16.09 – L’ho glorificato e lo glorificherò ancora (Giovanni 12.27-33)
27Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! 28Padre, glorifica il tuo nome». Venne allora una voce dal cielo: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!».29La folla, che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato». 30Disse Gesù: «Questa voce non è venuta per me, ma per voi. 31Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. 32E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». 33Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire.
L’episodio dei Greci che volevano “vedere Gesù”, con le annotazioni conseguenti, porta con sé, nelle Sue parole, degli elementi dottrinali che mi hanno costretto a spezzettarlo in diverse parti, ciascuna esaminante alcuni aspetti del Suo discorso. Pur non essendo immediato mettere ordine nei contenuti dei sette versi oggetto di considerazione, distinguerei al loro interno cinque momenti visti nel turbamento di Gesù, in quello che dice al Padre, ciò che Lui risponde, la reazione della folla e infine le parole rivolte ad essa.
Il primo elemento da considerare è quindi il turbamento dell’ “anima” di Gesù, quindi abbiamo rivelata la sua realtà di uomo che come tale l’aveva, mentre come Dio no essendo puro spirito, l’ “Io sono”: fu Adamo, formato con la “polvere della terra” ad essere fatto “anima vivente”, mentre il Creatore, fatto di Spirito, gli soffiò nelle narici il proprio “alito vitale” che Nostro Signore ereditò da Maria, sua madre, come qualunque altro essere umano. Ogni volta che leggiamo di una reazione dell’ “anima” di Gesù, vediamo quindi la Sua come Figlio dell’uomo che, pur già sapendo in anticipo tutto ciò che sarebbe accaduto, in quanto tale non poteva esimersi dal provare turbamento.
Così era accaduto, per citare un episodio recente, quando pianse su Gerusalemme il giorno prima, così avverrà alla Santa Cena quando leggiamo che “…fu profondamente turbato e dichiarò: «In verità vi dico: uno di voi mi tradirà»” (13.21). Ancora poi al Getsemani, quando disse “L’anima mia è triste fino alla morte; restate qui e vegliate con me” (Matteo 26.38) oppure quando, anteriormente a tutti gli eventi citati, disse “Ho un battesimo nel quale sarò battezzato; e come sono angosciato finché non sia compiuto” (Luca 12.50).
Da questi esempi allora vediamo che Gesù non fu il Dio in terra venuto per compiere una missione e andarsene adempiendo a un atto formale, vivendo e morendo senza soffrire – avrebbe potuto farlo benissimo –, ma fu uomo fino in fondo, altrimenti non avrebbe potuto comprendere, compatire la creatura cui dava nutrimento in Eden e soprattutto salvarla una volta caduta. Le due nature di Figlio dell’uomo e di Figlio di Dio s’incontrarono quindi perfettamente e visse, soffrì, parlò, guarì e infine morì rivelandole entrambe. Ci fu poi una vetta sublime di dolore che espresse alla croce con le parole “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”.
Tornando al testo in esame, abbiamo il “che dirò?”, che ci rivela la sua impossibilità a sottrarsi a tutte quelle sofferenze di fronte alle quali come Dio poteva essere superiore, ma non certo come uomo perché come tale le doveva vivere. Come scrisse qualcuno, con quel “che dirò?” sembra che Gesù pensi ad altra voce e l’unico rifugio qui è la preghiera al Padre di glorificare il Suo nome in cui si può dire venga inondato di luce a consolarlo: con le parole “E l’ho glorificato e lo glorificherò ancora”, terza volta che Dio fa udire ufficialmente la sua voce nei Vangeli, si rinnova il principio del “chicco di grano” che, morendo, “porta molto frutto”.
Al di là di quanto già scritto nel capitolo dedicato al tema, il “molto frutto” può essere individuato in questi tre avvenimenti: primo, la glorificazione di se stesso quando la morte, per l’uomo, rappresenta la perdita totale sua e di tutti i suoi beni, di cui altri si approprieranno senza aver fatto nulla per guadagnarseli. Secondo, il giudizio contro l’Avversario: “Ora viene il giudizio di questo mondo – perché non ci saranno più nuove alleanze –, ora sarà cacciato il Principe di questo mondo” (v.31) e, abbiamo il raduno degli eletti visto nelle parole “Quando sarò innalzato da terra, trarrò tutti a me” (v.32).
Se osserviamo il testo vediamo che la domanda “salvami da quest’ora” viene espressa con formula dubitativa da Gesù perché impossibile, ma quella della glorificazione del Nome rimane ed è la conferma della Sua disponibilità ad accettare la morte, visto che il Padre poteva essere glorificato da Lui in quell’unico modo. Credo che qui si apra uno squarcio di luce anche su di noi e alle scelte che possiamo essere chiamati a compiere, quando ci troviamo di fronte a situazioni di fronte alle quali dobbiamo decidere se percorrere un sentiero che porta all’abbandono di ciò che siamo come cristiani e uno che vede nella sofferenza anche estrema – penso ai martiri della Chiesa tanto antica quanto moderna – l’unico modo per glorificare il Nome del Padre. Gesù lo ha fatto e, come scrive l’apostolo Pietro nella sua prima lettera, “Se, facendo il bene, sopporterete con pazienza la sofferenza, ciò sarà gradito davanti a Dio. A questo infatti siete stati chiamati perché, anche Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme” (2.20,21).
Vi sono dei cosiddetti “evangelisti” che presentano la vita cristiana come qualcosa di idilliaco, esente da dolori, preoccupazioni, sofferenze, un credere da supermercato; a volte stampano opuscoli che sembrano quelli di un mediocre psicologo che vende illusioni propugnando un falso concetto di “pace nel cuore”, ma dimenticano di presentare, per così dire, “l’altra faccia della medaglia” che consiste non solo nel gioire, ma nel servire anche soffrendo, quando richiesto. E avendo in Gesù un simile esempio, non è possibile sottrarsene. L’uomo che conosciamo, quello nella carne, quando è provato è convinto di subire una profonda ingiustizia e che la sofferenza che patisce riguardi solo lui; al contrario l’apostolo Pietro scrive nella sua prima lettera: “Umiliatevi dunque – verbo che la carne non accetta – sotto la potente mano di Dio, affinché vi esalti al tempo opportuno – tempo che non è il nostro –, riversando su di lui ogni vostra preoccupazione, perché egli ha cura di voi. Siate sobri, vegliate, il vostro nemico, il diavolo, come un leone ruggente va in giro cercando chi divorare. Resistetegli saldi nella fede, sapendo che le medesime sofferenze sono imposte ai vostri fratelli sparsi per il mondo” (5.9). Ecco perché un fratello diceva, con un riferimento al così detto Antico Testamento, che il cristiano è contemporaneamente sacerdote e vittima.
Tornando al nostro testo, abbiamo la voce di Dio Padre che risponde “L’ho glorificato e lo glorificherò ancora”. Fu una voce che alcuni udirono distintamente, ma che altri, pur distinguendone il suono, non sapevano come interpretare. Altri ancora dissero “un angelo gli ha parlato”. Certo Giovanni ne comprese le parole così come credo gli altri apostoli presenti. Sappiamo che per tre volte, nei Vangeli, il Padre fece udire la sua voce e Pietro, tra i primi a seguire Gesù, fu colpito dalla seconda, alla trasfigurazione, scrivendo: “Egli ricevette onore e gloria da Dio Padre, quando giunse a lui questa voce dalla maestosa gloria: «Questi è il figlio mio, l’amato, nel quale ho posto il mio compiacimento». Questa voce noi l’abbiamo udita discendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte. E abbiamo anche, solidissima, la parola dei profeti, alla quale fate bene a volgere l’attenzione come a lampada che brilla in un luogo oscuro, finché non spunti il giorno e non sorga nei vostri cuori la stella del mattino” (1°, 1.17-19). La “stella del mattino” è Gesù nella Sua Gloria assoluta secondo la conclusione del Nuovo Patto: “Io sono la radice e la stirpe di Davide, la stella radiosa del mattino” (Apocalisse 22.16).
E questo ci porta al Nome del Padre, che lo ha glorificato, per noi, dal momento in cui ha creato l’universo, quindi l’uomo, e ha posto in atto il piano di salvezza per il suo recupero attraverso i millenni fino al giorno in cui verranno creati “nuovi cieli e nuova terra dove dimora stabile la giustizia”.
La voce che il Padre fa udire è allora prima di tutto un invito, perché viceversa il Figlio non avrebbe potuto dire “Questa voce non è venuta per me, ma per voi”: come detto prima, tutti la udirono (quindi il fatto era fuori discussione), ma a seconda di quanto le persone erano attente o disposte spiritualmente, viene data all’evento un’interpretazione diversa, “un tuono” oppure qualcosa di non meglio definito, cioè la voce di un angelo che parlava a Gesù. Si tratta di tre reazioni possibili che l’uomo ha di fronte al Vangelo: lo si accoglie (comprensione), se ne resta indifferenti pensando che non riguardi la persona (l’angelo che parla a lui, ma non agli uomini), o lo si combatte (il tuono, cioè si riduce tutto ad un caso).
Contrariamente, quella voce venne “per voi”, al fine di impedire l’idea che Nostro Signore fosse un profeta autonomo, non intimamente legato al Padre a tal punto da dire che chi aveva visto l’uno, aveva visto l’altro. Le parole di quella voce, quindi, costituivano il terzo sigillo del Dio inaccessibile all’opera del Suo amato Figlio la cui vita stava per essere data in sacrificio; infatti “Ora è il giudizio di questo mondo, ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori”.
La parola “mondo”, sulla quale ci eravamo soffermati tempo fa, ha qui riferimento a tutto ciò che di corrotto esiste sulla terra, in particolare all’essere umano che escogita da sempre delle alternative a una vita dedicata al proprio Creatore, rifiutandosi di cercarlo, persone che consapevolmente o meno hanno fatto dell’Avversario il loro principe che “sarà gettato fuori”. E “Principe di questo mondo” era un termine che i presenti avrebbero potuto capire perché così Satana era definito dai rabbini fin dai tempi antichi.
Potremmo chiederci perché “ora” e “gettato fuori” quando l’opera dell’Avversario, sia a livello di dominio sul mondo quanto di trame per la sua fine, è sempre più visibile; credo che “gettato fuori” si riferisca al fatto che Satana non ha più potere assoluto come un tempo per la perdizione dell’essere umano nel senso che nulla può contro chi appartiene al Cristo di Dio. C’è infatti tutta una cronologia, che possiamo far partire con la croce e la risurrezione, che si concluderà con l’Avversario “gettato nello stagno di fuoco e di zolfo per essere tormentato giorno e notte nei secoli dei secoli” (Apocalisse 11.15). Satana viene “gettato fuori” perché, come detentore della morte, non ha più potere: “La morte è stata inghiottita nella vittoria. Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione? Il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la Legge. Siano rese grazie a Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo!” (1 Corinti 15.54-57).
Il verso che conclude il nostro passo, parola del Signore, precisa cosa sia quell’ “ora”: “Ed io, quando sarò alzato da terra, attirerò tutti a me”. Sappiamo che alla croce ci fu il Sacrificio senza il quale nessuno avrebbe potuto essere salvato e che un chiaro riferimento ad essa ci fu anticamente nel serpente di rame innalzato nel deserto (Numeri 21.8,9): “quando un serpente aveva morso qualcuno, se questi guardava il serpente di rame rimaneva in vita”.
Chi oggi “guarda” la croce e quindi la morte di Gesù, che nonostante tutto non avrebbe alcun valore senza la Sua risurrezione, si salva dalla morte eterna. Ed è bello considerare che il verbo usato, elkùso, sta ad indicare un’attrazione dolce, persuasiva, efficace, per distinguerla da una forza irresistibile che annienta la volontà e fa dell’uomo un automa.
E “Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire”. L’innalzamento in croce, “stoltezza per quelli che si pèrdono, ma per quelli che si salvano, ossia per noi, potenza di Dio” (1 Corinti 1.18). Amen.
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