15.36 – IL CONVITO DI BETANIA I/II (Marco 14.3-9)

15.36 – Il convito di Betania I/II(Marco 14.3-9)

 

3Gesù si trovava a Betània, nella casa di Simone il lebbroso. Mentre era a tavola, giunse una donna che aveva un vaso di alabastro, pieno di profumo di puro nardo, di grande valore. Ella ruppe il vaso di alabastro e versò il profumo sul suo capo. 4Ci furono alcuni, fra loro, che si indignarono: «Perché questo spreco di profumo? 5Si poteva venderlo per più di trecento denari e darli ai poveri!». Ed erano infuriati contro di lei.6Allora Gesù disse: «Lasciatela stare; perché la infastidite? Ha compiuto un’azione buona verso di me. 7I poveri infatti li avete sempre con voi e potete far loro del bene quando volete, ma non sempre avete me. 8Ella ha fatto ciò che era in suo potere, ha unto in anticipo il mio corpo per la sepoltura. 9In verità io vi dico: dovunque sarà proclamato il Vangelo, per il mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche quello che ha fatto».

 

Si tratta di un episodio ricordato da Matteo, Marco e Giovanni, anche se con qualche variante e un ordine cronologico diverso; Luca 19.20 scrive, come raccordo, “Dette queste cose, Gesù camminava davanti a tutti salendo verso Gerusalemme” e Giovanni, in 12.1. “Sei giorni prima della Pasqua”. Ora, provenendo da Gerico, Betania era l’ultima città che si incontrava e distava da lei circa tre chilometri, posizione che spiega la presenza di molti Giudei sul posto.

Introducendo l’episodio possiamo dire che Betania, il cui nome significa “Casa dei datteri” o “Casa di dolcezza”, rientra in quelle città particolari che Gesù incontrò durante il Suo Ministero, come Cana che vide il Suo primo miracolo, Capernaum che Lo annoverò fra i suoi concittadini acquisiti e tante altre. Betania però fu diversa perché costituì per Gesù la città dell’amicizia e della comunione in quanto gli amici che risiedevano là, Marta, Maria e Lazzaro, costituirono per Lui una pausa di letizia e gioia nell’attesa di dare la propria vita in sacrificio per la salvezza del peccatore.

Sul rapporto che Nostro Signore aveva con queste persone non credo vi sia bisogno di approfondire: probabilmente l’amicizia con loro nacque quando fu ospitato in casa di Marta, quando vi fu il famoso dialogo perché Maria non l’aiutava nei lavori e fu pronunciata la famosa frase “Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta”; con quella Gesù, come amava osservare un fratello, non solo ha avvisato l’uomo che la morte gli avrebbe rubato ogni cosa (parenti, amici e proprietà), ma ha altresì ribadito che nessuno, solo con le proprie opere, potrà evitare il giusto giudizio di Dio.

A questo riguardo è inevitabile pensare alla parabola dell’uomo ricco che disse “Anima mia, hai disposizione molti beni, per molti anni: ripòsati, mangia, bevi e datti alla gioia”. Sappiamo però che le cose per lui andarono diversamente, perché Dio gli disse “Stolto, questa notte stessa – in opposizione ai molti anni di godimento preventivati – ti sarà richiesta la tua vita – che s’illudeva di godere per molto tempo –, e quello che hai preparato di chi sarà?”. Tutto quello che quell’uomo aveva accumulato, da lì a poco sarebbe stato completamente sperperato dai suoi eredi, qualora ne avesse avuti, o in alternativa – aggiornamento ai tempi nostri – li avrebbe incamerati lo Stato.

 

Ora abbiamo letto che “Gesù si trovava a Betania, in casa di Simone il lebbroso”, persona sicuramente da Lui guarita che diede un convito in Suo onore, per cui anche Simone va annoverato tra le persone amiche, riconoscenti per tutto ciò che aveva fatto per loro. Alcuni identificano quest’uomo nell’unico tra i dieci (Samaritano) che tornò a ringraziare Gesù.

Ora, come abbiamo letto, l’arrivo di Nostro Signore a Betania provocò una festa fra i suoi amici e presumiamo tutto il villaggio, in cui tutti ricordavano molto bene la risurrezione di Lazzaro avvenuta pochi giorni prima e Simone mise la sua casa a disposizione per il convito che si svolse la sera, quindi a sabato concluso. Qui possiamo fare una prima riflessione: Simone, grazie all’intervento di Gesù nei suoi confronti, era passato da una condizione di emarginazione totale, evitato dal popolo, costretto a trovare rifugio in anfratti del terreno o caverne e a sopravvivere grazie alla carità altrui, al reintegro totale; era rientrato in possesso della sua casa, aveva potuto riallacciare le proprie amicizie sospese dalla malattia e ora si trovava vedere finalmente, non più soggetto al vincolo della distanza, Gesù da vicino, sentirlo parlare, muoversi nella sua spontaneità come mai gli era stato concesso.

Ragionando sul convito in casa di Simone si può pensare alla serenità e gioia reciproca che ne derivò, ma questa è una lettura umana e corrisponde al vero solo in parte, poiché a tavola vi era Colui che il profeta Isaia aveva descritto come “Consigliere ammirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace”, cioè il Figlio di Dio e il Figlio dell’uomo assieme, con quelle sue due nature che resero l’impossibile e l’impensabile possibile e concreto, cioè l’annullamento dell’inimicizia, a causa del peccato, fra Dio e l’uomo.

Se infatti col termine “Figlio di Dio” abbiamo la Sua provenienza e origine, col quello di “Figlio dell’uomo” abbiamo racchiusa tutta la realtà contemplabile dell’inimmaginabile. Mi spiego: Gesù visse fino a circa 30 anni come qualunque altro uomo, ogni suo risultato materiale e spirituale fu frutto di fatica e preghiera, poi dimostrò la sua sovrannaturalità e fu l’Emmanuele rivelato, il “Dio con noi” finalmente raggiungibile, tangibile, conoscibile. E tutto questo è così ancora oggi perché, da quando si manifestò, l’unico elemento cambiato è il non essere più in mezzo a noi con il corpo. Quando parlo di “contemplazione dell’inimmaginabile” è proprio tutto ciò che comprende 1 Corinti 2.14, “L’uomo naturale non comprende le cose dello Spirito di Dio; esse sono follia per lui, e non è capace di intenderle, perché se ne può giudicare solo per mezzo dello Spirito”. Al cristiano, di fatto e non di nome, salvato per Grazia mediante la fede, si apre in virtù dello Spirito Santo tutto un universo nuovo di cui non avrebbe mai potuto supporre l’esistenza.

Su Simone, poi, possiamo aggiungere che, a differenza di altri come ad esempio nell’episodio dell’unico tornato indietro su dieci, fu tra coloro che seppero essere riconoscenti a Gesù e glorificarono Iddio facendo di sé stesso una testimonianza continua: pensiamo al suo soprannome e al fatto che chiunque lo sentiva chiamato così, “il lebbroso” non poteva fare altro se non informarsi sulla sua guarigione avendo in risposta che era stato miracolato da Gesù, come noto a tutti.

Se quindi il primo personaggio con la lebbra avuta un tempo testimonia la realtà dell’uomo nel peccato che trova in Cristo il perdono e quindi la guarigione, in Lazzaro invece vediamo sperimentata la violenza della morte, che unisce tutti, credenti e non, tranne coloro che si troveranno in vita al rapimento della Chiesa, quando saranno trasformati “in un batter d’occhio”.

Con questi due personaggi, quindi, Gesù rivelò di essere in grado di ripristinare immediatamente la relazione fra l’uomo e Dio (la guarigione di Simone) e di liberare dal buio e dalla distruzione eterna della morte (Lazzaro), poiché sappiamo che questa non si limiterà a far cessare la vita in chi ha ancora un battito, ma chiuderà per sempre all’anima la possibilità di esistere qualora si sia consapevolmente non risposto al messaggio del Vangelo.

Terzo personaggio, la cui presenza è rivelata dal solo Giovanni, è Marta, di cui è scritto che “serviva” (12.2). Questo particolare, che apparentemente non aggiunge nulla al suo carattere perché l’abbiamo già conosciuta indaffarata nei lavori di casa, in realtà non è da sottovalutare perché, se Simone è figura del peccatore perdonato per Grazia e Lazzaro di colui che è risuscitato perché Gesù avrebbe vinto gli inferi e la morte, Marta lo è del servitore che non antepone mai le sue opere a quelle del suo Signore: in altri termini lei serve perché già facente parte di quella comunione e non per farsi notare o acquisire meriti, altrimenti ne sarebbe stata esclusa. Marta serviva al convito sotto lo sguardo benevolo di Gesù che la considerava a tutti gli effetti una dei Suoi e lo faceva come conseguenza naturale di questo nel senso che metteva a disposizione degli altri ciò che sapeva fare e qui risiede il valore di questa donna che dona liberamente quel che ha di suo. In lei e in ciò che fa vediamo le opere come conseguenza della fede e di ciò che si è gratuitamente ricevuto da Dio: “Per questa grazia, infatti, siete salvi mediante la fede e ciò non viene da voi, ma è un dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene” (Efesi 2.9).

Tra l’altro, particolare nascosto, tanto Marta che la sorella Maria di lì a poco, non avrebbero potuto trovarsi lì perché a quel tempo le donne non potevano presenziare ai conviti per cui non si può altro che dedurre che il loro stare in quel luogo fosse stato autorizzato da Gesù che, così facendo, anticipa ancora una volta la Dispensazione della Grazia in cui la donna non è più soggetta ad una società maschilista, ma al solo marito in modo non dispotico, cioè secondo la gerarchia spirituale stabilita da Dio che vede Lui al primo posto, seguito da Gesù, dall’uomo e dalla donna. Non è escluso, stante le regole di allora, che Marta servisse a tavola sotto lo sguardo magari contrariato dei Dodici, ancora legati a modelli di comportamento e tradizioni ormai antiquate.

Marta dunque, se è figura del peccatore perdonato abilitato dalla Grazia a servire, quindi a operare, necessita di una breve riflessione tesa a distinguere tra fede e opere perché al riguardo, purtroppo nella Chiesa, esiste confusione avendo chi le antepone alla fede (oppure le ritiene indispensabili per ottenere la salvezza) ed altri che, all’opposto, non le ritengono necessarie, dimenticando che queste altro non sono se non la conseguenza naturale del credere, come dal versetto successivo: “Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo” (Efesi 2.10). E notare il verbo “camminare” che allude ad un percorso preciso, fatto di volontà e decisione, ma anche possibilità di arresto, sospensione, deviazione cadute. Solo chi non cammina non corre dei rischi, ma come sappiamo dalle parabole delle dieci mine e dei talenti, non è una scelta consigliabile.

Chi vuole camminare nelle buone opere non è necessario che intraprenda chissà quali imprese, ma è sufficiente che porti con sé Gesù Cristo in ogni posto in cui si reca, in ogni spazio mentale che si prende. Se questo non è possibile, sappiamo già di sbagliare. Questo, spiegato in modo forse banale, ma essenzialmente semplice, credo sia l’unica cosa che possiamo fare perché sarà Lui poi a guidare, tramite lo Spirito Santo, i passi della persona.

Concludendo allora questa prima parte, abbiamo potuto considerare le prime tre persone che si incontrano nel racconto offertoci da Marco e Giovanni. Ciascuna di queste ci rappresenta nelle fasi della nostra vita spirituale (o, se preferiamo, di quanto ci è stato dato e siamo): abbiamo infatti il perdóno dei peccati cui segue la riconoscenza e il desiderio di conoscere Gesù sempre più da vicino, quindi la cittadinanza nel cielo, la promessa di risurrezione a nuova vita e la possibilità di agire e servire Colui che per il nostro perdóno ha dato la vita. Amen.

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