16.03 – IL PIANTO DI GESÙ SU GERUSALEMME (Luca 19.41-44)

16.03 – Il pianto su Gerusalemme (Luca 19. 41-44)

 

41Quando fu vicino, alla vista della città pianse su di essa 42dicendo: «Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, quello che porta alla pace! Ma ora è stato nascosto ai tuoi occhi. 43Per te verranno giorni in cui i tuoi nemici ti circonderanno di trincee, ti assedieranno e ti stringeranno da ogni parte; 44distruggeranno te e i tuoi figli dentro di te e non lasceranno in te pietra su pietra, perché non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata».

 

“Quando fu vicino, alla vista della città”, è un dato che ci permette, se non di individuare il punto esatto in cui si trovava Gesù, quanto meno la zona, dove si aveva una vista che abbracciava tutta Gerusalemme: il corteo era giunto alla sommità del monte degli Olivi e aveva iniziato o stava per scendere la china occidentale dello stesso. Da lì si vedeva il Tempio, poi la torre Antonia sede della guarnigione romana e, sul lato opposto, la reggia di Erode con le famose tre torri che, prima dell’assedio del 70, Tito aveva ritenuto inespugnabili. C’erano poi le due file di mura che proteggevano la città e poi tutte le case.

Fra l’altro, accanto al monte degli Olivi c’era quello “del malconsiglio”, anche detto “dell’offesa”, per quanto fece Salomone negli ultimi anni della sua vita: “Salomone commise il male agli occhi del Signore e non seguì pienamente il Signore come Davide, suo padre. Salomone costruì un’altura per Camos, obbrobrio dei Moabiti, sul monte che è di fronte a Gerusalemme, e anche per Moloc, obbrobrio degli Ammoniti. Allo stesso modo fece per tutte le sue donne straniere, che offrivano incenso e sacrifici ai loro dèi. Perciò il Signore s’indignò con Salomone perché aveva deviato il suo cuore dal Signore, Dio d’Israele, che gli era apparso due volte e gli aveva comandato di non seguire altri dèi, ma Salomone non osservò quanto gli aveva comandato il Signore” (1 Re 11.6-9).

Questo passo ci insegna che, nonostante i privilegi e l’onore che un uomo possa ricevere da Dio – sottolineiamo che “gli era apparso due volte” – e tutte le benedizioni avute, è sufficiente deviare verso la carne con metodo per cadere rovinosamente e perdere le benedizioni ricevute. Infatti Dio “disse a Salomone: «Poiché ti sei comportato così e non hai osservato la mia alleanza né le leggi che ti avevo dato, ti strapperò via il regno e lo consegnerò a un tuo servo – Geroboamo, figlio di Nebat –. Tuttavia non lo farò durante la tua vita, per amore di Davide, tuo padre; lo strapperò dalla mano di tuo figlio. Ma non gli strapperò tutto il regno; una tribù la darò a tuo figlio, – Beniamino, oltre a Giuda che era sua – per amore di Davie, mio servo, e per amore di Gerusalemme, che ho scelto” (vv.11-13).

Possiamo dire quindi che a sinistra di Gesù stava il ricordo di un fallimento (il malconsiglio), per quanto certo non Suo, e sotto – o di fronte a seconda di come lo si voglia interpretare – una città che Lo avrebbe rinnegato.

Una città vista dall’alto, o da lontano, contemplata nel silenzio, suggerisce l’idea di un’infinità di vite che trascorrono nelle attività più svariate, ma tutte intente in un presente fatto di interessi, progetti, idee, con la umana speranza che tutto possa scorrere nel migliore dei modi. La vista di una città mi ha sempre suggerito da una parte l’idea di mobilità, dall’altra il suo esatto contrario, un senso di attesa verso un futuro che la gente non può conoscere. Ogni essere vivente ha un futuro, ma non può sapere se in positivo o in negativo nonostante tutte le sue speranze e aspirazioni e così un popolo, un paese, una città. Qui, però, si parla di qualcosa di infinitamente più grande, di un popolo e di “Gerusalemme che ho scelto”, che deliberatamente rifiuterà con conseguenze materiali e spirituali terribili.

Va poi esaminato il pianto di Gesù, diverso da quello che ebbe alla morte di Lazzaro (edàkrusen, pianse) perché qui abbiamo “eklàusen” che ha riferimento a un “pianto con lamenti”: là era sommesso, provocato dalla constatazione della fragilità dell’uomo causata dal peccato e dal dolore che questa provoca, qui da tutto quanto stava avvenendo e sarebbe accaduto. La folla festante fa da contrappunto alla visione del luogo dove nel giro di pochi giorni sarebbe stato insultato, condannato e crocifisso, ma ancor più sul destino futuro della città perché è su di lei che piange, non certo su di sé. È l’amore di Dio che gli fa dire “il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione” (Osea 11.8), sentimento che comunque nulla può di fronte al rifiuto dell’oggetto di quell’amore. E non si tratta di un amore non corrisposto, ma di indifferenza, di scelta di qualcos’altro che al momento appaga di più, ma non garantisce durata, riparo, protezione qual era quella che Gesù voleva dare.

Ricordiamo il lamento su Gerusalemme in Luca 13.34: “Gerusalemme, Gerusalemme; tu che uccidi i profeti e lapidi quelli che sono stati mandati a te: quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia i suoi pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto! Ecco, la vostra casa è abbandonata a voi!”.

 

Esaminiamo ora brevemente le parole del lamento nel nostro passo, in un’altra versione: “Oh, se anche tu, almeno in questo giorno, avessi riconosciuto le cose appartenenti alla tua pace”. “Tu”, “almeno” e “riconosciuto” sono i cardini su cui poggia il discorso: Gesù era venuto per lei, Gerusalemme, perché era lì che il suo “Re” avrebbe dovuto arrivare, non certo all’improvviso, non certo sconosciuto perché l’ingresso in quella città era preceduto da segni innumerevoli e inconfutabili – ricordiamo il comportamento della folla, “per tutti i prodigi che avevano veduto” – tali da non poterlo confondere come uno dei molti “Messia” che ogni tanto saltavano fuori in Israele. “Almeno in questo giorno” era l’ultima possibilità che Gerusalemme aveva per accoglierlo, e la conversione non era un miracolo che Gesù potesse fare, come non avrebbe mai potuto guarire qualcuno che non avesse avuto fede in Lui – ricordiamo Nazareth, che di miracoli non ne vide –.

C’è poi quel “riconosciuto”, che è da sempre riferito alla capacità di una persona: si riconosce qualcuno con cui esiste o è esistito un rapporto, è un’azione che implica un individuare certo in mezzo ad alternative simili. Gerusalemme avrebbe dovuto riconoscere “le cose – gli elementi – appartenenti alla tua pace”, naturalmente quella con Dio e a lei erano stati forniti tutte le istruzioni per poter arrivare a determinare il proprio essere. Leggiamo un parallelo interessante in Deuteronomio 5.29, “Oh, se avessero sempre un tal cuore, da temermi e da osservare tutti i miei comandi, per essere felici loro e i loro figli per sempre!”. Anche allora, fu un fallimento, se non fosse stato per l’amore di Dio che li avrebbe condotti e corretti.

 

“Ma ora è stato nascosto ai tuoi occhi” è la spiegazione che Nostro Signore dà al rifiuto del Suo popolo. La frase non va intesa nel senso che a lui fu nascosta l’identità di Gesù, ma piuttosto che il rifiuto ostinato nel riconoscerlo come “il Cristo, il figlio dell’Iddio vivente” aveva a lungo andare provocato l’incapacità di individuarlo, come avviene ad un cuore che si ritrova indurito a forza di reprimere la propria coscienza, come il Faraone che parlava con Mosè e rifiutava di lasciare andare il popolo d’Israele secondo la richiesta “lascia andare il mio popolo, perché mi serva”.

 

Prima di sviluppare i versi successivi andiamo all’ultima frase, “perché non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata”: i riferimenti sono tanti, ma se ne può scegliere uno per tutti: “Il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre della luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio” (Giovanni 3.19-21).

La conseguenza del non riconoscere il tempo causa il deserto totale, la rovina, la distruzione perché non ci sarà più Dio a difendere quello che avrebbe dovuto essere suo popolo e che ora lo rifiuta. È un’affermazione da contestualizzare al tempo specifico di cui Gesù parla e non da intendere come un’esclusione a priori di Israele, che resta sempre il popolo di Dio nonostante la sua disubbidienza e per il quale esiste comunque un piano di redenzione, per quanto attraverso la sofferenza.

Le parole di Gesù ai versi 43 e 44 sono un’anticipazione di ciò che verrà: “Per te verranno giorni in cui i tuoi nemici ti circonderanno di trincee, ti assedieranno e ti stringeranno da ogni parte”.

Tito Vespasiano guiderà l’esercito romano all’assedio (e distruzione) di Gerusalemme. I romani eressero in soli tre giorni un muro di circonvallazione lungo più di sette chilometri per prendere la città per fame. E quel muro passò proprio anche nella zona in cui Gesù si trovò a piangere su di lei. Giuseppe Flavio racconta che Tito, alcuni mesi dopo la distruzione della città, andando da Antiochia in Egitto, “strada facendo, si recò a Gerusalemme. Confrontando egli allora la mesta solitudine che scorgeva con la passata magnificenza della città, e richiamando alla mente sia la grandezza degli edifici rovinati sia l’antica bellezza, deplorò la distruzione della città non già vantandosi, come altri avrebbe fatto, d’averla espugnata pur essendo così grande e forte, bensì maledicendo spesso i colpevoli che avevano iniziato la rivolta e attirato sulla città la punizione” (Guerre Giud. VII, 112-113).

Va ricordato che la distruzione del Tempio e gran parte del massacro che vi fu non avvenne perché ordinata ai soldati, ma come sfogo delle truppe per tutto lo stress accumulato nel corso dell’assedio che, unitamente agli agguati e alle sortite degli zeloti, li aveva psicologicamente devastati. Si trattò del famoso stress post traumatico le cui conseguenze fecero dire a un generale americano del 1800 la frase “la guerra genera demòni”. Avrebbe potuto dire “mostri”, come Goya nella famosa acquaforte sul “sonno della ragione”, ma preferì usare un termine ancora più crudo e rispondente alla realtà.

Su questo tema sono già stati forniti numerosi dati in precedenti capitoli e altri ne verranno inclusi quando esamineremo il sermone detto “profetico”, per cui mi fermerei qui. Ciò che va sottolineato è che comunque, se non si ascolta la parola di Dio, ci si rivolge inevitabilmente a quella dell’Avversario che, a differenza del Creatore, non scrive un testo da meditare, ma fa sorgere ideologie e pensieri omicidi vuoi verso il nostro simile, vuoi verso la stessa persona che li/le ascolta ed attua. Se Adamo e sua moglie avevano un giardino perfetto in cui vivere, Satana illude l’uomo senza Dio di viverne uno alternativo, con alberi, frutti e fiori finti che, in realtà, odorano di morte e a lei portano. E una vita che non abbia la promessa dell’eternità che solo il Padre può dare perché si è creduto nel Figlio, è priva di senso, qualunque cosa si faccia, a prescindere da come la si viva perché, come qualcuno ha detto un giorno, nell’origine della nostra vita c’è l’origine della nostra sofferenza e possiamo leggerla come una serie ininterrotta di perdite e separazioni. Il sunto è lì. A parte le soddisfazioni e le gioie che possiamo avere, siamo destinati a perdere una ad una tutte le persone che amiamo, tutte le situazioni che conosciamo, tutti gli affetti che ci sono cari e questo stillicidio sarà interrotto, che noi lo vogliamo o meno, dalla morte. Ma lì, per alcuni ci sarà una via verso la beatitudine, per gli altri verso un presente di gelo assoluto perché non ci sarà il calore dell’amore e della presenza di Dio a scaldarli. Né le loro anime, né i loro corpi, risorti senza possibilità di scopo. Amen.

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