16.02 – L’ingresso trionfale in Gerusalemme (Luca 19. 35-40)
35Lo condussero allora da Gesù; e gettati i loro mantelli sul puledro, vi fecero salire Gesù. 36Mentre egli avanzava, stendevano i loro mantelli sulla strada. 37Era ormai vicino alla discesa del monte degli Ulivi, quando tutta la folla dei discepoli, pieni di gioia, cominciò a lodare Dio a gran voce per tutti i prodigi che avevano veduto, 38dicendo: «Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore.
Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli!».39Alcuni farisei tra la folla gli dissero: «Maestro, rimprovera i tuoi discepoli». 40Ma egli rispose: «Io vi dico che, se questi taceranno, grideranno le pietre».
In chiusura allo scorso capitolo era stato ricordato il verso di Zaccaria 9.9, riportato da Matteo che, scrivendo per lettori ebrei, fornisce un elemento molto forte di raccordo con l’Antico Patto: “Ora questo avvenne perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta” (21.4). Esaminiamo meglio la profezia, che propongo nella traduzione di Giovanni Diodati del 1641:
“Festeggia grandemente, o figliola di Sion: giubila, figlia di Gerusalemme”
Qui l’invito è rivolto al Popolo di Dio, “figlia di Sion” e “di Gerusalemme”, che poi sono i due nomi della stessa città, il primo riferito alla sua progettazione, il secondo alla sua realizzazione. “Sion” significa “la pura di cuore”, Gerusalemme è invece composta da due elementi, Yarei, “Temere/timore, rispettare” e Salem, “pace”. Il riferimento alla città non è a quella geografica, ma a quella ideale, futura, popolata da coloro che sono menzionati nelle beatitudini in Matteo 5.-9, “Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio”.
Zaccaria si rivolge a tutti quelli che, tra il popolo, avrebbero atteso che il vero Messia si manifestasse e dà loro le sue caratteristiche, intrinseche ed estrinseche, per poterlo riconoscere:
“Ecco il tuo Re, giusto, e Salvatore, umile, e montato sopra un asino,
anzi un puledro fra le asine, verrà a te”
Il primo elemento da sottolineare è il possessivo “tuo”, quindi non di altri. È il Re progettato, profetizzato, costituito e proveniente da Dio e non dagli uomini, quindi l’Unico legittimo, quello lungamente atteso anche se non da tutti, il Re incarnato, realmente vicino, potremmo dire l’aggiornamento di Esodo 20.2,3 “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile: non avrai altri dei di fronte a me”. Questo “Re” “verrà a te” e se il Dio dell’Antico Patto aveva fatto uscire il Suo popolo “dalla condizione servile” – che tuttavia molti rimpiangeranno nel deserto –, questo avrebbe portato la liberazione dal peccato e relativi vincoli ostativi nella relazione col Padre.
Il Re di cui parla Zaccaria è però l’antitesi di un sovrano umano; le sue caratteristiche infatti sono quattro: “giusto”, cioè sarebbe stato detentore della vera giustizia, non quella finta, ipocrita degli uomini e del mondo. E infatti in Matteo 5.6 abbiamo letto “Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati”, cioè ne avranno in abbondanza, troveranno piena soddisfazione. Il Re giusto, la amministrerà in quanto proveniente da Dio, sua emanazione e sostanza.
Seconda caratteristica è “Salvatore”, cioè chi strappa una persona da una condizione dalla quale con le sue forze e possibilità non sarebbe mai stato in grado di uscire. Questo Re “ha dato se stesso per i nostri peccati al fine di strapparci da questo secolo – altri traducono “mondo” – malvagio, secondo la volontà di Dio e Padre nostro, al quale sia gloria nei secoli dei secoli. Amen” (Galati 1.4).
Terzo elemento che va sottolineato è “umile”, che contrasta con l’idea tradizionale di un re, solitamente irraggiungibile, che tutto può e decide prevalentemente in base ai suoi capricci o ai suoi sogni di grandezza. Gesù, invece, come Re incarnato, Figlio di Dio e figlio dell’uomo, venne senza alcuna presunzione, anzi “sotto forma di servo” e disse “Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita” (Matteo 11.29). Così si mostrò agli uomini del suo tempo, ma in modo ben diverso si rivelerà al suo ritorno, quando non vi sarà nessuna possibilità, per coloro che lo avranno rifiutato, di sfuggirgli. E faccio riferimento come sempre alla visione profetica dell’apostolo Giovanni, che scrive “quando lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto” (Apocalisse 1.17): la potenza, la gloria e l’immensità di Colui che è descritto come “uno simile a un Figlio d’uomo” era tale da provocare questa reazione in una persona come Giovanni, “il discepolo che Gesù amava” che qui, conscio della propria umanità rispetto a chi aveva davanti, non poté fare altro che soccombere. E certo l’Apostolo, giunto agli ultimi anni della sua vita, aveva dato e fatto quanto poteva per la causa e la propagazione del Vangelo. Ricordiamo ancora, in merito a come si manifesterà il Re, quanto abbiamo letto al termine della parabola delle mine: “Portate qua i miei nemici, ce non hanno voluto che io regnassi su di loro, e scannateli in mia presenza”, (Luca 19.27) situazione ben diversa rispetto a quando era in vita sulla terra.
Giungiamo così al quarto punto, quello che avrebbe consentito agli israeliti di riconoscerlo, “montato sopra un asino, anzi un puledro fra le asine”: abbiamo “asino” e “puledro”, il primo chiaramente riferito all’animale come categoria. L’asino lo cavalcavano i rettori del popolo e i re, mentre il cavallo, che sarebbe stato per la nostra cultura più rispondente allo scopo, era un animale da guerra e il suo allevamento non era praticato in Israele. Così leggiamo in Deuteronomio 17.15,16: “Costituirai sopra di te come re uno dei tuoi fratelli; non potrai costituire su di te uno straniero che non sia tuo fratello. Ma egli non dovrà procurarsi un gran numero di cavalli né far tornare il popolo in Egitto per procurarsi un gran numero di cavalli, perché il Signore vi ha detto: «Non tornerete più indietro per quella via!»”. Leggiamo anche “Non siate privi di intelligenza come il cavallo e come il mulo: la loro foga si piega con il morso e le briglie, se no, a te non si avvicinano” (Salmo 32.9) o 33.17, “Un’illusione è il cavallo per la vittoria, e neppure un grande esercito può dare salvezza”.
L’asino invece era simbolo di pace, un animale tenuto in gran conto e la Legge abbonda di norme particolari a tal punto da essere ricordato nel Sommario: in Deuteronomio 5.21 leggiamo “Non desidererai la moglie del tuo prossimo. Non bramerai la casa del tuo prossimo, né il suo campo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo”, senza contare che era obbligatorio soccorrerlo (come il bue) se lo si trovava caduto lungo la strada (22.4).
Abbiamo poi “puledro”, termine che indica l’animale equino giovane, non oltre i tre anni. Marco e Luca ricordano che su quell’asino “nessuno era mai salito” e questo è un elemento molto importante perché, secondo il cerimoniale della Legge, venivano tenuti idonei per scopi sacri quegli animali che non erano mai stati assoggettati a qualsiasi lavoro, che non avessero portato persone o il giogo.
Andiamo ora al verso 36 del nostro passo, quando vediamo i discepoli stendere i loro mantelli lungo la strada. Matteo 21.8,9 dà qualche particolare in più: “La folla, numerosissima, stese i propri mantelli sulla strada, mentre altri tagliavano rami dagli alberi e li stendevano sulla strada”. Giovanni 12.12 “la grande folla, che era venuta per la festa, udito che Gesù veniva a Gerusalemme, prese dei rami di palme e uscì incontro a Gesù gridando…”.
Dei mantelli abbiamo parlato nello scorso studio, ma non della palma, pianta che per crescere ha bisogno di molto caldo in superficie, ma di molta acqua nel suolo ed è per questo che si trova nelle oasi. Può raggiungere grandi altezze (23m) e la chioma i 10m2. È un altro simbolo di benedizione, come da Salmo 92.13 “Il giusto fiorirà come la palma”, è un albero che non necessariamente può avere bisogno dei suoi semi per riprodursi e comunque questi hanno una durata a dir poco sorprendente; alcuni ricercatori israeliani sono riusciti a far germinare quelli, datati circa 2000 anni, trovati negli scavi di Masada, sul Mar Morto. Salomone, nel costruire il Tempio, è scritto che “ricoprì le pareti della sala tutto all’intorno con sculture incise di cherubini, di palme e di fiori in sboccio, all’interno e all’esterno” (1 Re 6.29). La palma ha accompagnato quindi le esperienze degli uomini di Dio dall’Antico al Nuovo Patto e la ritroviamo fino alla fine, in Apocalisse 9.7 quando leggiamo che “… vidi una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani”.
Un particolare interessante al verso 37 è quello della folla dei discepoli che “piena di gioia, cominciò a lodare Dio a gran voce per tutti i prodigi che avevano veduto”, quindi ciò che viene raccontato non fu un fenomeno di isteria collettiva: lodavano Dio “per i prodigi che avevano veduto”, non “di cui avevano sentito parlare”. I discepoli erano testimoni di miracoli che avevano visto così come i presenti e per questo erano in grado di proferire parole di lode che non provenivano da un testo da recitare, ma sgorgavano da cuori riconoscenti, per quanto non pienamente consapevoli non essendo ancora sceso lo Spirito Santo. Sulla necessità dell’esperienza per proferire concetti davanti a Dio dovrebbero meditare le confessioni cristiane che insegnano ai credenti a pregare secondo schemi fissi, che magari contengono espressioni corrette, ma alla lunga creano distanza e portano ad onorare “con le labbra”, senza preoccuparsi del cuore. Guai quando il rito diventa fine a se stesso e quindi sterile.
A margine di quella folla stavano dei farisei, comprensibilmente allarmati da tutta quell’esultanza, per loro inopportuna. La loro richiesta, “Maestro, rimprovera i tuoi discepoli” non era dovuta al fatto che quelli facevano un baccano fastidioso, ma perché Gli tributavano un onore che, secondo loro, non poteva avere: “Benedetto colui che viene, il Re, nel nome del Signore”? Questo significava che Gesù, secondo i suoi discepoli, era veramente chi diceva di essere, cosa che chiaramente per i farisei non poteva sussistere e suonava come una bestemmia. Ancora, per quelle persone, Gesù lasciava che i suoi discepoli gli attribuissero un titolo cui non aveva certo alcun diritto e anche questo non era ammissibile.
Circa la lode dei discepoli, Matteo riporta “Osanna al figlio di Davide! Benedetto sia il regno di Davide nostro padre, che viene nel nome del Signore!” e altre simili sono riferite dagli altri. “Osanna” significa “Salva ora”, o “Salva, ti supplichiamo”, riferimento al Salmo 118,21-29: “Ti rendo grazie, perché mi hai risposto, perché sei stato la mia salvezza. La pietra scartata dai costruttori è divenuta pietra d’angolo. Questo è stato fatto dal Signore: una meraviglia ai nostri occhi. Questo è il giorno che ha fatto il Signore: rallegriamoci in esso ed esultiamo! Ti preghiamo, Signore: dona la salvezza! Ti preghiamo: dona la vittoria! Benedetto colui che viene nel nome del Signore. Vi benediciamo dalla casa del Signore. Il Signore è Dio, egli ci illumina. Formate il corteo con rami frondosi fino agli angoli dell’altare. Sei tu il mio Dio e ti rendo grazie, sei il mio Dio e ti esalto. Rendete grazie al Signore, perché è buono, perché il suo amore è per sempre”. Quel corteo con quelle parole, formato “coi rami frondosi” era per i capi religiosi del popolo intollerabile e ancor più lo erano le parole dei discepoli di Gesù.
La Sua risposta, “Vi dico che, se questi taceranno, grideranno le pietre”, è una citazione di un proverbio in uso nel mondo antico da greci, romani ed ebrei, ma la impiegò per primo il profeta Abacuc in 2.9-11 nelle parole contro l’avidità, “Guai a chi è avido di guadagni illeciti, un male per la sua casa, per mettere il nido in luogo alto e sfuggire alla stretta della sventura. Hai decretato il disonore alla tua casa: quando hai soppresso popoli numerosi hai fatto del male contro a te stesso. La pietra infatti griderà dalla parete e la trave risponderà dal tavolato”: è quindi impossibile reprimere la Giustizia fino alla fine, fino alla sua scomparsa perché, se l’uomo tace, parlano “le pietre”, figura del mondo inanimato, come infatti avverrà alla morte di Gesù coi fenomeni incontrollabili quali il terremoto, il “buio su tutta la terra” e la cortina del Tempio che si spezzerà in due. Al posto di “grideranno le pietre”, poi, altri preferiscono “le pietre comincerebbero a gridare”.
Ancora la pietra fu usata da Nostro Signore per paragonare la potenza di Dio alla presunzione dell’uomo: “E non crediate di poter dire dentro di voi: «Abbiamo Abramo per padre!», perché io vi dico che da queste pietre Dio può suscitare figli ad Abrahamo”. (Matteo 3.9).
Gesù, quindi, pone i suoi avversari di fronte all’inevitabilità del piano di Dio per la salvezza della creatura, che proseguirà fino alla fine del tempo, lasciando chi non crede nel Figlio solo, sconfitto e deserto.
Quel giorno però non finì così: Giovanni, a proposito dei concetti di esultanza espressi dalla folla de discepoli e di altri episodi che avvennero (vedremo che poi Gesù scoppierà in pianto su Gerusalemme) scrive: “I suoi discepoli sul momento non compresero queste cose; ma, quando Gesù fu glorificato, si ricordarono che di lui erano state scritte queste cose e che a lui essi le avevano fatte. Intanto la folla, che era stata con lui quando chiamò Lazzaro fuori dal sepolcro e lo resuscitò dai morti, gli dava testimonianza. Anche per questo la folla gli era andata incontro, perché aveva udito che egli aveva compiuto questo segno. I farisei allora dissero fra loro: «Vedete che non ottenete nulla? Ecco: il mondo è andato dietro a lui»”.
Ancora una volta abbiamo una delle tante sconfitte della generazione perversa ostile a Gesù. La loro ostilità si avvicinava sempre di più all’ostilità omicida sotto la regìa dell’Avversario che riuscirà a ferire al calcagno il Figlio di Dio secondo la profezia di Lui stesso nel giudizio al serpente. Ma sappiamo che “A colui che siede sul trono e all’Agnello siano – sono e saranno – la lode, l’onore, la gloria e la potenza, nei secoli dei secoli. Amen!” (Apocalisse 5.13).
* * * * *