16.07 – I GRECI CHE VOGLIONO VEDERE GESÙ (Giovanni 12.20-28)

16.07 – I greci che vogliono vedere Gesù (Giovanni 12.20-28)

 

20Tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c’erano anche alcuni Greci. 21Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli domandarono: «Signore, vogliamo vedere Gesù». 22Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. 23Gesù rispose loro: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. 24In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. 25Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. 26Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà. 27Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! 28Padre, glorifica il tuo nome». Venne allora una voce dal cielo: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!».

 

 

            Il testo sul quale meditare, semplice solo in apparenza, presenta alcuni problemi interpretativi il primo dei quali è rappresentato dall’identificazione di questi “Greci”, gentili di nascita che erano diventati proseliti alla fede giudaica, la cui presenza in quel luogo era “per il culto”, cioè la celebrazione della Pasqua. Chi fossero e da dove venissero non è certo perché gli ebrei chiamavano in quel modo, “greci”, tutti i Gentili che avevano aderito alla fede giudaica; costoro potevano appartenere a due categorie, cioè quella dei “timorati di Dio”, che si erano accostati da poco alla fede, e dei “proseliti”, circoncisi e inseriti a pieno titolo nel popolo d’Israele secondo Numeri 9.14 e 15.15 che qui riporto: “Se uno straniero che dimora fra voi celebrerà la Pasqua per il Signore, lo farà secondo la legge della Pasqua e secondo quanto è stabilito per essa. Vi sarà un’unica legge per voi, per lo straniero e per il nativo della terra”. “Vi sarà una sola legge per l’assemblea, sia per voi sia per lo straniero che dimora in mezzo a voi, una legge perenne, di generazione in generazione; come siete voi, così sarà lo straniero davanti al Signore”, quindi un’identità di trattamento.

Il fatto che Giovanni chiami “Greci” queste persone ci lascia supporre che appartenessero alla prima categoria, quella dei “timorati di Dio”, “saliti per il culto” ma che non potevano entrare nel Tempio, per lo meno in quegli spazi proibiti a chi non apparteneva al Popolo. In caso contrario l’evangelista non li avrebbe chiamati così, essendo la loro origine soltanto un ricordo in quanto sì stranieri, ma oramai integrati e un tutt’uno con gli ebrei, come abbiamo letto, “come siete voi, così sarà lo straniero davanti al Signore”.

Ricordiamo, a proposito del termine “Greci”, Giovanni 7.35: “Dissero dunque tra loro i Giudei: «Dove sta per andare costui, che noi non potremo trovarlo? Andrà forse da quelli che sono dispersi fra i Greci e insegnerà ai Greci?»”. È chiaro che con questa frase quei Giudei non intendessero che Gesù avrebbe fatto un lungo viaggio fino in Grecia, ma che fosse entrato in territorio pagano dove dimoravano persone che avevano accolto la fede ebraica o avrebbero potuto farlo, distinguendo tra i “dispersi fra” e appunto i “Greci”.

Non va dimenticato poi che la presenza di quelle persone a Gerusalemme, che aspettavano il Messia come tutti gli israeliti, è da vedersi come l’esaudimento della preghiera che Salomone elevò a Dio quando inaugurò il suo Tempio: “Anche lo straniero, che non appartiene a Israele tuo popolo, se viene da un paese lontano a causa del tuo nome perché sentirà parlare del tuo grande nome, della potente mano e del tuo braccio teso, se egli viene a pregare in questo tempio, tu ascoltalo dal cielo, luogo della tua dimora, e soddisfa tutte le richieste dello straniero, perché tutti i popoli della terra conoscano il tuo nome e ti temano come Israele tuo popolo e sappiano che al tuo nome è stato dedicato questo tempio che io ho costruito” (1 Re 8,41).

La prima considerazione che può essere fatta, allora, riguarda proprio il percorso spirituale di questo gruppo di persone che erano passate dalle loro credenze religiose all’Unico Dio che si era rivelato ad un popolo così diverso dal loro, cosa non facile; giunti a Gerusalemme, il giorno prima – secondo la cronologia di Marco – avevano visto il trionfo riservato a Gesù dalla folla acclamante e festosa e, ancora liberi dalle imposizioni giudaiche, erano rimasti profondamente stupiti in base a quanto era stato loro insegnato sul  Messia e lo volevano “vedere”, verbo così tradotto da tutte le versioni che ho consultato perché non sottintende nient’altro.

Costoro vanno proprio da Filippo che “era di Betsaida” di Galilea, quindi non giudeo, villaggio che era vicino alla frontiera con la Siria, nazione in cui Gesù era conosciuto come dimostra l’episodio della donna siro-fenicia e tutto quel giro che aveva fatto fino a spingersi nei territori di Tiro e Sidone (Marco 7.31). Possiamo pensare che Filippo fosse stato scelto da loro a caso? Forse lo avevano già visto o ne avevano individuata l’origine dall’accento? In quel caso, erano siriani e non greci come potremmo intendere leggendo il testo. Filippo allora raggiunse Andrea, di Bethsaida anche lui, gli espose la richiesta avuta consigliandosi sul da farsi e quindi andarono dal loro Maestro.

La cronaca dell’evangelista Giovanni a questo punto si fa apparentemente frammentata perché ci costringe ad una scelta: già identificare a chi Gesù si rivolge non è cosa semplice: “disse loro”. A chi? Ai discepoli, a quei “greci” o a tutti i presenti? Non è un problema da poco perché aveva detto in precedenza (Giovanni 6.37) “Io non respingerò chi verrà a me”, ma il “vedere” suggerisce l’idea della soddisfazione di una curiosità perché non chiedono di parlargli; il verbo greco “èidon” infatti può venire tradotto con “guardare, vedere coi propri occhi, osservare”. Se pensiamo a Nicodemo, che “andò a Gesù di notte”, siamo di fronte a due intenzioni ben diverse fra loro. È stato osservato che la richiesta di vederLo, però, cadeva in un momento  in cui, come Gesù stesso lascia intendere, si era conclusa la Sua funzione di “Profeta dell’Altissimo” per entrare in quella di “Sommo Sacerdote secondo l’ordine di Melkisedec”, Re di Salem senza né padre né madre.

Melchisedec, personaggio che negli scritti dell’Antico patto compare solo in un incontro con Abrahamo e Lot (Genesi 14.16-18), fu spiegato dall’autore alla lettera agli Ebrei con queste parole: “…in essa – la promessa di Dio – infatti abbiamo un’àncora sicura e salda per la nostra vita: essa entra fino al di là del velo del santuario, dove Gesù è entrato come precursore per noi, divenuto sommo sacerdote per sempre secondo l’ordine di Melchidecek. Questo Melchisedek, infatti, re di Salem, sacerdote del Dio altissimo, andò incontro ad Abramo mentre ritornava dall’avere sconfitto i re e lo benedisse; a lui Abramo diede la decima di ogni cosa. Anzitutto il suo nome significa “Re di Giustizia”, poi è anche re di Salem, cioè “Re di pace”. Egli, senza padre, senza madre, senza genealogia, senza principio di giorni, né fine di vita, fatto simile al Figlio di Dio, rimane sacerdote per sempre”. Ecco uno dei tanti casi in cui abbiamo la presenza del Figlio nell’Antico Patto.

Come Sommo Sacerdote, Gesù avrebbe di lì a poco fatto qualcosa che nessun altro prima di lui aveva fatto, dare se stesso in sacrificio per la salvezza di tutti coloro che avrebbero creduto in lui e la sua pregheria detta “sacerdotale”, che avrebbe elevato al Padre di lì a poco, e che Giovanni riporta al capitolo 17 del suo Vangelo, lo conferma.

Credo che se le parole che seguono nel testo fossero state rivolte a quei greci, non avrebbero capito nulla, ma se dette in particolare ai dodici, le avrebbero conservate per la comprensione totale che si verificherà alla discesa dello Spirito Santo. Certo è che Nostro Signore non era in un ambiente chiuso, riservato, e le Sue parole furono udite perché, proseguendo nella lettura del testo che esamineremo, la folla intervenne ed è molto probabile che ascoltarono anche quanti lo volevano “vedere”.

La prima parola che possiamo sottolineare nel discorso di Gesù è “l’ora”, che nella Scrittura può indicare tanto un momento preciso, fissato, quanto un periodo di tempo; a puro titolo di esempio perché i passi sono veramente tanti, possiamo ricordare Luca 22.14, “Quando venne l’ora, prese posto a tavola e i dodici con lui”, e 22.53, “Ogni giorno ero con voi nel tempio e non avete mai messo le mani su di me; ma questa è l’ora vostra e il potere delle tenebre”.

“È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato” allude quindi a tutto ciò era imminente, sempre più vicino perché mancava poco più di un giorno al Suo arresto, e a tutto ciò che ne sarebbe conseguito, cioè la Sua Passione, morte e risurrezione. E, come abbiamo letto nel nostro passo, quella di Gesù era un’ “ora” dalla quale non poteva essere salvato perché era venuto sulla terra proprio per quella (v. 27). È l’uscita vittoriosa da quell’ora, col “tutto è compiuto” che comporterà la Sua glorificazione, per comprendere (pallidamente) la quale possiamo pensare a un re, che ha trono e regno, ma che tornando vittorioso da una guerra dà dimostrazione totale, ufficiale e piena del suo valore. E questo penso sia  una spiegazione del fatto che a Gesù il Padre “ha dato un nome superiore ad ogni altro”: con questo non è che Lui sia “passato di grado”, ma ha completato una funzione e un ruolo che, per quanto operativo già nell’Antico Patto, è diventato  universale, pieno e alla perfetta portata di ogni uomo con il Suo Sacrificio, risurrezione e ascensione al cielo perché non solo la morte non lo ha potuto trattenere, ma neppure la terra che lo ha accolto dalla nascita al rientro nei cieli. La resurrezione di Gesù non è un avvenimento che i religiosi danno per scontato, ma di cui il cristiano si è appropriato e che rinnova ogni giorno.

Il glorificare di cui parlano Gesù e il Padre nel nostro testo ci parla di reciprocità e provvedimento, come da Giovanni 13.32: “Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito”. Prima di incarnarsi il Figlio era la Parola senza cui nessuna cosa è stata creata, ma dopo sarebbe stato il Figlio fattosi uomo per salvare i peccatori e tornato in cielo dopo avere dato “la sua vita in riscatto per molti”. E ricordiamo che “Parola” è tradotto da “Logos” che per i filosofi greci era il motore dell’Universo o, secondo Eraclito, “La ragione determinante il mondo e la legge in cui essa si esprime”. L’uomo non poteva essere salvato con un decreto che annullasse il peccato salvando tutti, ma solo con la vittoria sulla morte dopo averla avuta, provata, sofferta ed è per questo che “Nessuno può strapparle – le pecore – dalla mia mano”: Satana, sconfitto con lo schiacciamento del capo, ha perso il suo potere omicida e non è in grado di fare nulla per poter annullare la salvezza dell’essere umano.

Spiegazione della glorificazione di Gesù l’abbiamo nei primi versi di Giovanni 17, “Padre, è venuta l’ora: glorifica il Figlio tuo perché il Figlio glorifichi te. Tu gli hai dato potere su ogni essere umano, perché egli dia la vita eterna a tutti coloro che gli hai dato. Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo. Io ti ho glorificato sulla terra, compiendo l’opera che mi hai dato da fare. E ora, Padre, glorificami davanti a te con quella gloria che io avevo presso di te prima che il mondo fosse”, il che ci va venire alla mente l’attestazione che Nostro Signore diede di sé un giorno, “Prima che il mondo fosse, io sono”. Totale,  un cerchio perfetto per la cui conclusione nulla è stato trascurato perché altrimenti l’Avversario si sarebbe potuto aggrappare anche all’errore più infinitesimale nell’opera del Figlio per chiederne l’annullamento, vincendo. E invece, grazie a questa assoluta perfezione, la salvezza della persona è inattaccabile. Amen.

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