16.08 – Il chicco di grano (Giovanni 12.24-26)
24In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. 25Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. 26Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà.
Le parole di Gesù dette ai discepoli quando i Greci chiesero a Filippo di vederlo hanno un’importanza che non si può esaurire con il breve commento fatto alla fine dello scorso capitolo perché contengono una domanda per noi basilare e cioè a chi Lui abbia voluto riferirsi con la parabola del chicco di grano; una prima risposta, corretta, è quella che alluda alla Sua opera, visto che ha parlato di morte, la sola che, assieme alla risurrezione, avrebbe potuto portare alla salvezza dell’essere umano. Tuttavia non si può evitare di osservare come, esaurito il verso 24, Gesù passi ad affrontare la vita interiore del credente e quindi pare difficile pensare che “il chicco di grano” sia esclusivamente riferito a Lui, ma nasconda in prospettiva delle realtà che si sarebbero manifestate e che sarebbero state comprese più avanti.
Perché un seme produca “frutto”, deve “morire”, cioè cessare di esistere nella sua forma originale, e germinare con il conseguente spuntare della futura radice e fusto; il seme muore e una vita nasce al suo posto. È bello considerare che, se per i sinottici il “seme” è la Parola o il Regno di Dio (vedi la parabola del seminatore e dei vari terreni), per Giovanni abbiamo “il chicco di grano”, figura della morte di Gesù.
Nel mondo terreno la morte del chicco di grano produce la spiga che può dare dai 60 agli 80 semi e da qui, ipoteticamente, ne possiamo avere l’anno successivo 6.400 (80×80) che, ancora un anno dopo, ne produrrebbero altri 512.000 (6400×80). La morte di Gesù quindi produce nel tempo un certo numero di semi, che nota bene verranno raccolti “nel mio granaio”, in cui identifichiamo tutti coloro che hanno fatto proprio il Suo Sacrificio i quali, per portare frutto, devono morire anch’essi, ma in un modo molto particolare, diverso da quello attraverso cui tutti gli uomini devono passare secondo Romani 5.12: “Quindi, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato”.
Il peccato, dunque, violazione alla Legge di Dio, trova la sua identità nel nostro corpo decaduto, soggetto a umiliazioni come le malattie e tutte quelle altre situazioni penalizzanti che subisce fisicamente e moralmente, realtà per le quali non era progettato e, soprattutto, da cui avrebbe potuto essere preservato senza la trasgressione all’unico comandamento ricevuto dai nostri progenitori. E penso qui allo stato d’animo di Adamo non solo quando si ritrovò a dover lavorare per nutrirsi, estromesso dalla Verità, Santità e Perfezione di Dio, ma anche quando fu costretto a trasmettere alla sua discendenza le ragioni per cui quegli uomini e quelle donne, che non avevano peccato come lui, avevano ereditato la sua condizione e si trovavano a provare dolore e vivere in una terra che produceva “spine e cardi” (o “triboli”). Ora, calcolando che Adamo visse 930 anni, cioè fino a 126 prima della nascita di Noè, va da sé che tutti coloro che nacquero per tutto quel tempo vennero a conoscenza del fatto che lui era il responsabile della loro condizione, attendendo che la “progenie della donna” schiacciasse il capo al serpente seduttore. Se Adamo non si fosse comportato trasmettendo oralmente le vicende di Eden, non ne avremmo traccia alcuna nel libro della Genesi.
Fatta questa breve parentesi, torniamo alla morte del “chicco di grano” che presenta due aspetti: prima di tutto abbiamo Cristo, che “…è morto ed è ritornato alla vita per essere il Signore dei morti e dei vivi”; ciò comporta il fatto che nessuno potrà scampare al Giudizio se Lo avrà rifiutato, ma, secondo, non esiste nessuno che possa dirsi cristiano se non è ha fatto questa esperienza dentro di sé: “Ora, se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto per il peccato, ma lo Spirito è vita per la giustizia. E se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi” (Romani 8.10,11). In concreto quindi, il corpo è “morto per il peccato” alla condizione che “Cristo è in voi”, cioè che la Sua presenza sia tenuta come un tesoro, vitale come l’aria che si respira. La forza del cristiano è tutta qui nel senso che, fino a quanto rimane unito a Cristo è preservato da cadute, ma quando ciò non accade, inevitabilmente cade e pecca. E il peccato non è solo un’azione contraria al volere di Dio, ma prima ancora un sistema di vita e prima ancora di pensiero.
Credo che nel verso appena citato abbiamo esposto il principio in base al quale il cristiano vive in un mondo a parte basato sul fatto che Cristo è in lui; conseguentemente il corpo che ci riveste è “morto per il peccato”, cioè è incompatibile. Una cosa è la possibilità di peccare, il che avviene per debolezza, mancata vigilanza o un’infinità di ragioni, e tutt’altra realtà è quella del peccato che domina l’esistenza, cosa che per un credente non può avvenire. In altri termini la presenza di Cristo esclude che la persona da lui salvata possa vivere, pensare, agire come prima di essere stato messo da parte per il Regno di Dio; è un’appartenenza che non verrà mai meno perché “Sia che viviamo, sia che moriamo – nel corpo –, siamo del Signore” (Romani 14.8). È l’appartenenza che crea l’incompatibilità col mondo e spinge la persona a non condividerne i suoi ideali e prospettive, non certo una religione che obbliga a comportamenti e attività rituali.
Il frutto del “chicco di grano” Gesù e le sue conseguenze, sono descritte in parte in 2 Corinti 5.15-17: “Egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro. Cosicché non guardiamo più nessuno alla maniera umana; se anche abbiamo conosciuto Cristo alla maniera umana – gli apostoli, quando Lui era nel corpo –, ora non lo conosciamo più così – perché la rivelazione attraverso lo Spirito ha dato di Lui la realtà di Figlio di Dio –. Tanto che, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove”.
Il frutto del “chicco di grano” uomo, invece, è quello delle opere, cioè di uno sconvolgimento positivo delle proprie abitudini e attitudini, la rinuncia ad un modo di pensare e di agire che lo aveva contraddistinto fino a prima della conversione, cioè dall’aver profondamente compreso che tutto ciò a cui tendeva e realizzava prima dell’incontro con Cristo era a Lui contrario. Ecco perché Giacomo scrive “Come il corpo senza lo Spirito è morto, così anche la fede senza le opere è morta” (2.26)!
Sul termine “opere” si è scatenata una diatriba senza fine all’interno della cristianità dove una parte di essa le antepone alla salvezza e un’altra, per reazione, le ritiene inutili: certo è che l’essere umano si salva per l’accettazione di lei come dono di Dio, quindi non ha fatto nulla per ottenerlo, ma è impossibile che, se la persona è salvata, non tenda a rifiutare lo stile di vita che l’ha caratterizzata nel mondo fino ad allora e già qui abbiamo le opere, diverse da quelle di prima. Poi ve ne saranno di altre, o frutti, quelli dello Spirito così come le troviamo in Galati 2.22, “amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé”. E, naturalmente, tante altre secondo la funzione che ciascun cristiano ha e porta avanti nella sua vita.
Vi sono dei vivi secondo il mondo che sono morti (Matteo 8.22, “Lascia i morti seppellire i loro morti”) e dei morti secondo il mondo che sono vivi e portano il frutto della loro fede, tanto o poco secondo i talenti ricevuti; e qui occorre prestare attenzione al fatto che il cristiano lo si vede dal risultato che porta, non dalla quantità o dal peso del raccolto, come insegnano le parabole dei talenti e delle mine in cui viene lodato il servo indipendentemente dal risultato che constata il suo signore. L’importante è essere albero, figurativamente parlando, piantato nel territorio di Dio, in un Giardino ideale al quale apparteniamo e che ci attende. L’importante è non essere come quel fico che Gesù aveva seccato il giorno prima, che aveva foglie e non frutti.
Un altro passo importante che proietta tutti i cristiani nel futuro è il seguente, che riguarda la resurrezione dei morti: “(il corpo) è seminato nella corruzione, risorge nell’incorruttibilità; è seminato nella miseria, risorge nella gloria; è seminato nella debolezza, risorge nella potenza; è seminato corpo animale, risorge corpo spirituale” (2 Corinti 15.42), miracolo possibile unicamente per la morte del “chicco di grano” Gesù.
Venendo ora alla frase “Chi ama la propria vita la perde, e chi odia la sua vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna”, già affrontata in altri capitoli, ricordiamo che implica agire, fare tutte quelle cose che dobbiamo affrontare in prospettiva della vita eterna con Cristo, dovendo confermare a noi stessi e agli altri la scelta volontaria che abbiamo fatto di seguirlo. Del resto, anche Lui ne fece una, consegnandosi nelle mani di uomini ingiusti, perché ci potessimo appropriare del Suo sacrificio per la nostra salvezza eterna.
“Chi ama la propria vita la perde” è una frase che prelude alla sconfitta dell’uomo che conosciamo che avrà amato un’esistenza elementare, immediata, di superficie, quella attaccata alla terra amata da Caino, portatore strenuo di un’autonomia e libertà che si illude di avere, ma dimenticando o non accettando la propria origine in Adamo; “la perde”, poi, riferito alla “vita”, si spiega con le malattie, le infermità e la vecchiaia, fasi che precedono, per chi non crede, la morte spirituale. Amare la propria vita significa rimanere aggrappati a un salvagente rattoppato alla meglio, che non potrà che sgonfiarsi, o a un collare da nuoto che prima o poi diventerà di piombo.
Le parole “Se uno mi vuole seguire, mi segua, e dove sarò io, sarà anche il mio servitore”, è di comprensione immediata quanto al destino spirituale, ma ci parla dello scopo che Gesù ha dato ai credenti in attesa della Sua venuta e questo comporta servirlo fedelmente nella sana dottrina, la sola che può preservare da scelte sbagliate che si pagheranno inevitabilmente, che definisce l’identità del credente nella Chiesa, in parola e in opera. Possiamo dire che la dottrina è posta come argine al sentimento che può interferire pesantemente nella vita del cristiano facendogli assumere un comportamento errato nei confronti suoi (nel metodo di vita) e degli altri, concedendo loro spazi che non possono né devono avere. Non può esservi vita cristiana senza l’assunzione di una posizione netta nei confronti di chiunque anche perché dobbiamo difendere la dignità che ci è stata donata. “Servire” comporta la conoscenza della volontà di Dio che può concretarsi solo per mezzo dello Spirito Santo, l’agente divino, proprio perché non si può “servire a due padroni”. Non è infatti innato nell’uomo servire Dio ubbidendo e, per tutti coloro che si realizzeranno in modo positivo, cioè avranno cercato di seguire Gesù e non di precederlo anteponendo a lui desideri o aspirazioni non spirituali, non verrà certo a mancare il riconoscimento: “Se uno mi serve, il Padre lo onorerà”.
Infatti, ogni cristiano che avrà dato un bicchiere d’acqua al suo prossimo – acqua della parola di Dio, nel nome di Cristo –, non perderà il suo premio. Questo dunque è lo scopo che Gesù affida ai cristiani per i quali vale il principio “Non più io vivo, ma Cristo vive in me”. Secondo la grazia che ci è stata data, secondo il o i talenti che ci ha affidato, onorandoci, e di cui dovremo dare conto un giorno. Amen.
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