16.03 – IL PIANTO DI GESÙ SU GERUSALEMME (Luca 19.41-44)

16.03 – Il pianto su Gerusalemme (Luca 19. 41-44)

 

41Quando fu vicino, alla vista della città pianse su di essa 42dicendo: «Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, quello che porta alla pace! Ma ora è stato nascosto ai tuoi occhi. 43Per te verranno giorni in cui i tuoi nemici ti circonderanno di trincee, ti assedieranno e ti stringeranno da ogni parte; 44distruggeranno te e i tuoi figli dentro di te e non lasceranno in te pietra su pietra, perché non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata».

 

“Quando fu vicino, alla vista della città”, è un dato che ci permette, se non di individuare il punto esatto in cui si trovava Gesù, quanto meno la zona, dove si aveva una vista che abbracciava tutta Gerusalemme: il corteo era giunto alla sommità del monte degli Olivi e aveva iniziato o stava per scendere la china occidentale dello stesso. Da lì si vedeva il Tempio, poi la torre Antonia sede della guarnigione romana e, sul lato opposto, la reggia di Erode con le famose tre torri che, prima dell’assedio del 70, Tito aveva ritenuto inespugnabili. C’erano poi le due file di mura che proteggevano la città e poi tutte le case.

Fra l’altro, accanto al monte degli Olivi c’era quello “del malconsiglio”, anche detto “dell’offesa”, per quanto fece Salomone negli ultimi anni della sua vita: “Salomone commise il male agli occhi del Signore e non seguì pienamente il Signore come Davide, suo padre. Salomone costruì un’altura per Camos, obbrobrio dei Moabiti, sul monte che è di fronte a Gerusalemme, e anche per Moloc, obbrobrio degli Ammoniti. Allo stesso modo fece per tutte le sue donne straniere, che offrivano incenso e sacrifici ai loro dèi. Perciò il Signore s’indignò con Salomone perché aveva deviato il suo cuore dal Signore, Dio d’Israele, che gli era apparso due volte e gli aveva comandato di non seguire altri dèi, ma Salomone non osservò quanto gli aveva comandato il Signore” (1 Re 11.6-9).

Questo passo ci insegna che, nonostante i privilegi e l’onore che un uomo possa ricevere da Dio – sottolineiamo che “gli era apparso due volte” – e tutte le benedizioni avute, è sufficiente deviare verso la carne con metodo per cadere rovinosamente e perdere le benedizioni ricevute. Infatti Dio “disse a Salomone: «Poiché ti sei comportato così e non hai osservato la mia alleanza né le leggi che ti avevo dato, ti strapperò via il regno e lo consegnerò a un tuo servo – Geroboamo, figlio di Nebat –. Tuttavia non lo farò durante la tua vita, per amore di Davide, tuo padre; lo strapperò dalla mano di tuo figlio. Ma non gli strapperò tutto il regno; una tribù la darò a tuo figlio, – Beniamino, oltre a Giuda che era sua – per amore di Davie, mio servo, e per amore di Gerusalemme, che ho scelto” (vv.11-13).

Possiamo dire quindi che a sinistra di Gesù stava il ricordo di un fallimento (il malconsiglio), per quanto certo non Suo, e sotto – o di fronte a seconda di come lo si voglia interpretare – una città che Lo avrebbe rinnegato.

Una città vista dall’alto, o da lontano, contemplata nel silenzio, suggerisce l’idea di un’infinità di vite che trascorrono nelle attività più svariate, ma tutte intente in un presente fatto di interessi, progetti, idee, con la umana speranza che tutto possa scorrere nel migliore dei modi. La vista di una città mi ha sempre suggerito da una parte l’idea di mobilità, dall’altra il suo esatto contrario, un senso di attesa verso un futuro che la gente non può conoscere. Ogni essere vivente ha un futuro, ma non può sapere se in positivo o in negativo nonostante tutte le sue speranze e aspirazioni e così un popolo, un paese, una città. Qui, però, si parla di qualcosa di infinitamente più grande, di un popolo e di “Gerusalemme che ho scelto”, che deliberatamente rifiuterà con conseguenze materiali e spirituali terribili.

Va poi esaminato il pianto di Gesù, diverso da quello che ebbe alla morte di Lazzaro (edàkrusen, pianse) perché qui abbiamo “eklàusen” che ha riferimento a un “pianto con lamenti”: là era sommesso, provocato dalla constatazione della fragilità dell’uomo causata dal peccato e dal dolore che questa provoca, qui da tutto quanto stava avvenendo e sarebbe accaduto. La folla festante fa da contrappunto alla visione del luogo dove nel giro di pochi giorni sarebbe stato insultato, condannato e crocifisso, ma ancor più sul destino futuro della città perché è su di lei che piange, non certo su di sé. È l’amore di Dio che gli fa dire “il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione” (Osea 11.8), sentimento che comunque nulla può di fronte al rifiuto dell’oggetto di quell’amore. E non si tratta di un amore non corrisposto, ma di indifferenza, di scelta di qualcos’altro che al momento appaga di più, ma non garantisce durata, riparo, protezione qual era quella che Gesù voleva dare.

Ricordiamo il lamento su Gerusalemme in Luca 13.34: “Gerusalemme, Gerusalemme; tu che uccidi i profeti e lapidi quelli che sono stati mandati a te: quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia i suoi pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto! Ecco, la vostra casa è abbandonata a voi!”.

 

Esaminiamo ora brevemente le parole del lamento nel nostro passo, in un’altra versione: “Oh, se anche tu, almeno in questo giorno, avessi riconosciuto le cose appartenenti alla tua pace”. “Tu”, “almeno” e “riconosciuto” sono i cardini su cui poggia il discorso: Gesù era venuto per lei, Gerusalemme, perché era lì che il suo “Re” avrebbe dovuto arrivare, non certo all’improvviso, non certo sconosciuto perché l’ingresso in quella città era preceduto da segni innumerevoli e inconfutabili – ricordiamo il comportamento della folla, “per tutti i prodigi che avevano veduto” – tali da non poterlo confondere come uno dei molti “Messia” che ogni tanto saltavano fuori in Israele. “Almeno in questo giorno” era l’ultima possibilità che Gerusalemme aveva per accoglierlo, e la conversione non era un miracolo che Gesù potesse fare, come non avrebbe mai potuto guarire qualcuno che non avesse avuto fede in Lui – ricordiamo Nazareth, che di miracoli non ne vide –.

C’è poi quel “riconosciuto”, che è da sempre riferito alla capacità di una persona: si riconosce qualcuno con cui esiste o è esistito un rapporto, è un’azione che implica un individuare certo in mezzo ad alternative simili. Gerusalemme avrebbe dovuto riconoscere “le cose – gli elementi – appartenenti alla tua pace”, naturalmente quella con Dio e a lei erano stati forniti tutte le istruzioni per poter arrivare a determinare il proprio essere. Leggiamo un parallelo interessante in Deuteronomio 5.29, “Oh, se avessero sempre un tal cuore, da temermi e da osservare tutti i miei comandi, per essere felici loro e i loro figli per sempre!”. Anche allora, fu un fallimento, se non fosse stato per l’amore di Dio che li avrebbe condotti e corretti.

 

“Ma ora è stato nascosto ai tuoi occhi” è la spiegazione che Nostro Signore dà al rifiuto del Suo popolo. La frase non va intesa nel senso che a lui fu nascosta l’identità di Gesù, ma piuttosto che il rifiuto ostinato nel riconoscerlo come “il Cristo, il figlio dell’Iddio vivente” aveva a lungo andare provocato l’incapacità di individuarlo, come avviene ad un cuore che si ritrova indurito a forza di reprimere la propria coscienza, come il Faraone che parlava con Mosè e rifiutava di lasciare andare il popolo d’Israele secondo la richiesta “lascia andare il mio popolo, perché mi serva”.

 

Prima di sviluppare i versi successivi andiamo all’ultima frase, “perché non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata”: i riferimenti sono tanti, ma se ne può scegliere uno per tutti: “Il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre della luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio” (Giovanni 3.19-21).

La conseguenza del non riconoscere il tempo causa il deserto totale, la rovina, la distruzione perché non ci sarà più Dio a difendere quello che avrebbe dovuto essere suo popolo e che ora lo rifiuta. È un’affermazione da contestualizzare al tempo specifico di cui Gesù parla e non da intendere come un’esclusione a priori di Israele, che resta sempre il popolo di Dio nonostante la sua disubbidienza e per il quale esiste comunque un piano di redenzione, per quanto attraverso la sofferenza.

Le parole di Gesù ai versi 43 e 44 sono un’anticipazione di ciò che verrà: “Per te verranno giorni in cui i tuoi nemici ti circonderanno di trincee, ti assedieranno e ti stringeranno da ogni parte”.

Tito Vespasiano guiderà l’esercito romano all’assedio (e distruzione) di Gerusalemme. I romani eressero in soli tre giorni un muro di circonvallazione lungo più di sette chilometri per prendere la città per fame. E quel muro passò proprio anche nella zona in cui Gesù si trovò a piangere su di lei. Giuseppe Flavio racconta che Tito, alcuni mesi dopo la distruzione della città, andando da Antiochia in Egitto, “strada facendo, si recò a Gerusalemme. Confrontando egli allora la mesta solitudine che scorgeva con la passata magnificenza della città, e richiamando alla mente sia la grandezza degli edifici rovinati sia l’antica bellezza, deplorò la distruzione della città non già vantandosi, come altri avrebbe fatto, d’averla espugnata pur essendo così grande e forte, bensì maledicendo spesso i colpevoli che avevano iniziato la rivolta e attirato sulla città la punizione” (Guerre Giud. VII, 112-113).

Va ricordato che la distruzione del Tempio e gran parte del massacro che vi fu non avvenne perché ordinata ai soldati, ma come sfogo delle truppe per tutto lo stress accumulato nel corso dell’assedio che, unitamente agli agguati e alle sortite degli zeloti, li aveva psicologicamente devastati. Si trattò del famoso stress post traumatico le cui conseguenze fecero dire a un generale americano del 1800 la frase “la guerra genera demòni”. Avrebbe potuto dire “mostri”, come Goya nella famosa acquaforte sul “sonno della ragione”, ma preferì usare un termine ancora più crudo e rispondente alla realtà.

Su questo tema sono già stati forniti numerosi dati in precedenti capitoli e altri ne verranno inclusi quando esamineremo il sermone detto “profetico”, per cui mi fermerei qui. Ciò che va sottolineato è che comunque, se non si ascolta la parola di Dio, ci si rivolge inevitabilmente a quella dell’Avversario che, a differenza del Creatore, non scrive un testo da meditare, ma fa sorgere ideologie e pensieri omicidi vuoi verso il nostro simile, vuoi verso la stessa persona che li/le ascolta ed attua. Se Adamo e sua moglie avevano un giardino perfetto in cui vivere, Satana illude l’uomo senza Dio di viverne uno alternativo, con alberi, frutti e fiori finti che, in realtà, odorano di morte e a lei portano. E una vita che non abbia la promessa dell’eternità che solo il Padre può dare perché si è creduto nel Figlio, è priva di senso, qualunque cosa si faccia, a prescindere da come la si viva perché, come qualcuno ha detto un giorno, nell’origine della nostra vita c’è l’origine della nostra sofferenza e possiamo leggerla come una serie ininterrotta di perdite e separazioni. Il sunto è lì. A parte le soddisfazioni e le gioie che possiamo avere, siamo destinati a perdere una ad una tutte le persone che amiamo, tutte le situazioni che conosciamo, tutti gli affetti che ci sono cari e questo stillicidio sarà interrotto, che noi lo vogliamo o meno, dalla morte. Ma lì, per alcuni ci sarà una via verso la beatitudine, per gli altri verso un presente di gelo assoluto perché non ci sarà il calore dell’amore e della presenza di Dio a scaldarli. Né le loro anime, né i loro corpi, risorti senza possibilità di scopo. Amen.

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16.02 – L’INGRESSO TRIONFALE A GERUSALEMME (Luca 19.35-40)

16.02 – L’ingresso trionfale in Gerusalemme (Luca 19. 35-40)

 

35Lo condussero allora da Gesù; e gettati i loro mantelli sul puledro, vi fecero salire Gesù. 36Mentre egli avanzava, stendevano i loro mantelli sulla strada. 37Era ormai vicino alla discesa del monte degli Ulivi, quando tutta la folla dei discepoli, pieni di gioia, cominciò a lodare Dio a gran voce per tutti i prodigi che avevano veduto, 38dicendo: «Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore.
Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli!».39Alcuni farisei tra la folla gli dissero: «Maestro, rimprovera i tuoi discepoli». 40Ma egli rispose: «Io vi dico che, se questi taceranno, grideranno le pietre».

In chiusura allo scorso capitolo era stato ricordato il verso di Zaccaria 9.9, riportato da Matteo che, scrivendo per lettori ebrei, fornisce un elemento molto forte di raccordo con l’Antico Patto: “Ora questo avvenne perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta” (21.4). Esaminiamo meglio la profezia, che propongo nella traduzione di Giovanni Diodati del 1641:

 

“Festeggia grandemente, o figliola di Sion: giubila, figlia di Gerusalemme”

Qui l’invito è rivolto al Popolo di Dio, “figlia di Sion” e “di Gerusalemme”, che poi sono i due nomi della stessa città, il primo riferito alla sua progettazione, il secondo alla sua realizzazione. “Sion” significa “la pura di cuore”, Gerusalemme è invece composta da due elementi, Yarei, “Temere/timore, rispettare” e Salem, “pace”. Il riferimento alla città non è a quella geografica, ma a quella ideale, futura, popolata da coloro che sono menzionati nelle beatitudini in Matteo 5.-9, “Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio”.

Zaccaria si rivolge a tutti quelli che, tra il popolo, avrebbero atteso che il vero Messia si manifestasse e dà loro le sue caratteristiche, intrinseche ed estrinseche, per poterlo riconoscere:

 

“Ecco il tuo Re, giusto, e Salvatore, umile, e montato sopra un asino,

anzi un puledro fra le asine, verrà a te”

Il primo elemento da sottolineare è il possessivo tuo, quindi non di altri. È il Re progettato, profetizzato, costituito e proveniente da Dio e non dagli uomini, quindi l’Unico legittimo, quello lungamente atteso anche se non da tutti, il Re incarnato, realmente vicino, potremmo dire l’aggiornamento di Esodo 20.2,3 “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile: non avrai altri dei di fronte a me”. Questo “Re” “verrà a te” e se il Dio dell’Antico Patto aveva fatto uscire il Suo popolo “dalla condizione servile” – che tuttavia molti rimpiangeranno nel deserto –, questo avrebbe portato la liberazione dal peccato e relativi vincoli ostativi nella relazione col Padre.

Il Re di cui parla Zaccaria è però l’antitesi di un sovrano umano; le sue caratteristiche infatti sono quattro: “giusto”, cioè sarebbe stato detentore della vera giustizia, non quella finta, ipocrita degli uomini e del mondo. E infatti in Matteo 5.6 abbiamo letto “Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati”, cioè ne avranno in abbondanza, troveranno piena soddisfazione. Il Re giusto, la amministrerà in quanto proveniente da Dio, sua emanazione e sostanza.

Seconda caratteristica è “Salvatore”, cioè chi strappa una persona da una condizione dalla quale con le sue forze e possibilità non sarebbe mai stato in grado di uscire. Questo Re “ha dato se stesso per i nostri peccati al fine di strapparci da questo secolo – altri traducono “mondo” – malvagio, secondo la volontà di Dio e Padre nostro, al quale sia gloria nei secoli dei secoli. Amen” (Galati 1.4).

Terzo elemento che va sottolineato è “umile”, che contrasta con l’idea tradizionale di un re, solitamente irraggiungibile, che tutto può e decide prevalentemente in base ai suoi capricci o ai suoi sogni di grandezza. Gesù, invece, come Re incarnato, Figlio di Dio e figlio dell’uomo, venne senza alcuna presunzione, anzi “sotto forma di servo” e disse “Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita” (Matteo 11.29). Così si mostrò agli uomini del suo tempo, ma in modo ben diverso si rivelerà al suo ritorno, quando non vi sarà nessuna possibilità, per coloro che lo avranno rifiutato, di sfuggirgli. E faccio riferimento come sempre alla visione profetica dell’apostolo Giovanni, che scrive “quando lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto” (Apocalisse 1.17): la potenza, la gloria e l’immensità di Colui che è descritto come “uno simile a un Figlio d’uomo” era tale da provocare questa reazione in una persona come Giovanni, “il discepolo che Gesù amava” che qui, conscio della propria umanità rispetto a chi aveva davanti, non poté fare altro che soccombere. E certo l’Apostolo, giunto agli ultimi anni della sua vita, aveva dato e fatto quanto poteva per la causa e la propagazione del Vangelo. Ricordiamo ancora, in merito a come si manifesterà il Re, quanto abbiamo letto al termine della parabola delle mine: “Portate qua i miei nemici, ce non hanno voluto che io regnassi su di loro, e scannateli in mia presenza”, (Luca 19.27) situazione ben diversa rispetto a quando era in vita sulla terra.

Giungiamo così al quarto punto, quello che avrebbe consentito agli israeliti di riconoscerlo, “montato sopra un asino, anzi un puledro fra le asine”: abbiamo “asino” e “puledro”, il primo chiaramente riferito all’animale come categoria. L’asino lo cavalcavano i rettori del popolo e i re, mentre il cavallo, che sarebbe stato per la nostra cultura più rispondente allo scopo, era un animale da guerra e il suo allevamento non era praticato in Israele. Così leggiamo in Deuteronomio 17.15,16: “Costituirai sopra di te come re uno dei tuoi fratelli; non potrai costituire su di te uno straniero che non sia tuo fratello. Ma egli non dovrà procurarsi un gran numero di cavalli né far tornare il popolo in Egitto per procurarsi un gran numero di cavalli, perché il Signore vi ha detto: «Non tornerete più indietro per quella via!»”. Leggiamo anche “Non siate privi di intelligenza come il cavallo e come il mulo: la loro foga si piega con il morso e le briglie, se no, a te non si avvicinano” (Salmo 32.9) o 33.17, “Un’illusione è il cavallo per la vittoria, e neppure un grande esercito può dare salvezza”.

L’asino invece era simbolo di pace, un animale tenuto in gran conto e la Legge abbonda di norme particolari a tal punto da essere ricordato nel Sommario: in Deuteronomio 5.21 leggiamo “Non desidererai la moglie del tuo prossimo. Non bramerai la casa del tuo prossimo, né il suo campo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo”, senza contare che era obbligatorio soccorrerlo (come il bue) se lo si trovava caduto lungo la strada (22.4).

Abbiamo poi “puledro”, termine che indica l’animale equino giovane, non oltre i tre anni. Marco e Luca ricordano che su quell’asino “nessuno era mai salito” e questo è un elemento molto importante perché, secondo il cerimoniale della Legge, venivano tenuti idonei per scopi sacri quegli animali che non erano mai stati assoggettati a qualsiasi lavoro, che non avessero portato persone o il giogo.

 

Andiamo ora al verso 36 del nostro passo, quando vediamo i discepoli stendere i loro mantelli lungo la strada. Matteo 21.8,9 dà qualche particolare in più: “La folla, numerosissima, stese i propri mantelli sulla strada, mentre altri tagliavano rami dagli alberi e li stendevano sulla strada”. Giovanni 12.12 “la grande folla, che era venuta per la festa, udito che Gesù veniva a Gerusalemme, prese dei rami di palme e uscì incontro a Gesù gridando…”.

Dei mantelli abbiamo parlato nello scorso studio, ma non della palma, pianta che per crescere ha bisogno di molto caldo in superficie, ma di molta acqua nel suolo ed è per questo che si trova nelle oasi. Può raggiungere grandi altezze (23m) e la chioma i 10m2. È un altro simbolo di benedizione, come da Salmo 92.13 “Il giusto fiorirà come la palma”, è un albero che non necessariamente può avere bisogno dei suoi semi per riprodursi e comunque questi hanno una durata a dir poco sorprendente; alcuni ricercatori israeliani sono riusciti a far germinare quelli, datati circa 2000 anni, trovati negli scavi di Masada, sul Mar Morto. Salomone, nel costruire il Tempio, è scritto che “ricoprì le pareti della sala tutto all’intorno con sculture incise di cherubini, di palme e di fiori in sboccio, all’interno e all’esterno” (1 Re 6.29). La palma ha accompagnato quindi le esperienze degli uomini di Dio dall’Antico al Nuovo Patto e la ritroviamo fino alla fine, in Apocalisse 9.7 quando leggiamo che “… vidi una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani”.

Un particolare interessante al verso 37 è quello della folla dei discepoli che “piena di gioia, cominciò a lodare Dio a gran voce per tutti i prodigi che avevano veduto”, quindi ciò che viene raccontato non fu un fenomeno di isteria collettiva: lodavano Dio “per i prodigi che avevano veduto”, non “di cui avevano sentito parlare”. I discepoli erano testimoni di miracoli che avevano visto così come i presenti e per questo erano in grado di proferire parole di lode che non provenivano da un testo da recitare, ma sgorgavano da cuori riconoscenti, per quanto non pienamente consapevoli non essendo ancora sceso lo Spirito Santo. Sulla necessità dell’esperienza per proferire concetti davanti a Dio dovrebbero meditare le confessioni cristiane che insegnano ai credenti a pregare secondo schemi fissi, che magari contengono espressioni corrette, ma alla lunga creano distanza e portano ad onorare “con le labbra”, senza preoccuparsi del cuore. Guai quando il rito diventa fine a se stesso e quindi sterile.

A margine di quella folla stavano dei farisei, comprensibilmente allarmati da tutta quell’esultanza, per loro inopportuna. La loro richiesta, “Maestro, rimprovera i tuoi discepoli” non era dovuta al fatto che quelli facevano un baccano fastidioso, ma perché Gli tributavano un onore che, secondo loro, non poteva avere: “Benedetto colui che viene, il Re, nel nome del Signore”? Questo significava che Gesù, secondo i suoi discepoli, era veramente chi diceva di essere, cosa che chiaramente per i farisei non poteva sussistere e suonava come una bestemmia. Ancora, per quelle persone, Gesù lasciava che i suoi discepoli gli attribuissero un titolo cui non aveva certo alcun diritto e anche questo non era ammissibile.

Circa la lode dei discepoli, Matteo riporta “Osanna al figlio di Davide! Benedetto sia il regno di Davide nostro padre, che viene nel nome del Signore!” e altre simili sono riferite dagli altri. “Osanna” significa “Salva ora”, o “Salva, ti supplichiamo”, riferimento al Salmo 118,21-29: “Ti rendo grazie, perché mi hai risposto, perché sei stato la mia salvezza. La pietra scartata dai costruttori è divenuta pietra d’angolo. Questo è stato fatto dal Signore:  una meraviglia ai nostri occhi. Questo è il giorno che ha fatto il Signore: rallegriamoci in esso ed esultiamo! Ti preghiamo, Signore: dona la salvezza! Ti preghiamo: dona la vittoria! Benedetto colui che viene nel nome del Signore. Vi benediciamo dalla casa del Signore. Il Signore è Dio, egli ci illumina. Formate il corteo con rami frondosi fino agli angoli dell’altare. Sei tu il mio Dio e ti rendo grazie, sei il mio Dio e ti esalto. Rendete grazie al Signore, perché è buono, perché il suo amore è per sempre”. Quel corteo con quelle parole, formato “coi rami frondosi” era per i capi religiosi del popolo intollerabile e ancor più lo erano le parole dei discepoli di Gesù.

La Sua risposta, “Vi dico che, se questi taceranno, grideranno le pietre”, è una citazione di un proverbio in uso nel mondo antico da greci, romani ed ebrei, ma la impiegò per primo il profeta Abacuc in 2.9-11 nelle parole contro l’avidità, “Guai a chi è avido di guadagni illeciti, un male per la sua casa, per mettere il nido in luogo alto e sfuggire alla stretta della sventura. Hai decretato il disonore alla tua casa: quando hai soppresso popoli numerosi hai fatto del male contro a te stesso. La pietra infatti griderà dalla parete e la trave risponderà dal tavolato”: è quindi impossibile reprimere la Giustizia fino alla fine, fino alla sua scomparsa perché, se l’uomo tace, parlano “le pietre”, figura del mondo inanimato, come infatti avverrà alla morte di Gesù coi fenomeni incontrollabili quali il terremoto, il “buio su tutta la terra” e la cortina del Tempio che si spezzerà in due. Al posto di “grideranno le pietre”, poi, altri preferiscono “le pietre comincerebbero a gridare”.

Ancora la pietra fu usata da Nostro Signore per paragonare la potenza di Dio alla presunzione dell’uomo: “E non crediate di poter dire dentro di voi: «Abbiamo Abramo per padre!», perché io vi dico che da queste pietre Dio può suscitare figli ad Abrahamo”. (Matteo 3.9).

Gesù, quindi, pone i suoi avversari di fronte all’inevitabilità del piano di Dio per la salvezza della creatura, che proseguirà fino alla fine del tempo, lasciando chi non crede nel Figlio solo, sconfitto e deserto.

Quel giorno però non finì così: Giovanni, a proposito dei concetti di esultanza espressi dalla folla de discepoli e di altri episodi che avvennero (vedremo che poi Gesù scoppierà in pianto su Gerusalemme) scrive: “I suoi discepoli sul momento non compresero queste cose; ma, quando Gesù fu glorificato, si ricordarono che di lui erano state scritte queste cose e che a lui essi le avevano fatte. Intanto la folla, che era stata con lui quando chiamò Lazzaro fuori dal sepolcro e lo resuscitò dai morti, gli dava testimonianza. Anche per questo la folla gli era andata incontro, perché aveva udito che egli aveva compiuto questo segno. I farisei allora dissero fra loro: «Vedete che non ottenete nulla? Ecco: il mondo è andato dietro a lui»”.

Ancora una volta abbiamo una delle tante sconfitte della generazione perversa ostile a Gesù. La loro ostilità si avvicinava sempre di più all’ostilità omicida sotto la regìa dell’Avversario che riuscirà a ferire al calcagno il Figlio di Dio secondo la profezia di Lui stesso nel giudizio al serpente. Ma sappiamo che “A colui che siede sul trono e all’Agnello siano – sono e saranno – la lode, l’onore, la gloria e la potenza, nei secoli dei secoli. Amen!” (Apocalisse 5.13).

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16.01 – TROVERETE UN’ASINA (Luca 19.28-35)

16.01 – Troverete un’asina (Luca 19. 28-35)

 

28Ora, dette queste cose, egli li precedeva, salendo a Gerusalemme. 29Quando fu vicino a Bètfage e a Betània, presso il monte detto degli Ulivi, inviò due discepoli 30dicendo: «Andate nel villaggio di fronte; entrando, troverete un puledro legato, sul quale non è mai salito nessuno. Slegatelo e conducetelo qui. 31E se qualcuno vi domanda: «Perché lo slegate?», risponderete così: «Il Signore ne ha bisogno»». 32Gli inviati andarono e trovarono come aveva loro detto. 33Mentre slegavano il puledro, i proprietari dissero loro: «Perché slegate il puledro?». 34Essi risposero: «Il Signore ne ha bisogno». 35Lo condussero allora da Gesù; e gettati i loro mantelli sul puledro, vi fecero salire Gesù. 

 

Con questi versi entriamo ufficialmente nell’ultima settimana di Gesù prima di essere arrestato e crocifisso. Come già rilevato in Marco 10.32, quando “Mentre erano sulla strada per salire a Gerusalemme, Gesù camminava davanti a loro ed essi erano sgomenti, coloro che lo seguivano erano impauriti”, vediamo che precede quanti lo seguono, segno che il desiderio di compiere la missione che aveva era più forte di qualsiasi altro sentimento, come quello umanamente istintivo di repulsione verso tutto ciò che è sofferenza, che si tratti di un semplice fastidio o di una morte violenta. E il comportamento di Nostro Signore può essere spiegato solo con l’amore totale verso la propria creatura e verso il Padre che si concretò da un lato nel totale compatimento (per noi) e nella totale ubbidienza a Lui, sapendo che solo il Suo sacrificio avrebbe potuto eliminare l’incompatibilità fra Dio e l’uomo instauratasi a causa del peccato di Adamo.

Un passo importante in proposito lo troviamo in Colossesi 2.13,14 che recita: “Con lui Dio ha dato vita anche a voi, che eravate morti a causa delle colpe e della non circoncisione della vostra carne, perdonandovi tutte le vostre colpe e annullando il documento scritto contro di noi che, con le prescrizioni, ci era contrario: lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce”. Ora cerchiamo di sottolineare alcuni termini qui presenti: le parole “morti” e “colpe”, fanno certamente riferimento a una situazione di irrimediabilità dal punto di vista umano nel senso che mai avremmo potuto fare qualcosa per modificare la nostra situazione di morte e colpa – pensiamo a quanti tentativi avranno fatto Adamo e sua moglie per ritornare alla loro purezza originaria –, però queste, secondo l’insegnamento dell’Apostolo, sono state annullate come rilevabile dal “dato vita”, “eravate”, “perdonandovi”, “annullando” e “tolto di mezzo” che fanno riferimento al radicale ribaltamento della situazione di prima. Nostro Signore, quindi, non vedeva l’ora, come Figlio di Dio e figlio dell’uomo, che tutto questo si verificasse e infatti abbiamo letto in 12.50 di questo Vangelo “Ho un battesimo nel quale sarò battezzato, e come sono angosciato finché non sia compiuto”.

 

Tornando al nostro episodio Gesù e il suo seguito, quindi, percorrono la strada che da Betania portava a Gerusalemme (2,5 km circa) e passava vicino al villaggio di Bethphage così chiamato, “casa dei fichi”, perché in quella zona questa pianta dava frutti prima rispetto alle altre. Fu in un punto che suppongo più o meno equidistante fra i due centri abitati che verrà affidato a due discepoli il compito di andare a prelevare un puledro d’asina (in realtà lui con sua madre) usando parole che presentano differenti possibilità di lettura di cui ne vedremo alcune.

Primo, Gesù anche qui si dimostra come l’onnisciente, dando particolari precisi sul dove, sul quando e sul come avrebbero trovato i due animali, che certo dove stava sostando coi discepoli non poteva vedere. Nessuno degli elementi comunicati è sbagliato o approssimativo, ma riflette una situazione certa descritta nei dettagli. Il Maestro avverte i due discepoli di una situazione che avrebbero trovato e dà loro istruzioni su come comportarsi, ma questo anticipare i tempi da parte Sua ci deve ricordare tutte le altre volte in cui, parlando loro, si espresse altrettanto chiaramente su cosa avrebbero trovato non in un preciso villaggio, ma nella vita quotidiana in conseguenza del principio in base al quale “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua” (luca 9.23) e “Chi vorrà salvare la propria via, la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà” (v.24).

“Troverete un puledro legato” è l’anticipo di ciò che avrebbero trovato i due discepoli appena entrati nel villaggio, ma per noi vale quel “troverete”, che possiamo a sua volta collegarlo alla promessa conseguente al “cercare” della persona che vuole realmente “trovare” Dio attraverso il proprio Figlio, Gesù Cristo uomo. Se quindi era impossibile che quei due non trovassero quel puledro, lo è altrettanto che la pace con e di Dio non possa essere finalmente ottenuta da chi la cerca, perché si tratta di due anticipazioni, per quanto diverse, che provengono dalla stessa Persona.

Seconda osservazione, il puledro e sua madre si trovavano legati accanto a quella casa e a quell’incrocio solo apparentemente per caso e da qui possiamo capire che, nella vita del cristiano, non vi è nulla di casuale, ma ogni cosa ha un suo motivo e solo noi siamo chiamati a comprenderlo, valutarlo, analizzarlo nel nostro interesse perché siamo proprietà di Dio. E qui – apro una parentesi e la chiudo – viene alla mente il libro dei Proverbi con tutte le raccomandazioni alla prudenza, nemica dell’impeto così intimamente legato al sentimento, da sempre elemento fuorviante e dannoso nella condotta della persona soprattutto quanto alle scelte spirituali. Ecco perché, nelle nostre preghiere, dovremmo sempre chiedere al Padre il discernimento e contenimento opportuno per le nostre scelte, richiesta che è una lontana parente delle preghiere di Gesù quando, nelle sue veglie, si consultava sugli itinerari da percorrere e sulle persone che avrebbe incontrato.

Terza osservazione possibile è sui due discepoli scelti da Gesù per andare a prendere il puledro (in realtà con sua madre, come dai paralleli) che possiamo identificare con buona probabilità in Pietro e Giovanni perché a loro fu affidato, questa volta citati per nome, il compito di trovare il luogo dove avrebbero celebrato la cena pasquale, con modalità simili a quella del nostro episodio: “Gesù mandò Giovanni e Pietro dicendo: «Andate a preparare per noi la Pasqua, perché possiamo mangiare». Gli chiesero: «Dove vuoi che la prepariamo?». Ed egli rispose: «Appena entrati in città, vi verrà incontro un uomo che porta una brocca d’acqua. Seguitelo nella casa dove entrerà, e direte al padrone di casa: Il Maestro ti dice: Dove è la stanza in cui posso mangiare con i miei discepoli? Egli vi mostrerà una sala al piano superiore, grande e addobbata; là preparate»” (Luca 22.8.12).

L’ipotesi sull’identità di Pietro e Giovanni non si basa solo su questo passo, ma nel caso di Pietro emerge dalla ricchezza di particolari che poi trasmise a Marco, che nel suo Vangelo scrive non “e trovarono come aveva loro detto” (il nostro passo di Luca), ma “Andarono e trovarono un puledro legato vicino a una porta, fuori sulla strada – originale “al congiungimento di due strade –, e lo slegarono. Alcuni dei presenti dissero loro: «Perché slegate questo puledro?» ed essi risposero come aveva detto Gesù. E li lasciarono fare.” (11.4,5).

Quarto elemento di considerazione: il Maestro non li manda senza prima dir loro cosa dire a chi avesse chiesto ragione del loro comportamento. In pratica bandisce l’improvvisazione nel senso che non lascia a Pietro e Giovanni l’iniziativa di dire – ad esempio – “Te lo chiediamo in prestito, ma te lo riporteremo”, o “Siamo discepoli di Gesù che ti chiede questo animale”, ma ordina di dire una frase precisa, “Il Signore ne ha bisogno”, utilizzando per la prima volta questo titolo riferendolo a se stesso. Questo ci parla del fatto che quando una persona ci chiede ragione di un nostro comportamento o della fede che abbiamo, la risposta deve basarsi sulle parole e le promesse di vita di Gesù e non su elementi estranei a questi, che denotano un comportamento settario e falso in chi li porta eventualmente avanti.

Quinto elemento è chiaramente la definizione che Nostro Signore dà di se stesso, “Signore”. Evidentemente i due discepoli, spiegando la ragione del loro slegare l’asino, avrebbero parlato a chi Gesù lo conosceva ma non era Suo amico come Lazzaro, ma perché Lo aveva già riconosciuto come “Signore”, quindi una persona che era stata da Lui salvata e perdonata, non sappiamo se anche attraverso un miracolo. In pratica, dicendo “Il Signore ne ha bisogno”, Pietro e Giovanni avrebbero espresso un concetto ben più inequivocabile rispetto a “Gesù ne ha bisogno”. Il puledro e l’asina erano importanti non perché Gesù non aveva voglia di percorrere la breve distanza fra il luogo in cui si trovava e Gerusalemme, ma perché erano necessari per adempiere la profezia di Zaccaria 9.9 che Matteo si preoccuperà di evidenziare, cioè “Esulta grandemente, figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio di asina”. Molti commentatori scrivono che il puledro e l’asina furono dati perché a monte c’era la certezza di averli indietro, ma non credo sia stato necessariamente così perché non viene detto cosa Gesù ne avrebbe fatto: “Il Signore – quindi Colui che tutto può e tutto dispone – ne ha bisogno”, non serviva altro.

Sesta considerazione la possiamo fare sul testo parallelo di Matteo 21, quando Nostro Signore dice ai due discepoli “Andate nel villaggio di fronte a voi e subito troverete un’asina legata, e con essa un puledro; slegateli e portatemeli” (v.2), questo perché il puledro, non abituato a stare lontano dalla madre, si sarebbe agitato. Mi sono chiesto se Gesù avesse voluto i due animali solo per questo, ma non credo; piuttosto così facendo abbiamo il rispetto della dignità dell’animale in quanto essere senziente e il rifiuto del maltrattamento o del voler piegare a tutti i costi un essere vivente alla volontà umana. Ricordiamo infatti che gli animali, nonostante alcuni di loro fossero destinati ai sacrifici, erano protetti dalla Legge in numerosi passi. Gli stessi sacrifici, che gli esseni arbitrariamente non praticavano, erano tesi a far comprendere all’essere umano che in assenza di spargimento di sangue la remissione era impossibile e, dal Sacrificio per eccellenza di Gesù, cessarono. Infatti: “Egli entrò una volta per sempre nel santuario, non mediante il sangue di capri e di vitelli, ma in virtù del proprio sangue, ottenendo così una redenzione eterna” (Ebrei 9.12).

Il settimo punto riguarda il verso 35: Pietro e Giovanni portano a Gesù il puledro con sua madre, si tolgono le loro vesti di sopra per fargli una sorta di sella, lo sollevano sulle loro braccia e lo mettono a cavallo dimostrando ossequio e deferenza e abbiamo così quest’immagine dei discepoli che si mettono a servirlo, non volendo che salga da solo o che si privasse del vestito. Che “Signore” sarebbe altrimenti stato?

Il comportamento dei discepoli però non fu solo espressione della considerazione in cui tenevano il loro Maestro, ma del fatto che lo ritenevano loro Re, essendovi un rapporto assolutamente preciso fra il loro gesto e quello descritto in 2 Re 9 quando un servo del profeta Eliseo unse Ieu come re di Israele. Leggiamo nei versi da 12 a 13; “Così dice il Signore: «Ti ungo re d’Israele». Allora – gli ufficiali – si affrettarono e presero ciascuno il proprio mantello e lo stesero sui gradini sotto di lui, suonarono il corno e gridarono: «Ieu è re»”. Ecco perché abbiamo letto al verso 36 che “mentre camminava, stendevano i loro mantelli sulla via”.

* * * * *16.01