15.33 – LA PARABOLA DELLE DIECI MINE I/III (Luca 19.11-57)

15.33 – La parabola delle dieci mine I/III: il paese lontano (Luca 19.11-27)

 

11Mentre essi stavano ad ascoltare queste cose, disse ancora una parabola, perché era vicino a Gerusalemme ed essi pensavano che il regno di Dio dovesse manifestarsi da un momento all’altro. 12Disse dunque: «Un uomo di nobile famiglia partì per un paese lontano, per ricevere il titolo di re e poi ritornare. 13Chiamati dieci dei suoi servi, consegnò loro dieci monete d’oro, dicendo: «Fatele fruttare fino al mio ritorno». 14Ma i suoi cittadini lo odiavano e mandarono dietro di lui una delegazione a dire: «Non vogliamo che costui venga a regnare su di noi». 15Dopo aver ricevuto il titolo di re, egli ritornò e fece chiamare quei servi a cui aveva consegnato il denaro, per sapere quanto ciascuno avesse guadagnato. 16Si presentò il primo e disse: «Signore, la tua moneta d’oro ne ha fruttate dieci». 17Gli disse: «Bene, servo buono! Poiché ti sei mostrato fedele nel poco, ricevi il potere sopra dieci città». 18Poi si presentò il secondo e disse: «Signore, la tua moneta d’oro ne ha fruttate cinque». 19Anche a questo disse: «Tu pure sarai a capo di cinque città». 20Venne poi anche un altro e disse: «Signore, ecco la tua moneta d’oro, che ho tenuto nascosta in un fazzoletto; 21avevo paura di te, che sei un uomo severo: prendi quello che non hai messo in deposito e mieti quello che non hai seminato». 22Gli rispose: «Dalle tue stesse parole ti giudico, servo malvagio! Sapevi che sono un uomo severo, che prendo quello che non ho messo in deposito e mieto quello che non ho seminato: 23perché allora non hai consegnato il mio denaro a una banca? Al mio ritorno l’avrei riscosso con gli interessi». 24Disse poi ai presenti: «Toglietegli la moneta d’oro e datela a colui che ne ha dieci». 25Gli risposero: «Signore, ne ha già dieci!». 26«Io vi dico: A chi ha, sarà dato; invece a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha. 27E quei miei nemici, che non volevano che io diventassi loro re, conduceteli qui e uccideteli davanti a me»».

 

Questa parabola, detta anche “dei dieci servi”, fu esposta con ogni probabilità al convito organizzato da Zaccheo in casa sua per salutare Gesù, preceduto dalla professione di fede che abbiamo esaminato. Viene istintivo accomunarla a quella, forse più celebre, dei talenti, ma ne differisce nei particolari: questa fu esposta poco prima di iniziare il viaggio da Gerico a Gerusalemme, l’altra sul Monte degli Ulivi; una fu esposta a tutti i presenti, quindi Apostoli, Discepoli e tutti gli ospiti di Zaccheo, l’altra ai soli Dodici. Da questo particolare rileviamo allora che ad ascoltare le parabole vi era anche Giuda, che nonostante tutto si assunse la responsabilità del tradimento. La parabola delle mine, poi, non parla solo di servitori come quella dei talenti, ma anche di cittadini che non vogliono riconoscere la sovranità di chi è partito e deve tornare. Poi qui ogni servo riceve la stessa somma, mentre nell’altra il numero cambia. In compenso, entrambe le parabole contengono il verdetto di condanna per il servo che nulla fa di quanto gli era stato ordinato.

Il testo che stiamo per esaminare, seppur brevemente, fu esposto “perché era vicino a Gerusalemme ed essi pensavano che il regno di Dio dovesse manifestarsi da un momento all’altro”: infatti, tra i Dodici, i discepoli e quelli che accompagnavano Gesù per varie ragioni, si era diffusa l’opinione che nell’imminente Pasqua si sarebbe verificato un non meglio precisato evento che avrebbe portato il Cristo ad instaurare a Gerusalemme il suo regno messianico. Ecco perché Salome, Giacomo e Giovanni si presentarono a Gesù per chiedergli di poter sedere l’uno alla sua destra e l’altro alla sua sinistra nel Suo regno, ed ecco il motivo per cui gli altri si sdegnarono non essendo riusciti a chiedere la stessa cosa prima di loro; può anche essere questo il motivo che fece dire a Cleofa e all’altro discepolo innominato, quando apparve loro in altra forma, “Noi speravamo che fosse lui quello che avrebbe liberato Israele” (Luca 24.21).

Possiamo dire che l’idea della restaurazione del regno rimase nella mente dei discepoli anche dopo la Sua risurrezione, quando in Atti 1.6-8, prima che il Consolatore si manifestasse, gli chiesero “Signore, è questo il tempo nel quale ricostruirai il regno per Israele? Ma egli rispose: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra»”.

Nella prima parte della nostra parabola Gesù, parlando di “un uomo di nobile famiglia” che parte “per un paese lontano per ricevere il titolo di re e poi tornare”, è certo di attirare l’attenzione dei presenti perché era noto che, da quando i Romani avevano unito al loro impero la Siria e la Palestina, tutti coloro che esercitavano un’autorità come re locali (vedi Erode il Grande, Archelao, i figli ed Erode Agrippa) dovevano andare a Roma per ricevere l’investitura.

Ecco allora la descrizione che Nostro Signore dà di sé: “un uomo di nobile famiglia”. Non “il Figlio di Dio” potente, colui che “prima che il mondo fosse, Io sono”, ma “un uomo” che non era come gli altri perché la “nobile famiglia” cui fa riferimento è quella di Abrahamo e di Davide dai quali discendeva.

“Per ricevere il titolo di re e poi ritornare” è lo scopo dell’assenza di quella persona dalle sue terre e dalla sua casa. Questo comporta un viaggio, un soggiorno nel Paese che lo avrebbe investito di quella carica, e un ritorno – attenzione – non fra i suoi famigliari, ma fra la sua gente, “i suoi concittadini” che “l’odiavano” che inviarono “una delegazione” a far presente che non volevano fosse lui a regnare su di loro.

È indubbiamente singolare la limpidità di questo racconto e i riferimenti che Gesù dà di sé stesso, poiché effettivamente, con la Sua ascensione, se ne andrà “per un paese lontano a ricevere il titolo di re” che prima non aveva nel senso che, pur essendo Dio e Uno con il Padre, non era ancora stato rivelato all’uomo, per lo meno non come nel tempo della Grazia. Gesù salì al Padre quaranta giorni dopo la Sua risurrezione e da allora è seduto alla Sua destra “finché io ponga i tuoi nemici – e già possiamo vedere i concittadini – a sgabello dei tuoi piedi” (Salmo 110.1) in attesa, come disse l’apostolo Pietro nel tempio, della Sua manifestazione: “Bisogna che il cielo lo accolga fino ai tempi della ricostituzione di tutte le cose, delle quali Dio ha parlato per bocca dei suoi santi profeti fin dall’antichità” (Atti 3.21).

Il protagonista della parabola parte “per un Paese lontano”, in quella dei talenti è scritto che “partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni” (Matteo25.14), da cui rileviamo l’enorme responsabilità di cui quelle persone furono rivestite. Qui, invece, abbiamo un “uomo nobile” che diventa re e poi, come anche nell’altro racconto, torna, soltanto che solo qui sappiamo dell’investitura quale Dio rivelato all’uomo una volta per sempre.

Quel “paese” era “lontano”, sia per i suoi uditori, ma anche per Lui perché dobbiamo ricordarci che “prese forma di servo”, rinunciò al proprio vivere nelle sfere celesti per scendere sulla terra e vivere trentatré anni circa come un qualunque essere umano. Il suo salire al cielo, figura dell’ingresso in una dimensione diversa e invisibile, ci parla non solo della vittoria sulla morte, ma della sua totale purezza nel senso che, se così non fosse stato, non avrebbe potuto risorgere. Nulla di impuro lo aveva intaccato, perché ogni cosa si era adempiuta e compiuta.

Il partire di Gesù per il “paese lontano” significa proprio questo, l’andare presentandosi al Padre come Colui che aveva con successo svolto quell’opera volontariamente scelta per salvare l’uomo che avrebbe creduto in Lui beneficiando della Sua Opera perfetta. In Efesi 1.20-23 leggiamo che la grandezza della Sua potenza verso di noi “la manifestò in Cristo, quando lo risuscitò dai morti e lo fece sedere alla sua destra nei cieli, al di sopra di ogni Principato e Potenza, al di sopra di ogni Forza e Dominazione e di ogni nome che viene nominato non solo nel tempo presente, ma anche in quello futuro”. Il Dio Figlio ricevette la posizione che Paolo ci ha ricordato proprio per il suo vissuto umano trionfante sul peccato, sul dubbio, sull’esitare, sull’inaffidabilità umana che non ebbe, solidarizzando con la creatura caduta senza cadere.

Non può esservi altro nome più grande al di fuori di quello di Gesù, e naturalmente del Padre che lo ha inviato. Se penso alle alternative che il mondo propone, mi viene male perché ognuna di esse, escogitata per non ascoltarlo, non accoglierlo e agire di conseguenza di fronte a Lui sarà dissolta. E dolorosamente.

In Filippesi 2.5-11 leggiamo che Gesù, “dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò un nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!» a gloria di Dio Padre”. Notiamo che è scritto “Signore” senza l’articolo davanti, perché anche un determinativo ne ridurrebbe la portata. Signore di tutto, senza possibilità di non essere accolti per alcuni e nemmeno di evitare una condanna per altri, come nel finale della parabola che qui limito ai concittadini contrari: “A quei nemici che non volevano che io diventassi loro re, conduceteli qui e uccideteli davanti a me”. In pratica, finisce il tempo del servo e inizia quello del regnante che dà il compenso per quanto si avrà operato, in bene o in male.

C’è un particolare in quest’ultimo verso, “ogni ginocchio si pieghi” che dà al tempo stesso l’idea della spontaneità e della costrizione: di fronte a Lui ci sarà chi si inginocchierà per rispetto spontaneo, desideroso di onorarlo finalmente alla Sua presenza, e chi non ne potrà fare a meno nonostante il suo averlo costantemente respinto, disprezzato, rinnegato. Sarà un piegare le ginocchia per sconfitta.

Altro passo su quanto avviene dal e nel “paese lontano” e la realtà delle cose l’abbiamo in Colossesi 1.17-20: “Egli è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono. Egli è anche il capo del corpo, della Chiesa. Egli è il principio, primogenito di quelli che risorgono dai morti, perché sia lui ad avere il primato su tutte le cose. È piaciuto infatti a Dio che abiti in lui tutta la pienezza e che per mezzo di lui e in vista di lui siano riconciliate tutte le cose, avendo pacificato con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli”.

Non sono parole messe a caso, non è una dossologia da recitare con enfasi rendendola inconcludente, ma la verità espressa sull’invisibile: “per mezzo di lui e in vista di lui” è un concetto che parte dalla creazione del mondo che conosciamo e termina con quella Nuova. Abbiamo poi letto che il sangue sparso alla croce ha “pacificato sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli”, vale a dire che il disequilibrio causato dalla disubbidienza dei nostri progenitori è stato eliminato, pur restando come conseguenza la morte, che verrà eliminata assieme a tutto ciò che è negativo con la nuova creazione.

L’ultimo verso, poi, quello sulla pacificazione, non sta ad indicare altro se non il riunire sotto la figura di Gesù glorificato ogni cosa, cioè “ricondurre al Cristo, unico capo, tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra”. Amen.

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15.32 – ZACCHEO (Luca 19.1-10)

15.32 – Zaccheo (Luca 19.1-10)

 

1 Entrò nella città di Gerico e la stava attraversando, 2quand’ecco un uomo, di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, 3cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura. 4Allora corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomòro, perché doveva passare di là. 5Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». 6Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia. 7Vedendo ciò, tutti mormoravano: «È entrato in casa di un peccatore!». 8Ma Zaccheo, alzatosi, disse al Signore: «Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto». 9Gesù gli rispose: «Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch’egli è figlio di Abramo. 10Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto».

 

Come avvenuto prima di affrontare il personaggio Bartimeo, anche l’introduzione di Luca “Entrò nella città di Gerico e la stava attraversando” merita un breve approfondimento che dovrà tener conto della geografia della zona e dei due (o tre secondo altri) ciechi lì guariti. Riflettendo sui racconti dei sinottici, abbiamo: “Mentre si avvicinava a Gerico, un cieco era seduto lungo la strada a mendicare” (Luca 18.35), “Mentre partiva da Gerico” (Marco 10.16) e “Mentre uscivano da Gerico, (…) due ciechi, seduti lungo la strada a mendicare…” (Matteo 20.29). Sapendo che esisteva una città vecchia e una nuova, ritengo più che plausibile che Matteo abbia riassunto in uno solo due incontri diversi che avvennero rispettivamente all’uscita dalla città vecchia e prima di quella nuova, che Marco abbia riferito del solo Bartimeo, che si era sistemato tra le due, e che Luca faccia un riferimento analogo. In più, sempre Luca in 18.43, abbiamo un dettaglio interessante e cioè che Bartimeo “Subito ci vide di nuovo e cominciò a seguirlo glorificando Dio. E tutto il popolo – della Gerico nuova –, vedendo, diede lode a Dio”.

Ecco allora che, quando leggiamo nel nostro testo al verso 1 “Entrò nella città di Gerico e la stava attraversando”, il miracolo della guarigione di Bartimeo era già avvenuto ed è facile immaginarsi la scena: la folla era entusiasta e acclamava Gesù; tutti, anche quelli che erano ignari del miracolo, non potevano fare altro che notare quella gente esultante con Bartimeo che vedeva perfettamente; la notizia si spargeva sempre di più ed era un accorrere generale verso il corteo dei discepoli che via via s’ingrandiva.

A questo punto inizia ad emergere la figura di Zaccheo, che significa “puro” o “innocente”. Era il “capo dei pubblicani ed era ricco” stante la città che amministrava per conto del Governo di Roma: ricordiamo che da lì si esportava il balsamo demdrom miræ e che, per il passaggio delle carovane, il traffico delle merci e delle persone era molto rilevante, quindi anche le riscossioni dei tributi. Zaccheo, per poter avere in appalto la gestione delle tasse, doveva essere già ricco di suo perché il Governo di Roma, per poter concederne l’appalto, richiedeva a chi ne faceva richiesta una forte cauzione.

Naturalmente malvisto più dei semplici pubblicani, quell’uomo era basso di statura e, in mezzo a tutta la confusione che si era venuta a creare e la gente più alta di lui, proprio non gli riusciva di vedere Gesù né tantomeno di farsi notare da lui, qualora fosse quello il suo intento.

E qui sorge spontaneo confrontare Bartimeo e Zaccheo: il primo pregava Iddio perché potesse passare per Gerico e guarirlo, il secondo invece suppongo avesse semplicemente sentito parlare di Gesù e volesse rendersi conto di persona chi fosse, quali fattezze avesse. Come tutti i suoi concittadini sapeva dei miracoli, della Sua predicazione e probabilmente gli era noto che, a differenza degli altri israeliti, non disprezzava i pubblicani, anzi a volte aveva loro insegnato e chissà se Zaccheo sapeva che, fra i discepoli, c’era qualcuno che faceva (o aveva fatto) il suo stesso mestiere, Matteo primo fra tutti.

La volontà di Zaccheo di vedere Gesù non era superficiale perché, se così fosse stato, non avrebbe certo escogitato un sistema per vederlo, anticipandone il percorso e arrampicandosi su uno dei tanti sicomori, piante simili ai gelso, che crescevano spontaneamente lungo la strada. Chissà perché, mi sono sempre immaginato la scena raccontata da Luca come avvenuta in una piazza, ma credo che Zaccheo abbia corso e trovato il punto più favorevole per vedere Gesù all’uscita della città; proprio fuori dalla Gerico nuova infatti, prendendo la strada per Gerusalemme come riferimento, Erode il Grande aveva fatto costruire diverse case e, dalla dinamica degli avvenimenti, può essere benissimo che Zaccheo abitasse in una di quelle.

Per quest’uomo era arrivato dunque il momento di rendersi conto personalmente di chi fosse Gesù: voleva “vederlo” nel senso di capire che persona fosse, cogliere quei particolari che solo quelle persone che hanno esperienza dell’uomo possono. In Zaccheo quindi esisteva il germe del dubbio nel senso che, prima di credere, voleva verificare con mano, scrutare l’esteriorità di Gesù per valutarlo come uomo, cosa alla quale era abituato nel scegliere i propri collaboratori ed esaminare la sincerità dei propri interlocutori che, oltre a disprezzarlo, cercavano sempre il modo migliore per pagare meno tributi possibili.

Arrampicandosi sul sicomoro, cosa non difficile per la conformazione di quest’albero, Zaccheo mostra un desiderio di capire così forte da renderlo incurante dell’eventuale, ridicola “figura” alla quale si sarebbe sottoposto qualora fosse stato visto dai suoi concittadini. La volgarità delle persone, infatti, si manifesta sempre attraverso la presa in giro, lo scherzo o il dileggio, come ricorda Salomone in Proverbi 26.18,19: “Come un pazzo che scaglia tizzoni e frecce di morte, così è colui che inganna il suo prossimo e poi dice: «Ma sì, è stato uno scherzo!»”.

Zaccheo quindi si arrampica: nulla ha da chiedere o da dire a Nostro Signore, ma vuole solo rendersi conto del personaggio, ma non sa che, così come Natanaele era stato visto “sotto il fico”, lui sarebbe stato visto “sopra il sicomoro”. Si può dire che, se il capo dei pubblicani aspettava di vedere Gesù, Lui aspettava di incontrarlo e di fermarsi a casa sua, e questo ci parla di quanto siamo sempre profondamente ignoranti: viviamo, pensiamo, progettiamo e poi, alla fine, le uniche cose che restano sono quelle che sempre Lui permette e prepara per noi. Zaccheo aveva tutto un programma, cioè rendersi conto personalmente chi fosse Gesù e poi incontra Uno che lo onora della Sua presenza e si lascia conoscere.

Leggiamo in una traduzione più corretta della nostra che “Come fu giunto in quel luogo, Gesù alzò gli occhi, e lo vide, e gli disse: Zaccheo, scendi giù in fretta, perché oggi devo albergare in casa tua”. Questo verso ci insegna molte cose, prima fra tutte il fatto che, quando è Dio a cercarci in salvezza o in giudizio, non possiamo nasconderci. E Zaccheo sono convinto che si fosse ben mimetizzato tra le fronde spesse di quel sicomoro. Seconda, Gesù “alzò gli occhi” proprio in quel punto, mentre di solito un albero lo si guarda da lontano per poi passargli vicino senza badargli: “alzò gli occhi e lo vide”, quindi sapeva di essere atteso da quell’uomo, anche se non per chiedergli un miracolo. Terzo, conosce il suo nome e non avrebbe potuto essere altrimenti. C’è chi ha detto che nessuno va in cerca di Cristo senza poi sapere che anche Cristo era in cerca di lui, ed è vero, credo che sia una realtà che ciascun credente ha provato.

Ecco allora che il vedersi scoperto quando credeva di essere ben nascosto e il sentire il suo nome pronunciato da chi non l’aveva mai visto, trafissero la mente e la coscienza di Zaccheo e lo convinsero subito che Colui che gli parlava non era un uomo come gli altri e che quindi non c’era alcuna ragione di valutarlo come faceva da tempo con i suoi simili.

La nostra traduzione dice “scendi giù perché devo fermarmi a casa tua”, ma non rende l’idea perché Gesù dice in greco mèinai, cioè “albergare”, quindi “fermarmi” non solo per un pasto, ma per la notte. Poi sottolineiamo che non viene detto “voglio”, ma “devo”, verbo che ci parla di un progetto, di qualcosa del tipo “se non mi fermo da te, sono passato di qui invano”, nonostante il miracolo di Bartimeo e dell’altro cieco, o ciechi. “Devo” perché l’itinerario preparato dal Padre prevedeva il ricupero di due persone, lui e Bartimeo per intervento diretto, senza contare le altre che credettero e “glorificarono Dio”.

Tralascio il commento del pubblico presente, “È entrato in casa di un peccatore!”, per concentrarmi sulla reazione di Zaccheo, che scende subito dall’albero sicuramente trasformato nel suo intimo per tutte le ragioni che abbiamo esposto. “Scese in fretta e accolse Gesù pieno di gioia”, sentimento che è incompatibile con la diffidenza e anzi è indice di completa disponibilità, chiaramente nella sua casa. Nulla sappiamo dei dialoghi che intercorsero fra i due, ma è agevole pensare che ci furono un pomeriggio, una sera e una notte di dialoghi, con qualche ora forse dedicata al riposo.

A questo punto sorge spontanea una domanda, e cioè quando si realizzò il verso 8, “Ma Zaccheo, alzatosi, disse al Signore…”: da una lettura sommaria, sembrerebbe che ciò si sia verificato quasi subito, una volta che Gesù e i Dodici si fossero accomodati, ma è molto più probabile che quelle parole furono pronunciate il giorno seguente, quando Gesù concluderà con “Oggi per questa casa è avvenuta la salvezza”; in pratica, se la frase di Zaccheo sul dare ai poveri e il restituire il quadruplo fosse stata presentata prima, come una credenziale, quell’uomo si sarebbe già sentito a posto con la propria coscienza e davanti a Dio, almeno secondo la Legge. In altri termini le sue parole sarebbero state identiche a quelle del fariseo al Tempio che, a differenza del pubblicano, sciorinava davanti a Dio i suoi meriti.

Se però quelle parole fossero state il frutto di una conversione, ecco che assumerebbero una valenza completamente diversa e inquadrerebbero quelle di Gesù in un contesto più appropriato. Non dimentichiamo che quel capo dei pubblicani, all’inizio del racconto, viene presentato solo come “ricco” e non come un buon uomo, un onesto o un benefattore: era una persona come tante, non insensibile né ai racconti che gli venivano presentati su Gesù e – credo – a fronte della guarigione di Bartimeo, ma niente di più; soltanto dopo un numero di ore che non possiamo quantificare a colloquio con Gesù, “Si alzò” – altri traducono “Si presentò al Signore” – e gli disse quanto riportato al verso 8, cioè dopo avere meditato e probabilmente aver capito che il vero guadagno consisteva nel credere e nella conversione: “do la metà di tutti i miei beni ai poveri”.

Quei beni che già possedeva, ma che si erano accresciuti col proprio lavoro, quindi beni cercati e conseguiti con impegno, ora hanno assunto un significato molto più relativo. Soprattutto, qualora avesse “rubato a qualcuno”, gli avrebbe restituito “quattro volte tanto”, parole molto importanti per capire il personaggio e la trasformazione operata in lui dalla Grazia perché il restituire il quadruplo era cosa che avveniva qualora l’autore di un furto fosse stato scoperto, ma, nel caso in cui vi fosse stata una riconsegna spontanea, sarebbe stata sufficiente la consegna della sola somma sottratta.

Zaccheo, prima della conversione, non era un uomo cattivo, ma semplicemente una persona che curava i propri interessi per star bene con la propria famiglia , rubando agli altri sulle percentuali dovute quel poco che bastava per non essere scoperto, un comportamento certo non deprecabile per il mondo che tante cose giustifica.

I dialoghi avuti con Gesù, invece, portano a uno stravolgimento completo perché al credere in Lui corrisponde immediatamente l’individuazione severa delle proprie mancanze e il desiderio di porvi rimedio. In pratica, si realizza Romani 10.10, “Con il cuore si crede per ottenere la giustizia, e con la bocca si fa professione di fede per ottenere la salvezza”.

Prima ancora, però, Zaccheo dovette scendere dal sicomoro, qui figura di una posizione conquistata con fatica, la stessa, idealmente parlando, che aveva portato quell’uomo ad aumentare la propria ricchezza. Scendendo da quell’albero, quel pubblicano dimostrò di essere disponibile a ripensare tutta la sua vita. Idealmente parlando, salì con tutte le proprie convinzioni, ma ne scese consapevole che ne avrebbe assunte delle altre, anche se non sapeva quali. Lo stesso avviene a qualunque essere umano alla ricerca di Dio, lo stesso avviene quando lo si trova. Amen.

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15.31 – Bartimeo II/II: salvezza e guarigione (Marco 10.46-52)

15.31 – Bartimeo II: salvezza e guarigione (Marco 10.46-52)

 

46E giunsero a Gerico. Mentre partiva da Gerico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timeo, Bartimeo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. 47Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!». 48Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». 49Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». 50Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. 51Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». 52E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada.

 

Dati nello scorso capitolo alcuni cenni di base su Gerico e chi fosse Bartimeo, ho ritenuto giusto chiedermi il motivo per cui, fra i tanti malati che furono guariti, anche “importanti” come ad esempio l’indemoniato di Gadara, proprio lui è riportato per nome da Marco. A volte si può supporre che un nome dal significato particolare possa avere spinto un autore alla sua citazione (pensiamo a Zaccaria, “Dio si è ricordato”, Zaccheo, “Puro, innocente”, Nicodemo, “Vincitore del popolo” e molti altri), ma “Bartimeo” non ha nulla di particolare, anzi in un certo senso sminuisce la persona perché il riferimento è al padre, “Figlio di Timeo” (Timeo=Onorato).

La dinamica dell’episodio, poi, apparentemente la si tende a vedere come qualcosa di già visto: abbiamo una richiesta insistente e gridata come ad esempio quella dei due ciechi che, quando Gesù uscì dall’abitazione di Giàiro, iniziarono a seguirlo e a gridare “Figlio di Davide, abbi pietà di noi!” (Marco 9.27-32).

Non credo sia allora difficile pensare che Bartimeo, vivendo in una città di transito, dove le notizie circolavano e quindi si parlava Gesù, dei suoi miracoli e di chi diceva di essere, abbia non sperato, ma pregato perché il “Figlio di Davide” potesse un giorno passare da Gerico. Se si spera si vive nell’attesa che un fatto improbabile si verifichi, se si prega si entra a far parte integrante del piano di Dio e quindi Bartimeo, nelle sue orazioni, chiese a Lui non tanto che potesse passare quel guaritore famoso, ma il Messia promesso cui riconosceva la facoltà di guarirlo da un’infermità che lo penalizzava e lo umiliava a tutto campo: in quanto non vedente non poteva accedere al Tempio, né offrire sacrifici, né avere qualche beneficio spirituale in quanto i rabbini consideravano la cecità al pari della lebbra; quelle condizioni erano ritenute un avvenimento conseguente all’infrazione del patto stabilito con Israele: “il Signore ti colpirà di delirio, di cecità e di pazzia, così che andrai brancolando in pieno giorno come il cieco brancola nel buio” (Deuteronomio 28.28).

Una vista sana fino alla tarda età, cosa improbabile a quel tempo, era una benedizione che Dio concedeva a chi gli era gradito, come ad esempio fu per Mosè, che “aveva 120 anni quando morì; gli occhi suoi non si erano spenti e il vigore non gli era venuto meno “ (Deuteronomio 34.7).

 

Gesù, “Luce del mondo”, definisce la funzione della vista con queste parole: “La lampada del tuo corpo è l’occhio: se il tuo occhio è puro, tutto il tuo corpo è illuminato; se il tuo corpo è impuro, tutto il tuo corpo è nelle tenebre” e un amico, commentando questo verso, aggiunse “Ciò nonostante, noi vediamo”.

Ebbene Bartimeo, saputo che chi passava per Gerico era “Gesù Nazareno”, quindi proprio e solo Lui, subito “cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!»”. Mi sono chiesto le modalità interne di quel gridare e non ho trovato altra spiegazione nel fatto che, a parte il voler farsi sentire come è logico, in quel grido c’era racchiusa tutta l’urgenza del suo caso nel senso che Gesù, lì arrivato, doveva assolutamente essere informato del fatto che in quel luogo, lungo la via, ignorata, stava un’anima fortemente desiderosa di un Suo intervento. Il grido di Bartimeo, necessario perché doveva sovrastare il brusio della folla e i rumori della strada, è paragonabile a quello di chi sta per annegare e vede delle persone che potrebbero salvarlo, a chi chiama perché ha un bisogno urgente di soccorso, è la naturale reazione al fatto che erano state esaudite le sue preghiere di poter incontrare il Figlio di Dio.

Bartimeo quindi grida ignorando coloro che “lo rimproveravano perché tacesse”, anzi lo fa più forte, attribuendo a Gesù un titolo, “Figlio di Davide”, che apparteneva solo al “Servo del Signore” la cui opera era stata profetizzata da Isaia con parole sulle quali quel cieco pose la sua fede, “Si apriranno gli occhi ai ciechi e si schiuderanno le orecchie dei sordi; allora lo zoppo salterà come un cervo,  griderà di gioia la lingua del muto” (35.5).

E allora arriviamo agli altri tre motivi per cui questa persona è ricordata col proprio nome:

 

Primo: Bartimeo non avanza nessuna pretesa o merito (come faceva il fariseo nei confronti del pubblicano) perché non ne aveva da offrire come garanzia di esaudimento. Non rimprovera Dio per la sua cecità, come molti fanno imputando a Lui tutti i mali di questo mondo senza tenere conto del bene che ricevono e del tempo di grazia prolungato a loro favore. È scritto che “Dio fa piovere sui giusti e sugli ingiusti” perché questi ultimi si ravvedano dalle loro opere, si convertano e siano salvati. Consapevole che il proprio bagaglio storico ereditato da Adamo ed Eva lo penalizzò con la cecità, Bartimeo si rimette alla pietà di Gesù che, come “il Dio che si è fatto carne”, era lì a pochi passi da lui.

Secondo: Bartimeo riconosce in Gesù la dichiarazione profetica di Isaia “Il Figlio ci è dato, il Figlio ci è stato dato, l’imperio è stato posto sulle sue spalle, ed è chiamato Consigliere ammirabile, Dio potente, Padre per sempre, principe della pace” (9.5) a differenza dei suoi compaesani che lo giudicavano come figlio di Giuseppe e di Maria da Nazareth (in altre parole, soltanto un uomo come noi).

Terzo, Bartimeo riconosce in Gesù la potenza di ridargli la vista: la sua preghiera, la sua grande fede non aveva ripensamenti, dubbi come spesso avviene per molti che si identificano nel tipo di terreno visto nella parabola del seminatore, “Quello seminato fra le spighe è colui che ascolta la parola, ma la preoccupazione del mondo e l’inganno della ricchezza soffocano la parola ed essa non dà frutto”. La preghiera di quest’uomo era di tale intensità che concretava la dichiarazione del profeta Geremia: “Voi mi invocherete e ricorrerete a me ed io vi esaudirò; mi cercherete con tutto il cuore, mi lascerò trovare da voi, dice il Signore, cambierò in meglio la vostra sorte” (29.12).

 

Ebbene, molti dei presenti, convinti che Bartimeo volesse chiedere a Gesù l’elemosina, lo sgridavano per farlo tacere poiché Lo importunava: se un tempo potevamo applicare questo comportamento a coloro che ostacolavano il percorso spirituale di quelli che gridavano a Gesù perché li liberasse dal loro stato di peccato, oggi così è per tutti coloro che propongono all’uomo alternative utili a reprimere sul nascere questo tendere a Dio. Non si tratta di abolire il crocifisso nei luoghi pubblici, ma di eradicare l’istinto naturale che porta l’uomo a porsi alla ricerca della Verità, pregarLo perché si possa rivelare a chi lo vorrebbe trovare. L’apostolo Pietro scrive, per entrambi i casi, “…per questo trovano strano che voi non corriate insieme con loro verso questo torrente di perdizione e vi oltraggiano. Ma renderanno conto a colui che è pronto a giudicare i vivi e i morti” (1a, 4.4).

Come fece la vedova protagonista della parabola del giudice iniquo, Bartimeo non si scoraggia davanti a quegli ostacoli umani e proprio questa sua importunità nel disturbare il Maestro, a dispetto di quanti lo sgridavano, fu giudicata da Lui positiva, e infatti obbligò quelle persone a chiamarlo. Nostro Signore non rifiuta la grazia a coloro che gliela chiedono con fede e certo che se non avesse visto quella sincera di Bartimeo, proprio perché Egli sa leggere nel cuore dell’uomo, gli avrebbe magari dato solo l’elemosina, se era questo che cercava.

Anche la reazione di quest’uomo è importante perché giunge addirittura a gettare via il proprio mantello, l’unico suo avere che lo riparava dal freddo, dal caldo (se teso per fare ombra) e dalla pioggia: questo gesto è il primo atto di fede nel fatto che avrebbe ricevuto la vista poiché egli sapeva che, una volta chiamato da Gesù, quel mantello, certo logoro, non gli sarebbe più servito perché, per come lo utilizzava, non lo avrebbe più qualificato come mendicante. Il mantello che penalizzava Bartimeo era, figurativamente, quello ereditato da Adamo ed Eva.

E siccome nella Scrittura non vi è nulla che non vada oltre al fatto in sé, ecco che l’applicazione spirituale a proposito del mantello gettato via è rilevabile nei seguenti brani di scrittura: “Anche noi, circondati da un così gran numero di testimoni, deposto tutto ciò che è di peso, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede” (Ebrei 12), dove “deposto tutto ciò che è di peso” ha connessione con l’invito di Gesù a tutti coloro che sono affaticati e oppressi secondo le sue parole “Venite a me, voi tutti che siete travagliati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra voi e imparate da me che sono mite e umile di cuore, e troverete riposo per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero” (Matteo 11.29).

Un secondo riferimento lo abbiamo nella prima lettera di Pietro 2.1: “Deposta dunque ogni malizia e ogni frode e ipocrisia, le gelosie e ogni maldicenza, come bambini appena nati bramate il puro latte spirituale per crescere con esso verso la salvezza, se davvero avete già gustato com’è buono il Signore”.

La domanda “che cosa vuoi che io faccia per te?” indica la disponibilità di Gesù a intervenire in modo risolutivo lui: vero è che il grido “Figlio di Davide, abbi pietà di me!” era già stato dato, ma era necessario che Bartimeo specificasse cosa volesse perché, per quanto potevano saperne Lui e gli altri, poteva essere stato lanciato per ottenere l’elemosina.

Certo che la risposta di Bartimeo, “Rabbonì – mio maestro –, che io riabbia la vista!”, fece provare vergogna ai presenti che lo volevano zittire e lo vedevano solo come un mendicante  importuno; per coloro che hanno vissuto tanto tempo nelle tenebre, avere la possibilità di vedere la luce ha un prezzo impagabile e per Bartimeo la speranza, da tempo tenuta nascosta in lui, di vedere la luce si era concretata con la visita di Gesù a Gerico e fu proprio Lui la prima persona che Bartimeo vide. Meraviglioso. Lo vide venire dal suo buio. Non riesco a pensare cosa possa aver provato non tanto nell’essere guarito, ma nel vedere il volto del suo Salvatore. Ogni dolore, umiliazione e pena evaporarono vedendo quello sguardo. Purtroppo, si tratta di un’esperienza che fisicamente non possiamo fare, ma spiritualmente sì.

Matteo riferisce che dopo la richiesta di Bartimeo, Gesù, mosso a quella pietà che con tanta forza era stata invocata, gli toccò gli occhi accompagnando il suo gesto con le parole “Va’, la tua fede ti ha salvato” unendo e guarendo così  l’infermità del corpo e quella dell’anima che, come afferma l’apostolo Paolo, sono due elementi indivisibili: “Il Dio della pace vi santifichi fino alla perfezione e tutto quello che è vostro, spirito, anima e corpo, si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo” (1 Tessalonicesi 5.23). Con il suo sacrificio, infatti, Gesù non salva solo l’anima, ma anche lo spirito e il corpo dell’uomo.

L’immediata guarigione di Bartimeo nella sua triplice componente di corpo, anima e spirito, viene poi dimostrata dal fatto che subito si mise a seguire il Maestro. Altri come lui non l’avevano fatto. Alcuni se ne andarono “glorificando Iddio”, altri, nove lebbrosi su dieci, non tornarono nemmeno a ringraziare, altri ancora avrebbero voluto seguire Gesù, ma fu loro ordinato di rimanere nel luogo in cui erano stati guariti perché dessero testimonianza nei loro territori. Bartimeo, invece, fece una scelta immediata e precisa divenendo un discepolo ed è anche questo uno dei motivi per cui gli evangelisti ne scrissero il nome. Lo stesso che, come per noi, era ed è scritto nel libro della vita, assieme al nuovo. Amen.

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15.30 – BARTIMEO I: Gerico (Marco 10.46)

15.30 – Bartimeo I: Gerico (Marco 10.46)

 

46E giunsero a Gerico. Mentre partiva da Gerico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timeo, Bartimeo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. 

 

Della guarigione del cieco Bartimeo parlano tutti e tre i Sinottici, pur se con qualche differenza che vedremo, trovandosi l’episodio anche nei racconti di Matteo 20.29-34 e Luca 18.35-48. Per quanto riguarda il Vangelo di Marco, quello della guarigione di Bartimeo è l’ultimo miracolo registrato di diciassette (10+7) e ha una valenza particolare perché lì, a Gerico, viveva anche quel Zaccheo, capo dei pubblicani, di cui parla solo Luca al capitolo 19. Va ricordato che il fatto che Gesù passasse per quella località non era dovuto al caso, ma come per tutti gli altri rientrava in quell’itinerario che il Padre gli aveva preparato per compiere il Suo progetto salvifico a favore del popolo di Israele e, per quanto esamineremo, di due non vedenti (Bartimeo e l’altro con lui rimasto innominato da Marco), e di Zaccheo stesso.

 

Prima di trattare l’episodio, è necessario fare una premessa, che occuperà tutto questo capitolo, ponendo le basi per le riflessioni spirituali perché Gerico è un argomento complesso e delicato. Definita “la città delle palme” (Deuteronomio 34.3), era un antico centro del territorio di Canaan dato da Dio in possesso agli israeliti come “terra promessa” che già esisteva a quando essi attraversarono il Giordano. Assieme a Damasco è la più antica città del mondo, ma è la sola ad avere la altitudine più bassa, ben 240 metri sotto il livello del mare. I Cananei, che occupavano il territorio, erano i discendenti di Canaan, figlio di Cam e quindi nipote di Noè sul quale pesava la maledizione pronunciata a seguito dell’oltraggio (di Cam) sul padre Noè: “Sia maledetto Canaan! Schiavo degli schiavi sarà per i suoi fratelli” (Genesi 9.25). Il paese di Canaan era stato promesso ad Abrahamo in Genesi 12.7 e, al momento opportuno, quando l’ingresso di Israele nella terra promessa era imminente, così Dio disse a Mosè: “Parla ai figli d’Israele e di’ loro: Quando avrete passato il giordano e sarete entrati nel paese di Canaan, scaccerete davanti a voi tutti gli abitanti del paese, distruggerete tutte le loro immagini – idolatre –, distruggerete tutte le loro statue di metallo fuso e demolirete tutti i loro luoghi sacri” (numeri 33.51,52).

Sappiamo che, alla morte di Mosè, Giosuè prese il suo posto, passò il Giordano e conquistò Gerico (Giosuè capp. 1-6), che fu distrutta e alla fine venne pronunciata una maledizione su chiunque l’avesse ricostruita (6.26), cosa che si concretò ai tempi del re Acab, 500 anni dopo circa. Di questo re è detto che “fece ciò che è male agli occhi del Signore, più di tutti quelli prima di lui” (1 Re 16.30) e tale Chièl di Betel (v.34), che la ricostruì materialmente, vide realizzarsi quanto pronunciato da Giosuè stesso: “Maledetto davanti al Signore l’uomo che si metterà a ricostruire questa città di Gerico! Sul suo primogenito ne getterà le fondamenta e sul figlio minore ne erigerà le porte!”, cioè la ricostruzione della città sarebbe stata pagata con la morte dei figli di chi avesse agito in oltraggio a quel giuramento.

Proprio alle vicende di Gerico sono legati due episodi importanti per la connessione spirituale all’opera del Cristo, cioè la vicenda di Rahab e quella della purificazione delle acque fatte dal profeta Eliseo col sale: Rahab, prostituta, sappiamo che nascose a rischio della propria vita gli esploratori d’Israele, sicura che quel popolo avrebbe conquistato la città giungendo a dir loro profeticamente “So che il Signore vi ha consegnato la terra” (Giosuè 2.9). Convinta di ciò chiese agli esploratori d’Israele, in cambio dell’assistenza che stava loro dando, la salvezza della propria famiglia. Il segno dell’patto stipulato con queste persone consisteva in una cordicella di colore scarlatto appesa ad una finestra, segno esteriore dell’alleanza ricevuta per fede la cui applicazione spirituale trova un chiaro riferimento col sangue di Gesù sparso sulla croce per la salvezza eterna del peccatore.

Il secondo episodio, quello in cui operò il profeta Eliseo, è narrato in 2 Re 2.19-22: “Gli uomini della città dissero a Eliseo: «Ecco, è bello soggiornare in questa città, come il mio signore può constatare, ma le acque sono cattive e la terra provoca aborti». Ed egli disse: «Prendetemi una scodella nuova e mettetevi del sale». Gliela portarono. Eliseo si recò alla sorgente delle acque e vi versò il sale, dicendo: «Così dice il Signore. Rendo sane queste acque; da esse non verranno più né morte, né aborti». Le acque rimasero sane fino ad oggi, secondo la parola pronunciata da Eliseo”.

Qui abbiamo un profondo riferimento alle parole di Gesù dette ai suoi discepoli “Voi siete il sale della terra; ma se il sale perdesse il suo sapore, con che cosa lo si potrà rendere salato? Non serve nient’altro che ad essere gettato via e calpestato dagli uomini” (Matteo 5.13), parole queste ultime che non dichiarano la perdita della salvezza, ma la testimonianza fallita.

Ai tempi di Nostro Signore Gerico era stata resa molto bella prima da Erode il Grande, che ne aveva fatto costruire la sua residenza estiva e vi morì, e in misura minore dal figlio Archelao. Era dotata di un anfiteatro, di un ippodromo oltre alla reggia, totalmente ricostruita sempre da Archelao. Fu però una Gerico diversa anche come posizione nel senso che fu costruita a un paio di chilometri a Sud rispetto a quella antica, fatto di cui dovremo necessariamente tenere conto per inquadrare i personaggi del nostro episodio in maniera corretta. Sempre ai tempi di Gesù, Gerico era meta di pio ritiro per scribi e farisei per il refrigerio che offrivano le palme e le acque del Giordano ed era diventata importante per il traffico carovaniero da e per Gerusalemme; lì si coltivava la pianta dalla quale si estraeva quel balsamo (il demdron mirae) che le donne d’Israele conservavano per il loro matrimonio, ma che Maria, sorella di Lazzaro, e la peccatrice innominata versarono sul capo e sui piedi di Gesù riconoscendoLo come il loro sposo spirituale, Salvatore e Signore della loro vita. Il nome “Gerico”, ha “profumo” come sua radice.

 

A questo punto però sorge una questione importante, da affrontare per quanto brevemente perché, se alcun dubbio è mai sorto sulla genuinità del racconto dei sinottici sulla vicenda di Bartimeo e dell’altro cieco, diverso è per le vicende narrate nel libro di Giosuè, alla cui redazione, secondo la critica biblica, intervennero più autori, uno detto “il compilatore”, e altri due, detti “i redattori”, che intervennero modificando il testo o aggiungendo sezioni. Va poi detto che le ricerche archeologiche più recenti non avrebbero trovato alcuna traccia di una città cananea a Gerico posteriore a quella distrutta dagli Egiziani verso il 1550, circa tre secoli prima dell’arrivo di Giosuè. Da qui la teoria secondo la quale il racconto della conquista di Gerico e della vicenda di Rahab abbiano valore eziologico, cioè siano stati costruiti per spiegare un fatto ed esaltare una sorta di “guerra santa”. C’è chi ha proposto che il libro di Giosuè sia da considerare come un’antologia di racconti famigliari inventati per rendere interessanti e memorizzare i nomi delle varie località.

La vicenda delle mura di Gerico, archeologicamente parlando, è molto più complessa perché tracce della sua distruzione sono state trovate, ma non coincidenti con il periodo storico in cui essa avrebbe dovuto avvenire. Il fatto però è che non c’è unanimità fra gli archeologi essendoci chi colloca il crollo nel 2000 a.C., chi molto tempo dopo, come Bryant Wood, dell’università di Toronto, che dichiarò le ricerche erano state fatte nel posto sbagliato, menzionando uno strato di cenere spesso un metro in cui abbondavano frammenti di vasellame e mattoni provenienti dal crollo di mura, oltre a travi annerite da un incendio che distrusse tutta la città. I frammenti di ceramica rinvenuti consentirono di datare l’evento al 1410, con uno scarto di 40 anni sulla data in cui Giosuè avrebbe dovuto distruggere la città.

Personalmente credo che la Scrittura debba comunque detenere il primo posto (altrimenti non sarebbe fonte di verità) e più di tutto valga a chiudere il discorso il fatto che, se Rahab non fosse esistita, non sarebbe mai stata nominata in due passi del Nuovo Testamento, uno in Ebrei 11.31 (“Per fede Rahab, la prostituta, non perì con gli increduli, perché aveva accolto con benevolenza gli esploratori”) e l’altro in Giacomo 2.25, “Così anche Rahab, la prostituta, non fu forse giustificata per le opere, perché aveva dato ospitalità agli esploratori e li aveva fatti ripartire per un’altra strada?”.

Infine, a chiudere la questione, è la genealogia di Gesù secondo Matteo in cui Rahab compare in 1.5, “Salmon generò Booz da Rahab”, citata senz’altro per premiare la sua scelta di fede e relativa conversione. In proposito, va segnalato che gli ebrei tradizionalisti negano che Rahab fosse una prostituta nel senso letterale del termine: Giuseppe Flavio, del resto, parla di lei come una “locandiera”, ma a quei tempi le locande erano anche dei postriboli. Comunque sia, credo che sia giusto armonizzare i due termini tra loro tenuto conto che, se Rahab non avesse avuto una locanda, difficilmente avrebbe potuto nascondere in casa sua gli esploratori.

 

Venendo ora al nostro testo, o per meglio dire ai testi, gli storici Eusebio di Cesarea (III° secolo) e Giuseppe Flavio (I°) riportano nei loro scritti la presenza di due città, cioè la vecchia costruita da Chièl e la nuova da Erode Antipa e questo spiega la variante degli altri sinottici dai quali traspare che i due ciechi fossero seduti uno all’entrata e l’altro all’uscita della città, non la stessa, ma la vecchia e la nuova. C’è anche chi ha ipotizzato, alla luce dei confronti fra i testi, che i ciechi fossero in realtà tre, ma stante il fatto che tutti gli evangelisti spostino l’attenzione su uno solo, direi che poco rileva.

Il verso 46, l’unico del nostro testo di oggi, dopo il riferimento a Gerico, nomina immediatamente “il figlio di Timeo” a indicare che suo padre fosse persona molto conosciuta; pare quasi che Matteo dia per scontato che alcuni suoi lettori del tempo sapessero immediatamente di chi parlasse. Già il nome, “Bartimeo” significa appunto “figlio di Timeo”. Costui, come molti ciechi o infermi gravi che vivevano di carità, erano persone spesso sfruttate dai loro familiari che, da quanto queste misere persone riuscivano a raccogliere, ne traevano guadagno.

Inoltre, il fatto che quest’uomo fosse costretto a mendicare denunciava il meneferghismo dei capi e del popolo di Israele che avevano smesso di praticare la Legge data da Dio a Mosè a vantaggio del pensare al loro prossimo esclusivamente come strumento per la realizzazione dei propri egoismi. E sono sicuro che a molti verranno in mente i versi che richiamano al principio della carità e comprensione dell’altrui condizione.

Bartimeo, quindi, sopravviveva con l’elemosina sfruttando il passaggio delle carovane e possiamo affermare che, come scriveva un fratello, “il concetto che il suo prossimo aveva di lui era più di commiserazione che di risoluzione del suo problema”.

Fatte tutte queste premesse, credo se non indispensabili molto utili per inquadrare l’episodio, passeremo nel capitolo successivo ad esaminare la vicenda dal suo punto di vista dottrinale e spirituale.

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