15.28 – GIACOMO, GIOVANNI, SALOME (Marco 10.35-40)

15.28 – Giacomo, Giovanni, Salome (Marco 10.35-40)

 

35Gli si avvicinarono Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». 36Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». 37Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra». 38Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». 39Gli risposero: «Lo possiamo». E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. 40Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato».

 

Si tratta di un episodio avvenuto dopo il terzo annuncio della Passione che non è collocabile con precisione nel tempo, ma dovette avvenire prima dell’arrivo del gruppo a Gerico. Protagonisti, dal parallelo di Matteo 20, furono gli apostoli Giacomo e Giovanni assieme alla loro madre Salome, che fu lei a presentare a Gesù la richiesta di cui abbiamo letto. Prima di affrontare il testo credo però sia necessario dare alcuni cenni su questi personaggi, per quanto i primi due molto noti.

Giacomo e Giovanni erano figli di un certo Zebedeo, il cui nome significa “Dio dona”, persona nota e stimata dagli abitanti del lago di Galilea per la piccola flotta di barche da lui posseduta e per il lavoro che dava a diversi operai. In Marco 1.16-20, quando i suoi due figli furono chiamati da Gesù, leggiamo infatti che “Essi lasciarono il loro padre Zebedeo nella barca con i garzoni e andarono dietro a lui”. Zebedeo era un uomo benestante, tanto che oltre a possedere una propria casa, poteva contare con tutta la sua famiglia dell’amicizia del sommo sacerdote di quel tempo, Giuseppe Caiafa. Leggiamo in proposito che “…questo discepolo – Giovanni – era conosciuto dal sommo sacerdote ed entrò con Gesù nel cortile del sommo sacerdote” (Giovanni 18.15).

Di Giacomo, più anziano di Giovanni essendo menzionato per primo nell’organigramma apostolico, sappiamo poco: non vi sono descrizioni della sua personalità, racconti che possano chiarire in qualche modo il suo carattere a parte il soprannome che Gesù pose tanto a lui quanto al fratello, “Boanerges”, probabilmente per descrivere il suo carattere impulsivo ed irruente che la grazia di Dio modificò.

Unitamente a Pietro, Giacomo e Giovanni formarono il gruppo più sensibile e intimo tra i discepoli che seguirono Gesù dopo la chiamata sulle sponde del Lago di Galilea; furono poi presenti, assieme a Filippo, Natanaele e Andrea, al miracolo delle nozze di Cana. Questi discepoli assistettero poi alla trasfigurazione, alla risurrezione della figlia di Giairo e all’agonia di Gesù nel Getsemane.

La descrizione di Giacomo può continuare ricordando l’episodio che lo ritrae incerto e pauroso quando fuggì con gli altri otto lasciati all’inizio dell’orto a pregare.

Questo apostolo, dopo aver ricevuto il dono dello Spirito Santo nel giorno di Pentecoste ed aver testimoniato di Gesù di fronte al sinedrio ebraico (Atti4.35; 5.29), venne subito imprigionato dai soldati di Erode Agrippa ed in seguito decapitato (Atti 12.2), divenendo così il primo degli apostoli a patire cruento martirio a causa del nome di Gesù, anche se se il primo vero martire della Chiesa fu Stefano.

 

Molto più sostanzioso e completo è il racconto fatto su Giovanni, che fu onorato dall’affetto particolare del suo Maestro quando disse di se stesso “il discepolo che Gesù amava” o “il discepolo diletto che riposava sul petto di Gesù” (Giovanni 13.25; 21.20). Anche Pietro lo riconobbe come colui che godeva di una fiducia particolare da parte del Maestro, facendogli chiedere chi sarebbe stato a tradirlo (13.23) ed a lui Gesù affidò Sua madre (19.26).

Ancora, a Giovanni fu profetizzato che sarebbe morto di morte naturale e che avrebbe vissuto a lungo, contrariamente a ciò che fu detto a Pietro riguardo alla sua morte, che sarebbe avvenuta tragicamente. Giovanni, poi, rimase con Pietro e venne con lui incarcerato e battuto dopo aver guarito lo zoppo mendicante alla porta del Tempio detta “Bella” (Atti 3.1-3; 4. 7,13,19). Fu poi, come sappiamo autore di un Vangelo, tre lettere e dell’Apocalisse, redatta sotto diretta dettatura di Gesù.

 

La madre di Giacomo e Giovanni era Salome, donna che faceva parte di quel gruppo che seguì Gesù durante i tre anni del Suo ministero in Israele sovvenendolo con le loro facoltà (Luca 8.1-3). Come vediamo da Matteo 22, era una persona intraprendente, forse sorella di Maria madre di Gesù, per quanto non abbiamo prove inequivocabili.

 

Ora, dai pochi dati raccolti, mi pare evidente che quanto i tre chiesero al Signore fosse dettato dal colossale fraintendimento secondo cui, in quanto suoi parenti, Giovanni e Giacomo potessero avere una corsia preferenziale di trattamento rispetto agli altri, sedendo alla sua destra e alla sua sinistra nella Sua gloria. Ricordiamo che i Dodici e i discepoli non ragionavano secondo lo Spirito – né avrebbero potuto farlo perché non era ancora disceso –, ma secondo i dati che avevano a disposizione: erano certi che Gesù fosse il Messia e che quindi avrebbe avuto un regno vittorioso e glorioso e, interpretandolo in senso umano, sotto quest’ottica Gli chiedono di poter avere una posizione assolutamente privilegiata tralasciando completamente alcuni principi che erano stati loro esposti, come l’esentarsi dalla mentalità dell’avere i primi posti, dall’ambire ad essere “il più grande”, regola che qui verrà ricordata ancora una volta.

Venendo ora all’episodio, il parallelo di Matteo 20, identico quanto alla risposta avuta, imputa alla madre di Giacomo e Giovanni la richiesta, che “si prostrò per chiedergli qualcosa”. Ora, sapendo che gli evangelisti non si pongono il problema di una narrazione concorde, ma che piuttosto tengono a dare dei quadri facendo risaltare i personaggi in un modo o in un altro, non possiamo che concludere che Marco abbia voluto mettere l’accento sul fatto che i due fratelli avevano recepito in pieno quello che era il desiderio della loro madre alla quale Matteo, che era presente, attribuisce l’intervento diretto, “Di’ che questi miei figli siedano uno alla tua destra e uno alla tua sinistra nel tuo regno” (v.21).

Non rileviamo una particolare reazione di sdegno da parte di Gesù, che comprendendo ciò che era alla base di quella richiesta si limitò a far rilevare quanto fosse distante da Lui un simile modo di pensare: rispondendo “Voi non sapete ciò che chiedete” intendeva proprio questo, che Salome, Giacomo e Giovanni non avevano capito nulla dei piani di Dio e della predestinazione – in senso scritturale e non certo filosofico – degli eletti. Credo che questo fraintendere contenga un insegnamento importante e cioè che l’essere umano non può comprendere alcunché di Dio se lo Spirito Santo non provvede a illuminarlo. Se infatti “l’uomo naturale non comprende le cose di Dio perché per lui sono pazzia”, è altrettanto vero che la sola volontà umana, la rinuncia, l’appartarsi dal mondo, non potrà mai arrivare ad una illuminazione.

Salome, Giacomo e Giovanni avevano consegnato la loro vita in mano a Gesù, mostrando una fede certo non comune o inferiore a quella degli altri, ma la visione che avevano dell’opera del Figlio di Dio era ancora imperfetta, non illuminata e per questo ancorata al loro essere umano che, poco prima, aveva impedito loro di comprendere l’annuncio della Passione che il loro Maestro dava per la terza volta.

Una lettura che personalmente trovo interessante di quest’episodio è che tutto, nella vita del cristiano, è una progressione, una scelta, un paradossale “non raggiungimento” della meta: Giacomo, Giovanni e Salome, prima di incontrare Gesù, erano persone buone e oneste, ma questo non bastava a salvarli. Incontrato il Figlio di Dio, credettero in Lui, ma con tutti i loro limiti, proprio come noi. Una volta disceso lo Spirito Santo, si verificò quanto già preannunciato loro, “…ma lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto” (Giovanni 14.26). Anche una volta disceso lo Spirito, nonostante il cambiamento di vita e il venire in possesso della Verità, non per questo avevano conseguito il premio né il posto preparato per loro nel cielo.

Ecco perché la vita cristiana esiste solo nel e dal momento in cui viene trovato il Dio, l’unico, a lungo ricercato e lo Spirito che si riceve, lungi dall’avere le manifestazioni registrate alla Pentecoste, è un lumicino che abilita all’orientamento a patto che venga custodito e rispettato, come leggiamo in Efesi 4.30 quando l’apostolo Paolo scrive “Non vogliate rattristare lo Spirito Santo di Dio, con il quale foste suggellati per il giorno della redenzione”: qui abbiamo le istruzioni tanto per una crescita spirituale, quanto per restare ancoràti alla carne e quindi vivere distanti, continuando a sbagliare e – visto che stimo riflettendo su un episodio preciso – continuare a non capire e fraintendere.

Poco prima ho parlato di non raggiungimento della meta: con questo non intendo dire che come credenti giriamo a vuoto, proseguiamo un percorso a tentoni fatto di continue tensioni che risolvono in delusioni; piuttosto il riferimento è a 1 Corinti 9.24, “Non sapete che, nelle corse allo stadio, tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo”, in cui viene descritto molto bene l’atteggiamento da tenere finché siamo in vita, cioè allenamento serio e corsa per vincere non un onore umano, ma quello che viene da Dio. Con questo paragone l’apostolo Paolo descrive l’atteggiamento mentale e non certo il fatto che occorra profondere ogni sforzo per conquistare un premio che, se non si arriva primi, non viene dato. Il vero atleta, infatti, prima di pensare a vincere, valuta e misura i progressi del proprio corpo, registra i dati che riporta quotidianamente per poi esaminarli e confrontarli andando a ritroso nel tempo, si alimenta in modo particolare, osserva tutta una serie di regole per poi misurarsi al meglio nella gara in cui, più che guardare agli altri, impegna tutto se stesso.

Che in proposito ci riguardano sono anche le parole in Filippesi 3.12-14: “Non ho certo raggiunto la meta, non sono arrivato alla perfezione, ma mi sforzo di conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù. Fratelli, io non ritengo ancora di averla conquistata. So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la meta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù. In Cristo Gesù”.

Soffermandoci brevemente su queste parole, vediamo che la meta è quel “posto” prenotato, riservatoci dal Padre prima della fondazione del mondo e che Nostro Signore andò a “preparare” (Giovanni 14.2): questo comporterà il raggiungimento della “perfezione” perché non più ancoràti a un corpo di carne e santificati dalla presenza di Dio. Sapendo tutto questo Paolo, lungi dall’assomigliare a colui che sotterrò il talento affidatogli, dice “mi sforzo di conquistarla” e per questo continua a lavorare incessantemente per il Vangelo. Abbiamo poi “dimenticando ciò che mi sta alle spalle”, quindi ogni peso, ogni errore fatto perché il ricordo di ciò che siamo stati è solo un peso che portiamo inutilmente e, riflettendo, è importante ciò che siamo e che abbiamo raggiunto (se abbiamo saputo coltivare la nostra persona), non certo ciò che eravamo, quando agivamo in preda a un’immaturità che non dovrebbe più appartenerci.

Tornando al nostro episodio vediamo che all’ambizione umana allora dimostrata da Salome, Giacomo e Giovanni si contrappone quella spirituale, che aspira a una meta che sarà raggiunta solo quando l’essere umano avrà raggiunto il “posto” preparato per lui, che non verrà dato per favoritismi o raccomandazioni, ma per legittima possessione che non verrà certo usata per sopraffare gli altri o per vanto, come spesso accade nel mondo.

E concludendo questa prima parte, sono convinto che con le parole “non sta a me concederlo, è per i quali è stato preparato”, Gesù intenda far capire a Salome, Giacomo e Giovanni che avrebbero dovuto accontentarsi di far parte del piano del Padre che, in quanto non solo creatore ma proprio perché in quanto tale conosce perfettamente i propri figli, avrebbe dato loro un “posto” perfettamente compatibile con le loro persone, che a Lui dedicarono la vita. Amen.

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