16.09 – L’HO GLORIFICATO E LO GLORIFICHERÒ ANCORA (Giovanni 12.27-33)

16.09 – L’ho glorificato e lo glorificherò ancora (Giovanni 12.27-33)

 

27Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! 28Padre, glorifica il tuo nome». Venne allora una voce dal cielo: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!».29La folla, che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato». 30Disse Gesù: «Questa voce non è venuta per me, ma per voi. 31Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. 32E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». 33Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire. 

 

            L’episodio dei Greci che volevano “vedere Gesù”, con le annotazioni conseguenti, porta con sé, nelle Sue parole, degli elementi dottrinali che mi hanno costretto a spezzettarlo in diverse parti, ciascuna esaminante alcuni aspetti del Suo discorso. Pur non essendo immediato mettere ordine nei contenuti dei sette versi oggetto di considerazione, distinguerei al loro interno cinque momenti visti nel turbamento di Gesù, in quello che dice al Padre, ciò che Lui risponde, la reazione della folla e infine le parole rivolte ad essa.

Il primo elemento da considerare è quindi il turbamento dell’ “anima” di Gesù, quindi abbiamo rivelata la sua realtà di uomo che come tale l’aveva, mentre come Dio no essendo puro spirito, l’ “Io sono”: fu Adamo, formato con la “polvere della terra” ad essere fatto “anima vivente”, mentre il Creatore, fatto di Spirito, gli soffiò nelle narici il proprio “alito vitale” che Nostro Signore ereditò da Maria, sua madre, come qualunque altro essere umano. Ogni volta che leggiamo di una reazione dell’ “anima” di Gesù, vediamo quindi la Sua come Figlio dell’uomo che, pur già sapendo in anticipo tutto ciò che sarebbe accaduto, in quanto tale non poteva esimersi dal provare turbamento.

Così era accaduto, per citare un episodio recente, quando pianse su Gerusalemme il giorno prima, così avverrà alla Santa Cena quando leggiamo che “…fu profondamente turbato e dichiarò: «In verità vi dico: uno di voi mi tradirà»” (13.21). Ancora poi al Getsemani, quando disse “L’anima mia è triste fino alla morte; restate qui e vegliate con me” (Matteo 26.38) oppure quando, anteriormente a tutti gli eventi citati, disse “Ho un battesimo nel quale sarò battezzato; e come sono angosciato finché non sia compiuto” (Luca 12.50).

Da questi esempi allora vediamo che Gesù non fu il Dio in terra venuto per compiere una missione e andarsene adempiendo a un atto formale, vivendo e morendo senza soffrire – avrebbe potuto farlo benissimo –, ma fu uomo fino in fondo, altrimenti non avrebbe potuto comprendere, compatire la creatura cui dava nutrimento in Eden e soprattutto salvarla una volta caduta. Le due nature di Figlio dell’uomo e di Figlio di Dio s’incontrarono quindi perfettamente e visse, soffrì, parlò, guarì e infine morì rivelandole entrambe. Ci fu poi una vetta sublime di dolore che espresse alla croce con le parole “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”.

 

Tornando al testo in esame, abbiamo il “che dirò?”, che ci rivela la sua impossibilità a sottrarsi a tutte quelle sofferenze di fronte alle quali come Dio poteva essere superiore, ma non certo come uomo perché come tale le doveva vivere. Come scrisse qualcuno, con quel “che dirò?” sembra che Gesù pensi ad altra voce e l’unico rifugio qui è la preghiera al Padre di glorificare il Suo nome in cui si può dire venga inondato di luce a consolarlo: con le parole “E l’ho glorificato e lo glorificherò ancora”, terza volta che Dio fa udire ufficialmente la sua voce nei Vangeli, si rinnova il principio del “chicco di grano” che, morendo, “porta molto frutto”.

Al di là di quanto già scritto nel capitolo dedicato al tema, il “molto frutto” può essere individuato in questi tre avvenimenti: primo, la glorificazione di se stesso quando la morte, per l’uomo, rappresenta la perdita totale sua e di tutti i suoi beni, di cui altri si approprieranno senza aver fatto nulla per guadagnarseli. Secondo, il giudizio contro l’Avversario: “Ora viene il giudizio di questo mondo – perché non ci saranno più nuove alleanze –, ora sarà cacciato il Principe di questo mondo” (v.31) e, abbiamo il raduno degli eletti visto nelle parole “Quando sarò innalzato da terra, trarrò tutti a me” (v.32).

Se osserviamo il testo vediamo che la domanda “salvami da quest’ora” viene espressa con formula dubitativa da Gesù perché impossibile, ma quella della glorificazione del Nome rimane ed è la conferma della Sua disponibilità ad accettare la morte, visto che il Padre poteva essere glorificato da Lui in quell’unico modo. Credo che qui si apra uno squarcio di luce anche su di noi e alle scelte che possiamo essere chiamati a compiere, quando ci troviamo di fronte a situazioni di fronte alle quali dobbiamo decidere se percorrere un sentiero che porta all’abbandono di ciò che siamo come cristiani e uno che vede nella sofferenza anche estrema – penso ai martiri della Chiesa tanto antica quanto moderna – l’unico modo per glorificare il Nome del Padre. Gesù lo ha fatto e, come scrive l’apostolo Pietro nella sua prima lettera, “Se, facendo il bene, sopporterete con pazienza la sofferenza, ciò sarà gradito davanti a Dio. A questo infatti siete stati chiamati perché, anche Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme” (2.20,21).

Vi sono dei cosiddetti “evangelisti” che presentano la vita cristiana come qualcosa di idilliaco, esente da dolori, preoccupazioni, sofferenze, un credere da supermercato; a volte stampano opuscoli che sembrano quelli di un mediocre psicologo che vende illusioni propugnando un falso concetto di “pace nel cuore”, ma dimenticano di presentare, per così dire, “l’altra faccia della medaglia” che consiste non solo nel gioire, ma nel servire anche soffrendo, quando richiesto. E avendo in Gesù un simile esempio, non è possibile sottrarsene. L’uomo che conosciamo, quello nella carne, quando è provato è convinto di subire una profonda ingiustizia e che la sofferenza che patisce riguardi solo lui; al contrario l’apostolo Pietro scrive nella sua prima lettera: “Umiliatevi dunque – verbo che la carne non accetta – sotto la potente mano di Dio, affinché vi esalti al tempo opportuno – tempo che non è il nostro –, riversando su di lui ogni vostra preoccupazione, perché egli ha cura di voi. Siate sobri, vegliate, il vostro nemico, il diavolo, come un leone ruggente va in giro cercando chi divorare. Resistetegli saldi nella fede, sapendo che le medesime sofferenze sono imposte ai vostri fratelli sparsi per il mondo” (5.9). Ecco perché un fratello diceva, con un riferimento al così detto Antico Testamento, che il cristiano è contemporaneamente sacerdote e vittima.

 

Tornando al nostro testo, abbiamo la voce di Dio Padre che risponde “L’ho glorificato e lo glorificherò ancora”. Fu una voce che alcuni udirono distintamente, ma che altri, pur distinguendone il suono, non sapevano come interpretare. Altri ancora dissero “un angelo gli ha parlato”. Certo Giovanni ne comprese le parole così come credo gli altri apostoli presenti. Sappiamo che per tre volte, nei Vangeli, il Padre fece udire la sua voce e Pietro, tra i primi a seguire Gesù, fu colpito dalla seconda, alla trasfigurazione, scrivendo: “Egli ricevette onore e gloria da Dio Padre, quando giunse a lui questa voce dalla maestosa gloria: «Questi è il figlio mio, l’amato, nel quale ho posto il mio compiacimento». Questa voce noi l’abbiamo udita discendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte. E abbiamo anche, solidissima, la parola dei profeti, alla quale fate bene a volgere l’attenzione come a lampada che brilla in un luogo oscuro, finché non spunti il giorno e non sorga nei vostri cuori la stella del mattino” (1°, 1.17-19). La “stella del mattino” è Gesù nella Sua Gloria assoluta secondo la conclusione del Nuovo Patto: “Io sono la radice e la stirpe di Davide, la stella radiosa del mattino” (Apocalisse 22.16).

E questo ci porta al Nome del Padre, che lo ha glorificato, per noi, dal momento in cui ha creato l’universo, quindi l’uomo, e ha posto in atto il piano di salvezza per il suo recupero attraverso i millenni fino al giorno in cui verranno creati “nuovi cieli e nuova terra dove dimora stabile la giustizia”.

La voce che il Padre fa udire è allora prima di tutto un invito, perché viceversa il Figlio non avrebbe potuto dire “Questa voce non è venuta per me, ma per voi”: come detto prima, tutti la udirono (quindi il fatto era fuori discussione), ma a seconda di quanto le persone erano attente o disposte spiritualmente, viene data all’evento un’interpretazione diversa, “un tuono” oppure qualcosa di non meglio definito, cioè la voce di un angelo che parlava a Gesù. Si tratta di tre reazioni possibili che l’uomo ha di fronte al Vangelo: lo si accoglie (comprensione), se ne resta indifferenti pensando che non riguardi la persona (l’angelo che parla a lui, ma non agli uomini), o lo si combatte (il tuono, cioè si riduce tutto ad un caso).

Contrariamente, quella voce venne “per voi”, al fine di impedire l’idea che Nostro Signore fosse un profeta autonomo, non intimamente legato al Padre a tal punto da dire che chi aveva visto l’uno, aveva visto l’altro. Le parole di quella voce, quindi, costituivano il terzo sigillo del Dio inaccessibile all’opera del Suo amato Figlio la cui vita stava per essere data in sacrificio; infatti “Ora è il giudizio di questo mondo, ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori”.

La parola “mondo”, sulla quale ci eravamo soffermati tempo fa, ha qui riferimento a tutto ciò che di corrotto esiste sulla terra, in particolare all’essere umano che escogita da sempre delle alternative a una vita dedicata al proprio Creatore, rifiutandosi di cercarlo, persone che consapevolmente o meno hanno fatto dell’Avversario il loro principe che “sarà gettato fuori”. E “Principe di questo mondo” era un termine che i presenti avrebbero potuto capire perché così Satana era definito dai rabbini fin dai tempi antichi.

Potremmo chiederci perché “ora” e “gettato fuori” quando l’opera dell’Avversario, sia a livello di dominio sul mondo quanto di trame per la sua fine, è sempre più visibile; credo che “gettato fuori” si riferisca al fatto che Satana non ha più potere assoluto come un tempo per la perdizione dell’essere umano nel senso che nulla può contro chi appartiene al Cristo di Dio. C’è infatti tutta una cronologia, che possiamo far partire con la croce e la risurrezione, che si concluderà con l’Avversario “gettato nello stagno di fuoco e di zolfo per essere tormentato giorno e notte nei secoli dei secoli” (Apocalisse 11.15). Satana viene “gettato fuori” perché, come detentore della morte, non ha più potere: “La morte è stata inghiottita nella vittoria. Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione? Il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la Legge. Siano rese grazie a Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo!” (1 Corinti 15.54-57).

Il verso che conclude il nostro passo, parola del Signore, precisa cosa sia quell’ “ora”: “Ed io, quando sarò alzato da terra, attirerò tutti a me”. Sappiamo che alla croce ci fu il Sacrificio senza il quale nessuno avrebbe potuto essere salvato e che un chiaro riferimento ad essa ci fu anticamente nel serpente di rame innalzato nel deserto (Numeri 21.8,9): “quando un serpente aveva morso qualcuno, se questi guardava il serpente di rame rimaneva in vita”.

Chi oggi “guarda” la croce e quindi la morte di Gesù, che nonostante tutto non avrebbe alcun valore senza la Sua risurrezione, si salva dalla morte eterna. Ed è bello considerare che il verbo usato, elkùso, sta ad indicare un’attrazione dolce, persuasiva, efficace, per distinguerla da una forza irresistibile che annienta la volontà e fa dell’uomo un automa.

E “Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire”. L’innalzamento in croce, “stoltezza per quelli che si pèrdono, ma per quelli che si salvano, ossia per noi, potenza di Dio” (1 Corinti 1.18). Amen.

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16.08 – IL CHICCO DI GRANO (Giovanni 12.24-26)

16.08 – Il chicco di grano (Giovanni 12.24-26)

 

24In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. 25Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. 26Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà. 

 

 

            Le parole di Gesù dette ai discepoli quando i Greci chiesero a Filippo di vederlo hanno un’importanza che non si può esaurire con il breve commento fatto alla fine dello scorso capitolo perché contengono una domanda per noi basilare e cioè a chi Lui abbia voluto riferirsi con la parabola del chicco di grano; una prima risposta, corretta, è quella che alluda alla Sua opera, visto che ha parlato di morte, la sola che, assieme alla risurrezione, avrebbe potuto portare alla salvezza dell’essere umano. Tuttavia non si può evitare di osservare come, esaurito il verso 24, Gesù passi ad affrontare la vita interiore del credente e quindi pare difficile pensare che “il chicco di grano” sia esclusivamente riferito a Lui, ma nasconda in prospettiva delle realtà che si sarebbero manifestate e che sarebbero state comprese più avanti.

Perché un seme produca “frutto”, deve “morire”, cioè cessare di esistere nella sua forma originale, e germinare con il conseguente spuntare della futura radice e fusto; il seme muore e una vita nasce al suo posto. È bello considerare che, se per i sinottici il “seme” è la Parola o il Regno di Dio (vedi la parabola del seminatore e dei vari terreni), per Giovanni abbiamo “il chicco di grano”, figura della morte di Gesù.

Nel mondo terreno la morte del chicco di grano produce la spiga che può dare dai 60 agli 80 semi e da qui, ipoteticamente, ne possiamo avere l’anno successivo 6.400 (80×80) che, ancora un anno dopo, ne produrrebbero altri 512.000 (6400×80). La morte di Gesù quindi produce nel tempo un certo numero di semi, che nota bene verranno raccolti “nel mio granaio”, in cui identifichiamo tutti coloro che hanno fatto proprio il Suo Sacrificio i quali, per portare frutto, devono morire anch’essi, ma in un modo molto particolare, diverso da quello attraverso cui tutti gli uomini devono passare secondo Romani 5.12: “Quindi, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato”.

 

Il peccato, dunque, violazione alla Legge di Dio, trova la sua identità nel nostro corpo decaduto, soggetto a umiliazioni come le malattie e tutte quelle altre situazioni penalizzanti che subisce fisicamente e moralmente, realtà per le quali non era progettato e, soprattutto, da cui avrebbe potuto essere preservato senza la trasgressione all’unico comandamento ricevuto dai nostri progenitori. E penso qui allo stato d’animo di Adamo non solo quando si ritrovò a dover lavorare per nutrirsi, estromesso dalla Verità, Santità e Perfezione di Dio, ma anche quando fu costretto a trasmettere alla sua discendenza le ragioni per cui quegli uomini e quelle donne, che non avevano peccato come lui, avevano ereditato la sua condizione e si trovavano a provare dolore e vivere in una terra che produceva “spine e cardi” (o “triboli”). Ora, calcolando che Adamo visse 930 anni, cioè fino a 126 prima della nascita di Noè, va da sé che tutti coloro che nacquero per tutto quel tempo vennero a conoscenza del fatto che lui era il responsabile della loro condizione, attendendo che la “progenie della donna” schiacciasse il capo al serpente seduttore. Se Adamo non si fosse comportato trasmettendo oralmente le vicende di Eden, non ne avremmo traccia alcuna nel libro della Genesi.

 

Fatta questa breve parentesi, torniamo alla morte del “chicco di grano” che presenta due aspetti: prima di tutto abbiamo Cristo, che “…è morto ed è ritornato alla vita per essere il Signore dei morti e dei vivi”; ciò comporta il fatto che nessuno potrà scampare al Giudizio se Lo avrà rifiutato, ma, secondo, non esiste nessuno che possa dirsi cristiano se non è ha fatto questa esperienza dentro di sé: “Ora, se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto per il peccato, ma lo Spirito è vita per la giustizia. E se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi” (Romani 8.10,11). In concreto quindi, il corpo è “morto per il peccato” alla condizione che “Cristo è in voi”, cioè che la Sua presenza sia tenuta come un tesoro, vitale come l’aria che si respira. La forza del cristiano è tutta qui nel senso che, fino a quanto rimane unito a Cristo è preservato da cadute, ma quando ciò non accade, inevitabilmente cade e pecca. E il peccato non è solo un’azione contraria al volere di Dio, ma prima ancora un sistema di vita e prima ancora di pensiero.

Credo che nel verso appena citato abbiamo esposto il principio in base al quale il cristiano vive in un mondo a parte basato sul fatto che Cristo è in lui; conseguentemente il corpo che ci riveste è “morto per il peccato”, cioè è incompatibile. Una cosa è la possibilità di peccare, il che avviene per debolezza, mancata vigilanza o un’infinità di ragioni, e tutt’altra realtà è quella del peccato che domina l’esistenza, cosa che per un credente non può avvenire. In altri termini la presenza di Cristo esclude che la persona da lui salvata possa vivere, pensare, agire come prima di essere stato messo da parte per il Regno di Dio; è un’appartenenza che non verrà mai meno perché “Sia che viviamo, sia che moriamo – nel corpo –, siamo del Signore” (Romani 14.8). È l’appartenenza che crea l’incompatibilità col mondo e spinge la persona a non condividerne i suoi ideali e prospettive, non certo una religione che obbliga a comportamenti e attività rituali.

Il frutto del “chicco di grano” Gesù e le sue conseguenze, sono descritte in parte in 2 Corinti 5.15-17: “Egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro. Cosicché non guardiamo più nessuno alla maniera umana; se anche abbiamo conosciuto Cristo alla maniera umana – gli apostoli, quando Lui era nel corpo –, ora non lo conosciamo più così – perché la rivelazione attraverso lo Spirito ha dato di Lui la realtà di Figlio di Dio –. Tanto che, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove”.

 

Il frutto del “chicco di grano” uomo, invece, è quello delle opere, cioè di uno sconvolgimento positivo delle proprie abitudini e attitudini, la rinuncia ad un modo di pensare e di agire che lo aveva contraddistinto fino a prima della conversione, cioè dall’aver profondamente compreso che tutto ciò a cui tendeva e realizzava prima dell’incontro con Cristo era a Lui contrario. Ecco perché Giacomo scrive “Come il corpo senza lo Spirito è morto, così anche la fede senza le opere è morta” (2.26)!

Sul termine “opere” si è scatenata una diatriba senza fine all’interno della cristianità dove una parte di essa le antepone alla salvezza e un’altra, per reazione, le ritiene inutili: certo è che l’essere umano si salva per l’accettazione di lei come dono di Dio, quindi non ha fatto nulla per ottenerlo, ma è impossibile che, se la persona è salvata, non tenda a rifiutare lo stile di vita che l’ha caratterizzata nel mondo fino ad allora e già qui abbiamo le opere, diverse da quelle di prima. Poi ve ne saranno di altre, o frutti, quelli dello Spirito così come le troviamo in Galati 2.22, “amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé”. E, naturalmente, tante altre secondo la funzione che ciascun cristiano ha e porta avanti nella sua vita.

 

Vi sono dei vivi secondo il mondo che sono morti (Matteo 8.22, “Lascia i morti seppellire i loro morti”) e dei morti secondo il mondo che sono vivi e portano il frutto della loro fede, tanto o poco secondo i talenti ricevuti; e qui occorre prestare attenzione al fatto che il cristiano lo si vede dal risultato che porta, non dalla quantità o dal peso del raccolto, come insegnano le parabole dei talenti e delle mine in cui viene lodato il servo indipendentemente dal risultato che constata il suo signore. L’importante è essere albero, figurativamente parlando, piantato nel territorio di Dio, in un Giardino ideale al quale apparteniamo e che ci attende. L’importante è non essere come quel fico che Gesù aveva seccato il giorno prima, che aveva foglie e non frutti.

 

Un altro passo importante che proietta tutti i cristiani nel futuro è il seguente, che riguarda la resurrezione dei morti: “(il corpo) è seminato nella corruzione, risorge nell’incorruttibilità; è seminato nella miseria, risorge nella gloria; è seminato nella debolezza, risorge nella potenza; è seminato corpo animale, risorge corpo spirituale” (2 Corinti 15.42), miracolo possibile unicamente per la morte del “chicco di grano” Gesù.

 

Venendo ora alla frase “Chi ama la propria vita la perde, e chi odia la sua vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna”, già affrontata in altri capitoli, ricordiamo che implica agire, fare tutte quelle cose che dobbiamo affrontare in prospettiva della vita eterna con Cristo, dovendo confermare a noi stessi e agli altri la scelta volontaria che abbiamo fatto di seguirlo. Del resto, anche Lui ne fece una, consegnandosi nelle mani di uomini ingiusti, perché ci potessimo appropriare del Suo sacrificio per la nostra salvezza eterna.

“Chi ama la propria vita la perde” è una frase che prelude alla sconfitta dell’uomo che conosciamo che avrà amato un’esistenza elementare, immediata, di superficie, quella attaccata alla terra amata da Caino, portatore strenuo di un’autonomia e libertà che si illude di avere, ma dimenticando o non accettando la propria origine in Adamo; “la perde”, poi, riferito alla “vita”, si spiega con le malattie, le infermità e la vecchiaia, fasi che precedono, per chi non crede, la morte spirituale. Amare la propria vita significa rimanere aggrappati a un salvagente rattoppato alla meglio, che non potrà che sgonfiarsi, o a un collare da nuoto che prima o poi diventerà di piombo.

 

Le parole “Se uno mi vuole seguire, mi segua, e dove sarò io, sarà anche il mio servitore”, è di comprensione immediata quanto al destino spirituale, ma ci parla dello scopo che Gesù ha dato ai credenti in attesa della Sua venuta e questo comporta servirlo fedelmente nella sana dottrina, la sola che può preservare da scelte sbagliate che si pagheranno inevitabilmente, che definisce l’identità del credente nella Chiesa, in parola e in opera. Possiamo dire che la dottrina è posta come argine al sentimento che può interferire pesantemente nella vita del cristiano facendogli assumere un comportamento errato nei confronti suoi (nel metodo di vita) e degli altri, concedendo loro spazi che non possono né devono avere. Non può esservi vita cristiana senza l’assunzione di una posizione netta nei confronti di chiunque anche perché dobbiamo difendere la dignità che ci è stata donata. “Servire” comporta la conoscenza della volontà di Dio che può concretarsi solo per mezzo dello Spirito Santo, l’agente divino, proprio perché non si può “servire a due padroni”. Non è infatti innato nell’uomo servire Dio ubbidendo e, per tutti coloro che si realizzeranno in modo positivo, cioè avranno cercato di seguire Gesù e non di precederlo anteponendo a lui desideri o aspirazioni non spirituali, non verrà certo a mancare il riconoscimento: “Se uno mi serve, il Padre lo onorerà”.

Infatti, ogni cristiano che avrà dato un bicchiere d’acqua al suo prossimo – acqua della parola di Dio, nel nome di Cristo –, non perderà il suo premio. Questo dunque è lo scopo che Gesù affida ai cristiani per i quali vale il principio “Non più io vivo, ma Cristo vive in me”. Secondo la grazia che ci è stata data, secondo il o i talenti che ci ha affidato, onorandoci, e di cui dovremo dare conto un giorno. Amen.

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16.07 – I GRECI CHE VOGLIONO VEDERE GESÙ (Giovanni 12.20-28)

16.07 – I greci che vogliono vedere Gesù (Giovanni 12.20-28)

 

20Tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c’erano anche alcuni Greci. 21Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli domandarono: «Signore, vogliamo vedere Gesù». 22Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. 23Gesù rispose loro: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. 24In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. 25Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. 26Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà. 27Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! 28Padre, glorifica il tuo nome». Venne allora una voce dal cielo: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!».

 

 

            Il testo sul quale meditare, semplice solo in apparenza, presenta alcuni problemi interpretativi il primo dei quali è rappresentato dall’identificazione di questi “Greci”, gentili di nascita che erano diventati proseliti alla fede giudaica, la cui presenza in quel luogo era “per il culto”, cioè la celebrazione della Pasqua. Chi fossero e da dove venissero non è certo perché gli ebrei chiamavano in quel modo, “greci”, tutti i Gentili che avevano aderito alla fede giudaica; costoro potevano appartenere a due categorie, cioè quella dei “timorati di Dio”, che si erano accostati da poco alla fede, e dei “proseliti”, circoncisi e inseriti a pieno titolo nel popolo d’Israele secondo Numeri 9.14 e 15.15 che qui riporto: “Se uno straniero che dimora fra voi celebrerà la Pasqua per il Signore, lo farà secondo la legge della Pasqua e secondo quanto è stabilito per essa. Vi sarà un’unica legge per voi, per lo straniero e per il nativo della terra”. “Vi sarà una sola legge per l’assemblea, sia per voi sia per lo straniero che dimora in mezzo a voi, una legge perenne, di generazione in generazione; come siete voi, così sarà lo straniero davanti al Signore”, quindi un’identità di trattamento.

Il fatto che Giovanni chiami “Greci” queste persone ci lascia supporre che appartenessero alla prima categoria, quella dei “timorati di Dio”, “saliti per il culto” ma che non potevano entrare nel Tempio, per lo meno in quegli spazi proibiti a chi non apparteneva al Popolo. In caso contrario l’evangelista non li avrebbe chiamati così, essendo la loro origine soltanto un ricordo in quanto sì stranieri, ma oramai integrati e un tutt’uno con gli ebrei, come abbiamo letto, “come siete voi, così sarà lo straniero davanti al Signore”.

Ricordiamo, a proposito del termine “Greci”, Giovanni 7.35: “Dissero dunque tra loro i Giudei: «Dove sta per andare costui, che noi non potremo trovarlo? Andrà forse da quelli che sono dispersi fra i Greci e insegnerà ai Greci?»”. È chiaro che con questa frase quei Giudei non intendessero che Gesù avrebbe fatto un lungo viaggio fino in Grecia, ma che fosse entrato in territorio pagano dove dimoravano persone che avevano accolto la fede ebraica o avrebbero potuto farlo, distinguendo tra i “dispersi fra” e appunto i “Greci”.

Non va dimenticato poi che la presenza di quelle persone a Gerusalemme, che aspettavano il Messia come tutti gli israeliti, è da vedersi come l’esaudimento della preghiera che Salomone elevò a Dio quando inaugurò il suo Tempio: “Anche lo straniero, che non appartiene a Israele tuo popolo, se viene da un paese lontano a causa del tuo nome perché sentirà parlare del tuo grande nome, della potente mano e del tuo braccio teso, se egli viene a pregare in questo tempio, tu ascoltalo dal cielo, luogo della tua dimora, e soddisfa tutte le richieste dello straniero, perché tutti i popoli della terra conoscano il tuo nome e ti temano come Israele tuo popolo e sappiano che al tuo nome è stato dedicato questo tempio che io ho costruito” (1 Re 8,41).

La prima considerazione che può essere fatta, allora, riguarda proprio il percorso spirituale di questo gruppo di persone che erano passate dalle loro credenze religiose all’Unico Dio che si era rivelato ad un popolo così diverso dal loro, cosa non facile; giunti a Gerusalemme, il giorno prima – secondo la cronologia di Marco – avevano visto il trionfo riservato a Gesù dalla folla acclamante e festosa e, ancora liberi dalle imposizioni giudaiche, erano rimasti profondamente stupiti in base a quanto era stato loro insegnato sul  Messia e lo volevano “vedere”, verbo così tradotto da tutte le versioni che ho consultato perché non sottintende nient’altro.

Costoro vanno proprio da Filippo che “era di Betsaida” di Galilea, quindi non giudeo, villaggio che era vicino alla frontiera con la Siria, nazione in cui Gesù era conosciuto come dimostra l’episodio della donna siro-fenicia e tutto quel giro che aveva fatto fino a spingersi nei territori di Tiro e Sidone (Marco 7.31). Possiamo pensare che Filippo fosse stato scelto da loro a caso? Forse lo avevano già visto o ne avevano individuata l’origine dall’accento? In quel caso, erano siriani e non greci come potremmo intendere leggendo il testo. Filippo allora raggiunse Andrea, di Bethsaida anche lui, gli espose la richiesta avuta consigliandosi sul da farsi e quindi andarono dal loro Maestro.

La cronaca dell’evangelista Giovanni a questo punto si fa apparentemente frammentata perché ci costringe ad una scelta: già identificare a chi Gesù si rivolge non è cosa semplice: “disse loro”. A chi? Ai discepoli, a quei “greci” o a tutti i presenti? Non è un problema da poco perché aveva detto in precedenza (Giovanni 6.37) “Io non respingerò chi verrà a me”, ma il “vedere” suggerisce l’idea della soddisfazione di una curiosità perché non chiedono di parlargli; il verbo greco “èidon” infatti può venire tradotto con “guardare, vedere coi propri occhi, osservare”. Se pensiamo a Nicodemo, che “andò a Gesù di notte”, siamo di fronte a due intenzioni ben diverse fra loro. È stato osservato che la richiesta di vederLo, però, cadeva in un momento  in cui, come Gesù stesso lascia intendere, si era conclusa la Sua funzione di “Profeta dell’Altissimo” per entrare in quella di “Sommo Sacerdote secondo l’ordine di Melkisedec”, Re di Salem senza né padre né madre.

Melchisedec, personaggio che negli scritti dell’Antico patto compare solo in un incontro con Abrahamo e Lot (Genesi 14.16-18), fu spiegato dall’autore alla lettera agli Ebrei con queste parole: “…in essa – la promessa di Dio – infatti abbiamo un’àncora sicura e salda per la nostra vita: essa entra fino al di là del velo del santuario, dove Gesù è entrato come precursore per noi, divenuto sommo sacerdote per sempre secondo l’ordine di Melchidecek. Questo Melchisedek, infatti, re di Salem, sacerdote del Dio altissimo, andò incontro ad Abramo mentre ritornava dall’avere sconfitto i re e lo benedisse; a lui Abramo diede la decima di ogni cosa. Anzitutto il suo nome significa “Re di Giustizia”, poi è anche re di Salem, cioè “Re di pace”. Egli, senza padre, senza madre, senza genealogia, senza principio di giorni, né fine di vita, fatto simile al Figlio di Dio, rimane sacerdote per sempre”. Ecco uno dei tanti casi in cui abbiamo la presenza del Figlio nell’Antico Patto.

Come Sommo Sacerdote, Gesù avrebbe di lì a poco fatto qualcosa che nessun altro prima di lui aveva fatto, dare se stesso in sacrificio per la salvezza di tutti coloro che avrebbero creduto in lui e la sua pregheria detta “sacerdotale”, che avrebbe elevato al Padre di lì a poco, e che Giovanni riporta al capitolo 17 del suo Vangelo, lo conferma.

Credo che se le parole che seguono nel testo fossero state rivolte a quei greci, non avrebbero capito nulla, ma se dette in particolare ai dodici, le avrebbero conservate per la comprensione totale che si verificherà alla discesa dello Spirito Santo. Certo è che Nostro Signore non era in un ambiente chiuso, riservato, e le Sue parole furono udite perché, proseguendo nella lettura del testo che esamineremo, la folla intervenne ed è molto probabile che ascoltarono anche quanti lo volevano “vedere”.

La prima parola che possiamo sottolineare nel discorso di Gesù è “l’ora”, che nella Scrittura può indicare tanto un momento preciso, fissato, quanto un periodo di tempo; a puro titolo di esempio perché i passi sono veramente tanti, possiamo ricordare Luca 22.14, “Quando venne l’ora, prese posto a tavola e i dodici con lui”, e 22.53, “Ogni giorno ero con voi nel tempio e non avete mai messo le mani su di me; ma questa è l’ora vostra e il potere delle tenebre”.

“È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato” allude quindi a tutto ciò era imminente, sempre più vicino perché mancava poco più di un giorno al Suo arresto, e a tutto ciò che ne sarebbe conseguito, cioè la Sua Passione, morte e risurrezione. E, come abbiamo letto nel nostro passo, quella di Gesù era un’ “ora” dalla quale non poteva essere salvato perché era venuto sulla terra proprio per quella (v. 27). È l’uscita vittoriosa da quell’ora, col “tutto è compiuto” che comporterà la Sua glorificazione, per comprendere (pallidamente) la quale possiamo pensare a un re, che ha trono e regno, ma che tornando vittorioso da una guerra dà dimostrazione totale, ufficiale e piena del suo valore. E questo penso sia  una spiegazione del fatto che a Gesù il Padre “ha dato un nome superiore ad ogni altro”: con questo non è che Lui sia “passato di grado”, ma ha completato una funzione e un ruolo che, per quanto operativo già nell’Antico Patto, è diventato  universale, pieno e alla perfetta portata di ogni uomo con il Suo Sacrificio, risurrezione e ascensione al cielo perché non solo la morte non lo ha potuto trattenere, ma neppure la terra che lo ha accolto dalla nascita al rientro nei cieli. La resurrezione di Gesù non è un avvenimento che i religiosi danno per scontato, ma di cui il cristiano si è appropriato e che rinnova ogni giorno.

Il glorificare di cui parlano Gesù e il Padre nel nostro testo ci parla di reciprocità e provvedimento, come da Giovanni 13.32: “Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito”. Prima di incarnarsi il Figlio era la Parola senza cui nessuna cosa è stata creata, ma dopo sarebbe stato il Figlio fattosi uomo per salvare i peccatori e tornato in cielo dopo avere dato “la sua vita in riscatto per molti”. E ricordiamo che “Parola” è tradotto da “Logos” che per i filosofi greci era il motore dell’Universo o, secondo Eraclito, “La ragione determinante il mondo e la legge in cui essa si esprime”. L’uomo non poteva essere salvato con un decreto che annullasse il peccato salvando tutti, ma solo con la vittoria sulla morte dopo averla avuta, provata, sofferta ed è per questo che “Nessuno può strapparle – le pecore – dalla mia mano”: Satana, sconfitto con lo schiacciamento del capo, ha perso il suo potere omicida e non è in grado di fare nulla per poter annullare la salvezza dell’essere umano.

Spiegazione della glorificazione di Gesù l’abbiamo nei primi versi di Giovanni 17, “Padre, è venuta l’ora: glorifica il Figlio tuo perché il Figlio glorifichi te. Tu gli hai dato potere su ogni essere umano, perché egli dia la vita eterna a tutti coloro che gli hai dato. Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo. Io ti ho glorificato sulla terra, compiendo l’opera che mi hai dato da fare. E ora, Padre, glorificami davanti a te con quella gloria che io avevo presso di te prima che il mondo fosse”, il che ci va venire alla mente l’attestazione che Nostro Signore diede di sé un giorno, “Prima che il mondo fosse, io sono”. Totale,  un cerchio perfetto per la cui conclusione nulla è stato trascurato perché altrimenti l’Avversario si sarebbe potuto aggrappare anche all’errore più infinitesimale nell’opera del Figlio per chiederne l’annullamento, vincendo. E invece, grazie a questa assoluta perfezione, la salvezza della persona è inattaccabile. Amen.

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16.06 – LA CACCIATA DEI VENDITORI DAL TEMPIO (Marco 11.15-19)

11.06 – La cacciata dei venditori dal tempio (Marco 11.19)

 

15Giunsero a Gerusalemme. Entrato nel tempio, si mise a scacciare quelli che vendevano e quelli che compravano nel tempio; rovesciò i tavoli dei cambiamonete e le sedie dei venditori di colombe 16e non permetteva che si trasportassero cose attraverso il tempio. 17E insegnava loro dicendo: «Non sta forse scritto: La mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutte le nazioni?  Voi invece ne avete fatto un covo di ladri». 18Lo udirono i capi dei sacerdoti e gli scribi e cercavano il modo di farlo morire. Avevano infatti paura di lui, perché tutta la folla era stupita del suo insegnamento.

            Secondo il resoconto di Marco, questo fu l’unico evento pubblico che caratterizzò la giornata di Gesù e i suoi in Gerusalemme lunedì, il secondo giorno della settimana. A colmare questo “vuoto narrativo”, concorrono le cronache degli altri evangelisti che esamineremo, ma è indubbio che questa fu la prima azione di Nostro Signore, ciò secondo la cronologia adottata che, più che una verità, propone molto spesso solo una semplice scelta.

Il primo sentimento che mi ha colto leggendo questo episodio è stato di amarezza perché sappiamo che questa fu la seconda volta che Gesù agì in quel modo, adottando gli stessi comportamenti, come leggiamo in Giovanni 2.13 e seg.: “Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò fuori dal tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!»”. Ebbene quel Suo primo intervento non fu capito, soprattutto il contrasto fra la “casa del Padre mio” e “un mercato”, tra loro in chiara antitesi.

La domanda che mi sono posto era se ciò che si era venuto a creare fosse legittimo o meno, soprattutto alla luce della legge sulle decime che il popolo era tenuto ad osservare: “Dovrai prelevare la decima da tutto il frutto della tua semente, che in campo produce ogni anno. Mangerai davanti al Signore, tuo Dio, nel luogo dove avrà scelto di stabilire il suo nome, la decima del tuo frumento, del tuo mosto, del tuo olio e i primi parti del tuo bestiame grosso e minuto, perché tu impari a temere sempre il Signore, tuo Dio” (Deuteronomio 19. 22.23). Ora è chiaro che quel “mangiare davanti al Signore” non poteva essere paragonato ad una festa che si caratterizzava come le nostre, ma aveva il fine di riflettere sulle benedizioni che Dio dava al suo popolo e soprattutto era un rito col fine di imparare “a temere sempre” il Signore. È, per relazione, l’atteggiamento che deve caratterizzare le adunanze della Chiesa quando celebra il culto, che i Corinzi non rispettavano rendendo così quell’ambiente molto simile a quello rimproverato nel Tempio: “Quando dunque vi radunate insieme, il vostro non è più un mangiare la cena del signore. Ciascuno infatti, quando siete a tavola, comincia a prendere il proprio pasto e così uno ha fame, l’altro è ubriaco. Non avete forse le vostre case per mangiare e per bere? O volete gettare disprezzo sulla Chiesa di Dio e umiliare chi non ha niente?” (1 Corinti 11.20-22), versi che sono preceduti dalla descrizione sulle divisioni presenti causate da “un cuore lontano da me”.

Proseguendo poi la lettura del testo di Deuteronomio, versi da 24 a 26, abbiamo la licenza ad utilizzare del denaro per comprare il necessario a fronte di  una distanza eccessiva: “Se il cammino è troppo lungo per te e tu non puoi trasportare quelle decime, perché è troppo lontano da te il luogo dove il Signore, tuo Dio, avrà scelto di stabilire il tuo nome, perché il Signore tuo Dio ti avrà benedetto, allora le convertirai in denaro e, tenendolo in mano, andrai al luogo che il Signore, tuo Dio, avrà scelto e lo impiegherai per comprarti quanto desideri: bestiame grosso o minuto, vino, bevande inebrianti o qualunque cosa di tuo gusto e mangerai davanti al Signore, tuo Dio, e gioirai tu e la tua famiglia”.

Credo che la lettura di questi versi sia sufficiente a far comprendere che il “denaro” utilizzato per la celebrazione delle decime, quando il popolo comprava da altri il necessario per celebrarle, escludesse la possibilità di un arricchimento di chi vendeva e l’organizzazione di un commercio in tal senso, ma tutto avrebbe dovuto svolgersi all’insegna della sobrietà e tenendo a mente che quanto avveniva sarebbe stato col fine di onorare il Signore e non approfittare della situazione per trarne un guadagno personale.

La scrittura insegna che è molto facile varcare il confine tra il servizio e il proprio interesse: questo avvenne, ad esempio, coi figli di Samuele, che quando fu vecchio li stabilì come giudici in Israele, di cui è detto che “non camminavano sulle sue orme, perché deviavano dietro il guadagno, accettavano regali e stravolgevano il diritto” (1 Samuele 8.3). Ricordiamo la preghiera in Salmo 119.36, “Piega il mio cuore verso i tuoi insegnamenti, e non verso il guadagno”, la domanda in Isaia 55.2, “Perché spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro guadagno per ciò che non sazia?”.

Ora, per evidenziare il contrasto fra l’entrare di Gesù nel Tempio e la realtà che in esso trovò, basta citare Malachia 3.1,2: “Ecco, io manderò il mio messaggero a preparare la via davanti a me e subito entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate; e l’angelo dell’alleanza, che voi sospirate, eccolo venire”. Il giorno prima – secondo Marco – Gesù era stato acclamato da una folla festante che lo acclamava come Messia, ora entra “nel suo tempio” ed è costretto a cacciare uomini che miravano solo al loro profitto, approfittando dell’occasione. Credo che una realtà simile la sperimenti oggi chiunque si trovi a visitare la basilica di San Pietro a Roma e consideri il commercio di oggetti cosiddetti “sacri” nelle sue zone limitrofe e i tesori in essa contenuti.

Nel cortile dei gentili, in quei giorni, una parte di esso prendeva il nome di “botteghe” proprio per il traffico che avveniva e va ricordato che il mercato orientale è caratterizzato da continue discussioni sul prezzo anche animate e che, per la mentalità di quei popoli, è inammissibile acquistare qualcosa senza trattative anche estenuanti. Chi non si comporta così, provoca il disappunto degli stessi commercianti. Questo, unitamente ai rumori della folla, ai muggiti e ai belati degli animali, fu lo scenario che si presentò a Gesù, che reagì con l’energia descritta da  Marco e Matteo tanto all’inizio che alla fine del Suo Ministero.

Le parole di Nostro Signore al verso 17 sono la citazione di Isaia 56.7, ma Marco è l’unico a citarla completa perché Matteo e Luca si fermano a “casa di preghiera”, omettendo quindi “per tutti i popoli”, a voler sottolineare che Gesù volle rimarcare il fatto che Israele aveva fallito nel suo compito: quanto stava avvenendo, infatti, era l’esatto contrario di quella manifestazione mediante la quale l’uomo confessa la propria incapacità a comprendere le cose di Dio e si umilia davanti a Lui; leggiamo nel libro della Sapienza, che pur non canonico presenta spunti interessanti di riflessione, che “I ragionamenti dei mortali sono timidi e incerte le nostre riflessioni, poiché un corpo corruttibile opprime l’anima  la tenda d’argilla opprime una mente piena di preoccupazioni. A stento immaginiamo le cose della terra, scopriamo con fatica quelle a portata di mano, ma chi ha investigato le cose del cielo? Chi avrebbe conosciuto il tuo volere, se tu non gli avessi dato la sapienza e dall’alto non gli avessi inviato il tuo santo spirito?” (9. 14-17). Ora, nel caso di specie, non si trattava neppure di avere “sapienza dall’alto”, ma di avere un comportamento dettato da un cuore umile, timoroso di Dio e quindi di non offenderLo.

La “casa di preghiera”, perché potesse diventare “per tutte le nazioni”, chiedeva ad Israele di essere d’esempio e non, come avverrà poi, che il regno di Dio venisse loro “tolto” per darlo “a un popolo che ne produca i frutti”, come Lui stesso dirà al verso 43 di questo stesso capitolo. Abbiamo infatti due realtà, quella affidata al popolo eletto come testimone fra le genti, e quella che si verificherà nel futuro quando “Verranno molti popoli e diranno: «Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci insegni le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri». Perché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore” (Isaia 2.2,3). Si tratta di un passo che ha molti riferimenti e significati, ma delle epoche cui il testo fa riferimento certo quella che il Creatore si aspettava era la prima, quella che il Suo popolo, per la sua “dura cervice”, non comprese.

C’è poi la seconda parte della nostra pericope, “ne avete fatto un covo di ladri”, espressione presa, da Geremia 7.6-11, “Ma voi confidate in parole false, che non giovano: rubare, uccidere, commettere adulterio, giurare il falso, bruciare incenso a Baal, seguire altri dèi che non conoscevate. Poi venite e vi presentate davanti a me in questo tempio, sul quale è invocato il mio nome, e dite: «Siamo salvi!» e poi continuate a compiere tutti questi abomini, Forse per voi è un covo di ladri questo tempio sul quale è invocato il mio nome? Anch’io però vedo tutto questo! Oracolo del Signore”.

Ora è indubbio che questa citazione aveva lo scopo di far riflettere i presenti più che essere un rimprovero fine a se stesso, dato che Marco scrive “insegnava loro”. Possiamo ricordare le parole di Proverbi 7.2,3, “Osserva i miei precetti e vivrai, il mio insegnamento sia come la pupilla dei tuoi occhi – perché, nonostante vediamo, senza di esso siamo ciechi –. Legali alle tue dita, scrivili sulla tavola del tuo cuore”.

Dal comportamento della gente nel Tempio, da cui traspare un evidente menefreghismo e voluta contaminazione, vediamo la posizione del popolo tanto ai tempi del profeta Geremia e di Gesù che, in questo caso, ricorda implicitamente i castighi che si riversarono su Israele prima con la deportazione in Babilonia e con la distruzione del Tempio di Salomone, che avrebbe subito poi un altro giudizio con la distruzione del secondo Tempio, costruito da Zorobabele e poi abbellito da Erode il Grande.

Il rimprovero di Gesù quindi non colpisce solo il traffico dei mercanti, ma come già rilevato la loro avarizia, le loro estorsioni, i loro inganni nel mercanteggiare tirando sul prezzo dentro la “casa” destinata al servizio di Dio. E credo sia un’accusa che viene fatta anche oggi a quelle Chiese che da un lato amministrano a parole la Parola di Dio e, dall’altro, l’annullano con pratiche, comportamenti e concessioni con lo scopo di aumentare il numero dei propri “fedeli”, naturalmente non disdegnando il tornaconto economico che ne può derivare.

E giungiamo così alla conclusione dell’episodio. Matteo ci informa che, dopo la cacciata dei commercianti dal Tempio, “gli si avvicinarono nel tempio ciechi e storpi, ed egli li guarì”, confermando ancora una volta la Sua autorità nel senso che quanto aveva appena fatto, cacciano i mercanti e non permettendo “che fossero trasportate cose attraverso il tempio”, non era certo il frutto di una mente esaltata, ma la ribellione dell’uomo-Dio all’avidità umana che aveva preso il posto del timore del Signore.

Marco annota questo particolare: “Lo udirono i capi dei sacerdoti e gli scribi e cercavano il modo di farlo morire. Avevano infatti paura di lui – proprio come i demoni – perché tutta la folla era stupita del suo insegnamento”, nota che si raccorda tanto all’evento del giorno precedente, tanto a quelli che devono ancora accadere e che esamineremo prossimamente. Amen.

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16.05 – IL FICO MALEDETTO (Marco 11.12-14)

16.05 – Il fico maledetto (Marco 11.12-14)

12La mattina seguente, mentre uscivano da Betània, ebbe fame. 13Avendo visto da lontano un albero di fichi che aveva delle foglie, si avvicinò per vedere se per caso vi trovasse qualcosa ma, quando vi giunse vicino, non trovò altro che foglie. Non era infatti la stagione dei fichi. 14Rivolto all’albero, disse: «Nessuno mai più in eterno mangi i tuoi frutti!». E i suoi discepoli l’udirono.

Entriamo nel secondo giorno della settimana della passione, corrispondente al nostro lunedì, che Marco fa iniziare con l’unico miracolo di distruzione operato da Gesù. In merito a ciò che avvenne in questo periodo, circa le Sue attività per lo meno nei primi quattro giorni, a parte gli episodi specifici che affronteremo raccontati da tutti gli evangelisti, va tenuto presente quanto scrive Luca: “Stava durante i giorni nel Tempio insegnando; durante le notti poi, uscito fuori, dimorava nel monte chiamato degli Olivi. E tutto il popolo s’affrettava di buon mattino alla volta di lui nel Tempio per ascoltarlo” (21.37-38).
Ora su cosa fece il Maestro a Betania la sera e la notte, possiamo fare solo delle supposizioni, ma il fatto che solo Gesù ebbe fame e cercò di sfamarsi andando presso un fico, la teoria in base alla quale i discepoli pernottarono e quindi mangiarono prima di partire presso Marta, Maria e Lazzaro e Lui trascorse la notte in preghiera non credo sia azzardata.
Ora bisogna sapere che i fichi in Medio Oriente hanno due stagioni fruttifere, da maggio a giugno la prima e a settembre la seconda, così come erano due le tipologie di questa pianta: una fioriva, metteva le foglie e poi i frutti, e un altra, evidentemente quella del nostro racconto, fogliava e fruttificava contemporaneamente. Abbiamo poi rilevato in un recente capitolo il significato del nome Bethfage, “casa dei fichi” ed il fatto che in quella zona, Bethfage-Betania, questi alberi fruttassero prima della stagione consueta; quindi Gesù, passando di là, contava di cibarsi dei frutti di quelle piante. Ricordiamo anche che quel lunedì era il 10 del mese di Abib, corrispondente al nostro aprile, quindi quel fico aveva messo le foglie (e avrebbe dovuto avere anche i frutti) con tre mesi di anticipo.
Credo sia opportuno soffermarci sulla nota “ebbe fame” che Marco e Matteo inseriscono e che ci conferma che Gesù, come uomo, fu soggetto alle nostre stesse necessità e problemi: se così non fosse stato, se avesse provveduto con miracoli a risolverli, non sarebbe stato quel “servo perfetto” con cui era considerato dal Padre. Ricordiamo Matteo 4.2, “Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame”, quando a questa condizione di spossatezza seguirono le tentazioni di Satana dalle quali uscì stremato a tal punto che il Padre mandò degli angeli a servirlo (v.11). Il Padre li inviò di Sua iniziativa, non fu il Figlio a chiederne l’assistenza. La Sua condizione di uomo doveva essere quindi tale fino in fondo, come dimostrò in questo passo sentendo fame, mentre come Dio poteva dare dimostrazione delle sue parole “Già la scure è posta alla radice degli alberi: ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco” (Matteo 3.10) che qui giustifica la sentenza emessa, “Nessuno mai più in eterno mangi i tuoi frutti”.
Quel fico poi, col suo essere sterile, “contravveniva” all’ordine dato alla creazione quando fu detto “La terra produca germogli, erbe che producano seme e alberi da frutto, che fanno sulla terra frutto con il seme, ciascuno secondo la propria specie” (Genesi 1.11). Solo Gesù quindi, come Parola di Dio, poteva essere in grado di emettere quella sentenza perché, come Colui che aveva ordinato agli alberi della terra di crescere, germogliare a fruttificare, si era trovato di fronte a un’anomalia che, figurativamente, era un atto di ribellione. Il parallelo col credente, cui è richiesto che porti “molto frutto” (dove quel “molto” significa “in base alle sue possibilità”) perché il Padre sia glorificato, è inevitabile, così come la sua relazione con Deuteronomio 32.39, “Sono io che do la morte e faccio vivere; io percuoto e io guarisco, e nessuno può liberare dalla mia mano”: Egli è il Tutto la cui mano, così come trattiene definitivamente e per l’eternità, altrettanto respinge. Due aspetti della stessa realtà e potenza.
Ora andrebbero affrontate due domande impegnative solo in apparenza e cioè: perché, se Gesù come Onnisciente sapeva che quel fico non avrebbe avuto frutti, gli si avvicinò? E soprattutto, perché ebbe una reazione che alcuni, impropriamente, hanno voluto vedere come di stizza causata dalla delusione di non potersi sfamare?
Circa la prima questione, certo Nostro Signore sapeva che quel fico era sterile nonostante avesse le foglie, ma volle rendere i discepoli testimoni del giudizio su un elemento del creato che andava contro natura, all’ordine di Dio dato al cosiddetto “regno vegetale” che abbiamo ricordato. Contrariamente i discepoli, che abbiamo letto “l’udirono”, o per lo meno Pietro che lo dirà espressamente il giorno dopo, interpretarono le parole del loro Maestro come dettate da un impeto d’ira o indisposizione, talché l’apostolo il giorno dopo, passando nello stesso luogo, dirà “Maestro, guarda, l’albero dei fichi che hai maledetto si è seccato!” (v.20) quasi che, a fronte di tutte le parole di verità che Gesù aveva pronunciato e dei miracoli preceduti da parole, avesse detto una frase avventata, tanto per dire. Se così fosse stato, Gesù avrebbe potuto essere accomunato a quel tale di Proverbi 26.18,29, “Come un pazzo che scaglia tizzoni e frecce di morte, così è colui che inganna il suo prossimo e poi dice: «Ma sì, è stato uno scherzo!»”.
Solo più avanti i discepoli capiranno che quanto accaduto a quel fico si verificherà ad ogni uomo o donna che non avrà dato luogo all’amore della verità per essere salvato, quando Gesù si avvicinerà ad ognuno per trovare frutti e, non potendone raccogliere, potrà solo emettere una sentenza di morte. Lo stesso avverrà a tutti quei cristiani nominali, che non si saranno affatto preoccupati di conoscere le Sue volontà e non avranno operato per portare frutti.
Le parole rivolte al fico sono un modo severo per ricordare ciò che Dio disse in Isaia 5.4-7, per quanto su piante differenti: “Che cosa dovevo fare alla mia vigna che io non abbia fatto? Perché, mentre io attendevo che produsse uva, essa ha prodotto acini acerbi? Ora voglio farvi conoscere ciò che farò alla mia vigna: toglierò la sua siepe e si trasformerà in pascolo; demolirò il suo muro di cinta e verrà calpestata. La renderò un deserto: non sarà né potata, né vangata – quindi non manderà più personale a coltivarla – e vi cresceranno rovi e pruni; alle nubi comanderò di non mandarvi la pioggia. Ebbene, la vigna del Signore degli eserciti è la casa d’Israele; gli abitanti di Giuda sono la sua piantagione preferita. Egli si aspettava giustizia – della quale non sarebbe stato necessario avere fame e sete – ed ecco spargimento di sangue; attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi”.
Per i cristiani di ieri e di oggi valgono le parole dell’apostolo Pietro, “Per questo mettete ogni impegno per aggiungere alla vostra fede – la base, senza la quale “è impossibile piacere a Dio”, il primo requisito per poter operare, senza la quale ogni sforzo sarebbe inutile – la virtù, alla virtù la conoscenza, alla conoscenza la temperanza, alla temperanza la pazienza, alla pazienza la pietà, alla pietà l’amore fraterno, all’amore fraterno la carità. Questi doni, presenti in voi e fatti crescere, non vi lasceranno inoperosi e senza frutto per la conoscenza del Signore nostro Gesù Cristo” (1a. 1.5-8). C’è quindi una cronologia nella crescita spirituale di una persona e non si tratta di una banale addizione per cui, come imparato alle scuole elementari, “invertendo i fattori il prodotto non cambia”.

Il frutto. Non sorge così, subito, senza un processo complesso della pianta o della persona che lo porta, ma è il risultato di eventi interni che mutano nel corso del tempo, non modificabili in alcun modo. La crescita e lo sviluppo, sono fenomeni biologici. E questo ci parla della gradualità e dell’attesa, del fatto che anche spiritualmente una persona ha bisogno di un periodo per comprendere, elaborare, svilupparsi senza l’intervento di altri che la costringano o la spingano per riflesso a simulare modi e comportamenti perché un conto è l’esortazione e un conto l’imposizione. Del resto, osservando il comportamento che Gesù ebbe coi discepoli, fu instancabile nel formarli e guidarli avendo seminato qualcosa che sarebbe germogliata a suo tempo, riprendendoli, ma mai obbligandoli ad agire o a pensare in un determinato modo, indicando un metodo, non fornendo loro un manuale.
Ecco allora che, tornando al giudizio sul fico, vediamo un provvedimento, oltre a ciò che è stato evidenziato fin qui, contro l’apparenza, la finzione, l’ipocrisia religiosa che, non potendo portare un reale frutto spirituale, lo simula e non lo può fare se non mettendo foglie, magari belle, grandi, ma totalmente prive di sostanza, di utilità, di contenuti nutritivi e ristoratori: quel fico avrebbe dovuto sfamare chi gli si fosse avvicinato ma, al contrario, lo ingannava lasciandolo affamato più di prima.
Quell’albero quindi non solo non faceva frutti, ma impoveriva il terreno circostante, era una pianta in cui si identificano molti essere umani, come lui parassiti, e possiamo dire che, se non fosse stato colpito alle radici, avrebbe ingannato altri così come aveva fatto con Gesù e i discepoli. Le foglie di quel fico erano il suo vestito, figuratamente era l’unico modo che aveva per non presentarsi privo di dignità, ma la modalità che aveva scelto era la più inutile. Se lo trasformiamo in persona, simulava qualità che non aveva, metteva tutto il suo impegno a presentarsi al meglio: trucco, vestiti, ornamenti, un carattere ricercato, uno status sociale, ma era sufficiente un bisogno elementare e semplice come aver fame per non trovare nulla. E il momento in cui occorre dare dimostrazione di avere realmente e non apparentemente, arriva prima o poi per tutti: non basta a un medico avere il camice, a un cristiano una veste di distinzione o una bibbia in mano, a un ingegnere o a un architetto un bello studio con tanto di laurea appesa al muro.
Ultima considerazione che mi sento di fare è ancora una volta sulla reazione di Gesù quando non trovò i frutti sul fico: si immedesimò in tutti coloro che, ingannati da quella pianta che raffigura anche le pseudo istituzioni che dovrebbero essere preposte per caratterizzare l’etica cristiana, non trovano in esse una risposta effettiva, lasciando molto a desiderare inquinate come sono da elementi pagani e superstiziosi. E provvide a maledirlo, dando un monito e un’anticipazione a ciò che avverrà e avviene. E si può ricordare Romani 1.28-32: “Poiché hanno disprezzato la conoscenza di Dio, Dio li ha abbandonati in balìa di un’intelligenza depravata, sicché commettono ciò che è indegno, colmi come sono di ogni sorta di ingiustizia, di malvagità, di cupidigia, di malizia; pieni d’invidia, di omicidio, di rivalità, di frodi, di malignità; diffamatori, maldicenti, nemici di Dio, oltraggiosi, superbi, fanfaroni, ingegnosi nel male, ribelli ai genitori, insensati, sleali, senza cuore, senza misericordia. E pur conoscendo il giudizio di Dio, cioè che gli autori di tali cose meritano la morte, non solo continuano a farle, ma anche approvano chi le fa”.
Quindi costoro consentono che, anziché sia resa giustizia, l’uomo soffra delle più disparate ingiustizie sociali e morali e, come nel tempo in cui viviamo, travestono tutto di legalità e cercano di instillare nelle persone il vuoto interiore più totale perché non si rendano conto né dei piani che ordiscono, né del giudizio che incombe su di loro. Amen.
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