16.05 – IL FICO MALEDETTO (Marco 11.12-14)

16.05 – Il fico maledetto (Marco 11.12-14)

12La mattina seguente, mentre uscivano da Betània, ebbe fame. 13Avendo visto da lontano un albero di fichi che aveva delle foglie, si avvicinò per vedere se per caso vi trovasse qualcosa ma, quando vi giunse vicino, non trovò altro che foglie. Non era infatti la stagione dei fichi. 14Rivolto all’albero, disse: «Nessuno mai più in eterno mangi i tuoi frutti!». E i suoi discepoli l’udirono.

Entriamo nel secondo giorno della settimana della passione, corrispondente al nostro lunedì, che Marco fa iniziare con l’unico miracolo di distruzione operato da Gesù. In merito a ciò che avvenne in questo periodo, circa le Sue attività per lo meno nei primi quattro giorni, a parte gli episodi specifici che affronteremo raccontati da tutti gli evangelisti, va tenuto presente quanto scrive Luca: “Stava durante i giorni nel Tempio insegnando; durante le notti poi, uscito fuori, dimorava nel monte chiamato degli Olivi. E tutto il popolo s’affrettava di buon mattino alla volta di lui nel Tempio per ascoltarlo” (21.37-38).
Ora su cosa fece il Maestro a Betania la sera e la notte, possiamo fare solo delle supposizioni, ma il fatto che solo Gesù ebbe fame e cercò di sfamarsi andando presso un fico, la teoria in base alla quale i discepoli pernottarono e quindi mangiarono prima di partire presso Marta, Maria e Lazzaro e Lui trascorse la notte in preghiera non credo sia azzardata.
Ora bisogna sapere che i fichi in Medio Oriente hanno due stagioni fruttifere, da maggio a giugno la prima e a settembre la seconda, così come erano due le tipologie di questa pianta: una fioriva, metteva le foglie e poi i frutti, e un altra, evidentemente quella del nostro racconto, fogliava e fruttificava contemporaneamente. Abbiamo poi rilevato in un recente capitolo il significato del nome Bethfage, “casa dei fichi” ed il fatto che in quella zona, Bethfage-Betania, questi alberi fruttassero prima della stagione consueta; quindi Gesù, passando di là, contava di cibarsi dei frutti di quelle piante. Ricordiamo anche che quel lunedì era il 10 del mese di Abib, corrispondente al nostro aprile, quindi quel fico aveva messo le foglie (e avrebbe dovuto avere anche i frutti) con tre mesi di anticipo.
Credo sia opportuno soffermarci sulla nota “ebbe fame” che Marco e Matteo inseriscono e che ci conferma che Gesù, come uomo, fu soggetto alle nostre stesse necessità e problemi: se così non fosse stato, se avesse provveduto con miracoli a risolverli, non sarebbe stato quel “servo perfetto” con cui era considerato dal Padre. Ricordiamo Matteo 4.2, “Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame”, quando a questa condizione di spossatezza seguirono le tentazioni di Satana dalle quali uscì stremato a tal punto che il Padre mandò degli angeli a servirlo (v.11). Il Padre li inviò di Sua iniziativa, non fu il Figlio a chiederne l’assistenza. La Sua condizione di uomo doveva essere quindi tale fino in fondo, come dimostrò in questo passo sentendo fame, mentre come Dio poteva dare dimostrazione delle sue parole “Già la scure è posta alla radice degli alberi: ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco” (Matteo 3.10) che qui giustifica la sentenza emessa, “Nessuno mai più in eterno mangi i tuoi frutti”.
Quel fico poi, col suo essere sterile, “contravveniva” all’ordine dato alla creazione quando fu detto “La terra produca germogli, erbe che producano seme e alberi da frutto, che fanno sulla terra frutto con il seme, ciascuno secondo la propria specie” (Genesi 1.11). Solo Gesù quindi, come Parola di Dio, poteva essere in grado di emettere quella sentenza perché, come Colui che aveva ordinato agli alberi della terra di crescere, germogliare a fruttificare, si era trovato di fronte a un’anomalia che, figurativamente, era un atto di ribellione. Il parallelo col credente, cui è richiesto che porti “molto frutto” (dove quel “molto” significa “in base alle sue possibilità”) perché il Padre sia glorificato, è inevitabile, così come la sua relazione con Deuteronomio 32.39, “Sono io che do la morte e faccio vivere; io percuoto e io guarisco, e nessuno può liberare dalla mia mano”: Egli è il Tutto la cui mano, così come trattiene definitivamente e per l’eternità, altrettanto respinge. Due aspetti della stessa realtà e potenza.
Ora andrebbero affrontate due domande impegnative solo in apparenza e cioè: perché, se Gesù come Onnisciente sapeva che quel fico non avrebbe avuto frutti, gli si avvicinò? E soprattutto, perché ebbe una reazione che alcuni, impropriamente, hanno voluto vedere come di stizza causata dalla delusione di non potersi sfamare?
Circa la prima questione, certo Nostro Signore sapeva che quel fico era sterile nonostante avesse le foglie, ma volle rendere i discepoli testimoni del giudizio su un elemento del creato che andava contro natura, all’ordine di Dio dato al cosiddetto “regno vegetale” che abbiamo ricordato. Contrariamente i discepoli, che abbiamo letto “l’udirono”, o per lo meno Pietro che lo dirà espressamente il giorno dopo, interpretarono le parole del loro Maestro come dettate da un impeto d’ira o indisposizione, talché l’apostolo il giorno dopo, passando nello stesso luogo, dirà “Maestro, guarda, l’albero dei fichi che hai maledetto si è seccato!” (v.20) quasi che, a fronte di tutte le parole di verità che Gesù aveva pronunciato e dei miracoli preceduti da parole, avesse detto una frase avventata, tanto per dire. Se così fosse stato, Gesù avrebbe potuto essere accomunato a quel tale di Proverbi 26.18,29, “Come un pazzo che scaglia tizzoni e frecce di morte, così è colui che inganna il suo prossimo e poi dice: «Ma sì, è stato uno scherzo!»”.
Solo più avanti i discepoli capiranno che quanto accaduto a quel fico si verificherà ad ogni uomo o donna che non avrà dato luogo all’amore della verità per essere salvato, quando Gesù si avvicinerà ad ognuno per trovare frutti e, non potendone raccogliere, potrà solo emettere una sentenza di morte. Lo stesso avverrà a tutti quei cristiani nominali, che non si saranno affatto preoccupati di conoscere le Sue volontà e non avranno operato per portare frutti.
Le parole rivolte al fico sono un modo severo per ricordare ciò che Dio disse in Isaia 5.4-7, per quanto su piante differenti: “Che cosa dovevo fare alla mia vigna che io non abbia fatto? Perché, mentre io attendevo che produsse uva, essa ha prodotto acini acerbi? Ora voglio farvi conoscere ciò che farò alla mia vigna: toglierò la sua siepe e si trasformerà in pascolo; demolirò il suo muro di cinta e verrà calpestata. La renderò un deserto: non sarà né potata, né vangata – quindi non manderà più personale a coltivarla – e vi cresceranno rovi e pruni; alle nubi comanderò di non mandarvi la pioggia. Ebbene, la vigna del Signore degli eserciti è la casa d’Israele; gli abitanti di Giuda sono la sua piantagione preferita. Egli si aspettava giustizia – della quale non sarebbe stato necessario avere fame e sete – ed ecco spargimento di sangue; attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi”.
Per i cristiani di ieri e di oggi valgono le parole dell’apostolo Pietro, “Per questo mettete ogni impegno per aggiungere alla vostra fede – la base, senza la quale “è impossibile piacere a Dio”, il primo requisito per poter operare, senza la quale ogni sforzo sarebbe inutile – la virtù, alla virtù la conoscenza, alla conoscenza la temperanza, alla temperanza la pazienza, alla pazienza la pietà, alla pietà l’amore fraterno, all’amore fraterno la carità. Questi doni, presenti in voi e fatti crescere, non vi lasceranno inoperosi e senza frutto per la conoscenza del Signore nostro Gesù Cristo” (1a. 1.5-8). C’è quindi una cronologia nella crescita spirituale di una persona e non si tratta di una banale addizione per cui, come imparato alle scuole elementari, “invertendo i fattori il prodotto non cambia”.

Il frutto. Non sorge così, subito, senza un processo complesso della pianta o della persona che lo porta, ma è il risultato di eventi interni che mutano nel corso del tempo, non modificabili in alcun modo. La crescita e lo sviluppo, sono fenomeni biologici. E questo ci parla della gradualità e dell’attesa, del fatto che anche spiritualmente una persona ha bisogno di un periodo per comprendere, elaborare, svilupparsi senza l’intervento di altri che la costringano o la spingano per riflesso a simulare modi e comportamenti perché un conto è l’esortazione e un conto l’imposizione. Del resto, osservando il comportamento che Gesù ebbe coi discepoli, fu instancabile nel formarli e guidarli avendo seminato qualcosa che sarebbe germogliata a suo tempo, riprendendoli, ma mai obbligandoli ad agire o a pensare in un determinato modo, indicando un metodo, non fornendo loro un manuale.
Ecco allora che, tornando al giudizio sul fico, vediamo un provvedimento, oltre a ciò che è stato evidenziato fin qui, contro l’apparenza, la finzione, l’ipocrisia religiosa che, non potendo portare un reale frutto spirituale, lo simula e non lo può fare se non mettendo foglie, magari belle, grandi, ma totalmente prive di sostanza, di utilità, di contenuti nutritivi e ristoratori: quel fico avrebbe dovuto sfamare chi gli si fosse avvicinato ma, al contrario, lo ingannava lasciandolo affamato più di prima.
Quell’albero quindi non solo non faceva frutti, ma impoveriva il terreno circostante, era una pianta in cui si identificano molti essere umani, come lui parassiti, e possiamo dire che, se non fosse stato colpito alle radici, avrebbe ingannato altri così come aveva fatto con Gesù e i discepoli. Le foglie di quel fico erano il suo vestito, figuratamente era l’unico modo che aveva per non presentarsi privo di dignità, ma la modalità che aveva scelto era la più inutile. Se lo trasformiamo in persona, simulava qualità che non aveva, metteva tutto il suo impegno a presentarsi al meglio: trucco, vestiti, ornamenti, un carattere ricercato, uno status sociale, ma era sufficiente un bisogno elementare e semplice come aver fame per non trovare nulla. E il momento in cui occorre dare dimostrazione di avere realmente e non apparentemente, arriva prima o poi per tutti: non basta a un medico avere il camice, a un cristiano una veste di distinzione o una bibbia in mano, a un ingegnere o a un architetto un bello studio con tanto di laurea appesa al muro.
Ultima considerazione che mi sento di fare è ancora una volta sulla reazione di Gesù quando non trovò i frutti sul fico: si immedesimò in tutti coloro che, ingannati da quella pianta che raffigura anche le pseudo istituzioni che dovrebbero essere preposte per caratterizzare l’etica cristiana, non trovano in esse una risposta effettiva, lasciando molto a desiderare inquinate come sono da elementi pagani e superstiziosi. E provvide a maledirlo, dando un monito e un’anticipazione a ciò che avverrà e avviene. E si può ricordare Romani 1.28-32: “Poiché hanno disprezzato la conoscenza di Dio, Dio li ha abbandonati in balìa di un’intelligenza depravata, sicché commettono ciò che è indegno, colmi come sono di ogni sorta di ingiustizia, di malvagità, di cupidigia, di malizia; pieni d’invidia, di omicidio, di rivalità, di frodi, di malignità; diffamatori, maldicenti, nemici di Dio, oltraggiosi, superbi, fanfaroni, ingegnosi nel male, ribelli ai genitori, insensati, sleali, senza cuore, senza misericordia. E pur conoscendo il giudizio di Dio, cioè che gli autori di tali cose meritano la morte, non solo continuano a farle, ma anche approvano chi le fa”.
Quindi costoro consentono che, anziché sia resa giustizia, l’uomo soffra delle più disparate ingiustizie sociali e morali e, come nel tempo in cui viviamo, travestono tutto di legalità e cercano di instillare nelle persone il vuoto interiore più totale perché non si rendano conto né dei piani che ordiscono, né del giudizio che incombe su di loro. Amen.
* * * * *

Lascia un commento