzare il giogo del peccato in cui vive l’essere umano.

Le parole di Gesù si raccordano qui, anche per la circostanza storica, al profeta Geremia 13.16,17: “Date gloria al Signore, vostro Dio, prima che venga l’oscurità e i vostri piedi inciampino sui monti, al cadere della notte. Voi aspettate la luce, ma egli la ridurrà in tenebre e la muterà in oscurità profonda”.

“Camminate mentre avete la luce”, è allora l’ultimo appello ad andare a Lui prima che sia troppo tardi e l’ultima occasione per ascoltarlo e vederlo sarà il martedì, il giorno dopo questo discorso, perché da lì in poi Gesù si ritirerà coi dodici in attesa del Suo arresto.

Camminare nelle tenebre sembra un controsenso perché la prudenza suggerirebbe di stare fermi, ma non si può: l’uomo è costretto, si può dire “condannato a camminare”, ma senza la Luce di Dio “non sa dove va”: nel buio ogni cosa è uguale, ci si può solo immaginare le cose attraverso l’udito o il tatto; a tale situazione è paragonata la vita senza Cristo ed è arduo pensare che il sole fisico non sia luce, ma non lo è se pensiamo ai nostri sensi corrotti, all’incapacità del corpo e della mente umana di trascendere.

Le “tenebre” non sono la sola definizione possibile per chi vive lontano da Dio: c’è il deserto, la figura della barca sballottata dalle onde, il vuoto, l’informe, il freddo, tanto per citare quelle che mi vengono in mente, ma credo bastino e che in ogni caso, se chi cammina in questi elementi “non sa dove va”, certamente verrà un momento in cui comprenderà o di non essere arrivato da nessuna parte, o in quella sbagliata dalla quale non potrà tornare più indietro.

L’unica alternativa possibile è data proprio dalle ultime parole del Maestro, “Mentre avete la luce, credete nella luce per diventare figli della luce”: è una trasmissione, un dono che diventa una condizione perché “Se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove” (2 Corinti 5.17). E quando qualcosa nasce, lo fa spontaneamente, pur essendo una nascita sempre il risultato di un seme.

Un’altra traduzione di questo verso riporta “Camminate mentre avete la luce, perché non vi sorprendano le tenebre: chi cammina nelle tenebre, non sa dove va. Mentre avete la luce, credete nella luce, per diventare figli della luce”, quindi suggerisce una decisione che inizia con un viaggio e l’impiego del verbo “diventare”, con davanti la preposizione “per”, apre dinnanzi a noi la possibilità di cose future: non si diventa infatti “figli della luce” così, di colpo, con una fonte luminosa enorme che abbaglia e che prende – come è stato per i profeti anche dell’Antico Patto –, ma lo di diventa come in Proverbi 4.18, “La strada dei giusti è come la luce dell’alba che aumenta lo splendore fino al meriggio”.

Possiamo ricordare, circa la trasformazione nella persona che ha creduto in Gesù, Efesi 5.5, “Un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come figli della luce, ora che frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità”. Ancora 1 Tessalonicesi 5.5: “Siete tutti figli della luce e figli del giorno; noi non apparteniamo né alla notte, né alle tenebre. Non dormiamo dunque come gli altri, ma vegliamo e stiamo sobri”.

Giovanni, dopo questo appello di Gesù, ne annota il comportamento, “se ne andò e si nascose loro”: se si accetta l’interpretazione di alcuni commentatori, questo sarebbe stato il suo ultimo discorso e andrebbe spostato al martedì, il giorno più impegnativo e denso di insegnamenti sia nel Tempio che ai discepoli con l’esposizione del celebre sermone profetico. Il Mercoledì e il Giovedì, infatti, furono giorni passati coi discepoli, in parte in Betania. È un’ipotesi, poiché nonostante la cronologia di Marco, che suddivide i giorni della settimana della Passione, riuscire a stilare una successione precisa è impresa impossibile. Del resto, anche la cena stessa con Maria che unge i piedi di Gesù è fatta risalire dal discepolo di Pietro a mercoledì, mentre Giovanni la colloca “Sei giorni prima della Pasqua”, quindi anteriormente. Inoltre, per lo snodarsi delle vicende, pare più probabile che la cena da Simone il Lebbroso avvenne secondo la cronaca di quest’ultimo Discepolo, per cui la differenza temporale rimane come interrogativo, ma non pone certo in discussione né i contenuti né i molti temi che l’episodio include.

Personalmente ritengo che, se non si accetta l’ipotesi di quei commentatori, con quell’andarsene e nascondersi ai loro occhi, Gesù abbia voluto dare un’anticipazione di ciò che sarebbe avvenuto, nella speranza che quegli ultimi contenuti esposti lasciassero un segno. Resta comunque una questione aperta, perché riesce difficile, nel capitolo 11 di Giovanni, trovare un punto in cui il discorso di Gesù possa venire interrotto e ripreso in un altro momento con lo stesso tema, alla fine del giorno successivo.

Comunque, proprio la domanda del verso 34, “Come puoi dire che il Figlio dell’uomo deve venire innalzato? Chi è questo figlio dell’uomo?” aveva già trovato una risposta prima, in Giovanni 8.28 quando fu detto “Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo – secondo Daniele 7.12-13 che abbiamo letto –, allora conoscerete che Io Sono e che non faccio nulla da me stesso, ma parlo come il Padre mi ha insegnato”. Amen.

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